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Roma, Galleria Borghese: “Wangechi Mutu. Poemi della terra nera”

6 ore 50 min fa

Roma, Galleria Borghese
WANGECHI MUTU. POEMI DELLA TERRA NERA
curata da Cloé Perrone
Una mostra non è mai solo una mostra. È un processo, una conversazione, una possibilità. Dal 10 giugno al 14 settembre 2025, la Galleria Borghese apre le sue sale a un intervento che è insieme un attraversamento e un innesto: Poemi della terra nera, progetto di Wangechi Mutu curato da Cloé Perrone, è un gesto artistico che si radica nel tempo e lo decostruisce. Non si tratta solo di inserire opere contemporanee in un contesto storico: si tratta di ripensare lo spazio stesso del museo come organismo dinamico, come ambiente che respira e si trasforma. Mutu non visita semplicemente la Galleria Borghese: la trasforma. E lo fa portando con sé la stratificazione della sua pratica: scultura, installazione, video, poesia visiva, radici africane e sguardo globale. Le sue opere si insinuano nelle sale, si adagiano nei giardini, dialogano con la facciata, si sospendono tra le cornici e i soffitti affrescati. Come sempre accade nei suoi progetti più riusciti, Poemi della terra nera è allo stesso tempo un’evocazione e una domanda. Il titolo stesso è un portale: la “terra nera” non è solo un suolo fisico, fertile e argilloso, ma è anche una metafora viva. È memoria ancestrale, potenza creatrice, materia che accoglie e genera. È da questa terra che emergono le sculture di Mutu, come spiriti della soglia. Non si tratta di statue nel senso classico del termine. Piuttosto, sono presenze, entità che abitano il visibile e l’invisibile, il passato e il presente. Alcune pendono leggere dall’alto — Suspended Playtime — evocando il gioco e la sospensione del tempo. Altre poggiano a terra come reliquie di un futuro mitologico. Nelle sale interne, le opere non contrastano la collezione Borghese, né cercano di eclissarla. Si inseriscono invece in una danza, una coreografia spaziale che ridefinisce la percezione. Opere come Ndege, First Weeping Head, Second Weeping Head sono frammenti narrativi che aprono spiragli. Lo spettatore è costretto a cambiare punto di vista, a muoversi, a interrogarsi. È la logica dell’interruzione e dello spostamento. Mutu propone un’altra grammatica materiale: bronzo, piume, cera, legno, carta, pigmenti naturali. Ogni materiale è portatore di significato, ogni scelta è gesto critico. Il bronzo, ad esempio, smette di essere il medium della monumentalità per diventare veicolo di metamorfosi. Lo stesso si può dire della terra: elemento fertile e caotico, instabile e generativo, che abita le opere come una voce sussurrata. I Giardini Segreti diventano mappa di una geografia interiore. Opere come Nyoka, Musa, Water Woman si fanno vasi simbolici, contenitori di storie e memorie, corpi trasformati. Le cariatidi della serie The Seated, originariamente pensate per la facciata del Metropolitan Museum di New York, riappaiono ora nella classicità barocca della Galleria Borghese come sentinelle del presente. La loro posa, ieratica e composta, destabilizza la linearità del racconto museale, proponendo nuove forme di autorità visiva. Una mostra è sempre anche un’esplorazione del tempo. Il video The End of Eating Everything inserisce una dimensione temporale espansa, aggiungendo al percorso una riflessione sul consumo, sulla trasformazione e sull’ibridazione. Qui il corpo si fa macchina e mito, creatura molteplice e contaminata, in cui convergono l’ancestrale e il postumano. Il suono è una presenza sottile ma pervasiva. Poems for my Great Grandmother I è una vibrazione sospesa nello spazio, quasi una nenia lontana che accompagna lo sguardo. Grains of War, tratto dal discorso dell’Imperatore etiope Haile Selassie del 1963, riattualizza un’eredità di lotta e giustizia, rendendo la parola una forma di scultura, e la memoria sonora una nuova architettura. L’arte di Wangechi Mutu è anche sempre un gesto politico, non nel senso ideologico, ma in quello poetico della parola greca polis: spazio condiviso, spazio da abitare insieme. Le sue opere ci parlano di corpi marginalizzati, di voci cancellate, ma anche di possibilità. Il museo diventa, allora, non solo contenitore di passato, ma anche luogo di futurabilità, di immaginazione radicale. La mostra prosegue all’American Academy in Rome, con Shavasana I: una figura bronzea distesa, coperta da una stuoia intrecciata. Il riferimento alla posa yogica del cadavere — shavasana — è un gesto di abbandono e di consapevolezza. La collocazione, accanto a epigrafi romane, carica l’opera di una forza dirompente: vita e morte si incontrano nello stesso respiro. Con Poemi della terra nera, la Galleria Borghese conferma la sua volontà di apertura al contemporaneo. Dopo Gesti Universali di Giuseppe Penone e L’inconscio della memoria di Louise Bourgeois, il museo propone un’altra visione: non più il classico come autorità immobile, ma come materia viva, porosa, disposta al dialogo. Questa mostra è resa possibile dal sostegno di FENDI, che conferma il ruolo attivo della moda come partner culturale e produttore di visioni. Ma al di là dei sostegni e delle istituzioni, ciò che Poemi della terra nera ci consegna è una domanda: come possiamo immaginare un museo che non custodisca solo opere, ma anche possibilità, movimenti, interruzioni? In un’epoca in cui la memoria è minacciata dalla velocità e dall’oblio, Wangechi Mutu ci invita a tornare alla terra. A scavare. A sporcarci le mani. A ricordare che ogni gesto artistico è anche un gesto di cura, di trasformazione, di amore per il mondo che verrà.

 

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Lunedì di Pentecoste

20 ore 9 min fa

Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte BWV 174 è la terza di tre Cantate dedicate al secondo giorno del triduo Pentecostale celebrato dalla Chiesa Luterana. Eseguita la prima volta a Lipsia il 6 giugno 1729 si basa su un testo di Picander  a sua volta tratto dal Vangelo del giorno, dal Vangelo di Giovanni (cap.3 vers.16-21)  che ha come fulcro la frase: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Tutto il  testo della Cantata è incentrato sull’amore cristiano e sull’amore di Dio, come si evince chiaramente dal titolo: “Amo l’Altissimo con tutto il cuore.  La partitura è piuttosto breve, con solo quattro movimenti cantati: un’aria del contralto, un recitativo affidato alla voce del tenore, un’aria per voce di basso e il  corale conclusivo. Troviamo però una Sinfonia orchestrale, che altro non è se non il primo movimento del suo Concerto brandeburghese n. 3 in re maggiore, aggiungendo oboi, corni e taille (spesso suonati dal fagotto nelle esecuzioni moderne) alla partitura per soli archi del Brandeburghese. Bach  crea un’atmosfera molto festosa, ma fornisce anche una sinfonia assai ampia più che in qualsiasi altra cantata. La tonalità di re maggiore  si ritrova nel secondo movimento, un’aria “con da capo” per contralto (Nr.2) in tempo di “Siciliana”, con oboe solo e continuo. L’oboe II introduce il materiale melodico principale per l’aria; questo viene poi adottato per imitazione e una quinta più alta dall’oboe I, prima che il contralto lo faccia proprio.  Di notevole forza drammatica il breve recitativo che segue (Nr.3) del tenore. Si notano molti cambi di accordi improvvisi e inaspettati; forse che Bach voglia rappresentare le emozioni di Dio nel dare Suo Figlio al mondo (il famoso testo del Vangelo di Giovanni è citato in questo movimento – “Perché Dio ha tanto amato il mondo”. L’unica “reazione” degli archi al testo si verifica verso la fine, quando “tremano” davanti alla menzione delle “porte dell’Inferno”. L’ultima aria (Nr4) affidata al Basso è un altro esempio dell’uso da parte di Bach di una struttura di sonata a tre in un movimento vocale. Gli archi superiori suonano all’unisono contro la linea del continuo, creando un delizioso duetto strumentale. L’introduzione della voce di basso solista è un complemento naturale al resto della tessitura, e le tre linee indipendenti  danno vita un bell’intrecciano, apparentemente semplice. Chiude il tradizionale Corale (Nr.5) a quattro parti, che utilizza la prima strofa dell’inno di Martin Schalling del 1571, “Herzlich lieb hab ich dich, O Herr”.
Nr.1 – Sinfonia
Nr.2 – Aria (Contralto)
Amo l’Altissimo con tutto il cuore,
e anch’egli ha per me un amore assoluto.
Solo Dio
sarà il tesoro della mia anima,
in lui ho l’eterna sorgente di bontà.
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
O amore senza confronti!
O riscatto senza prezzo!
Il Padre ha donato la vita del suo Figlio
per liberare dalla morte i peccatori
e tutti coloro che il Regno dei Cieli
avevano disdegnato o perduto
sono ora chiamati alla beatitudine.
Dio ha tanto amato il mondo!
Mio cuore, tienilo presente
e stai saldo sulle sue parole;
di fronte a questi potenti stendardi
le porte stesse dell’inferno vacillano.
Nr.4 – Aria (Basso)
Aggrappatevi,
afferrate la salvezza, mani credenti!
Gesù vi dona il suo Regno dei Cieli
e desidera una cosa sola da voi:
conservate la fede sino alla fine!
Nr.5 – Corale
Ti amo con tutto il cuore, o Signore.
Ti prego, non allontanarti da me
con il tuo aiuto e la tua grazia.
Il mondo intero non mi procura alcuna gioia,
non chiedo né il cielo né la terra
se solamente posso avere te.
E se anche il mio cuore si spezzasse,
resteresti la mia sola speranza,
consolazione del mio cuore e mio Salvatore,
che mi ha redento con il suo sangue.
Signore Gesù Cristo,
mio Dio e Signore, mio Dio e Signore,
non abbandonarmi più alla vergogna!
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte” BWV 174

 

 

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Domenica di Pentecoste

Dom, 08/06/2025 - 00:06

Wer mich liebet, der wird mein Wort halten BWV 74 è in ordine cronologico la terza delle cinque Cantate bachiane dedicate alla prima festa del triduo di Pentecoste. Eseguita la prima volta a Lipsia il 20 maggio 1725 ha un testo di Marianne von Ziegler in cui i versi del Vangelo di Giovanni (cap.14 Vers. 23 e 28) del giorno sono utilizzati nel primo, quarto movimento e il secondo, terzo, quinto e settimo movimento commentano il Vangelo. Per l’ottavo movimento della cantata, Bach utilizza la strofa finale di un tradizionale inno di Pentecoste di Paul Gerhardt. Inoltre, i primi due movimenti della cantata sono stati ripresi da una precedente cantata di Pentecoste (BWV 59), ma riviampliati per questa cantata. La cantata ha una partitura massiccia soprattutto per la parte orchestrale, per le grandi occasionie: due oboi, oboe da caccia, archi, basso continuo, tre trombe e timpani nei movimenti 1 e 7. La partitura si apre con un solenne ma gioioso coro  Il primo movimento è un’opera su larga scala e gioiosa per coro e orchestra completa, con i quattro corpi di musicisti – gli archi, i fiati, gli ottoni e le voci – utilizzati come cori distinti. Il secondo movimento (Nr.2) è un’aria pastorale in forma di sonata a tre per soprano solista, oboe da caccia e continuo. Un’incantevole interazione ritmico-complessiva tra il delicato oboe da caccia, la linea del continuo e il soprano solista. Questo è uno dei movimenti che Bach ha preso in prestito dalla Cantata BWV 59, in quel caso il solista obbligato era il violino. L’oboe da caccia di questa seconda versione è sicuramente più morbido e intimo. Dopo un brevissimo recitativo secco per contralto solista e continuo (Nr.4) segue un’aria virtuosistica per basso solo con il Basso Continuo. Il cuore dell’opera, è un’estesa aria tenorile (Nr.5) accompagnata dai primi violini oltre agli altri archi e al continuo. Un recitativo per basso (Nr.6), con una coppia di oboi, oboe da caccia e continuo. Il settimo movimento è un’energica aria  per contralto (Nr.7), con fiati, archi e continuo. La Cantata  si conclude con un’armonizzazione del corale di Gerhardt per coro e orchestra completa (Nr.8).
Nr.1 – Coro
Chi mi ama, osserverà la mia parola
e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui.
Nr.2 – Aria (Soprano)
Vieni, vieni, il mio cuore è per te aperto,
ah, fà che sia la tua dimora!
Io ti amo e dunque devo sperare
che ora la tua Parola venga dentro di me;
chi ti cerca, ti teme, ti ama e ti onora
ha la benevolenza del Padre.
Non ho dubbi, sarò esaudito,
in te troverò conforto.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
La dimora è pronta.
Troverai un cuore solo a te devoto,
non farmi mai sentire
che potresti abbandonarmi.
Non permetterò che accada mai più, ah, mai più!
Nr.4 – Aria (Basso)
Me ne vado e tornerò a voi;
se voi mi amaste, vi rallegrereste.
Nr.5 – Aria (Tenore)
Venite, accorrete, accordate gli strumenti e le voci
in canti vibranti e gioiosi.
Sta per andare via, ma tornerà
il glorificato Figlio di Dio.
Nel frattempo Satana cercherà
di condurmi alla perdizione.
Lui è il mio ostacolo,
ma io credo in te, Signore.
Nr.6 – Aria (Basso)
Non c’è dunque più nessuna condanna
per quelli che sono in Cristo Gesù.
Nr.7 Aria (Contralto)
Niente può salvarmi
dalle catene dell’inferno
se non il tuo sangue, o Gesù.
La tua passione, la tua morte
fanno di me il tuo erede:
rido della furia satanica.
Nr.8 – Corale
Nessun figlio dell’uomo sulla terra
è degno di questo prezioso dono,
il merito non è nostro;
contano soltanto l’amore e la grazia
che Cristo ha guadagnato per noi
con il sacrificio e l’espiazione.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wer mich liebet, der wird mein Wort halten” BWV 74

