Opéra buffe in cinque atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Anne-Catherine Gillet (Gabrielle), Véronique Gens (Métella), Sandrine Buendia (La Baronne de Gondremarck), Elena Galitskaya (Pauline), Louise Pingeot (Clara), Marie Kalinine (Bertha), Marie Gautrot (Mme de Quimper-Karadec), Caroline Meng (Mme de Folle-Verdure), Artavazd Sargsyan (Raoul de Gardefeu), Marc Mauillon (Bobinet), Jérôme Boutillier (Le Baron de Gondremarck), Pierre Derhet (Le Brésilien, Le Major Frick, Gontran), Philippe Estèphe (Urbain, Alfred, Un Employé), Carl Ghazarossian (Prosper, Joseph, Alphonse). Choeur de l’Opéra national du Capitole de Toulouse, Gabriel Bourgoin (maestro del coro), Orchestre national du Capitole de Toulouse, Romain Dumas (direttore). Registrazione: Halle aux Grains, Toulouse. 10-13 gennaio 2023. 2 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane, Opéra français n. 41
I lavori di Offenbach hanno spesso avuto una vita sofferta che ha creato non pochi grattacapi agli editori e ai filologi. Senza raggiungere gli eccessi di altri titoli anche “La vie parisienne” è passata attraverso non poche traversie. Andata in scena per la prima volta nel 1866 ha subito negli anni seguenti numerose variazioni conseguenti al cambio del clima e della sensibilità che caratterizzano gli anni successivi alla disastrosa guerra del 1870 e alla caduta del II Impero. La successiva versione del 1874 taglia in toto il IV atto – molto recitato – modifica, taglia e aggiunge numerosi brani musicali tanto che le due versioni possono essere quasi considerati titoli diversi. La versione del 1874 è quella che si è stabilizzata in repertorio e per la prima volta viene incisa integralmente – e in edizione critica a cura di Sébastien Troester– la versione andata in scena nel 1866.
Andata in scena al Capitole e successivamente incisa per la Collana Opéra francaise da parte della fondazione Palazzetto Bru Zan.
L’opera è ben poco nota in Italia ed è un vero peccato vista la qualità dell’ispirazione musicale, la scanzonata ironia del libretto e un particolare senso nel ricercare un colore ambientale moderno che vuole esaltare Parigi, vera capitale del mondo. Esemplare al riguardo il primo atto ambientato in una stazione tra i richiami dei macchinisti, il coro che simula sbuffi di treni in arrivo e in partenza e i viaggiatori che accorrono da ogni dove verso la grande seduttrice.
Roman Dumas è anche lui nome quasi sconosciuto da questo versante delle Alpi ma il suo curriculum è di alto livello e brilla soprattutto la lunga collaborazione come assistente di Marc Minkowski. Quest’ultimo è un modello ben presente nella direzione di Dumas che dal maestro ha ereditato il gusto per ritmi rapinosi e trascinanti – cosa sono i galop che chiudono terzo e quarto atto – uniti a sonorità leggere e setose e a un sentimento di garbata melanconia che di questa musica coglie l’essenza più profonda, un’energia intrisa di sentimento e un sentimento rivisto con quello sguardo disincantato e bonariamente ironico che è l’essenza stessa dello spirito parigino.
Il cast è composto tutto di cantanti madrelingua, vantaggio non da poco in un titolo come questo caratterizzato anche da lunghe sezioni parlate. Tra le due prime donne questa versione da maggior spazio a Gabrielle, soprano lirico leggero dal canto spumeggiante è virtuosistico. Ad affrontare la parte è Anne-Catherine Gillet, subentrata nel progetto dopo la dolorosa scomparsa di Jodie Devos. Voce non grande ma dal timbro cristallino, agile e nitidissima nei passaggi di bravura che si adatta come un guanto a questa scrittura.
Metella – la cui parte sarà ampliata nella versione del 1874 – è cantata con la solita classe da Véronique Gens, elegantissima e affascinante nel suo rondò e impeccabile nel taglio salottiero e un po’ blase da gran dama. Sandrine Buendia è spassosissima nella parte della contessa danese di Gondremarck con le sue inflessioni volutamente caricate. Elena Galitskaya è una Pauline incantevole per brio e precisione, interpretativamente centratissima nel suo ruolo di piccola borghese chiamata a far la gran dama e in una parte come questa le qualità prevalgono su una voce nel complesso abbastanza piccola. Parte principalmente parlata quella della temutissima Mme de Quimper-Karadec – che Offenbach fa entrare in un melologe sul tema del Commendatore del “Don Giovanni” – resa con sulfurea estroversione da Marie Gautrot.
Altrettanto valide le prestazioni sul versante maschile. Veterano delle registrazioni della Fondazione Artavazd Sargsyan è un Raoul de Gardefeu dalla voce lirica e di bel colore, capace di alternare con naturalezza abbandoni lirici e ironica brillantezza così che gli si perdona qualche acuto non sempre ben centrato. Tra i tenori di carattere si fanno apprezzare Marc Mauillon, un Bobinet in punta di forchetta e Pierre Derhet che supera con limpida sicurezza i vertiginosi sillabati del Rondeau de Brésilien. Jérôme Boutillier sfrutta la sua voce ampia e ricca di armonici, quasi sovradimensionata per il contesto per rendere i modi impacciati del Baron de Gondremarck che con la sua schiettezza nordica si muove come un elefante nella cristalleria tra le trine della coquetterie parigina. Philippe Estèphe con la sua bella voce di baritono chiaro da un ottimo contributo alla perfetta riuscita del trascinante Trio diplomatique. Impeccabili tutte le parti di contorno, ottima la qualità della registrazione e come sempre ricchissimo il volume di accompagnamento.
La domenica delle Palme, “Domenica Palmarum” o “Domenica in Palmis” è, nella liturgia dei nostri giorni, la seconda Domenica di Passione, con la quale ha inizio la Settimana Santa. Sappiamo che fin dal IV° secolo, a Gerusalemme, si era organizzato di fare, nel pomeriggio di quel giorno, una processione che, scendendo dal Monte degli Ulivi, raggiungeva la città. I partecipanti recavano in mano Palme (simboleggianti il trionfo di Cristo sulla morte) e rami di ulivo (a simbolo della Pace in Dio). La tradizione passò poi in Occidente, sviluppandosi specialmente in Francia, dove poi si arrestò, affermando, già nel VII° secolo, l’usanza di conservare i rami di ulivo in casa per un anno intero. La lettura evangelica del giorno è quella stessa che aveva già caratterizzato la prima domenica di Avvento (Matteo cap. 21,vers. 1-9) che narra dell’ingresso di Cristo in Gerusalemme, simbolo dell’ingresso in un’altra Gerusalemme, quella celeste. “E quando furon vicini a Gerusalemme e furon giunti a Betfage, presso al monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nella borgata che è dirimpetto a voi; e subito troverete un’asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e menatemeli. E se alcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà.
Or questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta: Dite alla figliuola di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto, e montato sopra un’asina, e un asinello, puledro d’asina. E i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; menarono l’asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli, e Gesù vi si pose a sedere. E la maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; e altri tagliavano de’ rami dagli alberi e li stendevano sulla via. E le turbe che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: Osanna al Figliuolo di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!”
Per questa festività, Bach scrisse una Cantata che risale agli anni di Weimar, unico luogo nel quale era consentito l’impiego della “Musica figuralis” durante il periodo di penitenza in preparazione alla Pasqua. Si tratta della Cantata nr. 182 Himmelskönig sei willkommen, eseguita per la prima volta il 25 marzo 1714. Questa è la prima, in ordine di tempo, delle Cantate scritte da Bach dopo aver ricevuto la nomina di “Konzermeister”, con l’obbligo di comporre una Cantata al mese. L’incipit del testo “Re del Cielo, benvenuto!
Concedi anche a noi di essere il tuo Sion! è forse di Solomo Franck, mentre al Salmo 40 (versetti 8-9) è ispirato il testo dell’unico recitativo (nr.3) “Ecco io vengo.Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia, mio Dio, la tua volontà...”. La Domenica delle Palme di quel 1714, coincideva con la Festa dell’Annunciazione del Signore e per tale festività venne ripresa a Lipsia, dove non poteva essere impiegata nella Domenica delle Palme, ma appunto per la Festa dell’Annunciazione degli 1724 e 1728.
La cantata si apre con un brano strumentale che Bach qualifica come “Sonata”, che vede impegnati violino concertante, flauto, su un pizzicato degli archi, violino di ripieno e due parti di Viola e violoncello, nello svolgimento di una trama melodica tendenzialmente ascendente, con ritmo puntato, in uno stile di “Ouverture”, dal carattere marcato che guarda al soggetto della Cantata, con l’incedere solenne che preannuncia l’ingresso di Cristo nella Cttà Santa. Il coro che segue è nella forma con il “da capo” . Lo stile, almeno nelle due sezioni estreme, è quello rigoroso della fuga di permutazione. Troviamo poi tre arie: la prima, affidata al Basso, vede un violoncello concertante su un armonia sorretta dalle due parti di Viola e dal continuo in stile “ostinato”, la seconda, affidata al Contralto, con il flauto concertante. La terza, per voce di tenore, è con il solo accompagnamento del violoncello del Continuo, ancora in stile “Ostinato”. Il Corale, penultimo brano della Cantata, è intonato in stile mottettistico derivato da Pachelbel, mentre il brano conclusivo, ancora un Coro, sfrutta nuovamente il principio della fuga di permutazione, con una “fuga” di stile più rigoroso, rispetto al Coro iniziale.
Nr.1 Sonata
Flauto, Violino concertante, Violino di ripieno, Viola I/II, Continuo e Violoncello
Nr.2 – Coro
Re del Cielo, benvenuto!
Concedi anche a noi di essere il tuo Sion!
Vieni, entra, tu che hai preso i nostri cuori.
Nr. 3 – Recitativo (Basso)
Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro
di me è scritto che io faccia,
mio Dio, la tua volontà.
Nr.4 – Aria (Basso)
Amore potente per il quale tu, grande Figlio di Dio,
hai abbandonato il trono della tua gloria
e per la salvezza del mondo hai offerto te stesso in sacrificio
con il sigillo del tuo sangue.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Prostratevi dinanzi al Salvatore, voi, cuori dei cristiani!
Indossate la candida veste della fede per incontrarlo,
corpo e anima e tutto ciò che avete siano ora consacrati al Re.
Nr.6 – Aria (Tenore)
Gesù, nella bene e nel male lasciami venire con te!
Anche se il mondo grida “Crocifiggilo!”,
fà che io non fugga, o Signore, dinanzi alla tua croce;
là troverò la gloria e le palme.
Nr.7 – Corale
Gesù, la tua passione è per me pura gioia,
la tue ferite, spine e offese l’alimento del mio cuore;
la mia anima cammina sulle rose quando penso a questo:
che in cielo tu prepari un posto per me.
Nr.8 – Coro
Dunque lasciaci entrare nel Salem della gioia,
accompagnando il Re nell’amore e nel dolore.
