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Aggiornato: 1 ora 45 min fa

Milano, Teatro alla Scala: “Die Entführung aus dem Serail”

Mer, 13/03/2024 - 00:22

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2023/24
“DIE ENTFÜHRUNG AUS DEM SERAIL”
Singspiel tedesco in tre atti Libretto di Christoph Friedrich Bretzner rielaborato da Johann Gottlieb Stephanie il Giovane
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Selim SVEN-ERIC BECHTOLF
Kostanze JESSICA PRATT
Blonde JASMINE DELFS
Belmonte DANIEL BEHLE
Pedrillo MICHAEL LAURENZ
Osmin PETER ROSE
Un servo muto MARCO MERLINI
Solisti del coro ROBERTA SALVATI, ALESSANDRA FRATELLI, LUIGI ALBANI, GIUSEPPE CAPOFERRI
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Thomas Guggeis
Maestro del coro Giorgio Martano
Regia Giorgio Strehler
Scene e costumi Luciano Damiani
Ripresa di regia Laura Galmarini
Luci Marco Filibeck
Milano,  10 marzo 2024
La Scala ripropone uno dei pezzi più splendenti della sua storia. La regia di “Die Entführung aus dem Serail” realizzata nel 1972 da Giorgio Strehler è stata una delle pietre miliari di una delle stagioni più luminose della storia scaligera e grazie all’eccellente ripresa di Laura Galmarini mostra ancora tutta la sua irresistibile freschezza. Quella di Strehler è autentica lezione di teatro. Spettacolo di essenzialità quasi disarmante ma in cui ogni minimo dettaglio è perfettamente coerente con la narrazione. L’estetica raffinatamente settecentesca è resa con tocchi delicati, quinte con architetture turchesche, la nave in movimento anch’essa dipinta a simulare gli artifici tecnici del tempo, costumi belli ma mai eccessivi. Centrale è il richiamo al teatro d’ombre che proprio in quel secolo muoveva significativi passi aprendo la strada che porterà alla lanterna magica e poi al cinema. Una regia che non vuole dire nulla che non sia nell’opera, che non impone forzature ideologiche di nessun tipo ma avanza con il passo leggero della fiaba e sembra ricordarci a ogni istante che nulla può raccontare la verità del cuore umano meglio di una favola, che nulla è più profondo della leggerezza. Sul piano del lavoro attoriale si concede giustamente una certa liberta durante agli interpreti durante i parlati che a tratti si discostano dal testo con l’aggiunta di qualche battuta o trovata – Osmin da ubriaco parla italiano – ma il tutto rientra perfettamente nello spirito del singspiel viennese.
In questo felice incontro senza tempo tra passato e presente la storia della regia di Strehler incontra la freschezza giovanile di Thomas Guggeis. Il giovane direttore – una delle bacchette più interessanti della nuova scena tedesca – sembra farsi prendere per mano dallo spettacolo con cui mostra una particolare sintonia. La sua è una direzione leggera ma mai superficiale. I ritmi sono spumeggianti e un senso di gioia pervade l’intera esecuzione. Si apprezza un gusto per un fraseggio orchestrale elegante e per sonorità radiose ma mai eccessive, anche le turcherie erano rese con raffinato distacco ma capace anche di autentico abbandono nei momenti più lirici e di un senso di sincera umanità che avvolge tutti, compreso Osmin tratteggiato con bonaria ironia. Fin dall’ouverture il gioco dei contrasti dinamici emerge in tutta la sua chiarezza e si può giovane della sempre impeccabile qualità dei complessi orchestrali e corali della Scala. Ottimo nel complesso il cast. Unica parziale eccezione dovuta a cause di forza maggiore quella relativa a Daniel Behle (Belmonte), il tenore protagonista risultava infatti indisposto e la prima aria è stata affrontata con estrema prudenza. Nel corso della recita la voce si è scaldata e la prestazione si è fatta più sicura ma le agilità di “Ich baue ganz auf deine” l’hanno costretto sulla difensiva. Dalla sua restano sempre l’impeccabile musicalità e la raffinatezza stilistica che gli permettono di arrivare in fondo con professionalità anche in una giornata non facile. Jessica Pratt è una Konstanze regale. Voce ampia, sonora, ricca di armonici, morbida e omogenea su tutta la linea canta con nobile intensità. Vocalmente impeccabile fornisce una prestazione esemplare in tutti suoi aspetti. Intensa e partecipe nei momenti più lirici resi con un fraseggio umanissimo e intenso – la sua Konstanze è veramente l’incarnazione della virtù di cui porta il nome. Giunta a “Martern aller Arten” sfoggia un talento da belcantista superiore. Gli acuti ricchissimi di suono, nitidi, svettanti, trilli, volatine, picchettati di una perfezione esemplare, un controllo vocale da manuale. La Pratt si conferma non solo cantante di classe superiore ma anche interprete di non comune sensibilità.
Bella sorpresa Michael Laurenz che conoscevamo soprattutto come interprete del repertorio novecentesco ma che anche qui si mostra sensibilità e intelligenza tratteggiando un Pedrillo di forte rilievo scenico e vocale. Jasmine Delfs è una Blonde dalla vocalità cristallina, soprattutto nel registro acuto, interpretativamente è spigliata e brillante.
Meglio come interprete che come cantante Peter Rose come Osmin. Voce corretta e robusta e buona professionalità ma il timbro è meno scuro di quanto si è abituati e l’emissione appare velata negli estremi gravi. Ha però la presenza scenica per il ruolo e un guizzo d’istrionismo che non guasta per cui compensa come attore i limiti vocali. Una nota di merito per il bravissimo Marco Merlini come servo muto. Foto Brescia & Amisano

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman” Pensaci Giacomino!”

Mar, 12/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
PENSACI GIACOMINO!
di Luigi Pirandello
Con Pippo Pattavina 
e con Debora Bernardi, Diana D’Amico, Francesca Ferro, Giuseppe Parisi, Giampaolo Romania, Riccardo Tarci e Aldo Toscano
Scene di Salvo Manciagli
Luci Santi Rapirarda
Regia Guglielmo Ferro
Progetto Teatrando
Roma, 12 Marzo 2024
“Ridano, ridano pure di lui tutti i maligni! Che risate facili! Che risate sciocche! Perché non capiscono… Perché non si mettono al suo posto… Avvertono soltanto il comico, anzi il grottesco, della sua situazione, senza penetrare nel suo sentimento!… Ebbene, che glie n’importa? Egli è felice.”
(L. Pirandello, Pensaci Giacomino!)
In una narrazione che si snoda tra le pagine della prestigiosa raccolta “La giara”, pubblicata per la prima volta nel 1927, e che aveva visto la luce inizialmente sulle colonne del «Corriere della Sera» nel lontano 1910, Luigi Pirandello ci offre un’opera che, successivamente rielaborata per il palcoscenico tra il 1916 e il 1917, emerge come un luminoso esempio della sua maestria nel trascendere i confini di una realtà intesa in termini meramente deterministici. Attraverso questa storia, Pirandello naviga nelle complesse acque delle dinamiche umane, offrendoci uno sguardo profondo sulle sfaccettature più nascoste dell’esistenza. La novella narra le vicende di Agostino Toti, un settantenne professore di liceo in procinto di ritirarsi, il quale, nonostante sia consapevole della propria mancanza di fascino e dell’impossibilità di essere corrisposto nel suo amore, decide di sposare Maddalena, la giovane figlia del bidello della scuola. Con questo gesto, Toti intende garantire alla donna una vita dignitosa grazie alla sua imminente pensione e a un’eredità di duecentomila lire ricevuta da un fratello emigrato in Romania, denaro che egli, tuttavia, sceglie di non utilizzare per sé. Il matrimonio di Toti con Maddalena è un atto di generosità disinteressata, volto a migliorare la condizione di una giovane proveniente da un ceto sociale meno agiato, un gesto che eleva Maddalena socialmente e finanziariamente. Non meno significativa è la decisione di Toti di estendere la sua benevolenza a Giacomino, un ex alunno a lui particolarmente caro, trovandogli un impiego presso la Banca Agricola e facendo in modo che il giovane potesse avere rapporti con Maddalena, dalla quale nasce un bambino. Per Toti, sposare Maddalena non era stato un gesto di amore romantico, bensì di affetto quasi paterno. Tuttavia, la situazione prende una svolta inaspettata quando si scatena lo scandalo nel paese, alimentato dalla relazione extraconiugale di Maddalena e dall’atteggiamento insolitamente aperto del professore. Di fronte all’agitazione crescente della moglie, che si chiude in camera da letto rifiutandosi di uscire, Toti decide di affrontare il problema direttamente, recandosi a casa di Giacomino per comprendere le ragioni di tale comportamento. La scoperta che Giacomino ha intenzione di rompere ogni legame con Maddalena per sposare un’altra donna spinge Toti ad adottare una posizione ferma, minacciando di rovinare la reputazione e la carriera del giovane se non avesse rivisto le proprie decisioni. La narrazione si chiude con un monito del professore, lasciato a Giacomino sulla soglia di casa: “Pensaci Giacomino!” appunto, un invito a riflettere sulle conseguenze delle proprie scelte. In questa produzione teatrale diretta da Guglielmo Ferro, il pubblico è testimone di una straordinaria esplorazione del conflitto intrinseco tra gli aneliti individuali e le responsabilità nei confronti della collettività. Ferro, con un approccio registico di rara maestria e chiara consapevolezza del testo teatrale, plasma un’esperienza scenica dove il nucleo emotivo e narrativo del dramma si rivela attraverso un’intensa lavorazione sugli attori, focalizzandosi sul potere espressivo della respirazione, l’articolazione delle parole, la profondità delle intenzioni e l’eloquenza dei silenzi. Questa modalità interpretativa, che potrebbe essere superficialmente catalogata come “classica“, si rivela invece sorprendentemente innovativa grazie alla sua esecuzione impeccabile. La regia riesce a conferire infatti una nuova freschezza a tecniche recitative tradizionali, dimostrando come un’interpretazione focalizzata e ben calibrata possa trascendere le convenzioni e aprire nuovi orizzonti espressivi nel panorama teatrale. La scenografia di Salvo Manciagli si distingue per la sua essenzialità e funzionalità, talvolta sfiorando il simbolico, in perfetta armonia sia con la psicologia dei personaggi che con il tessuto narrativo dell’opera. Gli elementi scenici sono stati concepiti con cura, mirando a un’estetica che, pur nella sua semplicità, risulta essere profondamente significativa e immersiva. I camerini degli attori sono chiaramente visibili attraverso le cinque porte che fungono via via da aule scolastiche e  nelle stanze delle diverse ambientazioni. La luce proietta una delicata aura sui visi riflessi nei grandi specchi da trucco, mentre gli attori attendono con ansia il loro momento sul palcoscenico, immersi nei loro personaggi e pronti a pronunciare la loro battuta. L’illuminazione di Santi Rapirarda, infatti, gioca un ruolo cruciale nell’evocare l’atmosfera desiderata, dirigendo l’attenzione dello spettatore verso i personaggi e i momenti chiave con precisione e sensibilità. Le luci si intrecciano armoniosamente con la narrazione, amplificando le emozioni in scena e contribuendo a definire il tono generale dell’opera. Anche la componente musicale assume un ruolo fondamentale, arricchendo lo spettacolo con le sue atmosfere. La scelta dei brani e delle melodie accompagna lo spettatore in un viaggio emotivo, permettendo un’immersione totale nelle vicende narrate e facilitando un coinvolgimento più profondo e personale. Il cast ha offerto interpretazioni magistrali, con una menzione speciale per il talento indiscusso di Pippo Pappavita. La sua presenza scenica, ormai riconosciuta e apprezzata da anni nei ruoli pirandelliani, in questa occasione brilla particolarmente, evidenziando una sinergia quasi telepatica con Guglielmo Ferro. Pappavita, con un trasporto emotivo palpabile, porta in vita le pagine di questo capolavoro meno noto al grande pubblico, dimostrando ancora una volta la sua eccezionale capacità interpretativa. L’ensemble degli attori, senza eccezioni, si rivela all’altezza della sfida, conferendo allo spettacolo una ricchezza e una profondità che trascendono la semplice rappresentazione scenica. Il pubblico del Quirino ha risposto con entusiasmo vibrante, tributando agli artisti un’ovazione carica di passione e convinzione. PhotoCredit@CristianFoto

