Sassari, Teatro Verdi
“SE IL MARE SAPESSE…”
Opera in due atti ispirata alla “Preghiera del mare” di Khaled Hosseini
Prima esecuzione assoluta
Musica e libretto di Giovanna Dongu
Aurora ELISABETTA OBINO
Padre MARCO SOLINAS
Madre JESSICA LOAIZA PÉREZ
Orchestra Progetto Enarmonia
Coro dell’Associazione Musicale Rossini
Coro di voci bianche dell’Associazione Musicale Rossini
Direttore Gabriele Verdinelli
Maestro del coro Clara Antoniciello
Voci bianche dirette da Claudia Dolce
Regia e allestimento Sante Maurizi
Light designer Tony Grandi
Danzatrici del Liceo coreutico “Azuni”
Coordinamento Cristina Tagliaverga
Costumi del Liceo artistico “Figari”
Coordinamento Barbara Sanna e Stefania Spanu
Sassari, 28 settembre 2025
“Se il mare sapesse…” è il titolo dell’opera della compositrice Giovanna Dongu andata in scena in prima assoluta domenica 28 settembre al Teatro Verdi di Sassari, in occasione della centoundicesima Giornata del Migrante e del Rifugiato, in una produzione a cura della Fondazione Accademia, Casa di Popoli, Culture e Religioni. L’autrice si è liberamente ispirata alla “Preghiera del mare” dello scrittore arabo Khaled Hosseini, che a sua volta nacque come tributo letterario alla vicenda del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano che perse la vita in un tragico naufragio, immortalato in una foto che raggiunse le coscienze di tutto il mondo. Il testo di Hosseini altro non è che una lettera scritta da un padre al proprio figlio alla vigilia di un viaggio che segnerà i loro destini, una riflessione poetica e profonda su un passato irrimediabilmente perduto, sulle insidie della traversata, le speranze per un futuro migliore e le incognite che riserverà loro la vita in una terra ignota. Un tema tristemente attuale cui la compositrice, autrice anche del libretto, ha voluto dare un’ambientazione sarda, con l’intento di sottolineare il valore universale della tematica affrontata. Non possiamo in realtà parlare di una vera e propria vicenda come ci si aspetterebbe solitamente in un’opera di teatro musicale, quanto di una riflessione, intensa e partecipe sui temi della perdita, dell’assenza, della paura per un futuro incerto e dell’anelito alla pace.
La rinuncia a qualsivoglia sviluppo narrativo dettata dal testo, cui forse meglio si sarebbe adattata una forma non scenica quale ad esempio un oratorio, ha determinato una certa staticità dello spettacolo, condizionandone in qualche misura, in particolare nel primo atto, anche i contenuti musicali.
La partitura di Giovanna Dongu è permeata di una intensa partecipazione emotiva alla condizione umana dei suoi personaggi, descritta attraverso l’uso di un linguaggio molto personale, in cui le suggestioni della contemporaneità coesistono con l’arcaica solennità della tradizione polifonica italiana. Il risultato è ricco di spunti interessanti fra i quali vanno segnalati l’originale ricerca timbrica basata su un impiego dell’orchestra focalizzato di volta in volta sulle singole sezioni piuttosto che sul pieno organico e l’efficacia della scrittura corale, cui sono riservate le parti forse più intense e riuscite dell’opera nelle quali l’autrice è riuscita a conferire al coro il carattere di “moltitudine”, di insieme di individualità piuttosto che di massa compatta.
Notevole anche la capacità di attingere a fonti del repertorio tradizionale sardo mantenendole riconoscibili seppur inserite in un tessuto sinfonico complesso. Quest’ultimo aspetto, indubbiamente funzionale all’ambientazione in terra sarda, pur arricchendo l’opera di contenuti musicali, ha in qualche modo minato il senso di alterità che caratterizzava la vicenda originale, quasi a voler sostituire la paura, drammatica e tangibile di perdere la vita o i propri cari con quella, decisamente molto più “occidentale”, di dover rinunciare a frammenti della propria identità. La rappresentazione era affidata alla direzione musicale di Gabriele Verdinelli, che ha condotto con mano sicura e accurata l’eccellente orchestra Progetto Enarmonia – una realtà professionale in costante crescita – garantendo con efficacia il coordinamento con le voci sul palco. Ottime le prove delle voci del baritono Marco Solinas nel ruolo del padre, del soprano Jessica Loaiza Pérez in quello della madre e della giovanissima Elisabetta Obino in quello di Aurora. Fondamentali per la buona riuscita dello spettacolo la presenza del Coro e del Coro di voci bianche dell’Associazione Rossini, preparati rispettivamente da Clara Antoniciello e Claudia Dolce. Prezioso, in particolare nel primo atto, anche il contributo delle danzatrici del Liceo Coreutico Azuni, coordinate da Cristina Tagliaverga. La regia e l’efficace allestimento di Sante Maurizi hanno arricchito con alcune intuizioni, quali ad esempio le proiezioni delle macerie di Gaza davanti al popolo migrante, i momenti più drammatici dello spettacolo così come le luci di Toni Grandi, che hanno fornito un commento visivo pregevole e accurato. L’evento ha registrato un “Sold Out” ed ha riscosso un meritato e caloroso successo. Foto Michela Leo
La programmazione musicale di RAI 5 al momento ci appare assai vaga per ciò che riguarda la musica lirica che, al momento, sembra “scomparsa” dal palinsesto
Giovedì 2 ottobre / Domenica 5 ottobre / Giovedì 9 ottobre
Ore 21.20 / 07.55/ 20.45
Wiener Philharmoniker
Direttore Yannick Nézet-Séguin
Gala per i 150 anni del Palais Garnier a Parigi con un parterre di star mondiali come J.D.Florez, B.Terfel, R.Villazón, Y.Wang, S. Yoncheva…
Sabato 4 ottobre
Ore 07.45
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto
Interpreti: Ivan Ayon Rivas, Roberto Frontali, Rosa Feola, Riccardo Zanellato, Martina Belli …
Palermo, 2013
Domenica 5 ottobre
Ore 09.23
Dal Vesuvio al “Barbiere”
Il documentario dedicato al Barbiere di Siviglia ripercorre le tracce del compositore Gioachino Rossini fra Napoli e Roma negli anni decisivi della sua carriera, intervistando baristi, artigiani ma anche giovani barbieri, alla scoperta dell’attualità della figura di Figaro e dell’eredità del compositore pesarese.
Ore 13.15
“Visioni”
Il giovane Giacomo Puccini.
La carriera dell’artista viene ripercorsa attraverso i luoghi della sua vita con una particolare attenzione ai suoi primi anni, dal Conservatorio di Milano fino al suo arrivo a Torre del Lago dove compone la Madame Butterfly. Il ritratto di Puccini viene arricchito da aneddoti della sua vita privata: la passione per le automobili, per la tecnologia, le belle case, la caccia, l’amore per la natura, per la compagnia degli amici e non per ultimo la sua amata fotografia. Con A narrarci questo ritratto di Puccini, maestro così poliedrico, sono Michele Girardi, Maria Pia Ferraris, il Maestro Michele Gamba, Fabio Sartorelli e molti altri storici e musicisti
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2024/2025
“THE TURN OF THE SCREW”
Il Giro di Vite
Opera in un prologo, due atti e sedici scene, op. 54
Libretto di Myfanwy Piper
Dall’omonimo romanzo breve di Henry James
Musica di Benjamin Britten
The Prologue/Quint IAN BOSTRIDGE
Governess ANNA PROHASKA
Miles ZANDY HULL
Flora CECILY BALMFORTH
Mrs Grose EMMA BELL
Miss Jessel CHRISTINA RICE
Direttore BEN GLASSBERG
Regia DEBORAH WARNER
Scene Justin Nardella
Costumi Luca Costigliolo
Luci Jean Kalman
Movimenti di scena Joanna O’Keeffe
ORCHESTRA DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma.Deborah Warner desidera ringraziare Edward Burrows e Pippa Woodrow che hanno interpretato i due bambini nella sua produzione del 1997, nonché i designer Tom Pye e Jean Kalman. I loro contributi vividamente ricordati, hanno fornito una fonte di ispirazione continua mentre sviluppavamo la nostra storia attraverso l’opera.
