Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Bizet, L’amore ribelle”, 29 marzo-16 maggio 2025
“BIZET SEGRETO”
Pianoforte Roberto Prosseda
Georges Bizet: Nocturne n° 2; Charles Gounod: La Veneziana; Souvenance; Romances sans paroles (extraits); Georges Bizet: “Chants du Rhin”; Louise Farrenc Naples: “La Grand’mère”; Georges Bizet: “Variations chromatiques”
Venezia, 6 maggio 2025
Un “Bizet segreto” veniva rivelato nel corso di questo concerto, attraverso l’esecuzione di alcune sue pagine pianistiche ‘poco conosciute’ e dal carattere ‘intimo’, ‘introspettivo’, ‘notturno’: complice il pianismo sensibile e trascendentale di Roberto Prosseda che, oltre a Bizet, ha indagato due altri compositori francesi dell’Ottocento – Charles Gounod e Louies Farrenc –, i quali, come l’autore di Variations chromatiques, rivisitano il virtuosismo del pianoforte.
Intensamente espressivo quanto tecnicamente prestante si è dimostrato Prosseda, nell’affrontare i brani di Bizet. Nel Nocturne n° 2 – un pezzo cromatico, instabile dal punto di vista tonale, risalente a un periodo in cui l’autore aveva raggiunto una certa notorietà, grazie a Les Pêcheurs de perles (1863) – si è colto un sapore vagamente lisztiano. Gli Chants du Rhin – ispirati ai Lieder ohne Worte di Mendelssohn, pur collegati a dei versi di Joseph Méry – hanno di fatto rivelato la loro vicinanza all’estetica francese, oltre che a Chopin. Impeccabile il pianista di Latina nel caratterizzare ogni “Lied”: L’Aurore con il suo leggiadro tema danzante, Le Départ e Les Rêves dalla densa scrittura, il vigoroso La Bohémienne, l’intimo e commosso Les Confidences, il festoso e anelante Le Retour. Un esaltante saggio di virtuosismo ma anche di finezza interpretativa si è apprezzato nelle Variations chromatiques (1868), dove Bizet dà prova di rigore strutturale come di profondità artistica – esplorando le potenzialità della scrittura pianistica senza perdere di vista la bellezza dell’insieme –, di ricchezza armonica e audacia virtuosistica, pur trattandosi di un virtuosismo che sa essere anche introspettivo. Analoga, per molti versi, la sua lettura dei brani di Gounod e di Louise Farrenc. Quanto alle pagine firmate dall’autore di Faust, Prosseda ci ha conquistato affrontando il cromatismo che percorre La Veneziana (1874), una barcarola venata di tristezza – impossibile non pensare a Mendelssohn –, introdotta da alcuni arpeggi ‘affannati’, che formano un flusso continuo, narrativo e introspettivo al tempo stesso. Più serena l’atmosfera di Souvenance (Rimembranza), un notturno – di incerta datazione –, che illustra l’estetica intimista dell’autore, vario nei ritmi e nei toni emotivi, resi con sapienza di tocco. Appassionatamente felice l’aura evocata da Chanson de printemps (1849, trascritta per pianoforte solo nel 1866), appartenente alla raccolta “Romances sans paroles”, sostenuta da un moto perpetuo di semicrome, a ricordare il mormorio della natura che si ridesta. Intriso di mestizia, Ivy/Le Lierre – appartenente alla medesima raccolta –, la cui fluida melodia gira e rigira continuamente su se stessa. Il brano, che ha qualche affinità con una poesia di Dickens, fu scritto (intorno al 1872) da Gounod in una casa che era appartenuta al poeta inglese. Alquanto semplice il linguaggio dei due “Rondoletti” di Louise Farrenc: Naples – basato su una barcarola di Francesco Masini, compositore italiano contemporaneo dell’autrice – perentorio nell’esordio e poi danzante, in cui hanno cantato alternativamente le due mani dell’esecutore; e La Grand’mère, un pezzo analogamente deciso all’inizio e in seguito scanzonato, giocoso, brillante con rapide volatine cromatiche. Successo caloroso con reiterati applausi. Due fuoriprogramma: il Notturno n.1 op. 62 di Chopin e – doverosamente Venetianisches Gondellied (Il Lied della gondola veneziana) op. 30 n. 6 di Felix Mendelssohn.
Roma, Teatro Vascello
FELICISSIMA JURNATA
Finalista Forever Young – La Corte Ospitale 2022
Vincitore del premio Giuria Popolare – Dante Cappelletti 2021
drammaturgia e regia Emanuele D’Errico
con Antonella Morea e Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
scene Rosita Vallefuoco
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
luci Desideria Angeloni
costumi Rosario Martone
aiuto regia Clara Bocchino
realizzazione scene Mauro Rea
macchinista Michele Lubrano Lavadera
fonico Stefano Cammarota
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations (Valeria Bonacci, Giorgia Simonetta)
produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia
in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo
e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania
Felicissima jurnata cerca di cogliere l’essenza o, forse, l’assenza di vita reale che unisce sul filo della solitudine il basso napoletano e quel che ne resta di Giorni Felici di Beckett. Dal 2018 Putéca Celidònia vive attivamente il Rione Sanità di Napoli portando il teatro in mezzo ai vicoli bui ed abbandonati. “Ci è successo, dopo aver gradualmente preso confidenza, di entrare in alcuni bassi (la tipica abitazione al piano terra con ingresso su strada) e di trovare una situazione surreale. Così abbiamo deciso di iniziare un viaggio! Nello zaino abbiamo messo la macchina da presa, il quaderno degli appunti e le domande che il testo di Giorni Felici ci ha mosso, immergendoci nelle storie delle persone che ci hanno sorpreso, rapito e portato su di una strada imprevista. E tra un’intervista e l’altra abbiamo domandato loro chi fosse Beckett e nessuno lo aveva mai sentito nominare. Eppure ci sembravano così vicini, così familiari. Il testo è venuto da sé, lo hanno scritto loro: le storie di Assunta, Pasqualotto, Angela e di tutti gli altri sono così pregne da poterci scrivere romanzi per ognuno di loro. Questo testo è anche la storia di una donna di centonove anni C-E-N-T-O-N-O-V-E ANNI che ancora si trucca, che mette lo smalto e “sente” la gente intorno che suona e che canta. Di queste storie si compone Felicissima jurnata, che pone l’accento sulla paralisi emotiva e fisica che queste persone si impongono per mancanza di mezzi. Molti di loro non sono mai usciti dalla loro città – nel migliore dei casi – e nel peggiore non sono mai usciti dal proprio quartiere e chissà da quanto tempo dalla propria casa. Non è prigionia questa? È una prigionia consapevole o inconsapevole?” Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Argentina
RITORNO A CASA
di Harold Pinter
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio
e con Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Alessandro Saviozzi
foto Claudia Pajewski
produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
07 maggio 2025
«Sotto ogni superficie di normalità, nella famiglia, nella casa, nelle parole, serpeggia il morso nascosto dell’istinto.» Harold Pinter
Nel 1964, mentre l’Europa si illudeva di assistere a una nuova fioritura di civiltà e libertà, Harold Pinter, con The Homecoming, ne scopriva il rovescio oscuro. Con una scrittura che incide come una lama nella carne della quotidianità, Pinter raccontava il collasso silenzioso dei legami familiari, mettendo in scena non più la comunicazione tra uomini, ma il loro fallimento a comprendersi, a vivere, persino a esistere gli uni accanto agli altri. Le parole, nei suoi testi, non servono più a trasmettere messaggi: sono maschere, schermi, armi di sopraffazione, capaci di insinuare anziché chiarire. Massimo Popolizio raccoglie oggi quella sfida letteraria e teatrale con uno spettacolo di rara intelligenza registica e forza espressiva. Il suo Il ritorno a casa, in scena al Teatro Argentina, è un percorso spietato dentro la casa pinteriana, dove la ferocia e l’humour si intrecciano fino a diventare indistinguibili, in un gioco pericolosamente divertente che lascia lo spettatore senza appigli, senza vie di fuga. Il merito principale della regia di Popolizio è quello di assecondare e al tempo stesso potenziare la natura quasi cinematografica del testo: i dialoghi brevi, taglienti, si succedono come rapide inquadrature; le pause diventano montaggi interni, scandendo un ritmo interno che incalza senza mai esplodere. La scena, firmata da Maurizio Balò, è uno spazio chiuso, asfittico: un interno borghese consunto e squallido, dominato da pochi arredi stanchi, senza memoria né promessa di riscatto. Questo non-luogo, perfettamente neutro e claustrofobico, accoglie i personaggi come presenze residuali, vittime e carnefici di una stessa condizione esistenziale. In perfetta coerenza con questo disegno visivo, i costumi di Gianluca Sbicca vestono i corpi con abiti anonimi e scoloriti, parlando prima dei personaggi stessi del loro naufragio umano. Le luci di Luigi Biondi, cesellate con una sapienza quasi scultorea, disegnano traiettorie di isolamento, riquadri di solitudine, improvvise fenditure di crudezza che sembrano aprire abissi sotto i piedi degli attori. Il suono, curato da Alessandro Saviozzi, accompagna senza invadere: silenzi e vibrazioni appena percepibili sottolineano lo svuotamento emotivo e il vuoto pneumatico che regna sulla scena. La regia di Popolizio non rincorre l’effetto facile: non carica il grottesco né sottolinea il tragico. Al contrario, lascia che la crudezza emerga naturalmente dalle parole e dai gesti, orchestrando il tutto con un rigore che si fa cifra stilistica. Il ritmo dello spettacolo è sapientemente controllato: Popolizio dosa sapientemente immobilità e improvvisi scatti nervosi, modulando la tensione in un gioco di compressioni e rilasci che mantiene il pubblico in uno stato di allerta inquieta. Il cast, composto da Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale e lo stesso Popolizio, offre una prova corale di altissimo livello. La direzione attoriale è coerente e compatta: non vi sono picchi narcisistici o virtuosismi isolati, ma una coralità dolente e serrata, perfettamente aderente all’universo pinteriano. Gli attori plasmano i loro personaggi attraverso una recitazione asciutta, antipsicologica, affidandosi a mezzi toni, silenzi, posture che rivelano più dei dialoghi stessi. Il linguaggio scenico diventa così una trama di tensioni sotterranee, dove il non detto pesa più del detto, e ogni gesto minimo — un sorriso trattenuto, uno sguardo abbassato — si carica di un’ambiguità spaventosa. La capacità di Popolizio di far emergere la vena cinica e crudele dell’opera raggiunge qui il suo massimo compimento. Il riso che Il ritorno a casa suscita è un riso amaro, destabilizzante, un riso che costringe lo spettatore a interrogarsi su ciò che trova comico e su ciò che cela dietro quella comicità. Attraverso questa operazione, Popolizio restituisce in pieno la natura “pericolosamente” divertente della pièce: diverte scardinando, diverte demolendo certezze, diverte mettendo a nudo le ipocrisie su cui si reggono la famiglia, la società, la convivenza stessa. L’arrivo di Ruth nella casa, figura ambigua e catalizzatrice, non introduce una frattura violenta: agisce piuttosto come un acido silenzioso che scioglie definitivamente i già fragili equilibri familiari. Popolizio riesce a raccontare questa lenta corrosione senza mai ricorrere a forzature: tutto avviene sotto gli occhi dello spettatore con una naturalezza atroce, come se l’orrore fosse il destino inevitabile di quella convivenza, e non un incidente. In questo Il ritorno a casa, la famiglia si rivela come il primo e il più crudele teatro del potere. Le relazioni non sono fondate sull’affetto, ma sulla forza; la parola non è veicolo di amore, ma strumento di dominio; l’identità stessa dei personaggi si dissolve in una lotta continua per l’affermazione e la sopravvivenza. Alla fine, lo spettacolo di Popolizio non concede alcuna via di fuga né illusione di catarsi. Il pubblico esce da questo ritorno a casa con il peso di una verità scomoda: che dietro ogni normalità si cela una violenza muta, e che il vero orrore non è l’eccezione, ma il quotidiano. Con rigore intellettuale, lucidità registica e una straordinaria compattezza interpretativa, Massimo Popolizio firma uno spettacolo che non solo rende piena giustizia a Harold Pinter, ma riafferma, con forza rara, la funzione inquietante e necessaria del teatro.