 

Categorie: Musica corale

Verona, “Il Campiello” di Wolf-Ferrari per la prima volta al Teatro Filarmonico – dal 17 al 24 marzo

Mar, 12/03/2024 - 16:02

Dal 17 marzo Fondazione Arena porta in scena, per la prima volta al Teatro Filarmonico, Il Campiello del veneziano-tedesco Ermanno Wolf-Ferrari, capolavoro del ‘900 da riscoprire. L’opera mette in musica fedelmente la commedia di Carlo Goldoni, Lo spettacolo è una nuova produzione delle maestranze artistiche e tecniche areniane, con la regia di Federico Bertolani e la direzione di Francesco Ommassini. Gasparina, sarà interpretata dal soprano Bianca Tognocchi, il Cavalier Astolfi,  dal baritono Biagio Pizzuti; le coppie di giovani amanti, messe alla prova da gelosie e malintesi, saranno composte da Sara Cortolezzis (Lucieta) e Gabriele Sagona (Anzoleto), e da Lara Lagni (Gnese) e Matteo Roma (Zorzeto). Fabrizio, il burbero zio di Gasparina sarà interpretato da Guido Loconsolo e le tre vecchie donne del campiello rispettivamente dai tenori Leonardo Cortellazzi (Dona Cate, madre di Lucieta) e Saverio Fiore (Dona Pasqua, madre di Gnese) e dal mezzosoprano Paola Gardina (Orsola, la fritolera, madre di Zorzeto). La nuova produzione di Fondazione Arena vedrà la regia del giovane Federico Bertolani, con scene di Giulio Magnetto, costumi di Manuel Pedretti, luci di Claudio SchmidL’Orchestra di Fondazione Arena e il Coro preparato da Roberto Gabbiani saranno diretti da Francesco Ommassini, veronese d’adozione ma autentico veneziano per nascita e formazione.
Il Campiello debutta domenica 17 marzo alle 15.30 e replica mercoledì 20 marzo alle 19, venerdì 22 marzo alle 20 e domenica 24 marzo alle 15.30. Biglietti, abbonamenti e nuovi carnet sono disponibili al link https://www.arena.it/it/teatro-filarmonico, alla Biglietteria dell’Arena e, due ore prima di ogni recita, alla Biglietteria stessa del Teatro Filarmonico in via Mutilati.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Salome” ritorna al Costanzi

Mar, 12/03/2024 - 13:01

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2023/2024
SALOME
Dramma in un atto dal dramma di Oscar Wilde nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann
Musica di RICHARD STRAUSS
Erode  JOHN DASZAK
Erodiade  KATARINA DALAYMAN
Salome LISE LINDSTROM
Jochanaan NICHOLAS BROWNLEE
Narraboth JOEL PRIETO
Un paggio di Erodiade KARINA KHERUNTS
Primo ebreo MICHAEL J. SCOTT
Secondo ebreo CHRISTOPHER LEMMINGS
Terzo ebreo MARCELLO NARDIS
Quarto ebreo EDUARDO NIAVE*
Quinto ebreo/secondo soldato EDWIN KAYE
Primo nazareno/primo soldato ZACHARY ALTMAN
Secondo nazareno NICOLA STRANIERO*
Un uomo di Cappadocia   ALESSANDRO GUERZONI
Uno schiavo GIUSEPPE RUGGIERO
*dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Marc Albrecht
Regia Barrie Kosky
Scene e Costumi Katrin Lea Tag
Luci Joachim Klein
Drammaturgia Zsolt Horpacsy
regia ripresa da Tamara Heimbrock
Allestimento Oper Frankfurt
Roma, 07 marzo 2024
Assente dalle scene dell’Opera di Roma dal 2007, Salome di Richard Strauss torna con un allestimento del regista Barrie Kosky già presentato con successo a Francoforte nel 2020 e la direzione del maestro Marc Albrecht. L’idea che sembra essere alla base di questa lettura è quella di raccontare l’opera dal punto di vista della protagonista e non da quello maschile o da quello più ampio della vicenda nel suo insieme. Il personaggio diviene una sorta di donna-bambina volitiva, crudele, perversa, distruttiva e capricciosa innamorata della fisicità di Jochanaan e non più una ragazza corrotta dalla dissolutezza dei potenti. Lo spettacolo si svolge in un ambiente buio e totalmente privo di arredi dove in un nero morbido e non riflettente i vari personaggi prendono vita grazie ad un sapiente gioco di fasci di luce che li rende reali nel momento a loro destinato per poi tornare a farli sparire nell’oscurità dell’indefinito. I costumi sono contemporanei ma definiscono adeguatamente le caratteristiche di ciascuno. Nessun riferimento alla ambientazione biblica è percettibile e forse proprio questa atemporalità e questo minor spazio lasciato alla parte visiva rendono più evidente il testo e più inquietante per il pubblico l’elaborazione della vicenda. Un po’ come se ciascuno spettatore fosse invitato a scendere nelle tenebre del ricordo del proprio lato perverso e della propria distruttività in un viaggio nel proprio vissuto. Unico momento affidato alla crudezza delle immagini è quello del monologo finale con la testa di Jochanaan oscillante sul palcoscenico e grondante sangue. Qui però il gioco ordito dal regista è parso un po’ troppo esplicitamente esibito e tale, nell’orrore realistico della visione, da relegare in secondo piano l’espressività della musica e del testo. Ottimo, visto l’impianto dello spettacolo, è stato il lavoro dei tecnici dell’illuminazione del teatro nel seguire i vari personaggi e nel farli vivere o repentinamente scomparire. Splendida è stata la direzione del maestro Marc Albrecht grande conoscitore di questo repertorio ed estimatore della Salome in particolare. Oltre ad avere un evidente e sicuro dominio tecnico della difficile partitura ha mostrato una ampia e raffinata varietà di colori, usando e fondendo al meglio le potenzialità espressive delle varie sezioni dell’orchestra. E veniamo agli interpreti vocali della serata. Nel ruolo eponimo il soprano Lise Lindstrom ha esibito una notevole tenuta scenica e vocale con un registro acuto sicuro, sonoro e mai gridato cogliendo un meritato successo. Ottimi pure sul piano vocale, musicale e scenico John Daszak e Katarina Dalayman rispettivamente Erode ed Erodiade. E così pure ben risolto è stato il Narraboth del tenore Joel Prieto. Infine, assai bravo soprattutto sul piano di una vocalità caratterizzata da un volume notevole unita ad un bel timbro omogeneo e ad una dizione assai ben articolata è stato il baritono Nicholas Brownlee nella parte di Jochanaan. Tutti su un piano di ottima professionalità gli interpreti delle numerose parti minori che hanno mostrato di superare con apparente semplicità le difficoltà musicali delle loro brevi parti. Alla fine qualche contestazione a nostro parere ingiustificata all’indirizzo del regista ed applausi intensi e meritati ma verrebbe da dire meditativi per tutti gli interpreti di quest’opera la cui visione e ascolto sono stati in grado di destare imbarazzi ed inquietudini nel pubblico secondo le intenzioni dell’autore e del regista.  

 

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro Malibran: in scena “Maria Egiziaca” di Ottorino Respighi

Mar, 12/03/2024 - 00:20

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2023-2024
“MARIA EGIZIACA”
Mistero in tre episodi, Libretto di Claudio Guastalla.
Musica di Ottorino Respighi
Maria FRANCESCA DOTTO
Il pellegrino/L’abate Zosimo SIMONE ALBERGHINI
Il marinaio/Il lebbroso VINCENZO COSTANZO
Un compagno MICHELE GALBIATI
Un altro compagno/Il povero LUIGI MORASSI
La cieca/La voce dell’Angelo ILARIA VANACORE
Una voce dal mare WILLIAM CORRÒ
Danzatrice MARIA NOVELLA DELLA MARTIRA
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Manlio Benzi
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 8 marzo 2024
Assente da quasi settant’anni, Maria Egiziaca è tornata a Venezia. Il “mistero in tre episodi” di Ottorino Respighi e Claudio Guastalla, dopo il lontano debutto alla Fenice, nel gennaio del 1956, con la direzione di Ettore Gracis e la regia di Franco Enriquez, si rappresenta in questo periodo sul palcoscenico del Teatro Malibran, in un nuovo allestimento della Fondazione Teatro La Fenice. L’opera fu completata da Respighi il 30 luglio 1931 e pubblicata da Ricordi nello stesso anno. Eseguita per la prima volta alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932, in forma di concerto – sul podio il compositore, subentrato in extremis ad Arturo Toscanini, affetto da artrite al braccio destro–, la sua prima rappresentazione sulla scena si svolse al Teatro Goldoni di Venezia il 10 agosto 1932. Maria egiziaca rientra nella tendenza, vigente negli anni Venti, a rivisitare i testi medievali, talora senza possedere l’originalità di un D’Annunzio, di un Sem Benelli o di un Giovacchino Forzano. È il caso del librettista Claudio Guastalla, che attinse per il libretto alla Vita di S. Maria Egiziaca di Domenico Cavalca (1330) –, traendone un testo alquanto stucchevole, per l’eccesso di rime baciate, e infarcito di termini desueti, tanto da dover essere qua e là aggiornato, in occasione di questo allestimento, per renderlo più comprensibile. Essenziale, ma pregnante la messinscena ideata da Pier Luigi Pizzi, orgoglioso di dar voce ad una donna, che assurge alla santità anziché morire accoltellata, come troppo spesso ci riporta la cronaca. Il regista utilizza uno scarno apparato scenico (una nave, la Croce e poco altro), che, al pari dei costumi – Maria indossa una tunica verde e poi una tunica bianca, come quella del Pellegrino/Zosimo; i Marinai sono coperti da sobri costumi neri – coniuga semplicità ed eleganza, mettendo in primo piano il viaggio iniziatico della protagonista, che si svolge di pari passo con la mortificazione della carne: inizialmente contraddistinta da una sfrontata bellezza, Maria alla fine appare impietosamente vecchia, con il corpo consumato da quarant’anni di digiuno nel deserto. Il trittico ci consegna tre momenti diversi, visualizzati anche attraverso delle immagini, che appaiono su uno schermo a led, esplicitando luoghi e simboli evocati dalla musica: il mare, il deserto, la selva di croci, che fa da sfondo alla morte di Maria. Il regista vede nella protagonista una donna libera: anche quando è una meretrice, che vende il proprio corpo, non lo fa solo per denaro, ma anche per rendere possibile la propria redenzione; il che costituisce l’aspetto più toccante e singolare del personaggio, che ha come tante altre sante un rapporto erotico con Dio. Attenta ed approfondita è risultata la lettura di Manlio Benzi, che è riuscito a ricondurre ad unità l’eclettismo della musica di Respighi che, se guarda all’antico – dal canto gregoriano a Monteverdi –, non trascura l’esempio dei contemporanei. La sua concertazione ha messo in valore la ricchezza della partitura, che assegna ad ogni episodio la sua particolare tinta musicale e drammaturgica: il primo episodio – dove Maria è una femme fatale – comincia con una pagina di stampo modale, ma nel prosieguo ricorrono echi stravinskiani, mahleriani, debussyani; nel secondo – che vede Maria acquisire la consapevolezza del proprio peccato – la musica richiama inizialmente certe durezze di Stravinskij e di Hindemit, ma poi la vocalità di Maria, dispiegandosi in ariosi, si fa più calda; nel terzo – in cui si compie il percorso di redenzione della protagonista – la musica si fa più trasparente e lirica, culminando nel grande duetto finale tra Maria e Zosimo, che ricorda alcuni finali straussiani. Il direttore ha brillato negli straordinari “intermedi” strumentali, tra un episodio e l’altro: nel primo, che potremmo definire “marino”, in quanto esprime suggestioni legate al viaggio per mare, fino allo scatenarsi di una tempesta e al suo placarsi; nel secondo, all’inizio estremamente drammatico, ma poi più sereno, ad indicare la trasfigurazione di Maria. Quanto alle voci, Francesca Dotto ha pienamente convinto nel ruolo assai complesso – e in “divenire” – della protagonista, dimostrando un ragguardevole carisma a livello musicale, vocale e scenico: timbro puro ed omogeneo, emissione potente, perfetta aderenza al testo nel declamato drammatico come nelle espansioni liriche, icastica gestualità. Espressivo Simone Alberghini nei panni del Pellegrino e dell’Abate Zosimo, dando prova nel complesso di una buona tenuta vocale e affrontando dignitosamente il duetto finale con la protagonista. Positiva la prestazione di Vincenzo Costanzo (sospiroso Marinaio, nella canzone d’apertura, e poi umile Lebbroso), come quella di Michele Galbiati (Un compagno), Luigi Morassi (Un altro compagno/Il povero), Ilaria Vanacore (La cieca /La voce dell’Angelo) e William Corrò (Una voce dal mare). Encomiabile per fraseggio e compostezza stilistica il coro – collocato in loggione e diretto da Alfonso Caiani – soprattutto nel finale, intonando il mistico “Laudato sii, Signore!”. Sensuale la danzatrice Maria Novella Della Martina nei suoi interventi durante i due “Intermedi”. Calorosi applausi per tutti, in particolare per la protagonista.