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “L’italiana in Algeri”

Sab, 07/06/2025 - 21:42

Teatro dell’Opera di Roma Stagione di Opere e Balletti 2024/2025
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Angelo Anelli
Musica di Giacchino Rossini
Mustafà PAOLO BORDOGNA/ADOLFO CORRADO
Elvira  JESSICA RICCI*
Zulma MARIA ELENA PEPI*
Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO*
Lindoro DAVE MONACO
Isabella CHIARA AMARU’
Taddeo MISHA KIRIA
*dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Maurizio Scaparro ripresa da Orlando Forioso
Scene Emanuele Luzzati
Luci Vinicio Cheli
Costumi Santuzza Calì ripresi da Paola Casillo e Paola Tosti
Allestimento del Teatro Massimo di Palermo
Roma, 05 giugno 2025
Con la ripresa di questo spettacolo molto amato, creato per il teatro Massimo di Palermo e ripreso oltre vent’anni fa anche qui a Roma, il Teatro dell’Opera intende rendere un omaggio ad Emanuele Luzzati ed al regista Maurizio Scaparro. L’allestimento di questa Italiana in Algeri anche nella attuale ripresa mantiene intatta tutta la freschezza dei colori delle scene e dei costumi e che assai bene illustrano la divertita e assai pungente leggerezza di questo dramma giocoso. Tutto scorre nella narrazione senza pause, blocchi o inutili inserti ed anche la recitazione dei personaggi è disinvolta e naturale sfuggendo alla tentazione che in Rossini talvolta può prendere di sottolineare meccanicamente e in maniera fastidiosa con il gesto il ritmo incalzante della musica. Tante piccole trovate sono divertenti e assolutamente funzionali a definire meglio i caratteri e le situazioni e in definitiva far divertire il pubblico quasi fossero delle fioriture poste su una linea musicale solida ed essenziale nella struttura. Il maestro Sesto Quatrini romano ma al suo debutto al Teatro dell’Opera un po’ sulla stessa linea interpretativa offre una lettura musicale assai elegante e curata con la scelta di sonorità consone al tono sostanzialmente allegro e lieve della vicenda, una notevole capacità di sostenere la linea del canto ed un controllo tecnico assoluto nell’agogica e nelle dinamiche. Assai gradevole infine il gusto posto nella scrittura delle tante variazioni, tutte concepite in modo da non compromettere l’intelligibilità del testo o stravolgere la melodia di partenza o l’armonia. Eccellente la prova del coro del teatro diretto dal maestro Ciro Visco che ha sfoggiato omogeneità timbrica, chiarezza di dizione e ottima precisione musicale anche nel dialogare con i solisti. La serata ha avuto un inizio simpaticamente turbolento a causa dell’improvvisa indisposizione vocale che ha colpito Paolo Bordogna interprete del ruolo di Mustafà il quale è stato validamente e assai prontamente sostituito dalla metà del primo atto da Adolfo Corrado previsto nel secondo cast. Questi con voce importante, assolutamente adatta alla parte, sostenuta da una bella presenza scenica e da una recitazione spigliata, varia e mai stereotipata ha in poche battute saputo riprendere il filo espressivo della recita ed ha caratterizzato un ritratto del suo personaggio assolutamente convincente. I nostri auguri di buona convalescenza e pronta guarigione a Paolo Bordogna, interprete rossiniano esperto e collaudato. Chiara Amarù dal canto suo ha proposto una Isabella musicalmente raffinata e sfaccettata con varietà di accenti, di intenzioni esecutive e un bel timbro vocale. Molto bravo è stato anche il tenore Dave Monaco nell’acrobatico ruolo di Lindoro, tanto sicuro nelle agilità quanto poetico ed ispirato nei cantabili. Taddeo vocalmente ineccepibile e scenicamente assai piacevole a dispetto di una fisicità imponente ma usata con grande intelligenza scenica è stato interpretato dal baritono georgiano Misha Kiria. Infine tutti e tre molto bravi gli allievi del progetto “Fabbrica” rispettivamente Maria Elena Pepi Zulma, Jessica Ricci Elvira e Alejo Alvarez Castillo Haly. Applausi a scena aperta nei momenti più attesi e soprattutto al termine di una serata vivace, allegra e piacevole come si conviene ad una delle opere più elettrizzanti del repertorio. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

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    Roma, Teatro dell’Opera: “L’Italiana in Algeri” (Cast Alternativo)

    Sab, 07/06/2025 - 17:19

    Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2024-2025
    “L’ITALIANA IN ALGERI”
    Dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli
    Musica di Gioachino Rossini
    Isabella LAURA VERRECCHIA
    Lindoro ANTONIO MANDRILLO
    Mustafà ADOLFO CORRADO
    Taddeo VINCENZO TAORMINA
    Elvira JESSICA RICCI
    Zulma MARIA ELENA PEPI
    Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO
    Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
    Direttore Sesto Quatrini
    Maestro del Coro Ciro Visco
    Regia Maurizio Scaparro
    Regia ripresa da Orlando Furioso
    Scene Emanuele Luzzati
    Costumi Santuzza Calì
    Luci Vinicio Cheli
    Allestimento Teatro Massimo di Palermo
    *Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
    Roma, 6 giugno 2025
    L’allestimento firmato da Maurizio Scaparro, con le iconiche scenografie di Emanuele Luzzati si configura come una proposta visivamente coerente ma sostanzialmente immobile dal punto di vista drammaturgico. La scena, costruita su una stilizzazione orientaleggiante, appare più come un fondale illustrativo che come un vero spazio d’azione: un contenitore pittorico bidimensionale, capace di affascinare l’occhio ma incapace di modulare spazi relazionali o tensioni narrative. La regia, ripresa da Orlando Furioso, segue fedelmente l’impianto originario, ma rinuncia a ogni articolazione ritmica, gestuale o psicologica fra i personaggi, riducendosi a una sequenza di entrate e uscite secondo logiche più musicali che teatrali. Manca un disegno registico che sfrutti la partitura come motore d’invenzione scenica, e la direzione attoriale è lasciata all’iniziativa individuale degli interpreti. Il tempo scenico, privo di dinamiche interne o mutamenti d’energia, scorre in modo uniforme, senza scarti né contrappunti. Alle criticità strutturali si somma un impianto visivo non sempre coeso: le luci di Vinicio Cheli, affidate a una gestione apparentemente casuale e disordinata, risultano spesso scollegate dall’azione, accentuando la piattezza dell’impianto visivo e compromettendo la leggibilità drammatica dei momenti chiave. I costumi di Santuzza Calì, sebbene ricchi nella fattura e coerenti con l’impronta decorativa generale, mostrano una certa patina polverosa, che li rende più evocativi di un passato teatrale remoto che non realmente funzionali a una scena viva e attuale. In assenza di un autentico motore registico, la responsabilità di sostenere la vitalità dell’azione ricade interamente sulla qualità musicale dell’esecuzione e sull’intelligenza interpretativa del cast, chiamato a rianimare un impianto visivo affascinante ma ormai cristallizzato in una dimensione museale. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Sesto Quatrini ha impresso alla partitura rossiniana una direzione lucida, sorvegliata, priva di autocompiacimenti. Il suo Rossini evita tanto il rischio della caricatura ritmica quanto quello, opposto, della sterilità accademica: ne risulta un tessuto musicale terso, nervoso ma sempre controllato, in cui la mobilità delle agogiche trova senso nella necessità scenica, non in un mero vezzo interpretativo. Le complesse architetture dei concertati e la tessitura dei recitativi accompagnati, spesso insidiosi per equilibrio e coesione, sono state affrontate con una chiarezza strutturale che ha fatto emergere l’intelligenza teatrale del gesto direttoriale, più analitico che empatico. L’orchestra ha risposto con una resa sonora precisa, levigata: archi dal profilo affilato ma non esangue, legni scintillanti e puntuali, una pasta timbrica che, senza mai imporsi, ha saputo sostenere e rifinire l’impianto vocale con discreta efficacia. Il giovane basso pugliese Adolfo Corrado ha affrontato il ruolo di Mustafà con autorevolezza vocale e una sorprendente maturità interpretativa. La voce è ampia, salda nel registro grave, con un’emissione ben appoggiata e timbro compatto, che ben si adatta all’autorità del Bey. L’agilità — pur non ancora virtuosistica — si dimostra ordinata e ben scolpita, specie nelle sezioni sillabate come Già d’insolito ardore. Laura Verrecchia, Isabella, conferma una salda aderenza alla tradizione rossiniana, sostenuta da una tecnica solida e da una musicalità interiorizzata. La linea di canto si sviluppa con equilibrio: i gravi risultano appoggiati e ben timbrati, gli acuti emessi con naturalezza e senza grandi tensioni, mentre le agilità scorrono con nitore e misura, sempre al servizio del senso drammaturgico. In Cruda sorte, la gestione dei fiati e la qualità del legato contribuiscono a un’esecuzione stilisticamente ineccepibile, mai compiaciuta. La dizione è accurata, il fraseggio consapevole e ben modulato, a favore di un’ Isabella tratteggiata con autorevolezza più che civetteria.  Antonio Mandrillo, tenore di timbro chiaro e luminoso, affronta il ruolo di Lindoro con garbo stilistico e una linea vocale ben rifinita. L’emissione è sempre ben sostenuta sul fiato, l’agilità scorre con naturalezza, e in Languir per una bella spiccano un legato curato e una puntuale articolazione del fraseggio, culminante in puntature acute affrontate con disinvoltura. Nella prima parte della recita traspare una certa emozione, con qualche lieve incertezza, poi superata da una progressiva sicurezza interpretativa. Permane una certa disomogeneità volumetrica nel registro centrale, che negli insiemi tende a smarrirsi, ma la cura ritmica e l’intenzione musicale rendono nel complesso la sua prova tra le più eleganti e stilisticamente centrate. Vincenzo Taormina delinea un Taddeo equilibrato e musicalmente consapevole, sostenuto da una voce ancora solida e da un fraseggio articolato, con sillabato e parlato ritmico gestiti secondo la miglior tradizione rossiniana. Jessica Ricci, nei panni di Elvira, convince per il timbro chiaro, l’emissione stabile e un fraseggio curato, riuscendo a valorizzare con eleganza vocale un ruolo secondario. Meno misurata, invece, appare la sua presenza scenica, complice una regia che la agita eccessivamente, togliendole naturalezza. Maria Elena Pepi offre una Zulma ben rifinita, con buona linea di canto, dizione nitida e senso dell’ensemble. Alejo Alvarez Castillo, giovane Haly, mostra proiezione efficace e basi tecniche sicure, pur con una timbrica ancora in fase di maturazione. Di rilievo il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, per compattezza, articolazione e precisione ritmica. Un insieme vocale coeso e stilisticamente centrato, che restituisce la scrittura rossiniana con rigore tecnico e gusto teatrale, sebbene penalizzato da una regia che li vede in scena un po’ disordinati, privi di caratterizzazione e di un reale senso scenico. Il pubblico ha applaudito con misura e intelligenza. Qualcuno, però, ha preferito scappare prima dei saluti finali: forse il richiamo di un calice al tramonto era più forte del rispetto per chi era in scena. In fondo, l’eleganza non si compra con lo spritz.  Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

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      Categorie: Musica corale

      Carlo Alessandro Landini (1954): “Piano Sonata n. 8” – “Cello Sonatas Nos. 1 & 2”