Roma, Teatro dell’Opera
TOSCA
Dopo il grande successo delle precedenti repliche, il Teatro dell’Opera di Roma presenta il terzo appuntamento con Tosca di Giacomo Puccini, in un allestimento che è già entrato nella memoria visiva della stagione come un tributo fedele e appassionato al debutto storico dell’opera nel 1900. Nel cuore della città dove la vicenda si svolge e dove Puccini stesso vide il suo capolavoro prendere vita per la prima volta, Tosca torna sul palcoscenico del Costanzi nella sontuosa ricostruzione filologica dell’allestimento originario firmato da Adolf Hohenstein, uno dei maggiori illustratori e scenografi italiani del primo Novecento. Un’operazione raffinata che restituisce al pubblico non solo l’opera nella sua essenza musicale, ma anche lo stile e il gusto dell’epoca, con scene e costumi riprodotti con straordinaria cura da Carlo Savi e Anna Biagiotti. Sul podio, la direzione musicale è affidata a James Conlon, maestro di assoluto prestigio internazionale, che affronta la partitura pucciniana con rigore e passione, conducendo l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma in una lettura intensa, attenta al dettaglio drammatico e lirico, capace di restituire tutta la forza emotiva del melodramma. La regia è firmata da Alessandro Talevi, che accompagna lo spettatore all’interno della narrazione con mano sicura, lasciando che la teatralità arda sotto le superfici della fedeltà storica, senza mai ingabbiare la vitalità dei personaggi o la loro tragedia. Anna Pirozzi è una Tosca maestosa e sanguigna, eroina dell’istinto e della gelosia, ma anche figura dolente capace di commuovere e sorprendere. Accanto a lei, Luciano Ganci disegna un Cavaradossi appassionato, idealista e generoso, mentre Ariunbaatar Ganbaatar veste con impressionante autorevolezza i panni del barone Scarpia, incarnazione torbida del potere e del desiderio. Intorno a questo triangolo tragico, si muove un cast d’eccellenza: Luciano Leoni interpreta l’angelico Cesare Angelotti, Domenico Colaianni il pittoresco Sagrestano, Matteo Mezzaro lo spietato Spoletta, Marco Severin il fedele Sciarrone, e Carlo Alberto Gioja il carceriere. Il Coro del Teatro dell’Opera, diretto da Ciro Visco, e il Coro di Voci Bianche, preparato dal maestro Alberto De Sanctis, completano il quadro sonoro di un’opera che, ancora una volta, si dimostra capace di toccare le corde più profonde dello spettatore. Il disegno luci è curato da Vinicio Cheli, che scolpisce la scena con tagli d’ombra e bagliori dorati, esaltando la tensione drammatica e la poesia tragica che percorre ogni atto. Tornare a vedere Tosca oggi, in questa forma storica ma sorprendentemente viva, è come varcare una soglia temporale. È l’incontro con un tempo doppio: quello della Roma ottocentesca in cui si consuma il dramma, e quello del 1900, quando il mondo intero cominciava a conoscere la potenza della musica pucciniana. Il Teatro dell’Opera di Roma invita il pubblico a lasciarsi coinvolgere da questa esperienza immersiva, dove ogni elemento — dalla musica alla scena, dalla parola cantata al silenzio più teso — contribuisce a rendere Tosca non solo uno spettacolo, ma un evento culturale di profonda bellezza e memoria. Per ulteriori informazioni: www.operaroma.it
Roma, Teatro India
LA BANALITA’ DELL’AMORE
di Savyon Liebrecht
adattamento e regia Piero Maccarinelli
con Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giulio Pranno, Mersila Sokoli
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Javier Delle Monache
musiche Antonio Di Pofi
aiuto regia Emanuela Annecchino
assistente costumi Francesca Colica
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 06 maggio 2025
La scena non cerca indulgenza, né chiede pietà. In “La banalità dell’amore” , Piero Maccarinelli traduce in teatro una delle fratture più laceranti del Novecento: l’impossibilità di separare l’intelligenza dalla colpa, l’amore dalla vergogna. È in questa tensione irriducibile che si muove la scrittura di Savyon Liebrecht, ed è in questa tensione che lo spettacolo, andato in scena al Teatro India di Roma, trova la sua verità più scottante. Non la ricostruzione storica, non l’agiografia, ma il corpo vivo della memoria che si dibatte tra nostalgia, tradimento e solitudine. In un interno sobrio, dove il tempo pare sospeso, la vecchia Hannah Arendt, straordinariamente interpretata da Anita Bartolucci, lotta contro i fantasmi del passato. Siamo nel 1975, a New York, e la filosofa, convalescente dopo un infarto, cerca di mantenere un’apparente quiete. Ma l’arrivo di un giovane giornalista, che chiede un’intervista sul processo Eichmann, rompe ogni fragile equilibrio. La memoria esplode, irrompe la giovane Hannah, incarnata con energia da Federica Sandrini, e con lei il 1924, la Germania, la baita nella Foresta Nera dove il pensiero e il desiderio hanno radici comuni. Maccarinelli sceglie la via della sottrazione: una regia severa, priva di ogni enfasi, che lascia spazio al conflitto interno dei personaggi. La scena di Carlo De Marino taglia fisicamente il palco in due spazi paralleli: il presente e il passato, continuamente in collisione. I costumi di Zaira de Vincentiis e le luci chirurgiche di Gigi Saccomandi accompagnano questa frattura senza mai chiuderla, mentre le musiche discrete di Antonio Di Pofi suggeriscono il battito sommerso del ricordo. Sulla scena, il tempo si spezza e si rincorre. Non si procede per linee rette, ma per balzi, rotture, fenditure emotive. Hannah giovane e Hannah anziana si sfiorano, si parlano senza capirsi, senza salvarsi. La memoria non redime, semmai condanna. Il cuore dello spettacolo è la contraddizione irrimediabile che attraversa Hannah Arendt: la filosofa della “banalità del male” incapace di rinnegare il legame con Martin Heidegger, l’amante, il maestro, il pensatore che scelse di piegarsi al nazismo. Claudio Di Palma costruisce un Heidegger ambiguo e affascinante: non un carnefice, ma un uomo che ha tradito senza davvero capire. L’amore che lega i due è insieme sublimazione intellettuale e rovina inevitabile. La drammaturgia di Liebrecht evita la trappola del biopic: costruisce piuttosto una partitura frammentata, dove il teatro diventa macchina della memoria. Ogni scena, ogni gesto è una scheggia che ferisce. L’intervista che dovrebbe chiarire diventa invece un processo sommerso. Il giovane intervistatore, rivelatosi figlio di Raphael Mendelsohn, il compagno di studi perduto, incarna l’accusa mai sopita: non solo verso l’amore proibito, ma verso la stessa idea di fedeltà alla memoria. Anita Bartolucci regge con impressionante misura la complessità del personaggio: un corpo segnato dal tempo, una mente ancora affilata, una donna che ha amato senza mai potersi assolvere. Le sue esitazioni, i suoi scatti di orgoglio, la dolorosa ironia che affiora nei momenti più tesi disegnano una Hannah Arendt piena, viva, lontanissima dalle santificazioni. L’intero impianto registico si regge su un’idea chiara: il conflitto non si risolve, non si può risolvere. Il palco spaccato in due è la rappresentazione visiva di una frattura esistenziale. E anche quando, nei momenti di maggior tensione emotiva, le due Hannah sembrano avvicinarsi, il passato e il presente non si fondono mai davvero. Restano a guardarsi, divisi. Giulio Pranno e Mersila Sokoli offrono interpretazioni di grande sensibilità e profondità. Pranno, nel ruolo del giovane Michael Ben Shaked, porta in scena un personaggio complesso con notevole intensità emotiva. Sokoli, nei panni della giovane Arendt, restituisce con finezza la passione e le contraddizioni di una figura storica affascinante. Il lavoro di Maccarinelli evita ogni didascalia. Il nazismo, la Shoah, l’esilio sono presenze fantasmatiche, mai tematizzate apertamente, ma onnipresenti. Il vero centro è l’ambiguità: l’ambiguità della cultura, della lealtà, del sentimento. E il teatro diventa il luogo in cui questa ambiguità si espone, senza appello. Nel finale, lo spettacolo non concede pacificazioni. Quando la giovane Hannah si dissolve e la vecchia Arendt resta sola, a scrutare una finestra buia, resta solo la certezza che il pensiero, da solo, non può salvarci. Resta la ferita del desiderio che sopravvive alla storia. E resta il monito di Rainer Maria Rilke, che attraversa come un’eco sommessa tutta la pièce: “Il bello è solo l’inizio del tremendo.” La banalità dell’amore è uno spettacolo che non conforta e non consola. È teatro della memoria, ma di una memoria frantumata, dolente, incapace di chiudere le proprie ferite. È il racconto di un amore che non redime, di una storia che non insegna, di una ferita che non guarisce. E per questo, più necessario che mai.
