Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2025
“LE VILLI”
Opera Ballo in due atti su libretto di Ferdinando Fontana dalla novella Les Willis di Alphonse Karr e dal balletto Giselle di Théophile Gautier
Musica di Giacomo Puccini
Roberto GALEANO SALAS
Anna SARA CORTOLEZZIS
Guglielmo Wulff GËZIM MYSHKETA
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Alessandro Cadario
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regìa Pier Francesco Maestrini
Scene Juan Guillermo Nova
Costumi Luca Dall’Alpi
Luci Bruno Ciulli
Movimenti mimici Michele Cosentino
Verona, 26 ottobre 2025
Le Villi, primo lavoro teatrale di Puccini, approda al Filarmonico e a Verona per la prima volta nella sua ultracentenaria storia. Una storia iniziata male, a causa di quel concorso bandito dall’editore milanese Sonzogno che bocciò subito il manoscritto vuoi per la stesura frettolosa ed illeggibile, vuoi per presunte pressioni dell’editore Ricordi che voleva assicurarsi il giovane lucchese nella propria scuderia sottraendolo così al rivale. Sta di fatto che l’opera prima di Puccini brilla per ardore creativo, non sempre misurato eppure coerente; nonostante strizzi l’occhio alla tradizione del melodramma italiano (Verdi e Ponchielli, peraltro suo insegnante al conservatorio di Milano) filtrata attraverso il movimento scapigliato e guardando nel contempo alla musica d’oltralpe (Massenet e Wagner) già trasuda dell’autenticità pucciniana propria delle opere posteriori. Il venticinquenne musicista, fresco di studi, padroneggia già la tavolozza timbrica orchestrale con acceso entusiasmo, osando e sperimentando nuove soluzioni nonostante la vicenda poco verosimile ed il debole libretto di Ferdinando Fontana. Sarà proprio quest’ultimo ad adoperarsi affinché Le Villi, ampliata nella forma e nei numeri musicali, sia rappresentata al Dal Verme di Milano la sera del 31 maggio 1884; in seguito la partitura venne sottoposta a ripetute revisioni fino alla stesura definitiva del 1892. A Verona lo spettacolo era quello proveniente dall’allestimento del Teatro Regio di Torino, andato in scena lo scorso anno, firmato da Pier Francesco Maestrini, tradizionale e gradevolissimo nella sua lettura essenziale ma efficace: il tradimento e il rimorso, elementi imprescindibili che troveremo più tardi in Madama Butterfly, trovano qui una dimensione inquietante, infernale e vendicativa. La regìa, al pari delle scene di Juan Guillermo Nova (autore anche delle suggestive videoproiezioni) ed i costumi di Luca Dall’Alpi, ricrea l’ambientazione coeva alla composizione dell’opera. Anche le luci di Bruno Ciulli e le coreografie di Michele Cosentino ricreano quell’atmosfera onirica di magìa mista a fantasia che assicurano un indubbio fascino allo spettacolo. La componente musicale non era da meno, sia pure con qualche lieve riserva. Cominciamo col dire che il terzetto dei protagonisti ha ingaggiato una lotta titanica con l’orchestra, spesso generosa nel suono (soprattutto gli ottoni) uscendone comunque vittorioso nelle intenzioni. Sara Cortolezzis è indubbiamente una valida artista ma il ruolo di Anna, sia pure scolpito a due facciate distinte (prima innocente fanciulla, poi feroce ed implacabile vendicatrice) è risultato parzialmente efficace: poco convincente nei momenti lirici della donna innamorata, il soprano si è ampiamente riscattata imponendosi come fantasma e spirito della foresta nella scena Ricordi quel che dicevi. Nel ruolo del fedifrago Roberto il sicuro Galeano Salas ha condotto in porto una prova musicalmente ineccepibile: l’aria Torna ai felici dì è stata eseguita con bellezza di fraseggio e con quel senso di tardivo ravvedimento che anticipa il futuro personaggio di Pinkerton. Completava il novero dei solisti il baritono Gëzim Myshketa, Guglielmo Wulff: anch’esso alle prese con un personaggio bifronte di stampo marcatamente verdiano (padre affettuoso e felice del fidanzamento a cui si contrappone il demone vendicatore della figlia abbandonata), risolve con professionalità e senso teatrale la scena del secondo atto, Anima santa della figlia mia con accento nobile e paterno. Sul podio Alessandro Cadario si conferma direttore interessante, eclettico nel gusto e nelle scelte dinamiche: la sua lettura trova dei colori di profonda suggestione sonora esaltando la liricità dei preludi (con apprezzabili pianissimi) quanto la vivace irruenza dei momenti topici, come nella celebre Tregenda. Ampio merito va ancora una volta all’ottima orchestra della Fondazione e alle sue prime parti anche se, come sopra riportato, talvolta ridondante soprattutto nella sezione degli ottoni. Non da meno la prova del coro, guidato da Roberto Gabbiani, posizionato accortamente in scena dal regista e messo perciò in condizioni acustiche agevoli; bene l’apertura Evviva i fidanzati! come gli interni (soprattutto femminili) del secondo atto e della ridda finale. Pubblico numeroso quanto tiepido e parco di applausi per il Puccini prima maniera; repliche mercoledì 29, venerdì 31 e domenica 2 novembre. (Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona)
Novara, Teatro Carlo Coccia, stagione lirica 2025
“DON GIOVANNI”
Melodramma gioco in tre atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni CHRISTIAN FEDERICI
Il Commendatore LUCA DELL’AMICO
Donna Anna MARIA MUDRYAK
Don Ottavio VALERIO BORGIONI
Donna Elvira LOUISE GUENTER
Leporello STEFANO MARCHISIO
Masetto GIANLUCA FAILLA
Zerlina ELEONORA BOARETTO
Time Machine Ensamble
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Arthur Fagen
Maestro del coro Pasquale Veleno
Regia Paul-Émile Fourny
Scene Benito Leonori
Costumi Giovanna Fiorentini
Luci Patrick Méeüs
Video designer Mario Spinaci
Coproduzione con Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, Teatro Marrucino di Chieti, Opéra-Théâtre de l’Eurométropole de Metz, NOF Nouvel Opéra Fribourg – Neue Oper Freiburg
Novara, 26 Ottobre 2025
Frutto di un’ampia collaborazione internazionale arriva a Novara una produzione di “Don Giovanni” decisamente riuscita sia sul piano musicale sia su quello scenico.
Resta un po’ in ombra la parte orchestrale. Il Time Machine Ensamble è di fatto la formazione stabile del festival Persolesi-Spontini, alle prese con il capolavoro mozartiano mostra ancora un po’ di immaturità per altro comprensibile. Arthur Fagen non parte benissimo, l’ouverture è un po’ pesante e lo stesso vale per la scena del Commendatore. Va però crescendo trovando un buon equilibrio complessivo – pur con qualche piccolo scollamento tra buca e palcoscenico. Viste le dimensioni ridotte dell’orchestra e aiutato dall’ottima acustica del teatro novarese punta a una lettura quasi cameristica che evidenzia i singoli esecutori e le singole sezioni. Mostra grande mestiere nell’accompagnamento dei cantanti e regge il tutto sicurezza non mancando neppure della giusta imponenza nel grande finale. Buona la prova del coro del teatro Ventidio Basso che pur con una formazione ridotta mostra sempre la giusta presenza sonora e un’ammirevole pulizia interpretativa.
Molto suggestiva la regia dalle tinte gotiche di Paul-Émile Fourny. Il registra francese prende alla lettera la natura demonica di Don Giovanni e la fonde con quella di un altro mostro dell’immaginario letterario: il Vampiro, il Dracula di Brian Stoker riletto attraverso l’estetica del film di Coppola. All’interno di un teatro in rovina si recita il tragico destino di Don Giovanni-Dracula. Il personaggio ha tutto il fascino ipnotico della parte – restando però una figura malvagia e respingente, lontana dal creare qualunque empatia con lo spettatore – domina gli altri personaggi con il suo magnetismo, si nutre del loro sangue ma nel suo deliro di onnipotenza non si rende conto di sprofondare nell’abisso segnato dello scontro con il Commendatore, anch’essa figura vampiresca ma più antica e potente, capace di esprimere il proprio dominio in accordo e non in contrasto con il mondo esterno. L’estetica dei personaggi guarda molto al film di Coppola stabilendo ideali associazioni tra i personaggi: Donna Anna-Mina, Don Ottavio-Van Helsing (molto interessante l’idea di farne il campione di una visione razionale del mondo contro le potenze demoniache), Zerlina-Lucy. La regia – al netto di qualche eccesso nelle scene comiche – coglie momenti di rara finezza attoriale: Zerlina di fatto ipnotizzata dalla sguardo magnetico del vampiro seduttore salvata al momento del morso dall’intervento di Elvira o la durissima lotta che Anna combatte contro il vampirismo che si fa strada dopo il morso subito così che la ritrosia nei confronti di Ottavio è frutto della volontà di proteggere l’amato dalla maledizione che la divora.
Ottima la compagnia di canta, omogenea e pienamente inserita nello spettacolo. Christian Federici è un Don Giovanni di alto livello. Baritono dai bei riverberi scuri canta con eleganza e grande senso stilistico – la serenata è un’autentica lezione di canto a fior di labbro. A colpire maggiormente è però la capacità di scolpire la parola, la fermezza dell’accento e la ricchezza del fraseggio. Alla prese con un personaggio titanico Federici ne esce vincitore con tutti gli onori. La strepitosa presenza scenica completa alla perfezione il ritratto del seduttore. Valerio Borgioni è un Don Ottavio di grande impatto. Voce di radioso lirismo ma mai esangue anzi di una virilità nobile e radiosa. La setosa morbidezza dell’emissione – mezzevoci magistrali – e la facilità sugli acuti lo confermano uno dei talenti più interessanti della sua generazione. Sul piano interpretativo tratteggia un personaggio di forte spicco, fermo scoglio contro il dilagare delle forze oscure facendone – giustamente – il vero contraltare di Don Giovanni.
