Cremona, Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2025
“ORFEO ED EURIDICE”
Azione teatrale in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck
Orfeo CECILIA BARTOLI
Euridice e Amore MÉLISSA PETIT
Les Musiciens du Prince – Monaco
Il Canto di Orfeo
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del Coro Jacopo Facchini
Cremona, 11 giugno 2025
Leggere il nome di Gluck nel programma di un Festival dedicato a Monteverdi potrebbe destare qualche perplessità. Ma se persino il rivoluzionario, col suo voler uccidere i padri, finisce per resuscitare i nonni, a maggior ragione farà lo stesso il più moderato riformatore. In fondo, la cosiddetta «riforma gluckiana» (in verità un fine progetto diplomatico del Principe Kaunitz, con la complicità del conte Durazzo, e gli ingegni compositivo di Gluck, letterario di de’ Calzabigi e coreografico dell’ingiustamente marginalizzato Angiolini) altro non fa che sfrondare l’opera italiana del sovraccresciuto baroccume, e riportarla, per dir così, all’originario ceppo monteverdiano. D’altro canto però, se l’opera italiana ha da esser riformata, è necessariamente al suo contraltare francese, la Tragédie Lyrique, che bisogna guardare. E non soltanto per ragioni puramente artistiche (su tutte, la preminenza del testo poetico sul virtuosismo canoro e l’essenzialità narrativa) ma anche produttive: il sistema impresariale italiano mal si presta ad intellettualistiche sperimentazioni, mentre a Corte non valgono le leggi del mercato (e in Francia l’opera è, da sempre, questione di Stato). Sicché non stupisce che dopo l’internazionale viennese, sua culla, l’Orfeo abbia raggiunto quella parmense, di corti, avamposto della parigina. Difatti, roccaforte della cultura francese nella penisola, già con Guillaume du Tillot e, tramite il solito Algarotti, con il napoletano Tommaso Traetta, a Parma il vento del teatro francese aveva preso prepotentemente a spirare.
Per l’occasione Gluck rivede la troppo esigente orchestrazione viennese, e sfoltisce leggermente perché la sua «azione teatrale» in tre atti deve diventare il terzo ed ultimo atto di uno spettacolo composito, «Le feste d’Apollo, celebrate sul Teatro di Corte nell’agosto del MDCCLXIX per le auguste seguite nozze tra il Real Infante Don Ferdinando e la R. Arciduchessa Infanta Maria Amalia».Ma soprattutto riscrive la parte del protagonista per un nuovo interprete: sempre un castrato, Giuseppe Millico, questa volta però dalla voce non di contralto, com’era quella di Gaetano Guadagni a Vienna nel 1762, ma di soprano. È questo il tratto saliente della versione parmense del 1769, ed è questo il motivo dell’insolita scelta: la riscrittura per Millico calzando splendidamente alla voce di Cecilia Bartoli. La ripresa del Coro iniziale “Ah! Se intorno a quest’urna funesta” in chiusura dell’opera è una soluzione drammaturgica di indubbio effetto e sottile sagacia. Così si ripristina rettamente secondo le fonti antiche la «catastrofe» da de’ Calzabigi a malincuore sacrificata all’assolutismo del lieto fine, e si evita quel terzetto che, per pochi minuti di musica, imporrebbe un’interprete di più. Si tratta, è vero, di un arbitrio: mai un finale tragico avrebbe potuto coronare un festeggiamento nuziale. Ma cosa c’è di più lontano dalla prassi esecutiva originale del ligio rispetto di una particolare versione dell’opera?
Gianluca Capuano, fra i massimi esperti di pratiche esecutive antiche, già al Festival di Salisburgo 2023, con gli stessi complessi e lo stesso cast, aveva messo a punto questa nuova versione dell’Orfeo: basata su quella parmense, ma con l’aggiunta dell’«Air» (il numero di danza) delle furie dalla successiva versione parigina del 1774, e con l’inedito finale che s’è detto. Con la differenza che a Cremona l’Ouverture è ritornata al suo posto, laddove a Salisburgo ne faceva le veci un numero dal balletto Don Juan del 1761. Per dire che un approccio libertario, anzi libertino, volto al piacere del fare ed ascoltare musica, è forse il più congeniale al repertorio settecentesco.
Con Les Musiciens du Prince – Monaco l’intesa è perfetta. Laccio alla libertà esecutiva è solo la squisita sensibilità del concertatore accortissimo. Ne risulta una sterminata varietà, sia nell’articolazione della frase sia nella produzione timbrica di tinte diversissime. Il Canto di Orfeo, diretto da Jacopo Facchini, è del pari un complesso affiatato di finissimi musicisti, capaci di trattare le proprie voci quali strumenti: come suggeriscono i trattatisti antichi e come, forse, dovrebbe esser sempre. Dolcissima nel ruolo d’Euridice, in quello d’Amore un filo caricaturale nell’espressione, Mélissa Petit ha voce deliziosa e timbratissima, morbida e luminosa, che mette al servizio del testo. Del resto, nel saper far brillare una cantante, Capuano è formidabile. Cecilia Bartoli è, come tutti sanno, musicista, cantante, impresaria; e tutt’e tre ai massimi livelli. Voce personalissima ed immediatamente riconoscibile, vitalità ed esuberanza irresistibili fanno della grande cantante più che una diva una vera icona o, se si può dire così, una «maschera vocale». Quelli che potrebbero sembrare eccessi espressivi in realtà non lo sono, perché appartengono al suo carisma naturale: non si tratta di effetti, né di forzature, ma della sua spontanea, e straordinaria, disposizione. Al contempo, la Bartoli è ormai una tipologia vocale: come la Falcon con il «soprano Falcon», così la Bartoli potrebbe dare il nome ad un «soprano Bartoli». Che si distinguerebbe per la bellezza e la corposità del timbro più che per la vastità di proporzioni della voce; e soprattutto per la straordinaria versatilità, sia prettamente musicale sia espressiva in senso lato, e l’attitudine scenica. Il sommesso finale, con quel suo pianissimo sospeso nell’irrealtà, ha scatenato quasi un minuto intero di estatico silenzio, cui è seguito un festoso ed interminabile delirio d’applausi.
Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Wolfgang Amadeus Mozart, l’ultimo appuntamento con la stagione lirica dell’Opera Carlo Felice 2024-25, è in programma da venerdì 13 fino a domenica 22 giugno 2025.
Direttore Giancarlo Andretta, regia di Daniele Abbado,scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Calì, coreografie DEOS, luci di Luciano Novelli.
Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini. Con i Solisti dell’Accademia di alto perfezionamento e inserimento professionale dell’Opera Carlo Felice Genova diretta da Francesco Meli. Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Sarastro: Antonino Arcilesi, Giovanni Augelli (14,20, 22)
Tamino: Samuele Di Leo, Yiyan Gong (14,20, 22)
Oratore/Primo sacerdote: Luca Romano
Secondo sacerdote/Primo armigero: Gianluca Moro
Regina della Notte: Martina Saviano, Sona Gogyan* (14,20, 22)
Pamina: Gabriella Ingenito, Ilaria Monteverdi (14,20, 22)
Prima dama: Gesua Gallifoco
Seconda dama: Silvia Caliò
Terza dama: Alena Sautier
Tre geni: Arianna Russo, Vittoria Trapasso, Eliana Uscidda, Denise Colla, Michela Gorini, Lucilla Romano
(Solisti del Coro di voci bianche del Teatro Carlo Felice)
Una vecchia (Papagena): Giada Venturini, Eleonora Marras* (14,20, 22)
Papageno: Ernesto de Nittis, Willingerd Giménez (14,20, 22)
Monostatos: Davide Zaccherini, Timóteo Bene Júnior (14,20, 22)
Secondo armigero: Davide Canepa
Tre schiavi: Thomas Angarola, Federico Benvenuto, Stefano Pavone
Pompei, Parco Archeologico
CASA DEL GIARDINO DI ERCOLE O DOMUS DEL PROFUMIERE
Pompei, 11 giugno 2025
La recente riapertura della cosiddetta Casa del Giardino di Ercole, situata nell’Insula 8 della Regio VI di Pompei, rappresenta un momento significativo nel panorama degli interventi di valorizzazione e di studio congiunto tra archeologia, botanica storica e cultura materiale. L’edificio, noto anche come Casa del Profumiere, in virtù della presenza di numerosi unguentari e strumenti legati alla lavorazione di essenze, è oggetto di un’operazione di restituzione filologica del giardino antistante, interpretato non come semplice spazio decorativo, ma quale struttura produttiva attivamente inserita nel sistema economico della domus. Il progetto, inaugurato l’11 giugno 2025, ha visto la messa a dimora di oltre 800 rose antiche, 1.200 viole, 1.000 esemplari di Ruscus, nonché varietà arboree come Prunus avium, Malus cydonia e Vitis vinifera, ricollocate secondo principi di stratificazione paleoambientale in coerenza con i dati pollinici, fitoliti e macroresti analizzati fin dagli anni Cinquanta da Wilhelmina Jashemski. Tale azione di ripristino è stata resa possibile grazie a una sponsorizzazione tecnica dell’Associazione Rosantiqua, in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli e sotto la supervisione scientifica di studiosi quali Antonio De Simone, Salvatore Ciro Nappo, Luigi Frusciante e Gaetano Di Pasquale. L’abitazione, databile nella sua prima configurazione al III secolo a.C., mostra, secondo le evidenze stratigrafiche rilevate nei cicli di scavo del 1953–1954, 1971–1972 e 1985–1988, una serie di trasformazioni edilizie tipiche del processo di ristrutturazione tardo-repubblicano delle unità abitative pompeiane. A partire dalla metà del I secolo a.C., l’insula risulta oggetto di una razionalizzazione degli spazi abitativi, con demolizioni selettive e accorpamenti funzionali alla riconversione produttiva di alcune domus. Nel caso specifico della Casa del Giardino di Ercole, il sisma del 62 d.C. rappresenta uno spartiacque cronologico per l’ampliamento e la conversione dell’area ortiva in hortus specializzato nella coltivazione di essenze floreali e arboree destinate alla lavorazione di profumi e unguenti. L’identificazione funzionale del sito si basa sul rinvenimento di contenitori vitrei (ampullae), pestelli, recipienti in ceramica e resti di apparati di triturazione, associabili a un’attività di trasformazione e commercializzazione. Il giardino, indagato secondo criteri archeobotanici, si caratterizza per la presenza di un sistema di irrigazione antico, raramente documentato in altri contesti pompeiani, e per una canalizzazione del flusso idrico coerente con l’organizzazione orticola descritta da Columella e Plinio il Vecchio. Il ripristino di tale sistema ha comportato una rilettura integrata del piano di campagna originario, con attenzione all’orientamento solare, alla disposizione dei pergolati e alla corretta collocazione dei tralci di vite secondo i modelli agronomici antichi. Il valore simbolico e devozionale del giardino si manifesta nella ricostruzione del larario, dove è stata riposizionata – in forma di copia in terracotta – la statua di Ercole ritrovata durante gli scavi, già considerata elemento distintivo dell’edificio. Adiacente al larario si colloca il triclinio estivo, ricostruito sulla base delle impronte negative dei pali lignei rinvenute durante le indagini, e con una resa prospettica che riprende l’originaria scenografia vegetale. L’iscrizione cras credo (“domani si fa credito”), posta sull’ingresso dell’abitazione, è stata oggetto di analisi epigrafica e semantica: interpretata in passato come formula scherzosa o proverbiale, si inserisce più verosimilmente in un contesto commerciale e pubblico, suggerendo una funzione ibrida della domus, oscillante tra spazio privato e luogo di transazione. L’operazione di valorizzazione della Casa del Giardino di Ercole non si limita a un intervento estetico o didattico. Essa costituisce un modello di archeologia paesaggistica, capace di restituire non soltanto la volumetria degli ambienti ma anche la funzione produttiva e rituale del giardino antico, in un’ottica di archeologia sensoriale e culturale. La rinnovata fruizione – prevista ogni martedì come “casa del giorno” – consente ai visitatori di attraversare un contesto immersivo, in cui lo spazio domestico si fonde con il paesaggio odoroso e vegetale, secondo una prassi che i Romani non concepivano come separabile. L’intervento, esemplare nella convergenza tra fonti materiali e ricostruzione documentaria, dimostra come l’archeologia possa restituire significato a quelle componenti “mute” del paesaggio antico – terra, acqua, piante – che solo uno sguardo interdisciplinare è in grado di far parlare. Non più soltanto pietre e muri, ma forme di vita e modelli economici, sistemi di gestione delle risorse e conoscenze agronomiche tradotte in scelte spaziali. Infine, la collaborazione tra enti pubblici e soggetti privati, come Rosantiqua, testimonia la crescente importanza delle sinergie tra ricerca e mecenatismo culturale. In questo contesto, Pompei si conferma non solo sito archeologico, ma laboratorio vivo per la sperimentazione di un’archeologia inclusiva, capace di integrare la precisione dello scavo stratigrafico con la dimensione emozionale e paesaggistica della restituzione storica.
