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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Il Marito Invisibile”

Mar, 05/12/2023 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL MARITO INVISIBILE
Con Maria Amelia MontiMarina Massironi
scene Luigi Ferrigno
musiche Massimiliano Gagliardi
costumi Nunzia Russo
luci Giuseppe D’Alterio
video Davide Di Nardo, Leonardo Erba
scritto e diretto da Edoardo Erba
prodotto Gli Ipocriti
Al Teatro Quirino Vittorio Gassman, lo spettacolo “Il marito Invisibile” di Edoardo Erba offre una coinvolgente dualità di prospettive: una surreale e una metaforica.
Sul palcoscenico, due postazioni informatiche ospitano due amiche cinquantenni in una conversazione virtuale, con i loro volti proiettati su schermi sovrastanti. Maria Amelia Monti interpreta Fiamma, con la cucina come sfondo, esprimendo una donna razionale ma con una fragilità nascosta. Marina Massironi, nel ruolo di Lorella, nella camera da letto, incarna un carattere appassionato e romantico, non alieno dalla ricerca del piacere. La trama segue le due protagoniste, con Lorella che rivela di essersi appena risposata con un marito invisibile. Il serrato dialogo con Fiamma svela una dimensione nuova e sorprendente. “Il marito Invisibile” di Edoardo Erba, oltre a offrire un umorismo immediato, presenta una riflessione più profonda sull’invisibilità dilagante nella società tecnologica contemporanea. Questa pièce si configura come una sorta di seduta psicoterapeutica, rivelando aspetti del nostro subconscio che preferiremmo evitare di affrontare. Ambientata in una videochiamata, comune nella nostra era digitale, l’opera mette in luce quanto tempo si perda a cercare connessioni rispetto a quanto se ne dedichi a conversazioni significative. Nel mezzo di questa sottovalutazione degli effetti dell’incomunicabilità, il senso della realtà sfugge via via. L’opera consente agli spettatori di evadere in un puro surrealismo, godendo di un testo originale e divertente, ma al contempo invita chi è disposto a sfidare lo sguardo della psicoanalisi a concentrarsi sul livello metaforico della narrazione. La struttura a cinque parti, compatta in un unico atto, facilita l’attenzione della platea, consentendo di condensare una storia ricca di spunti e riflessioni in poco più di un’ora. La presenza sempre sottolineata dell’invisibile Lukas è accompagnata dalle evocative musiche di Massimiliano Gagliardi, che guida il pubblico attraverso un racconto complesso e scintillante. Dal punto di vista tecnico, la pièce è definita come la prima “call comedy” del teatro. Le due attrici agiscono sul palcoscenico, riprese da telecamere ai lati delle postazioni, con i primi piani proiettati sui due schermi. Questo approccio consente agli spettatori più distanti di apprezzare le espressioni delle attrici distraendoli indubbiamente da ciò che avviene in scena. In verità questo salto visivo tra scena e proiezione è assolutamente cercato e sottolinea l ‘isolamento e la difficoltà di una vera comunicazione. La scenografia di Luigi Ferrigno e i costumi di Nunzia Russo, pur mantenendo una semplicità ed elegante sobrietà, comunicano appieno l’essenza della commedia attraverso i suoi molteplici sviluppi, che si riflettono con coerenza in soluzioni figurative singolari ed efficaci. La regia di Erba, insieme alla scrittura, si dimostrano eccellenti, con una commedia caratterizzata da ritmi frenetici e citazioni cinematografiche, che conferiscono un taglio quasi televisivo alla rappresentazione. Il regista ha anche una grande abilità nel saper mescolare diversi linguaggi e sfruttandone appieno le potenzialità. In particolare, emerge quando propone una simulata navigazione tra i numerosi social media disponibili, conferendo significato a pause e sospensioni doverose. Maria Amelia Monti conquista con la sua espressività unica, riflettendo le ansie e le preoccupazioni quotidiane di una donna immersa nella normalità. Marina Massironi, invece, si distingue per la sua versatilità vocale e i repentini cambi di umore. La coordinazione impeccabile nei “non movimenti”, inusuale per il teatro, merita plausi. Nonostante le due protagoniste non si guardino mai in faccia, riescono a interagire con straordinaria credibilità, creando una dinamica quasi monologica che il pubblico apprezza come un tradizionale dialogo. In questa sfida impegnativa, Monti e Massironi dimostrano la loro maestria  invitando gli spettatori a godere della loro sorprendente bravura senza necessità di forzature ed inutili eccessi. Lo spettacolo è stata accolto con entusiasmo dal pubblico, manifestato attraverso applausi a scena aperta e ovazioni finali.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Argentina: “L’interpretazione dei sogni” di e con Stefano Massini

Mar, 05/12/2023 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI
liberamente ispirato e tratto dagli scritti di Sigmund Freud
di e con Stefano Massini
musiche Enrico Fink
eseguite da
Saverio Zacchei – trombone e tastiere
Damiano Terzoni – chitarre
Rachele Innocenti – violino
contributo in voce e video Luisa Cattaneo
scene Marco Rossi
luci Alfredo Piras
immagini Walter Sardonini
foto di scena Filippo Manzini
produzione Teatro Stabile di Bolzano, Fondazione Teatro della Toscana, Teatro di Roma – Teatro Nazionale
in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Roma, 05 Dicembre 2023
«Niente di ciò che abbiamo posseduto nella mente una volta può andare completamente perduto» Sigmund Freud
Platone, affascinato dalla complessa interazione tra mente e corpo, ha avviato un’indagine che ha stimolato il pensiero filosofico per secoli. In tempi moderni, questo binomio si ripresenta nell’ambito della relazione tra mente e cervello. Mentre il cervello è identificabile come l’organo fisico situato nella scatola cranica, la mente è comunemente considerata come la totalità delle attività psichiche. Lo spettacolo “L’interpretazione dei sogni” di e con Stefano Massini, liberamente ispirato e tratto dagli scritti di Sigmund Freud, suscita una riflessione limitata, ma significativa, sul tema. L’autore guida il pubblico attraverso la costruzione graduale di un sistema interpretativo del mondo, non limitandosi solo ai sogni. Il “Teatro della Psiche” si configura come un palcoscenico emozionante, dove Freud, simile a un archeologo nelle sue scoperte, rivela strati profondi e nascosti. Nel tentativo di dare significato all’analisi dei sogni, Freud copre gradualmente parti di sé stesso. Le persone incontrate durante l’analisi rappresentano i vari personaggi della sua interiorità, riflettendo la diversità della mente umana.  In questo intricato intreccio, tutto si muove attorno e dentro Freud, così come accade per ciascuno di noi, immersi in un costante dialogo tra il nostro teatro interiore e quello della vita esterna. Stefano Massini conclude la sua ricerca decennale su “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud, avviata nel 2008 e arricchita da prestigiose occasioni pubbliche, compresa la tappa intermedia del suo romanzo di grande successo pubblicato da Mondadori nel 2017 e tradotto in molte lingue. Ritornando nel mondo di Freud, Massini presenta un testo completamente nuovo, abbinando il suo talento narrativo a uno spettacolo liberamente ispirato e tratto dagli scritti del celebre psicoanalista. Nella scena, accompagnata dalle note musicali di Enrico Fink, si sviluppa un impressionante catalogo umano. Un vivace mosaico di personaggi emerge, ognuno narrando i propri sogni e contribuendo a comporre una sinfonia di immagini e interpretazioni. Il pubblico si ritrova coinvolto in questa rappresentazione, riconoscendo riflessi della propria esperienza nei racconti dei personaggi. Nel corso della rappresentazione, il palcoscenico si apre a video proiezioni e immagini tridimensionali in costante movimento, mentre gli spettatori vengono guidati attraverso l’esperienza emotiva da una suggestiva colonna sonora eseguita dal vivo. Il teatro, in questo contesto, agisce come uno specchio che riverbera una verità inesorabile su tutti gli spettatori. Dall’immagine dirompente emergono i temi del Doppio e del Perturbante. Attraverso la scissione, l’Io proietta sugli altri gli aspetti rimossi e indesiderati, consentendoci di rifiutare la nostra somiglianza con l’Altro quando questa risulta scomoda. La rimozione, in questo contesto, non si riferisce alla realtà materiale, bensì a un substrato psichico, antico e primitivo, destinato inevitabilmente a riemergere. I desideri e le tendenze più contraddittorie e inaccettabili trovano espressione attraverso i doppioni del sognatore, riflettendo aspetti parziali della nostra complessa personalità, il tutto drammaticamente portato in scena con notevole abilità: il rimosso che fa ritorno. Questa rappresentazione teatrale, nel suo intreccio di fantasia e realtà, ha portato alla luce un senso di familiare a lungo tenuto in un angolo della mente. La natura perturbante di tale rivelazione sta nel sconvolgere la percezione di sé al di fuori del proprio controllo. Inoltre, evidenzia la fatica nell’arco della vita nel mantenere coese le diverse parti della propria identità. Questo complesso scenario stimola ognuno di noi a sfuggire dalle restrizioni delle convenzioni borghesi, che imprigionano in una struttura sociale paradossale e, talvolta, ridicola. Le luci di Alfredo Piras, dotate di una bellezza e incisività notevoli, si integrano in modo straordinario con le immagini di Walter Sardonini. Le scenografie di Marco Rossi riflettono integralmente il concetto centrale dell’anima psichica, da sempre associato al potere evocativo dello sguardo e alla sua completezza negli occhi. Questo tema costituisce il fulcro dell’intera drammaturgia, con un imponente occhio a fungere da sfondo al racconto del protagonista. L’occhio, in continua trasformazione con i suoi movimenti di contenimento, dilatazione e spegnimento, rivela sul suo perimetro le immagini oniriche che si susseguono nel corso della narrazione. La rappresentazione, malgrado l’utilizzo di un linguaggio articolato che potrebbe inizialmente apparire riservato a una cerchia ristretta, si rivela sorprendentemente di facile decodificazione, configurandosi come un’ occasione imprescindibile per chiunque ambisca a intraprendere un percorso di autoanalisi. Il pubblico ha espresso apprezzamento attraverso una partecipazione calorosa e coinvolgente, manifestando il proprio plauso sia per l’interpretazione dell’attore principale che per l’ensemble musicale. PhotoCredit@Filippo Manzini.

Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Nuovo: “L’ispettore generale” dal 5 al 10 dicembre

Lun, 04/12/2023 - 18:25

Prosegue la rassegna “Il Grande Teatro” organizzata dal Comune di Verona e dal Teatro Stabile di Verona – Centro di Produzione Teatrale. In scena l’attesissimo “L’ispettore generale” di Nikolaj Gogol, in scena al Nuovo da martedì 5 a sabato 9 dicembre alle 20.45 e domenica 10 alle 16.00. Con la regia di Leo Muscato ne è protagonista, nel ruolo del podestà, Rocco Papaleo. Completano il cast Marta Dalla Via (moglie del podestà), Letizia Bravi (figlia del podestà), Marco Vergani (direttore scolastico), Marco Gobetti (giudice), Gennaro Di Biase (sovrintendente Opere pie), Marco Brinzi (ufficiale postale), Michele Schiano Di Cola (Dobčinskij), Michele Cipriani (Bobčinskij), Daniele Marmi (Chlestakov), Giulio Baraldi (Osip), Salvatore Cutrì (attendente / mercante) ed Elena Aimone (medico / vedova / moglie del fabbro / servitore di locanda). Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e dal TSV – Teatro Nazionale, si avvale delle musiche originali di Andrea Chenna, delle scene di Andrea Belli, dei costumi di Margherita Baldoni e delle luci di Alessandro Verazzi. Qui la nostra recensione
Giovedì 7, nel Piccolo Teatro di Giulietta del Nuovo alle 18.00, gli attori incontreranno il pubblico. Condurranno l’incontro Carlo Mangolini (direttore artistico Spettacolo del Comune di Verona) e Nicola Pasqualicchio dell’Università di Verona. L’ingresso è libero.
Biglietti in vendita al Teatro Nuovo, a Box Office e on line su
www.boxofficelive.it e www.boxol.it/boxofficelive

Categorie: Musica corale

Raffaele Pe e “La Lira di Orfeo” in Concerto per gli Amici della Musica di Padova

Lun, 04/12/2023 - 18:13

Martedì 5 Dicembre 2023, ore 20.15, Auditorium C. Pollini, Padova
Raffaele Pe controtenore
La Lira di Orfeo ensemble barocco
Concerto di spicco per la 67a stagione degli Amici della Musica di Padova martedì 5 dicembre, con quelli che sono ormai considerati, anche a livello internazionale, tra i migliori interpreti del barocco italiano: Raffaele Pe e l’ensemble La lira di Orfeo. E tutto italiano anche il programma del concerto, un vero e proprio omaggio al grande compositore Claudio Monteverdi, del quali verranno eseguite alcune delle sonate più belle, dalle raffinate melodie ricche di malinconia e soavità.
Per info: www.amicimusicapadova.org – info@amicimusicapadova.org Tel. 049 8756763

Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Filarmonico: un viaggio spirituale sulle note di Purcell, Saint-Saëns e Faurè per l’ultimo concerto della Fondazione Arena

Lun, 04/12/2023 - 10:52

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Sinfonica 2023
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Valentina Peleggi                                                                      Maestro del coro Roberto Gabbiani                                                                      Soprano Francesca Maionchi                                                                    Baritono Damiano Salerno                                                                            Henry Purcell: March e Canzona da Music for the Funeral of Queen Mary; Camille Saint-Saëns: Prélude da Le Déluge op. 45; Francis Poulenc: Litanies à la Vierge Noire; Gabriel Fauré: Requiem op. 48 (versione 1893)
Verona, 1 dicembre 2023                                                                                    Un interessante itinerario musicale che si snoda attraverso alcuni lavori di ispirazione sacra con originali accostamenti di stili ed epoche. E’ il tema dell’ultimo concerto della stagione sinfonica 2023 proposto dalla Fondazione Arena con i suoi complessi artistici. In apertura la Marcia e la Canzona da Music for the Funeral of Queen Mary, ampia composizione di Purcell su testi sacri della chiesa anglicana, scritta per le esequie della regina Mary II Stuart celebrate nell’abbazia di Westminster il 3 marzo 1695. Di particolare impatto emotivo, nella sua severità strutturale e nel suo carattere ieratico, la Marcia si presenta come un monito per l’uomo giunto al suo estremo momento; eseguita dagli ottoni e i timpani della Fondazione posizionati sul palco reale ha di fatto preparato l’uditorio in questo percorso che attraversa il limite umano per affacciarsi all’eternità. Con un salto temporale di quasi due secoli la sonorità rarefatta degli archi ha svelato le atmosfere e le suggestioni narrative del Prélude da Le Déluge, oratorio di Saint-Saëns che narra i capitoli della Genesi riferiti alla storia di Noè e il diluvio universale; i forti contrasti della vicenda biblica trovano antagonismo musicale con questa pagina introduttiva che descrive la pace e la bellezza che regnavano sulla terra prima che la corruzione umana prendesse il sopravvento. Le Litanies à la Vierge Noire, composte da Poulenc nel 1936 sotto l’effetto emozionale della visita al santuario di Rocamadour, nella Francia meridionale, dove si venera una statua lignea medioevale della vergine nera, furono ispirate dal dolore per la perdita dell’amico compositore Pierre Octave Ferraud. Qui Poulenc predilige un linguaggio musicale scarno ed essenziale, quasi rarefatto grazie all’uso di armonie raffinate che si contrappongono alla semplicità melodica ed un canto sillabato. Nella seconda parte il Requiem op. 48 di Fauré presenta una ricerca interiore e personale, lontana dai modelli precedenti e anelante alla felicità ultraterrena; concepito come un proprio percorso spirituale, rifugge la dimensione drammatica e spaventosa per esprimere serenità  ed intima tenerezza. Ispirato a Fauré dalla morte dei genitori, riveduto e ripresentato nella versione definitiva del 1893 è straordinariamente simile alla visione estatica del Deutsche Requiem di Brahms; il voluto taglio della sequenza Dies Irae e l’inserimento del Pie Jesu e In Paradisum confermano la volontà del compositore di allontanare la componente terrificante a favore di una fiduciosa attesa. Anche il Sanctus, solitamente  trattato con toni maestosi e solenni, si presenta in veste estatica con sonorità morbide e vellutate alle quali si aggiungono le perorazioni del violino solista.  Interpreti del concerto erano il soprano Francesca Maionchi, voce di bel timbro, che ha saputo ricreare le intime suggestioni del Pie Jesu con incanto e delicatezza di fraseggio; esito non perfettamente compiuto, invece, dal baritono Damiano Salerno il quale, a dispetto di una voce pastosa e ricca di armonici, ha preferito una declamazione teatrale e drammatica ma poco allineato al carattere intimo della composizione. Debuttante sul podio la giovane Valentina Peleggi, per la prima volta a Verona, musicista di indiscusso talento ha saputo trarre una lettura coerente in Saint-Saëns perseguendo le raffinate trame strumentali della partitura (come anche nelle Litanies à la Vierge Noire) ma con qualche discontinuità in Fauré. Ottima prova dell’orchestra della Fondazione Arena e del primo violino Gunther Sanin (efficace e musicalissimo nei suoi interventi) mentre ancora una volta, a rischio di ripeterci all’infinito, si registra una criticità nel posizionamento del coro; le dinamiche si perdono, il suono non arriva in platea se non forzato ai limiti dell’urlato, risultando perciò aspro e poco armonico. Un esito di poco migliore si è avuto con le sezioni femminili impegnate in Poulenc, forse frutto di una concertazione più ricercata e calibrata. Pubblico scarso, in parte a causa di eventi concertistici concomitanti, ma quasi sicuramente (e a torto) per la poca appetibilità del programma. Foto Ennevi per Fondazione Arena.

Categorie: Musica corale

Legnago, Teatro Salieri: “Callas Callas Callas!”

Lun, 04/12/2023 - 08:41

Legnago, Teatro Salieri, Danza – Stagione 2023/24″
“CALLAS CALLAS CALLAS!”
l’Opus Ballet racconta Maria Callas
Coreografie Adriano Bolognino, Carlo Massari, Roberto Tedesco
Light designer Giacomo Ungari
Direzione artistica Rosanna Brocanello
Interpreti:Matheus Alves De Oliveira, Giuliana Bonaffini, Aura Calarco, Emiliano Candiago, Sofia Galvan, Ginevra Gioli, Gaia Mondini, Riccardo Papa, Frederic Zoungla
Produzione COB Compagnia Opus Ballet in cproduzione Fondazione Festival La Versiliana
Legnago, 2 dicembre 2023
La diva che visse d’arte e morì d’amore, rimane viva in chi ama l’artista che nell’arte ci mette amore. In fondo la vita artistica di un talento è come quella di un fiore reciso: bella, intensa e breve, ma allo stesso tempo molto delicata se corrotta da qualche eccesso. Ma forse è proprio questo, il vivere intensamente le passioni, senza pensare che queste possano travolgere il nostro successo professionale che ci rende un mito; un’anima bella che rimane dentro il ricordo di tutti quelli che, nel corso del tempo, vogliono prendersene cura. Oggi Maria Callas avrebbe compiuto 100 anni e Teatro Salieri ha voluto omaggiarla con un trittico coreografico a cura dell’Opus Ballet di Firenze: tre balletti che tratteggiano un diverso aspetto dell’icona del canto lirico più famosa al mondo.
Callas e l’arte
La prima coreografia, firmata da Adriano Bolognino, a nostro parere, la più riuscita  delle tre, inscena la Callas nelle sue famose movenze plateali, e lo fa riproducendole nel loro divenire ripetuto e cadenzato come lo può essere un canto, grazie a cinque danzatrici in abito nero, da grand soirée. Ognuna compie l’atto anzi tempo a quella che la segue, così che rimanga nell’occhio dello spettatore un’unica immagine: come fosse dentro a un “taumatropio” per cui vediamo ciò che persiste sulla nostra retina. È la Callas che sul palco diventa Diva, quella che sa essere attrice e soprano insieme, per quel suo interpretare fin nelle espressioni più intime i personaggi tragici delle opere liriche più famose. Il sottofondo sonoro sembra quello di un grammofono, a tratti con la sua inconfondibile voce, una scelta adatta a ricreare l’atmosfera di questi gesti, sospesi nella memoria; che oggi possiamo vedere nei rari contributi video (pubblicati su YouTube) delle performance della Divina. Molto brave le danzatrici a suggerire con le posture i virtuosismi del canto, che ricreano uno stile, un carattere: una personalità, fragile e forte insieme.
Callas e il cuore
“Mio cuore, tu stai soffrendo” canta Rita Pavone sul refrain di un battito cardiaco creato da un basso, mentre in scena si muovono, con incedere sincopato e compulsivo 8 ballerini (5 femmine e 3 maschi) vestiti in silhouette rossa, che riproduce la famosa forma stilizzata del cuore. L’atmosfera creata stavolta da Carlo Massari, inscena tutti gli amori della Callas, anzi mostra come lei vivesse di forti passioni. Da una parte abbiamo l’amore per il canto (la perfezione) e quello per la vita sfarzosa (il lusso); mentre dall’altra, c’è l’amore travagliato per Onassis e Pasolini, che consideriamo come esempi opposti di mancata abnegazione. Un “balletto tormentato”, possiamo dire, da queste figure un po’ inquietanti per quella visiera che ne cela la testa, forse a dire che l’amore rende ciechi, non perché rende gelosi, quanto perché rende vulnerabili. Sul finale intuiamo come il declino artistico della Callas coincidesse con quello fisico: una morte rimasta nel mistero, per un decesso imputato proprio ad un arresto cardiaco.
Callas e il mito
L’ultima coreografia avrebbe voluto ricreare il mito della Divina Callas, invece quella di Roberto Tedesco dell’Opus Ballet ci è sembrata più una sua caricatura, per niente ossequiosa, anzi un po’ sciocca per l’aver insistito sui luoghi comuni, oltre che su una colonna sonora fin troppo evocativa (“habanera”). Lo stereotipo della Callas è una ballerina di danza classica, alta e smilza, vestina di bianco; una Anna Pavlova (“Morte del cigno”) senza tutù che viene trasportata in lungo e in largo per il palco come un trofeo. Siamo forse noi spettatori che la solleviamo e la portiamo con noi, che la riproduciamo con una foto, o con un disco e che la osanniamo ricoprendola di rose rosse gettandole sul palco alla fine delle sue innumerevoli esibizioni: quella rosa rossa, un ibrido ideato nel 1965 da Marie-Louise Meilland, porta il nome “Maria Callas”. Foto Paolo Bonciani