Oper Frankfurt, Stagione 2024/25
“DER ROSENKAVALIER”
Commedia musicale in tre atti su libretto di Hugo von Hofmannstahl
Musica di Richard Strauss
Die Feldmarschallin MARIA BENGTSSON
Der Baron Ochs WILHELM SCHWINGHAMMER
Octavian IDA RÄNZLÖV
Herr von Faninal LIVIU HOLENDER
Sophie ELENA VILLALÒN
Jungfer Marianne Leitmetzerin MAGDALENA HINTERDOBLER
Valzacchi MICHAEL MCCOWN
Annina CLAUDIA MAHNKE
Ein Polizeikommissär BOŽIDAR SMILIANIĆ
Der Haushofmeister bei der Feldmarschallin/Ein Wirt ANDREW BIDLACK
Der Haushofmeister bei Faninal PETER MARSCH
Ein Notar FRANZ MAYER
Ein Sänger KUDAIBERGEN ABILDIN
Eine Modistin SMAGDALENA TOMCZUK
Ein Tierhandler DONÀT AVÀR
Ein Hausknecht HYEONJOON KWON
Mohammed GUILLERMO DE LA CHICA LÒPEZ
Drei adlige Waisen STEFANIE HEIDINGER, ENIKO BOROS, HIROMI MORI
Frankfurter Opern- und Museumsorchester
Chor der Oper Frankfurt
Direttore Thomas Guggeis
Maestro del Coro Alvaro Corral Matute
Regia Claus Guth ripresa da Antonia Bär, Dorothea Kirschbaum
Scene e costumi Christian Schmidt
Luci Olaf Winter
Drammaturgia Norbert Abels
Frankfurt, 4 maggio 2025
In attesa della nuova produzione del Parsifal che chiuderà la stagione, l’ Oper Frankfurt riprende l’allestimento del Rosenkavalier di Claus Guth andato in scena per la prima volta nel 2015. Il sessantunenne regista, che è nato a Frankfurt e ha allestito diversi spettacoli per il teatro della sua città natale, ha ambientato la vicenda in un luogo a metà fra un hotel di lusso e una casa di riposo per ricchi, dove la Marschallin vive rimpiangendo i tempi della sua giovinezza. Come sempre accade nelle produzioni di Guth, il racconto scenico è portato avanti con molto gusto e precisione tecnica, ma alla fine io ho avuto l’ impressione che il concetto scenico del regista fosse leggermente riduttivo e non mettesse in luce tutte le sfaccettature della drammaturgia. Facendo il paragone con la recente splendida produzione di Barrie Kosky alla Bayerische Staatsoper, mi sembra che Guth non sia riuscito a evidenziare pienamente tutta la varietà di aspetti psicologici contenuti nel testo di Hugo von Hofmannsthal musicato con tanta raffinatezza da Richard Strauss, che vanno dalla malinconia nostalgica di fronte al passato che si allontana sino allo smarrimento di una classe nobiliare di fronte all’ affermarsi dei nuovi ricchi. A livello di godimento estetico, la messinscena è anche abbastanza monotona da vedere anche a causa delle scene e dei costumi, entrambi ideati da Christian Schmidt. Pienamente apprezzabile invece era la recitazione che evitava i bozzettismi manierati da cui sono troppo spesso infestate le produzioni dell’ opera straussiana, e l’ idea di togliere alla vicenda tutta l’ ambientazione settecentesca è coerente con il carattere della musica. Del resto, se esiste un’ opera il cui il profumo di Jugendstil è percepibile al massimo, questa è proprio Der Rosenkavalier, tanto più se si riflette sul fatto che il valzer, su cui tante pagine della partitura straussiana sono costruite, all’ epoca di Maria Teresa non esisteva. Sintetizzando, a mio avviso non si tratta di uno fra i migliori spettacoli di Claus Guth, che nelle opere di Strauss ha ottenuto risultati artistici molto più significativi di questa produzione tutto sommato non completamente risolta. Di livello molto più elevato la parte musicale, soprattutto per merito della direzione di Thomas Guggeis. La condotta musicale impostata dal nuovo Generalmusikdirektor del teatro, che il prossimo anno compirà un altro step significativo nella sua carriera con il debutto sul podio dei Berliner Philharmoniker, si faceva apprezzare per la bellezza del suono realizzata da una Frankfurter Opern- und Museumsorchester in eccellente stato di forma, la narrazione fluida e scorrevole, il senso del racconto teatrale e la cura attentissima all’ equilibrio tra buca e palco che aiutava non poco un cast composto in gran parte di voci non strabordanti. Forse per il mio personalissimo gusto sarebbe stato opportuno un filo di abbandono in più negli episodi squisitamente lirici come il monologo della Marschallin e la scena con Oktavian che concludono il primo atto, ma senza dubbio sia il carattere di Wienerische Maskarad’ della vicenda che il complesso intreccio di sentimenti proposti dal testo di Hoffmannsthal sono stati resi in maniera eccellente dalla lettura del giovane maestro bavarese, che ha dato un’ altra dimostrazione del suo telento davvero fuori dal comune e mi ha ulteriormente aumentato la curiosità di sentirlo misurarsi col Parsifal, che andrà in scena fra un paio di settimane. Per quanto riguarda il cast vocale, la migliore prestazione è stata senza dubbio quella di Ida Ränzlov, giovane mezzosoprano svedese che da alcuni anni è membro stabile dell’ ensemble della Staatsoper Stuttgart, assolutamente convincente nella sua raffigurazione di un Oktavian impulsivo e sentimentale, cantato con una voce luminosa e en proiettata. Il soprano Maria Bengtsson, ospite regolare dell’ Oper Frankfurt e cantante di carriera internazionale, ha delineato un bel ritratto della Marschallin, raffigurata come una donna malinconica e rassegnata alla fine della sua relazione con Oktavian. interessante era anche la Sophie interpretata dal giovanissimo soprano cubano-americano Elena Villalón, per la freschezza del timbro vocale e il fraseggio molto appropriato nel raffigurare una ragazzina ingenua che scopre l’ amore per la prima volta. Il quarantottenne basso bavarese Wilhelm Schwinghammer, che con questa produzione faceva il suo esordio all’ Oper Frankfurt, ha delineato un ritratto scenicamente convincente del Barone Ochs, raffogurato come un uomo ancora giovane e vitale e non come il solito Alte Trottel da farsa. La voce però, oltre a non essere di qualità speciale, è anche abbastanza debole nelle note gravi e nel finale del secondo atto i RE sotto il rigo rischesti da Strauss suonavano piuttosto fiochi e sordi. Vocalmente e scenicamente impeccabili erano le caratterizzazioni di Magdalene Hinterdobler (Marianne), Liviu Holender (Faninal) e della coppia di trafficoni Valzacchi e Annina, raffigurati in modo incisivo e spiritoso da Michael McCown e Claudia Mahnke. Il tenore kazako Kudaibergen Abildin è sembrato molto a disagio nella tessitura vocale molto acuta dell’ aria del Cantante Italiano. Molto buona era anche la prestazione di tutte le rimanenti parti di fianco. Il pubblico ha seguito in maniera attenta e partecipe la vicenda di un’ opera che è fra le più amate dagli spettatori tedeschi e alla fine ha applaudito a lungo e con calore tutti i componenti del cast. Foto ©Barbara Aumüller
Roma, Palazzo delle Esposizioni
WORLD PRESS PHOTO 2025
Roma, 05 maggio 2025
Ogni anno, mentre il frastuono dell’attualità rincorre se stesso e la cronaca affonda nel rumore bianco della ripetizione, esiste ancora un luogo in cui l’immagine resiste. Non quella del marketing, del selfie, del filtro digitale. Ma l’immagine nuda, cruda, necessaria. È la fotografia del dolore, della sopravvivenza, della tenacia. Quella che non chiede di essere scattata, ma che si impone all’obbiettivo come testimonianza. A Roma, a Palazzo delle Esposizioni, torna la mostra World Press Photo, e con essa la consapevolezza – che talvolta urta e turba – che guardare non è un atto neutro, ma una responsabilità. Chi varca la soglia del palazzo, non entra in una galleria come le altre. Si entra piuttosto in un universo collassato. Ogni immagine è una faglia, un’apertura su un mondo che, seppure distante, ci appartiene. Non si tratta solo di guerra, di crisi, di clima. Si tratta, per dirla chiara, di umanità. Di quella che resiste tra le rovine e quella che cerca un varco tra le frontiere. È un reportage dell’anima, più che della cronaca. E ha il potere di scorticare l’indifferenza con l’arma più semplice e antica: uno sguardo. Quest’anno il premio principale va a uno scatto che non si dimentica. Non per la sua violenza, ma per il suo silenzio. Il volto di Mahmoud Ajjour, nove anni, seduto in un letto d’ospedale a Gaza, ci guarda. Due monconi al posto delle braccia, perse in un’esplosione mentre tentava la fuga con la famiglia. La fotografia è di Samar Abu Elouf. Palestinese, donna, fotogiornalista per il New York Times. Non un nome qualsiasi, non uno sguardo qualsiasi. È la rappresentazione plastica dell’insensatezza, sì, ma anche della volontà di sopravvivere. In quello sguardo c’è una domanda che nessun trattato di geopolitica potrà mai contenere: perché? Accanto a questa icona, si stagliano altre due finaliste. Due spettri di un presente altrettanto tragico e ugualmente reale. Night Crossing di John Moore ritrae un gruppo di migranti cinesi accovacciati attorno a un fuoco dopo aver attraversato il confine tra Messico e Stati Uniti. Lo scatto cattura l’umanità congelata, l’attesa tra una notte e un’altra, tra un’identità lasciata e una ancora non conquistata. Poi, Droughts in the Amazon di Musuk Nolte ci porta in Brasile, dove un ragazzo cammina sul letto prosciugato di un fiume per portare del cibo alla madre. Il clima non è più una previsione, ma una condanna. E la fotografia, qui, si fa prova: atto giudiziario contro la nostra stessa specie. Nel percorso della mostra, tra i 42 progetti selezionati da oltre 59.000 immagini inviate da quasi 4.000 fotografi di 141 Paesi, la voce dell’Italia c’è. E non è marginale. Cinzia Canneri, unica italiana premiata, porta in mostra un lungo progetto di documentazione