Venerdì 13 giugno si alza il sipario sul 102° Arena di Verona Opera Festival: Nabucco di Verdi, intenso affresco corale di ispirazione biblica, diventato “colonna sonora” del Risorgimento italiano, rivive in una produzione tutta nuova firmata in ogni aspetto dal visionario Stefano Poda. L’opera diventa un viaggio senza tempo dal conflitto alla riconciliazione, dalla superbia alla speranza, tra umanesimo e tecnologia: i popoli in conflitto di Nabucco sono tutti gli uomini, tutti i popoli, di ieri, di oggi, e forse di domani, che scoprono sé stessi attraverso la separazione, violenta e dolorosa ma con la speranza di un nuovo ricongiungimento. Una produzione che è anche una grandissima sfida tecnica per le maestranze areniane e per i numerosi laboratori coinvolti, con inedite soluzioni per i 3.000 costumi e spettacolari effetti scenici. In scena 400 tra artisti, mimi, figuranti, Ballo, impegnati in inedite coreografie di battaglia di scherma, e naturalmente il Coro, vero protagonista dell’opera.
È il nuovo Nabucco che Rai Cultura propone sabato 21 giugno alle 21.20 su Rai 3, in occasione della Giornata Mondiale della Musica, in collaborazione con il Ministero della Cultura. In scena Amartuvshin Enkhbat. Accanto a lui Anna Pirozzi come Abigaille, Vasilisa Berzhanskaya (Fenena), Francesco Meli (Ismaele), Roberto Tagliavini (Zaccaria), Carlo Bosi (Abdallo), Gabriele Sagona (gran sacerdote di Belo) e Daniela Cappiello (Anna). Oltre 160 gli artisti del Coro diretti da Roberto Gabbiani, e 120 i professori dell’Orchestra di Fondazione Arena, diretti dall’esperto maestro Pinchas Steinberg, che fa il suo atteso ritorno a Verona a 25 anni dal suo esordio areniano.
L’opera replica anche sabato 14 giugno, con nuovi debutti nel cast: Maria Josè Siri, Galeano Salas, Alexander Vinogradov, Matteo Macchioni, Elisabetta Zizzo. Nelle successive recite dell’opera troveremo Anna Netrebko interpreta per la prima volta in Italia la parte di Abigaille, (17, 24, 31/7), con Olga Maslova (dal 9 agosto) accanto alla Fenena di Aigul Akhmetshina. Baritoni titolari saranno Luca Salsi e Youngjun Park, mentre nei panni di Zaccaria si avvicendano anche Christian Van Horn e Simon Lim. Nabucco è solo la prima delle 51 serate di spettacolo del Festival 2025, che comprende 5 titoli d’opera e 5 fra concerti e balletti fino al 6 settembre. Confermati gli orari d’inizio spettacolo già in vigore la scorsa estate: le rappresentazioni di giugno iniziano alle 21.30, quelle di luglio alle 21.15 e in agosto e settembre il sipario si alza alle 21. I biglietti per tutte le date sono già in vendita su arena.it, sui canali social dell’Arena di Verona e su Ticketone. Speciali riduzioni sono riservate agli under 30 e agli over 65.
È stata presentata la Stagione 2025/26 del Teatro Bellini di Napoli. «[…] Abbiamo costruito una programmazione che sfida le convenzioni, che intreccia classico e contemporaneo, che mette in dialogo voci diverse per raccontare il nostro tempo con intensità e verità […]»: Gabriele Russo, direttore artistico del Bellini.
La Stagione riprenderà, a settembre, con Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo e Franca Rame, che torna in scena dal 26 settembre al 12 ottobre 2025 (regia di Antonio Latella). Dal 14 al 19 ottobre 2025, andrà in scena Finale di Familie Flöz (regia di Hajo Schüler), spettacolo con cui verrà inaugurata la Stagione – che proseguirà con Donald. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man di e con Stefano Massini, in scena dal 21 al 26 ottobre 2025. A novembre, invece, dal 4 al 9, andrà in scena L’Empireo (The Welkin) di Lucy Kirkwood (traduzione di Monica Capuani, Francesco Bianchi; regia di Serena Sinigaglia). Un altro importante appuntamento teatrale è Finale di partita di Samuel Beckett (traduzione di Carlo Fruttero; regia di Gabriele Russo), in scena dal 13 al 30 novembre 2025: «[…] Il cuore del dramma beckettiano resta lo stesso: una famiglia chiusa in un eterno gioco al massacro. Ma oggi, dopo il trauma collettivo della Pandemia, il senso di questa segregazione assume nuove sfumature. […]» (Gabriele Russo). Dal 2 al 7 dicembre 2025, andrà in scena Amleto², uno spettacolo di e con Filippo Timi: «[…] L’artista stravolge il testo shakespeariano, rovescia passioni e personaggi nella stessa gabbia da circo all’interno della quale si consuma un elogio della follia. […]». La Stagione 2025/26 proseguirà con un appuntamento dedicato alla danza, “Dance&Performance”: May B, con coreografia di Maguy Marin, in scena dal 10 al 14 dicembre 2025. E poi: «[…] A grande richiesta torna a Napoli Dignità Autonome di Prostituzione, lo spettacolo che ha decisamente scardinato le convenzioni classiche del Teatro […]», dal 26 dicembre 2025 all’11 gennaio 2026 (spettacolo e regia di Luciano Melchionna, dal format di Betta Cianchini e Luciano Melchionna). Dal 13 al 18 gennaio 2026, invece, andrà in scena Migliore, scritto e diretto da Mattia Torre, con Valerio Mastandrea – e dal 22 al 25 gennaio 2026, THE WALL LIVE Pink Floyd Legend: «Dopo il grande successo della Pink Floyd Legend Week dello scorso anno, i Pink Floyd Legend tornano al Teatro Bellini di Napoli con un evento unico: la messa in scena integrale di The Wall, il celebre concept album dei Pink Floyd. […]». La Stagione 2025/26 proseguirà con: La città dei vivi, liberamente tratto dal romanzo di Nicola Lagioia – con regia, video e drammaturgia di Ivonne Capece, dal 27 gennaio al 1 febbraio 2026: «[…] Lo spettacolo La città dei vivi porta in scena la discesa in un inferno morale che appartiene non solo ai protagonisti, ma a un’intera società. Roma diventa un personaggio […]»; Tre modi per non morire. Baudelaire, Dante, i Greci di Giuseppe Montesano, con Toni Servillo (dal 4 all’8 febbraio 2026); Come gli uccelli di Wajdi Mouawad (traduzione di Monica Capuani; regia di Marco Lorenzi. Dal 10 al 15 febbraio 2026); La rigenerazione di Italo Svevo, con regia di Valerio Santoro, in scena dal 17 al 22 febbraio 2026. La Stagione proseguirà con la commedia in tre atti di Eduardo De Filippo: Sabato, domenica e lunedì – in scena, con la regia di Luca De Fusco, dal 24 febbraio all’8 marzo 2026: «Dei massimi capolavori del Teatro di Eduardo Sabato, domenica e lunedì è il testo più borghese, quasi cechoviano; la sua conclusione lieta sembra la meno agrodolce, la più sinceramente solare. […]» (Luca De Fusco). Torna al Bellini, il 6 e il 7 marzo 2026, Massimo Recalcati, «con due lectio magistralis sulla psicoanalisi». E poi: Odissea, con Stefano Accorsi, dal 10 al 15 marzo 2026; Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill (traduzione di Bruno Fonzi; regia di Gabriele Lavia), dal 17 al 22 marzo 2026. Ci sarà, dal 26 al 29 marzo 2026, un altro appuntamento di “Dance&Performance”: Pite/Preljocaj/Tortelli – Trittico Solo Echo, Reconciliatio, Glory Hall. Gli ultimi due appuntamenti teatrali saranno: Giu-Ro. Libera Gioventù Bannata dal Tempo, dall’11 al 26 aprile 2026: versi, canti e testi, drammaturgia di Mimmo Borrelli, liberamente “shak-ispirati” al dramma del Bardo (Romeo e Giulietta); regia di Mimmo Borrelli; Stato contro Nolan (un posto tranquillo) di Stefano Massini, con regia di Alessandro Gassmann, dal 7 al 24 maggio 2026.
Qui, per tutte le altre informazioni riguardanti il Programma del Bellini; qui, invece, per conoscere la Stagione 2025/26 del Piccolo Bellini.