Egli ci precede e ci apre il cammino.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Museo di Arte Contemporanea
NINO BARTOLETTI 1889-1971
a cura di Pier Paolo Pancotto
Roma, 11 aprile 2025
Ogni tanto, nella programmazione espositiva di una città come Roma, emerge una mostra che non solo colma un vuoto, ma chiarisce un malinteso. La retrospettiva dedicata a Nino Bertoletti alla Galleria d’Arte Moderna (fino al 14 settembre 2025) rientra esattamente in questa categoria: un progetto che riordina, ricostruisce, e soprattutto riconduce l’attenzione su una figura colta, appartata, ma tutt’altro che marginale nel panorama artistico del Novecento italiano. Pier Paolo Pancotto, curatore dell’iniziativa, ha scelto di non alterare il profilo dell’artista. Al contrario, lo ha riportato alla luce per quello che fu: un autore schivo, articolato, appartato ma non periferico. Bertoletti non fu un innovatore nel senso rivoluzionario del termine, ma un uomo di cultura nel senso pieno, che attraverso la pittura ha esplorato le possibilità dell’arte figurativa con attenzione, rigore, misura. Il suo mondo, come ricorda il percorso espositivo, è fatto di paesaggi discreti, di interni silenziosi, di ritratti senza retorica. L’allestimento si segnala per un’ottima lettura cronologica e per un’illuminazione che non forza le opere, lasciando parlare le superfici, le tonalità, le impaginazioni delle tele. L’esposizione si apre con i lavori della giovinezza, dipinti tra il 1902 e gli anni Venti: quadri ancora legati a un’espressionismo controllato, più di impianto mitteleuropeo che mediterraneo, in cui emerge un giovane artista che guarda all’arte come esercizio etico, prima ancora che estetico. Ma è tra gli anni Venti e Trenta che Bertoletti matura una scrittura pittorica personale, più stabile, come se il suo linguaggio prendesse finalmente forma nella quieta intensità della composizione. Le opere realizzate in questo periodo, visibili nella seconda sala, parlano di un artista che predilige la riflessione all’enfasi, la chiarezza dell’impianto al virtuosismo, e che sembra sempre voler domare l’immagine con la mente, prima che con il pennello. Il punto di svolta, e anche la parte forse più interessante della mostra, è rappresentato dalla produzione del secondo dopoguerra. Qui il realismo di Bertoletti, pur conservando il proprio ordine, lascia filtrare una luce diversa: più interiore, più esistenziale. I soggetti si fanno simbolici: paesaggi e nudi che rimandano a un classicismo antico, eppure reinterpretato, come se l’artista cercasse nell’antico non il rifugio, ma un archetipo. Un aspetto poco noto, ma ben valorizzato in mostra, è la sua produzione grafica e illustrativa. Questi fogli, in parte presentati a parete e in parte sfogliabili in riproduzione, rivelano un lato più diretto del suo operare. Un disegno essenziale, nitido, che guarda alla linea come a un elemento narrativo e non solo formale. Bertoletti fu anche collezionista, mercante e osservatore critico del suo tempo: e ciò si riflette in una pittura che è sempre anche commento, lettura, risposta al presente. Il catalogo edito da Dario Cimorelli Editore accompagna degnamente la mostra, con saggi puntuali e ben documentati. Non si tratta, fortunatamente, di una pubblicazione ridondante, ma di un lavoro editoriale che restituisce serietà alla critica d’arte. Segno che l’operazione non si limita al recupero museale, ma tenta un inserimento pieno di Bertoletti nel tessuto storico e culturale italiano. Non manca in mostra la figura discreta ma centrale di Pasquarosa, sua compagna di vita e di arte. Ritratta in molti dipinti, Pasquarosa non fu solo musa, ma interlocutrice culturale, pittrice lei stessa, presenza viva e compartecipe. Nelle sue sembianze, che cambiano con gli anni – da giovane modella a figura domestica, fino a donna anziana – si legge anche la continuità di una poetica dell’affetto che in Bertoletti non fu mai decorativa, ma necessaria. Una nota meritano infine le scelte espositive: le opere non sono costrette in griglie o didascalie invadenti, ma respirano, e questo aiuta la lettura del percorso e del pensiero visivo dell’artista. Anche l’illuminazione è equilibrata, mai invasiva, segno di un rispetto raro per la superficie pittorica. In tempi in cui l’allestimento tende spesso a rubare la scena all’opera, qui si è scelto il contrario: lasciare parlare i quadri, e ascoltarli. Sarebbe vano cercare in questa retrospettiva uno stile dominante o una cifra univoca. Bertoletti, artista colto e riflessivo, ha attraversato stagioni diverse, ma sempre con la medesima discrezione. Non si è mai imposto, ma ha tracciato una traiettoria coerente, fatta di costanza, cultura, ricerca. Questa mostra non lo trasforma in un maestro riconosciuto, e non lo pretende. Ma restituisce, con onestà e precisione, la figura di un uomo che ha saputo coniugare arte e pensiero senza cadere nell’esibizione. Un artista la cui opera non cerca l’effetto, ma l’equilibrio. E oggi, in un tempo così rumoroso, questo è già molto.
Roma, Galleria d’Arte Moderna
OMAGGIO A CARLO LEVI. L’AMICIZIA CON PIERO MARTINA E I SENTIERI DEL COLLEZIONISMO
collaborazione tra la Fondazione Carlo Levi di Roma e l’Archivio Piero Martina di Torino
Roma, 11 aprile 2025
Come il guizzo tremulo di una luce di tramonto che si rifrange su un volto antico, la pittura di Carlo Levi non si lascia catturare con la rete delle definizioni. Essa è, per usare un ossimoro leopardiano, una “serietà immaginosa”: pittura che crede al visibile come a un’urgenza civile, e al medesimo tempo lo trascende per suggerire le zone di silenzio che si celano sotto la superficie del reale. La mostra “Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo”, allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Roma in occasione del cinquantenario della scomparsa dell’artista, non è soltanto un percorso antologico. È, nel suo disegno curatissimo, una partitura a due voci, un’“allegoria della relazione”, come l’avrebbe forse detta Warburg. In essa, il dialogo fra Levi e Piero Martina non si limita al registro biografico, ma si traduce in un tessuto pittorico complesso, fatto di assonanze timbriche, fughe tematiche, ritorni inattesi. Il primo movimento del percorso — La formazione — ci riconduce a quella Torino di fine anni Venti e Trenta che, più che una città, fu per i due una matrice spirituale. I toni ora densi, ora traslucidi dei quadri torinesi (si pensi al candore abbacinante del cappellino bianco in Lelle seduta, 1933) sono in Levi un “chiaroscuro morale”: mai esercizio accademico, piuttosto affondo psicologico. A contrasto, Martina par che voglia negare la sostanza pittorica: lo si osserva nei suoi interni quasi sussurrati, come Figura con maschera del ’38, dove la materia si fa vaporosa, inafferrabile — e proprio per questo carica di presenze. Con la sezione Da Torino a Roma, la mostra si fa geografia emotiva e politica. La guerra incombe, e l’amicizia si rifugia nel colore, come nella doppia fisionomia speculare dei Ritratti reciproci del 1942. Eppure qui, nel momento del dolore e del nomadismo coatto (Levi è già segnato dall’esperienza lucana), si precisa il loro sguardo sul mondo. Levi piega la linea al peso della realtà: Autoritratto con fornello è una tela che ha lo stesso impasto della terra, e lo stesso silenzio. Martina, invece, comincia a sperimentare una pittura più costruita, come se cercasse nei solidi una difesa dal crollo. La Ragazza al clavicembalo è la trascrizione delicata di un’armonia perduta. Con la Roma del dopoguerra entriamo nella sezione più vibrante del percorso: La stagione dell’impegno civile. Qui, Levi diviene quello che già era nella sostanza: un pittore delle classi oppresse, ma non attraverso il grido, bensì la forma. Il ragazzo Aleandro e Contadine rivoluzionarie sono tele che rifuggono la retorica: non denunciano, esistono, come presenze che chiedono attenzione, mai pietà. Martina risponde con le sue Tessitrici, con La manifattura tabacchi — e lo fa traducendo la fatica in colore, e la ripetizione in ritmo. Qui la pittura non illustra, evoca il lavoro come durata, come pulsazione. La sezione Il nudo e il paesaggio è forse quella dove il dialogo si fa più sfuggente. Martina sembra danzare con la luce, nelle sue vedute dove le figure quasi si disfano nel fogliame. Levi, al contrario, si appesantisce (ma non nel senso deteriore): il suo Alberi del 1964 è quasi una battaglia vegetale, un corpo a corpo con la natura, dove il pennello lotta per farsi spazio tra le pieghe della tela. Il suo paesaggio non è evasione, è materia che pensa. Chiude la mostra una sezione dal sapore privato, ma non per questo meno necessaria: Le opere di Carlo Levi nella Collezione De Lipsis Spallone. In queste tele inedite, selezionate con cura quasi da miniaturista dalla collezionista romana, si avverte una malinconia quieta, un’archeologia dell’anima. Dal Piccolo nudo del ’28 fino agli Amanti dell’ultimo periodo, è come se Levi tornasse su se stesso, ripetendo senza ripetersi: ogni nudo è anche un paesaggio, ogni albero un corpo, ogni volto un destino. La mostra, nel suo insieme, non costruisce un monumento, ma un organismo. Non esalta, ma riflette. E, nella riflessione, illumina. Non solo Carlo Levi, ma l’intera idea di un’arte come responsabilità del vedere. Un’arte che non fugge il mondo, ma lo ascolta — nella materia, nella luce, nell’amicizia.
Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo
Con Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
L’evoluzione da “Papà” a “Suocero” è un momento complicato della vita di un uomo ed è arrivato il momento per Antonio. Ex animatore di villaggi turistici non ha mai perdonato sua moglie Elisa, insegnante di italiano, per avergli impedito una carriera artistica. La sua unica figlia Lucia ha deciso di accettare la proposta di matrimonio del suo amato Renzo e lo comunica ai genitori. Con l’inevitabile timore di finire nella soffitta dei ricordi, Antonio essendo legato alle tradizioni, chiede un incontro ufficiale con la famiglia dello sposo. Dopo i primi convenevoli notano la grande distanza sociale ed economica delle famiglie: Gaetano è erede di un capo clan e Giulia è straniera trapiantata a Napoli ma con un passato da soubrette. Si cerca comunque di trovare punti di incontro fino a quando una verità inconfessabile costringe Antonio e gli altri ad ostacolare il progetto di nozze. Così Renzo e Lucia, come quelli Manzoniani, si troveranno davanti ad una inspiegabile strategia per un “Questo matrimonio non s’ha da fare”. Le dinamiche ed i colori strizzano l’occhio alla umana comicità della commedia all’italiana dei tempi d’oro, condita con i meccanismi del teatro classico partenopeo. Non a caso l’esordio del colloquio tra i suoceri è un chiaro omaggio a quello di “Miseria e Nobiltà” di Eduardo Scarpetta. I nostri giovani troveranno, come quelli del romanzo, mille impedimenti al loro matrimonio. Con una serie di colpi di scena a catena la matassa si ingarbuglia fino ad apparire inestricabile. Anche con loro però la divina provvidenza interverrà?… (spoiler) Sì! Interverrà ma in maniera molto particolare, regalando un lieto fine, ma che non potrà rimarginare vecchie ferite e scheletri finalmente liberati dagli armadi dei nostri “Promessi Suoceri”. Qui per tutte le informazioni.