Categorie: Musica corale

Verona, Al Nuovo, dal 12 al 17 marzo nell’ambito del Grande Teatro, è di scena “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand

Lun, 11/03/2024 - 00:16

Nell’ambito della rassegna “Il Grande Teatro” organizzata dal Comune di Verona e dal Teatro Stabile di Verona, è in programma, al Nuovo da martedì 12 a sabato 16 marzo alle 20.45 e domenica 17 marzo alle 16.00, “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand con, protagonista, Arturo Cirillo che cura anche adattamento e regia. Lo spettacolo, che chiude l’edizione 2023-24 del Grande Teatro, vede in scena anche Irene Ciani, Rosario Giglio, Francesco Petruzzelli, Giulia Trippetta e Giacomo Vigentini. Prodotto da Marche Teatro, Teatro di Napoli, Teatro Nazionale di Genova ed Emilia Romagna Teatro, “Cyrano de Bergerac” si avvale delle scene di Dario Gessati, dei costumi di Gianluca Falaschi, delle luci di Paolo Manti e delle musiche di Federico Odling.
Ricorrendo a molte citazioni (da Dante ad Ariosto, a Cervantes) la regia di Arturo Cirillo esalta la meta-letterarietà del testo e fa indossare a Cyrano lustrini e paillettes. In frac e cilindro, Cyrano finisce con l’animare mondi fantastici nei quali coesistono storie diverse. Partendo dall’iconica protuberanza del protagonista, come per magia lo spadaccino diviene Pinocchio, Rossana si trasforma in Fata Turchina e il fido Ragueneau diventa un perfetto Grillo Parlante…
Giovedì 14 marzo alle 18.00 Arturo Cirillo e gli altri interpreti di “Cyrano” incontreranno il pubblico. L’ingresso è libero.
Biglietti in vendita al Teatro Nuovo, a Box Office e on line su
www.boxofficelive.it e www.boxol.it/boxofficelive

Categorie: Musica corale

Milano, Piccolo Teatro Paolo Grassi: “Aspettando Godot”

Dom, 10/03/2024 - 22:19

Milano, Piccolo Teatro Grassi, Stagione 2023/24
ASPETTANDO GODOT”
di Samuel Beckett
Traduzione Carlo Fruttero
Estragone ENZO VETRANO
Vladimiro STEFANO RANDISI
Lucky GIULIO GERMANO CERVI
Pozzo PAOLO MUSIO
Ragazzo ROCCO ANCAROLA
Regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
Musiche originali Panayiotis Velianitis
Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con Attis Theatre Company
Milano, 8 marzo 2024
Con questa recensione solleveremo un’annosa questione: il valore letterario (o drammaturgico) delle opere teatrali coincide sempre con il loro valore teatrale, performativo? Questa domanda già se la posero nella tarda antichità i commentatori cristiani, quando, sulla scorta di Agostino, parlavano di oscenità della scena e non della pagina, vietando de facto la rappresentazione dei drammi antichi, non la loro lettura – che poteva avere un qualche valore anche in un’ottica cristiana. Ovviamente lontani da una prospettiva moralistica, oggi pensiamo che comunque prima di proporre al pubblico un’opera teatrale dovremmo interrogarci se quest’opera rispetti dei canoni (per quanto dagli ampissimi margini) di fruibilità sul piano performativo. Ebbene, il caso specifico cui mi riferisco è un testo arcinoto, celebratissimo, ma che in realtà non molti conoscono davvero: “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Ascritto a torto al filone del “teatro dell’assurdo” (benché Ionesco e Adamov siano ben altro), il capolavoro beckettiano si impernia sulla volontà strenuamente soggettivista di rifiutare tutti i parametri del teatro per come li conosciamo noi: non ci sono né personaggi né azioni certe, non racconta alcun evento, ma solo non-eventi o atti mancati, rifiuta l’alto e il basso della vita per registrarne solo la grottesca medietà. Tutto questo è assolutamente mirabile, tanto più perché per farlo si sceglie la forma dialogica tra personaggi, anarrativa e adescrittiva, e perciò il testo si configura come una pietra miliare della letteratura del Novecento (definizione suggellata dal Premio Nobel per la Letteratura nel 1969). Ma siamo sicuri che sul piano della rappresentazione questo testo incarni davvero una posizione di assoluta preminenza? Mi spiego meglio: posto che si possa mettere in scena “Aspettando Godot”, siamo certi che si debba? O forse non sarebbe meglio rispettarne l’integrità testuale e letteraria con una semplice personale lettura? Il dubbio – terribile e non dirimibile, temo – ci è sorto assistendo all’”Aspettando Godot” di Theodoros Terzopoulos al Piccolo di Milano: uno spettacolo interessantissimo dal punto di vista produttivo, molto ben recitato, ma, per usare un termine che un critico non dovrebbe usare mai, noioso. Soporifero. Letale. A un certo punto tanto noioso da innervosire, e far sorgere il desiderio di andarsene. Eppure, ribadiamolo per essere chiari, la messa in scena è davvero splendida, giocata su una semplice quanto efficace macchina scenica su cui gli attori stanno per la maggior parte del tempo e che nel suo aprirsi e chiudersi forma una croce luminosa (interpretazione piuttosto ordinaria, quella messianica, del testo, ma del tutto accettabile); le luci sono parte integrante di questa regia e, sia nel loro posizionamento, sia negli effetti che ottengono, raggiungono risultati d’impatto e per nulla calligrafici; le musiche originali di Panayiotis Velianitis sono molto suggestive e contribuiscono alla scelta di dare un taglio tragico allo spettacolo (d’altronde Terzopoulos è alla tragedia che si è dedicato con risultati esaltanti); il cast si assesta su un livello alto, come di meno non ci aspetteremmo da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, la coppia di protagonisti Gogo e Didi, attori di mirabile esperienza e persistente intensità, che senza dubbio si riconfermano nella loro indiscutibile maestria; ma anche Giulio Germano Cervi e Paolo Musio, l’altra coppia di personaggi, Lucky e Pozzo, dimostrano i loro talenti, in due interpretazioni che si spendono anche sul piano corporeo; forse solo il Ragazzo di Rocco Ancarola ci pare meno convincente sul piano vocale, ma assolutamente omogeneo ai suoi compagni su quello più generalmente attoriale. Il punto è, tuttavia, che un simile testo, con simili intenti e indicazioni, non consente davvero nemmeno di valutare le interpretazioni degli attori, giacché, se non abbiamo il personaggio, difficilmente avremo anche l’arte scenica. Gli stessi ruoli potrebbero interpretarli, con risultati abbastanza paragonabili, anche attori dilettanti ben istruiti da un regista – e sull’istruzione registica, se vediamo Terzopoulos, non possiamo proprio sindacare. Dunque torniamo al punto di partenza: cosa non ci è piaciuto di questo spettacolo? Non ci resta che orientarci sul testo stesso, sulla sua ridicola intoccabilità, sulla sua pretesa di rivoluzione che oggi non fa più presa (dato che la rivoluzione c’è stata, è pure finita e ci lecchiamo ancora le ferite), insomma sul suo manifesto rifiuto di diventare un classico. Ma rifiutarsi, a settantun anni, di diventare un classico – quindi di essere passibile di interpretazione, interpolazione, traduzione eccetera – lo relega semplicemente alla categoria di “vecchio”: “Aspettando Godot” è un testo vecchio. Leggiamolo, studiamolo, amiamolo, ma non mettiamolo più in scena. Non ne ha bisogno lui, né il suo autore (ci sono opere di Beckett molto più interessanti e ancora oggi meno note), né lo spettatore contemporaneo. Foto Johanna Weber

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: Rudolf Buchbinder in concerto

