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Roma, MAXXI: “Something in the Water / Stop Drawing”

gbopera - Sab, 19/04/2025 - 19:11

Roma, MAXXI
SOMETHING IN THE WATER
 a cura di Oscar Tuazon con Elena Motisi (curatore associato)
STOP DRAWING
ideata da Pippo Ciorra per il Dipartimento Architettura diretto da Lorenza Baroncelli
Roma, 19 aprile 2025
Là dove l’acqua si fa parola, e il disegno si dissolve, qualcosa accade nel cuore stesso dell’arte: non più rappresentazione, ma rivelazione.
In un tempo in cui la materia cerca nuove vie per farsi pensiero, il MAXXI si fa doppio specchio di una crisi fertile. Due mostre – Something in the Water, a cura dell’artista Oscar Tuazon con Elena Motisi come curatore associato, e STOP DRAWING. Architettura oltre il disegno, ideata da Pippo Ciorra per il Dipartimento Architettura diretto da Lorenza Baroncelli – si aprono simultaneamente, ma non sono parallele: sono convergenti. Non raccontano, ma interrogano. Non illustrano, ma generano. L’una scorre come fiume, l’altra stratifica come palinsesto. Insieme tracciano una mappa mentale del nostro tempo, un cartogramma dell’instabilità. La prima ad accogliere è Something in the Water. Non si entra: si viene immersi. Oscar Tuazon, con la sensibilità politica di chi da anni lavora sul confine tra arte e attivismo, trasforma la galleria in un’estensione del suo progetto Water School. L’acqua, qui, non è tema ma soggetto. Non medium, ma struttura. È al contempo elemento naturale e costrutto giuridico, flusso e limite, diritto e memoria. Le opere non stanno, scorrono. Si aprono come piccole sorgenti: una di legno, una di vetro, una di acciaio. Ogni installazione è una cellula di un corpo fluido più grande. Ogni materia è soglia. La mostra non procede in senso lineare, ma per vibrazioni. È come attraversare un paesaggio mentale, fatto di strutture totemiche e vuoti accoglienti. Tuazon compone uno spartito di dialoghi silenziosi tra la sua opera e quelle di artisti che sembrano affiorare da una medesima sorgente: Matthew Barney, Nancy Holt, Torkwase Dyson, Lita Albuquerque, Saif Azzuz, Marjetica Potrč, Virginia Overton. Alcuni lavorano per accumulo, altri per sottrazione. Ma tutti sembrano aver scelto di non “rappresentare” l’acqua, quanto piuttosto di “essere” acqua: cangianti, attraversabili, precari. In questa ecologia estetica, il corpo del visitatore non è più centrale, ma decentrato. Non osserva, ma partecipa. Camminando tra le installazioni, ci si rende conto che la vera opera è la distanza tra le cose. Il vero spazio è quello che si tende tra le forme. E l’acqua – invisibile ma costante – è ciò che tiene insieme tutto. Non a caso l’allestimento evoca il corso del Tevere, ma anche una scuola, un accampamento, un centro comunitario. È un museo che diventa infrastruttura. Tuazon lavora da anni sul concetto di spazio pubblico come forma d’arte. Ma qui va oltre. Interroga il concetto stesso di accesso: all’acqua, alla terra, alla visibilità. L’arte diventa strumento di attivazione. L’installazione, linguaggio relazionale. L’allestimento, grammatica del possibile. La materia industriale – cemento, ferro, vetro – si ibrida con il gesto fragile, umano. Si sente, in ogni dettaglio, il desiderio di costruire un luogo che non chiuda, ma apra. Un luogo dove il pensiero non sia proprietà, ma circolazione. Pochi metri più in là, STOP DRAWING prende parola. Ma lo fa in modo obliquo. Qui non c’è nulla da fermare, in realtà. Il titolo è una provocazione, un punto di partenza per disinnescare il gesto che per secoli è stato l’origine stessa dell’architettura: il disegno. Ma oggi, sembra dire Pippo Ciorra, quel gesto si è moltiplicato. Si è fatto dato, algoritmo, video, performance. Il disegno non muore: si traveste. Non svanisce: si trasforma. La mostra è composta come un saggio visivo. Ogni sezione è una domanda. Ogni opera, una nota a piè di pagina. Gli architetti e gli artisti presenti non sono lì per essere celebrati, ma per contribuire a un discorso più ampio: cosa accade all’architettura quando il tratto non è più centrale? Quando la mano si ritrae? Quando il progetto si genera non da una linea, ma da una relazione, un tessuto, un suono? Le risposte sono plurali. Alcuni, come Aldo Rossi o Carlo Scarpa, riaffermano con forza la centralità del disegno come lingua originaria. Altri, come Superstudio o Frida Escobedo, lo decostruiscono fino a renderlo puro segno. Altri ancora, come Atelier Bow Wow, propongono modalità immersive, partecipative, performative. E poi ci sono i lavori che partono dalla simulazione, dal collage, dalla tecnologia. E quelli che invece resistono, con ostinazione analogica, al digitale. La mostra non offre certezze. Non stabilisce una genealogia, ma suggerisce una mappa di traiettorie. È come se ci dicesse: non cercate l’essenza, cercate l’interferenza. Non più disegno come disegno, ma disegno come attitudine, come esercizio mentale, come forma di resistenza. In questa prospettiva, l’architettura diventa gesto politico, sociale, poetico. Non più oggetto, ma processo. Quello che accade al MAXXI, dunque, non è solo la presentazione di due mostre, ma l’attivazione di un campo di possibilità. Due gesti curatoriali che si rispondono senza scontrarsi. Due esplorazioni sul limite. Due inviti alla co-esistenza di forme nuove. C’è qualcosa di profondamente attuale in tutto questo: la volontà di pensare non per opposizione, ma per relazione. Di non scegliere tra acqua e disegno, ma di riconoscere che entrambi parlano la lingua dell’instabilità, della metamorfosi, della transizione. E che forse solo in queste forme fluide, porose, sospese, possiamo ancora trovare un’arte e un’architettura capaci di dialogare col mondo. Come scrisse Paul Valéry: “L’acqua è piena di memoria, il disegno pieno di oblio”. Ma al MAXXI, oggi, i due si incontrano. E il loro abbraccio genera un pensiero che non vuole concludersi. Vuole solo continuare a scorrere. Photocredit Luis Do Rosario courtesy Fondazione MAXXI

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Suor Angelica / Il Prigioniero” dal 23 aprile al 02 maggio 2025

gbopera - Sab, 19/04/2025 - 16:02

Roma, Teatro dell’Opera
SUOR ANGELICA / IL PRIGIONIERO
Chiude con un doppio titolo di grande intensità la terza tappa del progetto triennale Trittico ricomposto, promosso dal Teatro dell’Opera di Roma in collaborazione con il Festival Puccini di Torre del Lago, in occasione del centenario della morte del compositore lucchese. Dopo Il tabarro accostato alla Serva padrona e Gianni Schicchi in dialogo con Der Kaiser von Atlantis, è ora la volta di Suor Angelica e Il prigioniero, a comporre un dittico profondamente spirituale, dove il tema della fede, declinata tra espiazione e speranza, si fa architrave drammaturgica ed emotiva. Sul podio, a guidare l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, torna Michele Mariotti, già protagonista delle precedenti tappe del progetto, mentre la regia è firmata da Calixto Bieito, nome tra i più iconici del teatro musicale contemporaneo. Il suo sguardo crudo, visionario e profondamente corporeo si confronta con due partiture opposte per stile ma complementari nel sentire: da un lato l’iperromanticismo lacerato e lirico di Puccini, dall’altro l’intellettualismo etico e musicale di Dallapiccola, portavoce di un Novecento colto e morale. In Suor Angelica, opera in un atto su libretto di Giovacchino Forzano, la protagonista è interpretata da Corinne Winters e, in alternanza, da Yolanda Auyanet (nelle recite del 24 e del 27 aprile). Il ruolo della Zia Principessa, figura fredda e tragica, sarà affidato al mezzosoprano Marie-Nicole Lemieux, mentre nel cast figurano numerose interpreti femminili tra cui Annunziata Vestri (La Badessa), Irene Savignano, Carlotta Vichi, Laura Cherici, Ilaria Sicignano e molte artiste emergenti provenienti dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, tra cui Jessica Ricci, Maria Elena Pepi e Sofia Barbashova. Il dialogo tematico con Il prigioniero, capolavoro di Luigi Dallapiccola in un prologo e un atto unico, si fonda sull’opposizione tra illusione e realtà, speranza e tortura, fede e negazione. Opera densa, atonale e simbolista, ispirata ai testi di Villiers de l’Isle Adam e Charles de Coster, trova in Mattia Olivieri un interprete vocale e attoriale ideale per il ruolo del protagonista, affiancato da Ángeles Blancas nel ruolo della Madre e da John Daszak, impegnato nel doppio ruolo del Carceriere e del Grande Inquisitore. Completano il cast Nicola Straniero e Arturo Espinosa, nei ruoli sacerdotali. Le scene sono firmate da Anna Kirsch, i costumi da Ingo Krügler, il disegno luci da Michael Bauer. Il maestro del coro è Ciro Visco, mentre il Coro di Voci Bianche è preparato da Alberto De Sanctis. Questo nuovo allestimento si configura non solo come un raffinato esercizio di rilettura drammaturgica, ma anche come uno spazio di riflessione etica ed esistenziale, in linea con la vocazione sempre più profonda del Teatro dell’Opera di Roma a offrire produzioni che non temono il rischio, capaci di coniugare ricerca musicale e attualità teatrale. La serata, strutturata in due tempi autonomi, conduce lo spettatore in un percorso in cui la grazia e la redenzione, il dolore e la pietà, diventano materia viva di una musica che continua a interrogarci. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro di San Carlo: “Attila” il 24 e il 27 aprile 2025

gbopera - Sab, 19/04/2025 - 12:30

Napoli, Teatro di San Carlo
“ATTILA”
Il 24 e il 27 aprile 2025, al Teatro di San Carlo, verrà eseguito, in forma di concerto, Attila: dramma lirico in un prologo e tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave, tratto dalla tragedia Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Vincenzo Milletarì; Maestro del Coro: Fabrizio Cassi.
Nel ruolo di Attila, re degli Unni, Giorgi Manoshvili; Ernesto Petti interpreterà Ezio, generale romano. A interpretare Odabella, figlia del signore d’Aquileja, sarà Anna Pirozzi. Nel ruolo di Foresto, cavaliere aquilejese, Luciano Ganci. Completano il cast: Francesco Domenico Doto (Uldino, giovane bretone, schiavo d’Attila), Sebastià Serra (Leone, vecchio romano). Produzione del Teatro di San Carlo. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, RomaEuropa Festival: “Presentata la 40esima edizione”