Roma, 19 settembre 2025
Autore sempre presente nella programmazione musicale romana con diversi titoli alcuni dei quali anche in prima italiana, Benjamin Britten torna sulle scene con The Turn of the Screw. In particolare questo spettacolo costituisce il terzo titolo britteniano al Teatro dell’Opera di Roma per la regista Deborah Warner dopo i lusinghieri successi ottenuti con Billy Bud nel 2018 per il quale ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali come L’International Opera Award, l’Olivier Award e in Italia il premio Abbiati della critica e Peter Grimes nel 2023. Ispirato anche all’opera del pittore inglese James Pryde, il presente allestimento colloca l’opera in un nero profondissimo nel quale i fantasmi e i vari personaggi si materializzano e agiscono narrando l’inquietante vicenda con scorrevole e sciolta abilità, senza calcare l’accento su nessuno dei molti aspetti ambigui contenuti nel testo ma anzi destando nel pubblico dubbi e interrogativi che spesso rimangono irrisolti e rifuggendo da qualsivoglia tentazione didascalica. La storia infatti viene vista con gli occhi dei due bambini protagonisti i quali nella loro lineare ed asciutta semplicità non riescono a distinguere il vero dal falso. Molto belli sono apparsi i costumi di Luca Costagliolo, valorizzati dalle luci di Jean Kalman e dai movimenti di scena curati con studiata precisione da Joanna O’Keeffe. Assai ricca di sfumature e attenta a creare il crescendo di tensione è stata la direzione del giovane maestro Ben Glassberg, al suo debutto romano. Con una grande cura dei particolari sempre volta ad un fine espressivo e evidente frutto di una minuziosa e profonda conoscenza della partitura ha ben saputo illustrare i vari momenti di questa composizione dalla semplicità solo apparente. Di assoluto valore poi è stato il cast vocale della serata. Il tenore Ian Bostridge, acclamato ed esperto interprete di questo repertorio, è stato un Quint inquietante, ambiguo ed evanescente, insuperabile sia nel canto che nella recitazione e perfino nella fisicità. Anna Prohaska è stata una magnifica governante come pure molto brave sono state Emma Bell e Christine Rice rispettivamente Mrs Grose e Miss Jessel. Ma assolutamente straordinari sono stati i due giovanissimi interpreti dei due bambini Flora e Miles, rispettivamente Cecily Balmforth e Zandy Hull. Grazie ad un lungo ed attento lavoro preparatorio della regista sono riusciti ad esprimere la complessità dei loro personaggi con grande musicalità, perfetta intonazione e soprattutto una recitazione spigliata e spontanea, frutto di un indiscutibile talento unito ad uno studio approfondito e proficuo. Alla fine lunghi e calorosi applausi da parte di un pubblico entusiasta in un teatro quasi al completo per un’opera contemporanea, offerta in una serata romana di settembre. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TITUS – Why don’t you stop the show?
da William Shakespeare
con Francesco Montanari e Marianella Bargilli
e con Guglielmo Poggi, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino,
Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese,
Filippo Rusconi, Enrico Spelta, Matilde Pettazzoni
Scene Fabiana Di Marco
Costumi Alessandra Benaduce
Adattamento e regia Davide Sacco
Roma, 30 settembre 2025
Ogni epoca riconosce in alcune opere il proprio trauma inaugurale, testi che non si limitano a raccontare ma agiscono come specchi deformanti, riflettendo l’inconscio collettivo. Titus Andronicus, all’inizio della produzione shakespeariana, è stato a lungo relegato a esercizio giovanile, repertorio di crudeltà. In realtà, quell’eccesso è la sua verità: la violenza diventa grammatica del potere, legge ferrea che ordina rapporti, eredità e vendette, ma anche detonatore delle pulsioni nascoste che chiedono rappresentazione. Davide Sacco, con TITUS – Why don’t you stop the show?, riporta questo meccanismo nell’attualità. Il titolo interroga frontalmente lo spettatore: davvero vuoi che la sequenza continui? Il teatro smette di essere intrattenimento, si trasforma in specchio che non concede scampo. Ogni immagine apre una ferita, incrina la distanza con cui consumiamo la crudeltà mediatica. La scenografia di Fabiana Di Marco è un dispositivo crudele: un cratere di pietra che inghiotte parte della platea e costruisce un doppio livello scenico. Le asperità selvagge, le catene, le strutture di ferro e i ponti sospesi evocano un’officina arrugginita, un mattatoio dell’umanità. Qui i corpi si muovono come prigionieri, costretti a inciampare tra grate e impalcature che azzerano la libertà. Non sono attori che recitano, ma carne esposta, materia sezionata. Lo spettatore è obbligato a sostare in questo paesaggio minerale e industriale, dove pietra e metallo diventano macchina tragica che frantuma le identità. Sacco orchestra una drammaturgia d’assedio: luci che colpiscono come fendenti, suoni spinti fino alla distorsione, ritmo che incalza senza respiro. L’esperienza non è visione distante, ma coinvolgimento fisico. Il sangue versato in scena non è effetto ma simbolo, segno che cancella la consolazione della finzione. Non si può dire “è solo teatro”: il palcoscenico diventa riflesso spietato del nostro presente. L’allestimento dissemina citazioni visive che risuonano con la cronaca: corpi violati, torture, umiliazioni. Non sono illustrazioni didattiche, ma frammenti che smascherano la continuità tra il mito elisabettiano e le immagini quotidiane. Si compone così un repertorio comune dell’orrore, un archivio che non provoca più scandalo, perché la nostra sensibilità si è spenta. Qui sta la posta in gioco: non tanto mostrare la violenza, ma rivelare la nostra indifferenza. In questo contesto Francesco Montanari plasma un Titus complesso, sospeso tra inflessibilità militare e fragilità umana. Non indulge nell’enfasi né nel naturalismo, ma costruisce un percorso fatto di fratture emotive improvvise. Il generale vittorioso si trasforma in carnefice, fino a diventare vittima della propria spirale vendicativa. Montanari non propone un eroe né un mostro, ma un uomo che ci obbliga a misurarci con l’instabilità del confine tra giustizia e crudeltà. Accanto a lui, Marianella Bargilli offre un contrappunto incisivo, radicando la presenza femminile in una forza drammatica essenziale. Straordinario Guglielmo Poggi nel ruolo di Saturnino, capace di oscillare tra ironia grottesca e crudele autorità, dando corpo a una regalità corrosa e instabile. Intorno a loro, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino, Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese, Filippo Rusconi, Enrico Spelta e Matilde Pettazzoni formano un coro organico, collettività scenica che amplifica la tensione e restituisce al dramma la sua natura rituale. I costumi di Alessandra Benaduce, intrecciando suggestioni arcaiche e contemporanee, contribuiscono a sospendere il tempo in una dimensione senza coordinate. La regia evita sia il compiacimento estetico sia la tentazione moraleggiante. La violenza non è spettacolarizzata, ma svelata come meccanismo ciclico, psichico e sociale. Il teatro si conferma come luogo in cui il pubblico deve fare i conti con una domanda ineludibile: fino a dove siamo disposti a riconoscerci nella spirale della vendetta. Non c’è catarsi, non c’è consolazione. L’esperienza lascia addosso allo spettatore l’angoscia come cicatrice, la consapevolezza come ferita. È in questa rinuncia alla pacificazione che lo spettacolo trova la sua urgenza. Shakespeare, attraverso Sacco, non ci offre morale né conforto, ma il rischio del pensiero. Titus Andronicus si conferma così opera viva, archeologica e futurista insieme: un teatro che scava nella memoria primitiva del sangue e al tempo stesso anticipa la brutalità del presente, dove la pietra diventa carne e il ferro si fa sangue. Il pubblico non è rimasto passivo. In più momenti ha interrotto lo spettacolo, non per rifiuto ma perché travolto dall’urgenza del testo, sentendone la bruciante attualità. Una partecipazione non di consumo ma di tensione collettiva, che ha trasformato la platea in un coro reattivo, oscillante tra turbamento e riconoscimento. E proprio questa dialettica fra rappresentazione e vita ha decretato il successo finale: lunghi applausi, chiamate ripetute, un consenso che non era semplice gratificazione estetica, ma adesione a un’esperienza vissuta come necessaria. Photocredit Teatro Quirino Vittorio Gassman
Proseguono le celebrazioni per il bicentenario di Antonio Salieri, il compositore partito da Legnago e divenuto massimo maestro a Vienna, capitale della musica tra ‘700 e ‘800. Fondazione Arena ne guida la riscoperta portando in scena Falstaff a Legnago, primo titolo dell’Edizione Nazionale delle opere di Salieri. L’anniversario è inserito nel Programma regionale per la promozione dei Grandi Eventi della Regione Veneto.
Il culmine del bicentenario salieriano avviene dopo l’istituzione da parte del Ministero della Cultura dell’Edizione Nazionale delle opere di Antonio Salieri. Si tratta della più importante iniziativa editoriale per valorizzare e promuovere l’intero catalogo del compositore, con un vasto progetto di studi e pubblicazione pluriennale in edizione critica, finalmente a disposizione di un pubblico internazionale. Obiettivo tutelare e diffondere il patrimonio musicale del compositore, grazie anche al lavoro di un Comitato scientifico con professori e studiosi italiani e stranieri.
Iniziativa pioneristicamente aperta da Fondazione Arena che, con l’opera Falstaff ossia Le tre burle, ha inaugurato la stagione lirica 2025 con una nuova produzione scenica in edizione critica realizzata con Casa Ricordi, editore di riferimento per l’opera lirica e gli studi filologici musicali. Curatrice Elena Biggi Parodi, professoressa di Storia e Storiografia della Musica, che ha promosso l’istituzione dell’Edizione Nazionale delle opere di Salieri ed è presidente del Comitato Scientifico.