Stefano Marchisio è un Leporello forse un po’ caricato – per scelte registiche – ma si fa ammirare per la chiarezza della dizione e la facilità nei sillabati. Rende in modo convincente la doppia natura del personaggio, affascinato dal padrone ma capace anche di guardarlo con disincanto. Raramente si ascolta un Commendatore della qualità di Luca Dell’Amico, voce di autentico basso profondo, imponente nella cavata ma sempre perfettamente controllata, dizione perfetta, accento scultore e fortissima presenza scenica. Per una volta il Commendatore ha la giusta grandezza e nello scontro finale risulta dominante. Gianluca Failla è un Masetto ben cantato e interpretato con gusto, dando al personaggio una ingenuità popolaresca che ben gli si aggrada. Rivelatasi come Mimì a Novara Maria Mudryak è una Donn’Anna insolitamente lirica e luminosa nel timbro ma dal forte temperamento espressivo. La voce è ricca di armonici, omogenea e compatta su tutta la linea, gli acuti ricchi di suono e le colorature nitide e precise. Ottima attrice e dotata di un fascino scenico innegabile rende alla perfezione la lettura insolita e complessa data dalla regia. Praticamente debuttante in un ruolo di prestigio Louise Guenter (Donna Elvira) mostra qualità degne di nota. Magari l’emissione potrebbe essere a tratti più morbida, qualche traccia di emozione si sente. La voce è però bella, robusta e ricca di armonici, il temperamento notevole e in scena si muove con naturalezza. Una voce da seguire con attenzione. Beniamina del pubblico novarese Eleonora Boaretto conferma ogni volta la sua crescita. Zerlina vocalmente ricca, cantata con timbro cristallino e gusto impeccabile. Interpretativamente è lontana da ogni leziosaggine e dona al personaggio una consistenza, anche drammatica, e una complessità non certo comuni. Foto M.Pozzi
Roma, Teatro Argentina
RE CHICCHINELLA
Libero adattamento da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
Scritto e diretto da Emma Dante
Con: Angelica Bifano, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Carmine Maringola, Davide Mazzella, Simone Mazzella, Annamaria Palomba, Samuel Salamone, Stéphanie Taillandier, Marta Zollet
Scene e costumi Emma Dante
Musiche originali Carmine Maringola
Disegno luci Cristian Zucaro
Assistente alla regia Andrea Saitta
Produzione Teatro Biondo di Palermo / Emilia Romagna Teatro ERT / Fondazione
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale
Roma, 28 ottobre 2025
A teatro si va per due ragioni: per capire qualcosa o per lasciarsi attraversare da ciò che non si può capire. Con Re Chicchinella, scritto e diretto da Emma Dante e liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, la seconda opzione è la più onesta. Non perché lo spettacolo non comunichi, ma perché parla un linguaggio che non passa per la ragione: quello dei sogni che si ricordano a metà, delle visioni che restano impresse come una febbre. Sul palcoscenico del Teatro Argentina, la regista costruisce una fiaba che non consola, ma ferisce. È un viaggio che comincia dal ventre e finisce nella mente, passando per il cuore del potere. Il re, di ritorno dalla caccia, si ferma in un vicoletto per alleggerirsi. È un gesto elementare, umano, che si trasforma in tragedia. Non avendo con sé pezze né fazzoletti, si serve di una gallina trovata lì, apparentemente morta. Ma non lo è. Becca, si muove, reagisce. Da quel momento la fiaba si incrina. La bestia entra nel corpo del sovrano e non ne esce più: diventa parte di lui, un parassita che divora e insieme rigenera. Medici e preti si alternano, la scienza e la fede si confondono, ma nulla serve. La gallina resta. E con lei resta l’idea che il potere, una volta insediato, non si estirpa: si nutre, cresce, cambia pelle. È in questo momento che risuona Lascia ch’io pianga di Händel, come un lamento che si alza dal profondo del corpo violato. La voce si innalza sopra la scena, dolce e terribile insieme, mentre i medici tentano di estrarre la gallina dalle viscere del re. È un momento di pietà e crudeltà insieme, una messa chirurgica in cui la musica barocca trasforma l’operazione in un rito sacrificale. Impossibile non pensare ai giovani fanciulli sottoposti alla castrazione per diventare voci angeliche: corpi mutilati per servire la bellezza, come qui il sovrano viene squarciato per servire l’oro. La ferita del potere e quella della voce coincidono. E in questa sovrapposizione, la regista sembra dirci che ogni dominio nasce da una mutilazione: del corpo, del desiderio, della libertà. Col tempo, il re depone ogni giorno un uovo d’oro. La corte lo acclama, lo misura, lo sfrutta. Nessuno guarda più l’uomo: guardano solo il suo rendimento. È diventato un organismo da mungere, un sistema che produce valore. Emma Dante trasforma questa allegoria economica in rito, la disperazione in danza. È la storia del capitalismo raccontata in dialetto e piume, con l’ironia di chi sa che la tragedia può essere più vera se la si fa ridere. La regista non scrive dialoghi: scolpisce corpi. Gli attori non interpretano, reagiscono. Il linguaggio è fatto di carne, di sudore, di ritmo. Il re — Carmine Maringola, straordinario nella sua metamorfosi — si torce, sussulta, geme. È un corpo che ha smesso di appartenersi. Attorno a lui, tredici interpreti ( Angelica Bifano, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Davide Mazzella, Simone Mazzella, Annamaria Palomba, Samuel Salamone, Stéphanie Taillandier, Marta Zollet) si muovono come un’unica creatura: cantano, ringhiano, ballano. Sono la corte, ma anche il popolo, la famiglia, il coro che accompagna ogni potere dalla nascita alla rovina. Le scene e i costumi, curati dalla stessa Emma Dante, sembrano usciti da un sogno barocco in rovina: corone smisurate, ventri gonfi, piume ovunque. È un carnevale tragico, viscerale e bellissimo. Le luci di Cristian Zucaro incidono la scena come bisturi, mentre la musica di Maringola pulsa come un cuore che non trova tregua. Tutto vive, ma nulla riposa. La regia si muove con precisione nel confine tra genio e delirio, dove la bellezza diventa strumento di rivelazione. Crea immagini che non chiedono di essere capite, ma accolte, come una verità che brucia troppo per essere detta a voce alta. A volte l’eccesso divora il senso, ma è un eccesso necessario, consapevole, umano. Dopo tredici giorni di digiuno, il sovrano rinasce. Il corpo del re è a terra, disfatto. Sopra di lui, una gallina bianca viva, piccola, respirante che produce decine di uova d’oro. Intorno, la scena si spegne. Nessun trono, nessuna corona, nessuna redenzione. Solo la vita che resiste sul cadavere del potere. È un’immagine semplice e devastante: l’animale che sopravvive all’uomo, la natura che si riprende ciò che le era stato tolto. In quell’ultima visione c’è tutta la grazia crudele di Emma Dante. La gallina non vince, semplicemente rimane. E rimanere, in un mondo che consuma tutto, è già un atto di rivolta. L’applauso stesso diventa un atto ambiguo, metà adorazione e metà condanna. È lì che Re Chicchinella rivela la sua ferocia più tenera: non parla del re, ma di chi lo guarda. Non racconta la deformità del potere, ma quella di chi lo alimenta. È un teatro che non giudica: ci mette davanti allo specchio e lascia che a giudicarci sia il nostro stesso sguardo. Re Chicchinella quindi non è uno spettacolo da capire: è un’esperienza da sopportare, da attraversare come una febbre. È la storia di una civiltà che continua a covare illusioni d’oro anche quando ne sente l’odore di viscere. Photocredit Masiar Pasquali
Firenze, Teatro della Pergola, Stagione 2025-26 degli Amici della Musica di Firenze
Violoncello Luigi Piovano
Pianoforte Antonio Pappano
Johannes Brahms: Sonata n. 1 in mi minore, op. 38; Sergej Rachmaninov: Sonata in sol minore, op.19
Firenze, 25 ottobre 2025
Chi ha ascoltato il concerto del duo Piovano-Pappano non dimenticherà questo evento particolare. Due musicisti che, mentre suonano, evidenziano un ascolto reciproco e talmente raffinato da far percepire, grazie ad una significativa intesa, una sorta di autogenesi delle opere in programma. Colpiva nei due interpreti, in un autentico ‘contrappunto alla mente’, una sorta di dialogo inter pares che ricorda Goethe quando si riferisce alla musica da camera. Si è intuita subito la volontà di offrire un’interpretazione profonda e partecipata, quasi una lettura ermeneutica. Ognuno – senza rinunciare ai momenti in cui esplicitava il ruolo di autentico ‘rapsodo’, soprattutto nelle sezioni ove il contrappunto stabiliva la ‘navigazione’ – si inseriva in modo appropriato, rendendo esplicito ogni ingresso e chiarendo gli elementi figurali e strutturali dell’architettura delle composizioni presentate. Ne è scaturito un sapiente equilibrio e fusione tra i due strumenti ove si percepivano sezioni con una gamma di nuances, mentre l’idea di collaborazione esprimeva anche l’armonia sul piano umano. Piovano, impugnato l’arco e manifestate intenzioni eloquenti (p. espress. Legato), ha esposto il primo tema dell’Allegro non troppo della composizione brahmsiana che, per una serie di ‘coincidenze’, rimanda all’incipit della Sinfonia n. 4 dello stesso autore, quasi anticipando alcuni stilemi ricorrenti. In sostanza: medesima indicazione agogica, tonalità ed altri aspetti, senza dimenticare l’attacco arpeggiato del violoncello nella forma ascendente (nella sonata mi-sol-si) e nella forma retrograda discendente (nella sinfonia si-sol-mi, eseguito dai violini). Poi, come nelle 14 battute iniziali della sinfonia (gruppo dei legni), si ode il piano ‘trasfigurato’ su una tastiera che, grazie a Pappano, sembrava una reductio ad unum di una variegata tavolozza di colori. Il prosieguo è stato un ‘navigare’ nella forma sonata, cogliendo le autentiche espressioni romantiche. L’ Allegretto quasi minuetto–Trio ha costituito l’occasione per sentire i due strumenti in una prospettiva molto luminosa. La dolcezza dominava la scena (soprattutto nella prima parte, in la minore) fino ad immergersi nel più lirico Trio (fa diesis minore) ove, nei momenti in cui la destra del pianoforte si unisce allo strumento ad arco, assumeva una connotazione maggiormente ‘sentimentale’. Infine la pausa dell’ultima battuta è diventata respiro musicale per dare inizio all’Allegro finale. Ora, nella tonalità d’impianto, si ascoltava il bel soggetto scolpito e affidato alla sinistra del pianoforte con la risposta dello strumento ad arco. Eredità bachiane che, pur nel dialogo con la struttura tripartita della sonata, permettevano di immaginare l’ammirazione di Brahms verso il contrappunto e per il virtuosismo polifonico del Kantor. Nel movimento si è delineata una chiarezza nell’espressione ed un ineccepile fraseggio tanto da restituire quello stile romantico capace di recuperare stilemi barocchi e classici molto significativi per il compositore di Amburgo. Con l’op. 19 di Rachmaninov (1901), è emersa la buona intuizione del Duo a rimanere nell’alveo di uno stile ancorato alla grande tradizione romantica. Lavoro dalle ampie proporzioni, la cui scrittura esige un approccio assai impegnativo per gli strumenti. Il Lento iniziale, con l’esordio del violoncello (semitono ascendente: re-mib), reiterato e trasposto, fino a coinvolgere il pianoforte, sembra ricordare lo stesso intervallo, nella forma discendente (do-si), presente anche nella sonata brahmsiana. Particolare molto significativo che conferma non solo alcuni modi operandi compositivi comuni ma anche l’attenzione degli interpreti verso ogni dettaglio della scrittura in quanto veicolo di significati che attendono di essere svelati. Già nel Lento iniziale si poteva intuire l’intenzione di continuare a ‘cantare’, in tutti i registri, ognuno con il proprio strumento al punto che, nell’Allegro moderato, pur in presenza dell’incedere del fitto ‘ricamo’ (semicrome) della mano destra del pianoforte, per la leggerezza del pianista si riusciva a godere l’espressività del violoncello. In tutta la composizione è stato quasi sempre lo strumento a tastiera a dare e suggerire l’ ‘imprinting filiale’ dei vari temi anticipandone il carattere così da osservare l’attenzione sempre significativa di Piovano alla ricerca di una coinvolgente intesa. Poi, dopo i tre colpi di tonica (sol) in fortissimo che portano alla chiusa, l’ascoltatore è stato traghettato nell’iniziale sonorità grave dell’Allegro scherzando. Grazie ad una concezione più concertante di Pappano, si poteva cogliere chiaramente il diverso modo di trattare la melodia rispetto all’accompagnamento. L’andamento terzinato di crome dettava una sensibile enfasi ritmica e il bel colore del pianissimo introduceva l’incedere cupo, espressivo e leggiero affidato al registro grave del pianoforte, subito reiterato dal violoncello. Di questo movimento ha colpito la grande energia degli interpreti nel saper restituire varietà di colori, a volte anche molto improvvisi finché, giunti a Un poco meno mosso, il ‘canto’ di Piovano, sostenuto e valorizzato da Pappano, ha fatto intendere di voler ambire ad una maggiore liricità. Tale intuizione si è manifestata maggiormente nel successivo Andante ove l’introduzione, affidata alle mani del pianista, è divenuta una pagina dal carattere spiccatamente lirico, quasi con lontani riecheggiamenti dei Lieder ohne Worte di Felix Mendelssohn. Nell’Allegro mosso, (sol maggiore), è ancora il pianoforte a suggerire e a delineare una lettura luminosa e brillante, a tratti ‘sinfonica’. Il refrain, all’interno della struttura rondò-sonata, è riuscito a contagiare il numeroso pubblico in un’autentica gioia, rispondendo alla fine con sincere e prolungate ovazioni. A chiudere il bel pomeriggio un fuori programma costituito da una perla tratta dal Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns: Il Cigno che, per certi aspetti, sembrava ribadire quanto questi straordinari musicisti riescano ad esprimersi senza mai disgiungere la musica dalla poesia. Foto Giulia Nuti
Direttore d’orchestra catanese, ma “francese” per formazione, avendo studiato a Parigi, Francesco Di Mauro, oltre ad essere Coordinatore della Direzione artistica dell’Orchestra Sinfonica Siciliana e oltre ad esserne stato Sovrintendente e Direttore Artistico e Direttore Musicale del Capri Opera Festival fino al 2023, si è esibito presso prestigiose istituzioni musicali in tutto il mondo. Il 19 ottobre scorso è stato insignito del Premio alla Sicilianità “Cav. Pippo Bertoni”, giunto alla 26esima edizione. In occasione di questa premiazione, che non l’ha visto direttamente protagonista, dal momento che il premio è stato ritirato dalla moglie Cinzia Torrisi, essendo Di Mauro assente per impegni di lavoro, ci ha rilasciato un’intervista.
Cosa significa per un siciliano ricevere un premio così importante?
Ricevere un premio che celebra la Sicilianità è per me un onore profondo. È un riconoscimento che va oltre la carriera: parla delle radici, dell’identità, dell’amore per la propria terra. Anche da lontano, porto sempre con me la Sicilia, nella musica, nello stile, nel cuore. La musica, per sua natura, è ponte tra mondi. E se la mia formazione ha avuto radici francesi, il mio cuore artistico è sempre rimasto ancorato alla Sicilia. Ogni volta che salgo sul podio, cerco di restituire qualcosa di quella eleganza e leggerezza che mi è stata riconosciuta, ma soprattutto cerco di essere fedele a un’idea di direzione che non impone, ma ascolta, che non domina, ma guida.
Puoi raccontarci quale è stato il tuo primo approccio alla musica?
Il mio primo approccio alla musica è stato duplice e profondamente formativo. Da bambino, il pianoforte in casa ha acceso in me una curiosità naturale verso i suoni, che presto si è trasformata in passione e poi in vocazione. Ma un momento altrettanto decisivo è stato l’incontro con la banda musicale del paesino dove vivevo: un ensemble che, con sorprendente maestria, eseguiva sinfonie e arie d’opera nelle piazze e nelle feste. Sentire quelle melodie risuonare tra le strade ha fatto nascere in me il desiderio di capire, di studiare, di dirigere. Da lì, la musica è diventata il filo conduttore della mia vita: non una scelta ma una necessità.
