Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
La Pirandelliana
presenta
GENTE DI FACILI COSTUMI
di Nino Marino e Nino Manfredi
scene Luigi Ferrigno
costumi Giuseppina Maurizi
musiche Paolo Vivaldi
disegno Luci Antonio Molinaro
regia LUCA MANFREDI
Con Flavio Insinna, Giulia Fiume
Roma, 18 febbraio 2025
Ci sono testi teatrali che, con il passare degli anni, non perdono smalto, anzi, si fanno ancora più rivelatori della società che li ha prodotti e di quella che li accoglie nel presente. “Gente di facili costumi”, scritto nel 1988 da Nino Manfredi e Nino Marino, è uno di questi. Se a prima vista potrebbe sembrare una commedia brillante, in realtà cela una struttura drammaturgica che fa da specchio alle dissonanze sociali e alle disillusioni umane. L’illusione della dignità, il peso delle aspettative frustrate, la solitudine mascherata dalla quotidianità: tutto questo torna, con nuova freschezza, in una messa in scena al Teatro Quirino di Roma, affidata alla regia di Luca Manfredi. Lo spettacolo si conferma una grande prova di teatro, capace di toccare corde profonde pur mantenendo intatto il gusto per il paradosso e la comicità. Il cuore della pièce risiede nella relazione tra i due protagonisti, Ugo e Anna, figure antitetiche eppure destinate a confrontarsi e a trasformarsi l’un l’altro. Lui è un intellettuale squattrinato e cinico, prigioniero di un mondo di idee e ambizioni artistiche che non riesce a concretizzare. Lei è una prostituta, ma con sogni ben chiari: non diventare ricca, non sfuggire alla sua realtà, bensì conquistare un piccolo spazio di felicità nel mondo semplice delle giostre di un luna park. Due destini distanti, apparentemente inconciliabili, ma che si ritrovano a condividere un ambiente ristretto, dove l’imprevisto e la necessità finiscono per abbattere le barriere di classe e di mentalità. Ugo si vede costretto a vivere nell’appartamento di Anna, in seguito a uno sfratto e a un tragicomico incidente domestico: un pretesto narrativo che diventa il vero motore dell’azione scenica, una convivenza forzata che dà vita a un meccanismo teatrale perfetto. Flavio Insinna raccoglie una sfida non indifferente: vestire i panni che furono di Nino Manfredi. E lo fa con un’intelligenza attoriale che gli permette di non cadere mai nella trappola dell’imitazione, bensì di rielaborare il personaggio di Ugo con una sensibilità che lo rende attuale senza snaturarlo. Il suo Ugo è un uomo nevrotico e colto, attraversato da un’ironia che maschera il fallimento. La sua comicità non è mai superficiale, ma sempre filtrata attraverso una vena malinconica che lo rende umano, vicino, riconoscibile. Accanto a lui, Giulia Fiume offre una prova straordinaria nei panni di Anna. Il personaggio, nella sua caratterizzazione originaria, rischia di essere stereotipato: la prostituta dal cuore d’oro, figura che la tradizione teatrale e cinematografica ha sfruttato fino all’usura. Ma la brava attrice riesce a sfuggire a questo pericolo grazie a un’interpretazione sfaccettata, che restituisce ad Anna una vivacità che non è solo apparente, ma esprime la consapevolezza di una donna che conosce il proprio mondo e sa navigarlo con arguzia e istinto. La sua fisicità è dirompente, il suo accento siciliano dona ulteriore verità alla performance, la sua risata è esuberante, ma anche un modo per tenere a bada le ferite della vita. Luca Manfredi affronta il testo con rispetto e misura. Non tenta di modernizzarlo forzatamente, ma ne conserva l’essenza, mantenendo la sceneggiatura nella sua epoca originale. Niente euro, niente cellulari, nessun aggiornamento che possa alterare la natura delle dinamiche tra i personaggi. Ed è una scelta vincente. La società è cambiata, certo, ma il cinismo del mondo dello spettacolo, l’ipocrisia delle relazioni sociali, la ricerca di un sogno anche nel fango delle difficoltà restano attuali, senza bisogno di essere piegati a una contemporaneità superficiale. La scenografia di Luigi Ferrigno è funzionale e racconta tanto senza eccessi: l’appartamento di Anna è un concentrato di caos, di colori pop, di oggetti ammassati che riflettono il suo carattere. Il tocco della scritta luminosa della Lavazza all’esterno è un piccolo capolavoro di evocazione visiva. Il disegno luci di Antonio Molinaro crea un’atmosfera quasi cinematografica, mentre le musiche di Paolo Vivaldi scandiscono i momenti chiave della narrazione. Il leitmotiv sonoro dello spettacolo è affidato a “Rumore” di Raffaella Carrà, brano che diventa quasi un terzo protagonista della storia, sottolineando la personalità vulcanica di Anna e il suo mondo fatto di eccessi e libertà. Ma la forza di “Gente di facili costumi” sta, prima di tutto, nei dialoghi. È una commedia fondata sulla parola, sulla capacità di costruire un ritmo in cui ogni battuta è un tassello di un mosaico più grande. Le battute di Ugo, intrise di citazioni alte e cultura accademica, si scontrano con la schiettezza di Anna, che smonta la pretenziosità con una semplicità spiazzante. È un continuo gioco di rimandi, di doppi sensi, di ribaltamenti di prospettiva che Insinna e Fiume padroneggiano con grande affiatamento. Il pubblico ride, senza dubbio, ma non si tratta di una risata fine a se stessa. È la risata della consapevolezza, del riconoscersi in certe dinamiche, dell’amarezza che traspare dietro la leggerezza apparente. C’è un momento in cui Anna esplode in un monologo sulla condizione delle donne, sulla violenza, sulla necessità di non arrendersi. È qui che lo spettacolo si fa improvvisamente serio, intenso, lontano da ogni stereotipo. Ed è qui che si coglie la vera grandezza di un testo che, a quasi quarant’anni dalla sua prima rappresentazione, continua a parlare con una voce chiara e potente. Il successo di questa edizione è più che meritato. Applausi a scena aperta, ovazioni finali: il pubblico riconosce quando il teatro sa ancora raccontare qualcosa di vero. E questo spettacolo lo fa, con intelligenza, con cuore, con una straordinaria capacità di trasformare la leggerezza in profondità.
Il Teatro alla Scala presenta una nuova produzione di Evegnij Onegin il capolavoro che Čajkovskij trasse dal dramma di Puškin che nel 1879 segnò una svolta nella storia dell’opera russa abbandonando affreschi storici e effetti spettacolari per concentrarsi sul ritratto interiore di un piccolo gruppo di personaggi. Scriveva il compositore: «Chi cerca la riproduzione musicale di sentimenti normali, semplici, universali, lontani dalla tragicità esteriore, dalla teatralità, sarà (spero) contento della mia opera». La guida musicale è affidata al giovane Timur Zangiev, messosi in luce sostituendo Valery Gergiev nella Dama di picche e consacrato al Festival di Salisburgo, e l’allestimento a Mario Martone che al suo decimo spettacolo scaligero torna al repertorio russo dopo la trionfale Chovanščina di Musorgskij del 2019: le scene sono come allora di Margherita Palli. Un’ora prima dell’inizio di ogni recita, presso il Ridotto dei Palchi “A. Toscanini”, si terrà una conferenza introduttiva all’opera tenuta da Franco Pulcini.
