Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione sinfonica 2024-25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Pietari Inkinen
Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.7 in do maggiore, op.60 “Leningrado”.
Torino, 6 febbraio 2025.
Šostakovič è forse l’ultimo musicista che ha saputo collegarsi, ricambiato, col suo pubblico. Il regime d’oltre cortina, che pur indottrinava pesantemente le masse, nel contempo, le acculturava a fondo. La preparazione musicale, sia tecnica che storica, che si faceva in Russia, non temeva confronti. La pratica degli strumenti e la frequentazione di sale da concerto e di teatri erano massicce ed estese a un pubblico di ogni età e di ogni condizione culturale e sociale. Nel 1942, anno di creazione della sinfonia, si vivevano in Russia e a Leningrado in particolare, tempi procellosi e disperati e se pur le autorità richiedevano agli autori di diffondere ottimismo, la “gente” voleva nella musica riconoscersi, sperare, piangere e gioire. La grande città baltica, l’odierna San Pietroburgo, resisteva da qualche mese all’assedio nazista che le puntava i cannoni e ne bloccava il porto, i confini e i rifornimenti. Derrate alimentari scarsissime, freddo e impossibilità di riscaldamento, bare fatte scivolare, come slitte, in cerca di una tomba sul ghiaccio delle Prospettive e dei canali. Il pubblico continuava comunque a frequentare la grande sala delle colonne del Conservatorio per ascoltare quanto uno di loro, il musicista Dmitri Šostakovič, gli raccontava dei tempi e di sé stessi. A tratti il racconto era duro e pesante, a tratti grottesco e anche violento. Forse non dissimili dovevano essere state le condizioni in cui aveva, a suo tempo, operato Beethoven: una Vienna che si divideva tra le deluse promesse napoleoniche e la poliziesca e repressiva prigione a cui la costringeva il corrente Congresso di teste coronate. Ma la città danubiana dei primi dell’800 ci è lontana e, tranne per le letture, assolutamente sconosciuta ed estranea. La carneficina di Leningrado l’abbiamo invece, seppur non vissuta, vista, nella sua spaventosa realtà, in foto, film e documentari. Le sinfonie di Šostakovič non si possono quindi ancora edulcorare, come è ormai consueto con quelle beethoveniane, per le quali si accettano esecuzioni calligrafiche ed estetizzanti. È comunque stato quest’ultimo, purtroppo, il percorso imboccato da Pietari Inkinen con la Leningrado che si è ascoltata nell’Auditorium RAI. I magnifici timbri dell’Orchestra Sinfonica Nazionale ne sono sortiti esaltati e brillanti, al massimo grado, come non mai. S’è mostrata prepotentemente la perizia di Šostakovič come gran orchestratore, degno allievo di Glazunov. Ma da questa prospettiva super accurata e senza scogli, stentano ad emergere e a farsi percepire le angosce, le paure e la fame che attanagliavano, in quei tempi terribili, pubblico e musicisti. Si è ripetuto molte volte, anche autorevolmente, che la progressione incalzante delle 12 variazioni dell’ “Allegretto”, non vuole significare la spaventosa immagine dell’avanzata delle truppe dalla croce uncinata in terra russa. Si tratta comunque di una musica che, in nessun caso, come purtroppo ha fatto Inkinen, può venire derubricata in una brillantissima parodia del bolero di Ravel. La mancanza di un’adeguata spinta emotiva, la troppa cautela che esclude scivoloni grotteschi, l’assenza di impertinenze foniche e di impacci ritmici costringono i due movimenti centrali ad un’eccessiva e sonnacchiosa pacatezza a cui la sola eccellenza dei solisti dell’orchestra riesce a conferire una residua spinta propulsiva. Il convenzionale Allegro non troppo, con cui l’autore chiude, con forzato e sfacciato ottimismo, la sinfonia, riceve, ed era inevitabile, viste le premesse, un’esaltazione fonica straordinaria. Non c’è assolutamente traccia del turbamento e del terrore che Šostakovič aveva a lungo provato per il KGB alla sua porta e per Ždanov sulla Pravda. Quindi si è trattato di un’esecuzione complessivamente distopica ad opera di una stellare Orchestra Sinfonica Nazionale RAI sotto la guida, seppur brillante, di un direttore apparentemente inconsapevole delle lacrime e del sangue di cui la musica sul suo leggio grondava. Non solo l’estetica, che da Šostakovič è sempre meticolosamente coltivata, ma anche l’etica e la storia debbono far parte integrante ed essenziale di quanto viene proposto all’ascolto. Pubblico scarso che, con gli applausi, ha dichiarato di aver apprezzato quanto gli era stato servito.
Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2025-2026
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti, Libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le Roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova IVÁN AYÓN-RIVAS
Rigoletto LUCA SALSI
Gilda MARIA GRAZIA SCHIAVO
Sparafucile MATTIA DENTI
Maddalena MARINA COMPARATO
Giovanna CARLOTTA VICHI
Il conte di Monterone GIANFRANCO MONTRESOR
Marullo ARMANDO GABBA
Matteo Borsa ROBERTO COVATTA
Il conte di Ceprano MATTEO FERRARA
La contessa di Ceprano ROSANNA LO GRECO
Un usciere di corte NICOLA NALESSO
Un paggio della duchessa SABRINA MAZZAMUTO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Daniele Callegari
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Light designer Alessandro Carletti
Video designer Roland Horvath
Nuovo allestimento Dutch National Opera, Amsterdam
Venezia, 7 febbraio 2025
Venezia, Teatro La Fenice. È di nuovo in cartellone, dopo circa tre anni, il Rigoletto nell’allestimento ideato dal vulcanico Damiano Michieletto per Dutch National Opera di Amsterdam, dove andò in scena nel maggio 2017. Ancora sul podio del teatro veneziano Daniele Callegari, nel ruolo eponimo Luca Salsi e in quello del duca Iván Ayón-Rivas. Un uomo ossessionato da un tremendo senso di colpa, che gli ha sconvolto la mente: tale appare, nella concezione di Michieletto, il personaggio del Buffone, che il regista veneziano ci presenta come un padre divenuto folle per aver causato inconsapevolmente la morte violenta dell’amatissima figlia, Gilda. All’interno di uno squallido stanzone d’ospedale psichiatrico, Rigoletto passa in rassegna, in un lungo flashback, le vicende cruciali della sua vita, culminanti appunto nell’assassinio di Gilda da parte di un Killer di professione: un’immane tragedia, di cui si sente responsabile e rispetto alla quale contrastano alcune proiezioni in bianco e nero, rievocanti l’infanzia della fanciulla, fin da allora anelante a liberarsi dalla clausura, a cui la costringe il genitore. Proprio questo suo desiderio di vita, ne farà la vittima predestinata di un dongiovanni incallito, qual è il Duca. Le apparizioni in palcoscenico di una sorta di “doppio” della sventurata giovane – che si cela sotto una maschera bianca, raffigurante il volto dell’incallito libertino, e porta con sé un velo nero: il suo futuro lenzuolo funebre – preannunciano simbolicamente la tragica fine che le è riservata. Michieletto, dunque, propone una lettura che rompe con la tradizione, sebbene ricorra a soluzioni già viste in altri spettacoli: la vicenda come il frutto dell’attività psichica del protagonista; il ricorso a risorse multimediali; l’eliminazione dal corpo di Rigoletto della proverbiale gobba, che appare invece, finta, sulla schiena di Monterone. Un espediente, che avvicina il Conte al Buffone: anche lui è un padre, che va dal Duca per difendere l’onore della figlia, venendo umiliato. Una buona intuizione di Michieletto, che nondimeno ci consegna uno spettacolo per certi versi non corrispondente alla ricchezza della concezione verdiana. Il fatto che l’azione si svolga su una scena fissa – uno stanzone d’ospedale con inquietanti squarci alle pareti, dove predomina il bianco – e che questo colore prevalga anche nei costumi dei personaggi e dei coristi – questi ultimi nascosti, come Gilda, sotto la maschera effigiante il Duca – stride, a nostro