Il primo disco che hai comprato?
Il primo disco che ho comprato è stato Cavalleria Rusticana e Pagliacci nell’edizione della Scala del 1965, diretta da Karajan con interpreti come Bergonzi, Taddei, Panerai e Cossotto. È stata una scoperta folgorante, un’emozione travolgente, quasi fisica, che mi ha fatto capire quanto la musica potesse toccare le corde più profonde dell’anima.
E alla direzione d’orchestra?
La direzione d’orchestra è, per me, molto più di una professione: è una forma di pensiero, una disciplina dell’ascolto, una responsabilità che si esercita nel tempo e nello spazio. Dirigere significa abitare il silenzio prima del suono, prevedere il respiro collettivo, dare forma all’intenzione musicale senza mai sovrastarla. È un atto di equilibrio tra rigore e intuizione, tra struttura e libertà.
Nel gesto del direttore si condensano anni di studio, ma anche la capacità di cogliere l’istante, di leggere negli sguardi dei musicisti, di modulare l’energia di un gruppo umano che si fa organismo sonoro. La partitura è il punto di partenza, ma la vera direzione nasce nel dialogo con l’orchestra, con la memoria di chi ha interpretato quelle note prima di noi.
La direzione d’orchestra mi ha insegnato che la bellezza non si impone, ma si rivela, che ogni concerto è un rito laico, dove la musica diventa spazio condiviso, tempo sospeso, possibilità di elevazione. In questo senso, dirigere è anche un atto etico: è assumersi la responsabilità di ciò che si fa risuonare nel mondo.
La tua famiglia ha avuto e ha un ruolo importante nella tua carriera?
Assolutamente sì. Mia moglie Cinzia e mio figlio Pierfrancesco rappresentano il cuore pulsante della mia vita, il mio equilibrio profondo, la mia forza silenziosa. Mia moglie è presenza costante, anche quando la distanza imposta dal lavoro ci separa fisicamente: condivide ogni passo, ogni sacrificio, ogni traguardo, offrendo uno sguardo lucido che mi accompagna in ogni scelta. Mio figlio Pierfrancesco, con la sua spontaneità disarmante e la sua naturalezza luminosa, mi ricorda ogni giorno il senso autentico di ciò che faccio: la musica, prima di essere mestiere, è dono, è relazione, è futuro. La loro vicinanza non è solo amore: è fondamento umano, è radice e orizzonte. Senza di loro la mia carriera artistica sarebbe priva di quella dimensione profonda che dà significato al gesto, al suono, alla direzione.
C’è un’opera in particolare che ami dirigere?
Ce ne sono tante, ma se devo proprio scegliere direi Tosca. In essa convivono tensione drammatica, lirismo struggente e una scrittura orchestrale di straordinaria precisione. È un’opera che interroga il potere, la libertà, il sacrificio, e lo fa con una modernità emotiva che non ha bisogno di aggiornamenti. Dirigerla oggi significa confrontarsi con temi universali e attuali: l’abuso di potere, la dignità dell’individuo, la resistenza dell’arte contro la brutalità. Ogni gesto musicale diventa un atto di verità, ogni frase un grido umano. L’orchestra, in questo contesto, non accompagna: racconta, denuncia, consola. Tosca è il nostro tempo, amplificato dalla musica.
Un lavoro sinfonico?
Non c’è un singolo lavoro sinfonico che prediligo, ma piuttosto un autore: Gustav Mahler. La sua scrittura sinfonica è un universo complesso e stratificato, dove convivono intimità e grandiosità, filosofia e ironia, dolore e trascendenza. Dirigere Mahler significa confrontarsi con l’umano nella sua totalità: ogni sinfonia è un viaggio esistenziale, una meditazione sul tempo, sulla morte, sull’amore, sulla natura.
La sua musica parla al nostro presente con una forza disarmante: è inquieta, visionaria, capace di accogliere il frammento e l’infinito. Per un direttore, Mahler è una sfida continua, perché richiede non solo padronanza tecnica, ma anche profondità spirituale e capacità di ascolto interiore. È un autore che non si interpreta, si attraversa. E ogni volta, se ne esce trasformati.
Prossimi impegni?
I prossimi impegni mi vedranno occupato nel primo semestre del 2026 con La Traviata in una tournée internazionale che toccherà Slovenia, Romania, Polonia e Corea del Sud. Nella seconda parte del 2026, dirigerò tre titoli che amo profondamente: Tosca, Aida e La Cenerentola.
Roma, MAXXI
1+1. L’ARTE RELAZIONALE
galleria 3
a cura di Nicolas Bourriaud
curatore associato Eleonora Farina
Roma, 28 ottobre 2025
La relazione è la più antica delle opere umane. Prima della parola e del segno, prima ancora dell’immagine, è esistito il gesto che unisce: la mano che si tende verso l’altro. L’arte, sin dalle origini, è stata la forma più sofisticata di questa tensione — un dispositivo per creare legami, un linguaggio che si costruisce nella reciprocità dello sguardo. Ogni affresco, ogni scultura, ogni performance nasce da una necessità relazionale: quella di stabilire un ponte tra chi crea e chi contempla, tra il corpo dell’artista e la coscienza collettiva. Ma se nel passato tale legame era mediato dall’oggetto — la tela, la pietra, il bronzo — la contemporaneità, nella sua febbre comunicativa, ha dissolto i confini tra autore e spettatore, trasformando l’arte stessa in un processo di interazione. La relazione non è più il fine: è la materia stessa dell’opera. È su questo terreno concettuale che si innesta “1+1. L’arte relazionale”, grande retrospettiva che dal 29 ottobre 2025 al 1 marzo 2026 trasforma la Galleria 3 del MAXXI di Roma in un laboratorio di convivenze estetiche. Curata da Nicolas Bourriaud, ideatore dell’ “Estetica Relazionale” (1998), con la collaborazione di Eleonora Farina, la mostra celebra, a trent’anni dalla nascita del movimento, una delle più radicali rivoluzioni del pensiero artistico recente: il passaggio dall’oggetto alla relazione, dall’opera chiusa all’esperienza condivisa. Negli anni Novanta, in un mondo che vedeva dissolversi le certezze ideologiche e moltiplicarsi le connessioni, l’arte riscoprì la sua vocazione sociale. Bourriaud colse per primo il mutamento: la pratica artistica non era più rappresentazione di una realtà esterna, ma costruzione di “interstizi relazionali”, spazi temporanei di scambio e incontro. In un tempo che globalizzava i linguaggi, egli indicò una via opposta: la micro-politica della prossimità, l’estetica del quotidiano, la riscoperta del gesto condiviso come forma di resistenza all’indifferenza. “L’artista contemporaneo — scriveva — si comporta come un programmatore sociale: inventa dispositivi di interazione umana.” Il titolo “1+1” traduce questa visione in una formula essenziale. Due presenze si sommano non per produrre una quantità, ma per generare una relazione, un’entità nuova e transitoria che esiste solo finché dura l’incontro. È la matematica poetica della convivenza, la stessa che il MAXXI accoglie trasformando la sua architettura fluida in un teatro di esperienze. Le opere non si contemplano, si abitano; non si ammirano, si attraversano. Rirkrit Tiravanija invita il pubblico a condividere un pasto, facendo del cibo la sostanza della scultura sociale. Pierre Huyghe crea ecosistemi vivi, dove organismi, immagini e suoni convivono in equilibrio precario. Philippe Parreno orchestra ambienti sensibili, in cui luci e vibrazioni reagiscono alla presenza umana. Dominique Gonzalez-Foerster moltiplica i tempi e i luoghi dell’immaginazione, costruendo spazi per la memoria collettiva. Carsten Höller trasforma il gioco in strumento cognitivo, destabilizzando le percezioni. Vanessa Beecroft dispone i corpi femminili come un coro di presenze rituali, sospese tra disciplina e vulnerabilità. Maurizio Cattelan rivela il lato ironico e tragico della partecipazione, svelando il cortocircuito emotivo che ogni relazione porta con sé. Accanto a loro, la mostra accoglie artisti come Francis Alÿs, Lygia Clark, Félix González-Torres, Douglas Gordon, Monica Bonvicini, Kutluğ Ataman: una costellazione che estende l’estetica relazionale ben oltre il suo nucleo storico, fino a farne una condizione di pensiero. Le loro opere non chiedono di essere possedute, ma vissute; non cercano l’eternità della forma, ma la fragilità dell’esperienza. In questo senso, “1+1” non è una retrospettiva, ma una verifica del presente. Nell’epoca del contatto digitale, la relazione è diventata una merce e un algoritmo; ma l’arte, con la sua lentezza, ne restituisce la sostanza viva, la resistenza corporea. Bourriaud e Farina costruiscono un percorso che non si limita a ricordare il passato, ma interroga il futuro: che cosa significa oggi essere in relazione? La risposta si trova forse nel gesto stesso di chi entra in mostra e si lascia coinvolgere, attraversato da suoni, parole, presenze. Il MAXXI, con la sua architettura mobile di Zaha Hadid, diventa il luogo ideale di questa sperimentazione: corridoi che si aprono come vene, sale che respirano, superfici che riflettono la presenza umana come eco di una comunità in formazione. Tutto dialoga, tutto si muove, tutto si rinnova nel flusso delle interazioni. L’arte torna così alla sua funzione originaria: non produrre oggetti, ma suscitare incontri. Alla fine, nulla resta da portare via, se non la memoria di un istante condiviso — una conversazione, un sorriso, uno sguardo. È la più immateriale delle opere e insieme la più necessaria. “1+1” dimostra che l’arte, quando rinuncia alla pretesa di durata, riconquista la sua potenza etica: quella di ricordarci che l’essere umano esiste solo nella relazione con l’altro. In un tempo che sostituisce il volto con l’icona e la voce con il messaggio, questa mostra restituisce al gesto del convivere la sua dignità estetica, facendoci comprendere che ogni incontro, per quanto effimero, è un atto creativo.