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli: “A cosa servono questi quattrini” dal 13 al 17 Dicembre 2023

Dom, 03/12/2023 - 19:01

Roma, Teatro Parioli Stagione 2023 2024
A CHE SERVONO QUESTI QUATTRINI

di Armando Curcio 
regia Andrea Renzi 
con Nello Mascia, Valerio Santoro 
e con Salvatore Caruso, Loredana Giordano, Fabrizio La Marca, Ivano Schiavi
scene Luigi Ferrigno 
costumi Ortensia De Francesco 
luci Antonio Molinaro 
produzione La Pirandelliana
“A che servono questi quattrini” è una commedia di Armando Curcio messa in scena per la prima volta nel 1940 dalla compagnia dei De Filippo con grande successo di pubblico. La vicenda ruota intorno al Marchese Parascandolo detto il Professore che per dimostrare le sue teorie socratiche, bizzarre e controcorrente, ordisce un piano comicamente paradossale che svela l’inutilità del possesso del denaro. L’Italia di lì a poco sarebbe entrata nel conflitto della II Guerra Mondiale e il mondo post-capitalistico dell’alta finanza era di là da venire ma l’argomento, così esplicitamente indicato nel titolo, stuzzicò la curiosità del pubblico di allora tanto che, pochi anni dopo, nel 1942, la commedia venne trasposta sugli schermi cinematografici per la regia di Esodo Pratelli con Eduardo e Peppino De Filippo protagonisti e con, tra gli altri, Clelia Matania e Paolo Stoppa. Il protagonista immaginato da Amando Curcio, a metà strada tra un filosofo stoico e un astuto truffatore, non voleva, né poteva, mirare al bersaglio della Grande Economia ma certo l’ordito della sua trama e delle sue paradossali speculazioni sollecitano anche in noi uno sguardo disincantato (e saggio) sugli inganni della categoria dell’ECONOMICO, che tutto, oggi, pervade. Il Marchese offre tutto il suo appoggio, dando il suo sostegno speculativo, a Vincenzino, ricco solo del suo entusiasmo e della sua ingenuità, e lo aiuta a capovolgere il suo destino di ultimo accompagnandolo in una rapidissima ascesa sociale. Una favola? Un sogno ad occhi aperti? Può darsi. Ma i temi dell’inutilità del denaro e della dannosità del lavoro, benché calati nella realtà di due famiglie napoletane degli anni ’40, una poverissima l’altra in apparenza arricchita, riescono, sul filo del paradosso, a incuriosirci ad aprirci nella fantasia strade alternative e a divertirci. Bolle finanziarie, truffe internazionali, fallimenti di colossi bancari, tassi di interesse sproporzionati, spread e fiducia nei mercati sono “slogan” e ridondanti informazioni ampliamente invasive cui ci siamo abituati e che, per la maggior parte di noi, indicano situazioni fumose e di oscura interpretazione. E forse proprio spingendo sul parossismo del gioco teatrale, mostrato a vista, e sull’assurda fiducia della variegata comunità coinvolta nel piano del Marchese Parascandolo, si può, con la scanzonata e creativa adesione degli attori e in un clima popolare e festoso, relativizzare il potere dei “quattrini”, valore-totem indiscusso, che tutto muove oggi come allora. Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: ” Amistade” dal 12 al 17 Dicembre 2023

Dom, 03/12/2023 - 18:50

Roma, Teatro Vascello Stagione 2023 2024
AMISTADE
di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
con Antonio Rezza, Ivan Bellavista
e la presenza straordinaria di Fabrizio De Andrè
Una contaminazione di Flavia Mastrella, Antonio Rezza sfuggita dalle labbra di Dori Ghezzi
montaggio Barbara Faonio
assistente alla creazione per Fratto_X Massimo Camilli
disegno luci Daria Grispino
luci e tecnica Alice Mollica
progetto video mapping e suono Giacomo Sanna e Pietro Soru
video e audio Giorgia Mascia e Alessandro Pulloni
macchinista Andrea Zanarini
organizzazione Tamara Viola, Simona Loi e Stefania Saltarelli
produzione Sardegna Teatro Mixed Reality, RezzaMastrella
in collaborazione con Fondazione Fabrizio De André, Teatro Vascello di Roma, Fondazione Sardegna Film Commission, Fondazione di Sardegna
Amistade è una storia a due voci, quella di Fabrizio De André registrata durante i concerti e quella di Antonio Rezza live. Tutto si svolge nell’habitat materico – visuale di Flavia Mastrella potenziato da frammenti di videoproiezioni e video mapping. Insieme a Antonio Rezza in scena c’è Ivan Bellavista. La voce e il movimento si alternano, gli editti di Fabrizio De André, parole del passato, si uniscono alla voce di Antonio Rezza creando una vicenda in continuità con il nostro presente fatto di abusi e veicolazioni di massa straordinariamente efficaci. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Anna Karenina” dal 12 al 17 Dicembre 2023

Dom, 03/12/2023 - 18:32

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ANNA KARENINA
di Lev Tolstoj
Anna Karenina GALATEA RANZI
Dolly DEBORA BERNARDI
Levin FRANCESCO BISCIONE
Betsy GIOVANNA MANGIU’
Vronskij GIACINTO PALMARINI
Oblonskij STEFANO SANTOSPAGO
Karenin PAOLA SERRA
Kitty MERSILA SOKOLI
Lidija IRENE TETTO
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
coreografie Alessandra Panzavolta
proiezioni Alessandro Papa
aiuto regia Lucia Rocco
Benché la maggior parte della critica russa avesse stroncato l’opera fin dalla prima pubblicazione, definendola “un frivolo racconto delle vicende dell’alta società moscovita”, secondo Fëdor Dostoevskij “Anna Karenina, in quanto opera d’arte, è la perfezione e niente della letteratura europea della nostra epoca può esserle paragonato”.
Poco meno di un secolo dopo anche Vladimir Nabòkov si accodò al giudizio di Dostoevskij, definendo Anna Karenina «il capolavoro assoluto della letteratura del XIX secolo”. Come raccontare a teatro una delle storie più belle del mondo? “Abbiamo cercato di rispondere a questa domanda in vari modi – dice nelle note di regia Luca De Fusco – Innanzitutto con un cast di livello che parte da una delle migliori attrici italiane, Galatea Ranzi, per il ruolo di Anna, ma anche da un insieme di interpreti di altrettanto spessore, che vanno da Paolo Serra nel ruolo di Karenin, a Giacinto Palmarini per quello di Vronskji, a Stefano Santospago che veste i panni di Oblonskij, e poi Francesco Biscione, Debora Bernardi, Irene Tetto, Giovanna Mangiù e la giovani Mersila Sokoli”. “Insieme col drammaturgo Gianni Garrera, abbiamo deciso di non nascondere l’origine letteraria del testo – prosegue De Fusco – ma anzi valorizzarla. Al di là dei dialoghi le parti più strettamente narrative o i commenti di Tolstoj saranno attribuiti agli stessi attori che interpretano i ruoli. I pensieri dei personaggi saranno invece detti dai personaggi stessi, seguendo la lezione del Ronconi del ‘pasticciaccio’ e configurando degli ‘a parte’ tipici del linguaggio teatrale. A queste tecniche puramente teatrali ho aggiunto un montaggio veloce, cinematografico, composto di molte brevi scene e contrassegnato dalla grammatica visivo-musicale, ormai consueta nelle mie regie, di Marta Crisolini Malatesta, Gigi Saccomandi e Ran Bagno. Le coreografie sono di Alessandra Panzavolta. Come nel romanzo tutto inizia e termina con un treno, emblema dell’opera. Naturalmente sta a noi l’arduo compito di tradurre in immagini, suoni, parole di uno dei libri che più spesso si trova sul comodino di ognuno di noi”. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Johann Pachelbel (1653 – 1706): “Hexachordum Apollinis” & “Chaconne in C major”

Dom, 03/12/2023 - 18:23

Aria prima con sei variazioni (D minor); Aria secunda con cinque variazioni (E minor); Aria tertia con sei variazioni (F major); Aria quarta con sei variazioni (G minor); Aria quinta con sei variazioni (A minor); Aria sexta “Sebaldina” con otto variazioni (F minor); Chaconne in C major P.38. Enrico Bissolo (clavicembalo). Registrazione: 21-22 febbraio presso 51 Recording Studio (Bonavigo, VR). T. Time: 58′ 37″. 1 Cd Dymamic CDS7961
Nato a Norimberga, Johann Pachelbel è noto soprattutto per il Canone a tre violini del quale sono state fatte anche versioni pop, ma la sua produzione, per la verità, poco conosciuta consta per la maggior parte di musiche che si potevano eseguire, come da prassi per l’epoca, all’organo o al clavicembalo, strumenti dei quali egli del resto fu un virtuoso. Un piccolo spiraglio su questa produzione è aperto da questa interessante proposta discografica dell’etichetta Dynamic il cui programma prevede l’esecuzione dell’Hexachordum Apollinis Sex Arias Exibens Organo pneumatico, vel clavato cymbalo modulandas (Esacordo di Apollo, che presenta sei Arie da suonarsi sull’organo o sul clavicembalo), e della splendida Ciaccona in do maggiore, pagina che anticipa i futuri esiti dell’arte di Bach e che, essendo costruita sulla forma della variazione, costituisce un perfetto completamento del precedente lavoro. Dedicato a Dietrich Buxtehude e Ferdinand Tobias Richter che forse Pachelbel conobbe, l’Hexachordum  che, risalendo al 1699, è l’ultima opera pubblicata da Pachelbel, è una raccolta di sei arie con variazioni, ognuna su una tonalità diversa che si riferisce a una nota dell’esacordo partendo, però, dal re per arrivare al si bemolle, ma solo nell’armatura di chiave, dal momento che l’ambito tonale dell’ultima aria, La sebaldina, così chiamata dalla Chiesa di San Sebaldo di Norimberga presso la quale il compositore prestava servizio, è quello di un fa minore misolidio. Sostenuta da una solida conoscenza della prassi esecutiva dell’epoca è l’interpretazione di questi lavori di Pachelbel da parte di Enrico Bissolo che per l’occasione si è avvalso di una copia di un clavicembalo tedesco di Michael Mietke realizzata da Federico Mascheroni. L’artista ha eseguito questi lavori, peraltro, non particolarmente difficili dal punto di vista tecnico, realizzando delle piccole variazioni nelle variazioni. Di struttura bipartita con ritornello, ogni aria e, di conseguenza, le sue variazioni, dopo l’esposizione nella forma originale, sono state variate con grande senso dello stile e anche con un sapiente gioco di contrasti di colori realizzato con l’uso dei vari registri, usati sia in combinazione che, dove è possibile, singolarmente, del bel clavicembalo realizzato da Mascheroni.