Lunedì 7 aprile la Scuola di danza (o Scuola di ballo, secondo la dicitura più antica tipica dei teatri lirici) del Teatro dell’Opera di Roma diretta da Eleonora Abbagnato apre ancora una volta le porte al pubblico per mostrare le proprie attività didattiche.
Nei saluti iniziali Abbagnato ha posto l’accento, insieme al Soprintendente Francesco Giambrone, sull’interesse da parte della Fondazione per una proficua gestione della Scuola come fucina di artisti. Ne è emerso un approccio efficace nella cura non solo del canonico percorso didattico accademico, quanto nell’ampliamento delle attività a tutto tondo, al fine di inserire i ragazzi in una formazione di livello internazionale. Il tutto sull’eco dell’impostazione che la stessa Direttrice ha acquisito prima alla Scuola dell’Opéra di Parigi e poi della tradizione che ha saggiato con la propria carriera di Étoile del Corpo di ballo parigino.
Qualcuno potrà chiedersi quanto sia necessario che in Italia i tre Enti lirici che ancora possono vantare una Scuola di formazione professionale siano affidati o a direttori francesi o a italiani francesi di formazione. Senza scendere nei particolari (diversissimi e che qui sarebbero fuori luogo) di Milano e Napoli, basti dire che l’italianissima Abbagnato (e così chiunque altro/a) non potrebbe agire diversamente rispetto al far fruttare quanto appreso nel corso della propria vita, per di più in uno dei templi mondiali della danza e che ognuno mette a frutto ciò che conosce meglio. D’altra parte la Scuola francese attuale è quella storicamente più vicina a noi, tant’è che per gli storici della danza si parla di scuola franco-italiana già dalle origini. Gli stili sono poi altra cosa e ognuno si identifica con quello che gli appartiene maggiormente. L’incrocio di maestri di diversa provenienza permette inoltre ai ragazzi – soprattutto dei corsi superiori – di acquisire quella versatilità necessaria al professionista.
Tra le materie di studio si rileva l’apertura anche al canto (arte che già dall’inizio delle fondazioni di insegnamento coreutico accompagnava la formazione delle allieve donne alla prima Scuola d’Italia, fondata nel 1812 al San Carlo di Napoli), alla istituzione ormai consolidata del corso introduttivo per gli allievi che vengono “scovati” in tutta Italia e all’estro per permettere uno scouting sempre più ampio, ma anche alle progettualità dedicate ai giovani coreografi emergenti provenienti dalla Scuola stessa, oltre all’impegno degli allievi alla GNAMC di Roma (Galleria Nazionale di arte Moderna e Contemporanea) in un progetto sul Futurismo e alla collaborazione con l’ospedale Gemelli per altre iniziative. Restano non svelati ulteriori cantieri che dimostrano ulteriormente la volontà di un costante miglioramento e del radicamento della Istituzione sul territorio nazionale.
Si tratta di una prospettiva importante in un contesto – quello italiano – in cui le Scuole teatrali si contano sulla punta delle dita e non sempre sono affidate a una guida che sappia (o che possa) andare davvero nella direzione giusta per gli allievi.
Al Teatro dell’Opera di Roma l’azione sinergica di volontà politiche e spirito artistico consente evidenti benefici che Eleonora Abbagnato, Direttrice in forze anche al Corpo di Ballo del TOR al quale la Scuola garantisce continuità, è perfettamente in grado di assicurare.
Si sono succeduti sul palco tutti i corsi, dalla propedeutica all’VIII, in cui ciascun Maestro ha presentato un momento di lezione con gli elementi caratteristici di ciascun livello, accompagnati al pianoforte dai Maestri accompagnatori della Scuola. La serata è stata aperta dalla tecnica del Passo a due con gli allievi degli ultimi corsi, forti e dinamici nelle difficili combinazioni del Maestro Pablo Moret (docente del VII e VIII corso maschile) e che, insieme alla moglie Ofelia Gonzalez (VII e VIII corso femminile), costituisce la punta di diamante (per esperienza e sapienza) del Corpo docenti. Ciascun corso, ognuno con le relative difficoltà legate all’età e alla velocità di esecuzione che l’impostazione francese esige, ha mostrato sicurezza progressiva e ottimo lavoro. Dai piccoli della Propedeutica affidata a Valentina Canuti, al I – II femminile di Federica Lanza e I – II maschile di Alessandro Rende.
Molto applauditi i frammenti di lezione dei Maestri Silvia Curti (III e IV femminile), Gerardo Porcelluzzi (III e IV corso maschile), Alessandro Molin (V e VI corso maschile), Gaia Straccamore (V e Vi femminile) le cui ragazze sembravano già delle professioniste, oltre ai già menzionati VII e VIII corso di Moret e Gonzalez. Le notevoli difficoltà delle sequenze sono state sostenute con sicurezza dai ragazzi, in proporzione alle doti e ai risultati raggiunti da ciascuno. Talvolta è evidente come fisici meno dotati in senso estetico siano invece quelli che garantiscono maggiore affidabilità e risultati migliori.
Oltre alla conoscenza delle danze storiche e di carattere, come da tradizione, affidate a Ioulia Sofina, la giusta attenzione è posta allo studio storico della Modern dance con la tecnica Graham, affidata a Jacqueline Bulnes e al laboratorio coreografico col maestro Marco Bellone. I ragazzi sono apparsi ben preparati anche su questo versante – cosa non scontata nelle Scuole di balletto. Il corso professionale è affidato invece a Francesco Vantaggio, mentre non manca, tra le materie di studio, la storia della danza affidata a Francesca Falcone.
Commovente il dolce tributo ai nonni messo in scena con i più piccoli per la dimostrazione di canto, con movimenti coreografici composti dagli stessi allievi, sotto la guida del maestro Giuseppe Annese.
Una importante apertura “imprenditoriale” (nel senso positivo del termine) accompagna la guida di questa Scuola in un momento in cui essere imprenditori di sé stessi è non solo importante, ma è l’unico modo per incrementare le opportunità di studio per ragazzi che decidono di dedicare la propria vita all’arte difficile della danza in un Paese che, nell’immaginario collettivo, ancora stenta a riconosce l’arte come lavoro e spesso vede ingiustamente i propri figli volare all’estero per mettere a frutto quello su cui si è a lungo investito. (foto Fabrizio Sansoni)
Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e belletto 2024/25
“L’OPERA SERIA”
Commedia per musica in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Florian Leopold Gassmann
Fallito PIETRO SPAGNOLI
Delirio MATTIA OLIVIERI
Sospiro GIOVANNI SALA
Ritornello JOSH LOVELL
Stonatrilla JULIE FUCHS
Smorfiosa ANDREA CARROLL
Porporina SERENA GAMBERONI
Bragherona ALBERTO ALLEGREZZA
Befana LAWRENCE ZAZZO
Caverna FILIPPO MINECCIA
Ballerina MARIA MARTIN CAMPOS
Coro di ballerini DILAN SAKA, HAIYANG GUO, XHIELDO HYSENI
Orchestra e coro del Teatro alla Scala – Les Talens Lyriques
Direttore Christophe Rousset
Regia e costumi Laurent Pelly
Scene Massimo Troncanetti
Luci Marco Grossi
Coreografie Lionel Hoche
Milano, 6 aprile 2025
Florian Leopold Gassmann chi era costui? Potremmo chiederci come faceva Don Abbondio con Carneade e la domanda non sarebbe importuna essendo il boemo praticamente sconosciuto. Eppure si tratta di figura non marginale nella vita musicale europea del pieno settecento. Allievo di Padre Martini, musicista cesareo, propugnatore degli ideali riformatori di De Calzabigi e Gluck, maestro di Salieri. Questi pochi dati potrebbero bastare a indicarne la rilevanza. “L’opera seria” andata in scena a Vienna nel 1769 e qualcosa di più delle semplici parodie metateatrali tanto care al Settecento. È un vero pamphlet in musica con cui i propugnatori della riforma attaccano il melodramma post metastasiano ormai diventato mera ripetizione di formule e schemi – “non c’è obbligo di stare in attenzione”, “non ti muove a timor né a compassione” citando il libretto – e al contento la fallimentare gestione della vita musicale affidata a impresari spesso senza scrupoli. Libretto e musica giocano tutte le carte al riguardo. L’ampollosità ridicola dei versi, la rigidità formale delle arie sono armi di denuncia ci si contrappone la naturalezza dell’opera riformata. Molte le citazioni, i rimandi, le parodie forse non sempre così evidenti all’ascoltatore odierno ma sicuramente perfettamente fruibili al tempo. Un lavoro forse non ispiratissimo ma di certo godevole e che molto chiede all’esecuzione. E in tal senso la non comune sensibilità di Laurent Pelly sa cogliere l’essenza di questo tipo di lavori. Allestimento essenziale, tutto giocato su alternanze di bianco, grigio e nero quasi a dar vita a una raccolta d’incisioni. Costumi in epoca rivisti con ironia – solo Fallito indossa abiti moderni, infondo certe figure non hanno tempo – ma soprattutto un lavoro attoriale meticoloso e puntualissimo. Una regia che parte dai personaggi e dai loro rapporti e che li fa vivere in una realtà stralunata ma mai caricato. Spettacolo leggerissimo dove tutto si svolge con la massima eleganza ma senza nulla sacrificare sul terreno della pura teatralità. Le coreografie di Lionel Hoche perfettamente coerenti completano la parte visiva.
Christophe Rousset è una certezza assoluta in questo repertorio e per l’occasione i complessi scaligeri – impegnati su strumenti d’epoca – sono rinforzati dagli splendidi Talens lyrique. In perfetta aderenza con lo spettacolo viene data una lettura orchestrale di magistrale chiarezza e impeccabile senso teatrale. Sonorità nette, nitide, ritmi guizzanti danno al gioco scenico tutta la sua energia vitale.