Città del Vaticano, Musei Vaticani
PAOLO VI E JACQUES MARITAIN: IL RINNOVAMENTO DELL’ARTE TRA FRANCIA E ITALIA (1945-1973)
in collaborazione con i Musei Vaticani, Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, Centro Culturale San Luigi dei Francesi/ Institut français – Centre Saint-Louis e Bibliothèque Nationale et Universitaire de Strasbourg
Roma,12 giugno 2025
Un dipinto sacro non si guarda mai da soli. Anche quando si è fisicamente soli di fronte a un’opera, ci sono sempre altri sguardi che ci accompagnano: lo sguardo di chi l’ha creata, lo sguardo di chi l’ha amata prima di noi, lo sguardo di chi ha creduto che lì, tra il silenzio della materia e il fremito dell’invisibile, potesse trovare una risposta. Forse per questo, in fondo, Jacques Maritain non ha mai scritto “sull’arte”, ma per l’arte: come se l’arte fosse una persona da difendere, da consolare, da far parlare. La mostra “Paolo VI e Jacques Maritain: il rinnovamento dell’arte sacra tra Francia e Italia (1945-1973)”, ai Musei Vaticani, è tutto fuorché una semplice esposizione. È un racconto sussurrato tra le mura di pietra di due uomini che si sono cercati attraverso parole, opere e destini. È anche un modo per chiedersi: che cosa deve essere oggi l’arte religiosa? Un ornamento? Un’illustrazione? O una lotta, un’urgenza, una necessità di incarnare lo spirituale quando tutto intorno ci spinge verso il rumore? Nel cuore dei Musei Vaticani, là dove le stanze di Raffaello cercano ancora di parlare al cielo e la Cappella Sistina grava con la sua onniscienza michelangiolesca, questa piccola mostra è un’introspezione. Ci si muove tra lettere, disegni, pitture, ma in realtà ci si muove tra voci. E la voce che più vibra, che più risuona, non è quella di un artista, ma quella di un filosofo che ha saputo farsi “ponte”, non soltanto tra Chiesa e cultura, ma tra l’umano e il divino. Quando Maritain fu inviato a Roma come ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, nel 1945, portava con sé un’idea di cristianesimo che non voleva essere rifugio, ma fermento. Non cercava nelle stanze vaticane una quiete diplomatica, ma un dialogo che sapesse farsi carne. A quell’epoca Roma era una città sventrata dalla guerra, eppure nei suoi caffè e nei suoi chiostri si respirava l’inizio di un’altra battaglia, quella per dare forma al sacro in un mondo secolarizzato. E proprio lì, tra i marmi antichi e la polvere dei codici, si rinsaldò la sua amicizia con Giovanni Battista Montini. Un’amicizia che non si nutriva solo di parole — anche se le lettere tra i due potrebbero essere lette come un romanzo sull’utopia cristiana — ma di progetti concreti: su tutti, la volontà di restituire all’arte sacra quella tensione spirituale che la modernità sembrava aver disinnescato. Quello che colpisce nel percorso della mostra non è tanto la bellezza delle opere — da Maurice Denis a Georges Rouault, da Chagall a Matisse, da Severini a Congdon — quanto la fragilità che esse contengono. Fragilità nel senso di apertura, di desiderio di ascolto. Queste non sono opere che impongono, che predicano. Sono opere che domandano. Che pongono un problema: come si dipinge Dio dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo il Concilio? È qui che l’influenza di Maritain, e soprattutto del suo “umanesimo integrale”, diventa centrale. Perché l’arte, per lui, non è mai fine a se stessa. Non è mai autonoma nel senso di autarchica. Ma lo è nella misura in cui si fa libera di seguire un’ispirazione che viene da altrove. C’è un passaggio nei suoi scritti in cui dice che il compito dell’artista non è rappresentare il mondo, ma lasciare che il mondo lo attraversi. Questa idea è visibile nella selezione esposta, anche nei tratti più lievi: un disegno, una fotografia, una dedica. E poi ci sono le presenze-assenze. Come quella di Raïssa, compagna di vita e di fede, il cui sguardo aleggia in ogni stanza pur non essendo mai al centro. Fu lei a guidare il filosofo verso la conversione, fu lei a costruire attorno a lui un cenacolo silenzioso ma operoso, popolato da artisti e poeti, da credenti e scettici, da cercatori di senso che non avevano paura del dubbio. Ogni opera presente sembra portare con sé una preghiera incompiuta. La cappella di Vence di Matisse non è solo un capolavoro: è una dichiarazione d’amore per la luce. I crocifissi di Rouault non consolano, ma inquietano. Le forme di Chagall sembrano cercare un linguaggio per dire l’ineffabile, ma lo fanno con la leggerezza del sogno. Nulla, in questa mostra, è “spiegato”. Nulla è chiuso. Ogni teca è una soglia. Ogni tela è un’invocazione. Eppure, la mostra ha anche un sottotesto più urgente: quello della responsabilità dell’arte oggi. In un tempo in cui il sacro è ridotto a souvenir, e la spiritualità a performance estetica, questo percorso espositivo ci interroga su cosa significhi credere nella bellezza come via della verità. E ci ricorda che l’arte sacra, se vuole sopravvivere, non deve essere né nostalgica né decorativa, ma capace di ferire e guarire allo stesso tempo. Il fatto che Paolo VI abbia voluto una Collezione di Arte Religiosa Moderna nei Musei Vaticani — contro molte resistenze, e in un tempo di grandi incertezze — è di per sé un atto profetico. Non una collezione di santi con l’aureola, ma di artisti che, pur non dichiarandosi credenti, hanno saputo toccare il mistero con onestà. La presenza, in mostra, anche del domenicano Marie-Alain Couturier, teorico di un’arte sacra “liberata” dalla committenza ecclesiastica e più radicale del suo stesso amico Maritain, aggiunge complessità. I due si opposero più volte. Ma non nel nome della verità, bensì dell’urgenza. Due modi diversi di invocare lo stesso Dio. Forse è proprio questo che ci insegna questa piccola, intensa mostra: che Dio non è dove lo cerchiamo, ma dove siamo disposti ad ascoltarlo. Anche in un segno incerto, in una pennellata sbagliata, in una stanza in penombra dei Musei Vaticani, mentre fuori Roma brulica di turisti e di selfie. Lì, dove l’arte non pretende di convertire ma solo di farsi attraversare dal sacro, nasce la vera spiritualità. E chi guarda non resta mai davvero solo.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Sala Zubin Mehta
Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”
Direttore Lorenzo Donati
Soprano Livia Rado
Pianoforti Aldo Orvieto, Anna D’Errico
Arpe Emanuela Battigelli, Stefania Scapin
Percussioni Antonio Caggiano
Chigiana Percussion Ensemble
Giulio Ancarani, Francesco Conforti, Carol Di Vito, Davide Fabrizio, Roberto Iemma, Matteo Lelli, Davide Soro
Chigiana Live Elettronics Ensemble
Live elettronics Alvise Vidolin, Nicola Bernardini, Julian Scordato
Filippo Perocco: “Disegnare rami” per soprano, doppio coro, due pianoforti ed elettronica – 2025; Luigi Dallapiccola: “Canti di prigionia” per coro misto e piccolo ensemble strumentale.
Firenze, 7 giugno 2025
Nella Sala Zubin Mehta, davanti ad un pubblico molto attento, l’omaggio a Luigi Dallapiccola in occasione del 50mo della sua dipartita attraverso i Canti di prigionia (1938-1941), attingendo a testi in lingua latina di prigionieri «di uomini che avevano lottato e creduto» come specifica il compositore e basati su una serie di dodici suoni che costituiscono la base dell’intero corpus. Lavoro originale e tra i più significativi della sua produzione che prende vita, come dichiara egli stesso, dalla circolazione delle voci che il fascismo seguisse l’esempio hitleriano promuovendo una campagna antisemita, esprimendo così la sua protesta ed indignazione attraverso quest’opera. Nella prima parte è stata eseguita in prima assoluta Disegnare rami per soprano, doppio coro, due pianoforti ed elettronica di Filippo Perocco, commissionata dall’Accademia Chigiana di Siena. Sul palco il Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini” nella disposizione a doppio coro, compagine che si caratterizza per ampio repertorio e significative collaborazioni. A completare l’organico musicisti attivi nei circuiti della musica contemporanea: Livia Rado, soprano dotato di appropriata vocalità e grande sensibilità per questo tipo di repertorio, i pianisti Aldo Orvieto e Anna D’Errico, Alvise Vidolin con Nicola Bernardini, Julian Scordato alla regia del suono. Sul podio Lorenzo Donati che, per tutto il programma, ha evidenziato una concertazione ben strutturata, volta alla ricostruzione delle partiture, nell’intenzione di raggiungere un’interpretazione più vicina possibile all’inventio e al pensiero dei compositori. Il pubblico, nella composizione di Perocco, catapultato nella materialità della voce in una sorta di esplorazione aperta, includendo l’elettronica, ha assistito ad un edificante sviluppo germinale volto alla trasmissione di un cangiante paesaggio sonoro (anche allusivo ed evocativo) che include la riorganizzazione di ogni minima vibrazione che può riferirsi altresì a concetti multipli ed estetici. Organizzata in quattro movimenti: Veglia, Carillon, Sogno-Metamorfosi-Seme, Congedo, fin dall’inizio con l’intonazione del soprano «non è ombra sulle mie fredde radici» si è intuito quanto Disegnare rami evochi atmosfere magiche ove immaginare l’arbor all’interno dell’ecosistema e della vita sul pianeta terra. Tuttavia la dichiarazione del soprano non trova riscontro nella percezione umana del coro, il quale si oppone affermando, con vocalità fascinosa, che proprio a causa del tintinnamento dell’ombra la voce «oscilla» e «sussurra fino all’ultima foglia tremula».
Conseguenza di ciò è che dalla proiezione dell’ombra scaturisce un senso di freddo tale da colpire le radici dell’albero, rischiando la sua vulnerabilità e precarietà o l’assenza di armonia con la natura. Al pubblico non è rimasto che ascoltare «gli alberi che parlano» e vivere questa esperienza soggettivamente ed emotivamente. Pur di fronte alla ‘frantumazione’ del testo cantato e della «sventurata musica che muore nel nascere» (Leonardo) non è stato fondamentale comprendere, considerando che l’«impenetrabile legno» è la stessa impenetrabilità della materia di una partitura che Bauman definirebbe ‘liquida’. A ferire le radici dell’albero, attingendo alla metafora, come ha sottolineato Donati, è la natura distruttiva delle guerre.
Ecco allora che i Canti di prigionia, in tale contesto, manifestano ancor più un’autentica potenza emotiva radicata nella storia e nell’esperienza di vita collettiva affidando ai musicisti l’interpretazione del dolore e allo stesso tempo l’imprecazione «O Domine Deus! Speravi in Te […] nunc libera me». Organizzati per esprimere una narrazione complessa, sono ‘trittico sonoro’ nella seguente successione: I. Preghiera di Maria Stuarda (O domine Deus! Speravi in Te); II Invocazione di Boezio (Felix qui potuit boni / fontem visere lucidum); III Congedo di Girolamo Savonarola (Premat mundus, insurgant hostes, / nihil timeo) ove la massa corale è vista come insieme di individui in cui le singole voci si fondono in un unico e potente suono.