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: “Les Contes d’Hoffmann” inaugurano la Stagione 2023-2024

Dom, 03/12/2023 - 14:30

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Lirica e Balletto 2023-2024
LES CONTES D’ HOFFMANN”
Opera fantastica in un prologo, tre atti e un epilogo su Libretto di Jules Barbier, dal dramma omonimo di Jules Barbier e di Michel Carré e da E.T.A. Hoffmann
Musica di Jacques Offenbach
Hoffmann IVAN AYON RIVAS
La Muse PAOLA GARDINA
Nicklausse GIUSEPPINA BRIDELLI
Lindorf, Coppélius, Le docteur Miracle, Dapertutto ALEX ESPOSITO
Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinacchio DIDIER PIERI
Olympia ROCÍO PÉREZ
Antonia CARMELA REMIGIO
Giulietta VÉRONIQUE GENS
La Voix FEDERICA GIANSANTI
Nathanaël CHRISTIAN COLLIA
Spalanzani FRANÇOIS PIOLINO
Hermann, Schlémil YOANN DUBRUQUE
Luther, Crespel FRANCESCO MILANESE
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Frédéric Chaslin
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Coreografia Chiara Vecchi
Ballerini: Kevin Bhoyroo, Anastasia Crastolla, Silvia Gattafoni, Coralie Murgia, Andrea Carlotta Pelaia, Francesco Scalas, Nicola Trazzi
Trampoliere: Figaro Su
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Opera Australia, Royal Opera House Covent Garden Foundation, Opera National de Lyon
Venezia, 30 novembre 2023
Da Sidney – dove è stata proposta al pubblico nel luglio di quest’anno – è sbarcata in laguna la messinscena, ideata dal vulcanico Damiano Michieletto per Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, titolo assente dal cartellone della Fenice da circa trent’anni. Sul podio uno specialista per quanto riguarda questo titolo: Frédéric Chaslin, che proprio a Venezia debuttò nei Contes, nel 1994. Michieletto concepisce i Contes come una “ricerca del tempo perduto” da parte del protagonista, che ripercorre – nei tre atti – tre fasi della propria vita (infanzia, giovinezza, età adulta), incentrate su altrettante figure femminili (Olympia, Antonia, Giulietta). Tre donne, da lui vagheggiate, ma deludenti, in quanto possedute dalle forze del Male (Coppeluis, Dappertutto, Miracle). Peraltro anche da vecchio – tale appare nel prologo e nell’epilogo – prova l’ennesima delusione: Stella – reincarnazione dei personaggi femminili dei racconti – gli toglie definitivamente ogni speranza d’amore, sicché la lascia in balia di Lindorf – in cui rivive la satanica malvagità di Coppeluis, Dappertutto e Miracle –, rinunciando all’amore per dedicarsi all’Arte. Nello spettacolo – animato da molti personaggi e arricchito da qualche contributo video – non si coglie un’epoca di riferimento: il coro indossa costumi di taglio moderno e gli spazi sono strutture lineari, improntate ad un razionalismo “geometrico”. Suggestive le luci. Notevole il ruolo delle coreografie e del coro. La messinscena è colorata, ricca di elementi surreali, appartenenti al mondo fantastico di Hoffmann, come topi, fate con le ali, donne mascherate, diavoletti con le corna, un trampoliere. I luoghi dove si svolgono i tre atti sono realizzati con cambiamenti di scena all’interno di uno spazio in cui ricorrono alcuni riferimenti simbolici: in particolare, delle nicchie da cui escono diversi elementi fantastici tipicamente hoffmanniani. La storia di Olympia – ambientata in un’aula scolastica, dove Spalanzani è il maestro e Cochenille il bidello – è particolarmente divertente. Michieletto vede nella bambola meccanica una bambina geniale, che Hoffmann-scolaro s’illude di poter amare, prima che Coppelius la faccia a pezzi. Nell’atto di Antonia – che si svolge in una scuola di danza – si assiste ad un amore più consapevole: Hoffmann vuole aiutare la ragazza – trasformata dal regista in ballerina, con qualche incongruenza rispetto al libretto, dove è indicata come cantante – a ritrovare fiducia in se stessa, ignaro delle trame di Dapertutto. La vicenda di Giulietta si svolge in un palazzo veneziano, dove l’avvenente cortigiana, sobillata dal dottor Miracle, tenta di impossessarsi dell’immagine riflessa di Hoffmann, che verrà intrappolata dietro uno specchio. Di primissimo livello è risultata la compagnia di canto. Tra le voci maschili, mattatore della serata è stato Alex Esposito – cui erano affidati i ruoli dei “cattivi”: Lindorf, Coppélius, Le docteur Miracle, Dapertutto – che ha unito indubbie doti di attore a una vocalità di prorompente vigore espressivo, omogenea in tutta l’estensione e dal bel timbro scuro, calandosi efficacemente nell’aura satanica dei personaggi. Altro protagonista è stato Ivan Ayon Rivas nei panni di Hoffmann, di cui ha saputo rendere le inquietudini amorose, gli incanti e le delusioni, svettando con sicurezza negli acuti e muovendosi in modo credibile sulla scena, in una prestazione piena di pathos romantico, forse lievemente penalizzata da un timbro ancora acerbo. Assolutamente irresistibili le parti “brillanti” (Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinacchio), interpretate da Didier Pieri con leggerezza vocale, unita alla tipica verve dell’Offenbach dei Bouffes-Parisiens. Strepitose le voci femminili. Applausi a scena aperta per Rocío Pérez, che ci ha regalato un Olympia un po’ bambina e un po’ bambola meccanica, sfoggiando una voce da soubrette pura nel timbro ed estesa, senza forzare, fino alla zona sovracuta. La cantane spagnola si è imposta, in modo spettacolare – tra numeri e formule matematiche, che uscivano dalla lavagna e dal soffitto – nella funambolica “Les oiseaux dans la charmille”, ricca di colorature. Autorevole Carmela Remigio come Antonia, un personaggio di cui ha reso, grazie ai suoi eccellenti mezzi vocali di soprano drammatico – sempre impiegati con finezza interpretativa –, il dissidio interiore tra l’amore per l’arte e quello per la vita. Sottilmente sensuale e trasgressiva, ma talora fredda nel gesto come nella voce, la Giulietta di Veronique Gens, nell’atto veneziano. Dolce, insieme a Nicklausse e al coro, nella celeberrima barcarolle. Positiva anche la prestazione offerta da Paola Gardina (La Muse) e da Giuseppina Bridelli (Nicklausse) – che hanno esibito una vocalità sempre espressiva –, oltre che dai restanti membri del cast: Federica Giansanti (La Voce), Christian Collia (Nathanaël), François Piolino (Spalanzani), Yoann Dubruque (Hermann, Schlemill) e Francesco Milanese (Luther, Crespel). Ineccepibile il Coro, anche dal punto di vista scenico. Frédéric Chaslin ha guidato con autorevolezza i cantanti e l’orchestra – anch’essa in gran forma –, proponendo una lettura ricca di temperamento, capace di trovare il giusto accento nell’esprimere gli aspetti tragici e leggeri della splendida partitura offenbachiana, con particolare cura riguardo al suono e all’adeguatezza stilistica. Applausi ed ovazioni alla fine.

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Roma, Chiostro del Bramante: “Emotion” dal 29 Novembre 2023 al 07 gennaio 2025