Il vero punto di forza è, però una compagnia di cantanti attori perfettamente calati nello spettacolo e con un senso di complicità quale raramente si riscontra. L’impresario Fallito è affidato a Pietro Spagnoli e difficilmente si poteva far scelta migliore. Maestro assoluto della parola trova nel personaggio il terreno ideale per far emergere le sue doti d’interprete concedendosi qualche uscita improvvisata – il richiamo a Petrolini dopo la caduta del teatro – che s’inserisce a pennello nel contesto. Unico in abiti moderni incarna alla perfezione l’eterno truffatore che è uno degli archetipi della commedia all’italiana. La coppia poeta e librettista che anziché aiutarsi non fanno altro che litigare e danneggiarsi a vicenda è affidata a Mattia Olivieri (Delirio) e Giovanni Sala (sospiro). Entrambi vocalmente impeccabili, voci belle, schiette, sincere e interpretativamente calati alla perfezione. Il primo un nevrotico sempre sull’orlo del tracollo, il secondo di una sospirosità volutamente caricaturale. Alessio Arduini riesce dare forte risalto al ruolo in fondo secondario del maestro di ballo Passagallo. Non solo canta molto bene e con splendido materiale vocale – peccato la parte si riduca a un’aria e poco più – ma si muove con l’eleganza di un vero ballerino. Il primo musico Ritornello è qui affidato a un tenore. Scelta abbastanza insolita, ci si aspetterebbe un mezzosoprano a parodiare i castrati. Il canadese Josh Lovell canta con gran gusto – da autentico specialista mozartiano – e si dimostra interprete spigliato e simpatico. Il terzetto femminile è capitanato da Julie Fuchs. La prima donna Stonatrilla è parte assai impegnativa cui sono affidate arie di bravura volutamente esasperate – “No, se a te non toglie il fato” – che la cantante francese risolve con inappuntabile maestria. Sul piano interpretativo si apprezza assai un’interpretazione moderata che evita inutili smancerie, centrata sulla musica ed efficacie proprie nella sua essenzialità. Le due seconde donne in perenne lite tra loro sono Serena Gamberoni (Porporina) e Andrea Carroll (Smorfiosa). La prima, personaggio più forte spesso in contrasto con la Primadonna, è ideale per il temperamento della Gamberoni. Vocalmente in ottima forma cesella la spassosa “Delfin che al laccio infido” e in scena si muove da attrice consumata. La Carroll mostra qualche limite sul piano vocale – gravi poveri di suono e acuti a volte un po’ al limite – ma rende con grande simpatia il personaggio, lamentoso e sempre afflitto da ogni problema. Cosa dire del terzetto Alberto Allegrezza, Filippo Mineccia e Lawrence Zazzo nei panni delle insopportabili madri delle cantanti se non che le loro parti sono troppo brevi. Il loro terzetto è tra le pagine più irresistibili dell’opera e il trio degli interpreti è semplicemente perfetto. Viste certe assonanze con la futura Mamma Agata viene da chiedersi se Donizetti non conoscesse quest’opera. Splendido il finale dove il tema classico del giuramento di odio eterno di Annibale verso i romani diventato un topos dell’opera seria – si pensi al finale del “Mitridate re di Ponto” – viene parodisticamente rivolto contro l’infida stirpe degli impresari. Sala gremita –moltissimi i giovani – e grande successo di pubblico. Foto Brescia e Amisano
Roma, Villa Bonaparte
Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
SERATE MUSICALI A VILLA BONAPARTE
Harp Trio Chagall
CATELLO COPPOLA, flûte
ADRIANA CIOFFI , harpe
SIMONE DE PASQUALE, alto
e con
GIUSEPPINA PERNA, soprano
STEFANO SORRENTINO, tenore
CARLO MARTINIELLO, piano
Programma
G. Rossini : “Giusto cielo, in tal periglio” da “L’assedio di Corinto”
M. Carafa : “Fra tante angosce e palpiti da “Berenice in Siria”
G. Pacini : “Quai lugubri lamenti” da “Cesare in Egitto”
S. Mercadante : Largo per flauto, viola e arpa
G. Rossini: “O muto asil del pianto” da “Guglielmo Tell”
S. Mercadante: “Addio felici sponde” da “Didone abbandonata”
G. Donizetti: “Vivi tu te ne scongiuro” da “Anna Bolena”
G. Pacini: Composizione da camera per Soprano, Tenore, Arpa e
Pianoforte (Prima Assoluta)
Roma, 10 aprile 2025
Villa Bonaparte, oggi sede dell’ Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, non è soltanto un palazzo monumentale carico di storia: è un luogo che continua a interrogare il tempo attraverso la cultura. Con il ciclo “Serate musicali a Villa Bonaparte”, avviato nel 2024 e destinato a proseguire fino al termine del 2025, prende corpo un progetto di lungo respiro che coniuga rigore filologico, memoria storica e prassi esecutiva, restituendo significato e respiro alla funzione diplomatica come spazio di pensiero, ascolto e scambio. Tra le linee tematiche che il programma ha saputo esplorare, la figura di Paolina Borghese Bonaparte si impone per carisma, sensibilità e potere evocativo. Sorella di Napoleone, icona ambivalente del neoclassicismo romano, Paolina non fu solo presenza mondana: seppe costruire attorno a sé un vero laboratorio culturale. La sua dimora accanto a Porta Pia, oggi sede diplomatica francese, divenne nei primi decenni dell’Ottocento luogo di incontri, serate teatrali, concerti e improvvisazioni tra attori, pittori e compositori emergenti. Una Roma alternativa, sensibile, inquieta. La serata si è articolata come un itinerario musicale che, attraversando Rossini (Giusto cielo, in tal periglio, O muto asil del pianto), Carafa, Mercadante, Donizetti e Pacini, ha riportato alla luce pagine raramente eseguite e costruito un paesaggio sonoro coerente con la sensibilità salottiera del primo Romanticismo italiano. Il vertice, idealmente e musicologicamente, è stato toccato con l’esecuzione in prima assoluta di una Composizione da camera per soprano, tenore, arpa e pianoforte di Giovanni Pacini, ricostruita a partire da un manoscritto ritrovato a Pescia. In quell’“album di romanze” dedicato alla “distintissima dama”, la musica non è soltanto linguaggio affettivo, ma traccia vivente di un legame tra arte e biografia. Il recupero di questa partitura – frammentaria, delicata, preziosa – è il risultato di un lavoro corale e stratificato. A Pino Adriano, ideatore e coordinatore del progetto, si deve l’intuizione e la tenacia nel rintracciare la fonte, con il sostegno dell’assessorato alla cultura del Comune di Pescia; a Adriana Cioffi, la cura della trascrizione e della realizzazione musicale, affrontata con competenza filologica e profonda intelligenza del suono. È a lei che si deve l’equilibrio tra rigore e cantabilità, tra strutturazione e libertà timbrica. L’organico esecutivo – il Trio Chagall, qui esteso a sestetto con Catello Coppola (flauto), Adriana Cioffi (arpa), Simone de Pasquale (viola), Giuseppina Perna (soprano), Stefano Sorrentino (tenore) e Carlo Martiniello (pianoforte) – ha saputo attraversare il repertorio con sobrietà e senso della forma, evitando ogni compiacimento lirico per restituire, invece, un suono asciutto, interiorizzato, coerente con la destinazione originaria delle composizioni. Ma il dato più sorprendente non risiede soltanto nell’equilibrio interpretativo o nella rarità del repertorio. A rendere l’esperienza irripetibile è stato il modo in cui la Villa stessa ha reagito al suono. Non come cassa armonica, ma come organismo sensibile, capace di riconoscere ciò che già le apparteneva. Come se le musiche, tornate a vibrare dopo due secoli, avessero risvegliato una stratificazione silenziosa, dando luogo a un fenomeno di sospensione temporale: non rievocazione, bensì presenza. La musica, in questo contesto, agisce non come citazione, ma come interruzione del tempo lineare, come breccia nella durata. Il passato non ritorna: si impone. Un’esperienza del genere non sarebbe stata possibile senza l’ospitalità elegante e concreta di S.E. Florence Mangin, Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, la cui visione ha saputo restituire alla diplomazia una funzione generativa, e non meramente cerimoniale. Accanto a lei, il consorte Pino Adriano, figura centrale nella costruzione intellettuale e operativa dell’intero progetto, ha incarnato con fermezza e discrezione un modello di curatela culturale fondato sulla competenza e sull’idea di continuità. Fondamentale anche il lavoro dell’ufficio stampa dell’Ambasciata, nella figura di Pierluca Ferrari, la cui azione – precisa, generosa, appassionata – ha saputo accompagnare e accelerare ogni fase organizzativa, contribuendo con lucidità e sensibilità alla piena riuscita dell’iniziativa. In tempi in cui la cultura rischia spesso di farsi evento, e l’arte di essere puro spettacolo, queste serate restituiscono un’altra possibilità: quella di un gesto lento, meditato, costruito nel tempo. Villa Bonaparte non è un contenitore, ma un luogo attivo, che reagisce. E la musica, in questo contesto, non è ornamento: è sostanza, strumento critico, memoria incarnata.
Si alza il sipario del Festival del Maggio Musicale Fiorentino che quest’anno giunge alla sua 87ª edizione. In programma, domenica 13 aprile 2025 alle ore 18, nella Sala Grande del Teatro, uno dei grandi capolavori del ’900 che torna al Maggio a distanza di 15 anni dalla sua ultima messinscena, la Salome di Richard Strauss. Altre tre sono le recite previste in cartellone: il 16 e il 23 aprile alle ore 20 e il 27 aprile alle ore 15:30.
Sul podio, alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, il maestro Alexander Soddy, al suo debutto in Teatro. La regia dello spettacolo è firmata da Emma Dante, anche lei al suo debutto al Maggio. Un altro debutto fiorentino è segnato dal soprano Lidia Fridman subentrata nella compagnia di canto al posto della già annunciata Allison Oakes che per una indisposizione è stata costretta a lasciare la produzione.
Il cast vocale schiera le voci di Nikolai Schukoff che veste i panni di Herodes; di Anna Maria Chiuri che è Herodias e di Brian Mulligan che interpreta Jochanaan. Eric Fennell è Narraboth; Marvic Monreal è Ein Page der Herodias; i Cinque ebrei sono Arnold Bezuyen, Mathias Frey, Patrick Vogel, Martin Piskorski e Karl Huml. Interpretano i Due nazareni William Hernandez e Yaozhou Hou (quest’ultimo veste inoltre i panni di Uno schiavo); Frederic Jost e ancora Karl Huml sono Due soldati mentre Davide Sodini chiude il cast lirico vestendo i panni di Un uomo della Cappadocia.
Le scene di questo nuovo allestimento sono curate da Carmine Maringola, i costumi sono di Vanessa Sannino, le luci di Luigi Biondi e la scenografia di Silvia Giuffrè. Il manifesto dell’opera è di Gianluigi Toccafondo.