      Sab, 07/06/2025 - 15:43

      Carlo Alessandro Landini: Piano Sonata n. 8.
      Massimiliano Damerini (pianoforte).
      T. Time: 45′ 86″. 1 CD Da Vinci Records 7.46160917474
      Carlo Alessandro Landini: “Cello Sonatas Nos. 1 & 2”.
      Guido Parma (violoncello). Giovanni Capatti (pianoforte).
      Registrazione: Giugno 2015, presso il Salone del Conservatorio G. Nicolini di Piacenza.
      1 CD Da Vinci Records 7.46160915605
      Figura poliedrica, dal momento che oltre ad essere un compositore di livello internazionale è anche un prolifico saggista, Carlo Alessandro Landini, che è stato allievo di Bettinelli per la composizione e di Rattalino per il pianoforte, si è imposto nel mondo musicale con la conquista del primo premio presso il concorso Lutosławski di Varsavia nel 2007. Di Landini, famoso per aver composto tra il 2012 e il 2015, una Sonata per pianoforte di rara lunghezza con le sue 653 pagine e la sua durata variabile che può arrivare fino a 6 ore,  sono presentati in questa doppia proposta discografica dell’etichetta Da Vinci Records, la Sonata n. 8 per pianoforte e le due Sonate per violoncellopianoforte. La Sonata n. 8 conferma l’attitudine del compositore italiano a scrivere lavori di grande impegno e di grande proporzioni con  i suoi ben 9 movimenti, nei quali troviamo anche forme rinascimentali e barocche come il Ricercare e la Gagliarda. Splendida l’esecuzione da parte del compianto Massimiliano Damerini, scomparso improvvisamente il 20 luglio 2023 pochi giorni dopo il recital in occasione del quale è stata registrata la Sonata.  Questa incisione ha dunque un valore storico di eccezionale importanza.
      Anch’esse opere di grande impegno, in quanto costituite entrambe da due movimenti (Adagio, Presto) dal respiro sinfonico che dal punto di vista compositivo si basano sulla scala ottotonica. Molto belli sono gli Adagi, caratterizzati da liriche melopee estremamente espressive, mentre di carattere virtuosistico sono i movimenti veloci. Di ottimo livello l’esecuzione da parte di Guido Parma (violoncello) e Giovanni Capatti (pianoforte). I due artisti, dotati di entrambi di una solida tecnica, si integrano perfettamente e il pianoforte non soverchia mai il suono del violoncello che emerge in tutta la sua bellezza nei movimenti lenti grazie alla splendida cavata di Guido Parma.

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        Categorie: Musica corale

        Roma, Piazza Augusto Imperatore: “Riapre la piazza intorno al Mausoleo di Augusto”

        Sab, 07/06/2025 - 11:58

        Roma, Piazza Augusto Imperatore
        PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE INAUGURA MA ATTENDE IL SUO MAUSOLEO
        Roma, 06 giugno 2025
        Roma non è una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi“, scriveva Alberto Sordi con l’ironia del flâneur disilluso. Ma se anche Sordi oggi tornasse a calcare le lastre levigate della nuova Piazza Augusto Imperatore, forse si chiederebbe dove sia finito quel salotto. Perché la piazza, dopo un intervento durato anni, finalmente riapre, con tutte le carte in regola: travertino a vista, cordonate che scendono, impianti all’avanguardia e musealizzazione promessa. Eppure, qualcosa sfugge. Come se la Roma raccontata in punta di scalpello avesse perso il gusto di raccontarsi anche in punta di lingua. Il progetto è di quelli importanti: restituisce visibilità e dignità a uno dei luoghi più simbolici della città, attorno al quale si sono stratificati duemila anni di potere, memoria e propaganda. Il Mausoleo di Augusto, cuore ideologico della nuova piazza, non è solo un sepolcro imperiale, ma un dispositivo narrativo potente: da Augusto a Mussolini, ogni epoca lo ha usato per dirsi immortale. Ora tocca a noi, e lo facciamo con buone intenzioni e mezzi consistenti: quasi 13 milioni di euro totali, tra restauro e musealizzazione, grazie all’impegno congiunto di Roma Capitale, Fondazione TIM e Gruppo Bvlgari. C’è anche Rem Koolhaas coinvolto, e questo ci rassicura: Roma continua ad attrarre i giganti dell’architettura globale. Ma è proprio qui che si annida il sospetto: non è che stiamo costruendo una narrazione troppo perfetta? Non è che rischiamo di trasformare la città in un dispositivo estetico, impeccabile ma disabitato? La nuova piazza è bella, certo. Ma è viva? Il dubbio è legittimo. Come spesso accade nei progetti di rigenerazione urbana, la bellezza diventa cornice, e l’uso reale dello spazio resta una variabile incerta. Siamo di fronte a un luogo pubblico o a un salotto per turisti? A rendere più complesso il quadro contribuisce la memoria architettonica del sito. Negli anni Trenta del Novecento, Vittorio Morpurgo isolò il Mausoleo in un gesto monumentale, togliendogli il respiro urbano per consegnarlo all’eternità di un’ideologia. L’operazione odierna tenta una mediazione: riporta la piazza alla fruizione pubblica, ricuce quote e livelli, abbatte barriere architettoniche, e punta a reinserire il Mausoleo nel tessuto cittadino. Ma, nella sostanza, non è forse ancora una volta l’idea stessa di città a essere imbalsamata? Il percorso museale previsto per il 2026 promette molto: ambienti interni rinnovati, impianti discreti, cipressi sostituiti, una nuova passerella pensile tra via dei Pontefici e Palazzo Correa. Sembra tutto pensato per non disturbare, per controllare ogni frammento di visita, ogni sguardo, ogni umidità. Ma dov’è finita la sorpresa? L’imprevisto? L’emozione di inciampare nella storia? Certo, la partecipazione di Fondazione TIM e Bvlgari consente un respiro finanziario altrimenti impensabile. E il mecenatismo, se intelligente, può essere strumento nobile. Ma è difficile non notare come il linguaggio adottato dalle istituzioni sia più vicino a quello di una campagna promozionale che a un atto culturale. Si parla di “ponte tra passato e futuro“, di “visioni condivise“, di “impatti positivi“. Tutto vero, ma anche tutto liscio, troppo liscio. Un monumento è anche conflitto, interrogativo, frizione. È la città che ci costringe a domandarci chi siamo. Non solo cosa mostriamo. La nuova Piazza Augusto Imperatore è senza dubbio un successo ingegneristico e architettonico. Ma una piazza non vive di pietre. Vive di sguardi, di attraversamenti, di relazioni. Roma, per restare Roma, deve continuare a essere abitata nel pensiero e nella dissonanza, non solo contemplata. E allora forse è giusto restituire la parola a chi conosce la città come una lente sul mondo. “Roma è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio“, scriveva Giotto Dainelli. Ma per non ridurla a un’eco senz’anima, il desiderio deve restare vivo. Anche, e soprattutto, tra le mura di un sepolcro. Photocredit Monkeys Video_Lab

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          Napoli, Teatro di San Carlo: “Il matrimonio segreto” dall’11 al 17 giugno 2025

          Ven, 06/06/2025 - 17:05

          Napoli, Teatro di San Carlo
          “IL MATRIMONIO SEGRETO”
          Dall’11 al 17 giugno 2025
          , al Teatro di San Carlo, va in scena Il matrimonio segreto: dramma giocoso in due atti di Domenico Cimarosa su libretto di Giovanni Bertati, tratto dalla commedia The clandestine marriage di George Colman il Vecchio e David Garrick. La Prima è l’11 giugno 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 12 giugno, 13 giugno, 14 giugno, 15 giugno, 17 giugno 2025.
          Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Francesco Corti. La regia e le scene sono di Stéphane Braunschweig, con costumi di Thibault Vancraenenbroeck e luci di Marion Hewlett.
          Il cast è costituito da Solisti dell’Accademia di Canto lirico del Teatro di San Carlo. Nel ruolo di Geronimo: Yunho Eric Kim (11, 13, 15) / Sebastià Serra (12, 14, 17). Elisetta è, invece, interpretata da: Anastasiia Sagaidak (11, 13, 15) / Tamar Otanadze (12, 14, 17). Nel ruolo di Carolina: Maria Knihnytska (11, 13, 15) / Désirée Giove (12, 14, 17). A interpretare Fidalma sono, invece: Sayumi Kaneko (11, 13, 15) / Antonia Salzano (12, 14, 17). Il conte Robinson è interpretato da: Antimo Dell’Omo (11, 13, 15) / Maurizio Bove (12, 14, 17). Nel ruolo di Paolino: Sun Tianxuefei (11, 13, 15) / Francesco Domenico Doto (12, 14, 17). Nuova produzione del Teatro di San Carlo. Qui per tutte le informazioni.

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            Roma, Teatro Torlonia: “La lente oscura”

            Gio, 05/06/2025 - 23:59

            Roma, Teatro Torlonia
            LA LENTE OSCURA
            dai testi di Anna Maria Ortese
            con Francesca Piccolo e Federico Gariglio
            regia di Lucia Rocco
            musiche di Ran Bagno
            video di Alessandro Papa
            produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
            Roma, 03 giugno 2025
            V’è nel teatro, quando osa affacciarsi sul terreno sdrucciolevole della letteratura non teatrale, un duplice imperativo: rispettare la materia che si maneggia e insieme trasfigurarla, come si fa con le cose amate. La Lente Scura, allestita al Teatro Torlonia con la regia di Lucia Rocco, riesce in questo doppio movimento: non trasforma Ortese in altro da sé, ma ne restituisce, incarnandola, la voce errante, la visione turbata, lo sguardo ferito e profetico. Anna Maria Ortese non scriveva per piacere al lettore, né per edificare lo spirito. Scriveva per necessità, come si scrive per respirare. La sua “lente scura” — titolo della raccolta da cui lo spettacolo prende forma — è l’occhio deformante e salvifico con cui attraversava il mondo: non filtro estetico, ma disvelamento critico; non stile, ma ferita. Lucia Rocco ne fa l’elemento guida di una regia rarefatta, densa di chiaroscuri, che non illumina per rivelare, ma vela per suggerire. A incarnare questa lente — vetro opaco di malinconia e protesta — sono Francesca Piccolo e Federico Guariglia, discreti e rigorosi traghettatori di parola. Non interpretano, non si sostituiscono alla scrittrice: l’accompagnano, con passo rispettoso, dentro un paesaggio fatto di rovine urbane e cieli superstiziosi. La Roma degli anni ’50 non è mai sfondo, ma carne dolente e muta, organismo in cui si annida l’ambiguità del vivere. È una città abbagliante che produce ombre spesse, come le chiama la regista. Ed è proprio in quelle ombre che si aggira la Ortese, nomade per destino più che per scelta, guidata — scrisse — da “certi segni misteriosi, come paletti affioranti dalla laguna”. Lo spettacolo è percorso da questa tensione: l’impossibilità di abitare davvero il mondo, il bisogno bruciante di radicarsi, e l’inesorabile condanna allo sradicamento. La parola ortesiana, nel fluire delle voci e della scena, si fa scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante, come la definì lei stessa. Non c’è linearità, non c’è percorso, non c’è centro. C’è un respiro smarrito, una continua deviazione. E in questa deviazione si annida la bellezza più inquieta. I suoni di Ran Bagno non accompagnano, ma sussurrano da lontano: sono echi, risonanze, memorie sonore. Le immagini video di Alessandro Papa non mostrano, evocano: frammenti di un mondo che si intravede più che si vede. Tutto nello spettacolo sembra costruito per farci camminare a fianco della scrittrice, come un’ombra, come un’eco che si crede corpo. Nel testo teatrale — come nella raccolta originaria — si ritrovano reportage da città e paesi attraversati dall’autrice tra il 1939 e il 1964: Roma, Genova, Napoli, la Russia sovietica, la Londra degli esili e dei gatti randagi. Nessun ordine cronologico, nessuna coerenza tematica: solo lo zigzagare di un’anima che cerca invano una dimora. Il teatro restituisce con misura questa geometria inquieta, dove la struttura del racconto è franta, e il senso si forma nella fenditura. Ortese non viaggiava per conoscere, ma per sopravvivere. Il viaggio non era esperienza, ma necessità emotiva, quasi nevrotica. Una stanza da affittare diventava pretesto per l’esilio; un biglietto ferroviario Milano-Napoli-La Spezia un cortocircuito di logica e memoria. La scena riflette questa instabilità: anche lo spettatore è chiamato a perdersi, a non riconoscere più l’asse del mondo, a interrogare ciò che fino a poco prima pareva solido. Si staglia così, nel cuore dello spettacolo, la grande ossessione ortesiana: il desiderio di patria. Ma non una patria geografica, politica, culturale. Piuttosto una patria interiore, fatta di “Occhi – Occhi – Occhi e Voci dolci, umane, chiarissime”. La patria che si cerca nella voce spezzata di una ragazza pugliese, nelle mani di un mendicante a Parigi, nella furia dolente dei figli dei briganti a Montelepre. Ed è questa patria — mai trovata, eternamente inseguita — a diventare l’unico possibile approdo. Il teatro, qui, si fa appunto luogo di passaggio, non di approdo. Non promette verità, ma ne mostra la mancanza. E in questo si avvicina profondamente alla Ortese, che scriveva non per dire il vero, ma per indicare il vuoto dove il vero avrebbe potuto essere. Merito alla regista per aver costruito una drammaturgia che rifugge ogni enfasi, ogni estetismo, ogni pedagogia. La parola è lasciata nella sua nudità incerta, nel suo silenzio carico di senso. Il ritmo è lento, contemplativo, spigoloso come un paesaggio interiore. La scena è abitata dal vuoto più che dalla presenza, come la pagina ortesiana è abitata dall’invisibile. Ne esce un’esperienza teatrale che non consola, non rassicura, ma risveglia. Un teatro che si fa letteratura vissuta, in carne e voce, e che — come la prosa ortesiana — preferisce trasfigurare la realtà in quadro visionario, fatto di metafore, ossimori, e marginalità. Un teatro che accetta di non possedere risposte, e che proprio per questo — nel nostro tempo rumoroso e saturo — appare più che mai necessario. La conclusione del ciclo Racconti Romani trova dunque nella Lente Scura il suo epilogo più alto e doloroso. Non un trionfo, ma un congedo. Non un acuto, ma un sussurro. Come l’utopia ortesiana che resta, sola, a vegliare “sui paesi deserti e campagne mute, mentre i convogli del tempo continuano a inseguirsi”. Teatro e scrittura si fondono qui nella forma più nobile della testimonianza: quella che sa, in fondo, che il mondo non si cambia con le verità, ma con gli sguardi che osano nominarlo nella sua insopportabile nudità.