Al Teatro Salieri di Legnago, a suggello di Salieri 200 – Celebrazioni per il bicentenario, l’opera andrà in scena martedì 7 ottobre alle 20.45 nell’allestimento firmato dal regista Paolo Valerio, ripreso da Giulia Bonghi, con scene e projection design di Ezio Antonelli e luci di Claudio Schmid. Il cast schiera giovani cantanti italiani dalla prestigiosa carriera internazionale: si conferma protagonista nel ruolo del titolo il baritono Giulio Mastrototaro, così come la coppia dei coniugi Slender, affidati a Laura Verrecchia e Michele Patti, e il servo Bardolf di Romano Dal Zovo. Debuttano invece il soprano Eleonora Bellocci e il tenore Manuel Amati come signori Ford, così come il soprano Barbara Massaro nei panni di Betty. Protagonisti saranno l’Orchestra di Fondazione Arena diretta dal Maestro Francesco Ommassini e il Coro preparato da Roberto Gabbiani, oltre a mimi e tecnici areniani. Biglietti per ogni settore da 20 a 28 euro disponibili su sito web e biglietteria del Teatro Salieri di Legnago.
Dal 4 all’11 ottobre 2025, al Teatro di San Carlo, va in scena Un ballo in maschera: melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Antonio Somma, tratto dal libretto Gustave III, ou Le Bal masqué di Eugène Scribe. Le date delle repliche sono le seguenti: 5, 8, 10, 11 ottobre 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Pinchas Steinberg. Maestro del Coro del San Carlo, Fabrizio Cassi. La regia e le luci sono a firma di Massimo Pizzi Gasparon Contarini, con scene e costumi di Pierluigi Samaritani e Massimo Pizzi Gasparon Contarini e con coreografie di Gino Potente. Con la partecipazione della Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo; Direttore: Clotilde Vayer.
Nel ruolo di Riccardo: Piero Pretti (4, 8, 11), Vincenzo Costanzo (5, 10); a interpretare Renato sono Ludovic Tézier (4, 8, 11), Ernesto Petti (5, 10); nel ruolo di Amelia: Anna Netrebko (4, 8, 11), Oksana Dyka (5, 10). Elizabeth DeShong interpreta Ulrica, l’indovina e Cassandre Berthon interpreta, invece, Oscar, il paggio. Completano il cast: Maurizio Bove (Silvano, marinaio), Romano Dal Zovo (Samuel, nemico del Conte), Adriano Gramigni (Tom, nemico del Conte), Massimo Sirigu (Un Giudice / Un servo d’Amelia). Una Produzione del Teatro Regio di Parma. Qui per ulteriori informazioni. Foto Clarissa Lapolla
Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, Festival “Parigi romantica pop”, 27 Settembre-28 Ottobre 2025″
“FRENCH TOUCH”
Quatuor Opale
Soprano Jennifer Courcier
Mezzosoprano Éléonore Pancrazi
Tenore Enguerrand de Hys
Baritono Philippe Estèphe
Pianoforte Emmanuel Christien
Estratti da operette e altro di Louis Varney, De Croze. Hervé, André Messager, Jacques Offenbach, Roger Planquette, Roger, Rey, Delibes
Venezia, 27 settembre 2025
Chi di noi non vorrebbe assaporare l’aria profumata e frizzante che circolava a Parigi negli anni dal Secondo Impero alla Belle Époque, quando la Ville lumière seduceva un vasto pubblico con l’irresistibile magia dei suoi spettacoli ‘leggeri’? Ebbene, questo desiderio può avverarsi, almeno per coloro che seguiranno il nuovo ciclo di concerti d’autunno, che si svolgerà a Venezia – e in altre sedi d’oltralpe –, per iniziativa del Palazzetto Bru Zane. Protagonista di questa rassegna – Parigi romantica pop – è il compositore Hervé, cui il Centre de Musique Romantique française ha dedicato negli ultimi anni un’attenzione particolare – si ricordino le riproposte di Les Chevalier de la Table ronde, Mam’zelle Nituouche, Le Compositeur touché e di altri titoli –, allo scopo di far luce su un autore, rimasto immeritatamente nell’ombra del suo famoso rivale Jacques Offenbah. Il 2025 – bicentenario della sua nascita – è l’occasione giusta per riscoprire ulteriormente questo musicista prolifico quanto strampalato, e insieme quel movimento artistico – fondato sul gusto per l’assurdo e la follia –, di cui può essere ritenuto un esponente di spicco. Lo si è colto nel concerto inaugurale, French Touch – svoltosi presso la sontuosa Sala Capitolare della Scuola Grande San Giovanni Evangelista –, nel corso del quale la solennità del luogo rendeva ancor più travolgente la verve, con cui il soprano Jennifer Courcier, il mezzosoprano Éléonore Pancrazi, il tenore Enguerrand de Hys e il baritono Philippe Estèphe – accompagnati dal pianoforte di Emmanuel Christien – hanno saputo divertire il pubblico, interpretando un programma, che ripercorreva la storia dell’opéra-bouffe. Nel XIX secolo le partiture per soprano, mezzosoprano, tenore e baritono in veste solistica divennero estremamente rare: quattro grandi voci in una stessa serata musicale costavano troppo. Dunque, tale formazione virtuosistica era riservata a composizioni particolari, come il quatuor Le Colimaçon del tolosano Étienne Rey o il duo Un ténor sans engagement di Jean-Baptiste de Croze, tra i brani di questo concerto, proposti insieme a pagine di teatro musicale ‘leggero’, spesso dall’impianto contrappuntistico, in cui i componenti del Quatuor Opale hanno saputo caratterizzare la personalità di ciascun personaggio, grazie a una grande efficacia nel fraseggio come nella seppur misurata gestualità, cui si accompagnava un intelligente impiego dei rispettivi mezzi vocali: timbratissimo il baritono, generoso il tenore, caricaturale senza pesantezze il mezzosoprano, squillante il soprano. Tra duetti e terzetti, le opere di Hervé (La Nuit aux soufflets, Chilpéric, Alice de Nevers, Estelle et Némorin) e di Offenbach (Orphée aux Enfers, Un mari à la porte, Barbe-Bleue, Les Brigands, La Romance de la rose) si alternavano a partiture meno note di compositori contemporanei – come Surcouf di Robert Planquette, Oscarine di Victor Roger e Monsieur Griffard di Léo Delibes – o di loro successori come Les p’tites Michu di André Messager e Miss Robinson di Louis Varney. Emblematici di questo spumeggiante genere di spettacolo il finale dell’offenbachiana Romance de la rose, che scherza sulle differenze linguistiche tra i personaggi, e il “Quatuor du naufrage”, da Miss Robinson di Louis Varney, che gioca invece sull’assurdità dell’allegria condivisa da un gruppo di naufraghi. Ripetuti applausi. Un bis: il celebre “Quatuor de l’omelette” da Le Docteur Miracle di Georges Bizet. Foto Daniele Zoico
Roma, Teatro Vascello
VAOTOURS (AVVOLTOI)
di Roberto Serpi
interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
luci Luca Bronzo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Premio Mezz’ore d’Autore 2022
Roma, 28 settembre 2025
C’è un’immagine che si impone subito: tre uomini chiusi in una tana, come bestie ferite che non trovano più la via del ritorno. È l’impressione primaria che lascia Vautours (Avvoltoi), scritto, diretto e interpretato da Roberto Serpi insieme a Sergio Romano e Ivan Zerbinati, produzione del Teatro Due di Parma approdata al Vascello di Roma. Non è una vicenda ambientata in spazi sotterranei, eppure lo spettatore, alla fine, ha la sensazione di riemergere da un ipogeo, da un cunicolo oscuro in cui l’aria ristagna e il tempo si è contratto in un’ossessione. Tre uomini licenziati, tutti di mezza età, vivono lo smarrimento di chi è stato improvvisamente estromesso da un ordine produttivo che li aveva resi marginali, invisibili, prima ancora di abbandonarli del tutto. Sono soli, senza legami né sostegni: né famiglie, né amici, né tantomeno organizzazioni sindacali o politiche. La loro solitudine non viene dichiarata, è semplicemente la condizione naturale entro cui si muovono, un dato esistenziale che la scena essenziale – una sedia, un tavolino, un vecchio telefono a disco – restituisce con precisione chirurgica. Proprio quel telefono, un Siemens S62, diventa la quarta presenza in scena: ogni suo squillo provoca uno scarto narrativo, un colpo di senso che incrina la routine dei tre uomini. Negli anni Sessanta e Settanta quell’oggetto apparteneva a un tempo in cui esisteva ancora una dialettica tra capitale e lavoro, quando per licenziare occorreva almeno pronunciare la parola. Ora invece basta un artificio normativo, una manovra burocratica, una firma che dissolve vite e identità. È interessante notare come il telefono, pur senza intenzionalità simbolica, evochi una memoria collettiva: i diritti che si sono via via dissolti, la negoziazione sostituita da silenzi e complicità, l’illusione di un dialogo che non arriverà. Non c’è traccia di un modello brechtiano in Vautours. Non si analizzano i meccanismi del lavoro contemporaneo né si tenta una spiegazione razionale delle ingiustizie. Qui la ferocia sociale si incarna direttamente nei corpi e nelle voci degli attori, si traduce in gesti farseschi, in piani di rivincita grotteschi, in dialoghi che oscillano tra l’assurdo e il cabaret. Serpi, con la sua presenza greve e minacciosa, Romano, con il rigore impiegatizio che nasconde una violenza trattenuta, e Zerbinati, con la sua ingenuità infantile e le filastrocche cantilenanti, formano un trio che oscilla continuamente tra tragicità e ridicolo, in una tensione costante che impedisce allo spettatore di trovare un appoggio emotivo stabile. La vicenda procede come un