La recita del 13 aprile sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3 e in differita televisiva su Rai 5 (ore 21:15)
Torino, Teatro Regio Stagione d’opera 2024 – 2025
“PIKOVAJA DAMA “ (La dama di Picche)
Opera in tre atti e sette scene su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij dall’omonimo racconto di Aleksandr Sergeevič Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Hermann MIKHAIL PIROGOV
Il conte Tomskij ELCHIN AZIZOV
Il principe Eleckij VLADIMIR STOYANOV
Čekalinskij ALEXEY DOLGOV
Surin VLADIMIR SAZDOVSKI
Čaplickij, giocatore, maestro di cerimonia JOSEPH DAHDAH
Narumov, giocatore VIKTOR SHECHENKO
Contessa JENNIFER LARMORE
Liza ZARINA ABAEVA
Polina DENIZ UZUN
La governante KSENIA CHUBUNOVA
Maša IRINA BOGDANOVA
Il piccolo comandante voce bianca LUCA DEGRANDI
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino
Direttore Valentin Uryupin
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Direttore del coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Sam Brown
Scene e Costumi Stuart Nunn
Coreografia Angelo Smimmo
Luci Linus Fellbom
Allestimento Deutsche Oper di Berlino
Torino, 3 aprile 2025
La Dama di Picche che in questo inizio di aprile, per la seconda volta dopo la memorabile edizione Noseda – Krief del 2009, va in scena al Teatro Regio si conferma qual è un grande e multiforme polittico, unificato dalla potente campitura musicale di Čajkovskij. In un continuo variare di scene e di ambienti, emergono Hermann e Liza i personaggi che, con l’anziana Contessa, ne sono gli straziati protagonisti. I bambini e le governanti nel parco, gli irridenti commilitoni di Hermann al tavolo da gioco, l’apparato nobiliare e la Zarina, Polina e le sue amiche diventano parte corale di una gigantesca sinfonia patetica che comunque, fin dall’Introduzione orchestrale, impone un clima oscuro e ansioso che neppure nel Requiem finale troverà la sua catarsi. La regia che si dice Sam Brown abbia ripreso da un’idea originale di Graham Vick, si appiattisce sull’ormai bolsa tradizione dei neon e delle proiezioni in bianco-nero che non illustrano e ancor meno emozionano. Il racconto avanza quindi abbastanza piatto e non si giova dell’aggiunta di un qualche innocuo tocco “alla moderna”. Sorprendente ed apprezzabile la trasformazione, possibile per l’intenso e indiscutibile fascino di Jennifer Larmore, della vecchia e cadente Contessa in maliosa adescatrice sexy. Le scene di Stuart Nun, come le luci di Linus Bellbom risultano vivaci e ben funzionali allo spettacolo. Sempre di Stuart Nun sono i costumi che, se esaltano la “rivisitazione” glamour della Contessa, non sono altrettanto efficaci nel vestire Liza. Se si cercasse lo stile Vick lo si potrebbe forse solo trovare nei movimenti coreografici dei due atti finali, in cui il coreografo Angelo Smimmo sicuramente rimanda al Tell del ROF 2013. Nonostante la presentazione da parte del Maestro di cerimonie, è stata brutalmente tagliata la “pastorelleria” mozartiana dell’atto secondo. La rinuncia a questa parentesi settecentesca è tutt’altro che indolore: per Čajkovskij, mozartiano viscerale, costituisce, in quest’opera onnicomprensiva, una parte non secondaria di un suo ipotetico autoritratto artistico e spirituale. L’esecuzione sconta la più che eccellente prestazione dei Cori, compreso quello di voci bianche del Teatro Regio, che Ulisse Tabacchin e Claudio Fenoglio conducono con la nota perizia, pur nei trambusti di un affollatissimo palcoscenico che, specie nella scena iniziale, ne ingarbuglia le file. L’Orchestra del Teatro Regio ha ben sostenuto l’immane partitura che, per molti aspetti, è pari a quella di una grande sinfonia con voci. Gli ottimi orchestrali, sempre affossati e invisibili, vengono tradizionalmente trascurati rispetto a chi agisce in scena. I legni, le prime parti e le file, gli archi, i violoncelli e le viole in specie, sono stati a tutti gli effetti assolutamente determinanti al buon esito. In un punto specifico del finale primo, Liza piange e Čajkovskij sul rigo del primo cello scrive in italiano: molto espress.piangendo: la commozione è giunta in sala. La direzione di Valentin Uryupin, sicuramente efficace e tecnicamente agguerrita, soffre di una visione più episodica che unitaria. Ricordando la coinvolgente e inarrestabile spirale emotiva della precedente edizione, si passa qui di scena in scena senza un reale continuum sinfonico. Scoppi sonori a fine scena cercano di animare delle non supportate steppe ghiacciate cui la sola eccellenza di strumentisti e cantanti dà vita. La compagnia di canto è eccellente quando non eccezionale. Mikhail Pirogov, Hermann, è tenore essenzialmente lirico che, pur non sottraendosi all’eroismo di alcune frasi, umanizza strepitosamente il personaggio. Il timbro è virilmente piacevole, così come è notevole la correttezza di intonazione e di fraseggio. Sulla follia e sulla disperazione di Hermann esercita il controllo tipico di chi interiorizza, senza placarle, le proprie angosce. Il pubblico l’ha molto apprezzato e applaudito. Zarina Abaeva, Liza, soprano lirico dai magnifici centri. Il timbro dolce ne fa un carattere remissivo e fragile. Nell’aria dell’ultimo atto, sulla sponda della Neva, ha modo di farsi ammirare per delle doti non comuni di tecnica e di fraseggio. Trova qualche difficoltà nel duetto del primo atto con Polina, Deniz Uzun: le due pare che cantino con sistemi tonali paralleli ma non coincidenti. Polina, sempre la Uzun, esegue poi magnificamente, con le giuste bruniture, la sua canzone Carissime mie amiche. Il reparto femminile si arricchisce della fama e del fascino intatto della Contessa di Jennifer Larmore. L’aria di Gretry, che lei bisbiglia prima di addormentarsi, ben sopporta gli strali di molte stagioni passate su palcoscenici di tutto il mondo. Il conte Tomskij trova in Elchin Azizov, un inappuntabile e fascinoso interprete dalla voce bella, timbrata e sfogata che corre con facilità per tutto il teatro. Determinante l’apporto che Vladimir Stoyanov dà all’innamorato e poi vendicativo Principe Eleckij. Voce chiara, sonora, dal timbro assolutamente accattivante e dalla tecnica sopraffina. Completano l’apprezzabile elenco Alexey Dolgov come Čekalinskij e il Surin di Vladimir Sazdovski. Una certa ilarità divertita l’ha suscitata l’autoritaria governante, con frustino, di Ksenia Chubunova. Irina Bogdanova è la cameriera della contessa e Joseph Dahdah con Viktor Shevchenko completano con efficacia il lotto dei giocatori. Il pubblico della prima ha approvato incondizionatamente tutti gli esecutori musicali. Segnata da particolare riconoscenza e affetto è stata poi l’accoglienza riservata alla Larmore. Gli artefici della parte visiva, con gli applausi, si sono dovuti subire anche uno spento e silenziato mugugno: è il massimo di disapprovazione a cui ardisca il pubblico subalpino. Foto Mattia Gaido
Napoli, Teatro di San Carlo
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Al Teatro di San Carlo, dal 16 al 29 aprile 2025, va in scena La fanciulla del West: opera in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco.
La Prima è il 16 aprile 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 19 aprile, 23 aprile, 26 aprile, 29 aprile 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Jonathan Darlington. Maestro del Coro: Fabrizio Cassi. La regia, le scene e i costumi sono a firma di Hugo De Ana, con l’apporto scenico del light designer Vinicio Cheli e del projection designer Sergio Metalli.
A interpretare Minnie è Anna Pirozzi; Gabriele Viviani interpreta, invece, Jack Rance; nel ruolo di Dick Johnson, Martin Muehle. Completano il cast: Alberto Robert (Nick), Mariano Buccino (Ashby), Leon Kim (Sonora), Lodovico Filippo Ravizza (Sid), Antonio Garés (Trin), Clemente Antonio Daliotti (Bello), Gregory Bonfatti (Harry), Sun Tianxuefei (Joe), Pietro Di Bianco (Happy), Lorenzo Mazzucchelli (Larkens), Sebastià Serra (Billy Jackrabbit), Antonia Salzano (Wowkle), Gabriele Ribis (Jack Wallace), Yunho Kim (José Castro), Michele Maddaloni (Un postiglione). Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con ABAO Bilbao Opera. Qui per tutte le informazioni. Foto © Luciano Romano / Teatro di San Carlo 2017
Roma, Palazzo del Quirinale
LA SALA REGIA NEL PERCORSO DELLA MOSTRA “BAROCCO GLOBALE”
In occasione della mostra “Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, il Palazzo del Quirinale offre un’occasione rara, quasi iniziatica: l’accesso eccezionale al Salone dei Corazzieri, già noto nei secoli passati anche come Sala Regia, nome che ne esplicita la destinazione originaria quale spazio di ricezione per sovrani, legati pontifici e ambasciatori. Questa apertura non è solo un gesto museale, ma un atto performativo: il luogo dove il potere si è rappresentato nei secoli viene riconsegnato allo sguardo pubblico, come se l’architettura si spogliasse, per un istante, della sua funzione istituzionale per diventare puro linguaggio. Costruita nei primi decenni del Seicento su impulso di Papa Paolo V Borghese e realizzata sotto la supervisione di Carlo Maderno, la sala è il massimo esempio della volontà pontificia di affermare, anche attraverso la materia, la centralità della Chiesa cattolica in un’epoca di espansione e competizione globale. Il Quirinale, da residenza estiva papale, si trasforma in dispositivo simbolico, e la Sala Regia — oggi Salone dei Corazzieri — è il fulcro di questa trasformazione. La sua monumentalità non è un fatto quantitativo, ma qualitativo: misura la distanza tra il reale e il rappresentato, tra l’individuo e il potere. Il soffitto ligneo a cassettoni, dorato, scolpito con ordine e maestosità, si specchia nel pavimento marmoreo a intarsio policromo, realizzando una simmetria visiva di forte intensità simbolica. Ogni superficie concorre alla costruzione di uno spazio scenico totale, dove l’individuo è messo in posizione di subalternità prospettica rispetto all’ambiente. Questo è lo spazio barocco: uno spazio che domina, persuade, ingloba. Alle pareti, due cicli decorativi raccontano due ideologie del potere. Il primo, risalente al 1616, è un fregio affrescato da una bottega guidata da Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco e Carlo Saraceni. Vi si celebrano otto ambascerie ricevute da Paolo V, con una iconografia che si inserisce pienamente nel clima dell’espansionismo spirituale post-tridentino. La più celebre è quella del giapponese Hasekura Tsunenaga, ritratto con dignità ieratica: è il corpo dell’altro che entra nella pittura romana e ne altera le coordinate. Questo incontro, che all’epoca suscitò stupore, oggi si rivela essere una delle prime raffigurazioni ufficiali di un dignitario nipponico nella storia dell’arte occidentale, anticipando — senza saperlo — la globalizzazione dell’immaginario barocco. Il secondo fregio, aggiunto dopo l’Unità d’Italia, è un intervento sabaudo che si inserisce senza distruggere l’impianto esistente: vi sono rappresentati gli stemmi delle principali città italiane, a suggello dell’unificazione politica della penisola. Un esempio perfetto di come l’arte possa essere palinsesto: la stratificazione dei poteri e delle loro estetiche si giustappone senza cancellazione, ma per sovrapposizione. È la permanenza della forma a garantire la continuità tra i regimi. Nel salone, convivono anche due cicli di arazzi settecenteschi, posti a rivestire le pareti con un fasto tutto francese e napoletano. La prima serie, di manifattura francese, raffigura le Storie di