Dom, 03/12/2023 - 12:07

Roma, Chiostro del Bramante
EMOTION. L’arte contemporanea racconta le emozioni

a cura di Danilo Eccher
dal 29 novembre 2023 al 7 gennaio 2025
Più di venti artisti, più di venti opere molte delle quali site specific: EMOTION porta il pubblico in un viaggio di emozioni  perché se ne possano sentire molte molte di più.  Sorpresa, confusione, desiderio, gioia, paura, attesa, angoscia, felicità, orgoglio, eccitazione, nostalgia, ammirazione, sollievo, tranquillità, imbarazzo. Quante emozioni ispirano un artista? E quante vengono trattenute dentro l’opera? E quali prova uno spettatore davanti a quell’opera? E quante si mantengono nel tempo e quante cambiano e come cambiano? Quando si ha a che fare con le emozioni sono più le domande delle risposte, sono sempre più le emozioni delle certezze. Un fungo alto tre metri accoglie e invita al viaggio, era già successo in una favola, in un altro viaggio, in un altro mondo, in un’altra meraviglia. Questa volta il fungo è di Carsten Höller e il viaggio è nell’arte. Inizia così EMOTION l’arte contemporanea racconta le emozioni, per proseguire con molto altro, con altre emozioni. Prosegue con lo stupore di trovarsi di fronte alle altissime figure di Luigi Mainolfi, nel chiostro esterno, camminando su un pavimento di oceano; nello spaesamento delle cattedrali immaginarie di Piero Pizzi Cannella e nella meraviglia della sua Camera Picta ispirata a Raffaello; con l’incanto delle rifrazioni luminose e sonore dell’aurora boreale ricreata dall’opera interattiva di Alessandro Sciaraffa; con l’attrazione verso la foresta stregata della video installazione di Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) o l’attrazione ipnotica e concentrica dei ludoscopi di neon di Paolo Scirpa. Un viaggio di emozioni che diventa relazione e interazione tra i visitatori grazie all’ambiente di Gregor Schneider; un universo di colori attraverso i prismi scomponibili dell’artista coreana Kimsooja; un microcosmo onirico di visioni possibili e impossibili di Tony Oursler; le grandi figure di supereroi ripensate da Adrian Tranquilli fino al progetto site specific di Nedko Solakov che riporta alla dimensione della narrazione in chiave arguta, a tratti ironica. E se il soffitto, il pavimento e le pareti fossero avvolti da una foresta di rovi e libellule di Pietro Ruffo, quale emozione provereste? E se poteste camminare tra le Erme di Luigi Ontani sentendovene parte? E se l’intento di Laure Prouvost con la sua video-installazione e il grande lampadario meccanico fosse quella di farvi provare un’estasi paradisiaca, vi abbandonereste? E quale curiosità muove il visitatore a esplorare, investigare e cercare di scoprire nelle nature morte, create anche grazie l’intelligenza artificiale, di Matt Collishaw i significati più nascosti? Eva Jospin mette le sue emozioni dentro paesaggi e architetture di cartone; Annette Messager le cala dal soffitto, dedicandole al corpo umano, attraverso delle fotografie dentro reti da pesca, forme colorate e un grande Pinocchio; il collettivo AES + F in quella che definisce “psicoanalisi sociale”; rivela ed esplora i valori, i vizi e i conflitti della cultura globale contemporanea; Subodh Gupta utilizza oggetti per evocare ricordi e infine Paul Morrison, grazie ai suoi disegni neo romantici e pop-naturalisti, conduce in paesaggi ed emozioni inaspettate. EMOTION conferma l’idea di DART Chiostro del Bramante e di Danilo Eccher di poter realizzare grandi narrazioni contemporanee in cui da una prima idea/tema, in questo caso il contrasto tra la verità e la finzione nell’arte, con l’emozione come effetto di questa dicotomia, l’arte possa entrare in relazione in un contesto più ampio con la filosofia, la letteratura, l’architettura. Secondo Eccher, superato il tradizionale metodo dell’esporre, è necessario creare percorsi in cui il pubblico è chiamato non solo a “guardare” ma a immergersi, avendo letture sempre diverse e migliori con un coinvolgimento certamente più ampio in termini di qualità e quantità. Sul rapporto tra verità e finzione si interrogano da sempre gli artisti di ogni tempo, così come sull’emozione che l’opera provoca in chi la realizza e in chi la guarda, questo nuovo progetto rinnova la metodologia curatoriale di Eccher e l’impegno di Chiostro del Bramante, dopo i progetti Love, Enjoy, Dream e Crazy. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Elfo-Puccini:”Seagull Dreams – I sogni del gabbiano”

Dom, 03/12/2023 - 10:14

Milano, Teatro Elfo-Puccini, Stagione 2023/24
SEAGULL DREAMS – I SOGNI DEL GABBIANO”
da “Il gabbiano” di Anton Čechov traduzione e collaborazione artistica Alessandro Anglani
Arkadina PAMELA VILLORESI
Kostja VINCENZO PALMERI
Sorin GEOFFREY CAREY
Nina GIORGIA INDELICATO
Šamraev GIUSEPPE RANDAZZO
Maša MONICA GRANATELLI
Trigorin MIGUEL GOBBO DIAZ
Medvedenko GIUSEPPE BONGIORNO
Adattamento, Regia, Scene, Costumi e Video Irina Brook
Luci Antonio Esposito
Produzione Teatro Biondo Palermo in collaborazione con Dream New World – Cie Irina Brook
Milano, 28 novembre 2023
“Seagull Dreams” di Irina Brook spinge a una riflessione metateatrale molto chiara: fino a che punto attualizzare un testo che ha più di cent’anni può essere non solo esteticamente interessante, ma anche d’aiuto all’esatta comprensione di quel testo? “Il gabbiano” di Cechov che è in scena all’Elfo di Milano in questo periodo è sia ultramoderno nell’ambientazione (con tanto di date, tra il 2016 e il 2018, l’uso di proiezioni e chiamate su Zoom) sia nell’approccio fortemente postdrammatico tanto di moda oggi – riscaldamento degli attori e cambi di scena a vista, pezzi recitati al microfono, interpreti che entrano ed escono dal personaggio, un paio di canzoni cantate live: nulla di nuovo né di particolarmente sconvolgente, eppure qualcosa non scatta. Chi non conosce l’originale rimane disorientato dall’ostentazione di cotanta modernità (a volte al limite del buon gusto, come l’imbarazzante scena di sesso online tra Arkadina e Trigorin), chi lo conosce vorrebbe forse una maggiore aderenza non tanto con il 1895, quanto con una lingua, un portamento certo più sofisticato di quello propostoci da questo cast (che non ci risparmia scurrilità di vario genere). Cast che, beninteso, vede alcuni interessanti talenti affiancare Pamela Villoresi, vera mattatrice e protagonista della serata nel ruolo dell’Arkadina, totalmente un’altra categoria rispetto ai colleghi – e certo non staremo qui a sciorinarne le ragioni: la Villoresi è una riconosciuta grande attrice del nostro tempo e qui tale si riconferma; la ricerca che Irina Brook opera sui tipi umani e i loro linguaggi (già tratto distintivo di suo padre Peter) la porta a mescolare attori d’impostazione classica ad altri connotati linguisticamente, e se il Sorin di Geoffrey Carey tutto sommato è convincente nel suo accento anglosassone, coerente al personaggio del vecchio hippy, il Medvedenko di Giuseppe Bongiorno, invece, ci suona troppo stonato nella sua cadenza meridionale, come la Maša di Monica Granatelli, che oltre alla dizione centroitalica, calca (o non corregge) una parlata borgatara, smozzicata e nervosa; probabilmente queste scelte di pronuncia vogliono sottolineare il ceto inferiore, giacché anche Giuseppe Randazzo nel ruolo di Šamraev presenta un chiaro accento lombardo, tuttavia non ci sembra né un espediente particolarmente riuscito, né del tutto rispettoso della nobiltà delle parlate vernacolari (tanto più che i dialetti in Italia sono stati per secoli lingua familiare indistintamente di ricchi e poveri). Buona prova attoriale dà Vincenzo Palmeri nella parte di Kostja, per quanto a volte eccessivamente livoroso, o en souplesse, in pieno contrasto con le due attrici con le quali si deve misurare, che, in un modo nell’altro, incarnano, invece, una recitazione più naturale nel suo essere drammatica – la già citata Villoresi da una parte, e Giorgia Indelicato nel ruolo di Nina dall’altra, probabilmente la seconda interprete più apprezzata della serata, in grado di una prova ricca di sfumature ma comunque nell’alveo dell’equilibrio e del controllo di sé; infine, quasi ingiudicabile la prova di Miguel Gobbo Diaz, un Trigorin online e con le battute ridotte al minimo. Bella, invece, la scena, sempre a cura della regista, piuttosto ricca di mobili, oggetti, attrezzeria di vario genere, della cui utilità non siamo del tutto persuasi, ma in grado di ricreare con precisione un interno dei nostri giorni; bello anche l’effetto che sullo sfondo ricreano in molti teli bianchi appesi a file alternate; interessanti e funzionali alla scelta registica le proiezioni, specie quelle sulla pièce di Kostja, che, in tanta modernità, da aspirante drammaturgo si trasforma in aspirante videomaker. L’effetto complessivo è quello di un testo alla ricerca di nuovi linguaggi, nuovi mezzi di espressione, ma questa ricerca in fin dei conti si ferma alla superficie, giacché è solo su di essa che lavora la regia: la drammaturgia è lievemente stravolta nell’iniziare con la veglia funebre sul corpo di Kostja, per poi scivolare in un lunga analessi tutto sommato parallela al testo cechoviano, se non fosse per lo stralcio quasi totale di uno dei protagonisti, Trigorin (per il resto si tagliano solo alcuni personaggi secondari); la proposta scenica è semplicemente attualizzata; ci verrebbe dunque da chiedere dove stiano i “dreams” del titolo, se non emergono dalla scena e nemmeno dalla drammaturgia. Forse, come tutto, in questa produzione, giacciono nel punto di vista della regista – ma, purtroppo, lì rimangono, senza arrivare al pubblico. Si replica fino al 03 dciembre, poi qui. Foto Rosellina Garbo

Categorie: Musica corale

Bergamo, Donizetti Opera 2023: “Lucie de Lammermoor”