Dom, 10/03/2024 - 20:18

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e pianoforte Rudolf Buchbinder
Ludwig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in do minore op. 37; Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 in mi bemolle maggiore op. 73 “Imperatore”
Venezia, 7 marzo 2024
Lo spirito della più insigne tradizione musicale viennese pareva aleggiare fra gli ori e i decori della Sala del Selva, nel corso del settimo concerto della Stagione Sinfonica 2023-2024 del Teatro La Fenice: ad evocarlo era un grande musicista, che ha saputo raccogliere e rinnovare quel prezioso retaggio. Ci riferiamo al pianista Rudolf Buchbinder – cèco per nascita, ma viennese per formazione: ammesso eccezionalmente a soli cinque anni alla Musikhochschule della capitale austriaca – uno dei massimi interpreti del repertorio beethoveniano, l’unico, tra l’altro, cui sia stato concesso di suonare presso il Wiener Musikverein, nel corso di un’apposita rassegna, tutti i cinque concerti per pianoforte di Beethoven, rispetto ai quali è verosimilmente l’interprete di riferimento. Nessuno meglio di lui poteva interpretare i titoli in programma per questo concerto, nella duplice veste di solista e direttore. Hanno davvero impressionato la “facilità”, la padronanza tecnica, l’adeguatezza stilistica, con cui Buchbinder ha affrontato due tra i concerti per pianoforte più riusciti e complessi del genio di Bonn, caratterizzati da un rapporto equilibrato tra l’orchestra e il pianoforte, che acquisisce una dimensione “sinfonica”, un’imponenza e una massa di suono, assenti dai concerti classici, mentre potenzia la propria espressività – aldilà del fattore virtuosistico – anche grazie all’uso del pedale.
Un suono di cristallina trasparenza, ma anche improntato a un beethoveniano vigore, ha caratterizzato l’esecuzione, precisa e misurata, del Concerto per pianoforte e orchestra n.3 in do minore – composto fondamentalmente tra il 1800 e il1803 –, che segna la conclusione del concerto classico e contemporaneamente apre a nuove esperienze. In essa il virtuosismo trascendentale del solista, nel affrontare trilli, abbellimenti e agilità, si integrava perfettamente all’impeto drammatico o all’espansione lirica di certi passaggi, in un proficuo rapporto dialettico con la compagine orchestrale, sempre assolutamente in sintonia. In particolare, nel primo movimento, al carattere “militare”, attestato dal tema iniziale, si univa un afflato drammatico, cui contribuivano il tono contrastante dei due temi principali – vigoroso il primo, cantabile il secondo –, l’avvicendarsi di timbri diversi, l’uso espressivo dei silenzi nell’esposizione, in doppie ottave, del primo tema. Dopo la cadenza, con il dialogo sommesso tra pianoforte e timpani, il movimento è culminato nella coda, apertasi in un clima di instabilità tonale. Introdotto da un assolo del pianoforte, il movimento centrale – un tenero Largo – ha visto il solista abbandonarsi a lunghi passaggi cantabili in doppie terze, mentre nella parte centrale, ha accompagnato l’orchestra, creando un morbido tappeto sonoro, sul quale si stagliavano gli assolo di flauto e fagotto. Nel movimento finale – un Rondò percorso da un giocoso refrain, che si alterna ad episodi dai caratteri contrastanti – il solista ha convertito la pienezza di suono, diffusamente esibita in precedenza, in brillantezza tecnica, fino al quando, interrompendosi l’orchestra, il pianoforte ha attaccato una piccola concitata cadenza interamente scritta, in do maggiore, a concludere in modo brioso la propria performance. Analogamente straordinaria è apparsa l’esecuzione del Concerto n. 5 in mi bemolle maggiore – anch’esso legato al genere della “battaglia”, fiorentissimo tra il 1780 e il 1815 –, cui Beethoven lavorò tra 1808 e il 1810, dando un contributo fondamentale all’evoluzione della scrittura pianistica. Se rimane incerta l’origine del titolo di “Imperatore” – anche se probabilmente allude a Napoleone –, si trovano, annotate sugli schizzi del primo movimento, alcune esplicite espressioni “bellicose”, che potrebbero essere in relazione con il risveglio del nazionalismo tedesco – promosso da Fichte –, cui si assiste dopo il bombardamento e l’occupazione di Vienna, durante la guerra austro-francese del 1809. Anche nel corso di questa esecuzione il solista ha brillato dalla prima all’ultima battuta. Nel primo movimento, Allegro, si è messo subito in rilievo, insieme all’orchestra, con una serie di accordi, a cui seguivano i suoi eleganti interventi virtuosistici. Si è imposta poi l’orchestra, esponendo il trionfale primo tema, affidato ai violini primi, al quale si è contrapposto il secondo tema, dal procedere saltellante – complice lo staccato dagli archi –, per diventare in seguito più sensuale grazie al legato dei corni. Più oltre il pianoforte si è prodotto in straordinarie variazioni sul primo tema, mentre il secondo tema si è ripresentato in una tonalità lontana. Dopo lo sviluppo – con i temi rielaborati dall’orchestra e variati dal pianoforte – il solista, in assenza della cadenza conclusiva del movimento, ha nobilmente dialogato con gli altri strumenti in una situazione di parità. Un’aura solenne, venata di religiosità, ha pervaso il secondo movimento, Adagio un poco mosso, fin dall’iniziale tema di corale, affidato agli archi. Dopodiché ha fatto il suo “sorprendente” ingresso il pianoforte, intonando uno struggente tema in terzine, prima di anticipare, successivamente alla ripresa, il tema iniziale del movimento successivo. In quest’ultimo, Allegro – dove la forma del Rondò convive con quella del tema con variazioni – lo stupendo refrain, scintillante e gioioso, veniva reiterato con accenti delicati dal pianoforte, cui rispondeva imperiosa l’orchestra, in un dialogo, che è divenuto dopo la ripresa sempre più stretto, fino alla stringata coda, che ha chiuso in modo trascinante il concerto. E il pubblico si è lasciato davvero trascinare, salutando poi con lungo fragore d’applausi ed entusiastiche ovazioni il maestro Buchbinder e l’orchestra.

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Genova, Opera Carlo Felice, “Beatrice di Tenda” di Vincenzo Bellini dal 15 al 22 marzo

Dom, 10/03/2024 - 17:59

Penultima opera di Vincenzo Bellini, e unica di argomento storico, “Beatrice di Tenda” è una tragedia lirica in due atti composta tra il gennaio e il marzo del 1833 con il librettista Felice Romani. La genesi rapida ma tribolata e gli aspri scontri tra compositore e librettista probabilmente contribuirono a sancirne l’insuccesso alla stagione di Carnevale della Fenice di Venezia, nonostante la presenza del celebre soprano Giuditta Pasta nei panni della protagonista. Eppure, i valori assoluti della vicenda (amore, fede, vendetta) e la drammaturgia musicale della partitura belliniana ne fanno una delle opere più mature e complesse del compositore catanese. L’Opera Carlo Felice di Genova, nell’ambito di “Genova capitale del Medioevo 2024”, la ripropone al pubblico in coproduzione con il Teatro La Fenice di Venezia; a dar vita alla vicenda un cast di tutto rispetto (Angela Meade nei panni della protagonista, Carmela Remigio in quelli della rivale Agnese Del Maino e Matteo Olivieri come Filippo Maria Visconti, marito di entrambe) diretto dalla bacchetta di Riccardo Minasi. La regia è affidata a Italo Nunziata, le scene a Emanuele Sinisi, i costumi ad Alessio Rosati.
Per tutte le altre informazioni, qui.

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Iliade “Il Gioco degli Dei” dal 13 al 24 Marzo 2024

Sab, 09/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
ILIADE “IL GIOCO DEGLI DEI”
testo di Francesco Niccolini ispirato all’Iliade di Omero
drammaturgia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer
con Iaia Forte ed Alessio Boni
e con (in o.a.)  Haroun Fall, Jun Ichikawa, Francesco Meoni, Elena Nico, Marcello Prayer, Elena Vanni
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
disegno luci Davide Scognamiglio
musiche Francesco Forni
creature e oggetti di scena Alberto Favretto, Marta Montevecchi, Raquel Silva
regia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, Fondazione Teatro della Toscana, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Iliade canta di un mondo in cui l’etica del successo non lascia spazio alla giustizia e gli uomini non decidono nulla, ma sono agiti dagli dèi in una lunga e terribile guerra senza vincitori né vinti. La coscienza e la scelta non sono ancora cose che riguardano gli umani: la civiltà dovrà attendere l’età della Tragedia per conoscere la responsabilità personale e tutto il peso della libertà da quegli dèi che sono causa di tutto ma non hanno colpa di nulla. In quel mondo arcaico dominato dalla forza, dal Fato ineluttabile e da dèi capricciosi non è difficile specchiarci e riconoscere il nostro: le nostre vite dominate dalla paura, dal desiderio di ricchezza, dall’ossessione del nemico, dai giochi di potere e da tutte le forze distruttive che ci sprofondano nell’irrazionale e rendono possibile la guerra. Ci sono tutti i semi del tramonto del nostro Occidente in Iliade che, come accade con la grande poesia, contiene anche il suo opposto: la responsabilità e la libertà di scegliere e di dire no all’orrore. A dieci anni dalla nascita, dopo I Duellanti e Don Chisciotte, il Quadrivio, formato da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer, riscrive e mette in scena l’Iliade per specchiarsi nei miti più antichi della poesia occidentale e nella guerra di tutte le guerre. Qui per tutte le informazioni.

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Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Pensaci Giacomino! ” dal 12 al 24 Marzo 2024

Sab, 09/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
PENSACI GIACOMINO!
di Luigi Pirandello
Con Pippo Pattavina 
e un cast di otto attori
regia Guglielmo Ferro
Progetto Teatrando
La commedia, scritta nel 1916 riprende i tipici temi pirandelliani che emergono con evidenza nell’opera, cioè i paradossi esistenziali dell’individuo – ipocrisia, maschere sociali, crisi di identità – e i conseguenti dilemmi che nascono dalle sanzioni da parte della società. Nella pièce infatti, il professor Agostino Toti, insegnante ginnasiale piuttosto anziano e screditato agli occhi di alunni e colleghi, si sente impossibilitato nel continuare a insegnare e cova del risentimento nei confronti della società. Per ottenere una rivalsa nei confronti dello Stato a cui egli pensa sia dovuto il suo fallimento, prende per moglie una ragazza molto giovane di umili condizioni di nome Lillina che però è incinta di un giovane del paese, Giacomino. Nonostante ciò, questo aspetto così grave per le convenzioni sociali dell’epoca  non distoglie Toti dal suo proposito, né sembra preoccuparlo. Qui per tutte le informazioni.