Teatro dell’Opera di Roma Stagione Lirica 2024/25
“LUCREZIA BORGIA”
Melodramma in un prologo e due atti
Libretto di Felice Romani da Victor Hugo
Musica di Gaetano Donizetti
Alfonso I d’Este ALEX ESPOSITO
Lucrezia Borgia LIDIA FRIDMAN
Gennaro ENEA SCALA
Maffio Orsini DANIELA MACK
Don Apostolo Gazella ARTURO ESPINOSA
Ascanio Petrucci ALESSIO VERNA
Oloferno Vitellozzo EDUARDO NIAVE*
Gubetta ROBERTO ACCURSO
Rustighello ENRICO CASARI
Astolfo ROCCO CAVALLUZZI
Usciere GIUSEPPE RUGGIERO
*diplomato “Fabbrica”, Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Valentina Carrasco
Scene Carles Berga
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 16 febbraio 2025
Assente dalle scene dall’ormai lontano 1980 quando fu rappresentata con un cast ed un allestimento che fecero epoca, torna al Teatro dell’Opera di Roma la Lucrezia Borgia di Donizetti per la direzione del maestro Roberto Abbado e la regia affidata a Valentina Carrasco. L’opera, eseguita in edizione critica e senza tagli, viene ambientata in uno spazio in cui predominano una perenne luce fredda, le tinte scure e privo di qualsiasi connotazione temporale sia in senso storico che geografico o della successione delle ore. La perversione morale della protagonista riscattata dalla maternità che costituisce lo spirito dell’opera è indubbiamente presente ed è anzi al centro della lettura proposta ma è affidata soprattutto alla parte visiva, con un bambino, il piccolo Gennaro, che le viene sottratto dal letto e poi ricompare ad hoc, la violenza del confronto con Alfonso esibita platealmente e non lasciata esprimere alla musica ed al più che esplicito libretto. Una grande maschera troneggia al centro della scena ed è spesso presente sul volto e sulla nuca dei personaggi forse a voler suggerire che nel profondo dell’anima gli esser umani sarebbero tutti intimamente mostruosi se non fossero adeguatamente schermati. Senza voler entrare troppo nel merito, crediamo che qui ci si allontani un po’ troppo liberamente dalle intenzioni espressive di un testo per altro molto diretto e lineare, con il rischio di perdersi in vane divagazioni. Un dettaglio per tutti ma esemplificativo del tipo di lettura proposta sta nella lettera che Gennaro gelosamente custodisce e che farà sciogliere in lacrime Lucrezia che non è conservata sul cuore del ragazzo dal quale “mai si parte” ma viene assai prosaicamente estratta dalla tasca di una giacchetta di foggia moderna. Comunque a parte qualche corsetta di troppo imposta agli interpreti e qualche movimento eccessivo, lo spettacolo nell’insieme funziona e aiuta a ritrovare sia pure con qualche monotonia la “tinta” del testo e della partitura. Assai energica è parsa la direzione del maestro Roberto Abbado, accurata negli accompagnamenti e più attenta alla percussività del ritmo sempre serrato che non alla trasognata melodia dei momenti lirici. In fondo solo pochi anni separano la Borgia dal Nabucco e un po’ del piglio del primo Verdi può giovare a vivacizzare alcune parti un po’ più deboli della partitura. Eccellente la prova del coro diretto dal maestro Ciro Visco per precisione musicale, varietà di colori e omogeneità timbrica. E veniamo agli interpreti di questa serata. Trionfatore assoluto nel ruolo del duca Alfonso è stato il basso Alex Esposito per ampiezza vocale, eleganza del fraseggio, intensità espressiva e brillante disinvoltura scenica. Nel ruolo eponimo Lidia Friedman dopo un inizio cauto ha saputo restituire nel bellissimo finale la giusta commozione e la bellezza musicale della sua lunga ed onerosa parte a dispetto di una regia a volte distraente. Corretto musicalmente ma forse troppo superficiale è risultato il Gennaro interpretato dal tenore Enea Scala anche lui forse più concentrato sui movimenti di regia che non sulle intime ragioni del testo e della musica. Incolore e probabilmente privo del necessario spessore vocale è parso il Maffio Orsini di Daniela Mack ed infine tutti di un discreto livello professionale gli interpreti dei numerosi ruoli minori fra quali vogliamo ricordare Eduardo Niave diplomato del progetto Fabbrica ed Alessio Verna più volte apprezzato in passato a Roma. Alla fine lunghi e calorosi applausi per tutti e soprattutto per un’opera di assoluto interesse e che ci si augura di vedere più spesso sul nostro palcoscenico. Photocredit Fabrizio-Sansoni-Opera-di-Roma-2025
Roma, Parco Archeologico del Colosseo, Curia Iulia
DA SHARJAH A ROMA LUNGO LA VIA DELLE SPEZIE
a cura di Eisa Yousif e Francesca Boldrighini
in collaborazione tra il Parco archeologico del Colosseo e la Sharjah Archaeological Authority, promossa da Sua Altezza lo sceicco Dr. Sultan bin Al Qasimi, membro del Consiglio supremo e sovrano di Sharjah
Un dialogo tra civiltà, un crocevia di culture e commerci che attraversano il tempo e lo spazio: la mostra Da Sharjah a Roma lungo la Via delle Spezie, ospitata nella Curia Iulia nel cuore del Foro Romano, si inserisce nel solco di una ricerca archeologica e storica volta a riconsiderare il ruolo della Penisola Arabica nelle grandi rotte commerciali dell’antichità. Una narrazione che si dipana attraverso reperti, manufatti e testimonianze materiali che raccontano la complessità di scambi e interazioni tra Oriente e Occidente tra l’epoca ellenistica e i primi secoli dell’Impero Romano. Il progetto espositivo, frutto della collaborazione tra il Parco archeologico del Colosseo e la Sharjah Archaeological Authority, porta per la prima volta in Italia le straordinarie evidenze archeologiche provenienti dai siti di Mleiha e Dibba, nel territorio dell’odierno Emirato di Sharjah. Qui, lungo le vie carovaniere che collegavano la Mesopotamia all’India e alla Cina, si svilupparono insediamenti fiorenti, luoghi di transito e di incontro tra mercanti, pellegrini e viaggiatori. L’ampiezza e la qualità dei materiali rinvenuti in queste aree rivelano un panorama ricco di suggestioni, in cui l’economia e la cultura si intrecciano in una rete di influenze reciproche. Al centro della mostra si impone la narrazione del commercio delle spezie, elemento cruciale della rete economica che legava la Penisola Arabica all’Impero Romano. Tra i prodotti più richiesti vi era l’incenso, essenza preziosa utilizzata nei culti religiosi, nella medicina e nella profumeria, che attraversava le rotte terrestri e marittime fino a raggiungere Roma. L’importanza di questo commercio è testimoniata dagli Horrea Piperataria, i magazzini per il pepe e le spezie situati nelle immediate vicinanze della Curia Iulia, recentemente restaurati e restituiti alla fruizione pubblica. I reperti esposti permettono di ricostruire la portata di questi scambi attraverso oggetti che provengono da contesti residenziali e funerari. Anfore vinare da Rodi e dall’Italia attestano la diffusione del vino nel Golfo Persico, segno di un gusto acquisito dalle élite locali. La ceramica fine sigillata, gli unguentari in vetro del Mediterraneo orientale e le sculture in alabastro d’importazione indiana rivelano la diffusione di modelli estetici e tecniche artigianali proprie del mondo greco-romano. Un set da vino in bronzo e una ciotola decorata con motivi ellenistici testimoniano il radicamento di pratiche conviviali che univano idealmente società geograficamente lontane. Un altro elemento di grande interesse è rappresentato dalle monete indo-greche e romane, che non solo attestano la circolazione di valuta in un’economia altamente interconnessa, ma dimostrano anche processi di assimilazione culturale: la presenza di coniazioni ibride, realizzate localmente ma ispirate a modelli romani e greci, è un indicatore chiaro della permeabilità e dell’adattabilità delle società coinvolte nei commerci transcontinentali. Il racconto della mostra si sofferma anche sulle pratiche funerarie di Mleiha, dove le tombe monumentali documentano la stratificazione sociale e il prestigio delle famiglie dominanti. Tra le più significative, quella scoperta nel 2015, con una struttura a forma di “H” e un lungo corridoio d’accesso, ha restituito un’iscrizione bilingue in sudarabico e aramaico, datata tra il 222 e il 214 a.C., che menziona un ispettore reale del regno dell’Oman. Questo dato è di eccezionale importanza per la ricostruzione della storia politica e amministrativa dell’area, evidenziando l’esistenza di un’organizzazione statale strutturata già in epoca ellenistica. I materiali esposti, tra cui recipienti in bronzo con decorazioni africane e arabe, attestano il dialogo tra le diverse tradizioni artigianali e figurative che coesistevano lungo le vie della Via delle Spezie. L’attenzione ai dettagli decorativi e l’uso di tecniche raffinate indicano la capacità delle popolazioni locali di reinterpretare influenze artistiche esterne, integrandole in un linguaggio estetico originale e identitario. L’allestimento, impreziosito da videoproiezioni immersive e da un catalogo scientifico curato da esperti internazionali, si propone di restituire al visitatore una visione ampia e articolata della storia economica e culturale della regione. Lontano da una visione eurocentrica, l’esposizione si configura come un’occasione per ripensare il Mediterraneo non solo come fulcro della storia antica, ma come una delle molteplici rotte di un sistema più ampio e complesso, in cui la Penisola Arabica assume un ruolo di primo piano. Questa mostra non è soltanto un’esplorazione archeologica, ma un’indagine sulle connessioni globali dell’antichità, in cui il movimento di merci, idee e persone ha contribuito alla formazione di società aperte e dinamiche. Un progetto che ci invita a riflettere sulle radici di una storia condivisa, in cui l’incontro tra culture non è un’eccezione, ma la norma di un mondo che, oggi come allora, si costruisce attraverso lo scambio e la reciproca influenza. Photocredit Parco Archeologico del Colosseo
Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“ORPHEUS GROOVE”
Ideazione, Scrittura Scenica, Regia Annalisa D’Amato
Drammaturgia Elvira Buonocore, Annalisa D’Amato
Con: ANDREA DE GOYZUETA, JULIETTE JOUAN, SAVINO PAPARELLA, STEFANIA REMINO, ANTONIN STAHLY
Musiche Annalisa D’Amato, Antonin Stahly