delle donne eritree e etiopi in fuga da regimi e conflitti. Un lavoro che non cerca la retorica della denuncia, ma il dettaglio della vita. I capelli raccolti in fretta, i corpi contratti per il freddo e la paura. Dettagli che valgono più di mille editoriali. La selezione, articolata in sei aree geografiche, è passata per mani esperte, e il giudizio finale è stato affidato a una giuria globale indipendente. Nulla di improvvisato, nulla di ammiccante. Le fotografie in mostra non lusingano, non seducono. Esigono. Esigono tempo, silenzio, una postura interiore. E chi ha ancora la presunzione di ritenere la fotografia un’arte minore, farebbe bene a fermarsi qui più a lungo del previsto. Perché questa non è una mostra che si attraversa con leggerezza. È un campo minato di emozioni, un rosario laico di tragedie, un archivio del presente che nessuno vorrebbe leggere, ma che tutti devono conoscere. E proprio per questo, è una delle mostre più urgenti dell’anno. Non si tratta di estetica, ma di etica. Non si tratta di gusti, ma di coscienza. Nel disordine del mondo, mentre le notizie si consumano nella velocità dello scroll, questa esposizione ci ricorda che ogni scatto è una scelta. E ogni scelta comporta una responsabilità. I fotografi premiati dalla World Press Photo Foundation non cercano l’applauso, ma la verità. Quella che si affaccia in una finestra bombardata, in un volto scavato dal sole, in un abbraccio rubato al pericolo. E allora, uscendo da Palazzo delle Esposizioni, viene da pensare che forse non tutto è perduto. Che finché esisteranno occhi capaci di vedere, e mani capaci di fermare l’istante in uno scatto che ci costringe a pensare, il mondo avrà ancora una speranza. Piccola, fragile, ma vera. Come quella che si legge nello sguardo mutilato di Mahmoud. Un bambino senza braccia che ci tende, paradossalmente, le mani. Perché siamo noi, adesso, a dover fare qualcosa. Almeno guardare. Guardare davvero.
Opere di Alfredo Billetto – a cura di Francesco Longo e Simone Billetto.
Un vero peccato non averlo conosciuto, ma una fortuna aver conosciuto il figlio, Simone che ci ha permesso di poter esplorare gustare e conoscere le opere di Alfredo Billetto, un autore che mi rimanda ad una sorgente come la Bauhaus ma con più elastica dinamicità di rappresentazione di un suo pensiero attraverso il modo con cui componeva le immagini sia figurative che astratte ed in questa collezione di opere che ho scelto con Simone, prevale una linea molto varia che passa dalla grafica ai montaggi su carta e matericamente dal dipinto alla lavorazione concreta di oggetti in oro. Sia la linea che la materia appartengono ad una forma mentis indipendente ma contestualizzata a periodi in cui Alfredo Billetto è stato un valido surfista che con molta libertà è riuscito ad offrire un contributo alternativo con garbo ed eleganza a ciò che in trent’anni abbiamo potuto vedere nel mondo dell’arte non solo torinese. Libertà è la parola corretta per descrivere lui e le sue opere e in questa mostra chi e cosa meglio dei suoi lavori possa definirlo un artista libero (Francesco Longo).
Inaugurazione e vernissage : 07 maggio 2025 ore 18.00-21.00
La mostra sarà aperta al pubblico con i seguenti orari:
● 07 maggio 2025 al 25 maggio 2025
● dal martedì al venerdì 15.00 – 21.00 durante il weekend 16.00 – 21.00
Informazioni e Contatti
Musa Art Gallery/SpazioMusa – Via della Consolata 11E – Torino
Per ulteriori informazioni, contattare:
spaziomusa.torino@gmail.com
Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025 della Fondazione Teatro La Fenice
“DER PROTAGONIST”
Opera in un atto op. 15 Libretto di Georg Kaiser
Musica Kurt Weill
Protagonist MATTHIAS KOZIOROWSKI
Catherine, Schwester MARTINA WELSCHENBACH
Der junge Herr DEAN MURPHY
Der Hausmeister des Herzogs ALEXANDER GELLER
Der Wirt ZACHARY ALTMAN
John, 1. Schauspieler SZYMON CHOJNACKI
Richard, 2. Schauspieler MATTEO FERRARA
Henry, 3. Schauspieler FRANKO KLISOVIĆ
Musicisti in scena:
Flauti: Gianluca Campo, Fabrizio Mazzacua
Clarinetti: Giona Pasquetto, Nicolas Palombarini
Fagotti: Nicoló Biemmì, Fabio Grandesso
Trombe: Piergiuseppe Doldi, Giovanni Lucero
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Markus Stenz
Regia, scene, costumi e luci Ezio Toffolutti
Realizzazione luci Andrea Benetello
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 2 maggio 2025
Debutta a Venezia Der Protagonist, opera d’esordio di Kurt Weill, proposta dalla Fenice al Teatro Malibran in un nuovo allestimento, firmato da Ezio Toffolutti – quanto a regia, scene, costumi e luci – e da Markus Stenz per la direzione musicale. Nella Berlino degli anni Venti, culla del movimento espressionista, il venticinquenne musicista di Dessau – poco dopo la morte di Ferruccio Busoni, uno dei suoi maestri, avvenuta nel 1924 – attende alla composizione di Der Protagonist, reagendo all’intellettualismo delle avanguardie, che avevano ignorato il genere operistico, privilegiando la ‘musica assoluta’. A una riconciliazione tra quest’ultima e il versante musicale dell’opera puntava, invece, Weill, che intendeva rinnovare la tradizione del melodramma seguendo l’esempio di Berg, Debussy, Richard Strauss e soprattutto Stravinskij. In quel periodo Weill entrò in contatto con molti intellettuali legati ai circoli espressionisti. Nel 1924 conobbe il drammaturgo Georg Kaiser: il primo successo, nato dalla loro collaborazione, fu appunto l’opera Der Protagonist, rappresentata a Dresda nel 1926 (di lì a poco sarebbe cominciato il sodalizio con Brecht, destinato a segnare profondamente il teatro del Novecento). Musica e libretto riflettono l’atmosfera espressionistica che si respirava in quegli anni in Germania, e in particolare a Berlino. Nella finzione scenica una compagnia di attori sta provando uno spettacolo, in forma di pantomima, incentrato sul tema della gelosia, ma il gioco del teatro nel teatro finisce in tragedia quando il Protagonista-capocomico uccide per davvero Catherine, sua sorella, che ha la ‘colpa’ di amare un Giovane Signore. Come notò Adorno, Weill lascia poco spazio all’emotività, rifacendosi al carattere oggettivo, crudo e graffiante dell’espressionismo berlinese. Fanno eccezione due episodi, che vedono la Sorella come protagonista: la scena d’amore con il Giovane Signore e quella in cui la fanciulla dialoga con il Fratello appena prima della seconda pantomima. In essi l’orchestra intona dei motivi melodici, assenti invece nelle altre scene dell’opera, dove il canto è tutto declamazione sopra un’irregolare pulsazione dell’orchestra. A proposito di questo aspetto ritmico Adorno parlò di ‘motorismo’, chiamando in causa lo Stravinskij dei balletti degli anni Dieci. Ma stravinskiano è anche il colore timbrico delle pantomime, dove domina l’ottetto di fiati (I Musicisti del Duca). Venendo allo spettacolo, Ezio Toffolutti, profondamente legato alla cultura tedesca per aver studiato e insegnato in Germania, segue cum grano salis le indicazioni del raffinato libretto, al pari di quelle sottese alla musica, talmente ricca, che – afferma – è essa stessa a suggerire la regia. L’idea del ‘teatro nel teatro’ è tratta da Shakespeare, per questo nella prima scena dietro un sipario neutro si vede un’immagine tardo-ottocentesca del Bardo, trovata dal regista a Berlino. Ma i riferimenti all’Inghilterra elisabettiana si fermano qui, giacché l’ambientazione si rifà alla temperie culturale il cui l’opera è nata: la Germania del primo dopoguerra tra Avanguardie storiche ed Espressionismo. Punto di riferimento per la messinscena è stata anche la casa berlinese in cui Weill abitò con la moglie Lotte Lenya – la danzatrice conosciuta proprio tramite Kaiser – e dove compose Der Protagonist. Lo spostamento della vicenda negli inquieti, ‘nevrotici’ Anni Venti – quelli della Repubblica di Weimar – rende più credibile la schizofrenia del Protagonista, che confonde arte e vita. Quanto alla direzione, Markus Stenz – che può vantare una frequentazione piuttosto assidua del teatro musicale di Kurt Weill – ha messo in adeguata evidenza la tensione drammatica racchiusa nella musica, oltre alla sapiente scrittura per le voci, da lui guidate con amorevole cura. Nella sua lettura ha saputo valorizzare l’economia di mezzi con cui il compositore rende lo svolgersi della vicenda, nei suoi risvolti comici come in quelli tragici, fino al momento culminante – quando il Protagonista-persona reale e il Protagonista-attore si completano a vicenda –, sottolineato musicalmente dalla trionfante tonalità di re maggiore. Sotto la sua esperta bacchetta i due ridotti ensemble strumentali – I Musicisti del Duca e l’Orchestra – si sono fatti apprezzare per la qualità del suono, l’intensità espressiva, la capacità di fornire il giusto sostegno ai cantanti, tutti di eccellente livello. Il soprano Martina Welschenbach, nei panni della Sorella, si è dimostrata a suo agio nell’affrontare l’ardua tessitura della sua parte, risultando incisiva nel declamato drammatico, lirica negli episodi ‘melodici’, cui si è sopra accennato. Le ha pienamente corrisposto il tenore Mathias Koziorowski nel ruolo eponimo, da lui affrontato con vigore interpretativo e brillantezza timbrica. Validissimi anche gli altri componenti del Cast: Dean Murphy (Il Giovane Signore), Alexander Geller (Il Maggiordomo del Duca), Zachary Altman (L’Oste), oltre a Szymon Chojnacki, Matteo Ferrara e Franko Klisović (I Tre Attori). Caloroso successo per tutti.