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“First Light”: Nico Muhly & Philip Glass

Sab, 09/03/2024 - 11:35

Nico Muhly (b. 1981): Shrink (Concerto for Violin and Strings) (world premiere recording). Philip Glass (b. 1937): The Orchard (from The Screens); String Quartet No. 3, “Mishima”. Norwegian Chamber Orchestra. Pekka Kuusisto (violino e direttore). Nico Muhly (pianoforte). Registrazione: Ottobre 2020, presso Jar Kirke, Bœrum, Norvegia. T. Time: 47′ 51″. 1CD Pentatone PTC51859745
Nata dalla collaborazione tra il pianista e compositore Nico Muhly e il violinista e direttore della Norwegian Chamber Orchestra,  Pekka Kuusisto, questa proposta della casa discografica Pentatone accosta due importanti nomi della musica contemporanea e, in particolar modo, Philipp Glass che, tra i compositori viventi, è sicuramente uno dei più influenti sulle nuove generazioni con il suo “minimalismo”, e il giovane compositore statunitense Nico Muhly che di Glass è stato assistente e oggi è certamente una delle voci più autorevoli del post-minimilasmo. Del giovane compositore statunitense è proposto l’ascolto di Shrink, un concerto per violino e archi composto nel 2019 su commissione di un consorzio internazionale di orchestre da camera che include anche quella norvegese diretta da Pekka Kuusisto a cui il lavoro è anche dedicato. Come si può dedurre dal titolo, Shrink (restringimento), il concerto nel corso dei tre movimenti si restringe in quanto i materiali musicali vengono sottoposti a una riduzione. Il primo movimento, Ninths, è basato quasi ossessivamente sull’intervallo di nona in una scrittura in cui appaiono frammenti sminuzzati di un concerto romantica come la cadenza. Lento e pieno di tensioni, il secondo movimento, Sixths, si basa, invece, sull’intervallo di sesta, mentre il terzo, Turns, nervoso e veloce si avvale di intervalli più piccoli (unisoni e di quarta). Completano il programma il movimento, The Orchard, composto dal Glass nel 1985 per l’opera The Screens di Jean Genet e che, in questo CD, è stato registrato nel 2020 a distanza a causa della pandemia, e il Quartetto per archi n. 3 “Mishima”, sempre del 1985, che, basato sulla musica che Glass aveva scritto per l’omonimo film, è qui presentato in un nuovo arrangiamento per orchestra d’archi curato da Pekka Kuusisto. Ottima l’esecuzione di questi lavori, la cui interpretazione, essendo fatta dallo stesso compositore (Nico Muhly) che, tra l’altro, conosce molto bene il linguaggio di Glass del quale è stato assistente, o dall’arrangiatore (Pekka Kuusisto), rispecchia perfettamente l’intenzione di chi li ha scritti. Come sempre accade in queste proposte discografiche di musiche contemporanee, l’interesse non sta, quindi, tanto sull’interpretazione quanto sul carattere innovativo per il linguaggio musicale di questi lavori che, per la verità, in questo caso, non sono tutti recentissimi. Il Quartetto per archi n. 3 “Mishima” si può ormai considerare, infatti, un classico della musica contemporanea che, in questo CD, assume una nuova veste nell’arrangiamento di Kuusisto il quale, tuttavia, compie un’operazione abbastanza tradizionale nel trascrivere per orchestra d’archi un quartetto d’archi.
 

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Milano, Teatro Franco Parenti: “Come tu mi vuoi”

Sab, 09/03/2024 - 09:35

Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2023/24
COME TU MI VUOI”
di Luigi Pirandello
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
L’ignota LUCIA LAVIA
Carlo Salter FRANCESCO BISCIONE
Mop/La demente ALESSANDRA PACIFICO
Boffi PARIDE CICIRELLO
Un giovane/Dottore NICOLA COSTA
Un Giovane/Silvio Masperi ALESSANDRO BALLETTA
Zia Lena ALESSANDRA COSTANZO
Zio Salesio BRUNO TORRISI
Bruno Pieri PIERLUIGI CORALLO
Ines Masperi ISABELLA GIACOBBE
Regia Luca De Fusco
Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta
Luci Gigi Saccomandi
Musiche Ran Bagno
Movimenti coreografici Noa e Rina Wertheim-Vertigo Dance Company
Proiezioni Alessandro Papa
Produzione Teatro Stabile di Catania, Teatro della Toscana, Teatro Nazionale,Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Tradizione e Turismo srl, Centro di Produzione Teatrale, Teatro Sannazaro
Milano, 05 marzo 2024
Accanto ai celeberrimi titoli pirandelliani (capitanati dai “Sei personaggi”), alcune piccole gemme hanno dimostrato da sempre una forza scenica impressionante, che forse nemmeno il loro autore ha mai davvero ponderato: “Vestire gli ignudi”, “La vita che ti diedi”, “Trovarsi”, e, senza alcun dubbio, “Come tu mi vuoi”. Anzi: potremmo dire che quest’ultimo testo meriterebbe ancora più attenzione di alcuni titoli più frequenti sui nostri palcoscenici o nei nostri libri di scuola, poiché si tratta di una specie di manualetto pirandelliano, una summa della maggior parte del pensiero filosofico e drammaturgico dell’autore siciliano. Siamo dunque molto lieti di aver la possibilità di assistere alla seconda ripresa in un anno e mezzo di questo capolavoro, radicalmente diversa da quella vista all’Elfo nel novembre 2022 (qui): questa di Luca De Fusco, infatti, è una ripresa in tutto e per tutto del testo originale, senza grandi stravolgimenti se non nell’impianto scenico e nella sua gestione (insomma, nella regia comme il faut). Pirandello c’è tutto, nel bene e nel male: i monologhi interiori e le espressioni passé, lo scandalo e la borghesia, il grottesco del quotidiano e le personalità mitiche. E tutto questo si incarna nell’Ignota (Elma? Lucia? Il suo nome è decisamente secondario) di Lucia Lavia, in un’interpretazione di quelle che si fanno ricordare, senza dubbio, ma che probabilmente ha subito qualche incensatura di troppo – Lavia dà certamente prova di camaleontica versatilità fisica ed espressiva (mostrando peraltro doti non indifferenti di danzatrice), oltre che di resistenza corporea, costruendo per lo meno un primo atto che è più simile ad un esercizio biomeccanico che a una scena d’interno borghese; d’altro canto, tuttavia, ha una dizione totalmente fuori tempo massimo per i suoi trentadue anni, quel modo di accentare l’ultima sillaba di ogni parola come si insegnava all’Accademia settant’anni fa, quella cantilena tutta di testa che può essere efficace in alcuni momenti (trattandosi comunque di un testo del 1929), ma che alla lunga non solo stanca, ma stona in bocca a una giovane, tanto più una giovane con la sua fisicità ultrasportiva e androgina. Naturalmente, comunque, l’impressionante quantità di parole, gesti ed espressione nella quale l’attrice si spende ha la meglio su questi fastidi, e non si può che riconoscere in lei la degna erede dei suoi giganteschi genitori (Gabriele Lavia e Monica Guerritore). Accanto a lei il resto del cast sembra stare un passo indietro, con interpretazioni un po’ trattenute: gli unici che ci paiono davvero in parte (e non genericamente “bravi”) sono i caratteristi Alessandra Costanzo e Bruno Torrisi (gli anziani zii di Lucia, due parti leggere e gustose) e Francesco Biscione, nel ruolo di Carlo Salter, l’anziano scrittore tedesco follemente innamorato di Elma, l’ego berlinese da ballerina d’avant-garde dell’Ignota – un ruolo che ci sembra Biscione ricalchi anche sul Professor Unrat di Heinrich Mann, correttamente. Gli altri, pur mostrando chiarissima professionalità e buon talento, si abbandonano a una recitazione meno incisiva, più di maniera, che comunque, beninteso, non inficia il bel successo della produzione – ma nemmeno ad essa apporta granchè. La magnifica riuscita dello spettacolo è invece certamente merito di Luca De Fusco e del team con cui ha collaborato, a partire dai numeri danzati curati da Noa e Rina Wertheim della Vertigo Dance Company, che sono ipnotici e tagliati su misura per Lavia e il suo physique; le luci constrastate e allucinate di Gigi Saccomandi; ma soprattutto il connubio tra le azzeccatissime e ossessive musiche originali di Ran Bagno e le oniriche proiezioni di Alessandro Papa, in grado di richiamare chiaramente atmosfere lynchane torbide e stralunate – in particolar modo la proiezione dell’inizio del secondo atto e i giochi di sovrapposizione con il pizzo nero, che ci ricordano le musiche di Badalamenti sulle danzanti Sherilyn Fenn e Sheryl Lee, protagoniste dell’indimenticato “Twin Peaks”. È evidente che per De Fusco la chiave di lettura di “Come tu mi vuoi” sia la seduzione: la seduzione dell’Ignota su tutti e tutte, ma anche la seduzione su Elma di una vita agiata e aristocratica, quella su Lucia di una bohème perversa e cerebrale annaffiata di champagne, senza dimenticare la seduzione che la villa e il patrimonio esercitano su Bruno e Silvio, e di riflesso anche sugli zii; quest’eccitante malia crescente corrisponde anche all’ipertrofica sfaccettatura della personalità e dei dubbi dell’Ignota, che alla fine prende una decisione sofferta, ma razionale: essere fedele non a ciò che realmente è (giacché non può saperlo), ma a chi è disposto ad accettarla a qualunque condizione, lontana da questioni morali e patrimoniali. Un vero spirito libero, una ribelle della borghesia che infine si ritrova non in ciò che gli altri vogliono da lei, ma in ciò che non-vogliono, una specie di eroina nicciano-dannunziana che lascia attoniti gli altri personaggi quanto il pubblico, ancora oggi. Meravigliosa. Per le prossime date della tournée, qui. Foto Antonio Parrinello

Categorie: Musica corale

Roma, Off/Off Theatre: “Interrail”

Ven, 08/03/2024 - 23:59

Roma, Off/Off Theatre
INTERRAIL
di Armando Quaranta Riccardo D’Alessandro
con Federica Torchetti, Andrea Lintozzi, Riccardo Alemanni, Leonardo Mazzarotto
assistente alla regia Aurora Cataldi
scene e costumi Nicola Civinini
direzione tecnica Umberto Fiore
coreografie Clelia Enea
regia Riccardo D’Alessandro
Roma, 08 Marzo 2024
– “A rega, se non lo famo quest’anno non lo famo più”
– “che”
– “L’interrail”
– “ah, daje”
L’Interrail, simbolo di avventura e scoperta, ha attraversato epoche e generazioni, incarnando l’essenza stessa del viaggio ferroviario europeo. Come un gentiluomo dai tratti distinti, ma con lo spirito vibrante della gioventù, questo pass nato nel 1972 si è imposto come l’emblema per eccellenza della scoperta del Vecchio Continente. È tale fascino che ha ispirato un giovane regista a portarlo sul palcoscenico attraverso la commedia teatrale “Interrail”. Riccardo D’Alessandro fa il suo debutto a Roma, all’Off Off Theatre portando con sé una trama intricata, con numerosi protagonisti uniti da un’unica meta: Amsterdam. Un gruppo di amici italiani si imbarca in un viaggio in treno, determinati a segnare con fervore la prima estate dopo la maturità. Il periodo post-maturità rappresenta un’epoca carica di significato e di transizione per i giovani neodiplomati, poiché si trovano di fronte alle sfide fondamentali dell’ingresso nell’età adulta. Questa fase cruciale della vita segna il passaggio dalle scuole superiori a nuove esperienze e responsabilità, che possono includere la prosecuzione degli studi universitari, l’ingresso nel mondo del lavoro o, più semplicemente, un senso di incertezza e smarrimento di fronte all’inevitabile confronto con la complessità del mondo esterno. Raccontare una storia di amicizia attraverso il mezzo del viaggio in treno, come sottolinea il regista , aggiunge uno strato di profondità al concetto stesso di legame. In “Interrail”, ambientata negli anni ’80 e concepita anche da Armando Quaranta, questo tema viene esplorato con maestria. Nel cast spiccano nomi quali Federica Torchetti, Andrea Lintozzi, Riccardo Alemanni e Leonardo Mazzarotto, i quali danno vita a personaggi vibranti e autentici. Sono giovani, bravi ed incisivi. Il regista dimostra un’abile padronanza nel dirigere questo talentuoso ensemble, evidenziando una profonda consapevolezza e impegno nel portare avanti la produzione. Affrontando le sfide intrinseche nella creazione di dinamicità su un palcoscenico teatrale, le difficoltà incontrate sono state senza dubbio superate con successo, creando una performance coerente e ben strutturata. D’Alessandro riesce a rimarcare e portare in scena l’efficacia del contesto ferroviario nel generare situazioni cariche di tensione e conflitto, poiché, pur essendo confinati in uno spazio chiuso, i personaggi sono in costante movimento verso una meta. Questo crea una cornice ideale per una narrazione ricca anche di suspense e intrighi. “Interrail” si rivela una commedia fresca e giovanile capace di suscitare risate e al contempo regalare una dolce malinconia, tracciando un ritratto autentico delle sfide e delle gioie dell’amicizia e della giovinezza. Sul palcoscenico della vita, il passato agisce come un suggestivo sipario che, purtroppo, non si può ritrarre. Ma oh, quanto forte può essere il richiamo delle emozioni che un tempo ci hanno rapiti! Sì, quel desiderio ardente di rivivere quei momenti di estasi e gioia è come un attore che invoca il suo ruolo più amato. In superficie, sembra quasi che ci spinga a cercare freneticamente le circostanze che hanno generato quei sentimenti positivi. Ma nell’abisso dei nostri pensieri, la nostalgia svolge un ruolo più oscuro, una parte meno evidente ma altrettanto potente. È come se, dietro le quinte della mente, essa danzasse, rompendo l’inerzia psicologica e aprendo la strada ai cambiamenti necessari. Potrebbe sembrare un paradosso, ma la nostalgia agisce come una spinta positiva verso il cambiamento, come se la nostra psiche riconoscesse il momento maturo per evolversi. Non è una malattia dell’anima, no, ma una risorsa preziosa, una luce da seguire nel buio dell’incertezza. Gli spettatori hanno risposto con un fragoroso applauso, il loro entusiasmo riverberante tra le pareti del teatro, come un coro di voci che risuonano nei sogni e nelle speranze di quei giovani sul palco, che in fondo sono un po’ il riflesso di tutti noi, dei nostri passati e delle nostre aspirazioni.