Scenografia Simone Mannino
Costumi Giuseppe Avallone
Sound Design Tommy Grieco
Luci Cesare Accetta
Consulente alla Teoria Musicale Massimiliano Sacchi
Napoli, 12 febbraio 2025
L’angoscia e la disperazione, a volte, determinano le nostre esistenze, e nei momenti di irrisolvibile noia vorremmo soltanto andare altrove. Un altrove indefinito. Ma la voglia di non essere più qui reca in sé, però, soltanto sentimenti inespressi e soffocati – segregati in una cassaforte, al riparo dalla «cattiveria» della vita. Prima, si faceva riferimento alla noia che, però, deve essere osservata come la percepivano i personaggi di Alberto Moravia che, proprio nel suo romanzo La noia, riesce stupendamente a definirla come una «mancanza di rapporti con le cose»; un sentimento che – sempre citando lo scrittore – «consiste principalmente nell’incomunicabilità» con la realtà e con le persone. Stefania Remino, al Bellini, dà corpo e voce alla protagonista di Orpheus Groove, lavoro teatrale ideato da Annalisa D’Amato. La protagonista appare sì annoiata, nel senso moraviano del termine, però sembra anche perfettamente vittima di una «disperazione» estetizzante o romantica. Per lei, però, la noia è anche stanchezza e disperazione inespressa. Il suo è un atteggiamento decadentistico dal carattere «anti-borghese»? È irrimediabile angoscia? Non lo sappiamo: il suo malessere esistenziale, il suo mal di vivere, il suo stato depressivo emergono con evidente chiarezza, soltanto che tutto ciò assume un tono puramente poetico e favolistico e non realistico; un’impostazione realistica avrebbe certamente giovato a una pièce teatrale come questa e alle alte intenzioni del lavoro teatrale (rappresentare, attraverso una rivisitazione del mito di Orfeo, la potenza terapeutica della musica e i suoi effetti benefici sulla mente e sul corpo nei momenti depressivi). La brevità della pièce, la drammaticità esistenzialistica della scena iniziale e la «rapidità», un po’ troppo ottimistica, attraverso cui avviene la risoluzione dei tormenti iniziali, incastrano il testo in una dimensione fiabesca, dal carattere frammentario e «cabarettistico»: la scrittura scenica (di D’Amato), fondamentalmente drammatica, viene interrotta da momenti di «sospensione»: momenti canori ed esecuzioni musicali, curati da D’Amato e Antonin Stahly, e adeguatamente affrontati dal professor Orpheus Shivandrim, fisico del suono e violinista (notevolmente interpretato dall’attore-musicista Stahly), e dalla sua équipe di scienziati (interpretati da Andrea de Goyzueta, Juliette Jouan, Savino Paparella). Incisi scenici anche simpatici (come l’esecuzione del brano Con una rosa di Vinicio Capossela), che si pongono in netto contrasto con la crudezza dei fatti raccontati: la non-vita di una giovane donna, il cui corpo produce soltanto ansia; sotto l’ansia, però, si celano sentimenti e pulsioni repressi. Un messaggio di speranza (decifrato dagli scienziati) si nasconde, infatti, nell’acufene che tormenta la ragazza, e che costringe il suo orecchio a subire la costante presenza di un suono acuto («il suono della fine», così definito dalla donna). Ma la vita, senza piaceri, non è più vita. E facendo ascoltare Gluck cantato da Maria Callas (J’ai perdu mon Eurydice, dall’Orphée et Eurydice) o eseguendo musiche di Bach col suo violino, il professor Shivandrim restituisce nuova vita alla donna. Questo lavoro teatrale è un’enorme partitura, determinata dalla coesistenza di linguaggi vari, da quello verbale a quello gestuale: parole e gesti, però, non sono stati inquadrati entro un’organizzazione gerarchica; una frase e un movimento assumono la medesima potenza espressiva e comunicativa e, dunque, la medesima «dignità» scenica: il «discorso» gestuale si affianca perfettamente alla musicalità delle varie lingue (italiano, francese e inglese) che determinano la partitura teatrale. È un progetto teatrale interessante e ambizioso, la cui brevità, però, consente un «approfondimento» parziale e non esaustivo dei temi trattati, risolti un po’ semplicisticamente attraverso un «ottimistico» epilogo canoro. Il disegno registico (di D’Amato) appare estremamente asciutto, determinato da una lucida scorrevolezza scenica – nonostante la struttura frammentaria del lavoro teatrale. In altri termini, si tratta di una pièce dal carattere dualistico: la concretezza «espressiva» del progetto registico, da un lato; dall’altro lato, l’essenza fiabesca o «mitica» del materiale narrativo. Essenza fiabesca ravvisabile anche nel cosiddetto «linguaggio delle cose», il materiale scenico: la scenografia, ideata da Simone Mannino e teneramente illuminata da Cesare Accetta, riproduce uno spazio artistico estremamente caratteristico e «pittoresco», scisso tra laboratorio scientifico e studio di registrazione: la versione reale di un’area vagamente magica, che sembra provenire da un film d’animazione. Spazio scenico impreziosito anche dai suggestivi costumi di Giuseppe Avallone, che riescono anche ad acquisire una potenza espressiva. A una dimensione favolistica sembra appartenere anche la scrittura drammaturgica (di Elvira Buonocore e Annalisa D’Amato) che, interpretata dagli attori, assume un carattere estremamente intimistico; una lettura «corale» del testo, determinata da un commovente e accogliente sentimentalismo. Un utilizzo «espressivo» dei microfoni consente agli attori di «amplificare» e marcare l’introspezione affettiva caratterizzante le loro interpretazioni. In definitiva, un lavoro teatrale accolto positivamente dal pubblico napoletano. Foto Lubtchansky, Anna Abet
Guido Alberto Fano (1875 -1961): Sette canti su poesie di Gabriele d’Annunzio (O strana bimba, O falce di luna calante, La stornellatrice, È il pomeriggio tacito, Per te germogli l’ecloga a li ozii, Si frangono l’acque odorose, … a l’avvenire); Ad Annie (Giosue Carducci); Il sogno della vergine (Giovanni Pascoli) (La vergine dorme; Stupisce le placide vene; Un figlio! che posa nel letto suo vergine!, Si dondola dondola dondola, Il lume inquieto ora salta guizzando); Le Lis (Alphonse de Lamartine). Tre canti per voce sola con accompagnamento di pianoforte (Luigi Arturo Bresciani) (In mezzo al verde mar, O palombella, Resurrezione); Due scene dall’opera Juturna (libretto di Ettore Tolomei). Silvia Frigato (soprano). Aldo Orvieto (pianoforte). Registrazione: Fazioli Concert Hall, Sacile, Italia, 15 -17 Marco 2023. T. Time: 58′ 22″. 1 CD Stradivarius STR 37284
Oggi quasi del tutto dimenticato, Guido Alberto Fano, che fu allievo prediletto di Giuseppe Martucci presso l’allora Liceo Musicale di Bologna, fu in realtà un personaggio di spicco nel panorama musicale della prima metà del Novecento. Compositore, direttore d’orchestra e pianista, Fano fu direttore del Conservatorio di Parma, incarico che assunse in seguito a un concorso in cui fu dichiarato unico vincitore da una commissione formata da Toscanini, D’Arienzo, Falchi, Gallignani, Zuelli, e, dopo aver rifiutato la nomina nel 1911 di insegnante e virtuoso di pianoforte al College of Music di Cincinnati, divenne nel 1912 direttore del Conservatorio di Napoli, nel 1916 di quello di Palermo e, infine, dal 1922 docente di pianoforte presso il Conservatorio di Milano. L’attività di insegnamento di Fano, che era di religione ebraica, fu purtroppo troncata dalle leggi razziali del 1938 che lo costrinsero a rifugiarsi fino al 1946 a Fossombrone e ad Assisi.
Ripresa l’attività d’insegnamento dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Fano andò in pensione nel 1947. Varia e vasta è produzione di Fano, comprendente due opere liriche (Astrea e Juturna), diversi lavori sinfonici e da camera, composizioni pianistiche. All’interno di essa riveste una certa importanza quella delle liriche per canto e pianoforte, che Fano chiamò canti, come, del resto, fecero i suoi più illustri e di lui poco più giovani colleghi delle Generazione dell’Ottanta, e che costituisce anche il programma di questa proposta discografica dell’etichetta Stradivarius. Dei Canti di Fano è possibile ascoltare un’ampia antologia a partire dai Tre canti del 1895 su testi di Luigi Arturo Bresciani, poeta ravennate morto nel 1890, e sicuramente meno conosciuto di Giovanni Pascoli, del quale nel 1913, un anno dopo la scomparsa del poeta, il compositore avrebbe messo in musica il poemetto Il sogno della vergine, e di Gabriele D’Annunzio, i cui testi sarebbero serviti per ben sette liriche da lui composte, nel 1945, nel suo rifugio insieme alla famiglia ad Assisi presso un convento di clarisse francesi.
Completano il programma Le Lis che, essendo scritta su una poesia di Alphonse de Lamartine, è l’unica lirica di Fano che si avvale di un testo in lingua straniera, Ad Annie, su testo di Carducci, e due scene dall’opera Juturna, composta tra il 1909 e il 1912 su libretto di Ettore Tolomei. Dall’ascolto di queste pagine, si evince la grande attenzione di Fano ai valori espressivi dei testi scelti che vengono esaltati da una forma di lirismo che mai cede a una facile orecchiabilità, ma ha sempre come fine ultimo la parola, della quale vengono messi in evidenza anche gli aspetti fonosimbolistici soprattutto nelle liriche pascoliane. Molto bella l’interpretazione di Silvia Frigato, estremamente convincente nell’esaltare i valori espressivi di questa produzione e curata nell’intonazione e nel fraseggio. Il soprano è ben accompagnato da Aldo Orvieto, che non solo trova delle sonorità perfettamente funzionali ad esaltare il canto, ma si mostra particolarmente espressivo anche nei momenti in cui si trova da solo, come quello dell’Eterno dolore tratto dall’opera Juturna.
Milano, Teatro Factory 32
“CASA DI BAMBOLA, PARTE 2”
Nora Alice Mistroni
Torvald Simone Leonardi
Anne Marie Antonia Di Francesco
Emmy Erica Sani
regia, traduzione e adattamento Claudio Zanelli
produttore esecutivo Giuseppe Musmarra
aiuto regia Ginevra Ciuni
assistenti di produzione Marco Carnevali, Marta Lacognata
originally produced on Broadway by Scott Rudin, Eli Bush, Joey Parnes, Sue Wagner, and John Johnson. commissioned and first produced by South Coast Repertory.
A DOLL’S HOUSE, PART 2 benefited from a residency at New Dramatists.