Parigi, Museo del Louvre
“LOUVRE COUTURE: OBJETS D’ART, OBJETS DE MODE”
a cura di Olivier Gabet e Marie Brimicombe
Parigi, 03 maggio 2025
È un evento di portata storica l’ingresso della moda al Louvre. Invitando a passeggiare tra le sale del Dipartimento di Arti Decorative, la mostra Louvre Couture a cura di Olivier Gabet e Marie Brimicombe, aperta fino al 21 luglio 2025, propone un dialogo unico tra “oggetti d’arte” e “oggetti di moda”. Da Christian Dior a Marine Serre, si possono osservare un centinaio di abiti e accessori, presi in prestito da circa quarantacinque case di moda diverse e insinuati tra le collezioni permanenti del museo nell’ottica di una rilettura congiunta della storia dell’arte e della storia della moda. In realtà, i legami tra la moda e il Louvre erano già presenti. Già nel 2022 era stato infatti realizzato un omaggio a Yves Saint Laurent, e ancor prima nel 1981 nella Cour Carrée si era svolta la prima sfilata parigina di Yohji Yamamoto. Con l’attuale mostra si vuole rivalutare il ruolo delle maisons di moda come luoghi di conservazione del patrimonio culturale, ed in questo senso il Museo del Louvre offre nuove interessanti prospettive. Il suo Dipartimento di Arti Decorative condivide con la moda una storia comune di artigianato artistico fatto di know-how, di tradizioni, di eredità culturali che consacrano il ruolo di Parigi nella storia della moda. In 9.000 metri quadrati di spazio espositivo, si esplorano qui gli approcci più diversi, si esalta il fascino delle varie estetiche succedutesi nel tempo e si esamina la connessione tra la cultura popolare e la cultura più elevata. Le opere vengono adattate agli spazi, creando l’impressione di essere sempre state nel posto in cui le vediamo adesso. L’abito di apertura è a firma di Christian Dior, che nel 1949 lo intitolò per l’appunto “Musée du Louvre”. Si tratta di un vestito da sera corta in faille di seta ricamata della collezione haute couture primavera/estate. Numerose volte ricompariranno nella mostra gli abiti del grande stilista inventore del New Look nelle sale da noi percorse. Avremo infatti modo di osservare l’abito disegnato da John Galliano per la collezione haute couture autunno/inverno 2004-2005, che con il suo velluto cremisi ricamato evoca il mondo dell’Imperatrice Sissi, così come quello di Napoleone III. In un’altra sala, vedremo invece un abito disegnato da Maria Grazia Chiuri, la prima direttrice donna della Maison Dior nota per lo slogan “We should all be feminist”. Nato per la collezione haute couture autunno/inverno 2018-2019, questo lungo abito da sera con bustier e il mantello di seta ricamato reca in sé insolite assonanze con gli arazzi della fine del Medioevo presenti nel museo. Al centro della mostra, a richiamo del sontuoso regno di Luigi XIV, appare in tutto il suo sfarzo una silhouette in organza di seta immaginata da John Galliano per la collezione haute couture autunno/inverno 2006-2007. Una criniera da leone si estende come fiamma lungo la parte anteriore della gonna. Il tessuto drappeggiato dall’aspetto metallico si sposa con la stravaganza dell’armatura del braccio e dell’elmo che completa l’abito. Tra le creazioni delle altre maisons, si distingue il modello disegnato da Demna per Balenciaga, esposto nella grande sala da pranzo dei cosiddetti appartamenti di Napoleone III. Nell’assenza di crinolina, questa silhouette sorprende per la sua semplice solennità. Quasi ad apertura di mostra è inoltre un abito di Yohji Yamamoto, di cui è ben nota l’ossessione per il nero e per gli abiti storici occidentali. Lo stilista crea una silhouette complessa: l’armatura di metallo che dà forma alla gonna si intreccia in modo tale da lasciar intravedere un corpetto che crea un volume pronunciato dalla parte bassa della schiena fino alle caviglie. Caratterizzato da un gioco di curve e controcurve è anche l’abito di Iris Van Herpen ammirato quasi ad inizio mostra. Si tratta del modello Syntopia disegnato per la collezione haute couture autunno/inverno 2018-2019 prendendo spunto dalla cronofotografia, una tecnica sviluppata nell’ultimo quarto del XIX secolo, all’incrocio tra arte e scienza. Basandosi sullo scatto di immagini fotografiche a intervalli di tempo molto brevi, la cronofotografia consente di ottenere sequenze che scompongono il movimento. Il risultato è un abito dal volume stravagante, una sorta di uccello le cui ali creano un’architettura vaporosa finemente costruita grazie al taglio laser. Non manca Versace, con un vestito a fondo oro evocativo della produzione artistica sacra bizantina o con un completo provocante dalle foglie d’acanto stilizzate, in simbolico parallelo con l’arredo della camera da letto di Luigi XVIII al Palazzo delle Tuileries. Né manca Dolce & Gabbana, accostato ai motivi d’argento dorato dell’Ordine della Cavalleria dello Spirito Santo, fondato da Enrico VIII nel 1578. Di Chanel ammiriamo una giacca blu e bianca ricamata con motivi a rilievo, disegnata per la collezione haute couture primavera/estate 2019 da Karl Lagerfeld. Tra i nomi più recenti, riconosciamo l’unicità di Alexander McQueen con le sue stampe di anfibi, rettili, conchiglie e le scarpe dall’arco plantare vertiginoso. Jean-Charles de Castelbajac ci stupisce con un abito in stile Bambi. Infine, Silvia Venturini Fendi con i suoi motivi geometrici ripetuti ci riporta al mondo dei palazzi romani dell’antichità, al Rinascimento e all’epoca barocca. Foto Musée du Louvre – Nicolas Bousser
Der Herr ist mein getreuer Hirt BWV 112 è la terza, in ordine cronologico, delle Cantate bachiane predisposte per la seconda domenica dopo la Pasqua. Composta a Lipsia tra il 1729 e il 1731, questa partitura su testo di Wolfgang Meuslin (1497-1563) tratto dal Salmo 23, utilizza la melodia del Corale Allein Gott in der Höh sei Her che troviamo nei due brani esterni: il nr.1, un “mottetto fantasia” su Corale con interventi strumentali e contrappuntistici sulla melodia con alcune velate e molto parziali citazioni che troviamo anche nei numeri successivi. L’ambientazione del Coro iniziale, come della Cantata in genere, non poteva che essere a carattere Pastorale, lo confermano le coppie di corni e di oboi d’amore, ma soprattutto il particolare sapore agreste delle due arie, la prima delle quali (Nr.2) si giova del colore ambientale dell’oboe d’amore, mentre l’altra (Nr.4), un duetto, si muove con i caratteri di una “Bourrée”. Fra i due brani si inserisce (Nr.3) un toccante recitativo del Basso che sfocia in arioso, con il solo Continuo nella prima parte e poi, secondo la modalità di recitativo accompagnato-arioso ricco di simbolismi.