Madrid, Teatro Real, Temporada 2025-2026
“BALLET NACIONAL DE ESPAÑA”
“LEYENDA (Crónica de un amor no consumado)”
Musica Isaac Albéniz, con rimaneggiamenti di José Luis Greco
Coreografia José Granero
Danzatori solisti Miriam Mendoza, Víctor Martín, Axel Galán
“ARRIEIRO”
Musica Gerardo Gombau e Joaquim Nin Culmell
Coreografia e solista Eduardo Martínez
“CUENTOS DEL GUADALQUIVIR”
Musica Joaquín Turina
Coreografia José Granero
Solisti Inmaculada Salomón, Matías López
“BOLERO”
Musica Maurice Ravel
Coreografia José Granero
Solisti Débora Martínez, Carlos Sánchez
“MEDEA”
Libretto di Miguel Narros, dall’omonima tragedia di Seneca
Musica Manolo Sanlúcar
Coreografía José Granero
Scene Andrea D’Odorico
Costumi Miguel Narros
Medea MARIBEL GALLARDO
Giasone FRANCISCO VELASCO
Creonte CURRILLO DE BORMUJOS
Creusa ESTELA ALONSO
Nutrice LUPE GÓMEZ
Spiriti DIEGO AGUILAR, JAVIER POLONIO
Orquesta Titular del Teatro Real
Direttore Manuel Coves
Corpo di ballo Ballet Nacional de España
Madrid, 23 ottobre 2025
Il Ballet Nacional de España figura certamente tra i partner favoriti del Teatro Real: nel corso degli ultimi anni l’onore di aprire la stagione di danza è sempre corrisposto a questa compagnia. Nonostante il doppio cambio di direttore artistico, la linea stilistica è rimasta la stessa, alla costante ricerca di un equilibrio tra innovazione e tradizione. Il riscatto di grandi opere e di artisti della cultura coreutica spagnola è iniziato alcuni anni fa ed è proseguito nel tempo; quest’anno l’omaggio è reso a un coreografo identificato come “El Maestro” della danza spagnola: José Granero (1936-2006). Il programma della serata comprendeva cinque pezzi, quattro dei quali con la coreografia di Granero, risalenti agli anni 1987-1994 e considerati (in particolare Medea) come la sua principale eredità artistica. Il quinto pezzo (Arrieiro), in prima esecuzione assoluta, si deve all’elaborazione di Eduardo Martínez, coreografo ed esecutore al tempo stesso: si tratta della più antica danza popolare spagnola, intonata da Gerardo Gombau e Joaquim Nin Culmell, molto simile al fandango. Gli strumenti musicali della tradizione locale, il minimalismo dello scenario e la virtuosistica bravura dell’interprete lo hanno reso il pezzo migliore della serata; senza dubbio il più unitario e il più valorizzato dall’uso delle luci (peraltro eccellente nel corso di tutto il programma). Risalente al 1987, Bolero è un titolo che la compagnia ha mantenuto nel suo repertorio, sebbene accusi i suoi quarant’anni di esistenza, oggi piuttosto sofferta nell’estetica magniloquente e nella scenografia superbamente orientaleggiante (e, ancor più, nelle fragorose percussioni di mani e piedi, che sovente cancellano o schiacciano la musica di Ravel). A parte Leyenda e Cuentos del Guadalquivir, il titolo più atteso è stato Medea, che ha occupato l’intera seconda parte. Il balletto fu presentato per la prima volta al Teatro de la Zarzuela di Madrid nel luglio del 1984 ed è una versione coreutica, ma al tempo stesso molto teatrale e scenografica, della tragedia di Seneca. Senza dubbio animata da intenzioni nazional-popolari, come per rivendicare il carattere autenticamente “spagnolo” di Medea – attraverso il “cordovese” Seneca (anziché Euripide), le nacchere, lo stile neo-flamenco -, l’opera suscita l’interesse dell’etnografo e dell’antropologo, più che del musicista. Granero poté elaborare la complessa coreografia sulla base di un’ambizione che gli era tipica: raccontare in modo chiaro una storia, differenziando con il linguaggio della danza tanto i momenti narrativi come quelli affettivi o drammatici. E forse proprio per la coerenza della linea coreografica il balletto riesce convincente e libera l’entusiasmo del pubblico. Ottima la prova di Maribel Gallardo, impegnata nell’enfatica parte protagonistica e capace di rielaborare, con accuratezza storica, uno stile coreografico che ha caratterizzato l’ultimo quarto del secolo scorso nell’area iberica. Se però si dovesse contare esclusivamente sulla musica di Manolo Sanlúcar (1943-2022), il bilancio sarebbe alquanto povero; centrata su figurazioni chitarristiche ripetute ed estenuate, la sintassi musicale è molto semplice e a volte stride, sia con le scene della tragedia sia con la coreografia di Granero. Soltanto nella seconda parte, grazie a una scena d’insieme costruita su di un ritmo ostinato e incalzante, oppure grazie alla marcia funebre che precede il finale (in cui è mutuato un tema bandistico, da funerale campestre) alla fruizione dello spettatore si impone anche qualche elemento sonoro opportunamente composto. La presenza dal vivo dell’Orquesta Titular del Teatro Real diretta da Manuel Coves si apprezza per la duttilità con cui affronta i vari brani, ognuno dei quali presuppone uno stile diverso; peccato, parlando appunto di stile e di nuances, che le sonorità siano tutte un po’ appiattite dall’amplificazione eccessiva. Ça va sans dire, successo clamoroso per tutti. Foto Javier del Real
La rassegna di Danza del Teatro Comunale di Modena abbraccia l’intera stagione 2025/26 con undici spettacoli che vanno da ottobre a maggio in un cartellone di grandi compagnie di provenienza internazionale, novità assolute e stelle della danza, come sempre proponendo una scelta artistica varia e diversificata che spazia dal classico al contemporaneo. Fra i prestigiosi ospiti, il Nederlands Dans Theater (NDT2), la Martha Graham Dance Company e l’étoile Nicoletta Manni con Timofej Andrijashenko e i ballerini del Teatro alla Scala. Largo spazio anche a realtà italiane, con una prima assoluta della Compagnia Zappalà Danza in coproduzione con il Teatro Comunale di Modena, la MM Contemporary Dance Company impegnata nella prima italiana di un nuovo Schiaccianoci firmato da Mauro Bigonzetti, sempre in coproduzione con il Teatro di Modena, Sogno di una notte di mezza estate commissionato a Davide Bombana da COB – Compagnia Opus Ballet e una serata con tre novità del Centro Coreografico Nazionale / Aterballetto. La rassegna presenta come sempre anche grandi titoli di repertorio affidati a compagnie di tradizione classico contemporanea. Si va da La bella addormentata presentata dal Balletto dell’Opera di Tbilisi in versione classica, alla Cenerentola del Balletto di Rijeka in una nuova coreografia di Leo Mujić. Il Balletto di Maribor del Teatro Nazionale Sloveno sarà presente con due coreografie del suo direttore artistico Edward Clug su capolavori musicali del repertorio classico: lo Stabat Mater di Pergolesi e i Carmina Burana di Carl Orff. Alla creatività giovanile è dedicata infine l’iniziativa Leggere per…ballare, ormai una consuetudine della rassegna che quest’anno, a grande richiesta, propone nuovamente L’altro viaggio dedicato alla danza nella Divina Commedia.
La rassegna inizierà il 31 ottobre con la prima assoluta di Brother to Brother: dall’Etna al Fuji, creazione di Roberto Zappalà per la sua compagnia. In continuità con Lava Bubbles (2015), i ‘fratelli’ del titolo sono due vulcani simbolici e centrali nella storia e nell’immaginario collettivo. Insieme alla forza ineluttabile della natura, Brother to Brother si concentra sul rapporto fra i danzatori della compagnia e i Munedaiko, complesso di tre esecutori di tamburo tradizionale giapponese. Per informazioni ulteriori su Rassegna Modena Danza 2025/26, vi rimandiamo al sito del Teatro Comunale di Modena. Foto “Brother to Brother: dall’Etna al Fuji” – Compagnia Zappalà Danza © Serena Nicoletti
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Markus Stenz
Franz Joseph Haydn: Sinfonia in sol maggiore n. 100 Hob.i:100 “Miltärsymphonie”; Johannes Brahms: Sinfonia n. 1 do minore op. 68
Venezia, 24 ottobre 2025
Johannes Brahms – rappresentato dalla sua prima sinfonia: splendido omaggio a Beethoven –, si confrontava – nel penultimo concerto della Stagione 24-25 – con un indiscusso maestro del classicismo viennese, Franz Joseph Haydn, di cui era proposta la Sinfonia n. 100 Miltärsymphonie, una delle dodici “londinesi”–, che alla prima assoluta di Londra (1794), riscosse un trionfale successo. Il programma appariva particolarmente congeniale al maestro Stenz: un direttore versatile – formatosi alla Hochschule für Musik Köln con Volker Wangenhein e a Tanglewood con Leonard Bernstein e Seiji Ozawa – specialista del repertorio operistico e sinfonico di area austro-tedesca, spaziando dal Settecento al Novecento, senza trascurare l’ambito contemporaneo. Il suo ampio gesto direttoriale – riuscendo a conciliare aspetti diversi se non apparentemente contraddittori, com’è prerogativa dei grandi interpreti – coniuga ‘classica’ eleganza e profondo coinvolgimento emotivo, chiarezza nella concezione interpretativa e icastica adesione ad ogni aspetto del testo musicale, rigore nell’approccio alla partitura e al tempo stesso spiccata personalità, in ossequio ai suoi maestri e alla più grande tradizione dell’arte della bacchetta.
Ricca di sfumature e di contrasti è risultata l’interpretazione della Miltärsymphonie facendo convivere baldanza militaresca e grazia settecentesca, leggerezza di tocco ed edonismo sonoro, tempi diffusamente spediti e senso dell’humour. Dopo l’introduzione (Adagio), immersa in un’atmosfera serena, l’Allegro ha visto flauto e oboi proporre con garbo il primo tema dal ritmo di marcetta, ripreso poi dagli archi, prima della poderosa risposta di tutta l’orchestra. Cantabile e insieme marziale è subentrato, più oltre, il secondo tema – preannuncio, secondo alcuni, della Radetzky Marsch di Johann Strauss padre –, presente anche nello Sviluppo piuttosto drammatico e nella Coda. Particolarmente intrigante l’Allegretto, dove la melodia iniziale, dopo il tono suadente con cui si è presentata, ha riservato una spassosa sorpresa – di quelle tipiche in Haydn – quando è stata intonata da tutta l’orchestra con il fragoroso intervento di timpani, triangolo, piatti e grancassa – ad evocare, non senza ironia, l’incedere chiassoso delle parate militari alla turca –; strumenti di nuovo chiamati in causa nella boriosa conclusione del movimento, annunciata da militareschi squilli di tromba. Analogamente nel Menuetto, al carattere alquanto baldanzoso del tema principale si è contrapposto l’andamento dolcemente cullante di quello del Trio. Irresistibile è risultato il Finale. Presto, in cui ricorre un concitato e festoso tema di Rondò, insieme a qualche breve cadenza, fino alla chiassosa conclusione, in cui tutti gli strumenti accessori, intervenuti nelle ultime battute dell’Allegretto, si sono fatti di nuovo sentire, in un tripudio di orgoglio militaresco.
Quanto al secondo titolo in programma, la Prima Sinfonia di Brahms – la risposta del genio amburghese alla vexata quaestio, che attraversò l’Ottocento musicale, ovvero come confrontarsi con l’eredità beethoveniana – ebbe una lunghissima gestazione, che impegnò l’autore per circa vent’anni – dal 1855 al 1876 – tra correzioni, pause e ripensamenti, nella consapevolezza che il necessario rinnovamento del genere sinfonico rappresentava una sfida estremamente ardua. “Non comporrò mai una sinfonia. Non puoi avere alcuna idea di cosa si provi sentendosi marciare alle spalle un simile gigante”: questo scriveva uno sconfortato Brahms ancora nel 1870 – centenario della nascita di Beethoven – all’amico Hermann Levi. E nella Prima Sinfonia il “gigante” è ancora ben presente: riconoscibili i rimandi alla Quinta – tonalità di Do minore, cellula ritmica nel primo movimento che somiglia molto ai quattro colpi del Motto del Destino –; ancor più esplicita la citazione – nello splendido Corale del quarto movimento – dell’Ode alla Gioia, dalla Nona (citazione talmente evidente che Beethoven rispose un po’ piccato, a chi gliela fece notare alla prima assoluta (1876): “Anche un asino se ne sarebbe accorto”. È innegabile, dunque, che questa partitura rappresenti un omaggio a Beethoven come attestano anche la monumentalità e la drammaticità, che la contraddistinguono, insieme alle due introduzioni ai movimenti estremi. Non a caso era considerata da Hanslick e Hans von Bülow l’ultima sinfonia di Beethoven. E un’energia ‘beethoveniana’ ha diffusamente caratterizzato la lettura offerta da Markus Stenz. Solenne l’introduzione al primo movimento, Un poco sostenuto – scandita dall’implacabile pulsazione del timpano –, che presenta due elementi – uno cromatico e l’altro costruito su intervalli più ampi –, che vengono variamente elaborati con sublime maestria nell’Allegro, a costituire il primo tema; tra le elaborazioni spiccavano i quattro colpi della Quinta di Beethoven, proposti in veste melodica e – nello sviluppo – ritmica, con l’intervento, tra l’altro, di corni, trombe e timpani. Particolarmente vigoroso il primo tema, melodico il secondo, ritmico il terzo. Nel secondo movimento, Andante sostenuto, si è dispiegata, inizialmente, una lunga melodia cantabile, costruita attraverso piccoli enunciati giustapposti. Più avanti l’oboe ha ‘cantato’ con leggiadria una seconda melodia di carattere lirico, in seguito ripresa – espandendola verso l’acuto – dagli archi. Nel terzo movimento, Un poco allegretto e grazioso – che ha la forma di uno Scherzo – il clarinetto ha evocato una dolce atmosfera pastorale, interrotta da un fantasmagorico Trio. Nel finale, Adagio-Allegro non troppo ma con brio, – che ricorda ricorda i finali della Quinta e della Nona – l’Adagio, inframezzato da pizzicati degli archi, si ricollegava alla cupa atmosfera dell’inizio, culminando in una grandiosa settima diminuita e a un rullo di timpani, prima della transizione alla tonica di Do e al solenne, idilliaco tema dei corni, a suo tempo annotato dall’autore su una lettera, spedita dalle Alpi svizzere a Clara Schumann. Seguiva un Corale magnificamente intonato dai tromboni e dai legni gravi: preparazione all’Allegro non troppo ma con brio, che si è aperto col magnifico Corale ‘beethoveniano’ – di sui sopra –, intonato dai violini sulla quarta corda, e si è snodato come un inno di maestosa imponenza, salendo sino all’apoteosi conclusiva, dove è ritornato, sfolgorante, anche il Corale dell’introduzione. Applausi convinti a fine serata: affettuoso saluto al maestro tedesco, oltre che all’encomiabile Orchestra.