Dopo il successo in apertura di stagione (che noi non ci siamo fatti scappare, vedi recensione), ritorna alla fACTORy 32 uno dei più interessanti esempi del teatro americano contemporaneo, quel “Casa di Bambola, parte 2” che si è guadagnato un Tony Award nel 2017, a firma di Lucas Hnath. Un passo importante per il piccolo ma vitalissimo spazio off milanese, che diventa ora coproduttore dello spettacolo – che rimane, per ora, una prima nazionale. I ripetuti sold out dell’autunno hanno giustamente scaldato il cuore del regista Claudio Zanelli e della fondatrice della fACTORy 32, Valentina Pescetto, che reputa questo “un testo straordinario, fortemente attuale, che rispecchia quello che fACTORy 32 ricerca.” Ambientata 15 anni dopo la conclusione del testo originale, la storia riparte proprio dalla fine. La porta sbattuta dalla protagonista Nora Helmer si riapre: Nora deve far ritorno nella casa che aveva abbandonato. Diventata ormai una scrittrice di successo e sostenitrice dei diritti delle donne, Nora ha bisogno di recidere un ultimo legame con il marito Torvald, un vincolo inatteso che getta un’ombra su tutte le sue conquiste. Così prende il via un atto unico che, pur trattando temi importanti, si sviluppa come una commedia capace di far ridere il pubblico, offrendo al tempo stesso un’intensa ma anche divertente riflessione sui rapporti umani e sulle aspettative sociali. “Un piccolo gioiello mai tradotto prima d’ora, un crescendo di parole, anime, emozioni che tiene lo spettatore incollato alla poltrona”, racconta il regista Claudio Zanelli. “Lo incolla alla poltrona e lo mette in crisi, rendendolo incapace di schierarsi. È un testo di una potenza incredibile. Come il classico di Ibsen, spiazzante e stupefacente”. INFO: www.factory32.it BIGLIETTI: https://bit.ly/biglietti_casabambola2_factory32_new
Primo appuntamento lirico della stagione 2025 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: domenica 16 febbraio 2025 alle ore 17 la prima recita di Rigoletto, il capolavoro di Giuseppe Verdi che torna in scena nell’allestimento del 2021 firmato da Davide Livermore ripreso da Stefania Grazioli. Sul podio della Sala Grande, alla testa dell’Orchestra e del Coro del Maggio, il maestro Stefano Ranzani. Il maestro del Coro del Maggio è Lorenzo Fratini.
La compagnia di canto è formata da Daniel Luis de Vicente (Leon Kim nella recita del 18/2) nella parte di Rigoletto; Celso Albelo (Duca di Mantova), Olga Peretyatko (Gilda). Alessio Cacciamani (Sparafucile; Janetka Hosco (Giovanna); Eleonora Filipponi (Maddalena); Manuel Fuentes (Monterone) e Yurii Strakhov (Marullo). Huigang Liu e Letizia Bertoldi sono rispettivamente il Conte e la Contessa di Ceprano e Daniele Falcone interpreta Matteo Borsa. Chiudono il cast, rispettivamente nei ruoli del Paggio e dell’Usciere di corte, Aloisia De Nardis e Egidio Massimo Naccarato.
Altre tre le recite in programma: il 18 e il 20 febbraio alle ore 20 e domenica 23 febbraio alle ore 15:30.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
STRAPPO ALLA REGOLA
scritto e diretto da EDOARDO ERBA
Con MARIA AMELIA MONTI, CLAUDIA GUSMANO
con la partecipazione in video di
ASIA ARGENTO
MARINA MASSIRONI
SEBASTIANO SOMMA
e con
DANIELE GAGGIANESI
GIUSEPPE LELLI
FRANCESCO MEONI
SABINA VANNUCCHI
FABIO ZULLImusiche MASSIMILIANO GAGLIARDI
scena LUIGI FERRIGNO/SARA PALMIERI
costumi GRAZIA MATERIA
direttore della fotografia TANI CANEVARI
produzione video DAVIDE DI NARDO
luci DAVID BARITTONI
Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo
Siamo in un cinema e sullo schermo proiettano un film dell’orrore. Orietta, un personaggio secondario del film, sta per essere raggiunta da un misterioso assassino, ma riesce inaspettatamente a sfuggirgli… uscendo da uno strappo dello schermo. Si ritrova nella sala cinematografica deserta dove incontra Moira, la maschera del cinema. Moira pensa di essere impazzita, ma deve ricredersi perché Orietta è viva e le chiede aiuto. Temendo di perdere il posto di lavoro, Moira cerca di convincere Orietta a ritornare nel film per farsi assassinare. Ma Orietta è decisa a cambiare il suo destino. Mentre sullo schermo i personaggi del film girano a vuoto, Moira si confida: è una donna disperata, che vive una relazione tossica, da cui non riesce a uscire. Ora è Orietta a incoraggiare Moira a trovare lo “strappo” per scappare da una storia dell’orrore. E alla fine sarà proprio lei a salvarla. Con una inedita interazione fra Teatro e Cinema, con una comicità dai ritmi incalzanti, la nuova commedia di Edoardo Erba ci tiene sospesi in un mondo di mezzo fra realtà e fantasia, e va dritta al cuore, attraversando con leggerezza i nostri incubi peggiori. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE
uno spettacolo di lacasadargilla
parole di Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
cura dei contenuti Maddalena Parise
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
aiuto regia Alice Palazzi / Caterina Dazzi
assistente al disegno luci Omar Scala
scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Davide Lago, Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia
scenografie decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Rebecca Zavattoni
costumi realizzati da Officina Farani
consulenza alle scenografie Annalisa Poiese
foto di scena Claudia Pajewski
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
in collaborazione con lacasadargilla
con il sostegno di ATCL
si ringrazia per l’ospitalità in residenza Carrozzerie ǀ n.o.t.
con la collaborazione di Teatro Asioli – Correggio
Il testo Il Ministero della Solitudine è pubblicato nella collana Linea di Emilia Romagna Teatro Fondazione ERT / Teatro Nazionale e Luca Sossella editore a cura di Sergio Lo Gatto e Debora Pietrobono. Il libro è stato curato da Maddalena Parise / lacasadiargilla e Fabrizio Sinisi. Lisa Ferlazzo Natoli firma insieme al regista e disegnatore del suono Alessandro Ferroni, Il Ministero della Solitudine, nuovo spettacolo di lacasadargilla. Il lavoro, una scrittura interamente originale a cura di tutto l’ensemble, si avvale della collaborazione di Fabrizio Sinisi, che cura la drammaturgia del testo, e di Marta Ciappina che cura invece la drammaturgia del movimento. Lo spunto dello spettacolo nasce da una notizia di cronaca politica internazionale. Nel gennaio 2018, la Gran Bretagna ha nominato ufficialmente un ministro della Solitudine, il primo al mondo, per far fronte ai disagi che questa può̀ provocare a livello emotivo, fisico e sociale. L’anno successivo viene inaugurato il relativo Ministero, «istituzione dalla natura politicamente ambigua e dalle finalità̀ incerte».