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              Roma, Villa Bonaparte: “Roma e la musica francese intorno a Pauline e Caroline Bonaparte”

              Gio, 05/06/2025 - 19:28

              Roma, Villa Bonaparte
              Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
              ROMA E LA MUSICA FRANCESE INTORNO A PAULINE E CAROLINE BONAPARTE
              Musiche di Adolphe Adam, Felice Blangini, Ferdinand Hérold, Auguste Panseron, Pierre Gaspard Roll, Ambroise Thomas
              Ensemble In Canto
              Chiara Osella, mezzo-soprano
              Vincenzo Bolognese, violino
              Fabio Angelo Colajanni, flauto
              Silvia Paparelli, pianoforte
              Ricerca storica e musicologica: Élodie Oriol
              Direzione artistica: Silvia Paparelli
              In collaborazione con l’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
              Evento promosso da S.E. la Sig.ra Florence Mangin
              con la partecipazione del Sig. Pino Adriano
              evento realizzato in collaborazione con l’associazione Roma Barocca in Musica, presediuta da Regis Nacfaire de Saint Paulet
              Roma, 05 giugno 2025
              «La musica è l’unica arte che entra nell’anima senza passare dall’intelletto» – scriveva Stendhal, fedele interprete di un’epoca in cui il suono non era semplice abbellimento della vita, ma sua fibra più sottile e necessaria. Era la musica a plasmare i ritmi della conversazione, a fondare il tono delle relazioni sociali, a definire lo spazio della grazia e dell’intimità. Ed è a questa precisa visione estetica e civile che si è ispirata la soirée musicale intitolata “Roma e la musica francese intorno a Pauline e Caroline Bonaparte”, tenutasi nella cornice storicamente carica ed emotivamente intensa di Villa Bonaparte, sede dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. L’iniziativa, parte di un più ampio percorso di incontri musicali di alto profilo promossi nel corso degli ultimi mesi, è stata ideata e sostenuta da S.E. la Sig.ra Florence Mangin, ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, abilmente affiancata dal consorte Pino Adriano: due figure unite non solo dalla vita diplomatica, ma da un’autentica passione per le arti. Attraverso questi appuntamenti, il loro impegno ha saputo trasformare la sede diplomatica in un vero e proprio presidio di cultura viva, dove l’ascolto musicale diventa pratica di cittadinanza estetica e forma di memoria condivisa. Il titolo della serata non è un semplice omaggio alle figure di Pauline e Caroline Bonaparte, ma un invito a riconsiderarne il ruolo nella costruzione del paesaggio artistico e musicale dell’epoca. Entrambe sorelle dell’Imperatore, furono protagoniste attive della cultura europea del primo Ottocento, capaci di coniugare la dimensione politica con una raffinata sensibilità estetica. Pauline, che fece di Villa Bonaparte il proprio rifugio romano, la trasformò in un centro mondano e intellettuale, frequentato da artisti, scultori, poeti e compositori, dando corpo a un’idea di bellezza permeata da classicismo e malinconia. In lei la musica agiva come risonanza di un ideale perduto, come prolungamento di un’identità in bilico tra nostalgia imperiale e desiderio di armonia. Caroline Bonaparte, regina di Napoli accanto a Gioacchino Murat, fu invece donna di governo e stratega culturale. Appassionata soprattutto d’opera, usava la musica non solo per l’intrattenimento della corte ma come forma di comunicazione intima, politica, personale. Numerose fonti testimoniano come considerasse la musica una vera fonte di felicità, tanto da organizzarne regolarmente l’esecuzione nei suoi palazzi napoletani. Per lei, la musica era luogo di espressione sentimentale, ponte affettivo con il marito, strumento di sofisticata eleganza e allo stesso tempo di prossimità emozionale. A restituire in forma sonora questi mondi evocati è stato il prezioso contributo dell’Ensemble In Canto, composto dalla voce mezzosopranile di Chiara Osella, il violino di Vincenzo Bolognese, il flauto di Fabio Angelo Colajanni e il pianoforte di Silvia Paparelli, anche direttrice artistica del progetto. La serata, curata sul piano storico e musicologico da Élodie Oriol, si è distinta per la qualità dell’esecuzione e per la coerenza di un repertorio che ha saputo evocare con misura e profondità il clima musicale dell’età napoleonica e post-napoleonica. In programma autori spesso trascurati ma cruciali per comprendere la fioritura del repertorio vocale da camera tra Francia e Italia nella prima metà del XIX secolo: Adolphe Adam, Ferdinand Hérold, Ambroise Thomas, Felice Blangini, Pierre Gaspard Roll, Auguste Panseron. La scelta delle composizioni non ha privilegiato la mera esibizione virtuosistica, bensì quella scrittura intima e cesellata che definisce il gusto dell’epoca: una musica fatta di accenti misurati, melodie chiare, armonie pulite e un’attenzione costante al rapporto tra parola e suono. Blangini, di origine italiana ma attivo alla corte francese, fu autore di romanze soavi, costruite su un equilibrio raffinato tra eleganza armonica e melodia fluida, concepite per salotti aristocratici in cui la musica era parte integrante del vivere. Adam e Hérold, più noti per i loro lavori teatrali, emergono qui in una veste domestica e raccolta: i loro brani da camera rivelano una scrittura sottile, attenta alle sfumature timbriche e al fraseggio, con una vocalità levigata e duttile. Le pagine di Thomas, già intrise di un certo lirismo romantico, si distinguono per il disegno melodico che guarda oltre la tradizione settecentesca verso una forma di cantabilità più articolata, a tratti pre-berlioziana. Meno noti ma sorprendenti, Panseron e Roll si sono rivelati autori di autentiche miniature musicali, in cui la voce è accompagnata da linee strumentali capaci di rarefazione lirica o brio arguto, a seconda del testo e dell’ambito espressivo. Proprio in questi brani si è potuta apprezzare appieno la qualità dell’ensemble: la voce di Chiara Osella, morbida e ben proiettata, ha saputo adattarsi con flessibilità ai diversi caratteri delle arie; Bolognese e Colajanni hanno dialogato con equilibrio e raffinatezza con il pianoforte, offrendo un tappeto sonoro coeso e suggestivo, mentre la Paparelli ha guidato l’intero impianto musicale con controllo poetico e discreta autorevolezza. La serata ha così offerto non soltanto un’immersione nella musica del tempo, ma anche una riflessione profonda sul suo significato: come gesto politico, come veicolo affettivo, come narrazione interiore. In un’epoca in cui la diplomazia sembra dover continuamente reinventare i suoi linguaggi, questa rassegna dimostra che l’arte – e la musica in particolare – può ancora essere uno strumento di verità e riconciliazione, uno spazio di ascolto in cui le storie passate trovano eco nelle emozioni presenti. Villa Bonaparte, con i suoi spazi stratificati dal Rinascimento al Neoclassicismo, si conferma teatro privilegiato di questa topografia sentimentale del suono, dove Roma e Parigi si incontrano non per celebrare il potere, ma per dare voce alla bellezza. Photocredit Pierluca Ferrari

               

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                Prosegue alla Scala la Tetralogia wagneriana. “Siegfried” in scena dal 6 al 21 giugno 2025.

                Mer, 04/06/2025 - 16:14

                Prosegue con la seconda giornata il Ring scaligero alla regia da David McVicar e con l’alternanza sul podio di Simone Young (6, 9 e 13 giugno) e Alexander Soddy (16 e 21 giugno). Il terzo episodio della Tetralogia introduce il personaggio di Sigfrido, il figlio dei fratelli Siegmund e Sieglinde cresciuto nell’antro dell’infido Mime e chiamato a riforgiare la spada Nothung con cui ucciderà il drago Fafner, custode del tesoro, prima di liberare Brünnhilde dall’incantesimo del fuoco. Un giovane che non conosce la paura protagonista di un intreccio fiabesco in cui ricorrono il sentimento della Natura e gli ostacoli da superare, fino all’incontro con la Valchiria che per lui rinuncia alla sua natura divina. Siegfried è il trionfo di una giovinezza selvaggia e indomabile, libera dalla colpa dell’egoismo che ha macchiato il vecchio mondo che la su forza vitale è destinata a sconvolgere. Wagner fonde magistralmente il poema basso medioevale del “Nibelungenslied” (XIII secolo) con la tradizione islandese dell’Edda di Snorri – direttamente citate nel lungo incontro tra Mine e il Viandante nel I atto – e dei canti dell’Edda poetica in una cornice di fiaba iniziatica perfettamente definita nelle sue strutture portanti.
                A vestire i panni dell’eroico velside sarà Klaus Florian Vogt che bissa dopo aver interpretato negli scorsi mesi il ruolo di Siegmund. In quest’estate Vogt rivestirà i panni del Siegfrid al Festival di Bayreuth sempre sotto la guida di Simone Young. Negli altri ruoli ritroviamo gli interpreti già ascoltati nelle scorse giornate: Michael Volle (Der Wanderer una delle mutevoli personalità di Wotan), Camilla Nylund (Brünnhilde), Ólafur Sigurdarson (Alberich), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Mime), Ain Anger (Fafner) e Christa Mayer (Erda). Nuova nel ciclo wagneriano ma gradito ritorno sul palcoscenico scaligero Francesca Aspromonte – già applauditissima ne “Li zite n’galera” di Vinci – vestirà i panni della Stimme des Waldvogels, l’uccello di bosco di cui Siegfried capirà il linguaggio dopo essersi bagnato nel sangue di Fafner.
                La durata prevista dello spettacolo è di circa cinque ore comprensiva di intervalli. Tutte le recite inizieranno alle ore 18:00. Un’ora prima dell’inizio di ogni recita, presso il Ridotto dei Palchi “A. Toscanini”, si terrà una conferenza introduttiva all’opera tenuta da Raffaele Mellace.
                La rappresentazione del 13 giugno sarà trasmessa in live streaming sulla piattaforma LaScalaTv, le riprese potranno incidentalmente inquadrare il pubblico (in tutto o in parte) e resterà disponibile on demand fino al 20 giugno 2025.

                https://www.teatroallascala.org/it/stagione/2024-2025/opera/siegfried.html

                https://lascala.tv/it/evento/a877a9c1-0987-43ab-8477-f9f2898f0f6e?_gl=1%2af9214o%2a_gcl_au%2aMzU0NDAyOTk1LjE3NDI5Mjg1NzI.