 

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Milano, Factory32:”Una specie di Alaska”

Ven, 08/03/2024 - 18:38

Milano, fACTORy32, Stagione 2023/24
UNA SPECIE DI ALASKA”
di Harold Pinter
Traduzione Alessandra Serra
Deborah NATASCHA PADOAN
Hornby MATTEO BANFI
Pauline ASIA MORELLINI
Regia Gabriele Calindri
Musiche originali Michele Voltini
Produzione CamparIPadoaN
Milano, 03 marzo 2024
Una specie di Alaska” è un atto unico di Harold Pinter ispirato a un fatto realmente accaduto: un’epidemia di encefalite letargica che ha attraversato il mondo nel Primo Dopoguerra, lasciando dietro di sé molti morti e molti patologici “dormienti”, incapaci di risvegliarsi fino a che nel 1964 la scoperta della L-Dopa ha consentito loro di tornare alla vita – per lo più, tuttavia, in condizioni a vari livelli drammatiche. La magistrale penna del Nobel per la Letteratura tratteggia un’ora di atmosfere rarefatte e intense, ricostruendo il risveglio della quarantenne Deborah di fronte al dottor Hornby e a sua sorella Pauline: Pinter non ha paura, come suo solito, di giocare con silenzi e non detti, e quando fa parlare i suoi personaggi ha un impressionante senso della misura – anche nei monologhi della rediviva Deborah, che hanno, come naturale, molto dello stream of consciousness. Il suo è un non-dramma, è il dramma della privazione, dell’assenza, di chi al risveglio si accorge di aver avuto una vita puramente sognata, teorica. Le si oppone la sorella Pauline, che invece una vita l’ha avuta, forse regalata, non meritata, esattamente come Deborah non ha meritato in alcun modo la malattia; Pauline tuttavia ha sposato il medico che è riuscito a curarla, e questo la pone in una strana condizione di doppia superiorità, che Deborah non sente di dover accettare necessariamente. Il coma di Deborah non è stato un idillio, ma un sogno vero e proprio, una rappresentazione simbolica, a tratti realistica e a tratti distorta, della realtà: ella conosce il Bene e il Male, la dolcezza e la furia, l’aldilà e l’aldiquà, anche se solo oniricamente, teoricamente. La narrazione di Pinter è così distante dalla malinconica epopea del dottor Sacks (che con il suo “Risvegli” testimoniò queste guarigioni “miracolose” che finirono anche al centro della popolare omonima pellicola del ‘91): se al dottore interessava raccontare effettivamente i fatti (le parabole drammatiche dei risvegliati), a Pinter interessa quel moment of being che va dal risveglio alla consapevolezza di essa, che si raggiunge con quel “Grazie” finale, che è sia il ringraziamento al medico e a Pauline per averla riportata alla vita, sia per aver voluto farlo, dando un piccolo ma sostanziale senso alla ripresa di una vita che in standby non aveva, comunque, smesso di esistere. Questi portati del testo arrivano in maniera più o meno efficace alla scena di Gabriele Calindri: il personaggio del medico ha necessariamente dovuto perdere autorevolezza, passando da un originale sessantenne a un interprete trentenne come Matteo Banfi, e così, dal grande burattinaio del risveglio (figura quasi trascendente) del testo, si arriva a un ricercatore inquieto, quasi impaurito del suo stesso risultato; Banfi, in questa versione, può dare una resa scenica convincente, supportata anche dal naturale fascino sia della fisicità che della voce dell’attore – tuttavia non siamo del tutto persuasi dell’adattamento. La Pauline di Asia Morellini, detto chiaramente, è la prova meno convincente del dramma, impostata anch’essa su un’interprete troppo giovane e anche scenicamente acerba – specialmente per la vocalità disomogenea e dalla caratterizzazione troppo spontanea. D’altro canto, certamente può dirsi soddisfatta Natascha Padoan, una Deborah coinvolta ed efficace, nella quale il physique du rôle corrisponde al personaggio originale di donna-bambina saggia e disperata, illuminante e pazza: la Padoan approfondisce il ruolo in ogni dimensione possibile, arrivando a stimolare persino la sensazione di disagio che spesso proviamo di fronte a un infermo. La regia di per sé si nutre dei talenti degli interpreti, ben organizzandoli nell’esiguo spazio che hanno a disposizione, ma non trovando mai un guizzo, un’estetica accattivante che riesca a conferire perlomeno ritmo a ciò che vediamo (e a nulla serve l’ironica richiesta di scuse che il regista pone sul materiale di sala); unico aspetto della produzione veramente riuscito è l’accostamento della scena alle musiche originali di Michele Voltini, che costituiscono una vera e propria soundtrack della pièce, spesso conferendo o sottraendo attenzione e significato a ciò che vediamo rappresentato.

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Roma, Teatro Argentina: “Ciarlatani”

Gio, 07/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
CIARLATANI

di Pablo Remón
traduzione italiana di Davide Carnevali da Los Farsantes
con Silvio Orlando
e con (in o.a.) Francesca Botti, Francesco Brandi, Blu Yoshimi
regia Pablo Remón
scene Roberto Crea
luci Luigi Biondi
costumi Ornella e Marina Campanale
aiuto regia Raquel Alarcón
Roma, 07 Marzo 2024
Nell’ambito teatrale contemporaneo, spicca per originalità e profondità di riflessione la commedia “Ciarlatani” di Pablo Remon, recentemente adattata da Davide Carnevali e messa in scena al Teatro Argentina. Quest’opera si colloca al crocevia tra critica sociale e analisi psicologica, offrendo al pubblico uno spettacolo al contempo acuto e brillante, che esplora con ironia e spirito critico le manie, le distorsioni, le ambizioni infondate e gli ideali frustrati che caratterizzano la figura dell’impostore, rappresentato emblematicamente dall’attore. La premessa dell’opera, che vede l’attore come un maestro nell’arte della menzogna, viene elevata da Remon a una riflessione più ampia sull’autenticità e sull’inganno, facendo eco a una visione dell’attore come un “ciarlatano” non solo sul palco ma nella vita, capace di suscitare ammirazione quanto più abilmente sa ingannare. Al centro della narrazione, troviamo figure complesse e sfaccettate: Anna è un’attrice di teatro la cui carriera è in declino. Diego è un regista affermato di film commerciali. Apparentemente rappresentano i due estremi della professione artistica: il successo e il fallimento. Entrambi stanno attraversando una crisi personale e le loro storie sono collegate da una figura comune: il regista cult degli anni ’80 Eusebio Velasco, padre di Anna e maestro di Diego, scomparso e isolato dal mondo. La commedia si distingue per la sua struttura narrativa, che intreccia le vicende personali e professionali dei personaggi in un “montaggio alternato” reso con maestria dalla regia di Remon stesso. Questo approccio consente di creare una polifonia comica e multiforme, popolata da personaggi variopinti tra cui produttori dipendenti da cocaina, sceneggiatori plagiari, attori underground e attrici invecchiate nel ruolo, disegnando un affresco vivace e a tratti surreale del mondo dello spettacolo. Oltre alla narrazione principale, l’elemento distintivo di “Ciarlatani” risiede nella peculiare caratterizzazione dei suoi personaggi, ognuno dei quali è delineato attraverso un approccio narrativo unico, sia per stile che per tono. La vicenda di Anna, ad esempio, è imbevuta di un’estetica cinematografica, dove un narratore orienta il pubblico attraverso un tessuto narrativo in cui il confine tra sogno e realtà si sfuma, creando una dimensione quasi onirica. Al contrario, il racconto di Diego assume le forme di una rappresentazione teatrale più tradizionale, ambientata in scenari che tendono a una maggiore aderenza al realismo. Inoltre, si inserisce nell’opera una sorta di autofiction, un interludio in cui l’autore stesso interviene per riflettere sulle accuse di plagio che gravano sulla sua creazione. Questo elemento funge da parentesi riflessiva, contribuendo a una stratificazione tematica dell’opera. Queste diverse narrazioni procedono in parallelo, intrecciandosi e nutrendosi reciprocamente, fungendo da specchio per gli stessi temi centrali. La struttura dell’opera, perciò, pur mantenendo un impianto fondamentalmente teatrale, si avvicina per composizione e spirito a quella di un romanzo, arricchita da digressioni che le conferiscono una dimensione cinematografica. “Ciarlatani” si propone così come un’esperienza teatrale innovativa, che aspira a una narrazione ibrida, attingendo liberamente dal vocabolario espressivo del cinema e della letteratura per arricchire e amplificare la sua portata emotiva e concettuale. Emerge così come un’opera teatrale di rilevante impatto, che con sottile umorismo e penetrante introspezione smaschera le illusioni e le ipocrisie dietro la ricerca della fama e del successo nel mondo dell’arte e dello spettacolo. Allo stesso tempo, lo spettacolo invita gli spettatori a riflettere sulla natura dell’autenticità, sul valore dell’arte e sulla perenne tensione tra essere e apparire, offrendo un’esperienza teatrale ricca di significati e di spunti di riflessione. L’allestimento scenico realizzato da Roberto Crea, che gioca abilmente con la tridimensionalità attraverso l’uso di luci e ombre, si unisce magnificamente all’opera di Luigi Biondi, il cui talento nell’illuminotecnica arricchisce la scena, conferendo profondità e spazio. Questa collaborazione artistica permette al pubblico di immergersi nella storia con una facilità sorprendente, grazie a un linguaggio visivo che, pur nella sua apparente semplicità, nasconde una complessità e una raffinatezza di fondo notevole. Di notevole ricercatezza per taglio e materiali i bei costumi di Ornella e Marina Campanale. Silvio Orlando si rivela un vero pilastro in questo spettacolo, portando stabilità con la sua presenza scenica e la capacità di navigare le complessità di una trama intenzionalmente frammentata. La sua interpretazione, piena di sfumature affascinanti, guida lo spettatore attraverso le peculiarità di una commedia che flirta con l’assurdo, senza mai sopraffarla, ma piuttosto esaltandone il cammino verso un significato più ampio, che riflette le competizioni e l’indifferenza verso l’individuo della nostra era. Orlando, con una recitazione espressiva e un tempismo comico senza pari, che attinge dalla tradizione partenopea, si fa portavoce di queste tematiche insieme a Francesca Botti, Francesco Brandi e Blu Yoshimi. Insieme, danno vita a venti personaggi, trasformando le sfide della narrazione in opportunità per esplorare la vita attraverso il teatro. Le vicende si snodano tra momenti di profonda riflessione e leggerezza comica: dall’apparizione sorprendente dell’autore della commedia, in una svolta metateatrale legata al plagio, fino alle gag memorabili, come l’assegnazione dei premi David a un’attrice che dimentica il film per cui viene premiata, o le critiche taglienti di un giovane verso un’attrice che non lo ha convinto nel ruolo della strega in un pezzo per bambini. Il cerchio si chiude con la saggezza di un barista del Kazakistan, sempre Orlando, che offre una perla di saggezza sulla resilienza: a volte, toccare il fondo è necessario per risalire e ritrovare la serenità. La platea si lascia andare a sonore risate, sebbene alcuni spettatori sembrino sfuggire le più sottili venature dell’opera, un saggio quasi politico intriso di ironia. Nonostante ciò, l’accoglienza è calorosa, traducendosi in un divertimento palpabile e in un applauso generoso che riempie il teatro. Photocredit@AndreaVeroni.