A partire da questa vicenda, la compagnia lacasadargilla inaugura una riflessione su un luogo – reale e immaginifico – capace di operare con linguaggi e dispositivi narrativi intorno ai desideri, ai rimossi e alle immaginazioni di un’epoca che sempre più̀ richiede di ragionare con cura sulle comunità̀ dei viventi. Una scrittura originale di, con e per cinque attori, strutturata per flash, incontri, incidenti e costituita da partiture fisiche all’orlo di una danza. Una storia che indaga la solitudine innanzitutto come incapacità̀, come difficoltà del desiderio – oggetto non controllabile per definizione – a trovare una corrispondenza, avendo in sé una speranza troppo alta, spericolata o eccessiva, per potersi mai realizzare. O ancora quella solitudine in cui si sprofonda perché́ ciò̀ che è successo è irrecuperabile, e non interessa a nessuno. Scrive lacasadargilla: «Mantenendone ferma la natura “leggera” e incidentale – come nell’improvviso rendersi conto che la propria vita è racchiusa in un acquario – abbiamo immaginato una struttura articolata attorno a cinque vicende, cinque storie di solitudine. Dell’Istituzione Ministero ne viene definita la natura politica sostanzialmente ambigua e tragicamente comica. È un luogo dove la liberazione del desiderio può attutire l’isolamento? Come si classifica una persona sola? C’è un sussidio di solitudine? In cosa consiste e chi ne ha diritto? Con cosa bisogna coincidere per essere definiti soli e dunque appartenere a una categoria riconosciuta? È lo scandalo della solitudine. È l’affollamento degli assenti nelle nostre vite, siano essi vivi, deceduti, spettri o tutta la moltitudine degli incontri mancati. Solitudine tutta contemporanea, di un’allegrezza insidiosa e irragionevolmente lieve. Solitudine come atlante di ricordi, catalogo di gesti, per percorrere il mondo e trattenere qualcosa di un noi; solitudine incarnata in alcuni oggetti, quasi dei kit di sopravvivenza: uno scatolone con tutta la vita dentro, un barattolo di miele fatto in casa, una pianta di plastica verde acceso, un set da pic-nic pronto all’uso, come se fossero ‘sacche di storie’, utensili eccessivi e numinosi per un’esistenza fuori dal normale». Alma (Giulia Mazzarino) esce poco, le fa paura la materia che esplode, scompare e si trasforma. Raccoglie ogni traccia del proprio presente: il rumore di un’ape quando muore o come suona il mondo fuori dalla sua stanza. Dorme per sognare, a lungo e a colori. (Francesco Villano), è l’unico di cui non sapremo mai il nome completo, sempre alle prese con difficoltà economiche, chiede a più̀ riprese un sussidio al Ministero per la costruzione di un alveare; è ossessionato dal pensiero dell’estinzione. Primo (Emiliano Masala) è di poche parole. Ha come unico partner una Real Doll, Marta, con cui parla e accanto a cui silenziosamente sogna. Per professione è un “cleaner – moderatore”, pulisce i social network da contenuti giudicati non ammissibili. Simone (Tania Garribba) è un’impiegata del Ministero. È una sorta di emanazione stessa del Luogo: incarna i cataloghi, le procedure, i protocolli di tutti gli specifici casi di solitudine che le passano tra le mani. È una figura che intercetta, organizza e riscrive le tracce e le ‘vite degli altri’. Teresa (Caterina Carpio) è fatta di atti mancati, oscilla tra aspirazioni borghesi e bovarismo. Scrive un lunghissimo romanzo che presto presenterà̀ al mondo – o almeno così lei crede. Ha un linguaggio ridondante, acceso, letterario, che sembra girare a vuoto. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Sala Umberto
AMANTI
con FABRIZIA SACCHI
e con ORSETTA DE ROSSI, ELEONORA RUSSO, DIEGO D’ELIA
scene di Monica Sironi
costumi di Alberto Moretti
luci di Gianfilippo Corticelli
produzione Diana Or.i.s Produzioni
una commedia scritta e diretta da IVAN COTRONEO
Amanti è una commedia sull’amore, sul sesso, sul tradimento e sul matrimonio, sulle relazioni e in definitiva sulla ricerca della felicità che prende sempre strade diverse da quelle previste. È settembre. Claudia e Giulio si incontrano per la prima volta davanti a un ascensore, nell’atrio di un palazzo borghese. Le porte si aprono. Lei sta andando via, lui deve salire. Ma Claudia si accorge di avere dimenticato un fazzoletto su, e risale con Giulio. L’appartamento al quale sono diretti è lo stesso: scoprono infatti solo ora che entrambi frequentano la stesso analista, la dottoressa Gilda Cioffi, psicoterapeuta specializzata in problemi di coppia. Due mesi dopo ritroviamo Claudia e Giulio in una stanza d’albergo. Stanno facendo l’amore. Sono diventati amanti. Entrambi sposati, Giulio con moglie e tre figli, Claudia con un marito più giovane di lei con il quale sta cercando di avere un bambino, si vedono regolarmente e clandestinamente per stare insieme. E si dicono che è solo sesso, avventura, evasione. Ma può essere davvero così quando due persone si incontrano ripetutamente e pretendono di controllare sesso e amore? Una progressione temporale fatta di equivoci, imbrogli, passi falsi, finte presentazioni, menzogne, incasinamenti, prudenza, e anche guai evitati per miracolo. Fino a quando qualcosa stravolge tutti gli equilibri. Una commedia brillante e divertente, con situazioni e dialoghi che strappano risate, ma anche un’esplorazione dei sentimenti di una coppia che nella clandestinità trova rifugio, conforto, divertimento, ma anche affanno, preoccupazione, e forse pericolo. “I temi di Amanti mi appartengono da sempre. Nei miei romanzi, nei film, nelle serie televisive che ho scritto e diretto, il confronto tra il maschile e il femminile, la rottura degli stereotipi di genere, la prepotente forza del sesso e quella ancora più devastante dell’amore, hanno sempre avuto grande spazio, nel tentativo continuo di raccontare l’evoluzione della società e del costume attraverso le relazioni amorose. Nella commedia questi temi prendono forma in un racconto moderno ed estremamente divertente, ma anche pieno di tenerezza e verità, come sempre succede nella commedia della vita.” IVAN COTRONEO
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
La Pirandelliana
presenta
GENTE DI FACILI COSTUMI
di Nino Marino e Nino Manfredi
scene Luigi Ferrigno
costumi Giuseppina Maurizi
musiche Paolo Vivaldi
disegno Luci Antonio Molinaro
regia LUCA MANFREDI
Con Flavio Insinna, Giulia Fiume
Andato in scena per la prima volta nel 1988, con lo stesso Nino Manfredi nei panni del protagonista, questo testo è considerato ancora oggi uno dei più eclatanti apparso sulle scene teatrali italiane negli ultimi decenni. Protagonisti della pièce sono Anna – nome d’arte “Principessa” – una prostituta disordinata e rumorosa che sogna di diventare “giostraia” e Ugo, l’inquilino del piano di sotto, un intellettuale che vivacchia scrivendo per la tv e per il cinema ma che sogna di fare film d’arte. La vicenda prende il via la notte in cui Ugo sale al piano di sopra per lamentarsi con la coinquilina che tornando a notte fonda e accendendo il giradischi l’ha svegliato e lei, per la confusione, lascia aperto il rubinetto dell’acqua della vasca allagando irrimediabilmente l’appartamento di lui. Ugo sarà costretto quindi, anche a causa di uno sfratto, a trovare rifugio dalla “Principessa”. Con questa convivenza forzata inizia un confronto/scontro costellato di incidenti e incomprensioni, ma anche un curioso sodalizio, dove ciascuno condivide con l’altro ciò che ha. Le reciproche posizioni vanno mano a mano ammorbidendosi perché diventa chiaro che ad incontrarsi non sono state solo due vite agli antipodi, ma soprattutto due sogni all’apparenza irrealizzabili. Dall’incontro tra Anna e Ugo nasce un turbine di disastri, malintesi, ilarità e malinconie pienamente in sintonia con l’immagine che il loro autore, Nino Manfredi, ha lasciato nel ricordo di ognuno di noi. Ecco come Manfredi presentava il suo testo: “Gente di facili costumi è una commedia che sviluppa, in maniera paradossale, un fondamentale problema etico. In una società come la nostra, dove tutto si avvilisce e si corrompe, che valore hanno ancora l’onestà, la dignità, il rispetto dei più profondi valori umani? Lo sport […] diventa sempre più truffa e violenza. Gli ideali politici […] difendono gli interessi più strettamente privati. La creatività e la fantasia sono messi al servizio dell’imbonimento pubblicitario […]. Senza continuare a fare altri esempi, è evidente che viviamo in una società in cui i valori più elevati vengono svenduti e liquidati, perché il bello, il buono e il vero sono asserviti all’utile”. Qui per tutte le informazioni.
Vincenzo Bellini: “La Straniera”
Melodramma in due atti di Felice Romani dal romanzo “L’Étrangère” del Visconte Charles-Victor Prévost D’Arlincourt.
Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 14 febbraio 1829
Alaìde (La Straniera) – Alexandrina Pendatchanska
Il signore di Montolino – Ezio Maria Tisi
Isoletta, di lui figlia, fidanzata ad Arturo – Francesca Provvissionato
Arturo, conte di Ravenstel – William Joyner
Il barone di Valdeburgo – Vladimir Chernov
Il priore degli Spedalieri – Lorenzo Cescotti
Osburgo, confidente di Arturo – Luca Casalin
Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini di Catania
Direttore – Alain Guingal
Regia – Alberto Fassini
Scene e Costumi – William Orlandi
Catania, 3 novembre 2001
Roma, Teatro Sistina
TOOTSIE
Musica e Testi DAVID YAZBEK
Libretto ROBERT HORN
Tratto dalla storia di Don McGuire e Larry Gelbart e dal film Columbia Pictures prodotto da Punch Productions interpretato da Dustin Hoffman
Scene TERESA CARUSO
Costumi CECILIA BETONA
Luci UMILE VAINIERI
Suono STEFANO GORINI
Coreografie ROBERTO CROCE
Direzione musicale EMANUELE FRIELLO
Adattamento italiano e Regia MASSIMO ROMEO PIPARO
con
PAOLO CONTICINI Michael/Dorothy
con la partecipazione di
ENZO IACCHETTI Jeff
BEATRICE BALDACCINI Julie
ILARIA FIORAVANTI Sandy
MATTEO GUMA Max
MASSIMILIANO CARULLI Ron
GEA RAMBELLI / ELENA MANCUSO Rita
SEBASTIANO VINCI Stan
NICO COLUCCI Clark
FABRIZIA SCACCIA Suzie
ROBERTO TARSI Stuart
Ensemble MARTINA BASSARELLO – BENJAMIN BEMPORAD – MATTEO GERMINARIO – SILVIA GIACOBBE PAOLO GIAMMONA – GINEVRA GROSSI – CLARA INTORRE – ALICE LONGO – DENIS SCOPPETTA
Roma, 13 febbraio 2025