Lucca, Auditorium di San Francesco
“LA COSTANZA TRIONFANTE DEGLI AMORI E DEGLI ODII”
Dramma per musica di Antonio Marchi
Musica di Antonio Vivaldi
Doriclea/Getilde VALERIA LA GROTTA
Eumena/Farnace CECILIA MOLINARI
Olderico VALENTINO BUZZA
“Modo Antiquo”
Direttore Federico Maria Sardelli
Lucca, 19 ottobre 2025
Molti sono gli scoop su improvvisi ritrovamenti di melodrammi ritenuti perduti. Alcuni, come il Germanico improvvidamente attribuito a Händel, possono rivelarsi attribuzioni clamorosamente false; in altri rischia di prevale la mano dello scopritore che ricostruisce in stile le tante parti mancanti. Nel caso della Costanza trionfante degli amori e degli odii (“dramma per musica” di Vivaldi su testo di Antonio Marchi allestito al Teatro di San Moisè a Venezia nel carnevale del 1716) ci si trova davanti a una riscoperta importante (patrocinata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca), frutto non dell’apparizione d’un manoscritto sbucato fuori da qualche collezione privata bensì d’un paziente lavoro filologico che nell’indagare sillogi vocali di varia provenienza ha permesso di recuperare, nel corso di anni di ricerche, 18 arie su 35, e dunque restituire all’ascolto poco più della metà dell’opera. A garantire l’autorevolezza dell’operazione è Federico Maria Sardelli, curatore dal 2007 del catalogo vivaldiano Ryom per conto dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e massimo esperto della musica del ‘prete rosso’ (la lettura del suo libro Vivaldi secondo Vivaldi è fortemente consigliata, anche ai non addetti ai lavori). La trama della Costanza trionfante, ancora legata alla disordinata drammaturgia seicentesca di conio spagnolo, è intessuta di colpi di scena, continue schermaglie e strategici cambi di identità (ben quattro sono i travestimenti dei personaggi). Per renderne più agevole la comprensione Sardelli tra un’aria e l’altra ha letto dal podio una sintesi molto chiara (e a tratti divertente per l’ironia dei commenti su certe astrusità del plot) di ciò che accade lungo i tre atti del dramma. Questa scelta ha tenuto altissima l’attenzione del pubblico che ha riempito la grande chiesa-auditorium di San Francesco apprezzando la qualità timbrica e la sincerità espressiva dell’ensemble Modo Antiquo, qui ridotto a soli archi e clavicembalo poiché le fonti riscoperte riportano in quasi tutti i casi solo la linea dei bassi e/o dei violini primi (talvolta delle violette). Un encomio particolare va ai tre cantanti che suddividendosi, a seconda della loro corda, le parti dei personaggi dell’opera sono stati talvolta chiamati a eseguire anche tre brani di fila. Il soprano Valeria La Grotta ha interpretato le cinque arie superstiti di Doriclea, più altre due arie sostitutive (“È ver la navicella” e “Luccioletta vezzosetta”) riferibili alla Costanza trionfante, oltre al duetto di Getilde-Farnace. Raffinatissima la resa delle variazioni nelle sezioni del da capo, squisito il timbro, tanto nella zona acuta quanto in quella mediana, e ben proiettati i gravi; a suo perfetto agio nelle colorature, sempre ben sgranate, ha evidenziato ogni piega espressiva del testo con dizione impeccabile. Il mezzosoprano Cecilia Molinari ha cantato cinque arie di Eumena e una di Farnace (oltre al già citato duetto), padroneggiando i passi di agilità, senza mai perdere la vellutata morbidezza che contrassegna la sua particolare grana vocale, e cangiando con sveltezza i diversi ‘affetti’ delle arie. Al tenore Valentino Buzza, tra i pochi tenori davvero esperti nella scrittura d’agilità barocca e dotato di un volume che sa sempre adeguarsi ai corretti margini stilistici settecenteschi, è spettata l’aria di furore di Olderico “Non sempre folgora” e l’aria “La vendetta è un dolce inganno” proveniente dall’Arsilda regina di Ponto (Teatro S.Angelo di Venezia, autunno 1716). Sardelli ha curato la registrazione discografica della Costanza trionfante, in uscita all’inizio del 2026, che permetterà d’immortalare un’altra gemma della produzione operistica vivaldiana.
Roma, Palazzo delle Esposizioni
RESTITUZIONI 2025
curatela scientifica di Giorgio Bonsanti, Carla Di Francesco e Carlo Bertelli
Promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo
organizzata da Intesa Sanpaolo
in collaborazione con il Ministero della Cultura
In Italia si parla spesso di tutela del patrimonio, ma più raramente la si vede esercitata con coerenza. Restituzioni 2025 – Tesori d’arte restaurati, allestita al Palazzo delle Esposizioni sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è una delle poche occasioni in cui la parola “restauro” torna a coincidere con la sua funzione originaria: rimettere in ordine, ridare senso, restituire alla collettività ciò che le appartiene. Non un evento celebrativo, dunque, ma un bilancio lucido di ciò che accade quando la manutenzione diventa cultura e non solo mestiere. Promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, e organizzata da Intesa Sanpaolo in collaborazione con il Ministero della Cultura, la mostra conclude la ventesima edizione del programma “Restituzioni”, progetto pluriennale di salvaguardia del patrimonio nazionale attivo da oltre trentasei anni. L’iniziativa ha finanziato centinaia di restauri in tutta Italia, con la consueta formula: interventi selezionati su base scientifica, curati dalle Soprintendenze e Direzioni Regionali, e restituiti al pubblico attraverso un’esposizione di sintesi. La curatela scientifica di Giorgio Bonsanti, Carla Di Francesco e Carlo Bertelli — nomi che non necessitano di presentazione — garantisce un equilibrio raro tra competenza tecnica e senso storico. I tre non cercano effetti, ma leggibilità: la chiarezza del metodo come valore estetico. Il visitatore, entrando nelle sale, non incontra un museo delle meraviglie ma un inventario della coscienza italiana. Restituzioni 2025 presenta 117 opere provenienti da tutte le regioni, frutto della collaborazione di 51 enti di tutela e 67 istituzioni proprietarie, pubbliche e religiose. Non c’è retorica territoriale: il dato numerico serve solo a misurare la vastità della dispersione e la fatica necessaria per ricomporla. In un Paese abituato a confondere il restauro con la spettacolarizzazione, questa mostra restituisce il lavoro al suo rango originario di “diagnosi culturale”. Il percorso non è ordinato cronologicamente, ma tematicamente: l’antico e il moderno convivono secondo la logica dell’affinità, non della successione. La storia dell’arte, del resto, non è una linea ma un sistema di rimandi. Così, accanto a un polittico di Bartolomeo Vivarini compaiono un affresco altomedievale, un dipinto di Sironi, un’opera di Pino Pascali. Le differenze cronologiche si annullano: resta la materia, restaurata, come unico denominatore. La mostra è un repertorio del possibile: testimonia fino a che punto l’occhio umano e la competenza tecnica possano ancora salvare ciò che la negligenza, l’incuria e l’umidità continuano a distruggere. Il Cavallo colossale di Antonio Canova, in gesso, ricomposto dopo decenni di frammentazione nei depositi dei Musei Civici di Bassano del Grappa, è il simbolo di questa edizione. La ricostruzione non riguarda solo la scultura, ma la nostra capacità di riconoscere il valore del “non finito”. In Canova il restauro si fa parabola: la perfezione neoclassica come illusione e, insieme, come fede nella forma. Fra gli interventi più interessanti vi sono quelli condotti su oggetti apparentemente marginali, ma di straordinario valore tecnico: la spinetta Antegnati del Cinquecento, la draisina ottocentesca di Gallarate — un’antenata della bicicletta —, la barca cucita del Museo Archeologico Nazionale di Adria, databile fra il II e il I secolo a.C. Qui la storia dell’arte si intreccia alla storia della tecnologia: il restauro non salva solo le immagini, ma i sistemi materiali che le hanno generate. L’Italia, si sa, è un laboratorio continuo di compromessi fra estetica e manutenzione. Restituzioni 2025 dimostra che la conservazione non può limitarsi al decoro delle superfici, ma implica un atto di responsabilità storica. Il programma Restituzioni, sostenuto integralmente da Intesa Sanpaolo, agisce come un censimento di lungo periodo: un atlante della fragilità, dove ogni intervento diventa documento del suo tempo. A ben guardare, questo progetto è l’espressione di un’idea quasi archeologica del presente. Ogni restauro è una stratigrafia morale: sotto lo sporco, il tempo, e sotto il tempo, la memoria collettiva. Un esempio notevole di questa prospettiva è il restauro degli affreschi di Santa Maria foris portas a Castelseprio (Varese). Gli interventi condotti nel 2025 hanno consentito la mappatura integrale dello stato di conservazione del ciclo, che raffigura episodi dell’infanzia di Cristo tratti anche dai Vangeli apocrifi. Qui la pulitura non ha restituito semplicemente un colore, ma una struttura teologica della visione: la pittura altomedievale lombarda come laboratorio di un’iconografia ancora in divenire. A questa linea di rigore appartengono anche le due grandi tele bresciane restaurate ma non esposte per motivi di dimensione: il Martirio di San Vitale di Sebastiano Ricci e la Vergine che intercede per le anime purganti di Andrea Celesti. La loro assenza dalle sale vale più di una presenza: è la testimonianza che la tutela non coincide con l’esposizione, ma con la conoscenza. Interessante anche l’apertura, per la prima volta, agli strumenti scientifici come oggetti di patrimonio: la macchina planetaria del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano viene presentata come opera d’arte e strumento didattico, rivelando la continuità fra invenzione e contemplazione, fra la curiosità dell’ingegnere e la pazienza dell’artista. Non manca un respiro internazionale. Il restauro del Retablo con l’Adorazione dei Magi della chiesa milanese dei Santi Apostoli e Nazaro Maggiore, condotto in collaborazione con l’Institut Royal du Patrimoine Artistique di Bruxelles, dimostra che il patrimonio italiano non è proprietà esclusiva ma eredità condivisa. È un caso raro di cooperazione effettiva, non di burocrazia reciproca. Il merito maggiore di Restituzioni 2025 è quello di sottrarre il restauro all’equivoco romantico della “resurrezione” e di riportarlo sul terreno concreto della verifica filologica. Ogni intervento diventa una forma di lettura critica: né maquillage, né idolatria della patina, ma controllo dell’errore, misura dell’intelligenza. Alla fine del percorso non resta l’impressione di un trionfo, ma di una constatazione: il restauro non salva l’Italia, la documenta. Mostra ciò che è stato, ciò che si è perso, e ciò che si può ancora conservare. È un lavoro senza eroismo, ma di altissima moralità, perché implica il riconoscimento dei propri limiti.
Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2025/26
“NABUCCO”
Dramma lirico in quattro parti su libretto di Temistocle Solera dal dramma di Auguste Anicet-Bourgeois e Francis Cornue
Musica di Giuseppe Verdi
Nabucco FABIAN VELOZ
Ismaele MATTEO DESOLE
Zaccaria RICCARDO ZANELLATO
Abigaille MARTA TORBIDONI
Il Gran Sacerdote di Belo LORENZO MAZZUCCHELLI
Fenena Chiara mogini
Anna Laura fortino
Abdallo Saverio Pugliese
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro Lirico di Modena
Direttore Massimo Zanetti
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Federico Grazzini
Scene e costumi Anna Bonomelli
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Comunale di Modena e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia in coproduzione con OperaLombardia, Azienda Teatro del Giglio di Lucca
Modena, 24 ottobre 2025
Nabucco inaugurale per il Comunale di Modena, con protagonista indiscussa e meritatissima trionfatrice della serata Marta Torbidoni. Limpido e dolce il suo mezzo vocale, ma voluminoso, svettante e vigoroso. Si sa: le cantanti che sappiano affrontare l’impervia parte d’Abigaille senza soccombervi si contano sulle dita d’una mano sola, e ne avanzano. La Torbidoni non soltanto supera brillantemente le asperità della scrittura, ma aggradisce il ruolo con carattere e spavalderia. Curando di non schiacciare il personaggio sulla virago (di scuola vocale) slava, ed assicurandogli, quando lo richiede, accenti teneramente femminili. Negli eponimi panni Fabian Veloz, baritono dal timbro piuttosto nerboruto, e tuttavia gradevolmente pastoso nel registro centrale; vocalmente assai solido, resta un poco ruvido nell’espressione, benché, all’occorrenza, si proponga lodevolmente di smorzare. Non rovescia sul palco il carisma del grande interprete, ma sostiene la parte più che dignitosamente e raccoglie generali consensi. A scaldare gli animi della timida sala è invece lo Zaccaria di Riccardo Zanellato. Seppur non immacolato negli ardori della Profezia e non straripante di volume, al canto di Zanellato va riconosciuta una straordinaria eleganza di fraseggio: la si apprezza nell’appagante «Preghiera» della Seconda Parte (“Vieni, o Levita – Tu sul labbro de’ veggenti”), meravigliosamente introdotta da una delle più alte pagine dell’arte verdiana, che smonta (qualora ve ne fosse ancora bisogno) il cliché del Verdi contadino. Chiara Mogini canta assai bene la non trascurabile parte di Fenena con voce fresca e luminosa, e trova il suo Ismaele nella voce di Matteo Desole, ben timbrata ai centri e un poco titubante in salita (“Il mio petto a te la strada…”).
Completano il cast un gran sacerdote di Belo di voce morbida ma priva della desiderabile tornitura, Lorenzo Mazzucchelli; un’Anna tenera e squillante, Laura Fortino; un Abdallo penetrante, Saverio Pugliese.