Dom, 03/12/2023 - 08:40

Bergamo, Teatro Sociale, Festival Donizetti Opera 2023
“LUCIE DE LAMMERMOOR”
Opera in tre atti su libretto di Alphonse Royer e Gustave Vaëz
Musica di Gaetano Donizetti
Henri Ashton VITO PRIANTE
Edgard RAvenswood PATRICK KABONGO
Sir Arthur JULIEN HENRIC
Gilbert DAVID ASTORGA
Raimond ROBERTO LORENZI
Lucie CATERINA SALA
Orchestra gli Originali
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Pierre Dumoussaud
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Jacopo Spirei
Scene Mauro Tinti
Costumi Agnese Rabatti
Luci Giuseppe Di Iorio
Bergamo,  26 novembre 2023
Parigi rappresentava, nella prima metà dell’Ottocento, un punto d’arrivo fondamentale per qualunque musicista ma anche una piazza pericolosa se si fossero fatti passi incauti. Conscio di questo, Donizetti decise di sondare la realtà parigina partendo da un teatro importante ma certo secondario rispetto all’Opéra com’era Théâtre-Italien e soprattutto di affidarsi a un titolo di sicuro successo come “Lucia di Lammermoor”. Due anni dopo la prima napoletana del 1835 l’opera debuttava a Parigi non solo in versione francese ma a seguito di un significativo adattamento.
La versione parigina – quella che turbava anima e sensi di Emma Bovary – presenta alcune significative differenze rispetto all’originale italiano specie sul piano drammaturgico. La parte di Raimondo è drasticamente ridotta mentre quella di Alisa scompare del tutto. Molto e più ampia è approfondita e invece quella di Normanno – qui Gilbert – vero e proprio piccolo Jago che si finge confidente di Lucie con il solo scopo di tradirla e arrivare a uccidere Edgard, sperando di ottenerne lauto consenso. Vera anima nera dell’opera Gilbert è forse la figura più interessante di questo rifacimento. Ampliata è anche la parte di Arthur con una forte insistenza sulla sua bontà d’anima che tende a farne una vittima – al pari di Lucie ed Edgard – della ferocia delle lotte politiche. Sul piano musicale la differenza maggiore è la sostituzione di “Regnava nel silenzio” con la cavatina della “Rosmonda d’Inghilterra”. Sostituzione che la protagonista Fanny Tacchinardi Persiani già aveva adottato per la versione italiana e che Donizetti fa propria inserendo però un tema del flauto che anticipa già la scena della follia. La versione francese presenta nel complesso un tono più melanconico e meno granguignolesco – scompaiono dal libretto scuri e fontane rosseggianti di sangue – forse meno d’impatto sul piano musicale ma più approfondita e curata su quello drammaturgico.
La scelta per questa ripresa bergamasca di uno specialista dell’opera francese come Pierre Dumoussaud non mancava d’interesse. Nei fatti la prestazione ci è parsa invece sottotono, sempre un po’ spenta e carente sul piano della fantasia esecutiva. Può aver giocato in questo senso una difficoltà nell’uso degli strumenti d’epoca usati dell’orchestra Gli Originali che rispetto ad altre occasioni ci è parsa meno precisa sul versante dell’intonazione specie nel settore degli ottoni. Molto positiva la prova del Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala. Caterina Sala preparava il debutto come Lucie da due anni ma la fortuna non ha assistito la giovane cantante. Costretta a rinunciare al III atto alla prima per problemi di salute nella recita recensita si è presentata non pienamente ripresa. Una certa prudenza si è notata fin dalla cavatina e nella scena della follia la stanchezza si è fatta sentire con evidenti difficoltà sugli acuti. E’ un vero peccato che questo abbia condizionato la prestazione perché la voce è ampia, ricchissima di suono – finalmente una Lucia vocalmente importante e non soprano leggero come si ascolta troppo presto – e nonostante la giovane età le qualità interpretative sono notevoli.
Sbagliata invece in partenza la scelta di Patrick Kabongo come Edgard. Il tenore franco-congolese ha una voce molto piacevole e canta con gusto e musicalità impeccabili ma la voce è troppo piccola e leggera per la parte. Già nel duetto del I atto viene quasi coperto da Lucie. La grande aria manca di intensità tragica e nel finale II semplicemente scompare. Kabongo è un ragazzo con del potenziale ma non è ancora pronto per una parte come questa. Vocalmente il migliore è stato Vito Priante che affronta Henry con voce sicura e autorevole e interpreta con grande efficacia il personaggio che nella versione francese è più subdolo e inquietante. Sul piano scenico si dimostra ottimo attore dominando con autorevolezza la scena.
Nel complesso ben centrati gli altri due tenori. Julien Henric ha la luminosità vocale e la simpatia scenica che si addicono ad Arthur mentre David Astorga pur con voce più ordinaria coglie perfettamente la natura subdola e traditrice di Gilbert. Autorevole Roberto Lorenzi nella pur molto ridotta parte di Raimond. La regia di Jacopo Spirei ci è parsa la migliore vista in questo festival. Allestimento attualizzato ma elegante e senza inutili forzature. Impianto scenico essenziale – una stilizzata foresta nebbiosa dai toni decisamente romantici, sobri abiti novecenteschi, efficacie gioco di luci, pochi elementi scenici a definire i vari ambienti. Tema centrale della regia è la condanna della violenza sulle donne resa attraverso immagini anche esplicite e brutali brutali e con una recitazione marcata e violenta – sporadiche contestazioni del pubblico dovute apparentemente a un fraintendimento del senso dello spettacolo. Spirei vuole però anche raccontare una vicenda e quindi si concentra sui personaggi e sui loro rapporti cosa che è invece mancata negli altri spettacoli del festival. Forse leggere l’intera opera in chiave così univoca fa un po’ perdere il senso di una fatalità superiore, di una ragion di stato che implacabile giunge a schiacciare tutti e in cui Lucie è vittima – forse solo più innocente – quanto Edgard, Arthur e forse lo stesso Henri ma lo spettacolo ha una sua organicità e coerenza che vanno apprezzate ed è un vero racconto e non un mero pretesto come troppo spesso accade.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: prima domenica di Avvento

Dom, 03/12/2023 - 01:28

L’Avvento è un periodo di penitenza ma, alla  prima domenica si collega l’apertura dell’anno liturgico, quindi,  al contrario di quanto avviene nelle tre domeniche successive,  questa  ricorrenza deve essere solennizzata. Per la prima domenica di Avvento Bach ha scritto tre cantate, due delle quali la nr. 61 e la nr. 62, iniziano con il medesimo testo: la prima strofa del Corale “Nun komm, der Heiden Heiland” (“Vieni ora, Salvatore dei pagani) che Lutero aveva  liberamente tratto dal antico inno “Veni Redentor gentium”. L’episodio evangelico previsto per la circostanza è l’entrata di Cristo a Gerusalemme, narrato da Matteo al capo XXI versetti 1-9. “Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me.Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito».Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta:Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù:condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere.La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via.La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava: Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli”. La Cantata BWV 62 eseguita a Lipsia il 3 dicembre 1724 si apre con un affascinante e brillante introduzione orchestrale che conduce al Coro (Nr.1) costruito sulla melodia del Corale luterano, inframmezzato dal ripetersi di ritornelli. La prima aria solista  (Nr.2), nella forma tripartita è affdata alla voce del tenore. Una luminosa pagina che vuole anticipare la gioia della venuta di Cristo. Una pagina che contrasta con quella cantata del basso (Nr.4), sempre tripartita (preceduta da un recitativo, nr.3). Una pagina fortemente teatrale, dal furore battagliero, che traduce in musica quanto espresso dal testo. La parte strumentale enfatizza la linea di canto virtuosistica. Segue un recitativo (Nr.5), che si piega a melodioso arioso-duetto tra il soprano e il contralto. La cantata si chiude con semplice Corale (Nr.6).
Nr.1 – Coro
Vieni, Redentore dei pagani,
Riconosciuto figlio della Vergine,
Per il quale tutto il mondo si stupisce,
Che Dio gli abbia destinato tale nascita.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Ammirate, o genti, questo grande mistero:
L’Altissimo Signore si manifesta al mondo.
Qui vengono svelati i tesori del cielo,
Qui ci viene offerta una manna divina,
O miracolo! La purezza non viene macchiata.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
E’ dalla gloria e dal trono di Dio
Che discende il Suo figlio unigenito.
L’eroe di Giuda arriva
Per seguire con gioia il Suo cammino
E riscattare noi che siamo caduti.
O chiaro fulgore, o mirabile segno di grazia!
Nr.4 – Aria (Basso)
Combatti e vinci, valoroso eroe!
Sii forte per noi nella carne!
Sia Tua premura
Di renderci forti,
Noi che siamo deboli!
Nr.5 – Recitativo (Soprano, Contralto)
Rendiamo onore a questa gloria
E ci accostiamo alla Tua greppia
celebrando con labbra gioiose
Ciò che hai preparato per noi;
Le tenebre non ci confondono
Poichè abbiamo contemplato
La Tua luce senza fine.
Nr.6 – Corale
Sia lode a Dio, il Padre,
Sia lode a Dio, il suo unico figlio,
Sia lode a Dio, lo Spirito Santo,
Sempre e per l’eternità!
Traduzione Alberto Lazzari

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Nun komm, der Heiden Heiland” BWV 62

 

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Maria Callas. Un trattato di canto (quinta parte)

Sab, 02/12/2023 - 08:14

Maria Callas (New York, 2 dicembre 1923 – Parigi, 16 settembre 1977)
Il senso dello stile
L’arte del fraseggiare occupa il posto più alto nella scienza del canto, ma soltanto il trascendere una tecnica pura agguerritissima può permettere all’esecutore di divenire un interprete consapevole, tenuto conto che ogni stile viene messo in luce a mezzo di una specifica tecnica vocale. Rimane il problema di ricercare tramite superamento di tale tecnica, il “modus” di far cantare personaggi assai lontani tra di loro, per  civiltà, cultura, ambiente, dando cioè una identificazione musicale-etnica al  personaggio. Quanti Filippo, sono simili a Mefistofele, quante Santuzze, simili alle varie Leonore verdiane, quanti Manrico  a Turiddu, e così via.  Non dimentichiamo che gli sforzi di sottoporre un cantante del tardo ‘900 a questo processo di identificazione sono di gran lunga superiore a quelli che si erano sottoposti cantanti del ‘700 o dell’800, che frequentemente erano da considerare dei veri e propri coautori dei ruoli chiamate ed eseguire. Un poo’ è un po’ quello che è accaduto con Luigi Nono con Liliana Poli o con Luciano Berio e Cathy Berberian. Il canto era inoltre era inteso a quei tempi in modo globale. Sappiamo che il maestro di canto di quel tempo, spesso era un compositore, a  volte un cantante, bravo o meno, non importava. I  trattati venivano dettati da musiche contemporanee, frutto cioè del particolare modo di sentire la musica  di quell’epoca precisa.
Oggi il cantante deve cercare di immedesimarsi in ognuno di questi stili diversi, il più delle volte però vi rinuncia per moltissimi motivi, quasi tutti di ordine culturale e non fa che ripetere sulla scena, mille volte se stesso. Lo diceva Richard Wagner: “I cantanti nella maggior parte non pronunciano bene, perciò ignorano il senso dei loro discorsi, il carattere dei loro personaggi è quasi sempre velato alla loro mente o veduto attraverso le banali convenzioni operistiche, vanno a tentoni o si incontrano allo scopo di piacere al pubblico, in certi accenti seminati qua e là, sospiri, gemiti alla bell’e meglio, generici”.
Maria Callas colse tutti di sorpresa, ella stessa  fu la prima meravigliarsi delle meraviglia altrui. Se è vero che Tullio Serafin  le propose di passare nel giro di una settimana dalla vocalità di Isotta a quella della Elvira dei Puritani, la cosa  fu accolta dalla cantante greca con estrema semplicità e sicurezza, nessuna avventura vocale da tentare, in ciò che a lei parve naturale, ossia il passaggio da una tecnica interpretativa ad un’altra, che invece generò sgomento tra gli esperti  e  in un pubblico abituato a identificare determinate voci in determinati ruoli, da tempi immemorabili. La Callas sembrò percorrere un cammino che ancora oggi, sembra sconosciuto alla maggior parte degli studiosi di canto. Ella inverti la rotta, sottopose arditamente la scienza vocale alla necessità drammatica trovando di volta in volta il modo di superare la difficoltà tecnica, nel momento in cui la situazione poetica lo richiedesse imperiosamente. La sua abilità interpretativa sta proprio nel dimenticare la propria identità vocale a vantaggio  del personaggio chiamato ad interpretare. Nessuna imitazione di modelli precedenti lo disse di se stessa a New York nel 1971 alla Juilliard School: “Non imitatemi, i miei dfetti sono inimitabili, così come lo sono i miei pregi.” Infatti l’imitazione di un modello conduce sempre a un risultato negativo. Il cantante che si rifà al modello precedente, sia esso un grande cantante o il proprio insegnante di canto, fallirà nell’esprimere la propria identità artistica. Le copie altro non sono che brutte copie. La Callas dunque aveva piena coscienza che la sua voce assommava in sé, per misteriosi comunioni astrali, tutte le pagine dei primi trattatisti questo sul piano meramente tecnico. Non secondario il fatto che la Callas conosceva alla perfezione l’americano, il francese, l’italiano. L’origine greca favoriva tale conoscenza delle lingue. Sappiamo che i greci hanno un’estrema facilità a parlare le lingue straniere. La Callas conosceva la nostra lingua fin nelle più remote sfumature;  questo le permetteva l’esprimersi musicale del personaggio al punto di mettere in luce il significato musicale della parola, aldilà del significato ad esso attribuito. Attraversi i suoni ella parlò ai giovani degli anni ’50 più che agli anziani di quel decennio che, anzi, l’ascoltavano con sospetto ed imbarazzo.
La Callas fu l’interprete che il “nuovo” ascoltatore attendeva. Una interprete che pur sembrando di un “tempo remoto”  era al contempo espressione del proprio tempo. Elisabeth Schwarzkopf ha affermato:” Ogni cantante ha la sua tecnica, è vero, anche la Callas ebbe la sua, inimitabile. Ma perché? Perché la sua non fu una tecnica di canto propriamente detta indissolubilmente legata al fatto estetico, ma la tecnica dell’interpretazione. È questo forse, secondo il mio modesto parere, il maggior merito di questa cantante”. Si può azzardare a dire che questo tipo di tecnica sia proprio quella valuta dei vari trattatisti, ma anche da Verdi che andava dicendo “studiare la tecnica degli antichi maestri con la moderna declamazione”, Andava cioè affermando un “modus” di esprimersi attuale e non retrospettivo come si pretende da alcuni riguarda la Callas.