Nell’universo cangiante del teatro musicale, dove il dialogo tra realtà e finzione si consuma nel gioco delle maschere e delle identità, giunge sulle scene italiane “Tootsie”, il musical che Massimo Romeo Piparo ha sapientemente adattato e diretto, ispirandosi al celebre film di Sydney Pollack del 1982 con un magistrale Dustin Hoffman. Dopo una fortunata tournée nazionale, lo spettacolo approda ora al Teatro Sistina di Roma, pronto a confermare il suo successo di pubblico e critica. Il fulcro narrativo dell’opera ruota attorno alla vicenda di Michael Dorsey (Paolo Conticini), attore talentuoso ma dal temperamento irriducibile, la cui intransigenza lo ha reso inviso a produttori e registi, costringendolo a una carriera frammentaria e a un’occupazione di ripiego come cameriere. Escluso da ogni possibilità lavorativa, Michael compie un gesto estremo e, travestendosi da donna, si reinventa Dorothy Michaels, conquistando il ruolo principale in un musical ispirato a “Romeo e Giulietta”. L’inganno, tuttavia, genera un vortice di complicazioni, soprattutto quando il protagonista si scopre innamorato della sua partner di scena, Julie (Beatrice Baldaccini), costringendolo a un dilemma esistenziale tra verità e artificio. Paolo Conticini si conferma un interprete solido e versatile, capace di affrontare con disinvoltura il doppio ruolo di Michael e Dorothy. La sua interpretazione è misurata, evitando il rischio della caricatura e costruendo un personaggio credibile, sia nella dimensione maschile che in quella femminile. La sua presenza scenica è efficace, e la gestione del linguaggio del corpo contribuisce a rendere graduale l’evoluzione del protagonista. Dal punto di vista vocale, pur non eccellendo in modo particolare, Conticini offre una prestazione convincente, con una buona tenuta musicale che accompagna con naturalezza il racconto senza particolari virtuosismi. Il suo carisma scenico e la capacità di sostenere il ritmo serrato del musical ne fanno un punto di riferimento per la compagnia, assicurando una performance complessivamente riuscita. La riscrittura di Piparo si inserisce con intelligenza nella contemporaneità, evidenziando il sottotesto di riflessione sull’identità di genere e sul patriarcato. Il personaggio di Michael, attraverso l’alter ego Dorothy, sperimenta il pregiudizio e il diverso sguardo che la società riserva alle donne, un’esperienza che lo porta a una consapevolezza profonda e inattesa. In tal senso, la battuta conclusiva – “Sono stato un uomo migliore con te, da donna, di quanto non lo sia stato con le altre donne… da uomo. Devo solo imparare a farlo… senza la gonna!” – diventa una dichiarazione di intenti che supera il mero gioco teatrale per abbracciare una più ampia riflessione sociale. Accanto alla trama principale, la commedia si arricchisce di personaggi secondari che donano ritmo e vivacità alla narrazione. Jeff (Enzo Iacchetti), coinquilino e amico di Michael, si configura come una spalla comica capace di bilanciare il registro ironico e quello più riflessivo dello spettacolo. Iacchetti, con il suo inconfondibile stile, regala momenti di puro divertimento, impreziositi da battute sagaci e da un’interpretazione musicale di grande impatto. Notevole anche la performance di Ilaria Fioravanti nel ruolo di Sandy, personaggio dal registro volutamente esasperato, la cui aria da “sfigata” innamorata contribuisce a una comicità surreale e irresistibile. Il cast si distingue per una coesione armonica, nella quale ogni interprete trova spazio per esprimere il proprio talento. Beatrice Baldaccini, nel ruolo di Julie, sfoggia un timbro vocale duttile, alternando morbidezza e potenza nelle varie sfumature musicali, mentre Matteo Guma, nei panni di Max – un attore scelto più per la sua popolarità che per le sue reali capacità sceniche – incarna perfettamente lo stereotipo dell’interprete improvvisato, conferendo al personaggio una sfumatura grottesca. Sul piano visivo, lo spettacolo si avvale di una scenografia dinamica ideata da Teresa Caruso, che attraverso soluzioni tecnologiche avanzate e proiezioni immersive ricostruisce con efficacia le atmosfere newyorkesi, spaziando dall’intimità dell’appartamento di Michael alle luminose insegne di Broadway. Il disegno luci di Umile Vainieri amplifica il carattere spettacolare dell’opera, accompagnando con coerenza drammaturgica i cambi di registro emotivo. I costumi di Cecilia Betona, in perfetto stile anni ’80, accentuano l’impatto estetico della messinscena, mentre le coreografie di Roberto Croce si inseriscono con fluidità nell’ordito narrativo, offrendo momenti di autentico virtuosismo interpretativo. “Tootsie” si conferma dunque un’operazione teatrale in fin dei conti riuscita, capace di intrecciare leggerezza e profondità, comicità e critica sociale. Il pubblico del Sistina ha seguito lo spettacolo con entusiasmo crescente, esplodendo in fragorosi applausi e ovazioni a scena aperta.
Roma, Sala Umberto
ELENA, LA MATTA!
liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia “La matta di piazza Giudia” edito da Casa Editrice Giuntina
Drammaturgia Elisabetta Fiorito
con i musicisti Valerio Guaraldi e Claudio Giusti
musiche di Valerio Guaraldi
Scene Alessandro Chiti
Costumi Giulia Pagliarulo
Disegno Luci Gerardo Buzzanca
con il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah
produzione Altra Scena & Goldenart Production
Regia di Giancarlo Nicoletti
Roma, 05 febbraio 2025
Se pensate di trovare uno spettacolo leggero per “staccare la spina”, preparatevi a cambiare idea. Elena, la matta è un turbinio di emozioni, un’esperienza che vi riporta indietro nel tempo, ma senza mai perdere il contatto con la realtà. Non aspettatevi una lezione di storia polverosa e noiosa. Questo è un viaggio intenso e frenetico nel cuore di una Roma sotto il regime fascista, con una protagonista che non solo occupa la scena, ma vi entra dentro, senza lasciarvi più. La protagonista, Elena Di Porto, è una figura che fa tremare i polsi. Una donna che nel 1912, nata in una famiglia ebraica umile e con un carattere che definire “particolare” sarebbe un eufemismo, venne etichettata “matta” dal regime. Ma in realtà, era troppo avanti, troppo libera, troppo viva per rientrare nelle etichette comode che gli altri le volevano appioppare. Ribelle, antifascista, donna indipendente e temeraria, Elena combatteva le ingiustizie con la stessa intensità con cui affrontava la vita. Lo spettacolo, scritto dalla giornalista Elisabetta Fiorito, prende spunto dal libro storico di Gaetano Petraglia, La Matta di Piazza Giudia, un racconto che, tra documenti e testimonianze inedite, ci restituisce la verità di una donna che sfidò le imposizioni del suo tempo. Elena, la matta è una corsa contro il tempo e contro le ingiustizie, in un’epoca in cui Elena è “troppo” di tutto: troppo povera, troppo ebrea, troppo “indomabile”. Il suo “essere matta” era semplicemente il rifiuto di conformarsi, di tacere davanti alle atrocità del regime fascista. La verità è che Elena non era affatto matta: era incredibilmente lucida, più di chiunque altro, ed era consapevole di una sola cosa: che il vero “folle” era chi piegava la testa davanti alle ingiustizie. Un’idea molto apprezzata è l’inserimento delle vere voci di Mussolini, quelle che hanno segnato la vita di milioni di persone. Sentirle in quel contesto non fa rimanere indifferenti: sono le voci che danno ordine a tutto, che decidono chi è sano e chi è pazzo. Un potere che ti schiaccia, ti classifica e ti etichetta. Un incubo da cui Elena, la matta, non smette di lottare per svegliarsi. La scenografia è essenziale. In primo piano c’è Paola Minaccioni che interpreta Elena con una forza magnetica, raccontandosi direttamente al pubblico, in un luogo intimo dove attrice e personaggio si fondono. Dietro, lo spazio si allarga e diventa una sorta di memoria viva, dove il suono dei musicisti, Valerio Guaraldi e Claudio Giusti, arricchisce la tensione crescente e amplifica le emozioni più oscure della protagonista. La scenografia è un gioco di luci e ombre che, grazie all’intensità del lavoro di Gerardo Buzzanca, fa sentire la solitudine di Elena, ma anche l’oppressione che la circonda. Ma quando si parla di Elena, la matta, non si può fare a meno di Paola Minaccioni. Ci sono attori che in teatro si perdono. Paola Minaccioni, invece, esplode. In questa performance dimostra quanto il suo talento possa essere più potente di qualsiasi altro mezzo: il suo respiro affannoso e rabbioso, la sua risata folle e malinconica, le sue urla silenziose ma assordanti. Ogni parola, ogni gesto è un colpo al cuore. Se il grande schermo ha conosciuto la sua faccia, è il teatro che la fa emergere ancora di più, dove il suo talento è ancora più tangibile, senza filtri. La sua performance è pura energia: ogni sguardo, ogni gesto, ogni parola vibrano di una potenza straordinaria. Un attimo in cui fissa il pubblico, in silenzio, e con uno sguardo ti strappa l’anima, è un’esplosione di intensità che ti lascia senza fiato. Il suo talento è viscerale, passando da un’incredibile ironia a una tragedia dolorosa. La sua interpretazione raggiunge il culmine sulle note di “Le Mantellate”, dove riesce a mostrare tutta la sua forza. Le musiche, di Valerio Guaraldi, sono parte integrante della narrazione. Sono la voce di Elena nei momenti di silenzio, il battito del cuore che accompagna ogni sua battaglia, ogni sua fuga. Quando la tensione sale, la musica diventa un urlo, quando la speranza si affaccia, diventa dolce. Le note non accompagnano, ma raccontano. Alla fine dello spettacolo, il pubblico non ha bisogno di parole. Il silenzio, pieno di emozione, è più potente di mille applausi. Ma, come ogni grande spettacolo, quando il silenzio si rompe, l’applauso esplode lungo e sentito, come un tributo a una storia che deve essere raccontata e ricordata. Elena, la matta è memoria, è emozione pura, è denuncia. È la storia di una donna che ha lottato con il suo cuore e la sua mente, e che non può essere dimenticata. La sua voce, oggi, è ancora qui con noi. Photocredit GuglielmoVerrienti_AgCubo
Il colloquio con Salvatore Sciarrino nasce dall’incontro al Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna. L’intervista va intesa come approccio verso una musica che necessita di percezione e nuovi modi di essere pensata, avvicinandoci, attraverso alcuni aspetti dei suoi lavori, al modo di comporre.