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                  “Ho realizzato il mio sogno”: intervista a Valentina Pescetto, direttrice di fACTORy32

                  Mer, 04/06/2025 - 16:12

                  Milano, si sa, è una piazza teatrale “ultrasatura”, a causa della presenza di teatri più o meno importanti, ma soprattutto di realtà teatrali piccole, quasi improvvisate, off-off, che prendono vita, a volte per il tempo di un paio di stagioni, presso scantinati, attici, proprietà parrocchiali, centri sociali, zone industriali dismesse eccetera eccetera. Nonostante sia vero, questo non si dimostra necessariamente un impedimento affinché queste piccole realtà possano fiorire e, talvolta, distinguersi; ci vuole senz’altro una certa dose di fortuna perché questo avvenga, ma non può mancare nemmeno una generosa dose di talento imprenditoriale ed artistico, di intuizioni comunicative e, senz’altro, di coraggiosa irresponsabilità. Tutte queste doti le abbiamo ritrovate in Valentina Pescetto, giovane attrice e danzatrice genovese formatasi oltreoceano, che nel 2018 riesce ad aggiudicarsi un vecchio deposito di tappeti fra il Naviglio e San Cristoforo, per trasformarlo, nel giro di circa un anno, in fACTORy32, un piccolo polo che si sta dimostrando tra i più vivaci e interessanti dell’intera proposta teatrale meneghina (qui la recensione alla sua ultima produzione). La incontro un pomeriggio: è bella ed emozionata, desiderosa di mostrarmi e narrarmi il suo teatro.
                  Perché il tuo spazio si chiama fACTORy32?
                  Perché volevo un nome che richiamasse direttamente il lavoro dell’attore (che è proprio nel cuore di questa parola), ma anche che mantenesse un contatto col suo passato industriale; inoltre mi piaceva anche fare un omaggio alla Factory di Andy Warhol… E 32 è il numero civico di via Watt in cui ci troviamo, oltre che la mia età nell’anno in cui abbiamo inaugurato lo spazio.
                  Avete aperto a fine 2018 e praticamente dopo un anno è arrivato il Covid, con tutto quello che ne è seguito: come hai fatto a non arrenderti?
                  È stata una sfida davvero rischiosa: anche quando ci era stato concesso di riaprire, le condizioni erano praticamente proibitive. In una settimana ho ideato una rassegna estiva nel cortile del teatro (solitamente adibito a parcheggio) con un piccolo gruppo di artisti di richiamo. La risposta del pubblico fu entusiasmante, con sold out continui e persone che ci ringraziavano per il coraggio. Contemporaneamente abbiamo attivato corsi online che hanno avuto un buon successo, con un numero impressionante di allievi. Questo, ci ha dato davvero la forza di non mollare, e sul lungo termine ha pagato.
                  Questo spazio è molto a contatto con la realtà teatrale americana ed è evidente che tu tenga all’internazionalità della proposta: come hai sviluppato questo legame?
                  Cerco di tenermi più informata possibile, in primo luogo; senza dubbio, poi, l’essermi formata con Larry Moss e Micheal Rodgers – che insegna anche presso i nostri corsi – ha avuto il suo peso: lui mi ha aperto il mondo del teatro americano, sia dei classici (come Williams) sia dei più contemporanei. In questa stagione, ad esempio, abbiamo proposto “Casa di bambola 2” di Lucas Hnath, un testo del 2018, e ha avuto così tanto successo che lo abbiamo riproposto per più date e ne siamo diventati coproduttori.
                  Come hai imparato a coniugare l’aspetto dirigenziale con quello artistico?
                  Non è stato semplice: nonostante siamo una realtà piccola, la parte burocratica, contabile e amministrativa è molto pesante, soprattutto per una tendenzialmente negata in matematica come me! Ma un teatro in realtà è come un’azienda, e per farlo funzionare ho dovuto imparare la parte gestionale, che curo in genere la mattina. Poi, dalle 14, mi dedico invece al mio lato preferito di questo lavoro, cioè quello umano: vengo in teatro, seguo i corsi che facciamo, accolgo gli allievi, e coltivo l’identità dello spazio e le relazioni con chi viene a trovarci.
                  Nell’ascoltarti traspare una grande dedizione al progetto…
                  È la cosa più vera e importante per me: la passione sfrenata che mi ha portato ad aprire fACTORy32 non viene mai meno, anzi, cresce sempre più, man mano che vedo che le persone si affezionano, ritornano, portano altri, dimostrando di apprezzare ciò che proponiamo.
                  Tu dici sempre, quando introduci gli spettacoli, che hai realizzato il tuo sogno – aprire il tuo teatro… quale altro sogno hai ancora da realizzare?
                  Suonerà banale, ma stiamo creando una vera e propria famiglia artistica, che vorrei diventasse un punto di riferimento non solo per la zona, ma per l’intera città. So che è un progetto ambizioso e che si può realizzare solo a lungo termine, ed è per questo che punto tanto sull’internazionalità delle nostre stagioni e collaborazioni: per poter ampliare sempre più il bacino di utenza del nostro spazio e contribuire col nostro servizio alla crescita culturale della città.

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                    Torino, Teatro Piccolo Regio: “The Bear” di Willian Walton

                    Mer, 04/06/2025 - 07:11

                    Torino, Teatro Piccolo Regio: La Scuola all’Opera e In Famiglia 2024 – 2025
                    “THE BEAR“ (L’orso)
                    Extravaganza in un atto. Libretto di Paul Dehn e William Walton dall’omonima commedia di Anton Čechov.
                    Musica di William Walton
                    Elena Ivanovna Popova SIPHOKAZI MOLTENO*
                    Grigorij Stepanovič Smirnov YIORGO IOANNOU
                    Luka  TYLER ZIMMERMAN*
                    La Cameriera  ALESSIA CODA ZABETTA
                    Il cuoco GABRIELE BOCCHIO
                    Orchestra del Teatro Regio di Torino
                    Direttore Marco Alibrando
                    Regia Paolo Vettori
                    Costumi Laura Viglione
                    Scene Claudia Boasso
                    Luci Andrea Rizzitelli
                    Nuovo Allestimento del Teatro Regio di Torino *artisti del Regio Ensemble
                    Torino, 29 maggio 2025
                    Così come al ristorante, dopo il gran pranzo d’occasione, sovraccarico di grassi e calorie, si propone il sorbetto o sgroppino, al Teatro Regio, dopo un massiccio ed ipertrofico Hamlet, sussurrando a bassa voce senza far rumore e senza pubblicizzarlo a dovere, si serve l’effervescente The Bear di William Walton. Operina che è come sorbirsi uno sgroppino di panna inglese, rinforzato con gin e vivacizzato da scorzette di limone dell’isola di Ischia. Non nella sala grande, ma nella ormai desueta cantina, nata per imitazione della Piccola Scala, che solo l’attivismo di Paolo Vettori, il regista in cartellone per la serata, riesce, semel in anno, a risuscitare. Il barocco e i concerti di canto, per cui il luogo era stato voluto, da decenni ormai sono stati esclusi dal Teatro. Tre operine anglofone, in tre anni, è quanto si è potuto vedere. Ora tocca a questo Orso, terza fatica che ancora Paolo Vettori è riuscito ad allestirvi utilizzando le ottime forze “della casa”: la scenografa Claudia Boasso, la costumista Laura Viglione e le luci di Andrea Rizzitelli. La sobrietà e l’economicità dell’allestimento ne fanno peraltro ancor più apprezzare l’ottimo risultato ottenuto. Se mai qualcuno si togliesse la voglia di comparare quanto succede nell’interrato con le sproporzionate spese affrontate per alcuni spettacoli del piano superiore, forse si sorprenderebbe di come, con il budget di un Hamlet, si caverebbero fuori almeno 100 Orsi. William Walton, inglese trapiantato ad Ischia, sempre restio nell’affrontare l’opera, invasa stabilmente oltremanica dall’ottima e invasiva produzione di Britten. Gli pesava poi il relativo successo attribuito a Troilus and Cressida, suo primo lavoro teatrale del 1954, accettò comunque l’invito di Peter Pears, il tenore compagno di Britten, di portare un suo lavoro al Festival di Aldeburgh. La scelta cadde su una pièce teatrale di Čechov da cui, lui stesso con la collaborazione dello sceneggiatore cinematografico Paul Dehn, ricavarono il libretto dell’atto unico. Storia banale: giovane bellezza che, perso il marito debosciato e traditore, si incaponisce a rimanere in gramaglie e a non sostituirlo; le entra in casa, a riscuotere debiti non saldati dallo scomparso, un nerboruto, aitante e danaroso campagnolo; qualche schermaglia a cui seguono qualche equivoco maneggiamento di una pistola e un rimando della cavalcata … nel parco. 50 minuti e poco più di un inglese vaudeville brillante, brioso, sapido per esilarante humor. La musica è strettamente legata alle situazioni, da esse nasce senza esserne né la causa né l’anticipazione. C’è un gatto in casa e il racconto viene pausato dai suoi stiracchiamenti e dai frullii di ali degli uccelletti che cerca di ghermire. Del cavallo, Toby, nella scuderia si intuisce il pestar di paglia e lo sgranocchiar d’avena. L’orchestra del Teatro Regio, con la guida sagace e indefessa di Marco Alibrando, conta pochi archi e fiati ma un gran dispiegamento di percussioni, arpe e pianoforte compresi. Il racconto non potrebbe così essere stato sostenuto con più vivacità e fantasia. Walton conosceva a perfezione il mondo musicale del suo tempo e vi si rifa costantemente. Non si coglie la dodecafonia, che forse c’è, distinti sono però i riferimenti allo Stravinskij delle Noces, agli americani di New York e non solo. Due lunghe litanie, di Grigorij che elenca i debitori, di Elena con le malefatte e le infedeltà del marito si riallacciano alle geremiadi di Falstaff, non per nulla Walton ha elaborato innumerevoli colonne sonore di film shakespeariani. La litania dei debitori sembra ad una processione ortodossa, con ostensione delle sacre icone, vedi Mussorgskij, le malefatte del marito si snodano invece su motivetti da rive gauche e da broadway. Tre i protagonisti vocali, due “della casa” membri dell’Ensemble del Regio, e un ospite: il baritono Yiorgo Ioannou formidabile e rude campagnolo dalla borsa piena e dal cuore tenero. Canta e recita con appropriatezza e vigore, sempre convincente nella parte. L’ambiente piccolo si colma per una voce ben educata e dal piacevole timbro ombreggiato. Siphokazi Molteno è la coprotagonista che veste i panni della vedova Elena. Voce sfogata, di gran temperamento, affronta validamente sia la partitura musicale che il grande impegno scenico. Il regista Vettori ha sicuramente molto curato la recitazione e il maestro Alibrando, oltre all’insieme strumentale, ha meticolosamente seguito il canto fornendone una linea sempre convincente. Figura di contorno Luka, maggiordomo tuttofare, il basso Tyler Zimmerman che ottimamente sostiene recitativi e battibeccanti duetti con i due protagonisti. Figure mute sono la Cameriera Alessia Coda Zabetta e il cuoco Gabriele Bocchio che, ben diretti, mimano azioni e vivacizzano il palcoscenico. Le note di regia giustificano il gigantesco quadrante, parete di fondo della scena, e le numerose grandi clessidre che a noi, nel contesto, paiono più adatti a rappresentare un tempo riacciuffato da parte dei due protagonisti che non al rimpianto per lo spreco di quello passato. Forse per giustificarne la programmazione si è sottolineato il fatto che la produzione fosse nell’ambito dei due cicli La Scuola all’Opera e In Famiglia, con orari alle 16, alle 11 e alle 20. A noi pare che questi giustificativi siano inutili ed impropri: lo spettacolo è bello ed interessante, ben degno di stare in una programmazione principale, pur se accoppiato, per completezza di serata, con un altro atto-unico. L’inglese del testo e il livello “artistico e culturale” della proposta musicale sono tali da pretendere e poi soddisfare anche il pubblico più “scafato”. Nella recita del 29 maggio, causa la mancata informazione, il pubblico era assai scarso.