 

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Senza trucco!… Claudio Coviello

Gio, 07/03/2024 - 15:57

Nato a Potenza, si trasferisce a Roma nel 2002, dove inizia gli studi presso la Scuola di Ballo del Teatro dell’Opera diplomandosi nel 2009. Nel 2010 entra a far parte del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala dove partecipa alle produzioni di repertorio e alle nuove creazioni, nelle rappresentazioni al Teatro alla Scala e nel corso delle tournée. Ha danzato in Il lago dei cigniLe Spectre de la roseRaymonda, ecc. Nel dicembre 2012 viene nominato Solista e dal dicembre 2013 è Primo Ballerino del Teatro alla Scala. Nel suo repertorio entrano Notre-Dame de Paris , Il lago dei cigniRomeo e Giulietta, L’histoire de Manon, ecc. Recentemente ha danzato in Coppelia e nello spettqcolo di danza contemporanea Smith/Leòn & Lightfoot/ Valastro.
Definisciti con tre aggettivi.
Permaloso, determinato e umile, anche se l’essere umiltà oggigiorno vine i spesso vista come un difetto.
Segno zodiacale?
Capricorno.
Sei superstizioso’
Assolutamente no.
Che lavoro avresti fatto, se non fossi diventato un ballerino??
Mi sono accostato alla danza giovanissimo, allora non pensavo che l’essere un ballerino potesse diventare una professione,  solo crescendo si è fatta strada questa consapevolezza. Prima di ciò pensavo di voler diventare un veterinario.
La sua famiglia ha influenzato le sue scelte?
Mi ha supportato in ogni momento.
Un ricordo della tua infanzia…
Il vivere con spensieratezza, la semplicità del condividere il gioco con gli amici.
Qual è il momento in cui ti sei sentito più orgoglioso?
Sicuramente quando sono diventato primo ballerino alla Scala. Grande orgoglio, ma anche una sensazione di paura!
Una grande delusione?
Oddio!…Per fortuna, al momento, non ne ho avute.
Cosa ti manca maggiormente nella tua vita attuale?
Posso ritenermi soddisfatto della mia vita, la nostalgia della lontanza dalla mia famiglia, non manca.
Cosa ti emoziona di più?
Percepire e vedere l’emozione degli altri.
Cosa ti annoia
L’abitudinarietà.
Cosa ti diverte?
Stare con i miei amici.
Il tuo rapporto con il denaro.
Direi normale. Ci do la giusta importanza. Non ho mai pensato al volere essere ricco.
In cosa sei più spendaccione…
In cene al ristorante, nelle uscite sociali…diciamo.
Fiore preferito..
Il ranuncolo.
Stagione preferita.
La primavera.
Una causa che ti sta a cuore.
Il benessere degli animali. Per questa ragione ho fatto una precisa scelta alimentare, etica.
Vino bianco o rosso?
Rosso.
Giorno o notte?
Giornissimo!!
La tua giornata ideale?
Svegliarmi e avere davanti una giornata senza impegni e orari.
Una situazione che consideri rilassante.
Una cena in riva al mare.
Il viaggio o la vacanza che vorresti fare.
Tornare in Giappone da turista.
Com’è il tuo rapporto con il mondo dei  i social media?
Sicuramente non sono uno che ne abusa. Non sono certamente uno che rivela se stesso attraverso i social. Io ne faccio o uso solo per postare cose inerenti al mio lavoro, foto o video di spettacoli.
Il tuo piatto preferito…
Da circa due anni  sono diventato vegetariano, vegano. L’ho fatto per una questione etica quindi mi sono avvicinato alla cucina proprio per sperimentare  in tal senso e avere una cucina comunque sempre equilibrata. Per questo motivo però non ho un piatto preferito.
La tua musica preferita…
Mmmm… in generale ascolto un po’ quello che capita, dipende dalle fasi della vita. Attualmente una delle mie cantanti preferite è Levante.  Però ascolto  qualsiasi tipo musica.
La vacanza ideale?
Amore e relax.
Il personaggio sul palcoscenico?
Romeo. Era sempre nei miei sogni fin da quando studiavo. Poi vorrei nuovamente interpretare Des Grieux di Manon. Sono convinto che i  ruoli maturano come sei tu come persona e artista e quindi il tornare ad interpretarli te li fa vedere con una sensibilità diversa.
La tua colazione..
Con la colazione non sono molto costante e metodico.  Preferisco dormire un po’ di più e di conseguenza la colazione ne paga le conseguenze e  finisco con frettoloso brioche e caffè.
Il  tuo rapporto con la moda…
Non sono modaiolo.
Le passioni….
Amo cucinare, ma anche fotografare. Non riesco però ad essere costante.
Il personaggio amato delle favole..
Dumbo, ma era un cartone animato…Amavo anche i Simpson…Ho sempre trovato le favole un po’ stucchevoli.
Il colore preferito..
Vado a periodi…ultimamente amo le sfumature del verde.
Il film amato.
Sarò banale….ma è stato “Titanic”
Città preferite…
Roma, dove respiri la storia e Parigi per l’eleganza il grande impatto dei suoi palazzi, boulevards…
Il ristorante?..
Come ho già accennato, amo andare a mangiare fuori e  curiosare nelle cucine etniche. Adesso amo molto il cibo libanese.
Il tuo rapporto con la spiritualità.
Sono molto terreno e razionale. Penso che ci possa essere un qualcosa di superiore…ma non ne sono un granchè convinto..
Cosa non manca mai nel tuo camerino…
Il disordine.
Come segui l’evoluzione del tuo corpo.
Per noi ballerini è sempre un po’ complicato.  Sentiamo più che mai il corpo che cambia. Di certo il  mio corpo non è più quello di quando avevo 18 anni, aggiungici anche che,  durante la carriera puoi anche avere qualche infortunio. Tutto ciò ti fa sentire che il corpo pian piano si trasforma ma, in compenso,  acquisisce un’altra consapevolezza, la maturità di come lo gestisci.
Cosa pensi quando ti guardi allo specchio.
Oddi!…Già noi ballerini siamo “schiavi” dello specchio, io poi che sono un perenne insicuro, quando mi guardo provo sempre sensazioni diverse, a seconda delle giornate.
Stato d’animo attuale
Direi felice.
Il tuo motto.
Ognuno è artefice del proprio destino.

 

 

 

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Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Carla Accardi”