Nel titolo «del coro» per eccellenza, il Coro Lirico di Modena di Giovanni Farina brilla senza sfolgorare: forse è solo per l’abitudine ad un organico più nutrito, e allora siamo noi ascoltatori a “sbagliare”, perché certo le prime esecuzioni dovevano averne uno ancor più stringato, e dunque un suono ancor più asciutto. In buca l’Orchestra Filarmonica Italiana, che (al netto di qualche attacco della banda di palcoscenico nella marcia funebre di Fenena, fisiologico e, tutto sommato, quasi necessario) garantisce un altissimo grado di nitidezza sotto la direzione sensibile e vibrante di Massimo Zanetti. Che mette in risalto la scrittura scarna, essenziale di Verdi con astuto dominio degli equilibri fra sezioni e delle dinamiche. Un plauso particolare al clarinetto che doppia le ultime frasi di Abigaille. E così non resta che da dire dello spettacolo. Federico Grazzini, coscienziosamente buato dal compunto pubblico della prima, ha realizzato uno spettacolo che in effetti porge il fianco ad alcune osservazioni. Intanto la contrapposizione buoni-cattivi in Nabucco, che il regista definisce una «favola moderna», lascia perplessi: se è chiaro chi siano i cattivi, che gli Ebrei siano i buoni, capeggiati come sono da un esaltato sacerdote tagliagole quale Zaccaria, è tutto da vedersi. Poi ci sono alcune ingenuità convenzionali (le finte botte da orbi; le spadine giocattolo; Zaccaria che stringe la manina a mezzo coro mentre canta la sua aria; Abigaille che si dispera faccia al muro e pugno levato; Ismaele lapidato con sassolini di gomma rimbalzanti) o piccoli ma fastidiosi bisticci col testo (per esempio: Nabucco che a parole domanda il brando ad Abdallo, ma poi a gesti non lo accetta perché, rinsavito, rifiuta la violenza) che francamente disturbano la narrazione e rappresentano quanto di quel che appartiene alla tradizione siamo pronti ad abbandonare senza rimpianto. Mostrare quotidiane tenerezze domestiche a commento del “Va’ pensiero” (una bimba che gioca con un aereoplanino assieme al papà e alla mamma in stato interessante) sembra poco coerente con l’auspicio che l’aulica tradizione poetica ispiri «un concento» capace di infondere agli Ebrei la forza di sopportare il dolore — questo il testo dice. La regia, in fondo, non spinge su una facile attualizzazione, ma la lascia trasparire da un abile non detto. La mancanza di una spiccata personalità nella cifra visiva non rappresenta un ostacolo al successo (anzi, spesso è vero il contrario), ma diventa sospetta a chi sia stato a teatro almeno altre due volte nell’ultimo anno: muri bianchi sporcati di macerie; linee di luce led che compongono disegni e simboli, e profili di gabbie in particolare (come compaiono nelle scene di Anna Bonomelli, che firma anche i costumi), hanno tutto l’aspetto del déjà vu. Si riconosce volentieri, invece, un merito particolare al puntuale ed efficace, curatissimo disegno luci di Giuseppe Di Iorio. Successo generale, reiterate contestazioni soltanto alla regia e al suo team.
Johann Ludwig Krebs (1713–1780): Suite No. 1 in D major, Krebs-WV 807; Suite No. 2 in B minor, Krebs-WV 808; Suite No. 3 in E-flat major, Krebs-WV 809; Suite No. 4 in C major, Krebs-WV 810. Steven Devine (clavicembalo). Registrazione: 8-9 ottobre 2024 presso Alpheton New Maltings, Suffolk. T. Time: 82′ 20″ 1 CD Resonus Classics RES10357
Allievo di Bach, del quale ci ha lasciato delle copie manoscritte di sua mano di alcuni dei suoi più importanti lavori, Johann Ludwig Krebs, dopo aver lavorato a Zwickau e a Zeitz, nel 1755 divenne organista alla corte di Federico III ad Altenburg, posto che mantenne fino alla morte, avvenuta nel 1780. Organista di successo in vita, Krebs ha lasciato una produzione piuttosto ampia e di un certo interesse per strumenti a tastiera, della quale fanno parte le sei Suites (KrebsWV 807–812) che costituiscono il programma di questo CD, corrispondente al quinto album dell’integrale delle opere di Krebs. Al 1746 risale la pubblicazione di queste suites, delle quali c’era una cera richiesta sul mercato, come si evince dalla prefazione alla quarta parte del suo Clavier-Übung, dove si legge: “Molti amanti della tastiera in vari luoghi mi hanno chiesto di pubblicare alcune suite….io ho allora deciso di scrivere una mezza dozzina di suite nello stile galante per la tastiera e le ho fatte incidere nel modo più chiaro”.
In questa proposta discografica dell’etichetta Resonus Classics è possibile ascoltare cinque delle sei suites (manca, infatti, la quinta), nelle quali appare evidente l’influenza delle Partite di Bach, dalle quali differiscono, però, perché iniziano direttamente con l’allemanda senza alcun preludio. Ad eseguirle con un approccio esecutivo stilisticamente informato è Steven Devine che si avvale di un clavicembalo a due tastiere realizzato nel 2000 da Colin Booth su un modello settecentesco, a un solo manuale, però, di Johann Christof Fleischer. Attraverso un’articolazione e un fraseggio ben curati, l’artista riesce ad essere particolarmente espressivo nelle danze più lente come le sarabande e brillante in quelle veloci. Si tratta di un CD di piacevole ascolto che apre uno spiraglio sul mondo che ruotava attorno alla figura di Johann Sebastian Bach.
La terza e ultima composizione per questa diciannovesima Domenica dopo la Trinità è Ich will den Kreuzstab gerne tragen BWV 56 eseguita la prima volta a Lipsia il 27 ottobre 1726. Ancora una volta l’episodio della guarigione del paralitico (presente nella prima Cantata dedicata a questa domenica, la BWV 48) costituisce il punto di partenza per una meditazione sulla sofferenza, si noterà che la composizione può essere intesa come una scena interpretata da un personaggio che parla sempre in prima persona, da qui l’impianto solistico della partitura, che con la BWV 82 , è una delle 2 Cantate per voce di Basso. L’opera ai presenta come una invocazione alla morte benevola tra le cui braccia il fedele ritrova Cristo e la salvezza. Un autentico “lamento” è l’aria d’apertura (Nr.1), dall’andamento cullante, accentuato nell’ultima sezione che, con ardite innovazioni verrà ripreso a chiusura del recitativo Nr.4, un recitativo chi sviluppa in arioso. Il nr.2 invece è un recitativo che nella figura di accompagnamento imita il movimento delle acque, il viaggio per mare di cui parla il testo, interrotto poi al momento dell’approdo alla città celeste. Un’aria con “da capo” (Nr.3), dal ritmo di danza è pretesto per una pagina con oboe concertante. Uno di quei meravigliosi accompagnamenti di oboe che così spesso decorano le cantate. Un altro recitativo conduce al corale finale (Komm, oh tod, du schlafes bruder), splendidamente armonizzato da Bach.
Nr.1 – Aria (Basso)
Porterò volentieri la croce,
viene dalla dolce mano di Dio,
mi conduce attraverso le difficoltà
a Dio, nella terra promessa.
Allora abbandonerò le mie pene nella tomba,
il Salvatore stesso asciugherà le mie lacrime.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Il mio pellegrinaggio in questo mondo
è come una traversata di mare:
dolore, croce e angoscia
sono onde che mi sommergono
ed sino alla morte
ogni giorno mi spaventano;
ma la mia àncora, alla quale mi afferro,
è la misericordia
con cui Dio mi rende sereno.
Egli mi dice:
“Io sono con te,
non ti lascerò e non ti abbandonerò!”
E quando il furore dell’oceano
si sarà calmato,
lascerò il battello verso la mia città,
che è il Regno dei Cieli,
dove insieme con i giusti
entrerò abbandonando ogni tribolazione.
Nr3 – Aria (Basso)
Infine, infine il mio giogo
sarà di nuovo sollevato via da me.
Allora lotterò con la forza del Signore,
avrò il potere di un’aquila,
che sorvola tutta la terra
e la percorre senza stancarsi.
Oh, se accadesse oggi!
Nr.4 – Recitativo e Arioso (Basso)
Sono qui disponibile e pronto
a riceve l’eredità della mia santità
con desiderio e ardore
dalle mani di Gesù.
Che bello il giorno in cui
potrò avvistare il porto del riposo.
Allora abbandonerò le mie pene nella tomba,
il Salvatore stesso asciugherà le mie lacrime.
Nr.5 – Corale
Vieni, o morte, sorella del sonno,
vieni e portami lontano;
ho perso il timone della mia barca,
conducimi tu al porto sicuro!
Permetti, a chi lo vuole, di evitarti,
ma tu puoi rendermi ancora più felice;
attraverso di te giungerò
al mio caro bambino Gesù.
Traduzione Emanuele Antonacci
Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2025/26
“DONALD. STORIA MOLTO PIÙ CHE LEGGENDARIA DI UN GOLDEN MAN”
Di e con Stefano Massini
Scene Paolo Di Benedetto
Disegno luci Manuel Frenda
Costumi Elena Bianchini
Musiche Enrico Fink eseguite da Valerio Mazzoni, Sergio Aloisio Rizzo, Jacopo Rugiadi, Gabriele Stoppa
Produzione Fondazione Teatro della Toscana
Napoli, 22 ottobre 2025
Al Teatro Bellini, arriva Donald J. Trump con DONALD. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man: una pièce teatrale dal tono favolistico, portata – sul palcoscenico del teatro napoletano – dal suo autore, Stefano Massini: scrittore-drammaturgo-narratore, che riesce a rivestire di interessante teatralità ciò che potrebbe apparire soltanto come un’esposizione di dati biografici, quelli riguardanti, cioè – in modo particolare –, l’infanzia e gli anni giovanili del futuro Presidente degli Stati Uniti d’America. Lo spettatore, sorridendo, si ritrova, pertanto, a ravvisare nelle vicende di quel «Golden Baby», prima, e «Golden Boy», dopo, l’esordio di un «Golden Man» in erba. Il carattere «documentaristico» del lavoro teatrale è evidente, ma al di là della natura «aneddotica» del materiale biografico in sé – adoperato per la costruzione del testo –, convince anche l’edificazione scenico-drammaturgica della pièce teatrale, effettuata da Massini. DONALD è la storia di un’«impresa» imprenditoriale e politica, il cui tono ironico consente al testo di poter godere di una gradevole «leggerezza», attraverso cui avviene l’esposizione dei fatti. Il materiale letterario di carattere aneddotico-biografico conserva, dunque, un’importanza «documentaristica», e il tono ironico – attraverso cui avviene l’illustrazione delle vicende – consegna la pièce teatrale a un felice e interessante «ibridismo» di genere: un documentario teatrale e favolistico; un «seminario» recitato, che – in novantacinque minuti – offre un ritratto esaustivo del giovane Trump: «Luca Ronconi – afferma Massini, in un’intervista (il cui testo è stato raccolto da Matteo Brighenti) – quando parlava della mia scrittura, […] diceva: a un certo punto smette di essere sceneggiatura cinematografica e diventa un saggio, poi da saggio diventa chanson de geste, e da chanson de geste diventa docufiction». Il narratore, pertanto, riesce a restituire, attraverso un racconto fatto di immagini suggestive, il mondo entro cui accadono i fatti: viene evocato il «rosso della carta da parati», interessata dalla presenza di fotografie di famiglia, della casa natale del futuro «Golden Man»; vengono evocati, e impersonati dal narratore medesimo, Fred e Mary Anne Trump, padre e madre di Donald J.; viene evocata la tata, che, sempre impersonata dal narratore, appare contraria alla presenza in casa della televisione: un perfetto «medium di massa», per dirla con Pasolini; un mezzo, dunque, attraverso cui poter attrarre e attirare a sé un enorme popolo di «formiche»: quel popolo che «è con me», afferma, con tono ironicamente solenne, il protagonista, che – in questa pièce teatrale – appare anche estremamente attratto dalla riproduzione e dalla moltiplicazione della sua immagine: il talento di una strumentale «ubiquità», che il personaggio tenta di raggiungere e di attribuire a sé, in netto contrasto con un altro talento, che egli afferma di possedere: il talento della solitudine – attraverso cui poter consolidare un ambizioso progetto politico; una solitudine, che, in questo contesto, assume la forma di una soprannaturale, ma ironica, «unicità». «Ma il Donald di Massini – scrive Gennaro Carillo in uno scritto, inserito nel numero 46 del Belliner, magazine del teatro napoletano, – è soprattutto la storia di un’ossessione, di un desiderio smodato di potere». Un lavoro teatrale che consente all’autore-narratore anche di parlare allo spettatore di come il potere riesca a «conservare soltanto se stesso». Il carattere generale del testo è, dunque, documentaristico; esso, però, è interessato da repentine e recitate digressioni: «interferenze improvvise», così vengono definite da Luca Ronconi – come, peraltro, ricorda Massini nella summenzionata intervista. L’inarrestabile presenza di digressioni determina il carattere apparentemente «frammentario» della composizione testuale; apparente, ripetiamo, e inavvertibile, perché risolto attraverso un ritmo scenico, gestuale e vocale notevolmente spedito. Un monologo, ma tale soltanto in apparenza, perché la composizione testuale si ritrova a colloquiare con altre composizioni, quelle musicali: quattro validissimi musicisti – Valerio Mazzoni, Sergio Aloisio Rizzo, Jacopo Rugiadi, Gabriele Stoppa – sostengono e supportano l’efficace eloquio del narratore-attore e l’esposizione del materiale testuale, proponendo le interessanti musiche swing di Enrico Fink; musiche che travolgono gli spettatori, e concorrono alla creazione dell’atmosfera «americana» della rappresentazione teatrale e delle vicende raccontate, la cui caratterizzazione avviene anche attraverso un minimale impianto scenico, progettato da Paolo Di Benedetto: un’irregolare e grigia serie di gradoni – da cui spuntano, all’occorrenza, colorati cartelli: sintetiche restituzioni sceniche di costruzioni varie: dalla Trump Tower al Trump Taj Mahal. Il tutto nitidamente e opportunamente illuminato da Manuel Frenda. I costumi, di Elena Bianchini, sono in perfetta tinta con il grigio della scena. In definitiva: una pièce teatrale estremamente interessante, positivamente accolta dal pubblico napoletano. Foto Filippo Manzini