                     

                     

                     

                     

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                      Categorie: Musica corale

                      Firenze, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino: Cornelius Meister dirige Weber, Berio e Schumann

                      Mar, 03/06/2025 - 16:48

                      Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino
                      Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
                      Direttore Cornelius Meister
                      Mezzosoprano Monica Bacelli
                      Carl Maria von Weber
                      : “Der Freischütz”, Ouverture; Luciano Berio: Folk Songs; Robert Schumann: Sinfonia n. 4 in re minore op. 120
                      Firenze, 30 maggio 2025
                      Prosegue l’interessante programmazione dell’87° Festival e l’altra sera si è assistito alla direzione dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, di Cornelius Meister, apprezzato direttore tedesco insieme a Monica Bacelli, mezzosoprano dal grande carattere interpretativo. Ad aprire il concerto l’Ouverture del Der Freischütz di Carl Maria von Weber, ritenuta da molti studiosi la prima opera romantica tedesca. Dalla prima esecuzione (18 giugno 1821) la celeberrima partitura diventa tra le più amate dai direttori d’orchestra e Wagner la dirige il 4 aprile 1885 a Londra. A chiudere il programma il monumento sinfonico della Sinfonia n. 4 in re minore di Robert Schumann, altra opera studiata e prediletta da molti compositori tra cui Brahms. Incastonati al centro, con un’immersione nel Novecento, i Folk Songs di Luciano Berio nella versione del 1973 per voce e orchestra da camera, ricordo e omaggio al compositore nel centenario della sua nascita. Con il levare della bacchetta di Meister, in un pp (archi insieme al gruppo dei legni, flauti esclusi), in un’alternanza tutti-soli tra le due sezioni e con suggestivi crescendo al f, è stato introdotto il solo dei quattro corni dell’Ouverture e del mondo evocativo di Weber, intuendo altresì il percorso concertante intrapreso dal direttore. Il suo approccio, sempre edificante e collaborativo con il complesso strumentale, è apparso più intento alla valorizzazione del ‘canto’ degli strumenti. Se i vari crescendo e diminuendo dei tremoli degli archi hanno preparato, per esempio, il suono perfetto per il ‘solo’ del clarinetto con molta passione, il successivo passaggio all’arco, l’inserimento e raddoppio dei primi violini ha creato una bellissima fusione di colore volta alla dolcezza, convogliando in un medesimo afflato flauto e fagotto. Il prosieguo, prendendo spunto dal guizzo dei primi violini in crescendo, ha portato verso forti sonorità, similmente alla successiva imitazione dei legni, in un rapporto dialogico e contrastante tra le varie sezioni insieme al Molto vivace nella bellissima progressione in fortissimo realizzata in 4 battute. Meister ha così diretto sostanzialmente la struttura ritmica lasciando all’orchestra il compito di condurre l’ascoltatore verso la fine, in una caleidoscopica varietà di scrittura in cui si è dato spazio al melos e all’ascolto del rapporto più imitativo e/o contrastante tra le varie sezioni in una sintesi di gioia e di stupore. Il capolavoro di questa partitura – condividendo l’idea di molti studiosi nel riuscire ad esprimere il compendio dell’intero lavoro – è espressione di un’edificante dialettica di quell’architettura formale tanto cara ai romantici tedeschi e, più in particolare, al mondo sinfonico di Weber. Con il ciclo dei Folk Songs si scorge l’attrazione di Berio per la musica popolare anche «solo nell’intenzioni», come egli scrive riferendosi a La donna ideale e Ballo, attraverso un microcosmo di varia provenienza geografica. Inoltre i brani rivelano anche l’attenzione per la voce umana tout court qui espressa ed utilizzata nelle diverse forme da Monica Bacelli, autentica domina della scena che ha saputo tradurre l’essenza poetica della musica del compositore. Al direttore, posata la bacchetta, il compito di invitare l’orchestra in un canto collettivo offrendo una lettura cameristica dell’opera, e lasciando all’ispirato mezzosoprano la ‘traduzione’ sonora, citando Berio, nel «suggerire e commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone».
                      Con la Sinfonia n. 4 in re minore di Schumann – il cui organico consta di: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi – si è ritornati allo stesso dell’Ouverture. La successione dei quattro movimenti, oltre ad offrire la fluidità senza interruzione, mostra in itinere un’opera costruita su due idee tematiche percepibili fin dall’introduzione. La sinfonia dal punto di vista dell’architettura musicale presenta la Romanze: Ziemlich langsam ed uno Scherzo: Lebhaft-Trio incorniciati da due movimenti esterni concepiti nella forma sonata (Introduzione: Ziemlich langsam e Finale: Langsam. Lebhaft.Schneller). La composizione è un’autentica varietà degli stati d’animo dell’autore, talmente pregnanti da coinvolgere, per merito di un’ottima interpretazione, anche l’ascoltatore distratto. Già nelle battute iniziali, dopo l’attacco sulla nota la con quasi tutto l’organico (escluse trombe e tromboni), i due fagotti, viole e violini secondi, nell’unirsi al processo di combinazione coloristica, si fondono con un tale equilibrio da produrre un nuovo ed unico colore con un effetto di grande sfumatura. Molto apprezzata inoltre l’espressività del melos ove, portandosi alla conclusione con un diminuendo, ha favorito il nuovo inserimento, valorizzando il colore di ogni strumento e/o di una sezione. In realtà l’orchestra, per tutta la serata e vista la qualità estetica e piacevolezza del programma, è stata coinvolta anche dal punto di vista emozionale, emergendo inoltre un fraseggio chiaro ed efficace. Il direttore, d’altro canto, percepita l’edificante partecipazione della compagine strumentale e l’eccellente livello, ha lasciato esprimere i musicisti con bella cantabilità ed espressione. Ogni suo gesto ha definito con grande nitidezza i molteplici aspetti come cambi di tempo o dinamiche, facendo confluire il tutto nello stile romantico di Schumann grazie ad una significativa concertazione. Non potendo citare i molti ‘soli’ e tutte le prime parti delle varie sezioni che si sono espressi con grande intensità ricordo almeno Fatlinda Thaci, in questa occasione egregia spalla dell’orchestra. Successo meritato per tutti i musicisti e per le interessanti idee musicali di Meister il quale, con una rinvigorita lettura delle tre partiture, è riuscito a coinvolgere tutta l’orchestra in un fiume di emozioni lasciando al pubblico sicuramente il ricordo di un concerto colmo di atmosfere, sensazioni, a tratti anche struggenti e ricche di pathos.

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                        Categorie: Musica corale

                        Alberto Franchetti (1860–1942): “Symphony in E minor” – Ermanno Wolf-Ferrari (1876–1948): “Sinfonia da camera, Op. 8”

                        Mar, 03/06/2025 - 15:50

                        Alberto Franchetti (1860–1942): “Symphony in E minor” – Ermanno Wolf-Ferrari (1876–1948): “Sinfonia da camera, Op. 8“. Orchestra Sinfonica di Roma. Francesco La Vecchia (direttore). Registrazione: 1-2, 8-9 luglio 2011 presso OSR Studios, Roma, Italia (Sinfonia in mi minore) – 12-17 ottobre 1995 presso la Alter Pfarrsaal di Nöttingen (Sinfonia da camera n. 8). T. Time: 73′ 14″. 1 CD Naxos 8.574271
                        Le influenze del sinfonismo tedesco accomunano questi due lavori di compositori apparentemente diversi, Alberto Franchetti ed Ermanno Wolf-Ferrari che sono i protagonisti di questa proposta discografica dell’etichetta Naxos. Del primo è presentata la Sinfonia in mi  minore “Nella foresta nera”  che costituisce il primo lavoro ed anche ultimo sinfonico di grande respiro di Franchetti che in seguito avrebbe dedicato la sua attenzione prevalentemente al teatro musicale. Composta nel 1885 per l’esame conclusivo del corso di composizione che aveva frequentato presso il Conservatorio di Dresda sotto la guida di Felix Draeseke, questa sinfonia, rimasta, come già detto, figlia unica nel catalogo di Franchetti,  si segnala per la perizia acquisita dal venticinquenne compositore, che qui si confronta con una grande massa orchestrale tipica dei lavori sinfonici del tardo Ottocento, e anche per la padronanza della forma-sonata, evidente nel primo (Allegro un poco agitato) e nel quarto movimento (Allegro vivace), che si a apre con un motivo di ascendenza mendelssohniana   Il secondo movimento, Larghetto, è una pagina d’intenso lirismo composta nella forma della canzone, mentre il terzo, chiamato Intermezzo da Franchetti, è in realtà un piacevolissimo scherzo con un trio.
                        Ancora più marcata è in Wolf-Ferrari l’anima tedesca ereditata dal padre originario della Baviera, del quale è qui presentata la Sinfonia da camera, op. 8, composta nel 1901, mentre si trovava a Monaco di Baviera, che mostra dal punto di vista della struttura l’attenzione per una grande forma, come quella sinfonica, qui calata in un contesto da camera, con il pianoforte subito protagonista già nel primo movimento, Allegro moderato, con una formula d’accompagnamento sulla quale si staglia la bella melodia del clarinetto. Splendido è anche il lirico secondo movimento, Adagio, aperto da un tema del fagotto sempre su un accompagnamento accordale del pianoforte, mentre il terzo (Vivace con spirito) è un vivacissimo scherzo. Di grande respiro è infine l’ultimo movimento. Curata l’esecuzione da parte dell’Orchestra Sinfonica di Roma sotto la direzione di Francesco La Vecchia particolarmente esperto nel repertorio sinfonico italiano di questo periodo. Ben curate sono le sonorità sia quando il direttore si confronta con grandi masse orchestrali sia in contesti più intimistici come quelli della Sinfonia da camera di Wolf-Ferrari.

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                          Teatro La Fenice: debutto veneziano per Martin Rajna, con Beethoven e Dvořák

                          Lun, 02/06/2025 - 11:36

                          Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
                          Orchestra del Teatro La Fenice
                          Direttore Martin Rajna
                          Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60; Antonín Dvořák: Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88
                          Venezia, 30 maggio 2025
                          Due capolavori del grande repertorio sinfonico ottocentesco costituivano il programma del recente concerto, che vedeva per la prima volta sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice Martin Rajna, tra i più notevoli giovani direttori ungheresi degli ultimi tempi, nominato nel 2023, appena ventisettenne, direttore principale dell’Hungarian Opera di Budapest. Due sinfonie – la Quarta di Ludwig van Beethoven e l’Ottava di Antonín Dvořák –, che, peraltro, non sono abbastanza conosciute dal grande pubblico, in quanto di fatto eclissate da analoghe composizioni ben più famose, presenti nel catalogo dei rispettivi autori. Dopo aver terminato all’inizio del 1804 l’Eroica, Beethoven si dedicò a una nuova partitura sinfonica in do minore – la futura Quinta –, che sarebbe stata completata solamente all’inizio del 1808: un impegno gravoso, durato quattro anni, che peraltro non impedì al compositore di portare a termine il Quarto concerto per pianoforte, il Concerto per violino, le prime due versioni di Fidelio, né di scrivere interamente un’altra sinfonia, la Quarta, appunto. Quasi un’oasi di serenità fra le monumentali Terza e Quinta, la Sinfonia n. 4 op. 60 è scevra da ambizioni titaniche, percorsa com’è ancora da una grazia settecentesca. Gradita a Schubert – che nelle sue prime Sinfonie seguiva l’esempio haydniano –, fu definita da Schumann “una slanciata ragazza greca fra due giganti nordici”. In effetti, essa rispecchia la leggiadria e gli schemi consacrati della tradizione classica, articolandosi in quattro tempi, di cui il primo preceduto da un’introduzione lenta. Una consuetudine che l’Eroica – aperta quasi immediatamente dal primo tema – pareva aver accantonato per sempre. La Quarta, dunque, rappresenta per certi versi un ritorno al passato – ovviamente come può realizzarlo un genio assoluto –, inserendosi nel solco segnato da Haydn. Il che si ripeterà qualche anno dopo con l’Ottava.
                          Intensamente espressiva ma senza alcuna affettazione, scevra da ogni compiacimento esteriore, attenta a valorizzare il parametro timbrico nella frequente contrapposizione archi-fiati, particolarmente energica nella scansione ritmica è risultata la lettura proposta dal direttore ungherese, impeccabilmente supportato da un’orchestra di ‘solisti’. Un misterioso clima di attesa ha caratterizzato l’Adagio introduttivo fino alle brusche strappate orchestrali, che hanno preceduto l’Allegro vivace, dove sono emersi subito i tratti caratteristici – anche dal sapore ironico – che appartengono a tutta la partitura: l’energia delle cellule ritmiche (sincope ritmica nel primo tema), la contrapposizione fra gruppi strumentali, il rilievo dolcemente espressivo dei legni, la raffinatezza cameristica dei giochi timbrici. Nell’Adagio si è apprezzata la cantabilità delle idee musicali, sostenute da un principio ritmico giambico, che ha conferito unità al movimento. Ancora un principio ritmico, spesso sincopato, è risaltato nel Menuetto – un ritmo binario calato in una misura ternaria, in apertura del terzo movimento, Allegro vivace –, a cui successivamente si è contrapposto il Trio con la cantilena dei fiati. Ha chiuso la Sinfonia un Allegro ma non troppo estremamente brillante, simile nell’impostazione a certi Finali di Haydn, ma con una ruvidezza ritmica e dei contrasti dinamici decisamente accentuati; una conclusione ad effetto ha riaffermato con decisione i contenuti giocosi della partitura. Un’analoga impronta di serenità, di levità, ma anche di teatralità si è colta nella Sinfonia n. 8 in sol maggiore di Dvořák, dove si rispecchia la calma interiore raggiunta dall’autore nella sua fase matura, ormai conscio di essersi conquistato un posto di rilievo nell’ambito del sinfonismo romantico mitteleuropeo. Sebbene seguita, a quattro anni di distanza, dalla celeberrima sinfonia “Dal nuovo mondo” – Nona del catalogo definitivo – questa Ottava in sol maggiore, del 1889, costituisce il vero culmine dell’arte sinfonica dell’autore, e al tempo stesso il punto più avanzato nel processo di sviluppo di una musica nazionale ceca: un punto rispetto al quale la Nona rappresenterà un vero e proprio passo all’indietro. Se Brahms era il suo riferimento più vicino, Dvořák nell’Ottava Sinfonia si riallaccia con naturalezza a Schubert: lo attestano la vena melodica ricca e pregnante, gli squarci evocativi spesso oscillanti fra maggiore e minore, il ritorno ciclico di sezioni tematiche senza sviluppo. Tutti elementi che Rajna ha saputo far apprezzare con la sua straordinaria interpretazione, guidando l’orchestra, sempre encomiabile in tutte le sue sezioni, con gesto stringato quanto incisivo. Ispirato al romanticismo nazionalista slavo, il primo movimento, Allegro con brio, ha affascinato nell’evocare suoni e colori della natura, oltre che di qualche festa paesana: nel tema iniziale, un appassionato cantabile in sol minore, si sono messi in luce i violoncelli, degnamente accompagnati da clarinetti, fagotti e corni; è stata poi la volta del flauto intonando il successivo un motivo gorgheggiante, enunciato dapprima come un’eco lontana della natura e poi dilatato fino a diventare una solenne fanfara, dai colori accesi e squillanti. Nel secondo movimento, Adagio, il paesaggio spirituale si è trasfigurato sconfinando verso l’intimità più raccolta e meditativa, in un alternarsi di stati d’animo: malinconico, fiero, nostalgico, elegiaco. Altamente suggestivo il terzo tempo, Allegretto grazioso, contenente uno degli episodi più memorabili di tutta la produzione di Dvořák: un leggiadro, sognante tema di valzer in minore, che ha preso vigore sul cullante ritmo di 3/8 per divenire a poco a poco, dopo l’affermazione in maggiore del Trio, quasi un’apoteosi della danza. Mirabolante il movimento finale, Allegro ma non troppo, concepito in forma di tema con variazioni: una fanfara di trombe ha richiamato l’attenzione; più oltre un tema di danza ha visto come protagonista il violoncello con contrappunto del fagotto, prima che il tema stesso fosse rielaborato in quattro variazioni; seguivano un motivo di marcia in tre parti e, successivamente, una nuova serie di variazioni più meditative; improvvisa la breve coda conclusiva con l’orchestra in fortissimo. Pubblico entusiasta per il direttore e gli strumentisti.