Nr.1 – Coro
Il Signore è il mio fedele pastore,
mi tiene sotto la sua protezione
dove non mi manca nulla
che sia un suo bene,
mi fa pascolare continuamente
là dove cresce l’erba deliziosa
della sua santa Parola.
Nr.2 – Aria (Contralto)
Mi conduce ad acque pure
che mi rinfrescano.
E’ il suo Santo Spirito
che mi rinfranca.
Mi guida sul giusto cammino
dei suoi comandamenti senza sosta
per amore del suo nome.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male,
né persecuzione, sofferenza, tristezza
e falsità di questo mondo,
perché tu sei sempre con me,
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno
sicurezza, confido nella tua parola.
Nr.4 – Aria/Duetto (Soprano,Tenore)
Per me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici
Rendi il mio cuore intrepido e forte,
cospargi il mio capo
con il tuo Spirito, l’olio della gioia,
e ricolmi la mia anima
della tua felicità spirituale.
Nr.5 – Corale
Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò per sempre
nella casa del Signore,
sulla terra con la comunità cristiana
e dopo la morte sarò
con Cristo, mio Signore.
Traduzione Emanuele Antonacci
Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“JEPHTHA”
Oratorio in tre atti HWV 70, su libretto di Thomas Morell, basato sul libro dei Giudici e su Jephthas, sive votum di George Buchanan
Musica di Georg Friedrich Haendel
Jephtha MICHAEL SPYRES
Storgè JOYCE DIDONATO
Iphis MELISSA PETIT
Zebul CODY QUATTLEBAUM
Hamor JASMIN WHITE
Un angelo ANNA PIROLI
Il Pomo d’Oro
Direttore Francesco Corti
Maestro del Coro Giuseppe Maletto
Esecuzione in forma di concerto
Madrid, 1. Maggio 2025
Per eseguire un oratorio di Haendel dalle proporzioni magniloquenti come Jephtha è necessario disporre non soltanto di un gruppo di cantanti vocalmente e tecnicamente impeccabili (la precisazione non è poi così ovvia), ma anche di validi interpreti di quel tipo specifico di drammaturgia che è l’azione oratoriale. Un’esecuzione in forma di concerto, inoltre, non può prescindere dall’importanza dei movimenti sulla scena e dalla gestualità; da ultimo, essa innalza le aspettative del pubblico in termini di espressività e trasmissione degli affetti, per scongiurare il pericolo dell’uniformità e della monotonia. Il Pomo d’Oro diretto da Francesco Corti, impegnato in una tournée europea con il titolo haendeliano, può affidarsi a un quintetto vocale eccellente, un diamante a due punte, che risponde ai nomi di Michael Spyres (il protagonista) e Joyce DiDonato (Storgè, sua sposa), supportati da diciassette coristi (un cui integrante, il tenore Giuseppe Maletto, fondatore della compagine, è anche il Maestro del Coro). Corti opta per un suono omogeneo, compatto e unitario, anche quando qualche strumento assolve la funzione di accompagnamento obbligato, per stabilire come una fascia di sonorità dagli estremi definiti, al cui interno si alterna un’impressionante ricchezza cromatica. Nei momenti vocali l’orchestra preferisce lasciare sempre in primo piano la voce cantante, ma questo non impedisce indimenticabili momenti di protagonismo strumentale (come i tremuli degli archi in alcuni numeri particolarmente concitati). La voce di Spyres si è fatta leggermente brunita, ma più che la bellezza del timbro risaltano l’emissione perfetta, le agilità sgranate e gli impressionanti fiati impiegati per esaurire le colorature. Nell’accompagnato del n. 15 («What mean these doubtful fancies the brain?»), poi, il declamato solenne e marziale si appoggia a una cavata enorme, con cui il tenore soggioga l’ascoltatore; al contrario, quando il padre si appresta a sacrificare la figlia, all’inizio del III atto, Spyres è capace di cantare un’intera aria a mezza voce, tutta sul fiato, per esorcizzare l’orrore dell’assassinio (n. 50, «Waft her, angels, through the skyes»: tanto commovente l’effetto, da strappare un applauso a parte). Anche Joyce DiDonato imposta la propria interpretazione su forti contrasti emotivi: se esordisce come espressione dell’amore coniugale elegiaco e remissivo, ma adombrato da presagi funesti (n. 18, «Scenes of horror, scenes of woe», da cui traspare lo spavento), è poi capace di reazioni violente, come si quando si oppone all’olocausto della figlia per mezzo di emissioni di petto e messe di voce incrinate dal dolore (n. 41, «Let other creatures die?»: sembra di riascoltare il piglio di tante eroine rossiniane, così familiari alla cantante). Molto buona anche la prestazione del soprano Melissa Petit (nella parte di Iphis, figlia di Iefte), soprattutto per il vibrato della linea di canto, anche se il timbro è più convenzionale e l’emissione corriva alle voci fisse. Suscita un applauso a parte l’espressività con cui accetta il proprio sacrificio nell’aria «Happy they! This vital breath» (n. 46). Non sempre solida nel registro inferiore la voce di Cody Quattlebaum, il basso che interpreta Zebul, fratello di Iefte. Il contralto Jasmin White rende un Hamor (l’innamorato di Iphis) assertivo e sicuro, brillante tanto nelle arie a solo quanto nei numeri d’insieme. Un altro soprano, Anna Piroli, esce dal coro per dare voce all’Angelo che impone di evitare il sacrificio umano. Magnifico il Coro del Pomo d’Oro, nella cui tessitura risaltano sovente alcuni timbri femminili. Se a ogni personaggio principale corrisponde un registro fondamentale (Jephtha è l’eroismo profetico; Iphis la grazia; Storgè l’amore elegiaco; Hamor la passione), il direttore fa in modo che in ogni numero della partitura l’orchestra esprima un “temperamento” peculiare. L’accorgimento risulta tanto più opportuno, per valorizzare le complesse dinamiche narrative di Jephtha, che parlano il linguaggio della tragedia greca (riproponendo il conflitto di Ifigenia in Aulide) e dell’opera seria europea (è in nuce la trama di Idomeneo re di Creta), giacché si tratta di attenuare il cruento sacrificio umano con la consacrazione al Signore. Grazie all’esperienza cristiana, la pagina dell’Antico Testamento si trasforma così in una pièce à sauvetage; una metamorfosi che si coglie perfettamente anche nella musica haendeliana, quando trascorre dall’aria individuale a duetto e poi a quintetto, per ampliarsi finalmente in un maestoso rendimento di grazie corale (nn. 66b-67), a gloria della pace che soppianta la spada. Nulla a che vedere con la spietata stringatezza della pagina originale del libro dei Giudici, nel punto in cui si conclude la vicenda: la figlia ritorna a casa e Iefte semplicemente «fecit ei sicut voverat», “si comportò con lei secondo il voto che aveva pronunciato” (11, 39). Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid
Le Bret (fl.1730-1740): Deuxième suite, Première suite, Gavotte (Anonyme d’après
le manuscrpit de P. Pingré). Simone Pierini (clavicembalo). Registrazione: 14-15 novembre 2022, Palazzo Annibaleschi, Monte Compatri, Italia. T. Time: 70′ 36″. 1 CD Brilliant Classics LC 09421
Sotto il nome Le Bret, contenuto in un manoscritto di Alexandre-Guy Pingré, abate dell’abazia di St Geneviève, il quale copiò molta musica clavicembalistica tra cui i Livres de Pièces de Clavecin di François Couperin, ci sono stati tramandate due suite di Pieèces de clavecin, che si trovano anche in un volume stampato, del quale si è perso il frontespizio con il nome dell’autore di cui non si hanno, inoltre, notizie biografiche. Si può presumere, comunque, in base alle caratteristiche stilistiche che questi lavori, nei quali è possibile ravvisare influenze dei brani di Rameau, i cui Cyclopes sembrano ispirare L’Embarassante della Prima suite, e Couperin, risalgano alla prima metà del Settecento. Le due piacevolissime Suite, che costituiscono il programma di questa proposta discografia dell’etichetta Brilliant Classics, presentano una scrittura tipica della musica clavicembalistica francese della prima metà del Settecento con ritmi e ricche ornamentazioni e sono molto ben eseguite da Simone Pierini il quale, per questa incisione, si è avvalso di una copia di un M. Mietke realizzata da Giulio Fratini nel 2014. L’artista si è accostato a questo repertorio con grande senso dello stile realizzando bene l’inégalité e ben marcando gli abbellimenti. Inoltre è possibile rilevare anche una certa varietà timbrica e di dinamiche grazie all’alternanza tra le due tastiere.