gbopera - Sab, 19/04/2025 - 10:16

ROMA: PRESENTATA LA 40ESIMA EDIZIONE DI ROMAEUROPA FESTIVAL
 (4 settembre – 16 novembre 2025)
Presentazione del Programma della Quarantesima Edizione
Intervengono Sam Stourdzé (Direttore dell’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici), Guido Fabiani (Presidente della Fondazione Romaeuropa), Roberto Gualtieri (Sindaco di Roma Capitale), Simona Baldassarre (Assessore alla Cultura della Regione Lazio), Fabrizio Grifasi (Direttore Generale e Artistico della Fondazione Romaeuropa)
Roma, Villa Medici – Accademia di Francia a Roma, 16 aprile 2025
Nel 1986, su impulso del direttore dell’Accademia di Francia Jean-Marie Drot e di Monique Veaute assieme al sostegno di Giovanni Pieraccini, nasceva con l’entusiasmo di chi crede che la cultura possa cambiare una città il Romaeuropa Festival. Oggi, a distanza di quart’anni, quella visione audace è la realtà concreta di un operare attento alle diverse sensibilità del presente. Il Festival ritorna dunque con un’edizione che è ancora una volta un invito a guardare avanti, nella speranza che la cultura aiuti ad affrontare i cambiamenti della contemporaneità. Dal 4 settembre al 16 novembre saranno presentati oltre 110 spettacoli per ben 250 repliche con 700 artisti da tutti il mondo: oltre due mesi di programmazione, dunque, per un’utopia diventata realtà. Nel segno del dialogo culturale tra Italia e Spagna inaugura, il 4 settembre, la quarantesima edizione del Romaeuropa Festival. Ne è protagonista il prestigioso Ballet Nacional de España alla sua prima collaborazione con il coreografo Marcos Morau per portare in scena Afanador. Corealizzato con il Teatro dell’Opera di Roma lo spettacolo reinventa in scena l’alchimia tra l’omonimo fotografo colombiano e le più grandi leggende del flamenco. Il confronto tra tradizione e innovazione attraversa la proposta di artisti, interpreti e grandi formazioni impegnate nel rinnovamento del repertorio. Per il genere danza, segnaliamo prima di tutto la Dresden Frankfurt Dance Company. La compagnia presenta in prima nazionale un doppio programma composto da Civil Society: Undertainment, nuova creazione co-commissionata da Romaeuropa a William Forsythe, e Lisa, firmata dall’attuale direttore della compagnia Ioannis Mandafounis. Il Ballet National del Marseille torna al Romaeuropa Festival con la direzione di (LA)HORDE per presentare Chronicles, con estratti dalle pièce Room with a View e Age of Content. Due spettacoli questi che fanno parte del percorso realizzato in collaborazione con Dance Reflections by Van Cleef & Arpels, il programma della Maison dedicato al sostegno della danza contemporanea. Sempre a questo programma va ricondotta la presenza del coreografo Cassiel Gaube con Soirée d’études nei suggestivi spazi di Villa Medici, nonché del coreografo nigeriano Qudus Onikeku, che in Terrapolis fonde musica, danza urbana, moda, arti visive e spiritualità africana, e infine del greco Christos Papadopoulos che presenta My Fierce Ignorant Step dal suo celebre linguaggio minimalista. Anche per il suo quarantesimo anniversario, il Romaeuropa Festival contribuisce a creare una mappa di visioni artistiche globali. L’incontro tra il regista e drammaturgo franco-marocchino Mohamed El Khatib e l’icona assoluta del flamenco Israel Galván dà vita all’inedito Israel & Mohamed, in cui i due artisti esplorano le rispettive radici in un potente confronto scenico. Come parte degli appuntamenti dedicati alla scena fiamminga torna poi in un incontro con il regista e coreografo libanese Rabih Mroué anche la coreografa Anne Teresa De Keersmaeker con lo spettacolo A little bit of the moon (in corealizzazione con Short Theatre). Il focus costruito con Flanders State of the Art vede poi tra i protagonisti Miet Warlop, rappresentante del Belgio alla Biennale Arte 2026, che porta a Roma lo spettacolo INHALE; DELIRIUM, EXHALE (in corealizzazione con la Fondazione Teatro di Roma), in cui 1500 metri di seta formano una potente onda visiva, raffigurazione simbolica della forza creativa. Dello stesso ambito fa parte lo spettacolo Mystica (produzione Muziektheater Transparant) realizzato dal regista Kasper Vanderberghe in dialogo con il compositore Timo Tembuyser e il musicista Jens Bouttery: si tratta di un rituale scenico che tra acrobazie aeree, danza e musica, rende omaggio alle grandi figure mistiche della storia. Nell’ambito del focus dedicato alla scena lituana debutta al Festival il coreografo Dovydas Strimaitis con lo spettacolo Hairy, mentre dal Québec arriva Louise Lecavalier, tra i membri della storica La La La Human Steps e per anni collaboratrice di David Bowie, con il suo assolo ipnotico danses vagabondes. Al patrimonio culturale e ai paesaggi del deserto di AIUla si ispira Thikra: Night of remembering, nuova produzione di Akram Khan in dialogo con l’artista visiva saudita Manal AIDowayan. Da Taiwan arriva la compagnia U-Theatre che in Sword of Wisdom reiventa la tradizione delle percussioni unendola alle arti marziali, alla danza, alla meditazione, al teatro. Dal Brasile invece – e in particolare da Maré, Favela di Rio de Janeiro – ritorna Lia Rodriguez, che con lo spettacolo Borda costruisce potenti tableaux tra rituali ancestrali e urbani. Accanto alla sua vocazione internazionale, è proprio l’attenzione alla creatività italiana a rappresentare, da quarant’anni, il cuore pulsante del Romaeuropa Festival. Un impegno costante che si traduce in una fitta trama di percorsi dedicati alle voci più originali della scena nazionale. Se il duo composto da Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi guida per la prima volta la compagnia croata Studio Contemporary Dance nel geometrico All’Arme, il dialogo tra Italia e Spagna continua a essere protagonista con la presenza della compagnia KOR’SIA che presenta per la prima volta a Roma, al Teatro Argentina, la nuova creazione Simulacro. La scena emergente è al centro della rinnovata sezione Dancing Days – a cura di Francesca Manica –, che continua a esplorare le nuove tendenze della danza europea e nazionale in rete con Aerowaves. Tra i nomi: Ermira Goro (Grecia), Janet Novás e Mercedes Peón (Galizia), Armin Hokmi (Germania) e gli italiani Francesca Santamaria, Vittorio Pagani, Aristide Rontini e Matteo Sedda, quest’ultimo vincitore della scorsa edizione di DNAappunti Coreografici, il premio dedicato alla coreografia italiana under 35, giunto quest’anno all’undicesima edizione, la cui finale tornerà a svolgersi nell’ambito del programma di ULTRA REF. Un festival per tutti i gusti, destinato ad attrarre un vasto pubblico, e dalla filosofia autenticamente glocal. Foto Merche Burgos

Categorie: Musica corale

Pistoia, Teatro Manzoni: “Don Giovanni”

gbopera - Sab, 19/04/2025 - 07:58

Pistoia, Teatro Manzoni, Le Stagioni 2024-2025
DON GIOVANNI”
ossia Il dissoluto punito KV 527
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni MODESTAS SEDLEVIČIUS
Donna Anna EKATERINA BAKANOVA
Don Ottavio ILKER ARCAYÜREK
Il Commendatore JULIEN SÉGOL
Donna Elvira AOIFE MISKELLY
Leporello RICCARDO NOVARO
Masetto GIUSEPPE TOIA
Zerlina NIKA GORIČ
Orchestra Leonore
Coro Filarmonico di Torino “R. Maghini”
Direttore Daniele Giorgi
Maestro del Coro Claudio Chiavazza
Regia Roberto Valerio
Manifatture Digitali Cinema – Toscana Film Commission
Costumi Silvia Salvaggio
Scenografie digitali Riccardo Rossi
Partner di progetto Mediacross
Luci Emiliano Pona
Allestimento e produzione Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale
Pistoia, 13 aprile 2025
Il sold out al Teatro Manzoni, oltre a indicare l’interesse del pubblico, invita a riflettere sulla realizzazione di questa unica recita del Don Giovanni il cui titolo originale Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, K 527 annuncia e chiarisce molto del personaggio che non rispetta le leggi umane e divine. Si è trattato della rappresentazione della seconda opera, dopo il Così fan tutte andato in scena lo scorso anno, che, insieme alle Nozze di Figaro, costituisce la celeberrima trilogia Mozart-Da Ponte che lo stesso librettista definì le “tre sorelle” e l’imperatore utilizzò l’espressione “divina”. Constatando la presenza di giovani e di persone arrivate da fuori Pistoia si può convenire quanto l’antico mito di Don Giovanni – presente in letteratura ed in teatro ben prima della stesura del lavoro mozartiano – continui ad attirare un pubblico senza età tanto da rimanerne intrigato, senza esimersi da riflessioni su temi come il tradimento, la seduzione, la giustizia, la morte, ecc. Certo è che la definizione ossimorica di ‘Dramma giocoso’, oltre che risultare fuorviante rispetto ai contenuti proiettati anche nel tragico, sollecita, dal punto di vista della ricezione, una serie di valutazioni ove il melodramma, per molti aspetti, sembra riflettere la propria immagine in uno specchio i cui contorni sono però in trasformazione. In estrema sintesi: l’opera inizia con un tentativo di violenza sessuale di Don Giovanni nei confronti di Donna Anna, poi, in seguito a un duello tra il libertino e il Commendatore conclusosi con l’uccisione di quest’ultimo, si svilupperanno azioni che porteranno alla morte del protagonista, autore di azioni spregevoli, precipitando tra le fiamme dell’inferno davanti alla statua del Commendatore di cui il contesto armonico, decisamente dissonante, ne anticipa la percezione. Ecco allora, al di là della definizione di Dramma giocoso, che teatro serio e comico appaiono come immagine bifronte. Solo per fare due esempi attraverso le arie, entrambe tratte dall’Atto I (scena 5): «Ah, chi mi dice mai» intonata da Donna Elvira è ascrivibile al genere serio mentre «Madamina, il catalogo è questo» – cantata da Leporello ed indirizzata a Donna Elvira, sedotta e abbandonata – rientra nell’alveo del teatro comico. Ma nelle ‘cento trappole’ nelle quali il pubblico non deve ‘cedere’ si colloca anche il duetto tra Don Giovanni e Zerlina (Atto I, scena 9). Grazie all’intervento di Donna Elvira, la ragazza evita di diventare un ulteriore nome del catalogo del conquistatore di «donne d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età». Nella regia di Roberto Valerio è parso di percepire la stessa ‘bifrontalità’ dell’opera (buffa-seria) poiché si poteva cogliere una commistione tra tradizione e modernità attraverso una lettura, a tratti, quasi prismatica, riuscendo quasi sempre a convogliare vari linguaggi artistici (scene, luci, costumi, ecc.). Accostandoci alla partitura è bastato ascoltare l’Ouverture (R. Vlad: «una specie di anticipata retrospettiva, si riferisce ad un dramma dato per compiuto, anche se deve ancora accadere») per rendersi conto del suono e delle qualità musicali dell’Orchestra Leonore, una compagine giovanile formatasi nel 2014, la quale unisce musicisti provenienti da orchestre europee e dall’esperienza cameristica. Ne deriva l’intenzione di formare un insieme che si ispira a grandi progetti ove la condizione necessaria è scandagliare i repertori ed incontrarsi in orchestra, proiettandosi verso un ascolto condiviso, abbracciando l’idea di musica da camera applicata all’orchestra da Claudio Abbado. Il direttore Daniele Giorgi chiarisce: «Leonore è l’emozione di guidare la libertà di musicisti straordinari, lungo un percorso gioioso, verso una meta musicalmente e umanamente autentica» collocandosi tra i musicisti che credono nel valore della cultura e, nella fattispecie, del far musica insieme. L’intervento iniziale di Leporello con l’aria «Notte e giorno faticar» interpretata da Riccardo Novaro ha messo in evidenza la bella vocalità da baritono e la pregevole interpretazione. L’entrata sulla scena di Don Giovanni e di Donna Anna (promessa sposa di Don Ottavio), entrambi con un’efficace presenza scenica (rispettivamente Modestas Sedlevičius ed Ekaterina Bakanova), ha mutato il carattere dell’opera verso il dramma. L’ingresso del Commendatore (padre di Donna Anna): «Lasciala, indegno/ Battiti meco!», impersonato da un convincente Julien Ségol, oltre che anticipare alcuni tratti psicologici del personaggio, traghetta al successivo topos evidenziato dalla successione delle terzine dell’orchestra che accompagnano il ‘colloquio’ tra Leporello («Quel misfatto»), Don Giovanni («Ah!, già cade il sciagurato») e il Commendatore («Ah, soccorso! Son tradito»). Citando gli altri personaggi femminili, ricordiamo Aoife Miskelly nel ruolo di Donna Elvira e Nika Gorič, una convincente Zerlina. Buona prestazione anche di Masetto, interpretato da Giuseppe Toia, e di Ilker Arcayürek nei panni di Don Ottavio. Altrettanto efficace, e abbastanza sonora, la realizzazione del basso continuo al clavicembalo, di Alessandra Artifoni, nei recitativi secchi pur ravvisando, in alcuni casi e nella parte del canto, un ritmo non plasmato alla parola che rendeva difficoltosa l’intellegibilità del testo nel prosieguo. Si segnala inoltre la positiva prestazione del Coro filarmonico di Torino “R. Maghini” preparato da Claudio Chiavazza. I lunghi ed iterati applausi del pubblico potevano intendersi anche come raggiungimento degli obiettivi prefissati, da rintracciare in primis nell’attenta concertazione di Giorgi e di intesa con le compagini dello spettacolo, quasi eco dell’idea espressa a suo tempo dal musicologo e critico musicale Adolphe Boschot: «in tutte le opere di Mozart è così bella, così pura e così assolutamente musicale, che è dappertutto musica da camera». Foto Lorenzo Marianeschi

 

 

 