Gio, 07/03/2024 - 12:37

Roma, Palazzo delle Esposizioni
CARLA ACCARDI
06.03__09.06.2024
A cura di Daniela Lancioni e Paola Bonani
Mostra promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
Ideata, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo
Realizzata in collaborazione con Archivio Accardi Sanfilippo e con il sostegno della Fondazione Silvano Toti
Roma, 05 Marzo 2024
“Tutte le cose che ho fatto le ho volute. In fondo il lavoro si far per sé, non si fa per gli altri, perché se lo fai per gli altri segui sempre delle cose che non sono pure, che sono delle imposizioni, delle influenze, invece seguire il proprio sogno è diverso, perché fai una cosa e la prima volta che la fai ti sembra strana…dopo ti ci immergi e ne ricavi un significato”.
CARLA ACCARDI
Nata a Trapani il 9 ottobre 1924, Carla Accardi segnò il proprio destino artistico attraversando prima i portali dell’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Firenze, post maturità classica e artistica conseguita nel 1943. Il suo trasferimento a Roma nel 1946, al fianco del pittore Antonio Sanfilippo, suo futuro sposo, inaugurò una fase di fervente partecipazione al cuore pulsante dell’avanguardia artistica. Immersa negli incontri dell’Art Club e dello studio di Pietro Consagra, Accardi intessé dialoghi creativi con figure quali Ugo Attardi, Piero Dorazio, e altri, culminando nella firma del manifesto Forma 1 nel 1947, un atto fondativo per il movimento di rottura con l’arte tradizionale. La sua carriera si distinse per un’incessante ricerca espressiva che, negli anni ’50, virò verso un’astrazione semplificata nel segno e nel binomio cromatico bianco-nero, per poi riabbracciare il colore in un dialogo con la cultura metropolitana e giochi di effetti optical. La sperimentazione divenne il leitmotiv di Accardi, particolarmente nell’adozione di supporti plastici trasparenti che rivelavano la tela come una membrana luminosa, esplorando e sfidando i confini dell’arte dall’astrattismo all’informale, dalla pittura-ambiente all’arte femminista, fino alla gioia di vivere rinnovata nei suoi lavori degli anni ’80 e nei vasti dittici e trittici delle decadi successive. La celebrazione del centenario dalla nascita di Carla Accardi si concretizza in una mostra antologica di rilievo, allestita presso il Palaexpo e nell’ambito della città di Roma, la quale illumina il considerevole apporto dell’artista al contesto artistico. Questa retrospettiva, arricchita da circa 100 lavori che spaziano dal 1946 al 2014, propone un viaggio cronologico attraverso l’evoluzione artistica dell’ Accardi. Punti di intersezione strategici permettono di scoprire gli aspetti distintivi della sua ricerca, con un focus particolare sui momenti fondamentali della sua produzione. Un’esemplare ricostruzione della sua personale sala espositiva alla Biennale di Venezia del 1988 è stata resa possibile grazie a un accurato lavoro di documentazione fotografica. Tra i pezzi più significativi in mostra spicca la “Triplice Tenda” (1969-1971), proveniente dalle collezioni del Centre Pompidou di Parigi, testimoniando l’ampio riconoscimento internazionale del suo lavoro. Nel cuore dell’installazione, quest’opera di Carla Accardi si afferma come elemento pulsante, diffondendo nell’ambiente un’energia che interpella direttamente i visitatori, invitandoli a penetrare il cuore più intimo dell’esposizione. L’ispirazione dietro questa serie di lavori audaci e innovativi si può ricondurre a un momento di profonda riflessione scaturito da una visita al mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, un’esperienza che ha stimolato un dialogo significativo con la critica d’arte Carla Lonzi. Tale riflessione spinse l’artista a sfidare le convenzioni esistenti tra architettura e arti visive, dando vita alla sua celebre Tenda del 1965, un’opera che, con le sue tonalità di rosso e verde e la forma che ricorda un tempietto, segna l’inizio di un nuovo capitolo nel suo percorso creativo. Con un impegno meticoloso e personale, realizzò quest’opera e proseguì oltre, concependo l’Ambiente arancio. Quest’ultimo progetto smussa ulteriormente i confini tra arte e quotidiano, integrando elementi domestici quali un ombrello e un letto in un contesto che evoca un habitat, seppur immerso in una realtà sociale quasi onirica che riporta, forse inconsapevolmente, alla sperimentazione del Bauhaus. La sua intenzione non era quella di fornire un modello di vita replicabile, ma piuttosto di stimolare una riflessione su come poter vivere in maniera più genuina e spontanea. Da quel momento in poi, l’opera di Accardi si è distinta per una complessità e una cura nell’esecuzione che caratterizzano una progressione misurata e intenzionale dei segni. Tale evoluzione simboleggia il suo continuo desiderio di superare i limiti tradizionali dell’arte, impegnandosi in un’esplorazione costante che rinnova il linguaggio visivo. Carla Accardi si è posizionata in prima linea nel dibattito sull’intersezione tra gli spazi vissuti e l’esperienza estetica, affermandosi come una delle figure più innovative e influenti nel panorama artistico, capace di trasformare la visione dello spettatore sull’arte e sull’ambiente che lo circonda. L’esposizione si distingue per la sua eccezionale accessibilità, risultato di una meticolosa organizzazione curata dai curatori della mostra, che invita a un’esperienza di visita intuitiva e partecipativa. Un impianto di illuminazione attentamente concepito, che armonizza diffusione e focalizzazione, mette in risalto ogni opera esposta, svelandone l’essenza e permettendo di apprezzarne i dettagli più sfuggenti. Benché esista il pericolo di trasformare eventi di questo calibro in esclusivi ritrovi elitari, questa mostra emerge come tributo aperto e inclusivo, esente dall’essere un santuario inaccessibile agli iniziati. In tale scenario, si invita il visitatore a un coinvolgimento diretto, a instaurare un dialogo vivace con l’arte che trascende le convenzionali barriere di accesso e intellettuale, trasformando la visita in un’occasione di arricchimento culturale significativo e collettivo.

 

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Roma, Teatro Vascello:” Salveremo il mondo prima dell’alba”

Mer, 06/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
SALVEREMO IL MONDO PRIMA DELL’ALBA
Uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
Drammaturgia Gabriele Di Luca
Con Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Massimiliano Setti, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
Regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
Musiche originali Massimiliano Setti
Scenografia e luci Lucio Diana
Costumi Stefania Cempini
una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
In collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale
Roma,06 Marzo 2024
Nel loro ultimo lavoro scenico, “Salveremo il mondo prima dell’alba”, i registi  Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, componenti della talentuosa compagnia Carrozzeria Orfeo, operano una svolta tematica audace. Dopo un’esplorazione profonda nei meandri delle esistenze marginalizzate — gli ultimi, gli emarginati, coloro che la società ha relegato ai suoi confini più ombrosi — la loro nuova creazione scenica si avventura nei territori dell’opulenza e del successo esteriore. Quest’opera si configura come un’incursione critica nel microcosmo dell’élite, un’indagine sulle vite di coloro che abitano i vertici della piramide sociale: i primi, i trionfatori, l’aristocrazia contemporanea del capitale. Attraverso una scrittura scenica che intreccia sottilmente i fili del tragico e del comico, Di Luca, Setti e Tedeschi disvelano la paradossale prigionia dei loro protagonisti: esseri che, sebbene baciati dal successo materiale, si ritrovano incatenati in un vortice di responsabilità soffocanti, obblighi opprimenti e un’insoddisfazione esistenziale che si annida profondamente nelle loro coscienze. Sul palcoscenico si svela una verità inquietante: i tormenti dell’anima e le angosce profonde non risparmiano nessuno, nemmeno chi sembra avvolto in ogni lusso materiale. “Salveremo il mondo prima dell’alba” prende vita in un futuro non troppo lontano, all’interno di una clinica di riabilitazione esclusiva, posizionata su un satellite che orbita la Terra, simbolo supremo di un elitismo sfrenato. Qui, le anime in pena si confrontano con le catene delle dipendenze moderne — emotive, sessuali, lavorative, chimiche — in una lotta disperata per ritrovare la propria essenza smarrita. La trama tesse il racconto di una società avvolta in un velo di tristezza, malgrado l’onnipresenza di immagini di gioia illusoria diffusa sui social. Questa dicotomia culturale rivela un vuoto di autenticità e di impegni sociali significativi, spazzati via dall’unico credo imperante: la produttività incessante. Il testo mette in luce una realtà crudele, dove il fallimento è un tabù, il dolore un disonore da occultare, segno indelebile di fragilità e fallimento. In questo contesto, la “resilienza” diventa il grido di battaglia di un capitalismo senza volto, una virtù apparentemente eroica che, nella pratica, tradisce un’indifferenza brutale verso il dolore altrui. Questa nozione si trasfigura in un dogma cinico, un’esortazione a sopportare ogni avversità, rinnegando il proprio io più intimo, il proprio dolore, in nome di un imperativo assoluto: produrre senza sosta. Con un linguaggio drammaturgico affilato e una messinscena evocativa, lo spettacolo invita a una riflessione critica sulle dinamiche oppressive della nostra era, esponendo le contraddizioni e l’insostenibilità di un modello culturale che glorifica la disconnessione emotiva e il sacrificio dell’io in favore di un’illusoria forza interiore e autosufficienza. Questa opera si erge a manifesto contro la mercificazione dell’esistenza umana, sfidando lo spettatore a interrogarsi sulla vera natura della felicità e del successo in un mondo che sembra aver dimenticato il valore dell’autenticità e della condivisione emotiva. La narrazione si avvale di una scenografia innovativa e di soluzioni registiche avant-garde per immergere lo spettatore in un’esperienza teatrale totalizzante, che interpella direttamente le sue convinzioni e stimola una riflessione critica sul significato dell’esistenza in un’epoca dominata dal consumismo e dalla prestazione. Con questa pièce, Carrozzeria Orfeo non solo conferma il suo impegno verso un teatro che sia specchio delle contraddizioni del nostro tempo, ma eleva anche il discorso artistico a una nuova dimensione, dove l’esplorazione dei confini esterni della società serve a illuminare quelle zone d’ombra interne all’individuo, spesso nascoste dietro le facciate luccicanti del successo. In un palcoscenico vibrante di voci e presenze, emerge con prepotenza la magia interpretativa della compagnia di Modena, tessendo insieme una trama densa di interrogativi, effimere apparizioni di tematiche che spaziano dall’intelligenza artificiale alle sfide climatiche, dalle cicatrici lasciate dalle guerre alle ombre della violenza, dagli echi aspri degli haters all’aridità dell’analfabetismo emotivo. Questa varietà tematica, pur nella sua fugacità, non disperde la coesione dello spettacolo, ma anzi, ne sottolinea l’unità e l’intensità, in un affresco corale che cattura e riflette la complessità del nostro tempo. Gradualmente, lo spettatore viene introdotto a un mosaico di esistenze. Tra queste, spicca la coppia composta da Omar (interpretato da Sergio Romano), astuto imprenditore nel campo delle farine biologiche, fuggiasco da un passato familiare terrestre, e il suo dolce compagno Patrizio (Roberto Serpi), il quale nutre il desiderio profondo di adottare un bambino. La narrazione si arricchisce poi della figura di William (Ivan Zerbinati), un capitalista dall’indole malevola, dedicato giorno e notte alla fabbricazione di fake news senza il minimo scrupolo, e del suo domestico, Nat (Sebastiano Bronzato), un immigrato bengalese caratterizzato da un arto artificiale e una passione per l’etologia, elemento ricorrente nelle opere di Di Luca che spesso include personaggi dall’identità extracomunitaria. Completa il quadro Jasmine (Alice Giroldini), popstar in balia di una tempesta emotiva scatenata dal doppio tradimento del suo produttore-compagno e della madre, coinvolta sentimentalmente con quest’ultimo. Carrozzeria Orfeo dimostra ancora una volta la propria abilità nel costruire personaggi riccamente sfaccettati, ognuno portatore di un intimo universo di contraddizioni, debolezze e aspirazioni.  A guidare questa comunità disfunzionale nella ricerca di un possibile riscatto è un coach, impersonato con sottile autoironia da Massimiliano Setti, il quale, nonostante le evidenti difficoltà, mantiene un’infrangibile speranza nel potere trasformativo del cambiamento. La sua figura emerge come catalizzatore di un processo di introspezione e, forse, di guarigione, offrendo allo spettatore non solo momenti di riflessione ma anche di identificazione con i tormenti e le speranze dei personaggi. In questo scenario che sembra presagire un inesorabile declino, si scorgono però sprazzi di speranza. Questi sprazzi di luce invitano a credere nella possibilità di rinascita e rigenerazione, anche nelle condizioni più avverse. @photocreditManuelaGiusto

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Roma, Teatro dell’Opera di Roma: “Salome” dal 07 al 16 Marzo 2024

Mar, 05/03/2024 - 22:44

Roma, Teatro dell’Opera di Roma
SALOME

Musica di Richard Strauss
Opera in un atto
Dal dramma di Oscar Wilde
Prima rappresentazione assoluta: Hofoper, Dresda, 9 dicembre 1905
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi: 9 marzo 1908
Direttore Marc Albrecht
Erode John Daszak
Erodiade Katarina Dalayman
Salome Lise Lindstrom
Jochanaan Nicholas Brownlee
Narraboth Joel Prieto
Un paggio di Erodiade Karina Kherunts
Primo ebreo  Michael J. Scott
Secondo ebreo Christopher Lemmings
Terzo ebreo Marcello Nardis
Quarto ebreo Eduardo Niave*
Quinto ebreo / Secondo soldato Edwin Kaye
Primo Nazareno / Primo soldato Zachary Altman
Secondo Nazareno Nicola Straniero*
Un uomo di Cappadocia Alessandro Guerzoni / Daniele Massimi 10, 14 marzo
Uno schiavo Giuseppe Ruggiero
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
ORCHESTRA DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
ALLESTIMENTO OPER FRANKFURT
Qui per tutte le informazioni per le date ed i biglietti.

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