Roma, Musei Capitolini
ANTICHE CIVILTA’ DEL TURKMENISTAN
promossa da Roma Capitale con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
in collaborazione con il Ministero della Cultura del Turkmenistan, l’ISMEO, il CRAST di Torino e l’Università degli Studi di Torino
curata da Claudio Parisi Presicce, Barbara Cerasetti, Carlo Lippolis e Mukhametdurdy Mamedov
Roma, 25 ottobre 2025
Per la prima volta, le sale del Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini accolgono una grande mostra archeologica dedicata al Turkmenistan antico, un Paese che fu crocevia di culture, commerci e linguaggi, e che oggi rivela al pubblico europeo la sua straordinaria profondità storica. Antiche civiltà del Turkmenistan riunisce oltre duecento reperti provenienti da due grandi contesti archeologici: la Margiana protostorica e l’antica Partia, testimoni di civiltà che, tra il III millennio a.C. e il I d.C., fiorirono al centro dell’Asia, lungo le rotte che collegavano la Mesopotamia, l’altopiano iranico e la Valle dell’Indo. L’iniziativa, promossa da Roma Capitale con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con il Ministero della Cultura del Turkmenistan, l’ISMEO, il CRAST di Torino e l’Università degli Studi di Torino, è curata da Claudio Parisi Presicce, Barbara Cerasetti, Carlo Lippolis e Mukhametdurdy Mamedov. Non è solo una mostra: è un viaggio nella materia e nel tempo, dove l’oro, l’argilla, l’avorio e la pietra diventano strumenti di conoscenza. Il percorso inizia nella regione della Margiana, un’oasi fertile nel deserto del Karakum, nel sud-est del Turkmenistan. Qui, nel delta del fiume Murghâb, tra il 2500 e il 1500 a.C. si sviluppò una delle culture più raffinate dell’età del Bronzo: il complesso archeologico Bactria-Margiana, noto anche come “civiltà dell’Oxus”. Gli scavi, condotti a partire dagli anni Settanta dal russo Viktor Sarianidi, hanno portato alla luce città fortificate, templi e palazzi in mattoni crudi, dotati di sistemi idrici avanzati e spazi cerimoniali. Il sito più importante, Gonur-Tepe, è una città straordinariamente pianificata, con mura concentriche, torri e complessi religiosi dedicati al fuoco e all’acqua, elementi sacri per le popolazioni iraniche antiche. Tra i reperti provenienti da Gonur-Tepe spiccano le collane in oro e pietre dure, esposte per la prima volta in Italia: capolavori di oreficeria che uniscono eleganza e potenza simbolica. L’oro rappresentava il sole, la regalità, la vita eterna; le pietre azzurre, come lapislazzuli e turchese, evocavano il cielo e l’acqua, fonti di fertilità e conoscenza. Questi monili, costruiti con equilibrio geometrico, testimoniano una visione del mondo in cui arte, rituale e ordine cosmico coincidevano. Ma l’interesse di Gonur non si limita all’oreficeria: l’intero assetto urbano e idraulico riflette una cultura che aveva saputo trasformare il deserto in giardino, canalizzando l’acqua del Murghâb con ingegneria e devozione. I templi, le necropoli e le officine mostrano un’organizzazione sociale complessa e stratificata, capace di gestire risorse, commercio e ritualità. Non a caso, nella Margiana si trovano influenze che vanno dall’Iran all’Indo, con sigilli e oggetti che attestano contatti con le culture elamita e harappana. L’Asia Centrale emerge così come spazio di intersezione, dove le civiltà si parlavano attraverso la materia, molto prima che attraverso la scrittura. Dal cuore della Margiana, la mostra conduce al Turkmenistan centro-meridionale, nell’antica Nisa, la città fondata dai re Arsacidi, dinastia che diede vita all’impero dei Parti. Nisa — oggi sito UNESCO — sorgeva su un’altura a poca distanza dall’attuale Ashgabat, ed era cinta da mura poderose, scandite da quarantatré torri. Fu insieme residenza, luogo di culto e archivio del potere: nei suoi ambienti sono stati ritrovati magazzini per il vino, documenti amministrativi su frammenti ceramici e centinaia di sculture e bassorilievi. In mostra si possono ammirare teste in argilla cruda che raffigurano sovrani, sacerdoti e guerrieri, modellate con una forza plastica che coniuga idealizzazione e realismo. Questi volti, severi e assorti, restituiscono la psicologia di un potere che si voleva ieratico, ma anche umano. Accanto a loro, i rhyta — vasi per libagioni in avorio e terracotta — rappresentano l’apice dell’arte partica. Decorati con scene mitologiche e motivi ellenistici reinterpretati, uniscono la tradizione iranica alla sensibilità greca, segno dell’incontro tra mondi che caratterizzò l’impero. Gli ostraka di Nisa, frammenti ceramici iscritti, documentano una complessa burocrazia: elenchi di beni, quantità di vino, cereali e metalli, che rivelano un sistema di controllo e redistribuzione delle risorse tipico di uno Stato organizzato. Nisa non fu solo un centro religioso, ma anche un nodo commerciale lungo le rotte che collegavano l’Eufrate e la Battriana, fino alla Cina. La sua vitalità dimostra che la Partia, lungi dall’essere un impero statico, era un ponte tra Occidente e Oriente, un interlocutore di Roma e un interprete originale della cultura ellenistica. La mostra costruisce un filo invisibile tra la Margiana del Bronzo e la Partia ellenistica. Le due civiltà, separate da più di un millennio, condividono un’idea comune di spazio e di potere: il dominio sulla natura, la sacralità del sovrano, la centralità del rito. I canali di Gonur e le torri di Nisa, le collane d’oro e i rhyta d’avorio, appartengono alla stessa genealogia simbolica, quella di un mondo che concepiva la bellezza come ordine, e l’ordine come forma di verità. L’allestimento delle sale capitoline accompagna lo spettatore in questa continuità. Le luci radenti esaltano la plasticità delle superfici, i pannelli cartografici e le ricostruzioni 3D restituiscono il paesaggio originario delle oasi, mentre le vetrine tematiche articolano il racconto come un viaggio geografico e spirituale. Ciò che colpisce, oltre alla magnificenza dei reperti, è il modo in cui questa mostra restituisce all’Asia Centrale il ruolo che le spetta nella storia antica: non periferia, ma centro di una rete culturale vastissima. Tra la Mesopotamia e l’India, il Turkmenistan fu una soglia, un laboratorio di forme, dove le civiltà si incontravano e si trasformavano. Oggi, grazie a un lavoro di ricerca condiviso, quelle sabbie antiche tornano a parlare con la voce della materia: una voce che racconta il rapporto tra uomo e deserto, tra arte e necessità, tra fede e potere. In un’epoca in cui i confini tornano a dividere, la mostra dei Musei Capitolini ci ricorda che le civiltà più durature nascono dall’incontro, non dalla separazione.
È la prima edizione che vede Riccardo Frizza nella doppia veste di direttore artistico e musicale, quella del Donizetti Opera 2025, festival internazionale dedicato al celebre compositore bergamasco che andrà ad animare i teatri della “Città di Gaetano Donizetti” dal 14 al 30 novembre prossimi.
Il Donizetti Opera è organizzato dalla Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo presieduta da Giorgio Berta con la direzione generale di Massimo Boffelli, con il sostegno del Comune di Bergamo.
Il Donizetti Opera 2025 presenta, quindi, per tre weekend consecutivi quattro titoli proposti in tre nuovi allestimenti: al Teatro Donizetti vanno in scena Caterina Cornaro, per la prima volta con l’intero testo poetico musicato da Donizetti e il finale secondo la volontà del compositore (venerdì 14, sabato 22 e domenica 30 novembre), e Il furioso nell’isola di S. Domingo nella versione integrale della partitura del 1833 (domenica 16, venerdì 21 e sabato 29 novembre); al Teatro Sociale, in Città Alta, è presentato il dittico formato dagli atti unici Il campanello, nella versione del 1837, e Deux hommes et une femme nella versione originale francese (sabato 15, domenica 23 e venerdì 28 novembre).
Il lavoro filologico sulle opere scelte per l’edizione 2025 è stato supportato e seguito dal Centro Studi della Fondazione Teatro Donizetti diretto da Paolo Fabbri, che ha contribuito a individuare le edizioni critiche delle partiture pubblicate da Casa Ricordi, realizzate con il contributo e la collaborazione della Fondazione bergamasca.
Si confermano per questa undicesima edizione del Donizetti Opera le compagini protagoniste degli ultimi anni, con l’Orchestra Donizetti Opera impegnata nei due titoli al Teatro Donizetti, l’Orchestra Gli Originali – formazione che adotta strumenti d’epoca – al Teatro Sociale e il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Salvo Sgrò in tutte le produzioni.
Sarà una fra le opere del Donizetti maturo ad aprire il festival: Caterina Cornaro. L’edizione critica adottata al festival è stata curata da Eleonora Di Cintio per Casa Ricordi e sarà eseguita dall’Orchestra Donizetti Opera sotto la bacchetta del direttore artistico e musicale Riccardo Frizza, con il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala, guidato da Salvo Sgrò, e con la regia di Francesco Micheli.
Il nuovo allestimento in prima assoluta, coprodotto con il Teatro Real di Madrid, vedrà le scene di Matteo Paoletti Franzato, i costumi di Alessio Rosati, le luci di Alessandro Andreoli, la drammaturgia di Alberto Mattioli e il visual design di Matteo Castiglioni. Nel ruolo del titolo, Carmela Remigio, accanto al Gerardo di Enea Scala e al Lusignano di Vito Priante. Interprete di Mocenigo sarà Riccardo Fassi, mentre Fulvio Valenti sarà Andrea Cornaro, Francesco Lucii interpreterà il doppio ruolo di Strozzi e di Un cavaliere del re, e Vittoria Vimercati sarà Matilde.
Mostre, concerti, conversazioni, prove aperte, teatro di figura, passeggiate sulle Mura e anche la colazione con Gaetano in Casa Natale o a Teatro: il Donizetti Opera 2025 non si limita alle grandi produzioni in palcoscenico, ma coinvolge la città di Bergamo con un fitto palinsesto di appuntamenti, molti dei quali gratuiti.
Qui per il programma completo del Donizetti Opera 2025, ulteriori informazioni, riduzioni e proposte di biglietteria.
Torino Teatro Vittoria, Concerti dell’Orchestra Filarmonica di Torino 2025-2026
“Rintocchi e Profumi”
Orchestra Filarmonica di Torino
Direttore Gianpaolo Pretto
Arvo Pärt: “Cantus in Memoriam Benjamin Britten”; Johannes Brahms: Sinfonia n.2 in re Maggiore op.73.