gioco crudele. Uno dei tre riesce, per caso, a rimettere piede nell’azienda, chiamato a sostituire un collega assente. Da questa minima apertura nasce il delirio logico degli altri due: se la sola possibilità di rientrare è coprire le assenze, allora bisogna crearle. E il ragionamento si traduce in un piano tanto surreale quanto atroce: colpire fisicamente i possibili candidati, produrre le condizioni del vuoto da riempire. È la deriva di un pensiero che si è spogliato di ogni etica, ridotto a un meccanismo di sopravvivenza cieco, senza più alternative né immaginazione. Lo spettacolo non offre soluzioni, né consolazioni. Nemmeno la fuga verso il mito del “ricominciare da zero” – allevando api o rifugiandosi in un borgo appenninico – viene contemplata. Tutto ciò che i media propongono come possibilità di rinascita qui non esiste. I tre uomini restano inchiodati in un presente che li ha già superati, e le loro strategie non sono altro che caricature di un riscatto impossibile. La messinscena di Serpi si affida a una nuda essenzialità: niente musiche, niente proiezioni, nessun effetto. È la parola, secca, incalzante, a scandire il ritmo. E soprattutto è l’energia degli attori, la loro capacità di mantenere costante la tensione drammatica, a far vivere la vicenda in tutta la sua ambiguità. Non c’è mai compiacimento, non c’è mai caduta nel grottesco fine a sé stesso: il gioco scenico rimane sempre sorvegliato, guidato da un equilibrio che consente alla crudeltà della storia di rivelarsi con lucidità e senza compiacimenti. Un aspetto rilevante è anche la genesi del progetto. Nato quasi per caso, da una lettura in camerino durante una pausa di un altro spettacolo, Vautours è stato poi prodotto dal Teatro Due grazie alla fiducia di Paola Donati. Questa origine “artigianale” conferisce al lavoro una qualità particolare: non la rigidità di un apparato produttivo imponente, ma l’urgenza di un desiderio nato tra gli attori stessi, che hanno voluto trasformare un testo in una prova scenica concreta. È un esempio raro di come la nuova drammaturgia possa trovare spazio se sostenuta da scelte produttive attente e coraggiose. Alla fine resta l’immagine di tre uomini senza più speranza, che trasformano il bisogno in crudeltà, l’isolamento in follia. Non c’è nulla di edificante in questa parabola: è piuttosto la rappresentazione di un vuoto, di un’assenza di futuro che divora tutto. Ed è proprio questo vuoto a rendere lo spettacolo perturbante. Non tanto la violenza, non tanto le derive assurde dei personaggi, ma la constatazione che in fondo non c’è alternativa, non c’è un altrove cui aspirare. Con la sua asciuttezza formale e la sua forza interpretativa, Vautours (Avvoltoi) si impone come un segnale di quanto il teatro possa ancora farsi luogo di verità scomoda: non una denuncia, non un pamphlet politico, ma la restituzione di un’inquietudine collettiva che ci riguarda tutti.
Komische Oper Berlin, season 2025/2026
“A THOUSAND IN TEMPELHOF”
Symphony No. 8 in E-flat major for eight soloists, two mixed choirs, a boys’ choir and large orchestra by Gustav Mahler
Soprano I (Magna Peccatrix) CHRISTINA NILSSON
Soprano II (Una poenitentium) PENNY SOFRONIADOU
Soprano III (Mater gloriosa) ELISA MAAYESHI
Contralto I (Mulier Samaritana) KAROLINA GUMOS
Contralto II (Maria Aegyptiaca) RACHAEL WILSON
Tenor (Doctor Marianus) ANDREW STAPLES
Baritone (Pater Ecstaticus) HUBERT ZAPIÓR
Basso (Pater Profundus) ANDREAS BAUER KANABAS
Chorsolisten der Komischen Oper Berlin
Vocalconsort Berlin
Rundfunkchor Berlin
Kinderchor der Komischen Oper Berlin
Deutsches Symphonie-Orchester Berlin
Orchester der Komischen Oper Berlin
Conductor James Gaffigan
Choirs David Cavelius
Children’s Choir Dagmar Barbara Fiebach
Berlin, 25 September 2025
The Komische Oper Berlin building has been undergoing renovation and expansion since 2023, forcing the ensemble to relocate to various venues throughout the city. The Schillertheater, once the temporary home of the Staatsoper Unter den Linden when its historic building was reconstructed, has become a kind of home base for the Komische Oper. However, its last two seasons were opened in Hangar 4 of the former Berlin-Tempelhof Airport, with Hans Werner Henze’s ‘Das Floß der Medusa’ in 2023 and Handel’s Messiah in 2024. During this year’s new production of ‘Jesus Christ Superstar’, the Komische Oper’s first concert of the season also took place in Hangar 4, featuring Symphony No. 8 by Gustav Mahler. Its sheer size alone makes the venue ideal for this work, which is known as the ‘Symphony of a Thousand’ despite the composer’s disapproval. It requires two orchestras, extra brass players, two large choirs, a boys’ choir and eight soloists. The audience sits on stands mainly on either side of the musicians, who are positioned in the centre of the huge hangar, while the third stand opposite the conductor and soloists is occupied by the choirs. This arrangement allows the audience to become part of Mahler’s gigantic sound universe, which, given the bare industrial building, might lead one to expect problematic acoustics rather than the extremely enjoyable homogeneous listening experience in which musicians and listeners practically merge into Mahler’s universe, which begins to resonate and sound. James Gaffigan, General Music Director of the Komische Oper since the 2023/24 season, took on the difficult task of conducting this monumental and complex work. To cut a long story short: he pulled it off! At first, I found the sound somewhat muffled and the conductor slightly sluggish, but the sound quickly developed into something magnificent, homogeneous, and precise, both transparent and grandiose, dynamic, and rhythmic. The choirs were excellent: the renowned Rundfunkchor Berlin and Chorsolisten der Komischen Oper Berlin, reinforced by the Vocalconsort Berlin, and it was wonderful how well the KOB children’s choir was integrated, conducted by Dagmar Barbara Fiebach. The Deutsches Symphonie-Orchester Berlin and the Orchester der Komischen Oper captivated with their extreme presence in all instrumental groups, the brass triumphed, the woodwinds shone, and the strings enchanted. I admit that my key to Mahler’s 8th symphony lies with the vocal soloists. The sopranos and the tenor are extremely challenged with partially demanding vocal range requirements. While the voices in the first part stand out from the choirs and blend in with them, the solo singing in part II is a little patchy but it gives space for more vocal characterisation. The vocal performances of the eight soloists were masterful. They could cope with the difficult passages of the Pentecost hymn and the final scene from Goethe’s Faust II with ease and performed their tasks excellently. It would be unfair to single out individual performances: the sopranos Christina Nilsson, Penny Sofroniadou and Elisa Maayeshi were as excellent as their contralto counterparts Karolina Gumos and Rachel Wilson. The tenor Andrew Staples stood out as Doctor Marianus, Hubert Zapiór was a convincing Pater Ecstaticus and Andreas Bauer Kanabas excelled as Pater Profundus. I am grateful to the Komische Oper Berlin for giving me the opportunity to experience this rarely performed work live for the first time. It became clear to me that recordings are hardly able to capture the complexity of the work, Mahler’s overwhelming soundscape and the power of the choirs. Only in a larger acoustic space does Mahler’s vision become tangible: ‘Try to imagine the whole world in the process of sounding and resonating – these are no longer human voices, but planets and suns revolving.’ (From a letter to his publisher Emil Gutmann) Photos Jan Windszus Photography
È uno dei capolavori assoluti del repertorio operistico a inaugurare la Stagione artistica 2025-2026 della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova: il dramma giocoso Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte in scena da venerdì 3 ottobre alle ore 20 (repliche: sabato 4 ottobre ore 15, domenica 5 ottobre ore 15, venerdì 10 ottobre ore 20, sabato 11 ottobre ore 20 e domenica 12 ottobre ore 15) apre un nuovo percorso sotto la guida del sovrintendente Michele Galli e del direttore artistico Federico Pupo.
Sul podio ci sarà Constantin Trinks, direttore tedesco con un’importante carriera internazionale, chiamato a guidare l’Orchestra e il Coro (diretto da Claudio Marino Moretti) del Teatro Carlo Felice, e un cast che unisce interpreti di solida esperienza e voci emergenti: Simone Alberghini (Don Giovanni), Desirée Rancatore (Donna Anna), Ian Koziara (Don Ottavio), Jennifer Holloway (Donna Elvira), Giulio Mastrototaro (Leporello), Mattia Denti (Il Commendatore), Alex Martini (Masetto) e Chiara Maria Fiorani (Zerlina).
Nelle recite del 4 e 11 ottobre ci saranno nei ruoli principali Gurgen Baveyan (Don Giovanni), Irina Dubrovskaya (Donna Anna), David Ferri Durà (Don Ottavio), Monica Zanettin (Donna Elvira, anche nella recita del 12 settembre), Bruno Taddia (Leporello). La regia di Michieletto è ripresa da Elisabetta Acella. Qui per ulteriori informazioni.