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“ATTILA”
Dramma lirico in un prologo e tre atti su libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave, dalla tragedia “Attila, König der Hunnen” di Zacharias Werner
Musica di Giuseppe Verdi
Attila, re degli Unni GIORGI MANOSHVILI
Ezio, generale romano ERNESTO PETTI
Odabella, figlia del signore d’Aquileja ANNA PIROZZI
Foresto, cavaliere aquilejese FRANCESCO MELI
Uldino, giovane bretone, schiavo d’Attila FRANCESCO DOMENICO DOTO
Leone, vecchio romano SEBASTIÀ SERRA
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Vincenzo Milletarì
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 27 aprile 2025
Attila, dramma lirico di Giuseppe Verdi, arriva al San Carlo e viene eseguito in forma di concerto. È «una delle opere di maggior successo del suo primo periodo» (Philip Gossett), e appartiene al cosiddetto periodo degli Anni di galera: una definizione coniata dal compositore medesimo e che viene adoperata in riferimento alla produzione operistica «giovanile», un periodo caratterizzato da una stressante e intensa attività lavorativa. Vincenzo Milletarì, alla testa dell’Orchestra del San Carlo, riesce a dominare la scrittura verdiana, evidenziando la funzione e la pregnanza drammatiche di ogni momento teatrale: dall’efficace energia della scena della tempesta, nel prologo, al suggestivo «episodio descrittivo dell’alba» (per dirla con Massimo Mila), che riesce stupendamente a culminare in un momento sonoro folgorante. La bellica fierezza dell’accompagnamento ritmico e la poetica delicatezza di momenti intimistici (come la Romanza Oh! nel fuggente nuvolo – affidata, nell’atto primo, al soprano) sono funzionali al soddisfacimento delle necessità drammaturgiche dell’opera – la cui natura drammatica riesce a farsi evidente fin dal Preludio, tetro e «doloroso». Occorre riconoscere a Milletarì il merito di aver eseguito anche i da capo delle Cabalette – la cui presenza, sia pure con delle variazioni, risulta drammaticamente essenziale. L’esecuzione in forma di concerto consente al coro – preparato da Fabrizio Cassi – di emergere teatralmente e di assumere un ruolo, anche «scenico», pressoché fondamentale, e ciò si avverte nell’energia fremente dei momenti vocali degli Unni, nelle religiose invocazioni degli eremiti e negli interventi di carattere patriottico del popolo. Nel ruolo di Attila, Giorgi Manoshvili. Profondità del colore vocale, sicurezza nel registro acuto, solidità di voce e sensibilità drammatica del fraseggio garantiscono al basso un appropriato atteggiamento vocale; ciò si avverte nell’Aria Mentre gonfiarsi l’anima, restituita con ricchezza di espressione, e nella travolgente Cabaletta Oltre quel limite, eseguita con gagliarda condotta teatrale (atto primo). Il ruolo conosce anche emozionanti momenti di contrizione emotiva, come Spiriti, fermate del finale primo No!… non è sogno, che consente al cantante di sfoggiare un’affettiva «cantabilità». Anna Pirozzi, nel ruolo di Odabella, conferma di essere un’ottima interprete verdiana. Con magnetica maturità, affronta i momenti di «veemenza» espressiva del ruolo, delineando così un personaggio drammatico, febbrilmente tormentato da un «santo di patria indefinito amor». Ciò accade nel prologo: un’emissione notevole consente alla cantante di affrontare drammaticamente l’impervia scrittura vocale della Cavatina Allor che i forti corrono. La determinazione del personaggio prosegue con la Cabaletta Da te questo or m’è concesso: un sentimento di nervosa e frenetica contentezza, per la spada ottenuta da Attila l’oppressore, rende appassionata la voce – sempre salda ed espressiva, anche nel registro grave. Interessante è anche l’esecuzione del da capo della Cabaletta – restituito attraverso una soffocata ferocia emotiva; un sentimento che si pone in netto contrasto con il carattere intimistico della raffinata Romanza dell’atto primo, Oh! nel fuggente nuvolo, dal soprano appropriatamente eseguita. Francesco Meli, nell’esecuzione del 27 aprile, ha sostituito Luciano Ganci. La bellezza del colore vocale, particolarissimo e inconfondibile, una sensibilità scenica di attore-cantante e l’aristocrazia del fraseggio consentono a Meli di cesellare, con perizia, ogni aspetto della personalità del suo personaggio, Foresto: il tenore rende teatralmente pregnante la parola verdiana, e ciò accade nei momenti di lirica soavità (nella Cavatina del prologo, Ella in poter del barbaro!, e nella Romanza dell’atto terzo Che non avrebbe il misero). Il cantante gestisce appropriatamente anche i momenti di furia emotiva (nel Duetto con Odabella, nell’atto primo: Sì, quell’io son, ravvisami) e di fervore patriottico (nella celebre Cabaletta Cara patria, già madre e reina, nel prologo). Ernesto Petti interpreta, invece, Ezio. Egli riesce a dare forma al variegato temperamento del generale romano, che prevede momenti di dignitoso «risentimento», come nella Scena iniziale dell’atto secondo Tregua è cogli Unni – successivamente risolto nell’Aria Dagli immortali vertici, opportunamente affrontata. Padronanza della tessitura acuta, ricchezza di fraseggio e avvenenza del colore vocale consentono al baritono anche di affrontare la celebre Cabaletta È gettata la mia sorte – la cui interpretazione avviene energicamente e, a volte, sfocia in marcate sfumature espressive. Completano il cast: l’ottimo Sebastià Serra, nel ruolo del maestoso Leone, vecchio romano – e Francesco Domenico Doto, nel ruolo di Uldino, giovane bretone, schiavo d’Attila. Il pubblico ha tributato calorosissimi applausi agli artisti, alla fine dell’esecuzione del dramma – preceduta da un commovente minuto di silenzio in memoria di Papa Francesco. Le foto, di Luciano Romano, riguardano l’esecuzione del 24 aprile 2025
Komische Oper Berlin, season 2024/2025
“DON GIOVANNI/REQUIEM”
Dramma giocoso in two acts
Libretto by Lorenzo Da Ponte
Music by Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni HUBERT ZAPIÓR
Leporello TOMMASO BAREA
Donna Anna ADELA ZAHARIA
Don Ottavio/Tenor AGUSTÍN GÓMEZ
Don Elviro BRUNO DE SÁ
Zerlina/Soprano PENNY SOFRONIADOU
Masetto PHILIPP MEIERHÖFER
Commendatore/Bass TIJL FAVEYTS
Young woman/Contralto VIRGINIE VERREZ
The soul of the Commendatore NORBERT STÖß
The soul of Don Giovanni FERNANDO SUELS MENDOZA
Chorsolisten & Orchester der Komischen Oper Berlin
Conductor James Gaffigan
Chorus master David Cavelius
Choreography Evgeny Kulagin
Director, stage and costumes Kirill Serebrennikov
Co-stage design Olga Pavlyuk
Co-costume design Tatiana Dolmatovskaya
Light Olaf Freese, Johannes Scherfling
Video Ilya Shagalov
Berlin, 27th April 2025
Admit that the unusual casting of Bruno de Sá as Don Elviro was the main reason why I went to see the new production of Don Giovanni by Wolfgang Amadeus Mozart at the Komische Oper Berlin. Musically, it was a successful evening whose length of almost four hours came close to Wagner. This was also due to the fact that James Gaffigan initially had the orchestra of the Komische Oper Berlin play somewhat broadly and brittlely. Later it became more dynamic, picking up speed so that the young singers could excel with their fresh voices. Hubert Zapiór as Don Giovanni and Tommaso Barea as Leporello look like brothers, so that the change of clothes in Act 2 is perfectly believable. At the same time, their baritone voices are different, Zapiór’s is brighter and softer, Barea’s more distinctive and darker, a charming contrast. Zapiór masters both the fast-paced Fin ch’han dal vino and the serenade Deh, vieni alla finestra, while the seductiveness of Là ci darem la mano does not materialise, presumably because the scene takes place between the intensive care patient Giovanni and the heavily pregnant nurse Zerlina. The young singer still has enough stamina for the tour de force of the finale. Barea is in no way inferior to him, does a great job with Madamina, il catalogo è questo, is extremely present in the ensembles and his attractive looks leave little doubt that he occasionally stands in for Don Giovanni in the affairs. Adela Zaharia is a glamorous Donna Anna; already experienced at the MET, she sings Or sai chi l’onore accordingly, but in Non mi dir at the latest, she is in top stylistic form. Her fiancé Don Ottavio, who is sung quite well by Agustín Gómez, remains in her shadow. Unfortunately, his original aria Il mio tesoro, one of the most beautiful that Mozart wrote, was cancelled. Instead, he is allowed to take on the tenor part in the movements of the Requiem that Mozart still had on paper. They replace the usual five-minute Giovanni finale, making the evening half an hour longer. The conductor justifies this with the shared sombre D minor sound world of the two works, which I think is a bit of a stretch. Penny Sofroniadou takes over the soprano part in the Requiem with her beautiful lyric soprano, after having sung a self-confident Zerlina, heavily pregnant in the first Act. Tijl Faveyts leaves a stronger impression in the bass solo than as Commendatore, which he sings dressed in a strangely Far Eastern way, while the actor Norbert Stöß plays him as his soul, reciting somewhat soullessly from the Tibetan Book of the Dead. Virginie Verrez sings the contralto solo in the Requiem rather inconspicuously, after she was allowed to mime a young woman in Giovanni. Philipp Meierhöfer as Masetto scores with Ho capito! Signor, sì in the first act. The Chorsolisten der Komischen Oper Berlin, rehearsed by David Cavelius, really come into their own in the Requiem, a beautifully homogeneous performance! As mentioned at the beginning: a world first, or should I say: welcome to our new world of diversity? A man, Don Elviro, sings Donna Elvira. Bruno de Sá is the first and only superstar in the newly invented field of the male soprano; after all, the Brazilian does not want to be confused with countertenors. His voice, trained and accustomed to baroque music, is childlike and delicate, almost fragile even for Mozart and may take some getting used to in the large auditorium. I had to completely forget the voices of my favourites Leontyne Price, Ilva Ligabue and Teresa Żylis-Gara, which I managed to do surprisingly well. It probably speaks in favour of Gaffigan’s skilful conducting, because de Sá would do well not to allow himself to be tempted to force: the timbre of the voice is too delicate and valuable! The conductor gives Mi tradì quell’alma ingrata the right tempo to show off de Sá’s voice to its best advantage after a cultivated entrance with Ah, chi mi dice mai and an attacking Ah, fuggi il traditor! The metamorphosis into Don Elviro is still the most successful trick of Kirill Serebrennikov’s production, interpreted as an expression of Don Giovanni’s polyamourous tendencies. What the hyped director, set and costume designer brings to the stage with the support of his large staff is actually three things: the theatre performance of a modern play, accompanied by Mozart’s Don Giovanni and a Pina Pausch-style ballet to the music of the Requiem. The director tells the story from behind, which is common nowadays: the overture accompanies a funeral in which the lovers of the dead Don Giovanni mourn at the coffin. The use of the Tibetan Book of the Dead (Bardo Thodol) to set the scenes of the play as a bardo between life and death is actually ingenious, but is garnished with a confetti shower of original and entertaining ideas that simply overwhelms the audience and invites them to put together their own individual interpretation. Today’s Regietheater, which began twenty years ago with provocative but stringently thought-out productions by Calixto Bieito at the Komische Oper Berlin (Die Entführung aus dem Serail, Madama Butterfly), has thus reached an absurd low point. The director knows his craft, but often wants too much, for example when he thinks that the audience might get bored listening to an aria and that there should therefore be a subplot on the other half of the stage. It becomes extremely ambiguous when a banner claims that the tenor aria Il mio tesoro has been cancelled due to the austerity measures of the Berlin cultural senate. What does a single aria cost compared to a lavish new production by an overrated director with a bloated staff of co-assistants? Photo Frol Podlesnyi
Roma, Teatro Argentina
RITORNO A CASA
di Harold Pinter
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio
e con Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Alessandro Saviozzi
foto Claudia Pajewski
produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Il capolavoro di Pinter del 1964 è un vero e proprio Gruppo di famiglia in un interno abbiamo il padre Max ex macellaio, frequentatore di ippodromi, suo fratello Sam, che guida un taxi non suo e vive a casa e Max non perde occasione per dargli del parassita. I figli: Lenny, un trentenne, un ex “pappa”, si vanta di avventure erotiche violente, probabilmente un mitomane, Joey il fratello ventiduenne vorrebbe essere pugile professionista, in realtà è il più fragile della famiglia, Teddy il maggiore e sua moglie Ruth arrivano di notte nell’appartamento, vivono negli Sati Uniti e in occasione di un viaggio in Europa Teddy ne approfitta per presentare la giovane moglie al padre, allo zio e ai fratelli. Ciò che accadrà ribalterà l’equilibrio già precario di quella famiglia. Il cinismo, la cattiveria, l’humor di Pinter si manifestano qui al massimo livello e Popolizio, grazie ad un testo che è quasi una sceneggiatura cinematografica, asseconda e incoraggia il cast in una performance che dà vita ad uno spettacolo “pericolosamente” divertente. Qui poer tutte le informazioni.