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Pompei, Parco Archeologico: “Essere donna nell’antica Pompei”

gbopera - Gio, 17/04/2025 - 19:28

Pompei, Parco Archeologico
ESSERE DONNA NELL’ANTICA POMPEI
Curata da Francesca Ghedini e Monica Salvadori
in collaborazione con le Università di Padova, Salerno e Verona
Pompei, 17 aprile 2025
A Pompei, città trafitta dalla cenere e rivelata dalla tomba del tempo, il concetto di “donna” non è un’astrazione, ma corpo inciso nel tufo, nome scolpito nella pietra, gesto colto in affreschi d’uso domestico o funerario. La mostra Essere donna nell’antica Pompei, allestita nella Palestra Grande sino al 31 gennaio 2026, si presenta come una potente operazione archeologica della mente, più ancora che una sequenza espositiva. Curata da Francesca Ghedini e Monica Salvadori, in collaborazione con le Università di Padova, Salerno e Verona, l’esposizione ha il merito di fondere la profondità documentaria con un impianto narrativo rigoroso, capace di far vibrare le corde della storia sociale, economica e simbolica dell’universo femminile. Non siamo dinanzi a una semplice galleria di oggetti: qui la materialità delle testimonianze antiche si fa veicolo di un’indagine che va ben oltre il dato, per raggiungere l’habitus culturale. E lo fa attraverso un impianto scientifico che si rifà, quasi metodologicamente, alla stratigrafia concettuale. Otto sezioni, come otto livelli da scendere — o risalire — per comprendere non “la donna”, ma le donne di Pompei, in una molteplicità di ruoli, origini e destini. Sin dall’ingresso, la scelta curatoriale è eloquente: i nomi e i volti, dunque l’individualità, prendono il centro della scena. È una dichiarazione d’intenti: il femminile pompeiano non si vuole più indistinto, silenziato, archetipico. Si desidera invece nominarlo, conoscerlo per ciò che è stato nella sua forma concreta. La mostra si muove con passo fermo tra matrone di alta condizione e schiave senza diritti, tra liberte arricchite e prostitute coatte. E qui risiede il primo valore dell’esposizione: un approccio che non tematizza in astratto, ma campiona la realtà archeologica, dando conto tanto della norma quanto della devianza, del privilegio quanto della costrizione. I materiali esposti – affreschi, graffiti, oggetti d’uso, iscrizioni e monumenti funerari – sono ben selezionati e distribuiti secondo criteri che rispecchiano l’idea di una topografia sociale. L’archeologia, qui, fa ciò che sa fare meglio: disporre in ordine il caos, rendere visibile l’invisibile, far parlare i resti. E non è secondario che tutto ciò avvenga a Pompei, osservatorio unico al mondo per lo studio della vita quotidiana. Se altrove le donne antiche sono evanescenti, qui esse si impongono con forza: nei cubicula e nei thermopolia, nei corredi funerari e negli atti di mecenatismo urbano. Esemplare, in tal senso, la sezione dedicata alla vita pubblica e lavorativa: è qui che emerge il ruolo delle imprenditrici, delle mediche, delle venditrici, delle tessitrici. Una Pompei femminile non solo vissuta, ma anche agente, capace di agire sul tessuto urbano, di riflettere una società più articolata di quanto i paradigmi tradizionali abbiano voluto ammettere. Spiccano figure come Eumachia, sacerdoressa e benefattrice, o Mamia, cui fu eretto un sepolcro d’onore sulla via dell’eternità. Non è un caso che siano proprio le tombe, nelle ultime sale, a chiudere il percorso con la solennità del commiato: la morte restituisce il nome, l’epitaffio, la memoria pubblica. Particolarmente suggestiva è l’integrazione con il sito archeologico e con l’app MyPompeii, che consente un’estensione “territoriale” del percorso espositivo. Questa visione iper-complessa della mostra – che è insieme spazio, tempo e tecnologia – rispecchia un’idea fortemente strutturale dell’archeologia. La donna antica, qui, si segue come un filo d’Arianna attraverso case, necropoli, edifici pubblici: Flavia Agatea, Asellina, Giulia Felice, Nevoleia Tyche e altre ancora diventano personae da incontrare nei luoghi in cui hanno vissuto, venduto, amato, comandato. Anche il telaio ricostruito nella Casa della Venere in Conchiglia assume così un valore simbolico profondo: è lo strumento del lavoro, ma anche della narrazione. Le donne di Pompei tessono non solo stoffe, ma memorie; non solo vite quotidiane, ma immagini durature di sé. In ciò, il telaio si fa anche metafora del lavoro dell’archeologo, che riannoda fili spezzati, rammenda il tempo. A concludere, in una sorta di coda metacritica, la mostra offre uno spunto sul presente: dalle pioniere dell’archeologia come Carolina Bonaparte e Wilhelmina Jashemski, alla riflessione sulla rappresentazione femminile nel cinema. È questo il momento in cui il passato, finalmente restituito, può diventare specchio del presente. E forse anche modello, o ammonimento. Essere donna nell’antica Pompei è una mostra che interroga la storia non per ritrarne un’immagine pacificata, ma per ascoltare le sue tensioni. Come direbbe Foucault, il potere si annida nei dettagli: ed è proprio nei dettagli che questa esposizione trova il suo centro, nei corpi che non avevano voce, nei nomi che rischiavano di svanire, nei ruoli che la storiografia tradizionale aveva marginalizzato. Pompei, con la sua capacità unica di trattenere il tempo, si conferma ancora una volta non solo palinsesto urbano, ma anche specchio dell’umanità. E l’archeologia – quella vera, scientifica, comparata, e tuttavia emozionante – è qui al suo meglio.

Categorie: Musica corale

Venezia, Palazzetto Bru Zane: “La grande sfida” con il duo pianistico Spina & Benignetti

gbopera - Gio, 17/04/2025 - 11:30

Palazzetto Bru Zane, Festival “Bizet, l’amore ribelle”, 29 marzo-16 maggio 2025
LA GRANDE SFIDA”
Pianoforte a quattro mani Eleonora Spina, Michele Benignetti
Georges Bizet: “Jeux d’enfants”; Charles Gounod: Sonate pour piano à quatre mains; Théodore Gouvy: Sonate pour piano à quatre mains; Charles Billema: d’après Georges Bizet Fantaisie brillante sur Carmen
Venezia, 15 aprile 2025
Una grande sfida era sottesa alla proposta di questo concerto, quella che da anni porta avanti il Palazzetto Bru Zane: avvicinare il pubblico alla musica da camera, riscoprire opere ed autori poco o per nulla conosciuti, coniugare raffinatezza dei programmi e gradimento del pubblico, alto livello artistico e promozione di nuovi talenti. Tali erano i giovani interpreti di questo concerto, che ha aggiunto altri particolari all’inedito ritratto di Georges Bizet, che si va delineando nel corso del festival a lui dedicato quest’anno dal Centre de Musique Ronantique Française. Ci riferiamo al duo pianistico formato da Eleonora Spina e Michele Benignetti, i quali si sono cimentati in brani per pianoforte a quattro mani – di Bizet ed autori francesi a lui contemporanei –, che presentavano non poche difficoltà tecniche e richiedevano, inoltre, di esaltare le qualità ‘orchestrali’ del pianoforte come di trovare il giusto mezzo tra virtuosismo e finezza interpretativa. Una grande sfida anche la loro, superata a pieni voti, com’era del resto prevedibile, trattandosi di due concertisti che si vanno affermando a livello internazionale e di cui si è pienamente apprezzato l’affiatamento, oltre alla consapevole adesione al codice stilistico, cui rimandavano i titoli in programma. Il primo era Jeux d’enfants di Georges Bizet, una raccolta di pezzi – terminata dal compositore nel 1871, in prossimità della nascita del suo primo figlio – ispirata al mondo dell’infanzia, ma pensata per interpreti esperti, viste le ricorrenti difficoltà che presenta. Encomiabile la prestazione offerta dal Duo Spina & Benignetti – con Eleonora Spina impegnata, qui come negli altri pezzi, nella zona più acuta della tastiera e Michele Benignetti in quella più grave –, che ha dimostrato verve e buon gusto, oltre a una tecnica ineccepibile, affrontando queste scenette, in cui Bizet raffigura, con candore e freschezza, i divertimenti dei bambini, ricorrendo a motivi di icastica immediatezza: dal tono sognante che caratterizza L’Escarpolette al frenetico galop, che anima Le Bal – un pezzo di particolare virtuosismo insieme a La Toupie – passando per il piglio infantilmente marziale di Trompette et Tambour e l’adorabile quadretto domestico di Petit mari, petite femme.
I due concertisti si sono analogamente fatti apprezzare interpretando composizioni di altri autori, a partire dalla Sonata per pianoforte a quattro mani in mi bemolle maggiore, CG 617 di Charles Gounod – amico di Bizet – risalente al 1839, rimasta inedita fino al 2017. Modellata sulle sonate di George Onslow, fa pensare per certi salti di tonalità a Schubert, ma la tendenza a teatralizzare i temi già rivela il futuro autore di Faust. Vivace e coinvolgente l’Allegro, interessante per la rapida successione di modulazioni inaspettate e gli scambi tra i due esecutori, oltre che per l’affascinante secondo tema. Triste e lamentoso l’Adagio, come fosse l’espressione di un cuore oppresso dalla minaccia di un dramma che, peraltro, non esploderà, nonostante l’agitazione che percorre la sezione centrale. Affine allo spirito di Mozart l’ultimo movimento, Presto – un’indicazione agogica raramente prevista da Gounod –, scritto in forma sonata, il cui primo tema, aveva il carattere di una fanfara su un accordo perfetto, in fortissimo.
Alla Sonata di Gounod è seguita la Sonata per pianoforte a quattro mani in do minore di Théodore Gouvy. Composta nel 1868, essa segue uno schema formale classico in quattro movimenti, tra cui un Minuetto. L’Allegro moderato iniziale – aperto da un tema di grande semplicità, enunciato dalla mano destra del primo pianista: una linea melodica discendente nel registro sopranile – ha evocato un universo lirico. Intriso di lirismo anche il Larghetto, dove gli interpreti hanno sfoggiato particolare destrezza nelle ornamentazioni. Fortemente contrastante rispetto ai movimenti precedenti il clima del Minuetto caratterizzato da un tema di grande energia. Pieno di sorprese – tra repentini cambiamenti di carattere e sfumature –, nonché improntato al buonumore l’Allegro vivace finale: roboante all’inizio e più oltre melodico, ha messo in luce la collaudata complicità tra i due interpreti.
Ha chiuso la serata Charles Billema con la sua Fantaisie brillante sur Carmen – pubblicata nel 1883, lo stesso anno della ripresa di Carmen all’Opéra-Comique –, che mette in evidenza alcuni dei temi di maggior spicco dell’opera. Particolarmente prestanti e briosi si sono dimostrati Eleonora Spina e Michele Benignetti nell’affrontare la scrittura virtuosistica dal carattere salottiero, che – al pari di molte parafrasi o fantasie di brani operistici, allora molto popolari – caratterizza questo pezzo, dove un materiale melodico, già all’epoca famosissimo, viene variato ed ornato. Entusiastici applausi. Un fuoriprogramma, offerto dai due artisti come omaggio alla “magica” Venezia: di Edward Elgar, Salut d’amour.

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Presentato il Garda Festival – Lake Garda International Music and Dance Festival 2025

gbopera - Mer, 16/04/2025 - 17:37

il Garda Festival – Lake Garda International Music and Dance Festival si appresta a celebrare la sua terza edizione, portando, dal 12 luglio al 14 agosto 2025, musica, danza, teatro e cinema tra le più suggestive location sul Lago di Garda. A firmare le grandi esibizioni saranno affermate eccellenze e giovani talenti dai palcoscenici italiani ed internazionali – tra gli ospiti di quest’anno attesi anche Patty PravoOrnella MutiEkaterina BakanovaMurat Karahan e Ivo Pogorelich, in un programma ricco e profondo, capace di abbracciare un pubblico ampio e trasversale, dai professionisti agli appassionati, fino ai semplici curiosi.
Questa mattina a Milano sono stati presentati tutti i dettagli dell’edizione 2025 della prestigiosa rassegna, ideata dal Fondo Piccinni, patrocinata dalla Regione del Veneto e sostenuta da importanti realtà nazionali, che in breve tempo si è saputa affermare tra i più importanti appuntamenti del calendario culturale italiano e non solo.
Il programma completo della III ed. di Garda Festival è consultabile al link: https://gardafestival.com/programma-2025/ 