Torino, 20 ottobre 2025. (Prova Generale)
L’Orchestra Filarmonica di Torino si fa carico, dopo l’Orchestra sinfonica nazionale RAI, Lingottomusica e l’Orchestra del Teatro Regio, della quarta inaugurazione di stagione sinfonica torinese. Nel nuovo programma generale 2025-26 della Filarmonica, dal titolo “ONE WAY Memories”, si trovano otto concerti sinfonici, da ottobre a fine maggio, associati ad altri otto “da camera”, denominati OFFICINA, concentrati tra fine ottobre e metà dicembre. Il ciclo dei sinfonici conta, per ciascuna locandina, tre date in tre sedi: la domenica mattina la prova di lavoro in un capannone industriale semiperiferico; il lunedì pomeriggio la prova generale in un centralissimo teatro che ospita anche molti concerti dell’Unione Musicale; e finalmente il martedì sera il concerto nella sala grande del Conservatorio Giuseppe Verdi. La Filarmonica, che è operativa da una trentina di anni, ospita nelle sue fila dei maestri che ne hanno percorso l’intero arco di attività, ma soprattutto dà spazio ed opportunità a moltissimi giovani che ne garantiscono la freschezza e ne promuovono il continuo rinnovamento. Due sono le figure di riferimento: il violino di spalla e direttore Sergio Lamberto che, anche nel conservatorio torinese, continua a formare decine di violinisti e il direttore Gianpaolo Pretto già, per quasi un ventennio, primo flauto dell’orchestra della RAI. La Filarmonica, ospite fissa di MITO, conta, non solo in patria, anche notevoli collaborazioni con prestigiose manifestazioni internazionali. La scelta delle musiche da presentare, favorita dalla disponibilità non solo dell’intera orchestra ma anche di una agguerritissima formazione di soli archi, è molto fantasiosa e libera: ai soliti inevitabili classici vengono affiancati sia autori barocchi che moderni e attuali. L’impaginato del primo concerto di stagione prevede infatti un pezzo dell’estone vivente Arvo Pärt e la sinfonia n.2 del classicissimo Brahms. Qui si segnalano anche l’ottima veste grafica e l’approfondito corredo critico dei libretti a corredo dei concerti. Il Cantus in memoriam Benjamin Britten, Pärt lo compose nel 1977 colpito ed emozionato per la morte, il 4 dicembre del ’76, di Britten. Come in molte musiche del compositore inglese è forte anche in Pärt il richiamo alle atmosfere della musica sacra rinascimentale e protobarocca. Pare poi di trovarvi anche un certo orientalismo di fondo, coniugato ad una orchestrazione essenziale, che riporta alle tre Parabole da Chiesa, che Britten scrisse alla fine degli anni ’60, di ritorno da una visita in Giappone. L’organico orchestrale prevede una singola campana tubolare, intonata sulla nota la, che domina un’orchestra di soli archi, suddivisi, tranne le viole, in due gruppi. Una polifonia rinascimentale, a cinque voci, con la viola in funzione di tenor. La trama elaboratissima è costruita su poche note e si presenta quasi come il frutto di un complicatissimo calcolo combinatorio che anima di molteplici sfumature, sonore ed emozionanti, un’assoluta immobilità di fondo. La campana che periodicamente viene colpita, con dinamiche variabili, può essere assimilata a una campana funebre che accompagna l’ultimo viaggio. Il pezzo si carica quindi di grande spiritualità, di profondo patetismo e di una dolcezza triste. Nulla a che vedere con la meccanica e urtante ripetitività del contemporaneo minimalismo americano. La direzione di Gianpaolo Pretto riesce ad ottenere, dagli ottimi archi della Filarmonica, una grande espressività che svela l’emozione che l’autore doveva aver provato per la morte del collega; così intensa l’emozione che inevitabilmente si riversa in platea e conquista i presenti.
A Pärt segue la Seconda sinfonia di Johannes Brahms. Agli archi si uniscono fiati e timpani. L’opera, pur tanto nota e tanto eseguita, è comunque sempre un’ardua vetta da scalare. L’andamento è complessivamente molto equilibrato, mai affrettato e mai troppo compiaciuto. L’attenzione della direzione di Pretto pare volta a valorizzarne la struttura e a renderne esplicite e comprensibili le evoluzioni e gli sviluppi della forma. Una lettura nervosa e didattica. Non si inseguono mire estetizzanti e edonistiche: l’eccessiva piacevolezza non è certamente nelle intenzioni di una direzione di fondo strutturalista. Pretto conduce l’orchestra con gesti nervosi, dinoccolati, angolosi e repentini e, nell’empito dei focus orchestrali, abbandona per poi ricuperare subitamente la postazione sulla pedana. L’effetto di coinvolgimento, non solo degli orchestrali ma anche del pubblico, è perentorio ed immediato. Buono l’accordo degli archi e preziosi gli interventi degli strumentini, qualche momentanea fluttuazione nell’intonazione degli ottoni, non turba il felicissimo esito complessivo della prova. A chiusura di questa Prova Generale del concerto d’avvio di stagione, gli applausi dell’attento pubblico che esaurisce le poltroncine del Teatro Vittoria, sono convinti, strameritati e ben auguranti per quanto verrà. Le fotoe a corredo si riferiscono al concerto, in Conservatorio, del giorno successivo (21 ottobre).
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
AMADEUS
di Peter Shaffer
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
traduzione Ferdinando Bruni
costumi Antonio Marras
con
Antonio Salieri FERDINANDO BRUNI
Wolfgang Amadeus Mozart DANIELE FEDELI
Costanze Weber, moglie di Mozart VALERIA ANDREANO’
Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi RICCARDO BUFFONINI
Barone Gotrfried Van Swieten, prefetto della Biblioteca Imperiale MATTEO DE MOJANA
Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi ALESSANDRO LUSSIANA
Contessa Johanna Kilian Von Strack, Katharina Cavalieri, cantante GINESTRA PALADINO
Giuseppe II, Imperatore d’Austria UMBERTO PETRANCA
Conte Franz Orsini-Rosenberg, direttore dell’Opera Imperiale LUCA TORACCA
assistente ai costumi Elena Rossi
realizzazione costumi Elena Rossi, Alessia Lattanzio, Monica Fedora Colombo, Grazia Ieva
realizzazione scene Marina Conti, Giancarlo Centola, Tommaso Serra
produzione Teatro dell’Elfo con il contributo di NEXT Laboratorio delle idee
Roma, 23 ottobre 2025
C’è una vertigine nel guardare chi riconosce il genio senza possederlo. È la vertigine della coscienza lucida, quella che non consola ma dilania. Amadeus di Peter Shaffer, portato al Teatro Ambra Jovinelli da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, non è un dramma storico sulla Vienna di fine Settecento, ma una riflessione metafisica sull’invidia come forma dello spirito e sulla mediocrità come condanna. Bruni e Frongia scelgono di affrontare il testo non per reinventarlo, ma per svelarne i meccanismi interni. Ne nasce uno spettacolo rigoroso, scolpito nel linguaggio e nel tempo, dove la teatralità diventa strumento d’indagine. L’impianto scenico, essenziale e concentrico, è una macchina ottica che invita lo spettatore a esplorare la mente di Salieri, l’uomo che trasforma l’invidia in sistema di pensiero. Ferdinando Bruni, nel ruolo di Antonio Salieri, domina la scena con un’intensità mai compiaciuta. Ogni parola è un atto di ragione, ogni pausa un abisso. La sua voce, modulata come uno strumento antico, restituisce l’immagine di un uomo che non racconta la propria sconfitta, ma la analizza, la archivia, la offre al pubblico come un caso clinico dell’anima. Nessun pathos superfluo: solo la logica, che in sé contiene la tragedia. Daniele Fedeli dà a Mozart una leggerezza spiazzante. Non è il buffone isterico della tradizione cinematografica, né il santo ingenuo del mito romantico. È un ragazzo che ride troppo, suona troppo, vive troppo: un corpo attraversato dalla musica, quasi inconsapevole del proprio dono. In lui il talento non è conquista, ma fatalità — e questa, per Salieri, è la più crudele delle offese. La scena, pensata con sobrietà architettonica, disegna un perimetro mentale più che fisico. Bastano pochi oggetti – un leggio, una sedia, un sipario di luce – per evocare la corte imperiale e la mente che la osserva. È uno spazio di memoria, dove i fantasmi non scompaiono ma ritornano come riflessi. Le luci, calibrate con cura, isolano i volti come ritratti su una lastra: ogni figura partecipa di un ordine superiore, come se la geometria stessa fosse un giudizio divino. I costumi di Antonio Marras introducono una sofisticata ambiguità. Il Settecento non è ricostruito, ma evocato come citazione: un linguaggio di memoria e artificio. Broccati e velluti, ori e neri si intrecciano in un equilibrio che racconta un mondo dove il potere è ornamento e la fede un costume. I personaggi sembrano portare addosso la contraddizione tra splendore e decomposizione, tra la grazia del rito e la fragilità del corpo. Salieri, nella lettura di Bruni e Frongia, è un intellettuale moderno, un analista del divino. Riconosce in Mozart la prova dell’esistenza di Dio, ma non sa sopportarla. La sua disperazione è logica: se Dio concede il genio a chi non lo merita, allora l’universo è ingiusto o Dio è ironico. Da qui nasce la ribellione: punire Dio colpendo il suo strumento più puro. La violenza non è fisica, ma intellettuale — la vendetta di chi usa la ragione contro l’irrazionalità del talento. Il ritmo dello spettacolo è calibrato con precisione. Le due ore e mezza scorrono come una partitura di voci e silenzi. Ogni scena è un movimento sinfonico: introduzione severa, tema gioioso di Mozart, sviluppo tragico di Salieri, coda di confessione. La regia lavora sull’equilibrio tra parola e spazio, senza cercare effetti, ma limpidezza. L’azione nasce dal pensiero, e in questo trova la sua forza drammatica. Intorno ai protagonisti si muove una compagnia compatta, quasi cameristica. Riccardo Buffonini e Alessandro Lussiana, nei doppi Venticelli, incarnano il brusio del mondo, la voce della mediocrità che accompagna ogni grandezza. Valeria Andreanò restituisce a Costanze una presenza scenica consapevole, ben costruita sul rapporto tra corpo e parola, anche se talvolta eccede nella proiezione vocale, sfiorando un registro troppo gridato e non sempre centrato nell’emissione. Umberto Petranca offre un Giuseppe II misurato, definito da una dizione limpida e da un fraseggio equilibrato che ne sottolineano la pacata autorevolezza. Più sfumato l’intervento di Luca Toracca, che dosa con eleganza i tratti ironici del Conte Orsini-Rosenberg. Matteo De Mojana, nel ruolo del Barone, si distingue per timbro e proiezione di rara precisione, sostenuti da una presenza scenica solida e pienamente controllata, completando con efficacia il quadro interpretativo.Ma il centro dello spettacolo non sta nella ricostruzione storica né nella psicologia: sta nel pensiero. L’invidia di Salieri non è un’emozione, ma una categoria conoscitiva. L’uomo che vede il genio è condannato a interpretarlo, e nel tentativo di comprenderlo lo distrugge. Amadeus diventa così una parabola sull’atto interpretativo stesso: ogni comprensione è appropriazione, ogni appropriazione un tradimento. In questa messinscena si percepisce qualcosa di radicalmente contemporaneo. Non perché la storia sia attualizzata, ma perché ci ricorda che viviamo ancora nel regno di Salieri: circondati da chi riconosce la bellezza senza saperla generare, da chi trasforma l’ammirazione in rancore. È la maledizione della cultura senza grazia, dell’intelligenza che si misura e si consuma. Nel finale, quando Salieri confessa al pubblico il suo delitto, la platea si trasforma in tribunale. Non chiede pietà, ma riconoscimento. E noi, spettatori colti e imperfetti, non possiamo che identificarci in lui. Chiunque abbia amato l’arte senza esserne all’altezza ha sentito, almeno una volta, la sua ombra.
Un appuntamento imperdibile per gli amanti della musica sacra e barocca: la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach sarà eseguita al Teatro Olimpico, in un concerto straordinario dell’ensemble Il Teatro Armonico, sabato 25 ottobre alle 20.30 e domenica 26 ottobre alle 18.30.
Il Progetto Bach si svolge a Vicenza ormai da un quarto di secolo. Sorto con la direzione di Michael Radulescu, organista e compositore, e di Margherita Dalla Vecchia, prosegue con l’Associazione Mousikè, nel 250° Anniversario della morte di J. S. Bach, in un anno giubilare nel nuovo millennio. Questi sono aspetti che caratterizzano da sempre la progettualità e anche questa ricorrenza: la diffusione ed approfondimento scientifico dell’opera bachiana con l’interpretazione delle grandi opere sacre di questo grande compositore difficilmente eseguite in Italia, intrecciando altri aspetti dell’arte e della cultura, la storia di Vicenza e simboli legati al monumentale Teatro Olimpico, una complessa struttura che ha superato non poche difficoltà con successo.
L’esecuzione della Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach, per Soli, Coro, grande Orchestra barocca su strumenti copia da originali, di Bach, diventa quindi la pagina universale più idonea per celebrare questo giubileo. Diretta da Margherita Dalla Vecchia, questa edizione è accompagnata dal sottotitolo Ordine cosmico e Passione umana, che ne riassume l’artificio compositivo e la profonda spiritualità di quest’opera bachiana.
Un evento unico, in un contesto suggestivo, per riscoprire la bellezza e la profondità di una delle vette assolute della musica sacra.
E per comprendere al meglio il capolavoro di Bach continuano gli appuntamenti che si terranno mercoledì 22 ottobre, alle ore 18.30 nell’Oratorio San Filippo Neri di Vicenza dal titolo Un Credo in comune: la Messa in si minore di Bach. Dialogo con il vescovo di Vicenza don Giuliano Brugnotto con Isolde Kittel Zerer, organista e continuista in questa produzione, già cantor del distretto di Rantzau-Münsterdorf (Germania del Nord).
E ancora domenica 26 ottobre alle 16.30 all’Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza: La Messa in si minore, straordinaria sintesi d’una vita e d’una Storia con il prof. Raffaele Mellace, presidente della Società Bachiana Italiana e consulente scientifico del Teatro alla Scala di Milano. Qui per ulteriori informazioni.