È bastato ascoltare nell’ Introduzione–molto lento la reiterazione scolpita delle prime quattro note del Dies Irae dalle due arpe e timpani, all’interno di una sonorità grave e profonda prodotta dai due pianoforti e alcuni strumenti a percussione, per entrare in una dimensione meditativa ed escatologica del destino umano. Oltre a ricordare il «Dies Irae, dies illa /solvet saeculum in favilla» per l’ascoltatore più attento poteva rappresentare metaforicamente la ‘lanterna di Dioniso alla ricerca dell’uomo’ congiuntamente al cantus firmus su cui Dallapiccola costruisce le diverse relazioni contrappuntistiche che prendono vita dal sistema delle dodici note presenti in tutta la composizione. Si è così avvertita la necessità di un’illuminazione spirituale ma si sono percepiti, anche quando le voci cantano a bocca chiusa, lontani echi, amplificati dal buio della notte, di una società disorientata e della «cronaca, in forma di poesia, di un dramma che ha colpito l’intera umanità, in un abisso di ferocia in cui cominciarono cose che, purtroppo, non hanno ancora finito di cominciare» (Mario Ruffini).
Il Coro, la Chigiana Percussion Ensemble, la Chigiana Live Elettronics Ensemble, le percussioni di Antonio Caggiano, unitamente agli altri musicisti che hanno collaborato al concerto, sono risultati importanti tasselli che hanno contribuito al successo della serata che ha visto Lorenzo Donati autentica e solida guida nel laborioso processo creativo delle due composizioni. Applausi per Perocco, presente in sala, all’intera compagine musicale e a coloro che hanno reso possibile l’iniziativa: il Maggio Musicale Fiorentino, in coproduzione con l’Accademia Musicale Chigiana, con il patrocinio dell’Associazione Nazionale ex Deportati nei Campi nazisti (IT ANED) sezione di Firenze, Memorie delle deportazioni, il Centro Studi Luigi Dallapiccola e l’Accademia delle Arti e del disegno di Firenze.
Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Fabio Luisi
Franz Schubert: Sinfonia n. 8 in si minore, D 759 “Incompiuta”; Anton Bruckner: Sinfonia n. 7 in mi maggiore
Torino, 6 giugno 2025
Nell’Ultimo concerto della stagione, il Direttore Emerito Fabio Luisi risale sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Programmate in locandina sono due opere fondamentali della storia della musica ed essenziali per l’asse austriaco della sinfonia che, oltre a Schubert e Bruckner, annovera il capostipite Franz Josef Haydn. Gli altri, Beethoven e Brahms in testa, pur fondamentali innovatori, si ritengono su linee parallele e non strettamente appartenenti e conseguenti ai 3 grandi indigeni. Le due opere presentate, fatta salva l’incompletezza della sinfonia schubertiana, hanno trovato una linea fortemente unificante nella direzione di Fabio Luisi che, probabilmente, alla congruità della matrice austriaca, anche se non prettamente viennese, ci crede. Schubert nel 1822, data riportata sul manoscritto, aveva 25 anni, pochi successi e scarsa notorietà alle spalle. Nessuna sua composizione aveva ancora goduto di un’esecuzione pubblica in un’accademia a pagamento e nessun editore si era fatto avanti per pubblicargli alcunché. Cosciente della sua arte, si ostinava comunque a mettere giù partiture di una certa consistenza, opere e sinfonie che rimanevano a giacere disperse in qualche cassetto. Non avendo una casa propria e dormendo dove capitava, presso amici che temporaneamente l’ospitavano, i mobili e i relativi cassetti non erano beni che lo seguissero nel suo peregrinare. Viste le circostanze, che la sinfonia si sia bloccata dopo i primi stratosferici, per valenza artistica, due tempi non ci può stupire, non ci deve neppure meravigliare che il manoscritto sia ricomparso e poi eseguito, per la prima volta, il 17 dicembre del 1865, ben 36 anni dopo la morte del povero Franz. Luisi sceglie di accentuarne la tragicità e l’insita sofferenza. Il lirismo, sempre presente in Schubert, viene soffocato sul nascere dai repentini interventi sia dai formidabili archi bassi, violoncelli e contrabbassi, dell’orchestra RAI che dagli ottoni. Le melodie, ancorché ostacolate, rimangono appannaggio di ineffabili legni. Il tempo, assolutamente non affrettato, accentua il versante pessimistico dell’opera, che seppur legittimo è in contrasto con la visione consueta che per Schubert suggerisce l’immagine di una sofferenza attenuata da un sorriso o di una gioia con lacrime a stento trattenute. Sfumature e colori che dall’interpretazione, essenzialmente monodirezionale, di Luisi non pare di poter cogliere. Questa impostazione, che attenua il lirismo dell’Incompiuta, l’avvicina a quanto Luisi e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI fanno con la Sinfonia n.7 di Bruckner, in cui le sonorità attutite e la sbrigatività del ritmo alleggeriscono l’impasto tradizionalmente adottato. Risultano accentuate le aree liricheggianti al confronto con fanfare e con “tutti” orchestrali tutt’altro che travolgenti. Le 9 sinfonie bruckneriane non fanno parte del repertorio più frequentato dall’orchestra, come si è potuto anche constatare nel corso del 2024, anno bicentenario dalla nascita del compositore, in cui, diversamente da quanto avveniva in tutta Europa, ben poco si è potuto ascoltare in Auditorio. Impervia la scrittura, non c’è quasi nota che non sia alterata e che non cozzi con le altre innumerevoli linee parallele, instancabilmente differenziate e iperbolicamente cromatizzate. Per Luisi, avvezzo alla conduzione delle grandi orchestre del Nord, per cui Bruckner è esercizio quotidiano, non deve essere stato facile condurre a termine positivamente l’esecuzione. Facendo grazia a qualche attacco impreciso degli ottoni, ma queste difficoltà sono fisiologiche in quasi tutte le orchestre e non devono dar adito a giudizi troppo assertivi, forse qualche prova supplettiva, rispetto al consueto regime adottato, avrebbe potuto rafforzare la sicurezza e la coordinazione tra le file degli strumenti. L’Auditorio non contava il tutto esaurito, ma ormai fa caldo e il venerdì diventa il giorno prescelto per abbandonare le vie cittadine e correre a ricercare la frescura delle onde o delle cime. Chi c’era ha applaudito, si può quindi, con ragione, dedurne cha abbia ampiamente apprezzato quanto gli è stato proposto.
Roma, Musei Capitolini
Palazzo Caffarelli
UNA REGINA POLACCA IN CAMPIDIGLIO: MARIA CASIMIRA E LA FAMIGLIA REALE SOBIESKI A ROMA
A cura di Francesca Ceci, Jerzy Miziołek con Francesca De Caprio.
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia, dell’Istituto Polacco di Roma e dell’Accademia Polacca delle Scienze a Roma
Organizzazione di Zètema Progetto Cultura
Roma, 10 giugno 2025
Non esistono solo monarchie, ma anche le messe in scena del loro fantasma. È precisamente questo il fulcro concettuale della mostra Una Regina polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la famiglia reale Sobieski a Roma: non tanto la restituzione documentaria di una presenza storica quanto l’analisi – silenziosa ma precisa – di un immaginario dinastico costruito attraverso strategie visive, dispositivi di memoria e articolazioni spaziali. Più che narrare un passato, l’esposizione lo modella, lo organizza, lo mette in scena: Maria Casimira e la sua discendenza vengono così traslate da soggetti storici a figure sintomatiche, specchianti un’intera epistemologia del potere in esilio. A questo titolo, ciò che si espone non è una semplice regina vedova né un casato disperso: è un’intera grammatica di rappresentazione che investe il corpo regale, le sue derive simboliche, le sue modalità di sopravvivenza iconografica all’interno di una Roma che da secoli funziona come archivio visivo e semantico della sovranità europea. Il progetto, articolato in cinque sezioni e ospitato al terzo piano di Palazzo Caffarelli ai Musei Capitolini, evita la trappola della cronaca lineare. La mostra funziona piuttosto come un palinsesto iconologico: ogni sala è un nodo concettuale, ogni oggetto un segno che rinvia non solo alla figura di Maria Casimira ma all’intero campo semantico che la circonda – esilio, alterità, cerimoniale, patriottismo, teatro. La regina, d’altronde, non viene soltanto “esposta”: viene costruita. Le sue immagini non sono riproduzioni ma atti di enunciazione. Dai ritratti alle epigrafi, dalle lettere autografe ai busti bronzei, ogni oggetto è carico di funzioni discorsive. Il corpo di Maria Casimira – e poi quello di Maria Clementina Sobieska – è un corpo “parlante”, sempre al centro di un dispositivo performativo: basti pensare alla cappella ricreata del Palazzetto Zuccari, che ospita la riproduzione della volta affrescata con i suoi monogrammi coronati. Non si tratta qui di filologia decorativa, ma della mise-en-scène di una identità che non trova posto nelle carte diplomatiche ma si incarna negli interstizi culturali della città. L’esilio polacco si trasforma in racconto per immagini, e Roma – città-palinsesto per eccellenza – ne diventa il medium. Non è un caso che molte opere, epigrafi e iscrizioni siano testimonianze “in situ” di questa presenza regale dislocata. Il percorso sobieschiano che dalla Basilica dei Santi Apostoli passa per San Luigi dei Francesi, Santa Maria degli Angeli e via fino a Trinità dei Monti non è solo topografico, ma anche semiotico: è un percorso attraverso monumenti come atti linguistici, gesti di reinscrizione del potere nello spazio urbano. In questa rete di tracce, la sezione più potente resta quella dedicata alla regina “senza regno” Maria Clementina Sobieska Stuart. La sua presenza – evocata attraverso busti, stampe, ma soprattutto suoni – diventa figura paradigmatica di una regalità interdetta, confinata alla rappresentazione. La sua assenza di potere reale è inversamente proporzionale all’intensità con cui il suo corpo è stato iconizzato. Le arie barocche, appositamente registrate per la mostra e tratte da opere che la vedevano celebrata come destinataria simbolica, offrono un ulteriore livello di significazione: il suono qui è forma di sopravvivenza. La voce, sospesa nel tempo, ricrea la regina come figura acustica del desiderio politico. Il catalogo dell’esposizione, coeditato con l’Università di Varsavia, non tenta di nascondere questa strategia. Lungi dal limitarsi alla descrizione delle opere, propone una lettura critica che affronta la presenza sobieschiana come sintomo della tensione tra identità nazionale e cosmopolitismo romano, tra mitologia dinastica e pratiche urbane. La sezione conclusiva, centrata sull’apoteosi di Giovanni III Sobieski come trionfatore della battaglia di Vienna, agisce come contrappunto a questa riflessione. La monumentalità virile del sovrano – il busto d’armatura ussara, le grandi tele eroiche – si pone in tensione con la fragilità delle regine. Qui si innesta una lettura differenziale del potere: il corpo del re è affermativo; quello delle donne Sobieski è fluido, disseminato, diasporico. L’uno agisce nel campo della retorica bellica, l’altro in quello della diplomazia culturale. La mostra si configura come un laboratorio critico su cosa significhi “appartenere” a una città. Maria Casimira non è romana, eppure Roma la riassorbe; non ha un regno, eppure è ospite del Campidoglio. La sua figura destabilizza il binarismo centro/periferia, ospite/ospitante, e ci costringe a rivedere le modalità con cui una capitale costruisce il proprio racconto attraverso le presenze estranee. L’esposizione trova nei prestiti – dal Castello Reale di Varsavia, dal Museo di Roma, dalla Dom Polska, dall’Educandato della SS. Annunziata di Firenze – un ulteriore dispositivo di destabilizzazione. Il sapere artistico non è più chiuso entro le mura cittadine, ma transita, migra, si contamina. Anche il materiale sonoro, curato con rigore filologico dall’ensemble Giardino di Delizie, agisce in questa logica rizomatica: la musica barocca diventa il vettore acustico di una memoria che sopravvive nel corpo, non nei confini. Infine, le repliche tattili delle tre opere-chiave (i ritratti di Giovanni III, Maria Casimira e Maria Clementina) e le didascalie plurilingue rendono esplicita la volontà di una fruizione plurale. Non è un atto di inclusione formale, ma un’estensione epistemologica: il sapere non è più verticale, ma orizzontale, accessibile, condivisibile. La regina senza regno parla così anche a chi, oggi, si muove nei margini del potere. Una Regina polacca in Campidoglio è dunque una mostra profondamente politica: non per i contenuti, ma per la forma che dà loro. In un’epoca che tende a fossilizzare le identità, essa interroga le dinamiche della rappresentazione, mette in crisi i limiti tra centro e margine, e riconsegna al pubblico una lettura complessa, stratificata, non lineare della storia. È un esercizio di critica visiva, un saggio in forma di esposizione. E come ogni saggio efficace, lascia una domanda sospesa: cosa resta oggi del potere, se non le sue immagini?