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Amici della Musica di Firenze: quando il virtuosismo incontra la musica di Maurice Ravel

gbopera - Mer, 16/04/2025 - 15:24

Firenze, Teatro della Pergola, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2024/25
Violino Massimo Quarta
Violoncello Enrico Dindo
Pianoforte Pietro De Maria
Maurice Ravel: Sonata in do maggiore per violino e violoncello; Gaspard de la Nuit, per pianoforte; Trio in la minore per violino, violoncello e pianoforte
Firenze, 12 aprile 2025
L’ultimo concerto della Stagione degli Amici della Musica ha celebrato nel migliore dei modi i 150 anni dalla nascita di Maurice Ravel con un programma la cui realizzazione era affidata a tre fuoriclasse del concertismo. Come si evince dalla locandina si potevano apprezzare composizioni che se da un lato mettevano in risalto le qualità virtuosistiche di ogni componente, dall’altro offrivano la possibilità di creare quell’armonia profonda rintracciabile nella perenne dialettica tra menti altamente sensibili e creative. Nella concezione di un programma in cui la cifra era la varietà si poteva percepire, sia nella prima composizione che nella seconda per pianoforte solo, un tipo di individualismo in cui ognuno traeva senso dall’insieme evolvendosi mediante una propria logica ed inventio. Entrando più nei dettagli dei singoli brani l’esordio, con l’imperscrutabile Sonata in do maggiore dedicata “À la mémoire de Claude Debussy”, ha visto protagonisti Massimo Quarta ed Enrico Dindo. In questa composizione è lo stesso Ravel a dichiarare di rinunciare al fascino dell’armonia a favore della melodia, non facendo ravvisare un primus inter pares. In questo modo si può meglio comprendere la concezione ampia e variegata dell’ ‘esplorazione dei registri’ e della scrittura di entrambi gli strumenti tanto che, in molti tratti, si poteva immaginare un autentico quartetto d’archi. Nei quattro movimenti della composizione (Allegro – Très vif – Lent- Vif, avec entrain) – pur ispirandosi alle forme della tradizione (Allegro – Sonata, il Lento che guarda alla Passacaglia e al Rondò dell’ultimo movimento) concepite in modo più emancipato – si coglievano esempi magistrali di idiomi proiettati nella pluralità e complessità della musica del XX secolo. Per la varietà dei linguaggi (modalità, politonalità, ecc.) o per la presenza di poliritmia e polimetria in certi episodi l’ascolto poteva essere destabilizzato ma, grazie alla scelta dei fraseggi, dei tempi e di qualsiasi altro dettaglio della scrittura da parte degli interpreti, il risultato è stato un rifinito dialogo il cui contrappunto è apparso come un fine lavoro di cesello tanto da poterlo immaginare con gli occhi. L’esecuzione di Gaspard de la Nuit è stata l’occasione per ascoltare uno dei monumenti del virtuosismo pianistico, ispirato, come da sottotitolo, ai Trois poèmes pour piano d’après Aloysius Bertrand, nell’interpretazione di Pietro De Maria. Perfino il semplice ascoltatore, privo di qualsiasi ‘dottrina musicale’, poteva rendersi conto della complessità di questo lavoro in cui il rischio di cadere nella monotonia era molto alto. De Maria, nel restituire all’ascolto quest’opera meravigliosa, oltre che attingere ad una tecnica raffinata in cui emergeva un controllo incredibile del tocco, dei pedali, dei colori e quant’altro, sembrava viaggiare in un tempo dettato da una dimensione a tratti onirica rispetto ad altri momenti più ‘oscuri’, benché reali e pur sempre poetici. L’ inizio (Ondine), nel ricordare lo scorrere dell’acqua e il luogo dove vive la ninfa, rendeva il tutto più visionario e fantastico con il suono ‘vellutato’ del pianoforte. Non importava cogliere cosa accadeva musicalmente con armonie particolari nello scorrere dei suoni (scorrere dell’acqua) poiché bastava seguire l’invito della naiade: «Ecoute! – Ecoute ! – C’est moi, c’est Ondine qui frôle de ces gouttes d’eau losanges sonores de ta fenêtre illuminée par les mornes rayons de la lune» per entrare subito nella dimensione lirico-poetica dell’interpretazione dello spartito. Anche nei numeri successivi (Le gibet e Scarbo), in cui sono richieste all’interprete alte cifre espressive, De Maria ha offerto un’ottima interpretazione. A chiudere la serata uno straordinario esempio di scrittura cameristica del Novecento in cui i tre interpreti si danno appuntamento in una gradevole e, a tratti, accesa conversazione in cui sembrava cogliere lo spirito dei grandi del passato, in primis di André Gedalge, dedicatario dell’opera, maestro di contrappunto di Ravel e di cui ancora oggi viene utilizzato il Traité de la fugue. Affiorava inoltre alla mente la première parigina (gennaio 1915) con Alfredo Casella al pianoforte, Georges Enesco al violino e Louis Feuillard al violoncello. Benché i modelli formali della composizione guardino alla tradizione, traslucidano di novità e di tanta libertà che può collegarsi a quell’individualismo degli interpreti descritto poco sopra e che ora richiedeva al pubblico una particolare attenzione per i dettagli, lasciandosi inondare da vibrazioni decisamente seducenti. Per chi desiderava entrare più in sintonia con la musica bastava darsi ‘appuntamento’ al terzo movimento (Passacaille. Très large in fa diesis minore) afferrando il tema pentatonico esposto dall’inizio nelle prime otto battute (‘bussola’ per l’intero movimento) dalla mano sinistra del pianoforte, accostandosi, nella reiterazione del melos, al violoncello e poi al violino, lasciandosi avvolgere successivamente da un contrappunto magistrale. Il resto, come durante tutto il concerto, ha prodotto un caleidoscopio di sonorità con colori e sfumature bellissime, autentiche portatrici di emozioni.
Grande successo per i musicisti tanto che, grazie ai lunghi e ripetuti applausi del pubblico, è stato possibile ‘godere’ di un fuori programma: l’Allegro con brio, secondo movimento del Trio per violino, violoncello e pianoforte n. 2 op. 67 di Dmitrij Šostakovič e il bis del secondo movimento del Trio di Ravel. Foto  Giulia Nuti

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Roma, Museo Carlo Bilotti, Arancieria di Villa Borghese: “Tra Mito e Sacro”

gbopera - Mer, 16/04/2025 - 13:00

Roma, Museo Carlo Bilotti, Arancieria di Villa Borghese
TRA MITO E SACRO. OPERE DALLE COLLEZIONI CAPITOLINE DI ARTE CONTEMPORANEA
a cura di Antonia Rita Arconti, Claudio Crescentini e Ileana Pansino
Promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
con la collaborazione organizzativa di Zètema Progetto Cultura
Roma, 17 aprile 2025
«Nulla ci è più prossimo degli dèi, e nulla più incomprensibile.» (Euripide, Baccanti) Cosa accade quando il contemporaneo si volge al sacro? Quando l’arte, figlia del nostro tempo frantumato, si riveste delle forme eterne del mito? La mostra Tra Mito e Sacro. Opere dalle collezioni capitoline di arte contemporanea, in programma al Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese dal 17 aprile al 14 settembre 2025, offre una risposta non lineare, ma visionaria e stratificata. Promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con la collaborazione organizzativa di Zètema Progetto Cultura, l’esposizione è curata da Antonia Rita Arconti, Claudio Crescentini e Ileana Pansino. Un progetto che si inserisce nel calendario delle celebrazioni per l’Anno giubilare, ma che non si limita a un racconto religioso. Anzi, esplora le tensioni fra spiritualità, trascendenza e simbolismo attraverso i linguaggi molteplici dell’arte del XX e XXI secolo. Sono una trentina le opere selezionate, appartenenti alle collezioni della Galleria d’Arte Moderna, del Museo Carlo Bilotti, del Museo di Roma a Palazzo Braschi e della collezione d’arte contemporanea della Sovrintendenza. Si tratta di un mosaico disomogeneo per estetiche, materiali, media e intenzioni, ma che converge verso una medesima esigenza: sondare l’enigma del sacro nel tempo dell’immagine, tra reminiscenze archetipiche e slanci di assoluto. La mostra è un attraversamento. Non un itinerario rassicurante, ma un percorso iniziatico fatto di apparizioni, echi e simboli. Lo spettatore si trova immerso, sin da subito, nell’installazione di Alessandra Tesi, Cattedrale, che torna fruibile dopo oltre un decennio. Qui la sacralità si manifesta non come oggetto, ma come atmosfera. L’ambiente costruito dall’artista richiama le grandi navate delle chiese gotiche, senza imitarle: ne suggerisce il respiro, il tempo dilatato, la luce che cade come una benedizione muta. Si entra, si sosta, si contempla. In dialogo e in contrasto, Goldfinger Miss di Mario Ceroli propone una riflessione sul culto del corpo e della bellezza: una Venere dorata, moltiplicata in tasselli di legno, che fonde iconografia classica e ossessione moderna per l’idolo visivo. L’oro evoca il fondo delle icone bizantine, ma qui il sacro è scivolato nel glamour, nell’artificio, nella serialità consumata. È un altare laico, ambiguo, tra nostalgia e disincanto. Più intimo e vibrante è La cera di Roma di Alessandro Piangiamore: scultura realizzata con la cera raccolta dalle candele votive consumate nelle chiese della città. Non c’è rappresentazione qui, ma solo evocazione. L’opera è materia votiva, è il residuo tangibile di migliaia di preghiere. La cera fusa, rimodellata, si fa medium tra gesto devoto e forma artistica: un alchimia sottile tra fede e creazione. Con Leoncillo si entra nel registro tragico. Le sue opere, San Sebastiano e Taglio rosso, non raccontano la sofferenza: la incarnano. Le superfici tagliate, i colori laceranti, la materia ceramica che pare contorcersi e ferirsi restituiscono una sacralità ferina, viscerale. È un dolore che non cerca compassione, ma presenza. Come un ex voto crudo, eppure epico. Il volto sublime e astratto del Trascendente di Carlo Maria Mariani sembra appartenere a un’altra galassia spirituale: qui il sacro non si grida, si sussurra. L’angelo che fissa un altrove, le fiammelle simboliche, la geometria lieve del volto offrono un’immagine meditativa, quasi platonica, di ciò che è oltre il visibile. L’opera chiede silenzio, raccoglimento, esegesi. E poi l’ironia drammatica di Marc Quinn: il suo scheletro in preghiera, a grandezza naturale, è una provocazione che sfida lo spettatore. È questo il nostro destino? Un atto devoto compiuto da un corpo svuotato, un gesto che sopravvive alla carne? L’opera è potente perché spoglia il sacro della retorica e lo restituisce alla sua nuda essenza: il bisogno umano di invocare, anche nel nulla. Un capitolo a parte merita Sidival Fila, frate francescano e artista, che da anni lavora su materiali tessili di recupero: tele dismesse, stoffe, frammenti. La sua è un’estetica dell’essenziale, in cui ogni segno è traccia, ogni piega è memoria. Le sue opere non raffigurano: incarnano. Non illustrano: testimoniano. Sono reliquie laiche, sacre non per tema, ma per intenzione. Come in una liturgia antica, il tempo si fa materia, e la materia si fa spirito. L’intelligenza della mostra sta nel non cercare mai una definizione rigida del sacro. Non si tenta qui una teologia visiva, ma un’esplorazione libera e densa di simboli. Gli artisti convocati – e con loro i curatori – offrono suggestioni, aperture, feritoie sul mistero. In un mondo che tende a consumare ogni segno, questo progetto restituisce profondità al linguaggio e spessore all’esperienza. La mostra è un atto critico, ma anche poetico. È un atlante della spiritualità contemporanea, dove convivono dolore e leggerezza, ironia e incanto, materia e trascendenza. Il mito e il sacro – parole archetipiche – non sono né spiegati né storicizzati, ma evocati. Come in ogni vera esperienza estetica, il senso si genera nell’interstizio tra l’opera e lo sguardo, tra l’intenzione e l’eco. E forse, in questo dialogo interiore, risuona ancora una domanda antica: che cosa ci rende umani, se non la nostra capacità di credere – anche solo per un istante – in qualcosa che ci supera? Tra Mito e Sacro è allora più di una mostra: è un invito al raccoglimento, un esercizio di visione, un rito laico per riscoprire, attraverso l’arte, il senso profondo del nostro stare al mondo.