Roma, Teatro India
LA BANALITA’ DELL’AMORE
di Savyon Liebrecht
adattamento e regia Piero Maccarinelli
con Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giulio Pranno, Mersila Sokoli
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Javier Delle Monache
musiche Antonio Di Pofi
aiuto regia Emanuela Annecchino
assistente costumi Francesca Colica
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Piero Maccarinelli firma la regia dello spettacolo La banalità dell’amore di Savyon Liebrecht. “La protagonista di quest’opera – spiega in una sua nota – è Hannah Arendt, una delle più importanti figure del ‘900 europeo, nata in Germania e costretta ad emigrare a causa delle leggi razziali prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Nel suo appartamento di New York, Hannah riceve la visita di un giovane che le chiede un’intervista televisiva, presentandosi come un ricercatore dell’archivio della Shoah dell’Università di Gerusalemme. L’intervista le viene chiesta per darle la possibilità di chiarire molte delle sue opinioni in merito al processo Eichmann, ma, contro la sua volontà, le farà aprire molti cassetti della memoria, soprattutto quelli delle tappe del suo innamoramento per Martin Heidegger, uno dei più importanti filosofi del ‘900 dichiaratamente Nazionalsocialista. Ebrea tedesca, Hannah è stata perseguitata dal nazismo, eppure, fin da quando era una giovane studentessa, non ha mai smesso di subire il fascino di Heidegger che a un certo punto definirà “l’ultimo romantico tedesco”, per la sua capacità di pensiero. Ma anche altre vite e altri personaggi popolano la vicenda: il giovane ricercatore svelerà una identità diversa da quella con cui si è presentato, scoprendo altri legami che lo avvicinano alla Arendt. Sapientemente costruito su più piani temporali, il testo abbina lo svolgersi di un plot quasi giallo a riflessioni ulceranti sull’amore. Da un lato quindi la storia d’amore impossibile, irrazionale e drammatica fra Hannah ed Heidegger, dall’altro le ragioni della Storia, di chi, come Michael Ben Shacked, cerca le ragioni di una storia personale che si intreccia con la grande tragedia della Shoah”. Qui per tutte le informazioni.
ANTICO PRESENTE. VIAGGIO NEL SACRO VIVENTE
Autore: Alessandro Giuli
Editore: Baldini + Castoldi
Anno edizione: 2025
In commercio dal: 15 aprile 2025
Pagine: 240 p., Brossura
EAN: 9791254942499
Il sacro sotto le rovine
Nel suo “Antico Presente”, Alessandro Giuli intreccia mito, memoria e politica culturale per interrogare il tempo profondo dell’Italia e la sua vocazione spirituale dimenticata
«Abditae in visceribus terrae vestigia sunt, quae non pereunt, sed dormiunt.» (Le vestigia celate nelle viscere della terra non periscono, ma dormono)
Ci sono scritture che non si limitano a informare, ma interrogano. Non conducono semplicemente tra le pieghe del passato, ma lo convocano, lo costringono a parlare nella lingua d’oggi. Antico Presente. Viaggio nel sacro vivente, firmato da Alessandro Giuli, non aderisce alle forme consuete del saggio, né si presta a classificazioni agili. È piuttosto un’opera a latere, capace di oscillare tra meditazione civile, esplorazione simbolica e riflessione sulla continuità del sacro nel paesaggio culturale italiano. Non si tratta di una guida turistica né di un atlante del patrimonio, ma di un attraversamento spirituale dei luoghi e delle storie che hanno forgiato l’identità profonda dell’Italia antica. Il percorso tracciato da Giuli comincia dalle popolazioni italiche e si inoltra nel mondo etrusco e romano, fino a toccare i confini estremi del Mediterraneo. L’itinerario non si limita a Roma — qui rivisitata come un museo vivente, ma ancora capace di stupire con epifanie inattese — e si estende alla Maremma, alla Tuscia, all’Abruzzo, alla Puglia e oltre, verso terre lontane eppure da sempre intrecciate alla nostra memoria storica. Ogni tappa del cammino, ogni suggestione mitica o fondativa, diventa occasione per risvegliare ciò che è latente: la percezione che il tempo non sia lineare, ma ritmico; che il mito non sia favola, ma architettura mentale e spirituale. Il concetto di “sacro vivente”, che dà titolo all’opera, non si riferisce a un credo codificato né a un sistema teologico. È, semmai, la traccia di un ordine simbolico ancora percettibile sotto la crosta dell’attualità. Un ordine smarrito, ma non estinto. Giuli non si affida alla nostalgia, ma a un esercizio intellettuale: rendere di nuovo udibile ciò che la modernità ha coperto di rumore. Ne deriva una scrittura densa, non mediata, deliberatamente lontana dalla semplificazione. L’autore costruisce un idioma colto, a tratti ieratico, che rifiuta la fretta e richiede attenzione. Il testo si articola per ellissi, ritorni, intermittenze, e non segue un andamento documentario. Piuttosto, si configura come una liturgia personale, dove le leggende e le battaglie epiche, le apparizioni divine e i rituali perduti, si fondono in un’unica materia vibrante. La prosa è volutamente solenne, erede di un pensiero che non rinuncia alla verticalità e rifiuta la banalizzazione del sacro in chiave estetica o folklorica. La prefazione, affidata a Andrea Carandini — figura eminente dell’archeologia italiana — non è soltanto un sigillo di autorevolezza, ma una chiave di lettura essenziale. Carandini riconosce in questo volume un atto di continuità con quella linea di pensiero che considera il patrimonio come sistema vivente di valori e significati, non come insieme muto di reperti. Il sacro di cui si parla non è il culto, ma il fondamento: ciò che precede, ciò che fonda, ciò che ancora agisce. Naturalmente, chi legge con strumenti storici potrà avvertire qualche dissonanza: l’assenza di un apparato filologico, certe corrispondenze simboliche che sfiorano l’intuizione più che la verifica, il rischio — sempre latente — di cadere nell’idealizzazione. Tuttavia, sarebbe un errore giudicare l’opera con i parametri dell’erudizione accademica. Antico Presente non è un compendio, ma un atto critico: muove dal dato, ma tende all’invisibile. L’intento sotteso è chiaro: affermare che la civiltà — intesa come forma di coscienza — non può sopravvivere senza una tensione verticale. Senza il riconoscimento, anche implicito, di una dimensione ulteriore rispetto alla contingenza. In questa prospettiva, il patrimonio culturale non è un insieme di manufatti, ma un sistema di segni ancora operanti, che chiedono di essere riletti non con l’occhio del turista, ma con quello dell’iniziato. Nel panorama editoriale italiano, dominato da testi agili e accomodanti, Antico Presente si presenta come un oggetto volutamente dissonante. Non intrattiene, non consola, non informa: pone una questione. E in questo sta il suo valore più problematico. Giuli non chiede consenso, ma attenzione. Propone un linguaggio che non teme la solennità, e una visione che rifiuta la neutralità. Il lettore si trova così coinvolto in un confronto più che in una lettura: chiamato non ad aderire, ma a prendere posizione. Perché questo libro — che non è un’ode all’antico, ma un’esplorazione della sua persistenza simbolica — obbliga a riflettere su cosa significhi oggi appartenere a un orizzonte culturale che si crede sepolto e invece continua a parlarci. Non con le voci del passato, ma con quelle che abbiamo dimenticato di ascoltare.