Man singet mit Freuden vom Sieg BWV 149 fu scritta da Bach per la festa di San Michele, celebrata a Lipsia il 29 settembre 1728 ( o 29). Questo è l’unico giorno dell’anno liturgico in cui la lettura principale è tratta dall’Apocalisse. La rappresentazione vivida e fantasiosa della battaglia tra San Michele e Satana suscita sempre in Bach una musica trionfante e audace. Tutte le Cantate per questa festività hanno un organico strumentale ricco con la presenza costante di trombe e timpani, oltre ai consueti oboi e archi. La Cantata BWV 149 pur mostrando tutta la sua brillantezza, mostra anche un aspetto più intimo e delicato. Nel coro d’apertura le trombe imprimono brillantezza e solennità alla pagina ma si allontanano dai toni da fanfara marziale di altre Cantate. che i loro consueti toni militari. L’aria bipartita del basso (Nr.2) fornisce una vivida descrizione della caduta di Satana, così come la musica dell”aria tripartita del soprano (Nr.4) rappresenta gli angeli con calore e dolcezza. Il duetto per contralto e tenore (Nr.6) con il brillante obbligato del fagotto è un altro momento culminante di questa meravigliosa cantata. L’opera si conclude con una bellissima armonizzazione del Corale celestiale “Herzlich lieb” (Nr.7) che ha un originale quanto inattesa chiusura alla frase “voglio lodarti in eterno”.
Nr.1 – Coro
Grida di giubilo e di vittoria nelle tende dei giusti:
la destra del Signore ha fatto meraviglie,
la destra del Signore si è innalzata,
la destra del Signore ha fatto meraviglie.
Nr.2 – Aria (Basso)
Sia lodato Dio forte e potente,
l’Agnello che ha vinto
e scacciato Satana,
colui che giorno e notte ci accusava.
Ai giusti l’onore e la vittoria
ottenuta per mezzo del sangue dell’Agnello
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Non ho paura
davanti a mille nemici,
poiché gli angeli di Dio
sono accampati intorno a me;
quando tutto crolla, quando tutto va in pezzi,
io resto sereno in pace.
Come potrei disperare?
Dio mi invia altri cavalli e carri
ed intere schiere di angeli
Nr.4 – Aria (Soprano)
Gli angeli di Dio non si arrendono mai,
sono con me in ogni momento.
Quando dormo, vegliano su di me,
quando vado,
quando resto,
mi portano sulle loro mani.
Nr.5 – Recitativo (Tenore)
Ti ringrazio,
mia caro Dio, per questo;
concedimi,
visto che mi pento degli atti peccaminosi
e che anche il mio angelo se ne rallegra,
che nel giorno della mia morte
egli possa portarmi nel tuo seno in cielo.
Nr.6 – Aria/Duetto (Contralto, Tenore)
Vegliate, sante sentinelle,
la notte è quasi finita.
Sono inquieto e senza pace,
finché non sarò al cospetto
del mio amato Padre.
Nr.7 – Corale
Ah Signore, fa che il tuo caro angioletto
nell’ultima ora porti la mia anima
nel seno di Abramo,
ed il mio corpo nella sua camera funebre
dolcemente, senza angoscia e dolore,
riposi sino all’ultimo giorno!
Allora risvegliami dalla morte,
cosicché i miei occhi possano contemplarti
nel pieno della gioia, o Figlio di dio,
mio Salvatore e trono di grazia!
Signore Gesù Cristo, ascoltami, ascoltami,
voglio lodarti in eterno!
Traduzione Emanuele Antonacci
C’è grande attesa per la nuova stagione al Teatro Politeama Rossetti di Trieste; una stagione, quella 2025-2026 con grandi nomi, eventi internazionali, iniziative culturali. Come di consueto l’inaugurazione dagli spettacoli prodotti dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia sarà con “Trieste 1954” di Simone Cristicchi al Rossetti e “SvevoJoyce#ZenoBloom” alla Sala Bartoli. Tante le novità in sede che vanno dal musical “Sei un brav’uomo, Charlie Brown” per il 75° dei Peanuts, alla prima italiana del “Principe d’Egitto”, dai concerti delle star del West End, agli appuntamenti con la danza e con il circo contemporaneo.
Le novità da un lato – in particolare nei cartelloni Musical e Danza – confermano il respiro internazionale che distingue il Rossetti nel panorama teatrale, dall’altro denotano l’impegno premiante dello Stabile sul piano della produzione e della divulgazione culturale, settore che sarà molto sviluppato attraverso la programmazione in Sala 1954. Nel corso della conferenza stampa di presentazione della stagione il Presidente del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Francesco Granbassi e il direttore Paolo Valerio, sono state annunciate tutte le importanti novità. Il cartellone musical si arricchisce di due titoli, prime assolute in Italia: “Sei un brav’uomo, Charlie Brown” portato in scena dal Rossetti assieme a LuccaCrea e al Teatro del Giglio di Lucca per la regia di Eugenio Contenti, che debutta nel prestigioso contesto di Lucca Comics & Games, e “Il Principe d’Egitto” la nuova produzione di Broadway Italia firmata da Federico Bellone dopo il successo di “The Phantom of the Opera” e “Anastasia”.
Il sapore internazionale della stagione Musical del Rossetti sarà mantenuto in tre grandi concerti: Kerry Ellis e Rachel Tucker, i “Barricade Boys” e i “Shamrock Tenors”. Un omaggio al teatro musicale sarà il tradizionale appuntamento con il “Galà dell’Operetta e del Musical” per la regia di Andrea Binetti e l’esilarante “Opera Locos” degli spagnoli Yllana. Da segnalare infine il concerto del pianista croato Maksim.
I nuovi titoli del cartellone Danza assicurano al pubblico un giro del mondo: si parte dalla Cina, con la Beijing Academy Chinese Dance Company, per spostarsi in Georgia con i Sukishvili. Infine ci sarà “The Wall” con la MM Contemporary Dance Company. Dopo il Cirque du Soleil alcune proposte cono dedicate al circo: dai “Black Blues Brothers” con “Let’s Twist Again” la prima italiana dei canadesi Cirque Eloize “ID Evolution”. Ritorna infine al Rossetti “Stomp”, creato nel 1991 da Luke Cresswell e Steve McNicholas e sempre aggiornato. Il cartellone di Scena Contemporanea si arricchisce di altri titoli: “First Love di Marco D’Agostin, i “Quartett” di Heiner Müller, una spietata riscrittura de “Le relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos di cui Maximilian Nisi è regista e interprete con Viola Graziosi; i “Verba manent” di e con Fabrizio Pugliese e Fabrizio Saccomanno. Ci sarà “L’Europa non cade dal cielo” su testo di Laura Orlandini con i giovani Camilla Berardi e Massimo Giordani e “Money” in cui Joe Bastianich. La programmazione si completa di una serie di appuntamenti fuori abbonamento: fra gli altri Federico Buffa in “Otto infinito”, “Nel cuore della realtà” lo spettacolo su Pasolini, “Pimpa. Il Musical a pois!”.
Per tutti i dettagli della stagione vi rimandiamo al sito del Teatro.
Dramma lirico in tre atti su libretto di Luigi Illica. Anamarija Knego (Marussa), Giorgio Surjan (Bara Menico), Filippo Polinelli (Biagio), Jorge Puerta (Lorenzo), Jure Počkaj (Nicola), Stefany Findrik (Luze), Rijeka Opera Chorus, Rijeka Symphony Orchestra, Simon Krečič (direttore). Registrazione: Croatian National Theater Ivan pl. Zajc Rijeka, 17–23 giugno. 2024. 2 CD CPO 555 686-2
Il compositore istriano Antonio Smareglia, nato a Pola nel 1854 rappresenta da molti punti di vista un anello di trasmissione, sempre isolato rispetto alle grandi correnti europee. Leggermente più vecchio dei protagonisti della giovane scuola si pone a metà tra scapigliatura tardo-verdiana e verismo rimanendo in fondo estraneo a entrambe. La stessa natura si ritrova sul terreno culturale. Italiano di stirpe ma nato e cresciuto nell’Impero asburgico si muove a cavallo tra tradizione italiana e suggestioni mitteleuropee rendendo difficile collocarlo. La scelta dei soggetti e delle ambientazioni lo avvicinano al verismo ma il senso della prevalenza orchestrale e l’aristocraticità della scrittura – non sorprende l’ammirazione di Brahms nei suo confronti – guardano alla cultura musicale austro-tedesca.
Nel 2024 un omaggio al compositore è venuto dalle istituzioni musicali croate che hanno allestito – in collaborazione con il teatro sloveno di Maribor – la sua opera di maggior successo, “Nozze istriane” su libretto di Luigi Illica andata in scena nei teatri di Pola e Fiume. Questa registrazione testimonia la ripresa e deve fare i conti con un’iniziativa in cui l’entusiasmo non corrispondeva alle forze messe effettivamente in campo. Considerata “La cavalleria rusticana” nella Mitteleuropa l’opera di Smareglia se ne distingue per una maggior raffinatezza formale, soprattutto nelle parti orchestrali, e per evidenti echi del tardo Verdi – come non pensare al duetto del I atto di ”Otello” ascoltando quello tra Lorenzo e Marussa – ma manca della facilità melodica e della concentrazione drammatica del titolo del livornese.