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Bologna, Teatro Comunale Nouveau: “Un ballo in maschera”

gbopera - Mer, 16/04/2025 - 08:51

Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
UN BALLO IN MASCHERA
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma tratto da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo FABIO SARTORI
Renato AMARTUVSHIN ENKHBAT
Amelia MARIA TERESA LEVA
Ulrica SILVIA BELTRAMI
Oscar SILVIA SPESSOT
Silvano ANDREA BORGHINI
Samuel ZHIBIN ZHANG
Tom KWANGSIK PARK
Primo giudice CRISTOBAL CAMPOS MARTIN
Un servo d’Amelia SANDRO PUCCI
In collaborazione per le azioni sceniche con la Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone”
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna
con Teatro Regio di Parma e Fondazione Rete Lirica delle Marche
Bologna, 13 aprile 2025
Dal minuscolo boccascena di Busseto alle larghe fauci del Nouveau, quasi un orizzonte. Ma l’allestimento di Davide Signorini, molto chic, ci si accomoda placidamente. Mentre la regia fa i conti con il nuovo cast. Daniele Menghini, regista baciato dal sense of humor, ridimensiona il suo Riccardo da icona queer a simpatico ed eccentrico golosone. Dopo la lattina di Coca-Cola, già bussetana, compare una candida fetta di torta, che Oscar distrattamente rovescia sull’austero completo scuro di Renato: ecco in una trovata lo scontro fra i due mondi, quello frivolo e leggero del protagonista contro quello sobrio e severo del suo migliore amico nonché prossimo assassino. Naturalmente ci sono anche trovate non altrettanto folgoranti (la vampiresca biacca sul volto nel duettone, per esempio), e qualche registico cliché (come il completo sartoriale, anche la citazione al teatro elisabettiano non può mancare: almeno è l’occasione per Nika Campisi di sbizzarrirsi con la matericità sofisticata dei suoi costumi), ma lo spirito non manca mai e almeno non ci si annoia. Fabio Sartori, protagonista, cala sul tavolo una voce di ampie proporzioni, di solidità innegabile, dal timbro morbido e dallo smalto che riluce squillante. Non sarà poco, anzi nel panorama odierno è un fatto più unico che raro, ma è tutto qui: perché il fraseggio e l’espressione non vanno invero molto di là dal generico. Maria Teresa Leva, in sostituzione dell’annunciata Anastasia Bartoli, canta con bel timbro fresco e luminoso, che risulta forse solo un po’ asciutto nel registro grave. Un appunto stilistico: nella frase “Il feroce decreto mi vuol parte ad un’opra di sangue!” declamare adrianescamente l’ultima parola è quantomeno un azzardo. Amartuvshin Enkhbat sfodera il solito timbro glorioso, morbido, avvolgente. Potrebbe esser tacciato di sacrificare l’espressione alla sovrana eleganza della frase musicale: al contrario, pare a chi scrive che il cantante interni l’espressione al canto, come sempre dovrebbe essere. Silvia Beltrami è un’Ulrica esemplare: per la maniacale cura alla bellezza del suono, sempre femminile e mai sporcato da eccessi volgari o artefatti rigonfiamenti, e per la straordinaria chiarezza della dizione. Un canto elegante, raffinato, di grande scuola, che parrebbe modellato sulla mitica Ebe Stignani: uno stile ormai tragicamente vinto dalle dilaganti affermazioni di mezzosoprani di scuola tedesca e slava. Brillante, agile e luminosa Silvia Spessot come Oscar, un personaggio capitale destinato forse a non tradire mai del tutto il suo mistero. Completano il cast l’ottimo Silvano di Andrea Borghini; Zhibin Zhang e Kwangsik Park, due congiurati vocalmente non sovrastanti; bene il Giudice di Cristobal Campos Marin e il servo d’Amelia di Sandro Pucci. Riccardo Frizza dirige i complessi bolognesi con saldo mestiere: energico, netto e limpido. La sua lettura ha forse il limite di risultare, nel complesso, piuttosto prosaica: di quell’estasi, di quella levità, di quell’elasticità, di quella complicità che rendono il Ballo irresistibile resta ancora appetito all’ascoltatore. Foto Andrea Ranzi

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Ercolano, Antiquarium: “Il legno che non bruciò ad Ercolano”

gbopera - Mer, 16/04/2025 - 00:01

Ercolano, Antiquarium
IL LEGNO CHE NON BRUCIO’ AD ERCOLANO
curato da ACME04 srl
con il supporto tecnologico di Tecno-El Tecnologie Elettroniche srl
Ercolano, 10 aprile 2025
All’Antiquarium del Parco Archeologico di Ercolano prende forma una nuova esposizione permanente che si configura come una vera e propria “capsula del tempo”. Una selezione straordinaria di reperti lignei, unica al mondo per quantità e qualità, restituisce al pubblico la dimensione tangibile della vita domestica nell’antica Herculaneum. Non semplici frammenti di arredo, ma veri e propri fossili culturali, sopravvissuti al disastro del 79 d.C. grazie a un paradosso fisico-chimico che ha fatto della distruzione stessa una matrice di conservazione. È infatti proprio nell’eccezionalità del processo di carbonizzazione, innescato dal flusso piroclastico del Vesuvio e favorito dall’assenza di ossigeno sotto una coltre di fango incandescente alta oltre venti metri, che questi oggetti trovano la loro fortuna postuma. Non combusti, ma carbonizzati: i manufatti lignei, pietrificati nella loro forma, si sono salvati, restituendoci con nitidezza le tracce materiali di un mondo perduto. Arredi, contenitori, strumenti d’uso quotidiano, intarsi e superfici decorate: ogni pezzo racconta un racconto silente, fatto di gesti e abitudini, estetica e funzione. Dopo l’esperienza espositiva alla Reggia di Portici (2022–2023), i reperti trovano ora una nuova e accurata collocazione nell’Antiquarium del Parco, dove si inseriscono in un percorso museografico rinnovato, che replica idealmente due ambienti di una domus romana. L’allestimento, curato da ACME04 srl, con il supporto tecnologico di Tecno-El Tecnologie Elettroniche srl, combina rigore scientifico e immersività sensoriale, ponendo al centro il valore testimoniale di questi fragilissimi oggetti. I fondali ispirati alla decorazione parietale romana e le teche climatizzate ospitano pezzi simbolici come larari, letti, armadi, tavoli, una culla, fino al relitto ligneo di un’imbarcazione rinvenuta lungo l’antica spiaggia. Il percorso è arricchito da supporti multimediali che, attraverso ricostruzioni 3D e narrazioni visive, superano le didascalie tradizionali, coinvolgendo il visitatore in una fruizione emotiva oltre che informativa. L’esperienza si integra idealmente con le altre sezioni del Parco, dal Padiglione della Barca – che rievoca le fasi finali dell’eruzione e la drammatica evacuazione dei suoi abitanti – agli ambienti dedicati al lusso, all’ornamento e all’arte. Le operazioni di recupero e conservazione dei materiali lignei – avviate già negli anni Venti del Novecento sotto la direzione pionieristica di Amedeo Maiuri – si basarono inizialmente sull’uso della paraffina, secondo un approccio empirico ma visionario. A partire dagli scavi del primo XXI secolo, in particolare nella Villa dei Papiri e lungo la spiaggia orientale, sono emersi ulteriori frammenti, tra cui elementi decorativi in avorio e interi tratti di soffittature policrome, come il celebre Tetto del Rilievo di Telefo, oggi restaurato e visibile. Questi ritrovamenti hanno dato avvio a un nuovo paradigma di studio interdisciplinare, che ha coinvolto archeologi, conservatori, fisici e specialisti di diagnostica dei materiali. Il Packard Humanities Institute, in sinergia con il Parco Archeologico, ha reso possibile l’attivazione di protocolli conservativi sperimentali, basati sul controllo microclimatico, sul monitoraggio costante dello stato dei materiali e sull’elaborazione di strategie museografiche non invasive. Un simile approccio – come ha dichiarato il Direttore generale Musei, Prof. Massimo Osanna – si traduce in un modello virtuoso di cooperazione tra pubblico e privato, capace di unire rigore scientifico e visione progettuale, favorendo non solo la ricerca, ma anche la valorizzazione e la crescita culturale del territorio. L’esposizione non si limita a documentare, ma aspira a rendere intelligibile la funzione originaria di ciascun reperto, restituendo il “gesto perduto” dell’antico abitante di Ercolano. Come ha sottolineato il Direttore del Parco, Francesco Sirano, “ogni oggetto ligneo è un frammento di vita, un residuo intimo e quotidiano che ci interroga e ci accompagna nel presente”. Non si tratta quindi soltanto di conservare materia, ma di custodire memoria, nella consapevolezza che ogni intervento su tali manufatti è una sfida tra tempo, tecnica e responsabilità. In questa chiave, il legno carbonizzato di Ercolano – deperibile e allo stesso tempo eterno – diventa paradigma di resilienza e simbolo di una cultura materiale che ancora oggi ci interpella, ci parla, ci connette. Ogni frammento ligneo non è solo oggetto museale, ma parte di un organismo narrativo che attraversa i secoli, offrendo una lezione profonda sul rapporto tra distruzione e sopravvivenza, fragilità e permanenza. Una mostra, dunque, che non è semplice esposizione, ma atto di ascolto e restituzione. Una ricostruzione archeologica che accende la voce del legno e, con essa, quella della città sommersa.

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Aix-en-Provence, Festival de Pâques 2025: Martha Argerich & Renaud Capuçon

gbopera - Mar, 15/04/2025 - 18:49
Grand Théâtre de Provence, Aix-en-Provence, saison 2025 Orchestre national du Capitole de Toulouse Direction musicale Renaud Capuçon Piano Martha Argerich Charlotte Sohy:  Danse mystique op. 19; Ludwig van Beethoven  concerto pour piano n°1 en ut majeur; Antonin Dvorak:  Symphonie n°8 en sol majeur, op. 88 Aix-en-Provence, le 11 avril 2025 Le Festival de Pâques d’Aix-en-Provence est un événement toujours très attendu par les mélomanes, mais pas uniquement. Avec pour label exigence et qualité dans la programmation, le festival attire aussi nombre d’auditeurs voulant participer pour la première fois à ces fêtes musicales. La 12ème édition – déjà- ouvrait ses portes en cette soirée du 11 avril pour un concert attractif à plus d’un titre; Martha Argerich, légende du piano s’il en est, allait interpréter un concerto de Beethoven avec le violoniste Renaud Capuçon qui, une fois n’est pas coutume, avait posé son archet pour prendre la baguette. Le choix des œuvres programmées couvrant près de deux siècles de musique était aussi très attractif. Depuis quelques années les compositrices sont mises à l’honneur et l’on ne s’en plaindra pas. Charlotte Sohy, compositrice française décédée en 1955 dû subir la misogynie ambiante de son époque. Bien qu’empruntant parfois des pseudonymes masculins, ses œuvres ne sont même pas éditées. A-t-elle eu plus de chance avec ses ouvrages littéraires ? Nous écouterons ce soir “Danse mystique”. Son écriture personnelle séduit faisant ressortir les différentes atmosphères dans des sonorités riches et pleines. Imageant avec souplesse une danseuse sacrée dans son chemin vers la lumière, la composition débute dans un piano mystérieux où chaque instrument soliste amène ses couleurs propres. La clarinette basse au son sombre et inquiétant s’estompe pour d’autres instruments, d’autres sonorités, flûte, trompette, trombone prenant grand soin de ne pas briser les atmosphères, dans une continuité de son, mais s’allégeant vers plus de clarté. Musique tonale, agréable mais profonde aussi. Une jolie découverte. Beethoven n’a que 24 ans lorsqu’il compose son premier concerto, tout à fait dans la lignée de Mozart bien que l’orchestre soit un peu plus fourni. Martha Argerich nous en donne ici une version hautement lumineuse et poétique. N’avoue-t-elle pas d’ailleurs qu’il est l’un de ses préférés avec le n°2 ? Dans un tempo allant et sous une baguette précise, une sorte de marche pose les premières bases du concerto avant de donner la parole à la pianiste. Sonorité claire et jeu perlé pour des notes au piqué délicat dans des nuances tout en douceur, Martha Argerich répond à l’orchestre qui soutient le tempo sans lourdeur. Le toucher de la pianiste a quelque chose de magique. Sans brutalité la cadence passe de la puissance d’un trille à une phrase délicate dans un seul souffle alors qu’avec vélocité les doigts déliés enchaînent les gammes. La tendresse au bout des doigts et sans trop de lenteur, le deuxième mouvement exprime la délicatesse d’un jeu aéré dans un discours en toute simplicité avec la petite harmonie avec ces respirations qui laissent attendre les notes…et l’on retient son souffle avec la pianiste. Superbe d’intensité retenue dans la poésie de la clarinette jouant en duo avec le piano. Enchaîné et très vif, le troisième mouvement fait sonner l’orchestre en réponse à la force et la vélocité d’une pianiste qui semble s’amuser dans ce discours questions réponse aux accents en contre-temps. Les changements de nuances et les rythmes soutenus laissent apparaître des sonorités de boîte à musique avant une fin triple forte. Un triomphe, une ovation pour cette grande dame du piano qui a gardé la fraîcheur de jeu d’une jeune fille tout en ayant acquis la profondeur que donne la maturité. Nous entendrons en bis une Gavotte qui semble hésiter entre Bach et le jeu perlé d’un Scarlatti. Un moment de fraîcheur pour cet extrait des Suites anglaises de Jean-Sébastien Bach joué avec aisance et fluidité. L’orchestre national du Capitole de Toulouse est ici mis à l’honneur sous les impulsions d’un Renaud Capuçon très investi. Pastorale, champêtre, la Symphonie n°8 d’Antonin Dvorak, d’une grande richesse mélodique, charme dès la première écoute avec ses accents slaves dans des ambiances de paix et de sérénité que l’on écoute dès l’introduction du premier mouvement aux sons des violoncelles et de la flûte solo. Dans une gestuelle large, le chef d’orchestre enchaîne les atmosphères faisant sonner les cuivres avec force sans brutalité pour revenir à la délicatesse de la petite harmonie et finir dans un tutti éclatant. Plus nostalgique, l’Adagio du deuxième mouvement hésite entre thèmes slaves aux harmonies orientales et le dramatique des cordes aux sons soyeux qui passent avec souplesse du mystère au balancement d’une danse. Un moment de fraîcheur avec la valse du troisième mouvement et le son clair du hautbois dont le thème est repris par les cordes sur de belles longueurs d’archet. L’appel de la trompette introduit l’Allegro final et laisse s’exprimer les violoncelles aux sons chaleureux. Dans un tempo qui avance et une belle unité de son l’orchestre fait éclater une joie tout à fait slave sous la baguette d’un chef à l’écoute des musiciens mais aussi du compositeur. Très belle interprétation d’un orchestre aux mille couleurs. Grand calme pour la variation Nimrod (Variations Enigma) d’Elgar donnée en bis. Sons larges et veloutés. Superbe concert !Photo Caroline Doutre / Festival de Pâques
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Roma, Spazio Diamante: ” Dieci modi per morire felici”