La sua dunque era una tecnica che riusciva a legare il mondo di due secoli fa al più moderno modo di sentire la musica. A tale proposito ascoltiamo l’aria “Suicidio” da La Gioconda, opera che Callas rilancia, sepolta com’era sotto la polvere retorica post-verdiana. Con abile intuizione ella ripulisce lo spartito, ne lustra i contorni, ne attenua i turgori, cari alle cosiddette “Glorie veriste”adoperando, di volta in volta, la voce “di testa” dove era tradizione quella usare quella di petto, addolcendo oltre misura l’uso del legato per nobilitare il carattere della protagonista dando “fuoco alle polveri” del canto di marca prettamente italiana in due o tre punti dell’opera. Mettendo a confronto le incisioni del 1952 con quella 1959 si deve dire che il lungo soggiorno in Italia non giovò  molto all’affinarsi del gusto e da parte della cantante, pagando un “tributo a Cesare”. Nel 1959 la Callas fa uso di uno stile un po’ troppo “all’italiana”. Già dalla frase “L’ultima Croce del mio cammin”  la cantante tende un po’ ad abusare  della voce di petto.

Da notare poi come la Callas, nel 1964, incidendo  l’Habanera della Carmen, l’affronta con uno stile che si può dire “cabaret”, con estrema leggerezza, con poche vibrazioni nel suono, alla Bizet, in sostenza.

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“The Callas Imprint: A Centennial Biography” di Sophia Lambton

Sab, 02/12/2023 - 00:02

“The Callas Imprint: A Centennial Biography”
Editore: The Crepuscular Press
In uscita: 2 dicembre  2023
ASIN: ‎ B0BRYPL5WN (Kindle) / ISBN-13: ‎978-1739286323 (hardcover) / 
ISBN-13: ‎978-1739286347 (paperback)
In vendita su  Amazon.com e it
Frutto di un lavoro di 12 anni, The Callas Imprint: A Centennial Biography è un voluminoso lavoro  che con passione ci presenta la Callas e i personaggi che si sono rapportati con lei. Il volume vuole aprire una finestra su questa grande artista che bilanciare la vita reale con la creazione di un’arte stressante ma potente. L’autrice Sophia Lambton,  critica di musica classica, ha estratto 3.395 fonti che abbracciano 80 anni e 21 paesi (inclusa corrispondenza mai vista prima e documenti d’archivio) per illustrare la complessità della Callas e il suo incommensurabile talento. In tal modo, Lambton si avvicina alle contraddizioni, alle autodescrizioni, agli atteggiamenti e alle abitudini di Callas come nessuno aveva mai fatto prima e con un esame empatico. Il libro presenta lettere mai pubblicate tra la Callas e il suo manager, nonché appunti presi durante le loro conversazioni telefoniche per svelare i meccanismi interni del soprano dal 1953 fino alla sua morte nel 1977. Sono incluse anche le lettere  tra la Callas e il suo avvocato specializzato in separazione legale; messaggi tra la  cantante e direttori d’orchestra e di teatri; e nuove interviste con coloro che conoscevano la Callas, che rafforzano il contributo autoriale della Callas al mondo dell’opera. The Callas Imprint rende Maria Callas un essere umano con cui ci si può identificare. È un viaggio artistico attraverso il  XX secolo attraverso gli  occhi di un genio inimitabile.

A book 12 years in the making, The Callas Imprint: A Centennial Biography is a voluminous labor of love that juxtaposes the on- and off-stage personas of opera’s lyrical enigma Maria Callas — opening a window into the confounding double life of all performers while depicting Callas as she truly was: a relatable figure who had to balance real life with the creation of a stressful but exquisite art. Author Sophia Lambton, a venerable classical music critic, mined 3,395 sources spanning 80 years and 21 countries (including never-before-seen correspondence and archival documents) to illustrate the complexity of Callas and her immeasurable talents. In doing so, Lambton closes in on Callas’ self-contradictions, self-descriptions, attitudes and habits like no one has before and with empathic scrutiny.
The book features never-published letters between Callas and her manager as well as notes taken during their phone conversations to unveil the soprano’s inner workings from 1953 until her death in 1977. Also included are missives between Callas and her legal separation lawyer; messages between the singer and conductors and artistic directors; and new interviews with those who knew Callas — all of which reinforce Callas’ authorial contributions to the world of opera.
Ultimately, The Callas Imprint makes Maria Callas into a relatable human being. It’s an artistic journey through the rocky 20th century from the eyes of an inimitable genius.

 

 

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Bergamo, Donizetti Opera 2023: “Alfredo il grande”

Ven, 01/12/2023 - 18:04

Bergamo, Teatro Donizetti, Festival Donizetti Opera 2023
“ALFREDO IL GRANDE”
Dramma per musica in due atti di Andrea Leone Tottola
Musica di Gaetano Donizetti
Alfredo ANTONINO SIRAGUSA
Amalia GILDA FIUME
Eduardo LUDOVICO FILIPPO RAVIZZA
Atkins ADOLFO CORRADO
Enrichetta VALERIA GIRARDELLO
Margherita FLORIANA CICÌO
Guglielmo ANTONO GARES
Rivers ANDRÉS AGUDELO
Orchestra Donizetti Opera
Coro della Radio Ungherese
Direttore Corrado Rovaris
Maestro del coro Zoltán Pad
Regia Stefano Simone Pintor
Scene Gregori Zurla
Costumi Giada Masi
Luci Fiammetta Baldisseri
Bergamo, 24 novembre 2023
Andata in scena al San Carlo di Napoli nel 1823 “Alfredo il grande” rappresentò la prima importante commissione del giovane compositore bergamasco. Per l’occasione Donizetti ebbe a disposizione un libretto già predisposto da Tottola per Mayr cinque anni prima e poteva contare su un protagonista di primissimo piano come Domenico Donzelli. Nonostante le premesse l’opera restò in scena per poche recite pur permettendo al compositore di affacciarsi per la prima volta su un grande palcoscenico. La prima ripresa moderna dell’opera – all’interno del progetto #Donizetti200 – permette di farsi un’idea sulla maturazione del compositore in quel momento. L’opera pur non autenticamente ispirata risulta nel complesso godibile e sconta soprattutto la debolezza del libretto di Tottola che concentra l’intera vicenda nel primo atto mentre nel secondo tende ad allungare inutilmente i pochi episodi rimasti. La musica mostra una forte influenza rossiniana – al limite del plagio in certi passaggi – ma a tratti presenta lampi di originalità che lasciano presagire futuri sviluppi – si ascolti il coro pastorale del I atto già così simile a quello dei contadini che apre “L’elisir d’amore”.
La parte musicale è stata affidata all’Orchestra Donizetti Opera guidata da un direttore di esperienza filologica come Corrado Rovaris. Il direttore mostra una notevole attenzione al dato stilistico, pur essendo un’orchestra moderna gli aspetti timbrici e coloritici chiari e luminosi danno subito il sentore di un sicuro approfondimento. Rovaris rende il contrasto tra blocchi di atmosfere contrapposte che caratterizza la partitura. Di contro si è notata qualche scollatura tra buca e palcoscenico di cui ha sofferto soprattutto il coro – per altro ottima la prova della formazione della Radio ungherese – con qualche ritardo negli attacchi. Perfettamente centrata la compagnia di canto. Antonino Siragusa affronta un ruolo scritto per Nozzari e ne esce baldamente vincitore. La voce ha acquisito una maggior robustezza che gli permette di reggere con sicurezza il settore medio grave della tessitura mentre gli acuti sfolgorano sicuri e radiosi senza alcuna difficoltà. Sul piano stilistico si nota la perfetta quadratura dell’autentico belcantista che riesce anche a dare un minimo di consistenza interpretativa a un ruolo al riguardo assai evanescente. La regina Amalia vede brillare la prestazione di Gilda Fiume. Il soprano mostra di possedere tutte le qualità richieste dalla parte. Voce ampia, ricca di armonici, sicura negli acuti e precisa nel canto di coloratura Si mostra pienamente a suo agio sia nei passaggi più patetici sia quando la regina sfoggia un temperamento eroico e quasi marziale. La sua prova è coronata da un’esecuzione impeccabile del grande rondò conclusivo trionfalmente accolta dal pubblico. Belle rivelazioni – almeno per lo scrivente – le voci gravi. Il baritono Lodovico Filippo Ravizza sfoggia una voce assai interessante e canta con la giusta nobiltà la parte del generale inglese Eduardo. Il basso Alfonso Corrado mostra un’ottima voce di basso cantante e un canto morbido e ricco di chiaroscuri con unisce un notevole temperamento che ben rende la figura del capo danese Atkins (corrispettivo operistico del Guthrum storico). Valeria Girardello canta con gusto e proprietà la parte di Enrichetta affiancata dal timbro brillante della Margerita di Floriana Cicìo. Voce agile e preciso Antonia Gares (Guglielmo) e di giusta solidità Andrés Agudelo (Rivers). La regia di Stefano Simone Pintor – con scene di Gregorio Zurla e costumi di Giada Massi – resta sempre a metà del guado lasciando un senso di sostanziale incompiutezza. Spettacolo estremamente essenziale,  quasi più una forma semiscenica arricchita che un vero e proprio allestimento teatrale, vede la scena dominato da un grande libro stilizzato – Alfredo fu un grande protettore della cultura, caso quasi unico nell’alto medioevo barbarico – su cui vengono proiettate immagini diverse. Si alternano dettagli di diplomi e miniature medioevali, richiami a roghi di biblioteche e distruzioni di libri e beni culturali – da Alessandria a Sarajevo passando per i Bücherverbrennungen nazisti – e immagini contemporanee di proteste e manifestazioni più grottesche che tragiche specie al paragone con l’importanza degli altri episodi citati con una certa ossessione per l’assalto a Capitol Hill tanto da utilizzare per i guerrieri danesi i copricapi dei nativi americani usati apparsi in quell’occasione.La regia vera e propria di fatto si limita a protagonisti mentre il coro in abito da concerto esegue la propria parte con leggio in mano e unico elemento scenico le bandiere inglesi o danesi sui leggii. I costumi mischiamo medioevo e contemporaneità in modo abbastanza confuso con il risulta di scontentare tanto il pubblico tradizionalista quanto quello più portato alle sperimentazioni. Alla fine resta uno spettacolo anonimo che noon lascia segno.