Il direttore Simon Krečič – direttore stabile del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor – crede molto nella musica di Smareglia e questa convinzione si nota in una lettura attentissima e puntuale. Krečič riesce a rendere il non facile equilibrio tra ragioni drammatiche e una natura musicale prevalentemente lirica. I ritmi folklorici e una certa melanconia slava sono ben centrate dal direttore. I complessi fiumani pur non essendo compagini di primo livello internazionale mostrano una più che buona qualità esecutiva che trasmette l’accurato lavoro del direttore. Tanto l’orchestra quanto il coro svolgono quindi pienamente il loro incarico.
Il cast purtroppo non ci sembra all’altezza di questa ripresa. Jorge Puerta (Lorenzo) è un tenore dalla voce scura e brunita, quasi baritonale ma suona povera di squillo. Il materiale è solido e si capisce la partecipazione interpretativa alla vicenda ma soprattutto nei momenti più lirici difettano lirismo ed eleganza. Non vanno meglio le cose con l’amata Marussa, Anamarija Knego non solo sfoggia un fraseggio “oscuro “ma anche la linea di canto ci appare poco attraente. Con interpreti così le pagine più liriche tra i due, tra i momenti più riusciti della composizione, non riescono a esprimere se non in minima parte il loro potenziale. Corretta ma alquanto anonima la Luze di Stefany Findrik dal timbro decisamente troppo chiaro per la parte.
Vanno meglio gravi. Il veterano Giorgio Surjan ha ancora tutta l’autorevolezza richiesta dalla parte di Bara Merico e la voce è ancora una cartina di tornasole per tutti gli altri nella pienezza del timbro e nella pulizia del canto. Molto solido anche l’altro basso Filippo Polinelli nella viscida parte di Biagio, autore della trama che porterà alla rovina i giovani amanti. Jure Počkaj è forse un po’ grezzo come vocalità ma la parte di Nicola, dal taglio prettamente verista, concede non poco al riguardo e bisogna riconoscere al baritono una vocalità robusta e ben timbrata e una buona dizione. Sicuramente una proposta interessante ma la musica di Smareglia richiederebbe un livello esecutivo complessivamente più ampio per essere pienamente apprezzata.
Roma, Teatro Vascello
VAOTOURS (AVVOLTOI)
di Roberto Serpi
interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
luci Luca Bronzo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Premio Mezz’ore d’Autore 2022
Il testo, cinico, allo stesso tempo reale e surreale e dai risvolti involontariamente comici, era stato selezionato nell’ambito del bando Mezz’ore d’autore nel 2022 e presentato al pubblico in versione mise-en-espace di 30 minuti; ora, ampliato, trova la sua forma più compiuta.
In un indefinito ambiente sotterraneo vivono tre uomini che hanno perso l’unica cosa che conta davvero: il loro lavoro. Avere un’occupazione stabile è il solo modo di esistere e di non essere soli al mondo, ma ora è tutto perduto. I tentativi per rientrare in Azienda si succedono in un crescendo goffo ma inarrestabile che mette a nudo la loro vera anima fino a quel momento assopita dalla routine. Uno spaccato cinico di un’umanità anestetizzata moralmente ed eticamente che non si ferma davanti a nulla per raggiungere lo scopo, e che non piange e non ride più, da un bel po’ di tempo. Un avvoltoio appollaiato che aspetta la sua carogna. Per gli attori Vautours (Avvoltoi) è un vero gioco dai ritmi serrati, che segue le orme della struttura del giallo e oscilla fra la tensione di un continuo sentimento di sospensione e le paradossali conseguenze a catena innescate da una irresistibile dinamica testuale. Un lavoro di messa in scena corale che, in un ambiente nudo e privo di appigli scenografici o sonori, fa risuonare con maggiore potenza la delicata intensità del lavoro degli attori, impegnati in un’indagine sulla ricerca del proprio posto nel mondo, forse addirittura sul senso della vita. Qui per tutte le informazioni.
La terza cantata bachiana dedicata alla quindicesima Domenica dopo la Trinità è Jauchzet Gott in allen Landen! BWV 51 sicuramente una delle più celebri del repertorio bachiano. Eseguita presumibilmente a Lipsia il 17 settembre 1730, l’opera mette a confronto una voce di soprano e una tromba solista, senza nulla concedere al coro che qui non è neppure chiamato ad intonare il Corale conclusivo. La Cantata non è stata destinata da Bach unicamente alla celebrazione della quindicesima Domenica dopo la Trinità, l’autografo dichiara di essere eseguita anche in “Ogni Tempo” e cioè in qualsiasi momento dell’anno liturgico, ovviamente nei tempi consentiti, e proprio per consentirne una più rilevante utilizzazione, mentre i testi non hanno diretti agganci al Vangelo previsto per la quindicesima Domenica, anche se vi sono alcune citazioni evangeliche ed espliciti richiami ai Salmi. Proprietà caratteristica di questa partitura è l’uso della tromba come strumento concertante, impegnata nei due brani di apertura e chiusura in passi virtuosistici di grande arditezza e che, salvo prova contraria, destinata al grande strumentista Gottfried Reiche. Riguardo la parte vocale si è invece supposto che Bach possa aver scritto la parte soprano per Faustina Bordoni, la “primadonna” più importante della sua epoca” all’opera di corte di Dresda, o forse anche per Giovanni Bindi, un castrato di Dresda. L’aria d’apertura è intesa come un movimento di concerto nel quale vengono messe a confronto la tecnica della coloratura vocale e quelli della tromba. Bach però concede una funzione concertante anche al violino nel Corale (Nr.4) mentre la voce espone la melodia. Anche l’unico recitativo (Nr.2) ha le caratteristiche dell’Arioso. La seconda aria (Nr.3) è sostenuta dal solo “Continuo” mentre la voce del Soprano è impegnata in arditi gorgheggi.
Nr. 1 -Aria (Soprano)
Lodate il Signore in tutte le nazioni!
Sia nel cielo che nella terra
tutte le creature viventi
proclamino la sua lode,
e vogliamo al nostro Dio
un’offerta ora presentare
poiché anche nella croce e nel bisogno
è restato al nostro fianco.
Nr.2 – Recitativo (Soprano)
Preghiamo nel tempio
in cui risiede la gloria di Dio,
la cui fede,
ogni giorno rinnovata,
è ricompensata di pure benedizioni.
Lo ringraziamo di ciò che ha fatto per noi.
Anche se la nostra povera bocca può solo balbettare le sue meraviglie,
la nostra umile lode sarà comunque a lui gradita.
Nr.3 – Aria (Soprano)
Altissimo, fa che le tue bontà
siano rinnovate ogni mattina.
Affinché davanti al tuo amore paterno
le anime riconoscenti
mostrino con una vita virtuosa
che siamo chiamati tuoi figli.
Nr.4 – Corale (Soprano)
Lode, onore e gloria
al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo!
Egli moltiplicherà in noi
ciò che ha promesso per la sua grazia,
così da essergli veramente fedeli,
abbandonarci totalmente a lui,
affidargli i nostri cuori,
che il nostro cuore, volontà e mente
facciano riferimento a lui;
così cantiamo in questa ora:
Amen, noi vinceremo,
lo crediamo dal profondo del cuore.
Nr.5 – Aria (Soprano)
Alleluia!