gbopera - Mar, 15/04/2025 - 17:32

Roma, Spazio Diamante
DIECI MODI PER MORIRE FELICI

drammaturgia Emanuele Aldrovandi e Jacopo Giacomoni
con Luca Mammoli
scenografia Francesco Fassone
collaborazione alla realizzazione scenografia Jessica Koba
costumi Costanza Maramotti
collaborazione alla realizzazione costumi Nuvia Valestri
musiche Riccardo Tesorini
grafiche Lucia Catellani
produzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Associazione teatrale Autori Vivi, ERT Emilia Romagna Teatri
Roma, 11 aprile 2025
Dall’11 al 13 aprile è andato in scena un esperimento teatrale molto interessante:  Dieci modi per morire felici.  Uno spettacolo che mescola ironia, riflessione e una buona dose di casualità, in un’esperienza teatrale che non è mai la stessa due sere di fila. L’atmosfera che ti avvolge appena entri è fredda, ma al contempo magnetica, capace di catturare l’attenzione e coinvolgere ogni sensazione. La scenografia ti trasporta immediatamente in un “convivio” che sembra provenire da un altro mondo, un ambiente sospeso tra il tangibile e l’ultraterreno, dove il confine tra realtà e immaginazione si fa sottile. Eppure, in questo universo che sembra fuori dal tempo, la vita è presente, palpabile. Testimonianza di ciò è l’acqua, simbolo per eccellenza di vita, che scorre incessante, imprevedibile, sempre in movimento. Un “demiurgo” cammina con grazia sopra la superficie di una piccola piscina d’acqua, figura centrale di questa esperienza. È il commentatore che, con un perfetto equilibrio tra ironia e saggezza, guida il gioco, invitandoci a riflettere sulla nostra stessa esistenza. Ma la vera sorpresa è che sei proprio tu, spettatore, a entrare in scena. La tua presenza si fa parte integrante di questa performance, dove il confine tra osservatore e protagonista si dissolve, tra vita e teatro svanisce.  Prima di entrare in teatro ti viene assegnato un numero e, se sei tra i fortunati, o meglio, se il destino lo vorrà, sarai chiamato a sederti attorno al banchetto con altri partecipanti, pronti a prendere parte a scelte stravaganti che tracceranno il destino di ognuno. Un’esperienza che non è mai uguale, dove ogni decisione ha il potere di cambiare il corso della serata e di scrivere, insieme a tutti, un nuovo capitolo della propria vita. Vi è un continuo rimando alla fluidità dell’esistenza, che ci scivola addosso, tra il comico e il drammatico. In fondo, la vita è un po’ così, un misto di casualità e scelte che, a volte, sembrano perfette, a volte disastrose, ma sempre uniche. Al centro della scena, un piccolo schermo si fa protagonista, trasformandosi in una finestra sul tempo e sulle scelte che definiscono la nostra esistenza. Qui, gli anni scorrono inesorabili e le decisioni di vita si presentano come segnali da seguire, creando una connessione immediata e profonda con il pubblico. La tecnologia si inserisce in modo discreto: le frasi che appaiono sullo schermo sembrano essere emesse da una sorta di intelligenza artificiale, una voce che ci osserva, ci guida e ci sfida, invitandoci a prendere decisioni cruciali. Un piccolo dispositivo che amplifica il coinvolgimento dei protagonisti della scena, facendo sì che ogni attore/spettatore diventi parte di una narrazione che si evolve in tempo reale. “Quanta energia hai deciso di spendere per i tuoi studi? Quanto per la tua vita d’artista? E la tua relazione sentimentale sarà ricambiata? Quanti rimpianti avrai alla fine della tua vita?Ogni domanda è una scelta, ogni risposta, un tassello del nostro destino. Niente è scritto, tutto è in divenire. Da questo processo prende vita un racconto che si costruisce attraverso le scelte individuali e collettive. L’esperienza diventa una riflessione sul destino stesso, una continua sfida alla sua inevitabilità, tutto si costruisce momento dopo momento, con la consapevolezza che ogni passo ha il potere di modificare il corso della storia. Le luci sono calibrate con precisione, creando l’atmosfera perfetta per ogni momento: dai toni più leggeri e giocosi a quelli più profondi e riflessivi. Quando un “partecipante” perde, ecco che le luci si tingono di rosso, e quando si vince le luci verdi esplodono, accompagnate dalla musica che sembra quasi provenire da un quiz televisivo, aggiungendo quel tocco ironico e divertente che fa sorridere. A ricordarci che “la vita a volte è tutta un un quiz”! Musica e luci lavorano, così, in sinergia. Il Demiurgo, interpretato con maestria da Luca Mammoli, è il cuore pulsante dello spettacolo. Non si limita a essere un narratore, ma diventa un vero e proprio catalizzatore, capace di guidare lo spettatore attraverso un vortice di battute, ironia e riflessioni più intime sul nostro rapporto con il destino. Si muove con leggerezza nell’acqua, dominando la scena con naturalezza, e riesce a far ridere senza mai forzare la mano. È l’incarnazione del teatro e della vita che gioca con le emozioni, capace di sorprendere, emozionare e commuovere senza mai scivolare nell’eccesso. Delicato, affilato, imparziale: il suo personaggio è una presenza che sfiora, pungola, ma sempre con grazia. Dieci modi per morire felici è uno spettacolo che ti fa sul destino e sulle scelte che facciamo. È un gioco teatrale che si rinnova ogni sera, in cui tu, spettatore, sei una parte attiva del tutto, che decide come andrà a finire. Si ride, si riflette, e esce dal teatro con un sorriso nuovo, ed uno sguardo sulla vita differente. 

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Roma, Sala Umberto: “Premiata Pasticceria Bellavista” dal 23 al 27 aprile 2025

gbopera - Mar, 15/04/2025 - 16:05

Roma, Sala Umberto
PREMIATA PASTICCERIA BELLAVISTA
una commedia di Vincenzo Salemme
compagnia Nest e Diana or.is
con Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino
e con Stefano Miglio, Viviana Cangiano, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice
scene Luigi Ferrigno
costumi Chiara Aversano
disegno luci Paco Summonte
sound designer Italo Buonsenso
coreografie Chiara Alborino
regia di Giuseppe Miale Di Mauro
Ermanno e Giuditta Bellavista sono i proprietari di una pasticceria annessa alla loro casa. Con loro vive la madre, sofferente di diabete e pressione alta. Ermanno ha una relazione in segreto con Romina, la quale è stanca di dover parlare con lui di nascosto e vuole che si decida a parlarne con la famiglia. Anche Giuditta ha una relazione segreta con Aldo, pasticcere alle dipendenze dei Bellavista, che però non ama la non bella Giuditta ma mira alla sua ricchezza. Intanto si scopre che Ermanno tre mesi prima, ha subito un intervento di trapianto agli occhi, questi vennero prelevati da Carmine, un senzatetto che dopo un incidente automobilistico entra in coma. Creduto però morto, venne deciso di prelevargli gli occhi e trapiantarli ad Ermanno. Così, una volta svegliato dal coma, Carmine si ritrova cieco. Carmine riesce a raggiungere la pasticceria di Ermanno, rivelandogli che sono 3 mesi che non possiede più gli occhi, e che il prof. Rubelli, che ha eseguito l’intervento, è implicato nel gioco azzardo e nel traffico illecito di organi. Carmine decide di rimanere nella pasticceria di Ermanno, dicendo che ora egli dovrà guardare la vita per lui. Intanto nascono due problemi: la mamma di Ermanno e Giuditta, convinta che i figli la vogliano far morire per impossessarsi dell’eredità, vuole tagliarli fuori dal testamento. Di conseguenza, Aldo non è più tanto sicuro di sposare Giuditta, sapendo che ella forse non potrà più ereditare. Carmine coglie l’occasione per ideare un piano con il quale potranno essere risolti i problemi di Ermanno, Giuditta e anche i suoi. Qui per tutte le informazioni.

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Venezia, Teatro La Fenice: Ton Koopman dirige la Passione secondo Matteo

gbopera - Mar, 15/04/2025 - 11:59

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Ton Koopman
Maestro del coro Alfonso Caiani
Voci bianche dirette da Diana D’Alessio
Evangelist Ian Bostridge
Jesus Thomas Laske
Soprano Miriam Feuersinger
Controtenore Maarten Engeltjes
Tenore Klaus Minsub Hong
Basso Klaus Mertens
Basso Hans Wijers
Johann Sebastian Bach, Matthäus-Passion BBW 244
Venezia, 12 aprile 2025
La Matthäus-Passion è uno straordinario monumento in musica, che nel primo Ottocento fece rinascere l’interesse per Bach, complice Felix Mendelssohn Bartholdy, che – traendola dall’oblio – la ripropose a Lipsia nel 1829, a celebrare il centenario della prima esecuzione, che allora si riteneva fosse avvenuta presso la Thomaskirche a Lipsia nel 1729, mentre studi recenti la fanno risalire a due anni prima. Scritta dopo la Johannes-Passion, essa rappresenta il culmine di una tradizione plurisecolare, che conobbe nel Seicento, in ambito tedesco, un primo punto d’arrivo grazie a Heinrich Schütz. Più complessa e spettacolare rispetto alla precedente, la Matthäus-Passion prevede due orchestre e due cori, che spesso si rispondono, così da creare sovente un effetto ‘stereofonico’, consono alla spazialità della Thomaskircke, dove Bach ricopriva il ruolo di Kantor. La narrazione della vicenda è affidata all’Evangelista, che intona una serie di recitativi secchi, al cui interno talora intervengono direttamente i personaggi: Gesù – i cui interventi sono accompagnati dagli archi, che si uniscono al Basso Continuo con effetto di particolare fascino –, Pilato, la Moglie di Pilato, Pietro, Giuda. Spesso la progressione narrativa si interrompe per lasciare spazio alla riflessione, alla preghiera, attraverso arie, recitativi accompagnati, ariosi, cori, corali luterani.
La Matthäus-Passion, proposta dalla Fenice a ridosso della Pasqua, è affidata alla prestigiosa bacchetta di Ton Koopman – grande esperto in questo repertorio – e a voci soliste di livello internazionale. Ne è risultata un’esecuzione intensa, che ha coinvolto il pubblico dalla prima all’ultima battuta, complici l’Orchestra, il Coro, istruito da Alfonso Caiani, e il Coro di Voci Bianche, guidato da Diana D’Alessio. Di impressionante forza evocativa è risultato il mesto inizio strumentale – a preannunciare il Golgota – fino all’entrata dei due Cori, uno dei quali ha posto all’altro domande lapidarie sul sacrificio di Cristo. Tutto è sfociato poi in un corale luterano “O Lamm Gottes, unschuldig” (O Immacolato agnello di Dio) con l’intervento paradisiaco dei Piccoli Cantori Veneziani. Più oltre – dopo che l’Evangelista (il tenore Ian Bostridge) ha parlato del convegno di Sacerdoti, Scribi ed Anziani nel palazzo di Caifa per stabilire il modo di catturare Gesù ed ucciderlo – i due Cori si sono distinti per l’intensità e la concitazione del loro intervento, in forma di canone, riguardante il giorno dell’assassinio: “Ja nicht auf das Fest, auf dass nicht ein Aufruhr werde im Volk” (Non durante la festa, perché non avvengano tumulti fra il popolo). Successivamente l’Evangelista ha ripreso a raccontare: Gesù in Betania, la donna che gli sparge sul capo l’unguento, lo sdegno dei discepoli, espresso con forza direttamente dal Coro: “Wozu dienet dieser Unrat?” (Perché questo spreco?). Più oltre è intervenuto anche il Cristo (il basso Thomas Laske): “Was bekümmert ihr das Weib?” (Perché infastidite questa donna?), accompagnato dal suono nobile ed estatico degli archi su cui risaltava la sua voce scura. Anche Giuda ha parlato alquanto dopo, rivolgendosi ai sacerdoti: “Was wollt ihr mir geben? Ich will ihn euch verraten?” (Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?). È seguito il commento da parte del soprano Miriam Feuersinger – che si è segnalata, qui come altrove, per il legato e le colorature – con un’aria introdotta dai sospiri dei flauti: “Blute nur, du liebes Herz!” (Sanguina, carissimo cuore!), in cui la musica ha sottolineato con disegno sinuoso la parola “Schlange” (Serpente). Autorevole il tenore Klaus Minsub Hong nel recitativo “O Schmerz!” (O dolore!) e nell’aria “Ich will bei meinem Jesu wachen” (Voglio vegliare accanto al mio Gesù), toccante commento alla cattura del Salvatore. Ancora il Coro si è fatto apprezzare nel Corale che chiude la prima parte: “O Mensch, bewein dein Sünde groß” (Oh uomo, piangi il tuo grande peccato), introdotto da coppie di note ad imitare i singhiozzi. Nella seconda parte si è arrivati al punto centrale della narrazione: i famosi dinieghi di Pietro. Più in là l’amaro pianto dell’apostolo pentito ha avuto degna risonanza nella grande aria espressiva, senza da capo, del controtenore Maarten Engeltjes: “Erbarme dich, Mein Gott” (Abbi pietà di me, Signore), con il suo sublime ritornello, in cui il violino solo ha evocato sospiri e lamenti su un basso discendente. Altro episodio da ricordare, l’interrogatorio di Gesù di fronte a Pilato, nel quale la teatralità sottesa alla musica è emersa con evidenza: dal dialogo tra il governatore della Galilea e il Nazareno alle urla della Turba (il Coro), che vuole salvare Barabba, intonando il suo nome tramite un accordo di settima diminuita, e condannare il Cristo: “Laß ihn kreuzigen!” (Sia crocifisso!), un passaggio cruciale, questo, sottolineato da un fugato estremamente espressivo, caratterizzato da intervalli molto aspri, tra cui il Tritono (Diabolus in musica). Analogamente di grande impatto: l’arioso del controtenore di fronte allo scandalo della Croce: “Ach Golgatha, unselges Golgatha!” (Ah! Golgota, funesto Golgota!), introdotto da un ostinato ritmico degli oboi, ripreso dalla voce nell’aria successiva; la scena della morte di Gesù, che ha intonato le famose parole, “Eli, Eli, lama sabacthani?” (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) senza l’accompagnamento degli archi, in un recitativo secco estremamente drammatico nella sua essenzialità; il racconto, da parte dell’Evangelista, del terremoto scatenatosi dopo la morte del Messia, dove il tremare della terra è stato reso attraverso un nudo quanto pregnante recitativo. Impossibile non citare il grande coro conclusivo – Pasolini lo ha utilizzato nel suo Vangelo secondo Matteo – “ Wir setzen uns mit Tränen nieder” (Piangendo ci prostriamo), in cui è ritornata la figura del sospiro, del lamento attraverso note legate due a due lungo una linea discendente. Calorosi applausi rivolti a tutti, per quanto Ian Bostridge abbia forse “forzato” un po’ troppo.