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                            La Stagione 2025/26 del Teatro di San Carlo: BE LUMINOUS

                            Dom, 01/06/2025 - 23:50

                            È stata presentata la Stagione 2025/26 del Teatro di San Carlo. La Stagione operistica verrà inaugurata, il 6 dicembre 2025, con Medea di Luigi Cherubini. Sul podio, Riccardo Frizza. La regia, invece, verrà affidata a Mario Martone. Nel ruolo eponimo, Sondra Radvanovsky. A interpretare Giasone sarà, invece, Francesco Meli; e nel ruolo di Creonte, Giorgi Manoshvili. La tragedia in tre atti sarà in scena fino al 16 dicembre, e la Prima sarà preceduta da un’Anteprima dedicata ai giovani under 30 (3 dicembre). Le date delle altre repliche sono le seguenti: 10 dicembre, 13 dicembre 2025.
                            La Stagione operistica del Teatro lirico napoletano proseguirà con la prima esecuzione assoluta di Partenope: opera in un atto di Ennio Morricone, in scena il 12 e il 14 dicembre 2025. Alla guida dell’Orchestra del San Carlo: Riccardo Frizza; la regia sarà di Vanessa Beecroft.
                            Gli altri appuntamenti operistici sono i seguenti: Nabucco di Giuseppe Verdi, in scena dal 18 al 31 gennaio 2026; Falstaff di Giuseppe Verdi, in scena dal 15 al 24 febbraio 2026; Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, in scena dallʼ11 al 24 marzo 2026; La bohème di Giacomo Puccini, in scena dallʼ8 al 14 aprile 2026; Werther di Jules Massenet, in scena dal 20 al 26 maggio 2026; Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, in scena dal 14 al 20 giugno 2026; Turandot di Giacomo Puccini, in scena dal 5 al 15 luglio 2026; Aida, opera di Giuseppe Verdi – che, il 6 settembre 2026, verrà eseguita in forma di concerto. Nel ruolo eponimo, Anna Netrebko. Radamès verrà, invece, interpretato da Jonas Kaufmann. Nel ruolo di Amneris, Elizabeth DeShong, e nel ruolo di Amonasro, Luca Salsi. Sul podio, Riccardo Frizza.
                            La Stagione operistica proseguirà con due importanti appuntamenti, due drammi che verranno rappresentati per la prima volta al San Carlo: Mitridate, re di Ponto di Wolfgang Amadeus Mozart, in scena dal 24 settembre al 1 ottobre 2026; e Alcina di Georg Friedrich Händel – dramma musicale che, dal 9 allʼ11 ottobre 2026, verrà eseguito in forma di concerto. Nel ruolo eponimo, Lisette Oropesa; nel ruolo di Ruggiero, Franco Fagioli, e nel ruolo di Bradamante, Varduhi Abrahamyan.
                            L’ultimo appuntamento operistico, della Stagione 2025/26, sarà La Cenerentola: dramma giocoso in due atti di Gioachino Rossini, in scena dal 20 al 27 ottobre 2026.
                            Gli appuntamenti della Stagione Danza del Teatro di San Carlo sono: Lo schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij, dal 20 dicembre 2025 al 4 gennaio 2026; Lo schiaccianoci for families: versione ridotta del balletto con esecuzione su musica registrata, dal 23 dicembre 2025 al 3 gennaio 2026; Soirée Balanchine: Serenade di Pëtr Il’ič Čajkovskij, Le fils prodigue di Sergej Prokofʼevdal 28 aprile al 3 maggio 2026; Coppélia di Léo Delibes, dal 25 al 31 luglio 2026; Boléro: Nuova Creazione, coreografia: Garrett Smith; Maurice Ravel: Boléro, coreografia: Maurice Béjart; Sergej Rachmaninov: Three preludes, coreografia: Ben Stevensondal 5 al 10 novembre 2026.
                            La Stagione di Concerti del San Carlo verrà inaugurata, il 18 novembre 2025, con Dan Ettinger / Asmik Grigorian: il soprano Asmik Grigorian eseguirà celebri brani operistici. Il programma del Concerto: Richard Wagner: Die Meistersinger von Nürnberg, Ouverture; Giacomo Puccini: Madama Butterfly, “Un bel di vedremo”, Manon Lescaut, “Sola, perduta, abbandonata”; Giuseppe Verdi: Macbeth, “Vieni, t’affretta”; Richard Strauss: Salome, Scena finale “Ah! du wolltest mich nicht deinen Mund küssen lasse”. Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Dan Ettinger.
                            Gli altri appuntamenti concertistici sono: Concerto di Natale / Coro del Teatro di San Carlo (4 e 17 dicembre 2025); Riccardo Frizza (24 gennaio 2026, 23 maggio 2026, 27 settembre 2026); Ingo Metzmacher (1 febbraio 2026); Karel Mark Chichon (21 febbraio 2026), Fabio Luisi (14 marzo 2026, 22 marzo 2026); Aigul Akhmetshina (7 aprile 2026); Michele Mariotti (31 maggio 2026); Sondra Radvanovsky / Freddie De Tommaso (21 giugno 2026); Jonas Kaufmann / Ludovic Tézier (17 luglio 2026); Dan Ettinger (11 settembre 2026); Anita Rachvelishvili (2 ottobre 2026).
                            Segnaliamo, inoltre: la Messa da Requiem per soli, coro e orchestra di Giuseppe Verdi, che verrà eseguita il 27 e il 28 febbraio 2026. Concerto in memoria di Roberto De Simone; Gustavo Dudamel / Marina Abramović, 18 e 19 aprile 2026: Igor Stravinskij: Histoire du soldat, Storia da leggere, suonare e danzare in due parti; la cui Concezione Artistica è di Marina Abramović: Manuel de Falla: El amor brujo, un’opera zingaresca in un atto e due quadri, la cui regia è sempre a firma dell’artista; Fabrizio Cassi / Il giovane Verdi (revisione critica a cura di Dino Rizzo), 24 ottobre 2026. Alla guida dell’Orchestra e del Coro del Teatro di San Carlo, Fabrizio Cassi.
                            Qui, per consultare il programma completo (Calendario generale) della Stagione 2025/26 del Teatro di San Carlo e per tutte le altre informazioni.

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                              Madrid, Teatro Real: “Les Indes galantes”

                              Dom, 01/06/2025 - 18:12

                              Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
                              “LES INDES GALANTES”
                              Opéra-ballet in un prologo e quattro quadri su libretto di Louis Fuzelier
                              Musica de Jean-Philippe Rameau
                              Amour / Phani / Fatime / Zima JULIE ROSET
                              Hébé / Émilie / Zaïre / Atalide ANA QUINTANS
                              Valère / Don Carlos / Tacmas / Damon MATHIAS VIDAL
                              Bellone / Osman / Huascar / Ali / Don Alvar ANDREAS WOLF
                              Cappella Mediterranea
                              Choeur de Chambre de Namur
                              Structure Rualité
                              Direttore Leonardo García-Alarcón
                              Maestro del Coro Thibaut Lenaerts
                              Regia e coreografia Bintou Dembélé
                              Costumi Anaïs Durand Munyankindi
                              Luci Benjamin Nesme
                              Drammaturgia Simon Attab
                              Prima rappresentazione al Teatro Real di Madrid
                              Versione in forma semiscenica e coreografica
                              Madrid, 29 maggio 2025

                              L’anello luminoso è il sole, il mondo, il circolo attorno al quale si muove l’intera comunità umana; nel suo movimento, che si sprigiona dal centro, è l’essenza del concerto coreografico con cui Bintou Dembélé traduce Les Indes galantes di Rameau. Giunge a Madrid lo spettacolo che nel 2019 entusiasmò l’Opéra Bastille di Parigi, segnando l’inizio di una collaborazione internazionale tra la coreografa francese e il direttore e clavicembalista svizzero-argentino Leonardo García-Alarcón. È anche la prima volta che quest’opera barocca si esegue al Teatro Real, il che aggiunge un tassello al mosaico sempre più composito del suo repertorio. Le esigenze tecniche dell’allestimento sperimentale di Parigi impediscono la sua esportazione altrove in versione integrale; o meglio, questa è la ragione ufficiale che serve di avvertenza a proposito della selezione dell’opéra-ballet originale che dà corpo alla tournée. Un filologo direbbe che l’obbiettivo è l’eterodossia: non si tratta di un’esecuzione completa, alcuni numeri sono trasposti, non ci sono scene, il coro, gli strumentisti e i solisti occupano tutti gli angoli possibili del teatro e della sala, tranne dove ci si attende che dovrebbero essere (un cronista spagnolo rileva, con stupore malcelato, che la prima voce che si ascolta dopo la sinfonia proviene dal palco centrale, riservato alla famiglia reale!). Eppure, se i suoni si originano dai palchi, dalle gallerie, dai corridoi, è ancora una volta per contribuire all’effetto avvolgente del movimento circolare, questa volta trasformato in musica. Le Turc généreux, Les Incas du Pérou, Les Fleurs e Les Sauvages sono i sottotitoli delle quattro vicende ambientate in un contesto culturale distinto (l’Impero Ottomano, il Perù precolombiano, un giardino orientale di ispirazione persiana e i territori delle popolazioni indigene del Nord America), dove l’amore galante supera ostacoli di gelosia, potere o diversità, per risolversi sempre in modo armonioso. Il tono è colto, elaborato, ma non elitario; anzi, questa specie di fantasia esotica intonata da Rameau è specchio di ciò che l’Europa voleva ritrovare nelle popolazioni degli altri continenti, secondo l’inconfessata illusione di trasportarvi e applicarvi i propri paradigmi sociali ed etici. L’operazione ideata da Dembélé non è eterodossia, bensì volontà quasi disperata di fare della musica di Rameau un corpo vivo e vigile di danzatori, che incarnano la folla urbana di una metropoli occidentale. L’ottimismo del libretto di Louis Fuzelier, con cui si idealizza l’imperialismo illuminato del secolo XVIII, diventa nello spettacolo della Structure Rualité ottimismo della convivenza, afflato di fratellanza che nella musica ritrova un rito di riconoscimento collettivo. Per questo, durante l’ouverture – staccata da García-Alarcón con tempi assai più rapidi del dovuto – i danzatori giungono sul palcoscenico, si salutano, si abbracciano, gestiscono in maniera ritualizzata, appunto perché si preparano alla celebrazione di una liturgia sociale; che non è altro se non la vitalità della musica stessa di Rameau. In tal senso, l’estetica dell’hip hop che riguarda l’abbigliamento e le acconciature non è che l’elemento superficiale di un messaggio coreografico e musicale molto più complesso. Non si può neppure dire, infatti, che Dembélé abbia tramutato Les Indes galantes in un balletto contemporaneo, perché in più momenti i tersicorei non sono sulla scena e in altri si siedono sul palco per ascoltare i cantanti, come per ponderare la distanza che separa il loro vissuto da quello dell’opera di Rameau. Molto più impositivo è il coté tecnico dello spettacolo, con la ruota mobile che sovrasta il centro del palcoscenico e che con i suoi dodici fari illumina ogni spazio del teatro (investendo più volte di luce fredda anche il pubblico), costruendo geometrie luminose e delimitando grandi blocchi di ombra. Sul palcoscenico il direttore si sposta, per avvicinarsi ora all’uno ora all’altro dei tre settori sopraelevati in cui è stata distribuita l’orchestra; ora si siede al clavicembalo ora si rivolge verso la sala, per dare l’attacco agli elementi ubicati nella platea o nei palchi; anche questo, naturalmente, è parte della rappresentazione. Il pubblico di Madrid apprezza il quartetto di solisti che disimpegnano le parti vocali: Julie Roset è il soprano di coloratura che dà voce ad Amour nel Prologo e ad altre tre protagoniste dei quadri successivi; Ana Quintans è il secondo soprano; Mathias Vidal è il tenore a cui spettano i brani maschili più lirici e Andreas Wolf è il basso-baritono dalla voce più ragguardevole di tutto il gruppo. La qualità dell’esecuzione è certamente buona, ma nessuno di loro sfugge del tutto incolume o alle difficoltà del registro acuto (tenore e basso) o alle conseguenze di certa fissità nell’emissione (i due soprani). Magnifica la prova del Choeur de Chambre de Namur preparato da Thibaut Lenaerts, non soltanto per le qualità musicali, ma anche per la destrezza con cui si muove e si confonde con i danzatori della compagnia Structure Rualité. L’intensità e la pulsazione (ma non il conflitto o la violenza esasperata) sono la dimensione principale in cui si svolgono i numeri musicali, tutto sommato rispettosi della narrazione, di cui i figuranti determinano l’impatto visivo; ogni variazione coreografica, comunque, deriva dalla ricchezza della musica e delle sue suggestioni, senza bisogno di alcuna superfetazione. Anche l’apoteosi finale, dopo la celebre chaconne (che persino William Christie si dilettava ad accompagnare con il movimento della propria persona), è interamente affidata all’orchestra, sul palco vuoto di altri elementi, come per riaffermare che la conclusione è nel suono strumentale, armonico e pacificatore. Ottimismo, si diceva all’inizio, o forse, più semplicemente, sincero e incondizionato amore per l’umanità.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid

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                                Roma, Teatro dell’Opera: “Dawson/ León-Lightfoot/ Ekman”

                                Sab, 31/05/2025 - 17:18

                                Roma, Teatro dell’Opera, stagione 2024/2025
                                “DAWSON / LEÓN-LIGHTFOOT / EKMAN”
                                Direttore Thomas Herzog
                                 “CACTI”
                                Musica Joseph HaydnLudwig van BeethovenFranz Schubert (arrangiata e orchestrata da Andy Stein)
                                eseguita da Quartetto Sincronie
                                Coreografia Alexander Ekman
                                ripresa da Ève-Marie Dalcourt
                                Scene e costumi Alexander Ekman
                                Luci Tom Visser
                                Testi Spenser Theberge
                                “SUBJECT TO CHANGE”
                                Musica Franz Schubert (Der Tod und das Mädchen, Quartetto per archi n. 14 in Re minore D 810 del 1824, secondo movimento Andante con moto, arrangiamento di Gustav Mahler del 1894)
                                Coreografia Sol León e Paul Lightfoot
                                Coreografi assistenti Roger Van der PoelChloé Albaret
                                Scene Sol León Paul Lightfoot con la supervisione di Eric Blom
                                Costumi Sol León e Paul Lightfoot con la supervisione di Susanne Stehle
                                Luci Tom Bevoort
                                 “FOUR LAST SONGS”
                                Musica Richard Strauss
                                Coreografia David Dawson
                                Ripetitori Christiane MarchantRebecca Gladstone
                                Scene Eno Henze
                                Costumi Yumiko Takeshima
                                Luci Bert Dalhuysen
                                Soprano Madeleine Pierard
                                Artista ospite Alice Mariani 
                                Interpreti Principali Rebecca Bianchi, Susanna Salvi, Federica Maine, Marianna Suriano, Alessio Rezza, Michele Satriano, Jacopo Giarda
                                Roma, Teatro Costanzi, 23 maggio 2025
                                Avevamo già assistito a Cacti, l’irriverente creazione di Alexander Ekman, nel 2017, sul palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma. Ora, nel contesto del progetto di apertura alla danza contemporanea voluto e promosso da Eleonora Abbagnato, il lavoro ritorna in scena come tassello significativo di un percorso che intende interrogare – non senza ironia e provocazione – le forme, i codici e le aspettative che circondano l’arte coreutica. Realizzato originariamente per il Nederlands Dans Theater 2 nel 2010, Cacti si propone come una raffinata operazione di smontaggio: la danza viene esaminata, sezionata, messa sotto vetro. E il primo elemento a finire sotto processo è proprio il suo impianto narrativo, il desiderio – forse ingenuo – di raccontare una storia attraverso il corpo. Una voce fuori campo suggerisce allo spettatore questioni apparentemente insolubili sulla modalità di esistenza di una forma artistica derivante dal rito in una civiltà contemporanea orientata quasi totalmente sulla dimensione tecnologica. Una danzatrice attraversa orizzontalmente il palcoscenico in una posa di profilo che sembra rievocare l’antico Egitto, mentre in un’atmosfera sfoglia risuona scenicamente l’astrattismo di quadrati bianchi che si compongono in una mutevole scacchiera. Dopo lo spazio e il tempo ad essere indagato è il fondamentale rapporto con la musica, che da accompagnamento – in scena il Quartetto Sincronie su cimenta in musiche di Haydn, Beethoven e Schubert – si trasforma in puro ritmo tribale, imposto dai danzatori con il battito delle mani sul pavimento di quadrati bianchi. E dunque, si passa al movimento, al linguaggio del corpo, che si indirizza verso una emblematica semplicità. I danzatori non sono né più né meno che degli sportivi, e in alcuni loro atteggiamenti nonché nelle loro aderenti tutine il richiamo diventa del tutto esplicito. Certo, anche in una prospettiva storica c’è stato chi come Meyerchold agli inizi del Novecento ha insistito sull’aspetto biomeccanico dell’interpretazione attoriale. E le luci che scendono dall’alto, lo spazio scenico che alle volte si restringe, sembrano condurci sempre più in una dimensione laboratoriale. Qui però prevale un’ironia postmoderna che toglie enfasi a qualsiasi incanto per la modernità. Ecco che mentre i danzatori sembrano volerci ipnotizzare con i loro movimenti, si sente il loro ansimare, il gioco verbalizzato di un’infatuazione per una qualche spettatrice, di un duo si avverte tutto il progressivo comporsi nella fatica e nel reciproco affidarsi dei danzatori, mentre un gatto cade improvvisamente dal soffitto. E per ultimi fanno la loro comparsa i cactus, che talvolta assumono delle connotazioni erotiche, talaltra si associano alle asperità della vita. Difficile è la stessa composizione artistica, che assume una precisa identità solo dopo la messa in scena e il rapporto col pubblico, presentandosi invece nel suo aspetto misterioso al coreografo e agli interpreti che non sanno mai quale sia la giusta fine di un pezzo. Meno intellettualoide e decisamente più emozionante il pezzo Subject to Change di Sol León e Paul Lightfoot, che attraverso l’impiego di una coppia principale formata da Rebecca Bianchi e Jacopo Giarda, quattro danzatori in nero e un tappetto rosso ci vogliono ricordare l’oscura imprevedibilità della vita e i suoi dispiaceri, che ci possono avvolgere e travolgere da un momento all’altro. L’indagine principale avviene qui a livello coreografico. I movimenti sono estremi, tesi come lame, ricchi di sospensioni e fuori asse e nella loro angolosa espressività risuonano dell’energia conferita loro dalla musica del quartetto per archi n. 14 in Re minore Der Tod und das Mädchen di Schubert nell’arrangiamento di Gustav Mahler. Chiude la serata il pezzo Four Last Songs, composto dal coreografo inglese David Dawson su un ciclo di lieder di Richard Strauss, il cui canto sulle stagioni della vita è interpretato in scena dal soprano Madeleine Pierard. Dei passi a due scultorei che vedono unirsi al corpo di ballo del teatro capitolino la prima ballerina del Teatro alla Scala Alice Mariani vogliono portarci in un modo di purezza angelica di ispirazione diremmo neoclassica lifariana. Ma forse il riferimento più adatto è il non finito michelangiolesco, qui trasmessoci dalla tensione verso un’ideale che pare assolutamente irraggiungibile, ma che può essere vagheggiato in scena grazie alle belle forme derivate dalla tradizione. Foto Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

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                                  RAI 5 Opera. Giugno 2025

                                  Sab, 31/05/2025 - 17:14

                                  Domenica 1 giugno / Sabato 7 giugno
                                  Ore 10.00 / 09.52
                                  “IL TURCO IN ITALIA”
                                  Musica Gioachino Rossini
                                  Direttore Diego Fasolis
                                  Regia Roberto Andò
                                  Interpreti: Rosa Feola, Laura Verrecchia, Erwin Schrott, Giulio Mastrototaro, Antonino Siragusa….
                                  Milano, 2021
                                  Ore  18.22
                                  “RUSALKA”

                                  Musica Antonin Dvorak
                                  Direttore Dan Ettinger
                                  Regia Dmitri Tcherniakov
                                  Interpreti: Asmik Grigorian, Adam Smith, Ekaterina Gubanova, Anita Rachvelishvili,
                                  Gabor Bretz
                                  Napoli, 2024
                                  Lunedì 2 giugno
                                  Ore 17.24
                                  “CARMEN”
                                  Diretore Daniel Barenboim
                                  Regia Emma Dante
                                  Interpreti: Anita Rachvelishvili, Adriana Damato, Jonas Kaufmann, Erwin Schrott…
                                  Milano, 2009
                                  Mercoledì 4 giugno
                                  Ore 17.40
                                  “CARMEN”
                                  Balletto dall’opera omonima di Georges Bizet
                                  Coreografia di Jiri Bubenicek.
                                  Direttore Louis Lohraseb.
                                  Solisti: Rebecca Bianchi, Amar Ramasar, Alessio Rezza
                                  Roma, 2019
                                  Venerdì 6 giugno
                                  Ore 17.57
                                  “TOSCA”
                                  Musica Giacomo Puccini
                                  Direttore Riccardo Chailly
                                  Regia Davide Livermore
                                  Interpreti: Anna Netrebko, Francesco Meli, Luca Salsi…
                                  Milano, 2019
                                  Domenica 8 giugno
                                  Ore 10.00
                                  “L’ITALIANA IN ALGERI”

                                  Musica Gioachino Rossini
                                  Direttore Bruno Campanella
                                  Regia Joan Font
                                  Interpreti: Marianna Pizzolato, Pietro Spagnoli, Marko Mimica, Boyd Owen, Omar Montanari, Sergio Vitale
                                  Ore 18.20
                                  “AIDA
                                  Musica Giuseppe Verdi
                                  Direttore Riccardo Chailly
                                  Regia Franco Zeffirelli
                                  Interpreti: Violeta Urmana, Ildiko Komlosi, Roberto Alagna, Carlo Guelfi…
                                  Milano, 2006
                                  Martedì 10 giugno
                                  Ore 17.20
                                  “EDGAR”
                                  Musica Giacomo Puccini
                                  Direttore Massimo Zanetti
                                  Regia Pier Luigi Pizzi
                                  Interpreti: Vassilii Solodkyy, Lidia Fridman, Ketevan Kemoklidze…
                                  Torre del Lago, 2024
                                  Mercoledì 11 giugno
                                  Ore 17.35

                                  “LE WILLIS”
                                  Musica Giacomo Puccini
                                  Direttore Massimo Zanetti
                                  Regia Pier Luigi Pizzi
                                  Interpreti: Vincenzo Costanzo, Lidia Fridman, Giuseppe De Luca
                                  Torre del Lago, 2024
                                  Giovedì 12 giugno
                                  Ore 17.40
                                  “RAYMONDA”

                                  Musica Aleksandr Glazunov
                                  Coreografia di Marius Petipa, ricostruita da Sergej Vikharev
                                  Direttore Michail Jurowski
                                  Interpreti: Olesia Novikova, Friedemann Vogel
                                  Milano, 2014
                                  Ore 21.15
                                  “SUOR ANGELICA” / “IL PRIGIONIERO”
                                  Musica Giacomo Puccini, Luigi Dallapiccola
                                  Direttore Michele Mariotti
                                  Regia Calixto Bieito
                                  Interpreti: Corinne Winters, Marie-Nicole Lemieux, Ángeles Blancas,John Daszak…
                                  Roma, 2025

                                   

                                   

                                  Categorie: Musica corale

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