Roma, Basilica di Massenzio
LE QUATTRO STAGIONI
Accademia Barocca di Santa Cecilia
solista e direttore Giovanni Andrea Zanon
voce recitante Toni Servillo
Roma, 08 giugno 2025
L’8 giugno 2025 ha segnato un momento di particolare rilievo nella storia della musica a Roma: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è tornata ad esibirsi, dopo quarantasei anni di assenza, nella Basilica di Massenzio. L’evento inaugurale della rinnovata stagione concertistica nel sito archeologico, da poco restituito alla città dopo un quinquennio di restauri condotti dal Parco Archeologico del Colosseo, ha visto protagonista l’Accademia Barocca dell’istituzione ceciliana, in un’esecuzione filologica de Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi. Il concerto, affidato al violino solista e concertatore Giovanni Andrea Zanon, è stato arricchito dalla recitazione dei sonetti vivaldiani – uno per ogni stagione – affidata alla voce autorevole di Toni Servillo e da un impianto visuale di videomapping che ha offerto una lettura immersiva e multimediale del ciclo musicale. L’approccio interpretativo scelto per questa storica riapertura si è attestato su un piano di rigorosa aderenza stilistica. L’Accademia Barocca, nata come formazione specializzata all’interno dell’organico sinfonico di Santa Cecilia, si distingue nel panorama italiano per la prassi esecutiva su strumenti originali o copie fedeli, nonché per un impegno filologico nella restituzione del repertorio sei-settecentesco. Il suono che ha risuonato tra le poderose volte di Massenzio si è dunque configurato come un ritorno non solo fisico, ma anche estetico: la timbrica barocca, asciutta e tagliente, il fraseggio mobile e agogicamente articolato, il vibrato contenuto e selettivo, hanno contribuito a ricostruire un contesto acustico coerente con la poetica vivaldiana. Giovanni Andrea Zanon, nel duplice ruolo di solista e concertatore, ha saputo delineare un disegno interpretativo centrato sulla mobilità retorica del gesto. Il suo violino, mai narcisistico, ha privilegiato l’articolazione della parola musicale, rendendo evidenti le corrispondenze tra testo poetico e tessuto sonoro. I celebri affreschi stagionali, lontani da qualsiasi tentazione illustrativa o pittoresca, sono emersi come dispositivi espressivi costruiti su un sapiente equilibrio tra descrittivismo programmatico e architettura musicale. Il fulmine invernale, l’ubriaco autunnale, la canicola estiva o la danza pastorale primaverile sono stati resi con un’eloquenza sobria, priva di effetti superflui, grazie a un controllo agogico e dinamico raffinato e a una perfetta intesa tra concertatore e compagine strumentale. La scelta di includere i quattro sonetti – probabilmente dello stesso Vivaldi – ha radicato ulteriormente l’esecuzione in una prospettiva filologica. L’intervento di Toni Servillo, calibrato nei toni e nel ritmo, ha agito da elemento metatestuale, ponendosi come cornice verbale al commento sonoro, e ribadendo quella corrispondenza tra musica e parola che è alla base dell’estetica barocca. L’alternanza tra recitazione e musica ha generato un continuum drammaturgico che ha scandito la forma ciclica dell’opera, amplificandone l’intelligibilità narrativa. L’uso del videomapping, raramente associato a esecuzioni filologiche, ha rappresentato un’ulteriore stratificazione sensoriale: in questo contesto, tuttavia, l’elemento visivo ha evitato l’effetto decorativo, interagendo con l’architettura stessa del monumento e proponendo immagini evocative che suggerivano atmosfere, stati d’animo e suggestioni stagionali, senza interferire con l’ascolto o deviarne l’attenzione. Non è un caso che la scelta sia ricaduta su Le quattro stagioni. Come ricordato da Massimo Biscardi, presidente-sovrintendente dell’Accademia, l’opera vivaldiana, pur essendo oggi tra le più celebri del repertorio barocco, fu oggetto di una lunga damnatio memoriae musicale. I manoscritti rimasero dimenticati fino al primo Novecento e la loro riscoperta fu frutto di un meticoloso lavoro di catalogazione, studio e trascrizione, a cui contribuì in maniera determinante proprio l’Orchestra di Santa Cecilia. La prima registrazione integrale delle Stagioni, nel 1942, fu infatti realizzata sotto la bacchetta di Bernardino Molinari per la casa discografica Cetra, segnando un momento fondativo per la fortuna discografica moderna del ciclo vivaldiano. La scelta di tornare a Massenzio con questa partitura ha dunque assunto un valore profondamente simbolico: è un omaggio alla memoria storica dell’istituzione, ma anche una dichiarazione d’intenti sulla sua missione odierna di custode e mediatore del patrimonio musicale. Non meno significativo è stato il ritorno della musica in un luogo che, per quasi mezzo secolo, fu teatro privilegiato della stagione estiva ceciliana. Dal 1933 al 1979, la Basilica di Massenzio ha ospitato 693 concerti: una vera e propria “sala” all’aperto dove si sono succeduti direttori del calibro di Tullio Serafin, Guido Cantelli, Vittorio Gui, Gianandrea Gavazzeni, Carlo Maria Giulini, Claudio Abbado, Riccardo Muti e Leopold Stokowski, solo per citarne alcuni. Fu proprio in questo contesto che, nel luglio del 1938, Bernardino Molinari diresse L’Inverno di Vivaldi, mentre nel 1966 Stokowski affrontò l’intero ciclo vivaldiano sul podio dell’Orchestra di Santa Cecilia. La ripresa di questa tradizione – resa possibile dall’allestimento di un nuovo palco integrato nella struttura archeologica e da un’attenta progettazione acustica e scenotecnica – si pone come atto di rigenerazione culturale e progettuale. Il ritorno della musica dal vivo in uno spazio antico non è solo un’operazione di valorizzazione turistica, ma un gesto di riconquista semantica: la monumentalità della Basilica di Massenzio, già concepita come spazio civile di rappresentazione pubblica, diventa nuovamente agorà sonora, luogo di incontro tra stratificazioni storiche e linguaggi contemporanei. La promessa, annunciata per il 2026, di un festival sinfonico-corale estivo curato dall’Accademia di Santa Cecilia si inserisce coerentemente in questo orizzonte. Il connubio tra prassi esecutiva filologica, repertorio sinfonico e spazi monumentali configura un modello replicabile, in cui la musica agisce come agente attivo di senso nel paesaggio urbano. In tal senso, l’evento dell’8 giugno non è stato solo una cerimonia inaugurale, ma un atto fondativo: ha sancito il ritorno di una voce autorevole in un luogo carico di memoria, aprendo la strada a nuove modalità di fruizione musicale dove l’estetica dell’ascolto si intreccia con l’archeologia, la storia e la tecnologia. La serata a Massenzio ha rappresentato un esempio virtuoso di come la musica colta, quando sostenuta da una visione progettuale solida e da un approccio interpretativo consapevole, possa riattivare luoghi e memorie, offrendo al pubblico non solo un concerto, ma un’esperienza estetica completa e stratificata, capace di unire passato e presente in un’unica, potente vibrazione sonora.
Un nuovo importante debutto per la Scala e il suo Corpo di Ballo, che aggiunge ora al suo repertorio, e con un allestimento realizzato appositamente per questa occasione, la sua prima Paquita. Ed è quella firmata da Pierre Lacotte per l’Opéra di Parigi nel 2001 e tuttora in repertorio, e che ora per la prima volta viene presentata da una Compagnia diversa da quella francese.
Grande ballerino e coreografo, figura di riferimento della danza del Novecento, considerato uno “specialista” della ricostruzione di balletti del repertorio romantico, Pierre Lacotte ha dato nuova vita a questo storico titolo che rompe il cliché del ballet blanc, incentrandosi su una vicenda realistica e una protagonista in carne ed ossa. In una pittoresca Spagna del diciannovesimo secolo, durante l’occupazione napoleonica, l’amore contrastato tra l’ufficiale francese Lucien d’Hervilly e la zingara Paquita è coronato da giuste nozze dopo varie peripezie e disvelamenti.
Una trama articolata al servizio di una entusiasmante vetrina di grande danza, lirismo e virtuosismo che vedrà in scena numerosi protagonisti, con tre cast nei ruoli principali: Nicoletta Manni, Martina Arduino e Alice Mariani nel ruolo di Paquita e Nicola Del Freo, Timofej Andrijashenko e Navrin Turnbull in quello di Lucien d’Hervilly.
Grande partecipazione di tutti i solisti e di tutto il Corpo di Ballo impegnato nelle tante danze, da quelle del villaggio, alle danze gitane, spagnole, dei banditi, degli ufficiali, della corte – con quadriglia, galop, valzer – nel Pas des manteaux e nel Grand Pas; impegnati nella nuova produzione anche una ventina di allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, interpreti fra l’altro della famosa e ambita mazurka des enfants del secondo atto. Nei laboratori scaligeri di scenografia, sartoria e attrezzeria hanno preso forma i bozzetti e figurini di Luisa Spinatelli, frutto del lavoro di creazione e ricerca realizzato a fianco di Lacotte. Sul podio Paul Connelly torna a dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala.
Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2024-2025 della Fondazione Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Manlio Benzi
Pianoforte Giacomo Menegardi
vincitore della XXXIXa edizione del Premio Venezia
Fryderyk Chopin: Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in fa minore op. 21; Jean Sibelius: Sinfonia n. 5 in mi bemolle maggiore op. 82
Venezia, 7 giugno 2025
Non tutti sano che il cuore di Chopin è conservato nella Chiesa di Santa Croce a Varsavia. Il sublime ‘Poeta del pianoforte’, poco prima della morte – avvenuta il 17 ottobre 1849 a Parigi, dove si trovava in esilio – chiese che l’organo, in cui secondo la medicina antica si originerebbero i sentimenti, ritornasse, separato dal resto del corpo, nell’amata Polonia. Fu la sorella Ludwika a trasportarlo clandestinamente in Patria, nascosto in un barattolo colmo di una sorta di cognac. L’amore e la nostalgia per la propria terra natale avevano fatto palpitare il cuore generoso di Fryderyk, insieme alla passione amorosa, non sempre corrisposta. Un cuore, dunque, romantico per eccellenza, che nel pianoforte aveva trovato la propria sensibilissima cassa di risonanza, ad esprimere – come pochi artisti hanno saputo fare – ogni suo più intimo sentimento, piegando all’urgenza espressiva le possibilità tecniche della tastiera, non di rado spinte all’estremo, così come le stesse forme della tradizione ‘classica’. È il caso dei due Concerti per pianoforte e orchestra, scritti da Chopin tra il 1829 e il 1830 – a circa 19 anni, quando ancora si trovava a Varsavia – ma pubblicati durante il suo soggiorno parigino. Il Concerto n. 2 in fa minore – dedicato alla contessa Delphine Potocka, ma in realtà ispirato da Konstancja Gladkowoska un’allieva di canto del Conservatorio di Varsavia, segretamente amata dall’autore – è in realtà il suo primo concerto per pianoforte e orchestra in ordine di composizione. Ad eseguirlo nella serata di cui ci occupiamo era il pianista bellunese Giacomo Menegardi, vincitore della XXXIXa edizione del Premio Venezia che, a dispetto della sua giovane età, ha affrontato l’ardua sua parte con gesto sobrio e sicuro, stilisticamente ineccepibile quanto intensamente espressivo. In questo Concerto – un inno alla giovinezza e alla passione, che procede tra stile Biedermeier e qualche rara allusione alla tradizione musicale polacca – Mengardi si è fatto apprezzare per la brillantezza del suono e la nitidezza dell’articolazione anche nei passaggi più veloci – segnatamente in quelli che disegnano arabeschi di notine sovrabbondanti –, riuscendo a rendere ogni battuta funzionale all’architettura complessiva di questo pezzo, tra l’altro prediletto da Clara Schumann, dove il pianoforte è il protagonista assoluto, mentre l’orchestra ha la sola funzione di accompagnamento (ancora una concessione ai canoni Biedermeier). Nel primo movimento, Maestoso, dopo un’introduzione orchestrale in cui è comparso il primo tema dal ritmo puntato e il secondo affidato alle delicate sonorità dei legni, il pianoforte ha fatto il suo ingresso in tono perentorio, mentre nel secondo movimento, Larghetto, ha cantato con accentuato lirismo l’amore di Fryderyk per Konstancja espresso da una scrittura – ancora stile Biedermeier – di ascendenza operistica, brillando nei veloci gruppi irregolari nella parte centrale. Una mazurka di straordinaria leggerezza, attinta dal repertorio popolare ha incantato – complice il nitido tocco di Menegardi – nel terzo movimento, concluso da una travolgente coda. Reiterati applausi ed acclamazioni per il giovane concertista. Un insolito fuoriprogramma: Notturno di Ottorino Respighi.
Alla terra patria – la Finlandia e i suoi paesaggi nelle diverse stagioni dell’anno, come peraltro suggerisce il titolo apocrifo di Sinfonia dei cigni, dal cui volo l’autore sarebbe stato ispirato – si riallaccia la Sinfonia n. 5 di Jean Sibelius, caposcuola della musica nazionale finlandese, un compositore ancora legato al tardo romanticismo ottocentesco, che non a caso produsse le sue opere più importanti intorno ai primi due decenni del Novecento, senza saper dire più nulla di notevole nel resto della sua vita. Pur mettendo in valore la musica popolare del proprio paese, l’autore spesso si limita a rievocare in modo allusivo alcune atmosfere legate a quel patrimonio sonoro, ben lontano dall’approccio più rigoroso, in base al quale operarono, nelle loro ricerche etnomusicologiche, musicisti come Bartók o Janáček. Composta da Sibelius su commissione del governo finlandese, che intendeva così celebrare i cinquant’anni dell’insigne musicista, la Quinta Sinfonia – nella versione originale in quattro movimenti – venne eseguita a Helsingfors (l’attuale Helsinki) sotto la direzione dello stesso compositore l’8 novembre 1915, la data appunto del suo compleanno, dichiarata addirittura festa nazionale. Due successive revisioni portarono alla versione definitiva, eseguita normalmente, ridotta a tre movimenti, in seguito alla fusione tra il primo e lo Scherzo. Straordinaria, quanto a fascino timbrico e potenza evocativa, l’interpretazione del maestro riminese, il cui gesto chiaro e autorevole, ha guidato l’Orchestra nel corso di un’esecuzione, in cui si alternavano colori tenui e brillanti, che denotavano un susseguirsi rapsodico di atmosfere emotive e ambientali, fino al culmine, rappresentato dall’ultima sezione del terzo tempo, maestosa e fastosa – con la suggestiva fanfara delle trombe, che disegnano una progressione armonica ‘circolare’ –, in cui dominava un clima di festa individuale e nazionale: la festa di una nazione che coincide con quella di un suo figlio famoso. Sonori festeggiamenti anche da parte del pubblico.
Roma, Galleria Borghese
WANGECHI MUTU. POEMI DELLA TERRA NERA
curata da Cloé Perrone
Una mostra non è mai solo una mostra. È un processo, una conversazione, una possibilità. Dal 10 giugno al 14 settembre 2025, la Galleria Borghese apre le sue sale a un intervento che è insieme un attraversamento e un innesto: Poemi della terra nera, progetto di Wangechi Mutu curato da Cloé Perrone, è un gesto artistico che si radica nel tempo e lo decostruisce. Non si tratta solo di inserire opere contemporanee in un contesto storico: si tratta di ripensare lo spazio stesso del museo come organismo dinamico, come ambiente che respira e si trasforma. Mutu non visita semplicemente la Galleria Borghese: la trasforma. E lo fa portando con sé la stratificazione della sua pratica: scultura, installazione, video, poesia visiva, radici africane e sguardo globale. Le sue opere si insinuano nelle sale, si adagiano nei giardini, dialogano con la facciata, si sospendono tra le cornici e i soffitti affrescati. Come sempre accade nei suoi progetti più riusciti, Poemi della terra nera è allo stesso tempo un’evocazione e una domanda. Il titolo stesso è un portale: la “terra nera” non è solo un suolo fisico, fertile e argilloso, ma è anche una metafora viva. È memoria ancestrale, potenza creatrice, materia che accoglie e genera. È da questa terra che emergono le sculture di Mutu, come spiriti della soglia. Non si tratta di statue nel senso classico del termine. Piuttosto, sono presenze, entità che abitano il visibile e l’invisibile, il passato e il presente. Alcune pendono leggere dall’alto — Suspended Playtime — evocando il gioco e la sospensione del tempo. Altre poggiano a terra come reliquie di un futuro mitologico. Nelle sale interne, le opere non contrastano la collezione Borghese, né cercano di eclissarla. Si inseriscono invece in una danza, una coreografia spaziale che ridefinisce la percezione. Opere come Ndege, First Weeping Head, Second Weeping Head sono frammenti narrativi che aprono spiragli. Lo spettatore è costretto a cambiare punto di vista, a muoversi, a interrogarsi. È la logica dell’interruzione e dello spostamento. Mutu propone un’altra grammatica materiale: bronzo, piume, cera, legno, carta, pigmenti naturali. Ogni materiale è portatore di significato, ogni scelta è gesto critico. Il bronzo, ad esempio, smette di essere il medium della monumentalità per diventare veicolo di metamorfosi. Lo stesso si può dire della terra: elemento fertile e caotico, instabile e generativo, che abita le opere come una voce sussurrata. I Giardini Segreti diventano mappa di una geografia interiore. Opere come Nyoka, Musa, Water Woman si fanno vasi simbolici, contenitori di storie e memorie, corpi trasformati. Le cariatidi della serie The Seated, originariamente pensate per la facciata del Metropolitan Museum di New York, riappaiono ora nella classicità barocca della Galleria Borghese come sentinelle del presente. La loro posa, ieratica e composta, destabilizza la linearità del racconto museale, proponendo nuove forme di autorità visiva. Una mostra è sempre anche un’esplorazione del tempo. Il video The End of Eating Everything inserisce una dimensione temporale espansa, aggiungendo al percorso una riflessione sul consumo, sulla trasformazione e sull’ibridazione. Qui il corpo si fa macchina e mito, creatura molteplice e contaminata, in cui convergono l’ancestrale e il postumano. Il suono è una presenza sottile ma pervasiva. Poems for my Great Grandmother I è una vibrazione sospesa nello spazio, quasi una nenia lontana che accompagna lo sguardo. Grains of War, tratto dal discorso dell’Imperatore etiope Haile Selassie del 1963, riattualizza un’eredità di lotta e giustizia, rendendo la parola una forma di scultura, e la memoria sonora una nuova architettura. L’arte di Wangechi Mutu è anche sempre un gesto politico, non nel senso ideologico, ma in quello poetico della parola greca polis: spazio condiviso, spazio da abitare insieme. Le sue opere ci parlano di corpi marginalizzati, di voci cancellate, ma anche di possibilità. Il museo diventa, allora, non solo contenitore di passato, ma anche luogo di futurabilità, di immaginazione radicale. La mostra prosegue all’American Academy in Rome, con Shavasana I: una figura bronzea distesa, coperta da una stuoia intrecciata. Il riferimento alla posa yogica del cadavere — shavasana — è un gesto di abbandono e di consapevolezza. La collocazione, accanto a epigrafi romane, carica l’opera di una forza dirompente: vita e morte si incontrano nello stesso respiro. Con Poemi della terra nera, la Galleria Borghese conferma la sua volontà di apertura al contemporaneo. Dopo Gesti Universali di Giuseppe Penone e L’inconscio della memoria di Louise Bourgeois, il museo propone un’altra visione: non più il classico come autorità immobile, ma come materia viva, porosa, disposta al dialogo. Questa mostra è resa possibile dal sostegno di FENDI, che conferma il ruolo attivo della moda come partner culturale e produttore di visioni. Ma al di là dei sostegni e delle istituzioni, ciò che Poemi della terra nera ci consegna è una domanda: come possiamo immaginare un museo che non custodisca solo opere, ma anche possibilità, movimenti, interruzioni? In un’epoca in cui la memoria è minacciata dalla velocità e dall’oblio, Wangechi Mutu ci invita a tornare alla terra. A scavare. A sporcarci le mani. A ricordare che ogni gesto artistico è anche un gesto di cura, di trasformazione, di amore per il mondo che verrà.
Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte BWV 174 è la terza di tre Cantate dedicate al secondo giorno del triduo Pentecostale celebrato dalla Chiesa Luterana. Eseguita la prima volta a Lipsia il 6 giugno 1729 si basa su un testo di Picander a sua volta tratto dal Vangelo del giorno, dal Vangelo di Giovanni (cap.3 vers.16-21) che ha come fulcro la frase: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Tutto il testo della Cantata è incentrato sull’amore cristiano e sull’amore di Dio, come si evince chiaramente dal titolo: “Amo l’Altissimo con tutto il cuore. La partitura è piuttosto breve, con solo quattro movimenti cantati: un’aria del contralto, un recitativo affidato alla voce del tenore, un’aria per voce di basso e il corale conclusivo. Troviamo però una Sinfonia orchestrale, che altro non è se non il primo movimento del suo Concerto brandeburghese n. 3 in re maggiore, aggiungendo oboi, corni e taille (spesso suonati dal fagotto nelle esecuzioni moderne) alla partitura per soli archi del Brandeburghese. Bach crea un’atmosfera molto festosa, ma fornisce anche una sinfonia assai ampia più che in qualsiasi altra cantata. La tonalità di re maggiore si ritrova nel secondo movimento, un’aria “con da capo” per contralto (Nr.2) in tempo di “Siciliana”, con oboe solo e continuo. L’oboe II introduce il materiale melodico principale per l’aria; questo viene poi adottato per imitazione e una quinta più alta dall’oboe I, prima che il contralto lo faccia proprio. Di notevole forza drammatica il breve recitativo che segue (Nr.3) del tenore. Si notano molti cambi di accordi improvvisi e inaspettati; forse che Bach voglia rappresentare le emozioni di Dio nel dare Suo Figlio al mondo (il famoso testo del Vangelo di Giovanni è citato in questo movimento – “Perché Dio ha tanto amato il mondo”. L’unica “reazione” degli archi al testo si verifica verso la fine, quando “tremano” davanti alla menzione delle “porte dell’Inferno”. L’ultima aria (Nr4) affidata al Basso è un altro esempio dell’uso da parte di Bach di una struttura di sonata a tre in un movimento vocale. Gli archi superiori suonano all’unisono contro la linea del continuo, creando un delizioso duetto strumentale. L’introduzione della voce di basso solista è un complemento naturale al resto della tessitura, e le tre linee indipendenti danno vita un bell’intrecciano, apparentemente semplice. Chiude il tradizionale Corale (Nr.5) a quattro parti, che utilizza la prima strofa dell’inno di Martin Schalling del 1571, “Herzlich lieb hab ich dich, O Herr”.
Nr.1 – Sinfonia
Nr.2 – Aria (Contralto)
Amo l’Altissimo con tutto il cuore,
e anch’egli ha per me un amore assoluto.
Solo Dio
sarà il tesoro della mia anima,
in lui ho l’eterna sorgente di bontà.
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
O amore senza confronti!
O riscatto senza prezzo!
Il Padre ha donato la vita del suo Figlio
per liberare dalla morte i peccatori
e tutti coloro che il Regno dei Cieli
avevano disdegnato o perduto
sono ora chiamati alla beatitudine.
Dio ha tanto amato il mondo!
Mio cuore, tienilo presente
e stai saldo sulle sue parole;
di fronte a questi potenti stendardi
le porte stesse dell’inferno vacillano.
Nr.4 – Aria (Basso)
Aggrappatevi,
afferrate la salvezza, mani credenti!
Gesù vi dona il suo Regno dei Cieli
e desidera una cosa sola da voi:
conservate la fede sino alla fine!
Nr.5 – Corale
Ti amo con tutto il cuore, o Signore.
Ti prego, non allontanarti da me
con il tuo aiuto e la tua grazia.
Il mondo intero non mi procura alcuna gioia,
non chiedo né il cielo né la terra
se solamente posso avere te.
E se anche il mio cuore si spezzasse,
resteresti la mia sola speranza,
consolazione del mio cuore e mio Salvatore,
che mi ha redento con il suo sangue.
Signore Gesù Cristo,
mio Dio e Signore, mio Dio e Signore,
non abbandonarmi più alla vergogna!
Traduzione Emanuele Antonacci
Wer mich liebet, der wird mein Wort halten BWV 74 è in ordine cronologico la terza delle cinque Cantate bachiane dedicate alla prima festa del triduo di Pentecoste. Eseguita la prima volta a Lipsia il 20 maggio 1725 ha un testo di Marianne von Ziegler in cui i versi del Vangelo di Giovanni (cap.14 Vers. 23 e 28) del giorno sono utilizzati nel primo, quarto movimento e il secondo, terzo, quinto e settimo movimento commentano il Vangelo. Per l’ottavo movimento della cantata, Bach utilizza la strofa finale di un tradizionale inno di Pentecoste di Paul Gerhardt. Inoltre, i primi due movimenti della cantata sono stati ripresi da una precedente cantata di Pentecoste (BWV 59), ma riviampliati per questa cantata. La cantata ha una partitura massiccia soprattutto per la parte orchestrale, per le grandi occasionie: due oboi, oboe da caccia, archi, basso continuo, tre trombe e timpani nei movimenti 1 e 7. La partitura si apre con un solenne ma gioioso coro Il primo movimento è un’opera su larga scala e gioiosa per coro e orchestra completa, con i quattro corpi di musicisti – gli archi, i fiati, gli ottoni e le voci – utilizzati come cori distinti. Il secondo movimento (Nr.2) è un’aria pastorale in forma di sonata a tre per soprano solista, oboe da caccia e continuo. Un’incantevole interazione ritmico-complessiva tra il delicato oboe da caccia, la linea del continuo e il soprano solista. Questo è uno dei movimenti che Bach ha preso in prestito dalla Cantata BWV 59, in quel caso il solista obbligato era il violino. L’oboe da caccia di questa seconda versione è sicuramente più morbido e intimo. Dopo un brevissimo recitativo secco per contralto solista e continuo (Nr.4) segue un’aria virtuosistica per basso solo con il Basso Continuo. Il cuore dell’opera, è un’estesa aria tenorile (Nr.5) accompagnata dai primi violini oltre agli altri archi e al continuo. Un recitativo per basso (Nr.6), con una coppia di oboi, oboe da caccia e continuo. Il settimo movimento è un’energica aria per contralto (Nr.7), con fiati, archi e continuo. La Cantata si conclude con un’armonizzazione del corale di Gerhardt per coro e orchestra completa (Nr.8).
Nr.1 – Coro
Chi mi ama, osserverà la mia parola
e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui.
Nr.2 – Aria (Soprano)
Vieni, vieni, il mio cuore è per te aperto,
ah, fà che sia la tua dimora!
Io ti amo e dunque devo sperare
che ora la tua Parola venga dentro di me;
chi ti cerca, ti teme, ti ama e ti onora
ha la benevolenza del Padre.
Non ho dubbi, sarò esaudito,
in te troverò conforto.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
La dimora è pronta.
Troverai un cuore solo a te devoto,
non farmi mai sentire
che potresti abbandonarmi.
Non permetterò che accada mai più, ah, mai più!
Nr.4 – Aria (Basso)
Me ne vado e tornerò a voi;
se voi mi amaste, vi rallegrereste.
Nr.5 – Aria (Tenore)
Venite, accorrete, accordate gli strumenti e le voci
in canti vibranti e gioiosi.
Sta per andare via, ma tornerà
il glorificato Figlio di Dio.
Nel frattempo Satana cercherà
di condurmi alla perdizione.
Lui è il mio ostacolo,
ma io credo in te, Signore.
Nr.6 – Aria (Basso)
Non c’è dunque più nessuna condanna
per quelli che sono in Cristo Gesù.
Nr.7 Aria (Contralto)
Niente può salvarmi
dalle catene dell’inferno
se non il tuo sangue, o Gesù.
La tua passione, la tua morte
fanno di me il tuo erede:
rido della furia satanica.
Nr.8 – Corale
Nessun figlio dell’uomo sulla terra
è degno di questo prezioso dono,
il merito non è nostro;
contano soltanto l’amore e la grazia
che Cristo ha guadagnato per noi
con il sacrificio e l’espiazione.