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Roma, Sala Umberto: “I promessi suoceri”

gbopera - Lun, 14/04/2025 - 23:59

Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo
Con  Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
Roma, 14 aprile 2025
C’è una comicità che si limita a far ridere — e poi c’è quella che, nel riso, porta con sé un retrogusto dolente, un’eco delle inquietudini familiari, dei disastri domestici, delle ipocrisie gentili. I promessi suoceri di Paolo Caiazzo, andato in scena alla Sala Umberto, appartiene a questa seconda stirpe. È una commedia costruita con mano esperta, che si muove nel solco della tradizione napoletana — da Scarpetta a Taranto, passando per la televisione anni ’80 — ma con l’intento, quasi tenero, di risarcire i suoi personaggi da ciò che sono diventati: maschere stanche che recitano la parte di padri, madri, suoceri, senza aver fatto davvero i conti con la propria biografia. Antonio, ex animatore turistico che ha ripiegato nella mediocrità borghese, è una figura tragicamente comica: indossa i vestiti della farsa, ma la sua malinconia filtra in ogni battuta, come un vino che fermenta nel fondo del bicchiere. Paolo Caiazzo, che firma anche la regia, lo interpreta con misura e umanità: non lo schiaccia nella macchietta, lo tiene sospeso tra il riso e il rimorso. È un uomo che non ha perdonato il tempo, e che adesso, all’alba delle nozze della figlia, teme di essere accantonato come un mobile fuori moda. Ma non è forse questa la condizione eterna del padre, che vede la figlia andarsene e intuisce, senza dirlo, che non sarà mai più la stessa? Maria Bolignano è un’Elisa magistrale: materna, assertiva, corporea, con quel tono da matrona napoletana che, senza bisogno di urlare, governa la scena. La sua recitazione si appoggia sull’improvvisazione, ma dietro il ritmo comico si avverte una sapienza istintiva: è una donna che conosce il teatro della vita, e lo mette in scena con l’intelligenza di chi ha imparato tutto sul corpo — anche le sconfitte. Il cast che ruota attorno a questa coppia è ben calibrato. Yulia Mayarchuk, nei panni della soubrette dal passato misterioso, introduce un elemento di grottesco quasi felliniano. Il suo personaggio vive nel confine tra la caricatura e la nostalgia: è il residuo di un varietà in disarmo, ma non rinuncia alla propria dignità. Domenico Pinelli e Antonio D’Avino offrono interpretazioni solide, funzionali a quell’impasto di equivoci e rivelazioni che costituisce la colonna vertebrale della commedia. Giovanna Sannino, nel ruolo di Lucia, è il centro calmo dell’uragano familiare: giovane, semplice, affettuosa, appare come un personaggio minore, ma è su di lei che si costruisce — e si spezza — l’equilibrio dell’intero impianto drammaturgico. La regia di Caiazzo è abile nel far emergere le dinamiche relazionali, senza sovraccaricare la scena. Ogni gesto è al servizio della parola, e la parola è sempre pensata per essere capita. Non c’è ricerca del virtuosismo, ma un amore profondo per il pubblico. In questo senso, I promessi suoceri non è una pièce sperimentale, ma un lavoro d’artigianato teatrale onesto, colto nel suo citazionismo (Scarpetta, Molière, Manzoni) e moderno nel suo modo di riflettere su quanto la famiglia sia diventata un luogo di finzioni condivise più che di verità. Le scenografie di Max Comune sono tra i dettagli più riusciti dello spettacolo. Nulla di eclatante, ma una scena viva, domestica, piena di oggetti quotidiani che parlano da soli: una casa che si finge casa, con i tulipani in saldo e il copri water restituito al mittente. Una scenografia, dunque, non come contenitore neutro, ma come luogo affettivo e ironico, capace di raccontare da sé la precarietà dei protagonisti. I costumi di Federica Calabrese sono divertiti, colorati, volutamente eccessivi in alcuni casi, quasi a rimarcare l’oscillazione tra verosimiglianza e parodia. Ma è soprattutto il loro uso narrativo a colpire: abiti che “parlano” del personaggio, del suo desiderio di apparire meglio di ciò che è, della sua tensione verso un’idea di decoro che vacilla. Le luci disegnate da Luigi Rai accompagnano le svolte emotive con discrezione: calde, d’ambiente, rassicuranti, fino a quei pochi ma efficaci viraggi che sottolineano gli snodi drammatici. Non c’è ricerca di effetti, ma un gioco scenico che funziona proprio perché non distrae. Non manca la risata, e nemmeno la battuta volgare (ma mai gratuita). E tuttavia, al fondo di tutto, resta un senso di struggimento per ciò che non è stato, per le strade sbagliate, per gli amori giovanili mai compiuti, per il tempo che corre e che, come sempre, non aspetta nessuno. E allora la “divina provvidenza”, evocata a mo’ di parodia manzoniana, diventa un modo garbato di dire che alla fine il teatro, almeno lui, ci salva. Non perché cambia la realtà, ma perché — per due ore — ci fa credere che ogni conflitto possa risolversi in una risata. E questa, sì, è la più seria delle illusioni.

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Intervista a Nicoletta Manni: danzatrice étoile del Teatro alla Scala di Milano interprete della Tat’jana in Onegin all’Opera di Roma

gbopera - Lun, 14/04/2025 - 12:59

Intervista a Nicoletta Manni: danzatrice étoile del Teatro alla Scala di Milano interprete della Tat’jana in Onegin all’Opera di Roma
Roma, 14 aprile 2025
Il genere del balletto narrativo è un’eredità preziosa della danza teatrale che grazie alle politiche culturali dei teatri d’opera continua a restare in vita ai nostri giorni. Nel panorama della danza novecentesca ad imporsi è stato in particolare il balletto narrativo di marchio inglese con grandi nomi dalla portata universale quali Frederick Ashton, John Cranko e Kenneth Macmillan. Il balletto Onegin nasce poi da una particolare congiunzione. La musica è di Pëtr Il’ič Čajkovskij, già autore di un’opera sul romanzo in versi puškiniano. Tuttavia, nella rielaborazione del compositore Kurt-Heinz Stolze è proprio la musica operistica a venire esclusa. Ciò che rimane è la sostanza musicale di quel “volo pieno d’animo della Tersicore russa” tanto decantato nelle pagine puškiniane e consono al carattere di “limpida tristezza” spesso riconosciuto alla musica del compositore russo. La scrittura sul corpo appartiene al nome del coreografo sudafricano John Cranko che, come ben ricorda l’attuale sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Francesco Giambrone nelle note di sala, si trovava allora nella fase del “miracolo di Stoccarda”. Il balletto nacque proprio sessanta anni fa nel periodo maggiormente creativo e di successo di Cranko, anche se in realtà già negli anni londinesi egli si era accostato all’opera omonima al fine di realizzarne i divertissements per il Covent Garden. Nel particolare linguaggio danzato, ampio spazio occupa la costruzione dei personaggi ed un ruolo principale è affidato al carattere di Tat’jana, principale figura femminile del romanzo in versi nonché del balletto ad esso ispirato. Nella ripresa vista nelle scorse settimane al Teatro dell’Opera di Roma si è esibita la ballerina ospite Nicoletta Manni, danzatrice del Teatro alla Scala di Milano che proprio alla fine di una recita del balletto nel novembre 2023 ha ricevuto la nomina di étoile del prestigioso teatro milanese. Di questa particolare esperienza ci ha raccontato con la sua impeccabile grazia in un’intervista gentilmente concessa appositamente per GBOPERA.
Cara Nicoletta, l’abbiamo ammirata in scena in occasione della prima e delle repliche di Onegin. Potrebbe raccontarci come è nata l’idea di coinvolgerla nella produzione e che emozioni le ha regalato questa collaborazione?
“È stato un grande piacere ed un vero onore per me lavorare con il Balletto del Teatro dell’Opera di Roma. L’idea di coinvolgermi appartiene ad Eleonora Abbagnato, che ha scelto di affiancarmi Friedemann Vogel come partner. È questa la prima volta che danzo all’Opera di Roma, ed è anche la prima volta che danzo con Vogel. Invece Onegin è un balletto che ha segnato il mio percorso artistico, aiutandomi a scoprire tanti lati interiori nella ricerca della corretta interpretazione, soprattutto è il balletto che mi ha regalato la nomina di danzatrice étoile del Teatro alla Scala, dove lo danzavo accanto a Roberto Bolle”.
Tanti ricordi dunque associati al balletto di John Cranko. Dal suo punto di vista speciale di interprete quali aspetti caratterizzano lo spettacolo?
“L’Onegin di John Cranko è uno dei migliori esempi di balletto narrativo, un vero e proprio capolavoro. Qui il coreografo riesce veramente a raccontare il dramma toccando il cuore dello spettatore attraverso l’unione di movimento e musica in passi a due e pezzi di gruppo emotivamente molto comprensibili. Naturalmente, un grande contributo è offerto dall’intensità interpretativa dei diversi artisti, ovvero dalla loro capacità di costruire dei ruoli credibili, nonché dal loro affiatamento e dalla loro complicità in scena. A seconda dei diversi partner nell’interpretazione si sottolineano degli aspetti diversi. A prendere diversi accenti è la stessa ricostruzione della storia. Nel caso dell’ultima produzione in esame, l’Onegin interpretato da Vogel ha una peculiarità spiccatamente nobile, elegante. Del resto, Friedmann ha una grande sensibilità, e poi conosce bene il balletto poiché proviene dalla compagnia di Stoccarda”.
E invece il ruolo della figura femminile protagonista come si presenta ai suoi occhi?
“Il ruolo di Tat’jana ha grande evoluzione nel balletto. Da principio è una ragazza che sogna il grande amore, che crede nell’amore puro. L’incontro con Onegin le permette di crescere. Se è pur vero che nel balletto ella è in qualche modo derisa, successivamente presenta un grande coraggio nell’accettare il destino di donna adulta. Questo non vuol dire che la parte finale del balletto abbia maggiore importanza. Tutta l’evoluzione del personaggio va adeguatamente tratteggiata. Io adoro interpretare in scena Tat’jana, anche se nella vita di tutti i giorni ho una personalità alquanto diversa. Si tratta di una storia scenica incredibile da vivere: è struggente, è coinvolgente, alla fine dello spettacolo è del tutto impossibile trattenere le lacrime”.
Che posto occupa dunque il balletto nel suo repertorio?
Onegin occupa davvero uno dei primissimi posti tra i miei preferiti. Lo apprezzo molto in quanto oltre ad essere un balletto classico ha il pregio di presentare un racconto teatrale. A dire il vero, per me è molto difficile dire quale sia il mio balletto preferito. Nel corso della carriera si cresce molto, tutto dipende dal percorso artistico svolto. In questo momento particolare, posso affermare con certezza che Onegin occupa il primo posto tra i miei balletti del cuore”.
A proposito dei suoi progetti artistici ricordiamo ai nostri lettori la recente pubblicazione del libro autobiografico La gioia di danzare e lo spettacolo omonimo. Cosa può dirci a riguardo?
“Il libro è uscito nell’autunno del 2023. Qui mi racconto al pubblico adottando il punto di vista della creazione dei personaggi. Osservo me stessa dal lato del palcoscenico. Racconto qualcosa di me in modo particolare. Il gala omonimo si è svolto per la prima volta a Lecce nell’ottobre scorso al Teatro Politeama, e successivamente è stato replicato in altre città. Lo spettacolo è nato come un ritorno a casa, è stato pensato per (ri-)portare la danza nella mia terra. Non so ancora dove mi condurrà questo progetto. Per ora sono contenta di danzare con gioia e di aver trascorso questo periodo bellissimo a Roma, dove il pubblico mi ha riservato un’accoglienza estremamente calorosa”. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Categorie: Musica corale