Come si colloca l’opera di Sciarrino all’interno della musica contemporanea?
Preferisco indicare alcuni aspetti, anziché dare definizioni rigide. La mia è una musica acustica, ecologica. Fisiologica, cioè formata da fenomeni periodici; la musica respira sia per l’ampiezza delle proporzioni periodiche (che possono essere molto variabili), sia perché essa introduce la percezione fisica del respiro amplificato dagli strumenti, in particolare dal flauto.
Le mie emissioni strumentali non sono quelle consuete; questa musica suona diversa dalle altre e decisamente irreale. Il tempo è discontinuo e multidimensionale; come per uno zapping, salta da una dimensione all’altra. Le articolazioni melodiche vengono fortemente geometrizzate e direzionate (quasi fossero vettori) perciò risultano originali ed espressive. Non avendo mai posto confini per separare antico e moderno, etnologico ecc., talvolta frammenti di musiche estranee si affacciano all’interno del mio discorso sonoro.
Può descrivere la figura del compositore oggi e quanto è cambiata rispetto al passato?
La vita è di per sé cambiamento: muta la società, mutano le persone. Porto un solo esempio. sarebbe possibile pensare Beethoven senza le marce militari? Assolutamente no. Gli eserciti si spostavano a piedi e le marce facevano parte del quotidiano urbano di allora. Niente di ciò oggi è sopravvissuto.
Viaggiamo in macchina, in treno, in aereo e dunque la nostra percezione dello spazio/tempo è ormai diversissima; lontana per sempre pure dall’epoca di Mozart con le sue carrozze a cavalli. La figura attuale del compositore non può essere la stessa rispetto a qualunque altra epoca, sebbene ci illudiamo che tutto debba tendere alla stabilità.
Nel suo libro Le figure della musica da Beethoven a oggi, relativamente alla scarsa diffusione della musica contemporanea, dichiara che l’indifferenza “non deriva tanto da mancanza di comprensione del moderno, quanto all’antico”. Può chiarire ulteriormente?
Oggi siamo sommersi dalla musica. Dappertutto, nelle strade, nei caffè, nei negozi. Restiamo storditi da questo sottofondo e non prestiamo più attenzione alla musica, e il silenzio ci viene sottratto. Questo uso commerciale della musica, il puro intrattenimento, è un modo di soffocare le persone, di togliere i momenti di vuoto necessari per riflettere sulla propria situazione umana e sociale.
Per godere di qualsiasi musica invece bisogna prestare un po’ di attenzione. La musica ci prende per mano e vuole che seguiamo quello che ci racconta: è un’esperienza anche razionale, ma è soprattutto un’immediata emotività che caratterizza il linguaggio sonoro dalle altre arti.
Quanto alla musica contemporanea essa viene subito riconosciuta e schivata con intolleranza perché richiederebbe ancora maggior impegno. L’ascolto quotidiano che il mondo ci offre è totalmente disimpegnato.
L’attenzione verso il colore nelle sue composizioni può essere concepita come un topos del suo linguaggio? Quali ‘novità’ rispetto alla Klangfarbe di Schoenberg?
La Klangfarbe di Schoenberg è un’intuizione importante che nasce in un contesto di suoni tradizionali. La musica antica veniva “colorata” dall’alternanza e dalla mescolanza degli strumenti e delle famiglie di strumenti. Ma le mie composizioni si aprono a nuove tecniche di emissione del suono, io non parto dalle note convenzionali. Sono implicati da me altri concetti organizzativi, al di là di quelli verbali: evito le vecchie logiche discorsive. Uso concetti più organici che incidono più a fondo sulla natura fisica del suono, come: costellazioni, eventi sonori, suoni/massa, etc.
Nelle sue opere teatrali come concepisce il rapporto con il testo letterario?
Eccetto la mia prima opera (Amore e Psiche), mi sono sempre ingegnato in prima persona nella stesura dei libretti, e soprattutto nella concezione del dramma. Teatro non significa semplicemente che qualcuno si muove sul palcoscenico: è molto, molto di più. Quando ho cominciato a comporre i miei colleghi avevano orrore di raccontare una storia, di tornare a un racconto scenico. Nel loro falso conformismo alla moda dell’avanguardia non capivano che il miracolo del rappresentare sta nel fatto che l’attore diventa qualcun altro e che simultaneamente lo spettatore, seduto in poltrona, viene trasportato con la mente in un altro luogo e partecipa alle emozioni dei personaggi. Ritengo che anche il tempo teatrale debba diventare una dimensione discontinua, può essere tagliato e montato: il teatro, insomma, riconcepito dopo il cinema, fecondato dal cinema, accogliendo altre drammaturgie.
Secondo lei quali sono le prospettive dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale in campo compositivo?
L’intelligenza artificiale potrebbe essere straordinaria. Tuttavia è entrata nel nostro spazio vitale così profondamente tanto che è difficile vederne i contorni, i difetti e i problemi di cui è causa. Per esempio, anziché semplificare, ha complicato l’attuale burocrazia, ha diminuito la capacità di memoria e di autonomia dell’individuo. Com’è ovvio il computer viene sopravvalutato, sebbene sia difficile farne a meno. Fra i musicisti esso crea l’illusione che comporre sia solo un insieme di combinazioni: mentre è l’imprevisto, l’irrazionale che configurano le invenzioni di un artista, non ciò che è alla portata di tutti.
Quindi, per l’uso disimpegnato, continuo e ludico che i giovani per ora ne fanno, l’intelligenza artificiale è devastante e livellante per le capacità creative. La facoltà di immaginare ne viene ingannata, ridotta e, spesso, paralizzata.
“Una partitura … quanto un quadro, una poesia o un libro può contribuire e fondare una coscienza se le qualità tecniche si mantengono allo stesso livello di quelle ideologiche”. Condivide questo pensiero di Nono? Quali altre motivazioni possono essere prese in considerazione sul comporre?
Non condivido questo pensiero che sembra scindere forma e contenuto, il corpo dall’anima. La tecnica non può essere considerata un arnese, e l’opera è un insieme organico che configura lo stile di un lavoro e, di conseguenza, la sua ideologia.
Forse la frase, così estrapolata, perde un po’ del suo significato originale. Nono è stato un grande artista e per me un vero amico. A parte la complicità che ci legava negli ultimi suoi anni, era “una bella testa”, come si usa dire, il che non è cosa frequente fra gli artisti. Foto Luca Carrà
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ANTONIO E CLEOPATRA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Nadia Fusini e Valter Malosti
con Anna Della Rosa, Valter Malosti, Danilo Nigrelli, Dario Battaglia, Massimo Verdastro, Paolo Giangrasso, Noemi Grasso, Ivan Graziano, Dario Guidi, Flavio Pieralice, Gabriele Rametta, Carla Vukmirovic
chitarra elettrica live Andrea Cauduro
arpa celtica live Dario Guidi
scene Margherita Palli
costumi Carlo Poggioli
disegno luci Cesare Accetta
progetto sonoro GUP Alcaro
cura del movimento Marco Angelilli
maestro collaboratore Andrea Cauduro
regia Valter Malosti
Roma, 11 febbraio 2025
“L’età non può appassirla, né l’abitudine renderla stantia: il suo fascino è una fiamma sempre viva” – Antonio e Cleopatra, William Shakespeare
Al Teatro Quirino, Valter Malosti affronta il meno frequentato tra i drammi shakespeariani con un’operazione di condensazione radicale, un’epurazione di personaggi e trame secondarie che, se da un lato semplifica l’impianto narrativo, dall’altro ne scolorisce l’ampio affresco geopolitico, riducendo Antonio e Cleopatra a un duello privato, una danza macabra tra eros e thanatos. Il dispositivo scenico, astratto e monolitico, richiama l’enigma spaziale delle architetture dechirichiane, un limbo metafisico dove i personaggi si stagliano come icone sospese tra l’immortalità del mito e la caducità del potere. L’incipit promette un approccio grottesco, una lettura spietatamente contemporanea del testo elisabettiano: i due protagonisti emergono da catafalchi marmorei tra risate registrate e applausi ironici, spogliati fin dall’inizio della loro grandezza tragica. Ma questa vena si disperde rapidamente nel corso dello spettacolo, lasciando il posto a una recitazione più convenzionale, in cui il gioco delle parti si fa meno tagliente e più illustrativo. Il dialogo tra la regia e la drammaturgia si assesta su un registro che oscilla tra il rispetto filologico e l’interpolazione postmoderna, senza trovare una sintesi completamente convincente. Nadia Fusini, coautrice della traduzione con Malosti, insiste sulla stratificazione metateatrale del testo, sottolineando la consapevolezza scenica di Cleopatra, figura ambigua e cangiante, che manipola la sua stessa rappresentazione con la maestria di una regina e l’astuzia di un’attrice consumata. Anna Della Rosa incarna questa duplicità con una gamma di sfumature notevole, alternando momenti di distacco ironico a scarti di pathos sincero. La prova di Valter Malosti è solida e incisiva, con un controllo vocale che enfatizza la tensione e la profondità emotiva del suo personaggio, rendendo con grande efficacia il tormento interiore e la determinazione di Antonio. A sostenere con maestria l’intensità del testo è un cast di interpreti di grande spessore, che affianca i due protagonisti principali con Danilo Nigrelli, Massimo Verdastro, Dario Battaglia, Paolo Giangrasso, Noemi Grasso, Ivan Graziano, Dario Guidi, Flavio Pieralice, Gabriele Rametta e Carla Vukmirovic, ciascuno portando sul palco un’energia unica e una presenza scenica