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Casa Museo Hendrik Christian Andersen
EUTOPIA: MANUELA BEDESCHI
Curata da Maria Giuseppina Di Monte e Valentina Filamingo
Fa parte delle Giornate Europee del Patrimonio 2025
Roma, 27 settembre 2025
Visitare una mostra nella Casa Museo Hendrik Christian Andersen significa entrare in un luogo sospeso, che non appartiene né al museo tradizionale né allo spazio neutro della galleria contemporanea. È una dimora che conserva in ogni dettaglio l’ossessione visionaria del suo proprietario, un artista che volle fare di Roma il centro del mondo attraverso la scultura monumentale e l’urbanistica utopica. In questo scenario, Eutopia di Manuela Bedeschi trova un terreno ideale, e non per semplice contrasto tra antico e moderno, ma per una continuità di intenzioni: Andersen cercava una “città mondiale”, Bedeschi costruisce con la luce una città immateriale, fatta di segni che guidano e orientano. Il titolo, volutamente puntuale, deriva dal greco: eutopia significa “buon luogo”. Non è l’utopia, cioè il non-luogo irrealizzabile, ma un orizzonte concreto, una condizione abitabile. Già qui si coglie una differenza sostanziale: non il sogno vano, ma l’attuazione possibile. Bedeschi da oltre venticinque anni lavora con la luce, non come vezzo decorativo, ma come sostanza attiva, tangibile, capace di incidere sulla percezione e di trasformare gli spazi. Le sue parole luminose, modellate nel neon, sono presenze precise, mai casuali, che modificano lo statuto stesso dell’ambiente in cui vengono collocate. Il percorso della mostra è stato concepito in chiave site-specific. Le installazioni non sono aggiunte estranee, ma veri innesti che si radicano nei saloni, nei corridoi, negli ambienti domestici della Casa Museo. Le frasi luminose, collocate in punti mirati, creano linee di forza che interagiscono con le grandi statue di Andersen. È un dialogo silenzioso, eppure incisivo: la pesantezza del marmo trova un contrappunto nella leggerezza del bagliore, la monumentalità si riflette nella fragilità incorporea della luce. Andersen era convinto che l’arte potesse rinnovare l’umanità. La sua idea di “Città mondiale” univa classicismo ed echi simbolisti in una sintesi che voleva farsi modello universale. Bedeschi, a distanza di un secolo, risponde con un linguaggio diverso ma con identica tensione: costruire non pietre e piazze, ma luoghi interiori, percorsi di senso. Dove Andersen affidava il suo messaggio alla materia resistente, lei lo affida alla vibrazione effimera del neon. Non c’è opposizione, ma continuità: entrambi concepiscono l’arte come pratica architettonica, uno con la scultura, l’altra con la luce. Dal punto di vista tecnico, l’opera di Bedeschi mostra un rigore che sorprende chi si aspetta dall’arte luminosa soltanto effetti spettacolari. Le parole piegate e sagomate con il neon hanno una qualità quasi calligrafica. Ogni curva, ogni interruzione, ogni accento sembra calibrato con attenzione, eppure nulla appare rigido. La luce scorre fluida, vibrante, e restituisce alla parola una forza che la pagina stampata non possiede. È un linguaggio che ha radici nelle esperienze concettuali e minimaliste degli anni Sessanta e Settanta, ma che in lei si rinnova in una dimensione lirica. Il rapporto con lo spettatore è diretto. Le frasi luminose non raccontano, non illustrano, non spiegano: pongono domande. Sono segni che il visitatore incontra come indizi lungo un percorso. La Casa Museo diventa allora un labirinto non di corridoi, ma di significati, e ogni scritta è una soglia. Si tratta di un’operazione che restituisce al museo la sua funzione primaria: non custodire reliquie, ma sollecitare pensiero. Inserita nel contesto delle Giornate Europee del Patrimonio, la mostra acquista anche un valore emblematico. Il tema scelto quest’anno, “Architetture: l’arte di costruire”, trova in Eutopia una declinazione precisa. Andersen erigeva architetture materiali, Bedeschi architetture immateriali; entrambi mostrano come l’arte possa diventare struttura portante, non solo ornamento. È un messaggio che si lega all’attualità con naturalezza, senza bisogno di forzature. Il museo, sotto la direzione di Maria Giuseppina Di Monte, si conferma come spazio vivo. Non una casa cristallizzata, ma un organismo capace di accogliere linguaggi diversi. La collaborazione con Valentina Filamingo alla curatela ha permesso di orchestrare un percorso che non invade, ma si integra. Le installazioni luminose non sovrastano le sculture di Andersen, né si riducono a semplici note a margine. Piuttosto, agiscono come un controcanto, un filo sottile che lega passato e presente. Quello che colpisce maggiormente è la capacità di Bedeschi di muoversi con naturalezza fra memoria e attualità. Le sue opere non cercano di oscurare il museo, né di imporre una presenza aggressiva. Al contrario, si innestano negli interstizi, nei silenzi, negli spazi lasciati vuoti. È in questa misura che risiede la loro forza: la luce non cancella, ma rivela. La visita alla mostra diventa un esercizio percettivo. Si entra in un ambiente che già di per sé racconta una visione del mondo, quella di Andersen, e ci si trova a seguire tracce luminose che la rinnovano. Ogni stanza è attraversata da un equilibrio delicato: la materia pesante dei corpi scolpiti e la leggerezza delle scritte luminose si confrontano, si sfiorano, e producono una tensione che rende l’esperienza viva. Non si tratta di scenografia, ma di un reale scambio di energie. Questa operazione mostra quanto sia ancora possibile far dialogare linguaggi apparentemente inconciliabili. L’errore più comune, quando si porta il contemporaneo in un museo storico, è il contrasto forzato. Qui non accade. Bedeschi non entra in conflitto con Andersen, ma lo mette in prospettiva. Le sue opere di luce permettono di guardare diversamente le statue monumentali, di coglierne sfumature che altrimenti rischierebbero di restare mute. Il risultato complessivo è un “buon luogo”, proprio come recita il titolo. Non un non-luogo irreale, ma una condizione possibile, concreta. Eutopia dimostra che il museo può essere ancora spazio generativo, che la luce può farsi architettura interiore, che l’arte, quando è guidata da rigore e misura, riesce a collegare epoche lontane senza bisogno di proclami. In un momento storico in cui le parole “utopia” e “visione” rischiano di sembrare ingenue, Bedeschi restituisce loro dignità, offrendo una dimostrazione tangibile che la bellezza può ancora essere costruita.
Roma, Domus Aurea
MOISAI 2025 – IV edizione
Nerone: autoritratto con figure
Regia e ideazione: Fabrizio Arcuri
Testo: Fabrizio Sinisi
Con: Gabriel Montesi, Iaia Forte / Francesca Cutolo
Contralto: Maurizio Aloisio Rippa
Attori e attrici della Stap Brancaccio: Beatrice Buscemi, Chiara Brunetti, Chiara Liotta, Emilio De Rosa, Federica Petti, Flavia Lucangeli, Flavia Tomassini, Francesca Puorto, Leonardo Pocaterra, Ginevra Ceccherini, Margherita Bigazzi, Viola Dini, Leonardo Fantini, Giorgio Munaco, Giuseppe Franchina, Samuele Sabbatini, Matteo Gizzi, Nicolò Nitto, Amedeo Distilo
Compagnia di Danza e Circo Contemporaneo: Claudio e Paolo Ladisa
Coreografie: danzatrici dell’Accademia Nazionale di Danza, Greta Celegon, Sara Parisi
Musiche dal vivo: Ensemble musicale Santa Maria di Corte (arpa, flauto, violoncello)
Produzione: PAV
Con il sostegno del Parco archeologico del Colosseo
Dal 3 al 19 ottobre 2025 torna a Roma, negli spazi straordinari della Domus Aurea, la quarta edizione di Moisai, il progetto che ogni anno porta le arti performative all’interno del padiglione neroniano, restituendo vita e voce a uno dei luoghi più visionari dell’antichità. Dopo tre edizioni scandite dal dialogo tra artiste e artisti contemporanei e le Muse della Sala Ottagona, la rassegna cambia radicalmente prospettiva: per la prima volta, l’esperienza si concentra in un unico spettacolo site specific, replicato per tre weekend consecutivi (3-4-5, 10-11-12, 17-18-19 ottobre, due repliche al giorno). Un nuovo formato che trasforma Moisai in un percorso teatrale immersivo, capace di far rivivere la Domus Aurea come scena viva e itinerante. Protagonista della IV edizione è Nerone: autoritratto con figure, una creazione firmata dal regista Fabrizio Arcuri, da sempre attento al rapporto tra teatro e spazi non convenzionali, e dal drammaturgo Fabrizio Sinisi, tra le voci più rilevanti della scrittura teatrale italiana. In scena Gabriel Montesi e Iaia Forte/Francesca Cutolo (che si alterneranno nelle diverse repliche), affiancati dal contralto Maurizio Aloisio Rippa. Accanto a loro, le attrici e gli attori della Stap Brancaccio e le performance aeree curate dalla compagnia di Claudio e Paolo Ladisa, in collaborazione con la Next Generation Academy. Gli interventi coreografici vedono la partecipazione delle danzatrici dell’Accademia Nazionale di Danza, insieme a Greta Celegon e Sara Parisi. Le musiche, eseguite dal vivo dall’Ensemble musicale Santa Maria di Corte (arpa, flauto, violoncello), accompagneranno l’intero percorso. Il progetto è prodotto da PAV. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
A PLACE OF SAFETY
Viaggio nel Mediterraneo centrale
ideazione Kepler-452
regia e drammaturgia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con le parole di Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña
con Nicola Borghesi, Davide Enia, Dario Salvetti, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña
assistente alla regia Roberta Gabriele
scene e costumi Alberto Favretto
disegno luci Maria Domènech
suono e musiche Massimo Carozzi
consulente per il movimento Marta Ciappina
progetto video Enrico Baraldi
consulente alla drammaturgia Dario Salvetti
assistente alla regia volontario e video editor Alberto Camanni
scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
video dello spettacolo Vladimir Bertozzi
foto di scena Luca Del Pia
si ringrazia Giovanni Zanotti per il fondamentale contributo alla drammaturgia