Napoli, Piccolo Bellini: “Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio”

gbopera - Dom, 13/04/2025 - 16:04

Napoli, Sala Piccolo Bellini, Stagione 2024/25
“SOLO UNA COSA HO AVUTO NEL MONDO. L’ORECCHIO”
Operina drammatica dal film “La Ricotta” di Pasolini
Regia, Drammaturgia, Musiche, Paesaggi Sonori Blastula.scarnoduo: Monica Demuru, Cristiano Calcagnile
Voce ed effettistica Monica Demuru
Voce, batteria, percussioni, strumentini, chitarra orizzontale Cristiano Calcagnile
Produzione Toscana Produzione Musica
Napoli, 9 aprile 2025
Al Piccolo Bellini, una graziosa sala del Teatro Bellini, va in scena Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio: un’operina drammatica eseguita da Blastula.scarnoduo: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile. Il materiale letterario e i momenti poetici dell’operina provengono dalla produzione artistica di Pier Paolo Pasolini. L’opera è una sintesi «musicale» de La ricotta, episodio cinematografico pasoliniano che, insieme ad altri tre episodi (di altri registi: Rossellini, Godard e Gregoretti), dà forma a un lavoro filmico collettivo del 1963: Ro.Go.Pa.G.. L’episodio – come il poeta afferma nei fotogrammi didascalici iniziali – rievoca indirettamente la Storia della Passione; e la rievocazione, nella finzione filmica, viene affidata a un povero figurante di un film sulla Passione, Stracci – che, dopo aver sofferto drammaticamente la fame, si ingozza così tanto di anguria, spaghetti e ricotta da morire. E muore in croce, come un buon ladrone delle borgate romane. Orson Welles, che interpreta il regista del film, ne prende atto freddamente: «Povero Stracci… crepare: non aveva altro modo per ricordarsi che anche lui era vivo». La vicenda del lavoro pasoliniano viene risolta attraverso la potenza poetica ed evocatrice della parola: la parola, filmica e teatrale, assume un senso «altro» da quello iniziale: la sceneggiatura cinematografica viene ricomposta e trasformata in un testo teatrale fatto di immagini e suoni, di immagini filmiche ricostruite soltanto attraverso la parola: il testo, di Monica Demuru, è un pastiche drammatico, strutturalmente determinato dal realismo della scrittura pasoliniana: la vicenda, però, è a volte interessata da digressioni canore, ottimamente innestate nella drammaticità della storia. La vicenda del povero Stracci assume, dunque, una tinta fortemente poetica – e i momenti dialettalmente romaneschi, pur conservando incisività ed efficacia espressive, assumono un senso puramente sonoro. Demuru dà voce ai personaggi principali de La ricotta, risolvendo solisticamente i dialoghi. L’azione teatrale viene evocata «vocalmente», e la determinazione delle scene e dei personaggi avviene grazie alla ricchezza timbrica e alle capacità espressive della voce, supportata e sostenuta dal microfono: lo strumento consente all’attrice-cantante-scrittrice di «variare» parossisticamente i registri della voce, grazie a un gioco di effettistica vocale. E ciò accade, per esempio, nella «conversazione» tra il regista Welles e il giornalista; un escamotage dal carattere anche sottilmente «comico». L’attrice riesce a evocare vocalmente anche i paesaggi periferici romani e al cromatismo dei tableau vivant dell’episodio cinematografico, riproducenti la Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo del Pontormo. Le parole vengono sostenute e «completate» da un altro linguaggio, quello musicale, eseguito e restituito da Cristiano Calcagnile. La scrittura prevede interventi irregolari di elementi sonori veementi e «rumorosi», che danno risalto al testo. L’irregolarità del linguaggio strumentale consente al musicista di poter «rinnovare» continuamente il materiale sonoro, anche attraverso una certa libertà interpretativa ed esecutiva. Batteria, percussioni, strumentini, chitarra orizzontale, e pochi interventi vocali del musicista, dialogano con il testo letterario. Si tratta, però, di una conversazione «impossibile», determinata da una irrisolvibile incomunicabilità, che allude alla drammaticità della vicenda. L’operina viene anche «interrotta» da un intervento estremamente commovente, quello della voce di Pasolini, impegnata nella lettura di una sua poesia. In definitiva, si è trattato di un lavoro teatrale e musicale accolto positivamente dal pubblico napoletano, che ha apprezzato la convivenza e l’originale commistione di registri espressivi e linguaggi artistici diversi.

Categorie: Musica corale

Parigi, Opera National de Paris: “Vers la Mort” e ” Appartement”

gbopera - Dom, 13/04/2025 - 15:33

Parigi, Opéra National de Paris 
“VERS LA MORT”
Creazione coreografica originale OCD Love
Coreografia e costumi Sharon Eyal
Assistente alla coreografia e ai costumi Gai Behar
Musica Ori Lichtik
Lighting Design Thierry Dreyfus
Ripetitori Breanna O’Mara, Léo Lerus
Interpreti Naïs Duboscq, Caroline Osmont, Nine Seropian, Adèle Belem, Marion Gautier de Charnacé, Mickaël Lafon, Yvon Demol, Julien Guillemard, Nathan Bisson
“APPARTEMENT”
Coreografia Mats Ek
Musica ed esecuzione dal vivo Fleshquartet
Scene e costumi Peder Freiij
Luci Erik Berglund
Ripetitori Mariko Ayoama, Ana Laguna, Stéphane Bullion
Interpreti Ludmila Pagliero, Marc Moreau, Jack Gasztowtt, Antoine Kirscher, Pablo Legasa (La Salle de Bains), Hugo Marchand (La Télévision), Hanna O’Neill, Clémence Gross, Ida Viikinkoski, Germain Louvet, Marc Moreau, Antoine Kirscher, Pablo Legasa, Daniel Stokes (Le Passage Piéton), Valentine Colasante, Jack Gasztowtt (La Cuisine – Pas de Deux), Germain Louvet, Antoine Kirscher, Daniel Stokes (Trio – Pas de Deux), Hanna O’Neill, Pablo Legasa, Valentine Colasante, Jack Gasztowtt, Ludmila Pagliero, Hugo Marchand, Ida Viikinkoski, Marc Moreau (Valse), Valentine Colasante, Hannah O’Neill, Ludmilla Pagliero, Clémence Gross, Ida Viikinkoski (La Marche des Aspirateurs), Germain Louvet, Antoine Kirscher (Duo des Embryons), Ida Viikinskoski, Marc Moreau (La Porte – Pas de Deux)
Balletto creato per il Balletto dell’Opéra national de Paris il 27 maggio 2000
Parigi, Palais Garnier, 30 marzo 2025
Parigi, oggi come nel Seicento, è tra le capitali indiscusse della danza e del balletto. Diretta dal dicembre 2022 da José Martinez, già Danseur Étoile del teatro nonché direttore artistico tra il 2011 e il 2019 della Compagnie National de Danse d’Espagne, la compagnia di balletto dell’Opéra National de Paris punta ad intrecciare in uno scambio osmotico le coreografie più incisive del repertorio classico e contemporaneo, al fine di preservare la lunga tradizione devota all’eccellenza e di favorire al contempo una fruttuosa collaborazione con i nomi di punta della più fervente attualità autoriale. Si situa naturalmente in questa linea lo spettacolo da noi visto il 30 marzo scorso al Palais Garnier incentrato sul rapporto tra la più recente affermazione della coreografa israeliana Sharon Eyal e la classica contemporaneità di Mats Ek, di cui si festeggia l’ottantesimo compleanno. Due pezzi, quelli scelti, destinati alla riscoperta delle sfumature più solitarie dell’amore. Due espressioni di un diverso modo di concepire la scrittura coreografica, che nel riscoprire affinità e nel tracciare sentieri ereditari, evidenziano congiuntamente discordanze e disomogeneità. In un cammino a ritroso, possiamo quindi vedere quanto la danza di oggi nel suo essere sostanzialmente postumana si sia distanziata dalla danza più puramente postmoderna dei grandi autori novecenteschi. Nel primo pezzo, Vers la mort, ci troviamo di fronte ad una rielaborazione del più noto OCD LOVE. Tutto nasce da una poesia del trentenne poeta slam americano Neil Hilborg, ovvero da un monologo autobiografico in versi di un uomo innamorato che soffre di un disturbo ossessivo compulsivo. Una storia di tic mentali che si susseguono ripetendosi all’infinito. «Ho chiuso la porta? Sì. Mi sono lavato le mani? Sì». E all’improvviso la visione di una lei che sconvolge tutti i patterns mentali, cambiandone il paesaggio di immagini con una curva a spillo delle labbra o una ciglia caduta su una guancia. È questa la fonte della trilogia di Sharon Eyal, creata a partire dal 2015 per la propria compagnia di nome L-E-V, la traduzione in ebreo del termine «cuore». Nel 2003 la coreografa era divenuta direttrice artistica associata della Batsheva Dance Company. Dal 2005 al 2012 ne era stata coreografa residente. Nata a Gerusalemme nel 1971 Sharon Eyal si è imposta nel panorama della danza contemporanea israeliana con una trentina di creazioni e numerosi premi. Spesso associata all’universo della danza gaga, in realtà la coreografa ha mosso i primi passi nell’ambito della danza classica da cui prende sovente le mosse per la sua ricerca espressiva. La sensualità è uno dei temi cardine della sua coreografia, coniugata in una dimensione di metaverso techno dalla musica di Ori Lichtik. La scenografia del pezzo è oltremodo spoglia, ed a determinare il quadro di emozioni sono i fasci di luce di Thierry Dreyfus. Avvolta dalla luce bianca nella sua calzamaglia color carne, la prima danzatrice reagisce ai beat della musica con una distensione delle braccia, sfiorando leggermente l’avambraccio per poi contrarsi con improvvisa decisione. Da qui si passa alla spalla ed al cambré, per tornare lentamente in asse. Dopo un cambio di épaulement, la testa si scuote mentre le braccia scivolano giù. Il piede si stacca da terra coinvolgendo in un sussulto anche il ginocchio, e la gamba scavalca la prima posizione delle braccia in un assertivo développé. Si unisce una seconda danzatrice imponendosi con le accelerazioni del corpo, e le due si muovono a specchio. Infine, un piccolo corpo di ballo anima il pezzo di un’energia frenetica, obbligando lo spettatore a rimanere sintonizzato con questo loop di movimenti rivelatosi asfittico dopo lo stordimento iniziale. Ben diversa l’atmosfera di Appartement, creato originariamente nel 2000 da Mats Ek per la compagnia francese. Nella danza teatrale del coreografo svedese, la scenografia di Peder Freiij dà origine ad una dimensione di grottesco dadaista. Ci si rialza dal bordo inferiore di un sipario rosso per avanzare verso un bidet o una poltrona, così come si dà il via ad una danza con degli aspirapolvere o si recinta tutto di strisce colorate che indicano lavori in corso. La musica sullo sfondo è quella elettronica dei Fleshquartet che coniuga la leggerezza degli archi a ispirazioni più carnali. Il va’ e vieni di pedoni danzanti contorna le solitudini della città. Il movimento ricorda a volte la più banale quotidianità, in una tensione verso il basso che sembra discendere da Bachtin. Tuttavia, qui al riso si mescola la malinconia, una porta socchiusa lascia fuoriuscire una verità di vita ben diversa dalle nevrosi del primo pezzo, e su tutto prevale la poesia di ciò che non è imposto con forza aggressiva, ma con la semplicità di un bisbiglio che arriva quasi sussurrato allo spettatore, lasciandolo realmente inebriato. Foto Opéra National de Paris

 

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