incisiva. La scena di Margherita Palli, dominata da una monumentale apertura circolare che funge da varco tra i mondi, è un’architettura mentale più che un luogo concreto, un dispositivo visivo che evoca al tempo stesso l’altrove esotico dell’Egitto e il vuoto freddo della Storia. Tuttavia, la scelta di una palette espressiva che mescola suggestioni anacronistiche – dagli spolverini di pelle rossa alle valigie vintage – non sempre si integra organicamente con la struttura drammaturgica, rischiando di risultare un esercizio di stile più che un reale potenziamento della narrazione. L’apparato sonoro di GUP Alcaro avvolge la messinscena in un tappeto di risonanze sottili, che amplificano il senso di spaesamento e sospensione, ma l’uso sistematico della microfonazione, ormai cifra ricorrente nelle produzioni da grande palco, introduce una distanza emotiva che appiattisce l’intensità della recitazione. La seconda parte dello spettacolo guadagna in tensione e ritmo, quando il dramma politico si stringe attorno ai protagonisti, ma permane la sensazione di un’idea non del tutto compiuta, un’intenzione forte che non sempre trova una corrispondenza efficace nei mezzi scenici adottati. Resta il fascino innegabile del testo, il gioco vertiginoso di equilibri tra ordine e disordine, tra pulsione e ragione, tra il desiderio di possesso e la consapevolezza della perdita. Malosti sembra voler portare il pubblico proprio in questo territorio ambiguo, senza offrire soluzioni univoche, lasciando aperta la domanda su cosa significhi davvero il potere, su quanto sia indissolubilmente legato alla sua stessa fine. Se Shakespeare resiste a qualsiasi interpretazione, qui si ha l’impressione che resista più per la sua intrinseca grandezza che per la forza della visione registica. Uno spettacolo di indubbia ambizione, che lascia più interrogativi che certezze, ma che proprio in questa sua incompiutezza trova forse la sua ragione d’essere. La regia si muove su un filo sottile tra suggestione e frammentazione, evocazione e astrazione, con un equilibrio delicato che non sempre regge il peso del testo. Tuttavia, è innegabile l’abilità con cui Malosti tratteggia il rapporto tra Antonio e Cleopatra, un legame che si nutre di un continuo alternarsi di attrazione e repulsione, potere e vulnerabilità. Questo contrasto emerge con particolare efficacia nelle scene in cui il linguaggio corporeo si fa preponderante, con sguardi e gesti che parlano più delle parole stesse. Nel complesso, la produzione al Teatro Quirino si presenta come un’operazione teatrale di rilievo, che pur con qualche limite di coerenza drammaturgica, offre uno sguardo nuovo su un testo che raramente trova spazio sui palcoscenici italiani. La forza visiva della messinscena e la capacità degli attori di dare vita a personaggi complessi e stratificati sono elementi che meritano di essere sottolineati. Malosti continua il suo percorso di esplorazione teatrale con uno spettacolo che, sebbene non privo di difetti, riesce a stimolare la riflessione e a offrire momenti di autentica intensità scenica. Photocredit @Tommaso Le Pera
Roma, Musei Capitolini
I FARNESE NELLA ROMA DEL CINQUECENTO
L’arte del collezionismo nel Rinascimento non fu solo un atto di mecenatismo, ma anche un raffinato strumento di affermazione politica e culturale. Tra le famiglie che fecero della raccolta d’arte un emblema di potere e prestigio, i Farnese occupano un posto di assoluta preminenza. La mostra “I Farnese nella Roma del Cinquecento. Origini e fortuna di una Collezione”, ospitata nei Musei Capitolini fino al 18 maggio 2025, si propone di ricomporre idealmente una delle più straordinarie raccolte di antichità e capolavori rinascimentali, ponendo l’accento sul legame indissolubile tra arte, politica e memoria storica. L’esposizione non è un mero assemblaggio di opere d’arte, ma un progetto di ricostruzione filologica che restituisce l’evoluzione della collezione farnesiana nel contesto della Roma del Cinquecento. Il percorso espositivo, sviluppato attraverso un rigoroso impianto scientifico, ricostruisce il momento di massimo splendore della raccolta, a partire dall’iniziativa di Alessandro Farnese, divenuto papa con il nome di Paolo III nel 1534. Il pontefice comprese l’importanza della cultura classica nel processo di legittimazione del potere e, attraverso un’operazione sistematica di acquisizione, trasformò il patrimonio artistico della famiglia in un vero e proprio manifesto politico e intellettuale. L’obiettivo non era solo quello di raccogliere opere di eccezionale valore, ma di farne un corpus coerente, capace di riaffermare la continuità tra la Roma imperiale e il nuovo primato della Chiesa. Uno degli aspetti più rilevanti della mostra riguarda la relazione tra la collezione e la città. La famiglia Farnese non si limitò a raccogliere e conservare, ma intervenne direttamente nella configurazione dello spazio urbano. La mostra si apre infatti con una sezione dedicata alle trasformazioni architettoniche promosse da Paolo III, dalla nuova sistemazione del Campidoglio, affidata a Michelangelo, alla collocazione della statua equestre di Marco Aurelio, trasferita nel 1538 dalla Basilica di San Giovanni in Laterano alla piazza capitolina. Tali interventi non furono semplici operazioni estetiche, ma strategie di consolidamento del prestigio papale, in cui l’arte e l’antichità erano elementi cardine di un progetto di affermazione politica. La raccolta antiquaria farnesiana si distinse per la qualità e la quantità delle opere, molte delle quali furono trasferite nel Palazzo Farnese , trasformato progressivamente in un museo ante litteram. La mostra ne rievoca la ricchezza attraverso riproduzioni, bozzetti e disegni che testimoniano la presenza originaria di celebri sculture, come l’”Ercole Farnese”, il “Toro Farnese” e la “Flora Farnese”, rinvenute nelle Terme di Caracalla e successivamente trasferite a Napoli. L’esposizione offre al pubblico l’opportunità di ammirare copie e studi preparatori di queste opere, tra cui spiccano due magnifici disegni di Hendrick Goltzius e un raffinato bronzetto di Pietro da Barga, che documentano l’interesse per la statuaria classica e la sua influenza sulla cultura figurativa dell’epoca. Il cuore della mostra è costituito dai dipinti e dagli affreschi che decoravano gli ambienti più rappresentativi della residenza farnesiana. La “Galleria dei Carracci”, capolavoro della pittura manierista, è rievocata attraverso una selezione di disegni preparatori che permettono di ricostruire la genesi di uno dei cicli decorativi più celebri della storia dell’arte. Tra le opere pittoriche più rilevanti si segnalano la “Madonna del Divino Amore” di Raffaello, il cui splendore cromatico emerge con straordinaria intensità grazie a un attento studio dell’illuminazione, e il “Ritratto di Paolo III con il camauro” di Tiziano, in cui l’abilità ritrattistica del maestro veneziano restituisce con straordinaria acutezza psicologica la personalità del pontefice. Un altro aspetto fondamentale dell’esposizione riguarda il ruolo di Fulvio Orsini, erudito e antiquario che curò la collezione farnesiana con uno spirito filologico e colto, conferendole un valore non solo artistico, ma anche documentario. La sua influenza emerge chiaramente nella selezione di manoscritti, gemme e monete, che testimoniano la volontà di rendere la raccolta un centro di sapere e non solo di prestigio. Tra i pezzi più pregiati figurano il celebre “Libro d’Ore” miniato da Giulio Clovio un capolavoro della miniatura rinascimentale, e la sontuosa “Cassetta Farnese”, straordinario esempio di oreficeria manierista. L’allestimento è studiato per restituire l’atmosfera delle sale farnesiane senza ricorrere a una mera ricostruzione scenografica, ma attraverso un linguaggio espositivo raffinato e coerente con la natura della collezione. Le opere sono disposte secondo un criterio di equilibrio e armonia, con fondali nei toni del blu e dell’azzurro, modulati in diverse intensità tra arcate e nicchie, creando una profondità visiva che esalta la monumentalità delle sculture e la preziosità dei dipinti. L’illuminazione, calibrata con estrema attenzione, amplifica la tridimensionalità delle opere e restituisce al pubblico un’esperienza estetica coinvolgente e immersiva. La mostra non è solo un’occasione per ammirare opere straordinarie, ma anche un invito a riflettere sulla funzione del collezionismo nella costruzione delle identità culturali. La collezione Farnese non fu mai un semplice accumulo di oggetti preziosi, ma un organismo vivo, in cui ogni opera trovava una collocazione strategica all’interno di un progetto più ampio di affermazione del potere. L’esposizione riesce a trasmettere questa visione con un linguaggio museografico che coniuga rigore storico e suggestione estetica, evitando ogni artificio scenografico e privilegiando un approccio di ricostruzione intellettuale. Attraverso un equilibrio sapiente tra ricerca filologica, narrazione artistica e allestimento evocativo, “I Farnese nella Roma del Cinquecento” rappresenta un modello espositivo di alto livello, capace di restituire il senso originario di una delle più grandi raccolte del Rinascimento. Un’esperienza che va oltre la semplice fruizione visiva per trasformarsi in un viaggio nella memoria storica dell’arte, in cui ogni opera diventa il tassello di un racconto più ampio, in grado di attraversare i secoli e restituire intatta la magnificenza di un’epoca.