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier (Francia)
in collaborazione con Sea-Watch e EMERGENCY
il progetto gode del sostegno del bando Culture Moves Europe, finanziato dall’Unione Europea e dal Goethe-Institut
spettacolo in italiano, inglese, spagnolo e portoghese con Sovratitoli
Roma, 26 settembre 2025
In un’epoca in cui il teatro rischia talvolta di ridursi a esercizio autoreferenziale o a mero intrattenimento, A Place of Safety di Kepler-452 si impone come operazione drammaturgica di insolita radicalità. Non già una messinscena che alluda metaforicamente alla realtà, ma una trasposizione diretta di essa, senza alcun filtro di mediazione estetizzante. La realtà stessa, nella sua nudità drammatica, si fa teatro, e il Mediterraneo centrale — la rotta migratoria più letale al mondo — diviene palcoscenico naturale di una tragedia che riguarda l’intera coscienza europea. Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, ideatori e registi, non hanno affidato il proprio progetto a interpreti professionisti, ma a soccorritori che di quelle acque conoscono il buio, la paura, il silenzio interrotto dalle grida di chi annaspa. Così, sul palcoscenico del Teatro Vascello, non compaiono personaggi fittizi, bensì uomini e donne che raccontano la loro esperienza diretta: Miguel Duarte, fisico matematico portoghese e da anni impegnato in missioni SAR con Sea-Watch; Flavio Catalano, già sommergibilista della Marina militare italiana, oggi volontario di EMERGENCY; Giorgia Linardi, giurista e portavoce di Sea-Watch; Floriana Pati, infermiera con lunga esperienza in medicina delle migrazioni; José Ricardo Peña, texano figlio di immigrati messicani, già elettricista navale. Essi portano in scena se stessi, con le lingue che meglio li definiscono — portoghese, inglese, spagnolo, italiano — componendo una polifonia che restituisce il carattere transnazionale e plurale dell’impresa. L’impianto drammaturgico si fonda su un principio di documentazione, ma evita la trappola della retorica pietistica. Non vi è enfasi compiacente, bensì una misura che rende la testimonianza più autorevole: a emergere non è la spettacolarizzazione del dolore, bensì la riflessione sulla responsabilità, sul peso morale di chi salva sapendo di non poter salvare tutti, sulla tensione tra l’Europa che proclama valori universali e l’Europa che erige muri e respinge. È un teatro che non consola né assolve, ma chiama lo spettatore a un atto di coscienza. Emblematica, in questo senso, la circostanza contingente che ha reso incerta la presenza di Duarte e Catalano. I due, imbarcati sulla Global Sumud Flottilla diretta a Gaza per consegnare aiuti umanitari, sono stati coinvolti in un attacco che ha colpito la nave Familia Madeira. Tale assenza, lungi dall’essere un accidente marginale, diventa elemento drammaturgico: lo spettacolo si struttura attorno alla possibilità che due dei suoi protagonisti reali non possano essere presenti, e quella mancanza si carica di valore simbolico, trasformandosi in testimonianza di una realtà che continua a scrivere se stessa, ben oltre i confini della scena. Dal punto di vista formale, la regia di Borghesi e Baraldi ricorre a un impianto scenico essenziale, con le scene e i costumi di Alberto Favretto, le luci di Maria Domènech e le sonorità di Massimo Carozzi, capaci di evocare senza mimare, di suggerire senza illustrare. I video di Vladimir Bertozzi e la cura visiva di Luca Del Pia collocano le testimonianze entro una cornice che non pretende di sostituirsi alla realtà, ma la incornicia per farne emergere il nucleo drammatico. Il tutto si regge su una tensione fra documento e trasposizione, fra cronaca e rito. Lo spettatore è così posto dinanzi a un doppio movimento: da un lato, l’immediatezza del racconto, che trasmette il senso di una realtà concreta e innegabile; dall’altro, la trasformazione teatrale che ne sottolinea la dimensione universale. Il Mediterraneo non è solo il mare di un confine geografico, ma il simbolo di un’intera civiltà europea in crisi di identità. L’“a place of safety” evocato dal titolo non è semplicemente il porto di sbarco, bensì un ideale etico, un luogo di dignità umana che la nostra epoca sembra smarrire. La forza dello spettacolo risiede, dunque, in questa tensione: non tanto nella perfezione esecutiva — che sarebbe fuorviante pretendere da interpreti non professionisti — quanto nell’autenticità della voce, nel tremore della parola che non recita ma rievoca, nella fragilità stessa del gesto che diviene segno. È qui che il teatro si mostra nella sua funzione primaria: non come evasione, ma come coscienza incarnata. Vi è chi ha ravvisato in questa operazione un documento memorabile, capace di inscriversi nella più alta tradizione del teatro civile europeo. Ed effettivamente, pur con i suoi inevitabili limiti di compattezza drammaturgica, A Place of Safety riesce a farsi rito collettivo, interrogando lo spettatore non sul passato remoto ma sull’oggi, sulla tragedia che si consuma a poche miglia dalle nostre coste. Un teatro che non “rappresenta” ma “presenta”, che non costruisce metafore ma espone ferite, e proprio per questo possiede un valore che va oltre l’arte: un valore civile e morale. L’operazione di Kepler-452 si colloca, così, in un orizzonte che supera le categorie consuete. Non è mero teatro documentario, non è spettacolo politico nel senso tradizionale, non è dramma né cronaca: è, piuttosto, un atto di testimonianza che assume forma teatrale. E in ciò sta la sua novità, la sua urgenza, la sua necessità. Photocredit Luca del Pia
Riprende dopo la pausa estiva la stagione lirica del Teatro Coccia di Novara. Si riparte con “La traviata” titolo sempre amatissimo dal grande pubblico. Quella proposta è una nuova produzione integralmente realizzata dal teatro novarese che conferma l’impegno produttivo ormai pienamente riconosciuto della Fondazione Teatro Coccia.
La parte musicale sarà affidata all’Orchestra Antonio Vivaldi sotto la direzione di Alessandro Cadario mentre le parti corali saranno affidate al coro novarese Schola Cantorum San Gregorio Magno di Trecate. La regia sarà affidata a Giorgio Pasotti che punta a una lettura simbolica fatta di richiami visivi all’arte tra Ottocento e Novecento: “La vita come l’arte, potrebbe sintetizzarsi in queste parole la nostra Traviata. Il mondo dell’immaginario si unisce o si specchia in quello reale del pubblico, e questo ribadisce la forza estrema e l’impatto ancora potente e attuale del teatro.
L’impianto scenografico riporterà lo spettatore, come in una galleria di ricordi, all’avanzare del tempo, al tentativo dei protagonisti di svincolarsi dalla propria condizione sociale, alle contraddizioni dell’amore. n un alternarsi di momenti pacati e drammatici, la spirale dell’opera verdiana ci porta a conoscere e riconoscere ciò che le atmosfere create da Egon Schiele ci suggeriscono dall’alto, incastonate in una scenografia che è più che una cornice di un quadro, diviene un quadro di vita” (si riportano le parole dello stesso regista). Le scene sono di Italo Grassi e i costumi di Anna Biagiotti.
Nei ruolo della protagonista ritroviamo Francesca Sassu, beniamina del pubblico novarese che torna al Coccia dopo il debutto in Cio Cio San dello scorso anno. Nelle recite del 27 e 30 settembre i panni di Violetta saranno sostenuti da Alexandra Grigoras.
Francesco Castoro e Mario Cassi vestiranno i panni di Germont padre e figlio (in alternanza con Carlo Raffaelli e Marcello Rosiello), Anna Malavasi e Mariateresa Federico si divideranno quelli di Flora. Completano il cast Martina Malvolti (Annina), Matteo Mollica (Il Barone Douphol), Ranyi Jang (Il Marchese d’Obigny), Omar Cepparolli (Il Dottor Grenville), Cherubino Boscolo (Giuseppe), Silvio Giorcelli (Un domestico) e Luigi Cappelletti (Un commissario). La Federico e la Malvolti sono allieve dell’Accademia AMO del Teatro novarese.
Le recite del 26, 27 e 30 settembre inizieranno alle ore 20:30, quella domenicale del 28 settembre alle ore 16:00.
PRIMA FACIE
di Suzie Miller
con Melissa Vettore
traduttrice Margherita Mauro
costumi Giovanna Buzzi
musiche Maria Bonzanigo
assistente alla regia Ilaria Cangialosi
scenografie e accessori Matteo Verlicchi
video designer Roberto Vitalini – bashiba.com
regia e disegno luci di Daniele Finzi Pasca
produzione Compagnia Finzi Pasca
produzione esecutiva Patrizia Capellari
produttore Antonio Vergamini
direttore tecnico e assistente light designer Pietro Maspero
coordinamento comunicazione, foto di scena Viviana Cangialosi
comunicazione Federica Zampatti
ufficio Stampa Alessandra Morgagni e Barbara Ruiz
graphic design Antonio Vettore Catan
ricerca Marco Finzi
produzione Gea Pavan, Francesca Comin, Marc-André Goyer
amministrazione Katia Lamacchia
photo portraits Ale Catan
Questa produzione è stata autorizzata per gentile concessione di The Agency(London) Ltd 24 Pottery Lane, London W11 4LZ
Daniele Finzi Pasca mette in scena PRIMA FACIE della drammaturga australiana Suzie Miller. E’ la storia di Tessa, un’avvocata penalista spesso impegnata in casi di violenza sessuale. Improvvisamente un evento sconvolgente la porta ad una profonda riflessione sui concetti di giustizia in un sistema giudiziario spesso contraddittorio. PRIMA FACIE ha generato ovunque dibattiti sulla necessità di un sistema giudiziario più attento alle esigenze delle vittime di reati sessuali. Lo spettacolo incoraggia le donne a condividere le proprie esperienze e contribuisce alla formazione di un movimento di sostegno, coinvolgendo tutta la società a riflettere su nuove prospettive in ambito giuridico. PRIMA FACIE ha debuttato a Sydney nel 2019. Nell’aprile del 2022 è andato in scena a Londra, vincendo due Laurence Olivier Award for Best New Play e successivamente ha debuttato a Broadway. Tradotto in 20 lingue e messo in scena in 37 paesi, lo spettacolo è diventato un fenomeno globale. Qui per tutte le informazioni.