Psiche: un mito dell’amore e della trasfigurazione, ideale per un ambiente dove il potere si riveste di seduzione. La seconda, dedicata a Don Chisciotte, combina ironia e pathos in un cortocircuito tra letteratura e arte decorativa, anch’essa frutto della cultura barocca che dissolve i confini tra alto e basso, sacro e profano. A vegliare silenziosa in una nicchia, la lunetta marmorea della Lavanda dei Piedi, scolpita da Taddeo Landini nel 1578 per la Basilica di San Pietro e traslata al Quirinale nel 1616, introduce una nota di etica cristiana dentro l’apparato del potere. È un gesto di servizio scolpito nel marmo, che diventa paradossalmente monumentale, eterno. L’umiltà come forma di autorappresentazione del potere pontificio, ma sempre attraverso il filtro dell’arte, che trasforma anche la pietà in stile. Nel Novecento, il Salone dei Corazzieri subisce un’eclisse di senso: pensato come pista da pattinaggio e persino adibito a campo da tennis coperto nel 1912, sembra per un momento svuotato del suo portato simbolico. Ma la forma resiste, come un’armatura. È solo nel secondo dopoguerra, e poi in modo definitivo con la Repubblica, che il salone riacquista la sua funzione di rappresentanza: diventa il luogo dove la nuova forma dello Stato — non più sacra, ma laica — continua la messa in scena del potere, ora sotto il segno della democrazia protocollare. Con la mostra “Barocco globale”, questo spazio non solo si apre, ma si riattiva. Torna a essere quello che era: un teatro dell’universale, un atlante visivo del dialogo tra Roma e il mondo. Ma non più solo luogo di autorappresentazione del potere: oggi il Salone dei Corazzieri diventa luogo di riflessione estetica e storica, nodo concettuale tra le culture che il Barocco ha saputo mettere in relazione. Una chance per toccare con lo sguardo la grammatica del potere, fatta di oro, marmo, mito e silenzio. Un’epifania barocca nel cuore stesso della Repubblica.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e pianoforte Rudolf Buchbinder
Ludwig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19; Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58; Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore op. 15
Venezia, 3 aprile 2025
È tornato alla Fenice Rudolf Buchbinder, uno dei performer più leggendari del nostro tempo che, al culmine di una luminosa carriera di sessantacinque anni, continua a suonare il pianoforte coniugando autorevolezza e spontaneità, tradizione e innovazione. Le sue interpretazioni delle opere di Beethoven, in particolare, sono considerate modelli assoluti: non a caso, è stato il primo pianista a interpretare tutte le Sonate di Beethoven, all’interno di una manifestazione estiva al Festival di Salisburgo del 2014, e il Musikverein di Vienna, per la prima volta nella sua storia, gli ha concesso, nella Stagione 2019-2020, l’onore di eseguire tutti i cinque Concerti di Beethoven. È stata, come sempre, una grande emozione assistere alla sua esecuzione: ammirare la compostezza con cui affronta anche i passaggi più ardui, guidando nel contempo l’orchestra, con rapidi cenni, nei momenti in cui può staccarsi dalla tastiera; sentirsi rapire da quell’energia, che proviene dall’assoluta padronanza della tecnica pianistica, dalla perfetta, intima conoscenza del dettato beethoveniano. Presupposti di un’interpretazione, che ci conquista con la forza interiore e, insieme, l’olimpico dominio delle passioni, che caratterizzano Buchbinder come tutti i più grandi interpreti della grande tradizione viennese e mitteleuropea, mai pedissequamente imitata dall’insigne artista, bensì sempre reinventata con autenticità e apertura mentale. La serata si è aperta con il Concerto in si bemolle maggiore n. 2 op. 19 (in realtà il primo in ordine di composizione, essendo precedente a quello dell’op. 15), dove il dialogo del pianoforte con l’orchestra si è svolto con una leggerezza mozartiana, in un rapporto paritetico tra i due interlocutori – del resto è evidente in questa partitura l’influenza del Concerto in re minore kv 466 del Salisburghese, che si è colta anche nella prima entrata del pianoforte con libere figurazioni derivanti dal materiale tematico già esposto dall’orchestra –. Strabiliante per la chiarezza nell’articolazione la cadenza del primo movimento – composta da Beethoven vari anni dopo la pubblicazione del Concerto, avvenuta nel 1801 – proiettata verso il futuro, preannunciando la Sonata op. 101 (1816). Particolarmente suggestivo il secondo movimento, un grande Adagio tipicamente beethoveniano, a metà del quale l’orchestra si è stagliata autorevolmente sul morbido fondo sonoro del pianoforte, e poi ha partecipato con accenti drammatici alla grande cadenza, aperta da accordi e trilli del solista e da lui chiusa con un recitativo. Un tono brillante e, al tempo stesso, pastorale si è colto nel Rondò finale. Seguiva il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58, composto tra il 1805 e il 1806, che rappresenta una reazione, da parte di Beethoven, al virtuosismo esteriore, imperante a quell’epoca in questa forma musicale, insieme ad un tono celebrativo e marziale del movimento iniziale. Un tono di luminosa intimità ha caratterizzato l’iniziale Allegro moderato, aperto dalla breve entrata del solista che, in modo innovativo, precede l’esposizione orchestrale. Un drammatico dialogo si è svolto nel secondo movimento tra sonorità crepuscolari. Alle quali si sono alternate, nel movimento conclusivo, sonorità brillanti, come in un breve intervento del solista a mani alternate, che si pone in una prospettiva di tecnica prelisztiana. La serata si è conclusa con il Concerto per pianoforte n. 1 op. 15, terminato nel 1798 e pubblicato, in una versione rivista, nel 1801. Qui il tono è cambiato fin dal primo movimento, vicino alla tradizione del ‘concerto militare’ – molto gradito al pubblico di fine Settecento – tra sonorità brillanti e ritmi di marcia sia dell’Orchestra che del pianista, che ha sfoggiato staccati incisivi e agilità, anche nella mano sinistra: un movimento, con solo pochi momenti di più raccolto intimismo. Nel Largo, centro espressivo del Concerto, cui un’orchestra ridotta ha conferito un insolito colore timbrico, il primo clarinetto e il pianoforte, nel loro intimo dialogo, hanno creato un’atmosfera veramente ‘magica’. Molto brillante il Rondò finale – con tre temi dal carattere di danza –, conclusosi in modo ‘sorprendente’ alla fine della cadenza, quando il pianoforte ha iniziato, secondo tradizione, un trillo, per poi farlo divergere dalla prevedibile conclusione e indirizzarlo, con raffinata modulazione, verso una tonalità inattesa. Reiterati applausi tra molti “Bravo!”
Roma, Teatro dell’Opera, stagione 2024/25
“ONEGIN”
Balletto in tre atti su musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Arrangiamento e orchestrazione di Kurt-Heinz Stolze
Coreografia John Cranko
Onegin FRIEDEMANN VOEGEL
Lenskij ALESSIO REZZA
Tatiana NICOLETTA MANNI
Olga SUSANNA SALVI
Solisti, corpo di ballo e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Philip Ellis
Scene e costumi Elisabeth Dalton
Roma, 5 aprile 2025
Quello del balletto Onegin al Teatro dell’Opera di Roma era un successo annunciato. Complice la coreografia di John Cranko (1927-1973), grande creatore di drammi danzati diventati dei classici del balletto moderno, che sanno scavare nella psicologia dei personaggi e si offrono come perfetta sintesi di quello che la danza eredita dalla tecnica più pura del balletto classico, in felice simbiosi con le evoluzioni tecniche del Novecento. Ma non solo, perché l’anima di tutto è la musica di PÏotr Îl’ič Čjajkovskij, non quella dell’omonima opera composta nel 1877, ma una antologia di brani pianistici orchestrati da Kurt-Heinz Stolze in cui il sapore del sentimento čjajkovskijano per l’inutile vagheggiamento di una vita felice echeggia di continuo e offre continui cromatismi per i mutamenti dei personaggi, incardinandosi in quella tradizione nazionale di polacche e mazurche che ci riportano ai fasti dei Teatri imperiali dei grandi balletti di Marius Petipa. Eppure non è ancora tutto: il capolavoro di Cranko (prima rappresentazione: Stoccarda, 1965 – debutto italiano: Spoleto, 1984), coreografo sudamericano che ha saputo fare scuola con i suoi balletti narrativi, la cui carriera è fiorita tra Inghilterra e Germania, si costruisce partendo dal romanzo in versi di Alexandr Sergeevič Pušhkin (1799-1837), fonte primaria di tutto e il cui spirito intrinseco (tra lo spleen di Eugenio Onegin e la forza di Tatiana) emerge nel trasferimento dal codice della parola a quella della danza attraverso una serie di sequenze coreografiche e di attenzione alla gestualità attoriale che rendono la vicenda non solo immediatamente fruibile, ma riescono a calarlo all’interno della storia attirandolo come una potente calamita. Ma ancor più il lavoro di Cranko rende indispensabile la qualità dell’interprete, la cui sensibilità diviene la conditio sine qua non per la materializzazione della coreografia e la riuscita della messa in scena. Tutto questo è stato presente nell’allestimento andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma con la compagine di balletto diretta brillantemente da Eleonora Abbagnato (volitiva direttrice anche della Scuola di ballo, che il 7 aprile si esibirà in una lezione dimostrativa aperta al pubblico) e due ospiti d’eccezione quali Nicoletta Manni e Friedemann Vogel nel ruolo del titolo. Vogel è probabilmente il migliore Onegin nel panorama internazionale: capace di riempire la scena con le sue eloquenti espressioni anche nell’immobilità o in una semplice promenade, è interprete maturo e smaliziato che associa alla tecnica eccellente e a un partnering sicuro e senza sbavature la padronanza del ruolo. Dispettoso e superficiale (tanto da suscitare espressioni di vero dispetto anche nel pubblico femminile, quando umilia Tatiana stracciandole in mano la lettera), sa essere poco dopo contrito e sinceramente ravveduto ma, soprattutto, sa mostrare con grande efficacia il drastico cambiamento di sentimento di Onegin, irrimediabilmente destinato a soffrire come tutti gli altri.
Al suo fianco una Tatiana che è, per Nicoletta Manni, il ruolo della vita: diventata Étoile del Teatro alla Scala di Milano con questa interpretazione, si conferma portabandiera della grande scuola italiana scaligera. La sua figura dolce e aggraziata coesiste con una tecnica limpida e dalla fluidità vellutata, priva delle asprezze che spesso accompagnano i virtuosismi, perché le forze sono abilmente dosate e “la ragazza della porta accanto” (quale appare Nicoletta nella sua semplicità giornaliera) si trasforma in una Tatiana innocente e allo stesso tempo determinata. Quando giunge anche per lei «il tempo delle marmellate» (Fabio Sartorelli), Tatiana accetta il suo dovere di moglie e, pur conservando l’ardore della fiamma che l’angoscia quando rivede Onegin dopo tanto tempo, onora la sua posizione di donna sposata con grande forza. Nicoletta Manni fa conservare a Tatiana la stessa innocenza del primo e del secondo atto, nonostante sia ora una donna matura.
La coppia brilla per affiatamento, pur essendo al debutto insieme: il Passo a due dello specchio, metafora erotica di geniale eleganza e sensualità, così come quello del terzo atto fatto di continui contrasti affidati ai Leitmotiv coreutici e musicali che Cranko sapientemente utilizza in una formularità di grande effetto emotivo, sono interpretati magistralmente.