Traduzione Emanuele Antonacci
Teatro dell’Opera di Roma Stagione di Opere e Balletti 2024/2025
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Angelo Anelli
Musica di Giacchino Rossini
Mustafà PAOLO BORDOGNA/ADOLFO CORRADO
Elvira JESSICA RICCI*
Zulma MARIA ELENA PEPI*
Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO*
Lindoro DAVE MONACO
Isabella CHIARA AMARU’
Taddeo MISHA KIRIA
*dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Maurizio Scaparro ripresa da Orlando Forioso
Scene Emanuele Luzzati
Luci Vinicio Cheli
Costumi Santuzza Calì ripresi da Paola Casillo e Paola Tosti
Allestimento del Teatro Massimo di Palermo
Roma, 05 giugno 2025
Con la ripresa di questo spettacolo molto amato, creato per il teatro Massimo di Palermo e ripreso oltre vent’anni fa anche qui a Roma, il Teatro dell’Opera intende rendere un omaggio ad Emanuele Luzzati ed al regista Maurizio Scaparro. L’allestimento di questa Italiana in Algeri anche nella attuale ripresa mantiene intatta tutta la freschezza dei colori delle scene e dei costumi e che assai bene illustrano la divertita e assai pungente leggerezza di questo dramma giocoso. Tutto scorre nella narrazione senza pause, blocchi o inutili inserti ed anche la recitazione dei personaggi è disinvolta e naturale sfuggendo alla tentazione che in Rossini talvolta può prendere di sottolineare meccanicamente e in maniera fastidiosa con il gesto il ritmo incalzante della musica. Tante piccole trovate sono divertenti e assolutamente funzionali a definire meglio i caratteri e le situazioni e in definitiva far divertire il pubblico quasi fossero delle fioriture poste su una linea musicale solida ed essenziale nella struttura. Il maestro Sesto Quatrini romano ma al suo debutto al Teatro dell’Opera un po’ sulla stessa linea interpretativa offre una lettura musicale assai elegante e curata con la scelta di sonorità consone al tono sostanzialmente allegro e lieve della vicenda, una notevole capacità di sostenere la linea del canto ed un controllo tecnico assoluto nell’agogica e nelle dinamiche. Assai gradevole infine il gusto posto nella scrittura delle tante variazioni, tutte concepite in modo da non compromettere l’intelligibilità del testo o stravolgere la melodia di partenza o l’armonia. Eccellente la prova del coro del teatro diretto dal maestro Ciro Visco che ha sfoggiato omogeneità timbrica, chiarezza di dizione e ottima precisione musicale anche nel dialogare con i solisti. La serata ha avuto un inizio simpaticamente turbolento a causa dell’improvvisa indisposizione vocale che ha colpito Paolo Bordogna interprete del ruolo di Mustafà il quale è stato validamente e assai prontamente sostituito dalla metà del primo atto da Adolfo Corrado previsto nel secondo cast. Questi con voce importante, assolutamente adatta alla parte, sostenuta da una bella presenza scenica e da una recitazione spigliata, varia e mai stereotipata ha in poche battute saputo riprendere il filo espressivo della recita ed ha caratterizzato un ritratto del suo personaggio assolutamente convincente. I nostri auguri di buona convalescenza e pronta guarigione a Paolo Bordogna, interprete rossiniano esperto e collaudato. Chiara Amarù dal canto suo ha proposto una Isabella musicalmente raffinata e sfaccettata con varietà di accenti, di intenzioni esecutive e un bel timbro vocale. Molto bravo è stato anche il tenore Dave Monaco nell’acrobatico ruolo di Lindoro, tanto sicuro nelle agilità quanto poetico ed ispirato nei cantabili. Taddeo vocalmente ineccepibile e scenicamente assai piacevole a dispetto di una fisicità imponente ma usata con grande intelligenza scenica è stato interpretato dal baritono georgiano Misha Kiria. Infine tutti e tre molto bravi gli allievi del progetto “Fabbrica” rispettivamente Maria Elena Pepi Zulma, Jessica Ricci Elvira e Alejo Alvarez Castillo Haly. Applausi a scena aperta nei momenti più attesi e soprattutto al termine di una serata vivace, allegra e piacevole come si conviene ad una delle opere più elettrizzanti del repertorio. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
Allegati
Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2024-2025
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Isabella LAURA VERRECCHIA
Lindoro ANTONIO MANDRILLO
Mustafà ADOLFO CORRADO
Taddeo VINCENZO TAORMINA
Elvira JESSICA RICCI
Zulma MARIA ELENA PEPI
Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Maurizio Scaparro
Regia ripresa da Orlando Furioso
Scene Emanuele Luzzati
Costumi Santuzza Calì
Luci Vinicio Cheli
Allestimento Teatro Massimo di Palermo
*Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 6 giugno 2025
L’allestimento firmato da Maurizio Scaparro, con le iconiche scenografie di Emanuele Luzzati si configura come una proposta visivamente coerente ma sostanzialmente immobile dal punto di vista drammaturgico. La scena, costruita su una stilizzazione orientaleggiante, appare più come un fondale illustrativo che come un vero spazio d’azione: un contenitore pittorico bidimensionale, capace di affascinare l’occhio ma incapace di modulare spazi relazionali o tensioni narrative. La regia, ripresa da Orlando Furioso, segue fedelmente l’impianto originario, ma rinuncia a ogni articolazione ritmica, gestuale o psicologica fra i personaggi, riducendosi a una sequenza di entrate e uscite secondo logiche più musicali che teatrali. Manca un disegno registico che sfrutti la partitura come motore d’invenzione scenica, e la direzione attoriale è lasciata all’iniziativa individuale degli interpreti. Il tempo scenico, privo di dinamiche interne o mutamenti d’energia, scorre in modo uniforme, senza scarti né contrappunti. Alle criticità strutturali si somma un impianto visivo non sempre coeso: le luci di Vinicio Cheli, affidate a una gestione apparentemente casuale e disordinata, risultano spesso scollegate dall’azione, accentuando la piattezza dell’impianto visivo e compromettendo la leggibilità drammatica dei momenti chiave. I costumi di Santuzza Calì, sebbene ricchi nella fattura e coerenti con l’impronta decorativa generale, mostrano una certa patina polverosa, che li rende più evocativi di un passato teatrale remoto che non realmente funzionali a una scena viva e attuale. In assenza di un autentico motore registico, la responsabilità di sostenere la vitalità dell’azione ricade interamente sulla qualità musicale dell’esecuzione e sull’intelligenza interpretativa del cast, chiamato a rianimare un impianto visivo affascinante ma ormai cristallizzato in una dimensione museale. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Sesto Quatrini ha impresso alla partitura rossiniana una direzione lucida, sorvegliata, priva di autocompiacimenti. Il suo Rossini evita tanto il rischio della caricatura ritmica quanto quello, opposto, della sterilità accademica: ne risulta un tessuto musicale terso, nervoso ma sempre controllato, in cui la mobilità delle agogiche trova senso nella necessità scenica, non in un mero vezzo interpretativo. Le complesse architetture dei concertati e la tessitura dei recitativi accompagnati, spesso insidiosi per equilibrio e coesione, sono state affrontate con una chiarezza strutturale che ha fatto emergere l’intelligenza teatrale del gesto direttoriale, più analitico che empatico. L’orchestra ha risposto con una resa sonora precisa, levigata: archi dal profilo affilato ma non esangue, legni scintillanti e puntuali, una pasta timbrica che, senza mai imporsi, ha saputo sostenere e rifinire l’impianto vocale con discreta efficacia. Il giovane basso pugliese Adolfo Corrado ha affrontato il ruolo di Mustafà con autorevolezza vocale e una sorprendente maturità interpretativa. La voce è ampia, salda nel registro grave, con un’emissione ben appoggiata e timbro compatto, che ben si adatta all’autorità del Bey. L’agilità — pur non ancora virtuosistica — si dimostra ordinata e ben scolpita, specie nelle sezioni sillabate come Già d’insolito ardore. Laura Verrecchia, Isabella, conferma una salda aderenza alla tradizione rossiniana, sostenuta da una tecnica solida e da una musicalità interiorizzata. La linea di canto si sviluppa con equilibrio: i gravi risultano appoggiati e ben timbrati, gli acuti emessi con naturalezza e senza grandi tensioni, mentre le agilità scorrono con nitore e misura, sempre al servizio del senso drammaturgico. In Cruda sorte, la gestione dei fiati e la qualità del legato contribuiscono a un’esecuzione stilisticamente ineccepibile, mai compiaciuta. La dizione è accurata, il fraseggio consapevole e ben modulato, a favore di un’ Isabella tratteggiata con autorevolezza più che civetteria. Antonio Mandrillo, tenore di timbro chiaro e luminoso, affronta il ruolo di Lindoro con garbo stilistico e una linea vocale ben rifinita. L’emissione è sempre ben sostenuta sul fiato, l’agilità scorre con naturalezza, e in Languir per una bella spiccano un legato curato e una puntuale articolazione del fraseggio, culminante in puntature acute affrontate con disinvoltura. Nella prima parte della recita traspare una certa emozione, con qualche lieve incertezza, poi superata da una progressiva sicurezza interpretativa. Permane una certa disomogeneità volumetrica nel registro centrale, che negli insiemi tende a smarrirsi, ma la cura ritmica e l’intenzione musicale rendono nel complesso la sua prova tra le più eleganti e stilisticamente centrate. Vincenzo Taormina delinea un Taddeo equilibrato e musicalmente consapevole, sostenuto da una voce ancora solida e da un fraseggio articolato, con sillabato e parlato ritmico gestiti secondo la miglior tradizione rossiniana. Jessica Ricci, nei panni di Elvira, convince per il timbro chiaro, l’emissione stabile e un fraseggio curato, riuscendo a valorizzare con eleganza vocale un ruolo secondario. Meno misurata, invece, appare la sua presenza scenica, complice una regia che la agita eccessivamente, togliendole naturalezza. Maria Elena Pepi offre una Zulma ben rifinita, con buona linea di canto, dizione nitida e senso dell’ensemble. Alejo Alvarez Castillo, giovane Haly, mostra proiezione efficace e basi tecniche sicure, pur con una timbrica ancora in fase di maturazione. Di rilievo il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, per compattezza, articolazione e precisione ritmica. Un insieme vocale coeso e stilisticamente centrato, che restituisce la scrittura rossiniana con rigore tecnico e gusto teatrale, sebbene penalizzato da una regia che li vede in scena un po’ disordinati, privi di caratterizzazione e di un reale senso scenico. Il pubblico ha applaudito con misura e intelligenza. Qualcuno, però, ha preferito scappare prima dei saluti finali: forse il richiamo di un calice al tramonto era più forte del rispetto per chi era in scena. In fondo, l’eleganza non si compra con lo spritz. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
Carlo Alessandro Landini: Piano Sonata n. 8.
Massimiliano Damerini (pianoforte).
T. Time: 45′ 86″. 1 CD Da Vinci Records 7.46160917474
Carlo Alessandro Landini: “Cello Sonatas Nos. 1 & 2”.
Guido Parma (violoncello). Giovanni Capatti (pianoforte).
Registrazione: Giugno 2015, presso il Salone del Conservatorio G. Nicolini di Piacenza.
1 CD Da Vinci Records 7.46160915605
Figura poliedrica, dal momento che oltre ad essere un compositore di livello internazionale è anche un prolifico saggista, Carlo Alessandro Landini, che è stato allievo di Bettinelli per la composizione e di Rattalino per il pianoforte, si è imposto nel mondo musicale con la conquista del primo premio presso il concorso Lutosławski di Varsavia nel 2007. Di Landini, famoso per aver composto tra il 2012 e il 2015, una Sonata per pianoforte di rara lunghezza con le sue 653 pagine e la sua durata variabile che può arrivare fino a 6 ore, sono presentati in questa doppia proposta discografica dell’etichetta Da Vinci Records, la Sonata n. 8 per pianoforte e le due Sonate per violoncello e pianoforte. La Sonata n. 8 conferma l’attitudine del compositore italiano a scrivere lavori di grande impegno e di grande proporzioni con i suoi ben 9 movimenti, nei quali troviamo anche forme rinascimentali e barocche come il Ricercare e la Gagliarda. Splendida l’esecuzione da parte del compianto Massimiliano Damerini, scomparso improvvisamente il 20 luglio 2023 pochi giorni dopo il recital in occasione del quale è stata registrata la Sonata. Questa incisione ha dunque un valore storico di eccezionale importanza.
Anch’esse opere di grande impegno, in quanto costituite entrambe da due movimenti (Adagio, Presto) dal respiro sinfonico che dal punto di vista compositivo si basano sulla scala ottotonica. Molto belli sono gli Adagi, caratterizzati da liriche melopee estremamente espressive, mentre di carattere virtuosistico sono i movimenti veloci. Di ottimo livello l’esecuzione da parte di Guido Parma (violoncello) e Giovanni Capatti (pianoforte). I due artisti, dotati di entrambi di una solida tecnica, si integrano perfettamente e il pianoforte non soverchia mai il suono del violoncello che emerge in tutta la sua bellezza nei movimenti lenti grazie alla splendida cavata di Guido Parma.