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Castelnuovo di Farfa:”Artepiano, Christmas Concert” 09-10 Dicembre 2023

Ven, 01/12/2023 - 16:51

Castelnuovo di Farva, Palazzo Pegoretti
ARTEPIANO: CHRISTMAS CONCERT
Con Erica Eloff, Niel Du Preez
Via Monte Cavallo 6
Castelnuovo  di Farfa
02031 (Rieti)
09-10 Dicembre 2023 ore 18:30
In una cornice straordinaria, all’interno di una splendida dimora privata del XVI secolo appena restaurata, di proprietà del noto e pluripremiato acconciatore cinematografico Francesco Pegoretti, avrà luogo un affascinante concerto di ArtePiano per inaugurare le prossime festività natalizie. Questo segna la prima volta in cui il Maestro Pegoretti apre le porte della sua abitazione storica di Castelnuovo di Farfa al pubblico, offrendo un evento straordinario e lo fa con la partecipazione di due artisti di grande spessore: Erica Eloff e Niel Du Preez. Erica Eloff, soprano, vincitrice del London Handel Competition, ha collaborato con Laurence Cummings e i London Handel Players, esibendosi al London Handel Festival e con Opera Settecento e la Hanover Band. Oltre al suo ruolo nell’ensemble del Landestheater Linz dal 2020, lavora regolarmente con la Bruckner Orchester Linz e Markus Poschner. Niel du Preez, pianista, noto per esibizioni espressive in tutto il mondo, ha collaborato con importanti orchestre e musicisti da camera. Nel 2020 è diventato Direttore Artistico dell’International ArtePiano Festival & Piano Competition, con residenze in Italia, Regno Unito e Germania, oltre a recenti collaborazioni con la clarinettista Myriam Carrier e la violoncellista Kristin Malmbørg. Il programma prevede arie d’opera, cantate natalizie ed assoli di pianoforte. Qui per tutte le informazioni e dettagli sulle serate.

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Roma, Musei Capitolini: la prima mostra monografica su “Fidia”

Ven, 01/12/2023 - 15:56

Musei Capitolini, Villa Caffarelli
FIDIA
Dal 24/11/2023 al 05/05/2024
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni culturali
Organizzazione Zètema Progetto Cultura
Main Sponsor Bulgari
Curatore Claudio Parisi Presicce
Roma, 01 Dicembre 2023
“Le forme, come quelle di Fidia, hanno un loro svolgimento anche nella staticità. […] Nessun altro, dopo Fidia, ha conservato davanti alla vita questa gravità rispettosa e questo entusiasmo cosciente che sono la vera religione.” (Edgar Faure)
La mostra “FIDIA” presso i Musei Capitolini conduce i visitatori in un viaggio per molti inatteso e sorprendente attraverso la vita, la carriera e il contesto storico-culturale del grande scultore. Una vasta e pregiata selezione di oltre 100 opere, che spazia tra reperti archeologici, originali greci e repliche romane, dipinti, manoscritti e disegni, offre un’esperienza unica, con alcune di esse esposte per la prima volta. Fidia, celebre scultore del V secolo a.C., giunge a noi attraverso una rinomanza paradossale, essendo considerato un “scultore orale” poiché nessuna delle sue opere originali è pervenuta fino a noi. La conoscenza delle sue creazioni si basa esclusivamente sulle testimonianze di coloro che le hanno ammirate. Le copie ellenistiche o romane attribuite a Fidia possono, a loro volta, non derivare necessariamente dagli originali del maestro. Notizie storiche e iscrizioni del 1589, come quelle dei Dioscuri al Quirinale, evidenziano la sfida nel distinguere le opere autentiche di Fidia da imitazioni successive. Nonostante ciò, la grandiosità delle sculture di Fidia ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’arte. Un esempio eloquente è il generale romano Lucio Emilio Paolo, che nel 167 a.C. rimase incantato di fronte allo Zeus di Olimpia, celebrandolo con un sontuoso sacrificio. Massimiliano Papini, professore di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana, offre un’approfondita analisi critica e bibliografica su Fidia nel suo volume “Fidia. L’uomo che scolpì gli dei” . Fidia, legato a Pericle come scultore, architetto e sovrintendente nel rinnovamento urbanistico ateniese, è oggetto di speculazioni riguardo al suo coinvolgimento diretto nella scultura del Partenone. Il destino di Fidia fu controverso, accusato di appropriazione indebita durante la realizzazione della statua della Parthénos per il Partenone e morendo in carcere dopo un processo. Alcuni sostengono che le accuse fossero mirate a danneggiare il suo mentore, Pericle, coinvolto nelle tensioni politiche dell’epoca. Le opere più celebri di Fidia includono l’Atena Parthénos, un colosso alto dodici metri, e la statua di Zeus a Olimpia, entrambi realizzati in crisoelefantina (oro e avorio). La peculiarità di queste sculture risiede nell’abilità di Fidia nel catturare l'”auctoritas degli dèi”, un pregio che secondo Quintiliano lo distingue da Policleto nel ritrarre la forma umana. Il “realismo mentale” di Fidia emerge nella sua capacità di plasmare le divinità seguendo un ideale di bellezza interiore, oltre che esteriore. Questa mostra inaugura un ciclo avvincente quanto ardito di cinque esposizioni intitolato “I Grandi Maestri della Grecia Antica”, mirato a introdurre il grande pubblico ai protagonisti principali della scultura greca. Tale ciclo riveste un significato particolare a Roma, città che custodisce testimonianze di inestimabile importanza sull’opera di Fidia, risalenti al periodo del Rinascimento e oltre, attraverso le preziose copie romane di capolavori originali. Il percorso espositivo si suddivide in sei sezioni: “Il ritratto di Fidia“, “L’età di Fidia“, “Il Partenone e l’Atena Parthenos“, “Fidia fuori da Atene“, “L’eredità di Fidia“, e “Opus Phidiae: Fidia oltre la fine del mondo antico“. L’allestimento si distingue per la sua assoluta sobrietà ed eleganza formale, mentre le opere esposte sono concepite con attenzione per garantire una fruizione ottimale da diverse angolature. Le pannellature nere di sfondo e i basamenti rossi si configurano come scelte cromatiche vincenti, finalizzate a mettere in risalto il marmo bianco predominante nei reperti di statuaria. Tale accostamento cromatico non solo evidenzia la purezza e la bellezza intrinseca del materiale, ma agisce anche come guida visiva, attirando l’attenzione su ogni singola sfumatura delle opere esposte. Nonostante il considerevole numero di reperti, ciascuno conserva una distintiva identità propria. Le luci, abilmente modulate in termini di intensità e angolazione, svolgono un ruolo cruciale nell’evidenziare la tridimensionalità di ciascun reperto. Attraverso una sapiente gestione della luce, si crea un suggestivo gioco d’ombra che virtualmente proietta molti reperti sulle pareti e sui muri degli spazi espositivi. Questo effetto contribuisce a un’intrecciata coreografia visiva, quasi visionaria, in cui i reperti sembrano completarsi reciprocamente, aggiungendo un ulteriore livello di profondità e significato all’esperienza espositiva. L’approccio complessivo all’allestimento non si limita quindi solamente a seguire un rigoroso criterio scientifico, ma si preoccupa anche di preservare gli occhi del visitatore da sovrapposizioni che potrebbero risultare ridondanti e potenzialmente disturbanti. La sezione didascalica si distingue per la sua chiarezza e comprensibilità, raggiungendo un livello tale da essere accessibile non solo agli esperti del settore, ma anche al pubblico generale. Questa caratteristica consente di sganciare la mostra dall’etichetta di essere esclusivamente rivolta a una nicchia di conoscitori, conferendole invece un carattere più universale e aperto a un vasto pubblico. Tra i numerosi reperti, emerge con semplicità ma grande forza evocativa ciò che rimane di una modesta tazza. Sotto la base di questo pregevole reperto, si legge l’iscrizione “ΦΕΙΔΙΟ ΕΙΜΙ” (Io appartengo a Fidia). Tale annotazione, rinvenuta nel laboratorio di Fidia di fronte al tempio di Zeus, rivela il legame personale con lo scultore. In questo laboratorio, Fidia dedicò la sua maestria alla creazione della celebre statua della divinità, che sarebbe poi divenuta una delle sette meraviglie del mondo antico. La semplice tazza, con la sua iscrizione distintiva, diviene così una testimonianza tangibile della connessione diretta con l’arte e l’opera di Fidia. Le sale, sebbene alcune possano apparire anguste rispetto alle dimensioni delle opere e delle vetrine che contengono (con particolare riferimento alla sala dedicata allo Zeus di Olimpia), si distinguono per un’atmosfera ricca di fascino. Il palazzo Caffarelli che ospita la mostra si rivela perfettamente idoneo a valorizzare le caratteristiche uniche dell’esposizione. Un aspetto di notevole rilevanza è la professionalità del personale dedicato all’evento. Cordiale, altamente competente e attentamente predisposto per assistere i visitatori, si distingue per rispondere in modo eccellente a ogni loro esigenza. La mostra, indubbiamente contraddistinta da un impegno innegabile, meriterebbe una visibilità più estesa e una presenza di visitatori più consona agli eventi culturali di prestigio che spesso caratterizzano le esposizioni monografiche dai titoli così altisonanti.

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