Ottima prestazione per l’Étoile di casa Susanna Salvi nei panni di Olga, sorella gaia e talvolta frivola della più riflessiva Tatiana, anch’ella destinata a soffrire per la morte dell’amato Lenskij per mano di Onegin nel corso di un duello tanto inutile quanto crudele. La difficoltà delle sezioni coreografiche di Olga non ha messo in difficoltà Susanna Salvi, così come è stata molto ben sostenuta da Alessio Rezza, Étoile maschile del Teatro dell’Opera nei panni dello sfortunato poeta Lenskij, il cui triste assolo nella scena che precede quella del duello vede difficoltà di legato e di interpretazione connessa al lirismo del momento, che non escludono insidie tecniche notevoli, in cui la danza non si fa sostituire dalla sola pantomima ma diviene essa stessa significante per il procedere dell’azione. Ottima prestazione da parte di tutto il Corpo di ballo: non sono mancati applausi a scena aperta in più momenti. L’elegante e caldo allestimento del Duch National Opera and Ballet di Amsterdam, l’eleganza sobria dei costumi di Elisabeth Dalton (che firma anche le scene), l’orchestra diretta dal Maestro Philip Ellis hanno garantito l’apprezzamento senza riserve da parte del pubblico, che al termine è rimasto a lungo in sala ad applaudire con calore e ad attendere i protagonisti all’uscita, per garantirsi di fermare per sempre, con uno scatto fotografico, l’abbraccio con Tatiana e Onegin. (foto Fabrizio Sansoni)
C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Kyrie; G. F. Malipiero, Quartetto n. 2, Stornelli e ballate; C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Gloria; G. F. Malipiero, Quartetto n. 3, Cantari alla Madrigalesca; C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Credo; G. F. Malipiero, Quartetto n. 6, Arca di Noè; _C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei. Quartetto Sincronie. Registrazione: Aprile 2023, San Terenziano Capranica (VT). T. Time: 70′ 44″. 1 CD Stradivarius STR 37281
Molto interessante è la presente proposta discografica dell’etichetta Stradivarius, il cui programma è costituito da un binomio Malipiero-Monteverdi particolarmente appropriato soprattutto, se si considera il fatto che il primo realizzò l’edizione completa delle opere del grande compositore dell’Orfeo. In questo CD sono eseguiti, in particolar modo, i Quartetti n. 2, 3 e 6, di Malipiero e un’originale versione per quartetto d’archi della Messa a 4 voci (1650) di Monteverdi. I Quartetti di Malipiero mostrano l’evoluzione dello stile del compositore veneziano, in quanto, nel Secondo, intitolato Stornelli e ballate (1923), è utilizzata ancora una struttura a pannelli, abbandonata nel Terzo (Cantari alla madrigalesca) del 1931, che appare come un’opera di transizione tra i primi due e il quarto, mentre il Sesto (L’arca di Noè), completato nel mese di agosto del 1947, era considerato dallo stesso compositore come il seguito ideale del Terzo. Di Monteverdi viene eseguita in una trascrizione, che non sarebbe dispiaciuta al suo compositore il quale visse in un periodo in cui un brano vocale poteva tranquillamente essere eseguito con strumenti e viceversa, la Messa a 4 voci, un lavoro costruito sul tetracordo Sol-Fa-Mi-Re, i cui brani, inseriti nel CD in alternanza con quelli di Malipiero, vanno a comporre, come si legge nell’interessante Booklet di Francesco Fontanelli, il “ritornello’ sacro dei profani quartetti di Malipiero. Ottima l’esecuzione da parte del Quartetto Sincronie che rende molto bene l’ordito polifonico di queste composizioni e nel caso della Messa non fa certo rimpiangere l’esecuzione vocale. Si tratta, in definitiva, di una proposta discografica particolarmente bella e originale.
Dall’8 al 18 aprile il sipario della Scala si aprirà su Peer Gynt di Edward Clug, balletto narrativo ma onirico, con un evocativo impianto teatrale che accompagna il viaggio fisico e interiore di questa leggendaria figura del folklore nordico, personaggio drammatico tra i più complessi usciti dalla penna di Ibsen. Primo balletto narrativo a serata di Clug, Peer Gynt vide il suo debutto nel 2015 per il Balletto del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor. Da allora è diventato così popolare da essere richiesto in tutta Europa. Proprio al Teatro alla Scala, decimo teatro europeo per cui viene riallestito, celebrerà il suo decimo anniversario, entrando per la prima volta nel repertorio di una Compagnia italiana. Per questa occasione, il balletto sarà ripreso da Rai Cultura, e verrà trasmesso in autunno su Rai 5 e Rai Play; all’estero (ad eccezione di Grecia, Repubblica Ceca e Giappone) sarà in live streaming su Medici Tv il 18 aprile.
Un lavoro nato dalla ricerca sul testo del grande drammaturgo e sulla musica di Grieg al fine di unire le rispettive ispirazioni, superando le limitazioni di ognuna. Clug ha creato un nuovo libretto che segue in senso cronologico la narrazione di Ibsen e accosta la musica di scena di Grieg per Peer Gynt ad altri suoi celebri brani da concerto e da camera, per uno sviluppo dinamico e coerente della narrazione. Fondendo i mondi artistici di Ibsen e di Grieg, si crea un nuovo insieme, e un paesaggio con molte porte: Clug ha scelto le sue, che apre agli spettatori e invita a varcarle, per entrare in una nuova esperienza di balletto.
Peer Gynt sarà impersonato da Navrin Turnbull e da Timofej Andrijashenko. Nel balletto si ritroveranno molti dei personaggi del libro: Solveig (Alice Mariani in alternanza con Martina Arduino), Åse, la madre di Peer (Antonella Albano e Alessandra Vassallo), gli sposi Ingrid e Mads Moen (Linda Giubelli con Mattia Semberboni, Agnese Di Clemente con Domenico Di Cristo), Aslak, il fabbro (Marco Agostino), la piccola Helga, sorella di Solveig (Sabrina Solcia), tre ragazze della malga (Giorgia Sacher, Chiara Ferrara, Martina Valentini). Nati da una inventiva e felice soluzione, non solo coreografica, ma drammaturgica, come chiave per varcare le porte del surreale e del fantastico, il Cervo (Emanuele Cazzato), concepito da Clug quasi come un alter ego che accompagna Peer per tutta la piéce e la Morte (Andrea Crescenzi in alternanza con Christian Fagetti), figura affascinante e complessa che lo segue in tutto il suo viaggio, e in cui Clug ha condensato tutti i personaggi astratti dell’opera – come la voce, il fonditore di bottoni e la sfinge. Lo stesso vale per i molti altri ruoli che interagiscono con Peer nel suo epico viaggio che che coinvolge anche l’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta per la prima volta da Victorien Vanoosten, che ha già affrontato questo balletto a Zurigo nel 2022, Leonardo Pierdomenico al pianoforte e il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni.
Esperienza teatrale completa, questo balletto fonde musica, movimento e parola con il fondamentale apporto dell’inventiva nelle scene di Marko Japelj, dei visionari costumi di Leo Kulaš e delle luci di Tomaž Premzl.
Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival Bizet, “L’amore ribelle”, 29 Marzo-16 Maggio 2025
“AMORE E SOGNI”
Tenore Reinoud Van Mechelen
Pianoforte Anthony Romaniuk
Musiche di Georges Bizet, Eduard Lassen, Franz Liszt, Pauline Viardot, Frédéric Chopin
Venezia, 2 aprile 2025
“Amore e sogni” in musica … Che cosa c’è di più romantico, di più intimo, di più poetico? Soprattutto se l’autore di riferimento è un genio assoluto, qual è Georges Bizet, cui il Centre de Musique Romantique Française dedica quest’anno un festival, che si sta svolgendo con successo in varie città, in Francia e in Europa, e ora è approdato a Venezia. Bizet – artista precoce, che un tragico destino strappò alla vita quando, appena trentasettenne, avena già legato il suo nome a uno straordinario capolavoro come Carmen – viene riproposto dal Palazzetto Bru Zane, per indagarne aspetti meno noti al pubblico. Dotato di un’impareggiabile vena melodica, di una particolare sensibilità per il canto, di uno spiccato talento per il pianoforte, di un’inconfondibile cifra stilistica squisitamente francese, il compositore ci ha la sciato una dovizioso repertorio di mélodies, che meritano di essere conosciute e apprezzate dal grande pubblico. Ecco uno degli aspetti poco conosciuti di Bizet, che l’équipe del Bru Zane intende illuminare con questo concerto dell’attuale Festival “L’amore ribelle”. L’autore di pagine dallo straordinario afflato melodico, tanto amate dal pubblico, come la “Romanza di Nadir” (da Les Pêcheurs de perles) o la “Séguedille” (da Carmen) era rappresentato nella serata di cui ci occupiamo da alcune delle sessantatré mélodies che ci ha lasciato, messe a confronto con analoghe composizioni di autori a lui contemporanei: piccole gemme, dimenticate in qualche scrigno, che sono tornate a brillare per noi di seducenti colori, svelate dalla voce del tenore Reinoud Van Mechelen, accompagnato dal pianista Anthony Romaniuk. Morbidezza e vigore, omogeneità di timbro nei vari registri e capacità di attingere a un’ampia gamma di colori, raffinato utilizzo del legato e grande attenzione alla parola poetica: queste le caratteristiche, che abbiamo potuto apprezzare nella vocalità estesa e corposa del tenore belga, che ha potuto contare sul sostegno intelligente e sensibile del pianoforte, sempre in stretta interazione con la voce. Lo si è colto – per citare qualche titolo – in Le Matin – arrangiamento di una parte della pastorale dell’Arlésienne –, in Aimons, rêvons! – tratta dall’opera La Coupe du roi de Thulé –, in Si vous aimez e in La Nuit, tratte direttamente da Clarisse Harlowe, opéra-comique in tre atti rimasta incompiuta nel 1872: tutte romanze da opere di Bizet mai rappresentate. Le doti vocali e interpretative di Van Mechelen sono risultate ancor più evidenti in altre pagine, appartenenti alla raccolta delle Six mélodies, come Guitare, su un testo di Hugo, e Sonnet su un testo di Ronsard, che attestano un’importante ridefinizione della mélodie: in esse all’immediatezza espressiva della romanza operistica, si sostituisce un linguaggio musicale più elaborato che, attraverso un rapporto più stretto tra la voce e il pianoforte, aderisce ancora più intimamente alla parola poetica, esaltandone ogni valenza evocativa. La rassegna proposta – come si è accennato – accostava a mélodies di Bizet analoghe composizioni per canto e pianoforte, su testi francesi, di autori suoi contemporanei, accomunati dall’aver vissuto sia al di qua che al di là del Reno come il grande viaggiatore Franz Liszt, il suo protetto belga Eduard Lassen e l’esiliata Pauline Viardot: pagine, nelle quali, nonostante la conoscenza e la pratica del Lied da parte di questi musicisti, si è comunque colta una cifra stilistica tutta francese. Reiterati applausi a fine serata, placati da un Bis: la “La fleur que tu m’avais jetée”, da Carmen.
Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
“ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti Libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Enrico VIII ALEX ESPOSITO
Anna Bolena LIDIA FRIDMAN
Giovanna Seymour CARMELA REMIGIO
Lord Rochefort WILLIAM CORRÒ
Lord Riccardo Percy ENEA SCALA
Smeton MANUELA CUSTER
Sir Hervey LUIGI MORASSI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Renato Balsadonna
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Light designer Oscar Frosio
Nuovo allestimento Teatro La Fenice
Venezia, 28 marzo 2025
Anna Bolena non compariva alla Fenice dal lontano 1857. Il riproporla dopo tanto tempo costituiva per i responsabili dello spettacolo un privilegio e, insieme, una sfida. Fortunatamente sia il direttore Renato Belsadonna, che il regista, Pierluigi Pizzi, sono due artisti particolarmente sensibili e preparati, in grado di affrontare degnamente il non facile compito loro assegnato. Lavorando in sintonia, hanno scelto di rappresentare il capolavoro donizettiano nella sua stesura pressoché integrale – sulla base dell’edizione critica curata da Paolo Fabbri –, per valorizzare le novità strutturali e stilistiche della partitura, coadiuvati da un cast straordinario. Il che è fondamentale per un opera ove domina il belcanto. Per entrambi gli artisti, il punto di riferimento era la memorabile edizione scaligera del 1957 – seppure la partitura fosse stata allora ampiamente ‘tagliata’ –, diretta da Gianandrea Gavazzeni con la regia di Luchino Visconti, nonché Maria Callas e Giulietta Simionato come protagoniste: lo storico spettacolo ha dato il via alla ‘Donizetti Renaissance’, un rinnovato interesse verso il Bergamasco, che ha portato a riscoprire questo autore, prima considerato un epigono di Rossini. Un fondamentale impulso in questo senso lo dato Gavazzeni, con il contributo prima della Callas e in seguito di Leyla Gencer, le splendide interpreti che tutti ancora adoriamo.
Quanto al nuovo allestimento per la Fenice, Pizzi ha lavorato per sottrazione, perseguendo una generale semplificazione dell’apparato scenico a vantaggio degli affetti e dell’introspezione psicologica dei personaggi. L’insigne regista – ideatore anche di scene e costumi –, considerando giustamente Anna Bolena un’opera ‘di cantanti’, ha assegnato il primato al belcanto, più che all’ambientazione, finalizzata ad orientare il pubblico e collocare i personaggi in un determinato contesto, desunto – udite, udite! – dal libretto e dalla musica. Il regista si focalizza sull’interpretazione dei cantanti per creare personaggi credibili, che – inseriti in un clima drammatico – toccano direttamente il cuore degli spettatori. Lo spettacolo è spoglio, asciutto, ma non minimalista. La scena è costituita da un’ampia struttura grigia in legno, ispirata a un’architettura tardogotica, le cui nervature portanti fanno pensare a una sorta di grande gabbia: si tratta di un contenitore fisso, che all’inizio rappresenta una grande sala del Castello di Windsor, poi diventa una stanza da letto sobriamente addobbata e alla fine addirittura un carcere. Essa crea quel senso claustrofobico e oppressivo, che caratterizza tutta la storia e al quale contribuiscono le luci generalmente soffuse (disegnate da Oscar Frosio) e i costumi, in buona parte scuri e dall’essenziale eleganza, che se non rimandano storicisticamenre ai Tudor, fanno nondimeno percepire il senso di un’epoca. Spiccano suggestivamente in questo grigiore, pochi elementi, tra cui il rosso del mantello di Percy e del costume di Giovanna Seymour, oltre al bianco perlaceo di quello di Anna prima del suo tragico epilogo, che la vedrà rigorosamente vestita di nero. Piccoli capolavori di sobrietà dell’intramontabile Pizzi. Coerentemente con l’impostazione registica, Renato Belsadonna si concentra sui cantanti sostenendoli con un gesto sempre chiaro e preciso nel loro cimentarsi con una scrittura, che può essere considerata la quintessenza del belcanto, con la doverosa precisazione che la linea vocale, anche quando è ricca di abbellimenti, è sempre funzionale all’espressione drammatica. La sua lettura ha, dunque, messo in valore il canto, otre all’elegante orchestrazione di Donizetti, che evoca un’atmosfera cupa e opprimente, ma sa anche illuminare momenti più sereni come all’inizio del duetto con Giovanna, introdotto dalla preghiera di Anna, in cui i corni accompagnano quasi come un organo la preghiera; o nella scena della pazzia, dove all’alternarsi dei sentimenti contrastanti di Anna corrisponde l’eterogeneità della strumentazione orchestrale e l’apparente illogicità della sintassi musicale. Incantevole, in “Al dolce guidami” il corno inglese che, dopo l’introduzione, duetta in terza con Anna. E proprio in “Al dolce guidami”, uno squarcio di struggente lirismo, che precede la tragica fine della protagonista, Lidia Fridman ha sedotto particolarmente il pubblico. Quasi trasfigurata, ormai rapita in un’altra dimensione, il soprano russo ha concluso in modo esaltante la sua interpretazione, con cui ha saputo rendere la complessità psicologica della regina ripudiata, aderendo al linguaggio di Donizetti – straordinario per carica emotiva, virtuosismi, colori e contrasti –, senza che la regalità e la nobiltà del personaggio venissero meno, neanche nel momento in cui viene sopraffatto dalla follia. Una prova di belcanto e intensità espressiva, duttilità vocale e presenza scenica, nell’affrontare una parte che fu scritta per Giuditta Pasta. Le ha corrisposto – per doti interpretative e vocali – il soprano Carmela Remigio, quale Giovanna: elegante ed intensa sul piano espressivo – nel suo dibattersi tra il sentimento di lealtà verso la regina, l’amore illegittimo per Enrico, il senso di colpa per il tradimento –, ha tenuto testa ad Anna nel grande duetto con la rivale. Pienamente apprezzabile la prova del mezzosoprano Manuela Custer, nei panni di Smeton, che ha analogamente fatto valere ragioni del belcanto e del gesto scenico. Sul versante maschile il basso Alex Esposito – specializzatosi nelle parti da ‘cattivo’ – ha sfoggiato ancora una volta la sua voce ‘profonda’ quanto estesa, nel delineare un Enrico VIII dispotico, cinico, crudele, offrendo un’interpretazione incisiva e vigorosa, anche per le sue doti attoriali. Credibile l’impetuoso Percy del tenore Enea Scala, che ha saputo affrontare dignitosamente l’impervia tessitura di un ruolo pensato per Giovanni Battista Rubini, segnalandosi in “Vivi tu, te ne scongiuro”. Positiva la prova del baritono William Corrò (Rochefort) e del tenore Luigi Morassi (Hervey), oltre a quella del coro, istruito da Alfonso Caiani. Successo estremamente caloroso in particolare per la protagonista.
Roma, Spazio Diamante, Sala White
IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI
scritto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Leonardo Maddalena
disegno luci Martin Emanuel Palma
disegno suono Giuseppe D’Amato
scenografia Salgo Ingala
foto di Loris Zambelli
organizzazione Regina Piperno
produzione Teatrodilina Fondazione Teatro Toscana
regia Francesco Lagi
Roma, 04 aprile 2025
Una luce lattiginosa s’insinua nel buio, come se il giorno non volesse del tutto nascere. L’aria è ferma, sospesa tra il sonno e il ricordo. Sul palco, due corpi distesi. Poi, un respiro. Una voce. Un sogno. Inizia così Il bambino dalle orecchie grandi, scritto e diretto da Francesco Lagi, messo in scena al Teatro Spazio Diamante di Roma con la compagnia Teatrodilina: non con un’esplosione drammatica, ma con un cedimento sottile della realtà, uno slittamento quasi impercettibile verso la tenerezza dell’incertezza. Non c’è una vera azione iniziale, né un contesto definito: tutto è trattenuto, sfumato, anti-narrativo. Lo spazio scenico, progettato con misura da Salvo Ingala, rifugge qualsiasi realismo per offrirsi come ambiente mentale, composto da trasparenze (barattoli, plexiglass, superfici vitree), dove ogni oggetto diventa una proiezione simbolica più che funzionale. Le luci, curate con raffinatezza da Martin Emanuel Palma, scandiscono il fluire emotivo: mai frontali, mai didascaliche, ma piuttosto umorali, attraversano la scena come riflessi interni, presagi o malinconie. I protagonisti – Anna Bellato e Leonardo Maddalena – incarnano una coppia in divenire, colta nel momento fragile della possibilità: lui racconta un sogno, lei ascolta, e in questo ascolto si apre lo spazio del teatro. Non si tratta di costruire personaggi pieni, ma figure poetiche, che si muovono in una zona liminare tra interpretazione e astrazione. Entrambi gli attori lavorano su un registro antinaturalistico, ma mai artefatto: la loro vocalità è sobria, spezzata talvolta da inflessioni lievi, accenni ironici, sospensioni; il gesto è controllato, prosciugato, ma preciso. Bellato modula con attenzione il peso delle parole, affidandosi più ai silenzi che alla battuta; Maddalena si muove con una fisicità trattenuta, come se il corpo volesse restare ai margini, quasi a non disturbare il tempo. La drammaturgia si compone per episodi, come un montaggio affettivo di istanti non ordinati: flashback, evocazioni, visioni. C’è il ricordo delle prese in giro infantili per le orecchie “a copertone”, ci sono le discussioni sui pasti, i piccoli scontri su dettagli domestici, le attese che diventano noia. Ma ciò che davvero tiene insieme lo spettacolo non è la linearità narrativa, bensì la ricorrenza di micro-temi e motivi poetici: le orecchie, appunto, simbolo di ascolto e di vulnerabilità; la marmellata, la pianta che non cresce, l’insofferenza verso “certe cose dell’altro”. Il tutto organizzato secondo una struttura circolare, musicale, fatta di ritorni e dissonanze. Il punto di forza della regia di Lagi è la coerenza con il proprio sguardo poetico: mai compiaciuto, mai esibito. Il tempo scenico è dilatato, quasi cinematografico, ma sempre al servizio della materia emotiva. La recitazione non cerca l’identificazione ma l’empatia diffusa: lo spettatore non è chiamato a “credere” alla storia, ma a riconoscervi frammenti della propria biografia affettiva. E in questo, lo spettacolo riesce con finezza: non imponendo una morale o una parabola, ma lasciando spazio al dubbio, al “forse”, al “e se…”. Il bambino dalle orecchie grandi non parla di una grande passione, né di una crisi devastante: mette in scena il tessuto granulare della vita condivisa, le sue increspature sottili, le sue dolcezze interrotte. È un teatro che si nutre di micro-tensioni, di variazioni impercettibili nel ritmo e nell’intonazione. La scrittura di Lagi – a metà tra poesia quotidiana e drammaturgia della sospensione – riesce a restituire quella dimensione sfuggente in cui l’amore non è più sentimento, ma gesto reiterato, dettaglio osservato mille volte, distanza che resta nonostante la vicinanza. La coppia – pur senza nome, pur senza storia definita – si trasforma così in una figura universale, una sorta di archetipo lieve dell’innamoramento che si fa convivenza, del desiderio che si misura con la disillusione. Il bambino evocato nel titolo non è solo un progetto, una possibilità o un sogno: è anche – forse soprattutto – la parte fragile e non risolta che ciascuno porta con sé, quella che si spera venga accolta, compresa, ascoltata. Ecco allora che il teatro, in questo caso, non mostra, ma custodisce. Non urla, ma veglia. E nel silenzio che chiude la pièce – un silenzio pieno, denso, come una stanza vuota dopo una conversazione troppo lunga – resta il ricordo di qualcosa che non è accaduto davvero, ma che ci riguarda profondamente. Perché in fondo, tutti abbiamo avuto, almeno una volta, delle orecchie troppo grandi. E qualcuno che ce le ha fatte amare.