avviso, in molti casi con la ricchezza espressiva, con la raffinata varietà coloristica della scrittura verdiana. Dal punto di vista musicale l’opera ci rivela un Verdi ormai scaltrito e teso al rinnovamento del proprio linguaggio: un Verdi, che Daniele Callegari ci ha degnamente restituito, mettendo anche bene in risalto il ruolo fondamentale, che assume ormai l’orchestra, non più mero accompagnamento del canto. Ineccepibile l’affiatamento tra la buca e il palcoscenico; doveroso il ripristino del più genuino dettato dell’autore – in base all’edizione critica – eliminando certe, ormai anacronistiche, “varianti” di tradizione. Decisamente autorevole Luca Salsi, nel ruolo di Rigoletto, che ha sfoggiato un timbro scuro ed omogeneo, oltre a un fraseggio scolpito, nell’esprimere il dualismo psicologico del protagonista, capace di dimenticare la sua condizione di giullare di corte, per mutarsi in “altr’uomo”, in un padre affettuoso seppure ossessivo. Salsi ha convinto, soprattutto per la sua capacità di aderire alla “parola scenica” nelle arie come nel declamato drammatico, attraverso cui Verdi esprime il mondo interiore del protagonista. Assoluto dominatore sulla scena, ha saputo esprimere – col gesto, oltre che con la voce – le più diverse situazioni psicologiche che attraversa uno tra i più complessi eroi creati dal compositore. Ragguardevole in “Pari siamo” e poi in “Cortigiani”, sottolineando le diverse dimensioni psicologiche che si succedono nelle due celebri pagine. Gli ha pienamente corrisposto la Gilda delineata a tutto tondo da Maria Grazia Schiavo, che con voce limpida e omogenea ha saputo analogamente coniugare aspetti contrastanti del personaggio – l’ingenuità con la determinazione, fino all’estremo sacrificio – brillando nei duetti con il padre, così come nella celebre aria “Caro nome”, tra colorature e acuti emessi a mezza voce. Davvero encomiabile anche Iván Ayón-Rivas – almeno per noi, una vera e propria rivelazione – nel consegnarci un Duca di Mantova beffardo e appassionato, grazie ad una voce estesa e dal timbro nobilmente metallico, che faceva pensare a un Lauri Volpi: scanzonato libertino in “Questa o quella” e “La donna è mobile”; affettuosamente patetico in “Parmi veder le lagrime”; appassionato in “È il sol dell’anima”. Passando agli altri ruoli, forse un po’ troppo “leggero” timbricamente è apparso lo Sparafucile di Mattia Denti, che ha comunque efficacemente delineato un personaggio dai modi spregiudicati quanto insinuanti, aderendo alla tessitura abbastanza impervia del proprio ruolo come si è sentito nel duetto, insieme a Rigoletto, “Signor …/Va, non ho niente”. Credibile, tutt’altro che macchiettistica, è risultata Marina Comparato nei panni di una seducente Maddalena. Nobilmente tragico era il Monterone di Gianfranco Montresor. Bene si sono comportati anche Carlotta Vichi (Giovanna), Armando Gabba (Marullo), Roberto Covatta (Matteo Borsa), Matteo Ferrara (Il conte di Ceprano), Rosanna Lo Greco (La contessa di Ceprano), Nicola Nalesso (Un usciere di corte) e Sabrina Mazzamuto (Un paggio della duchessa), oltre al coro, istruito da Alfonso Caiani. fattosi come sempre apprezzare. Repliche fino al 28 febbraio.
L’ Andrea Chénier di Umberto Giordano è in scena domenica 9, mercoledì 12 e sabato 15 febbraio 2025.
Direzione di Donato Renzetti, regia di Pier Francesco Maestrini, scene e video di Nicolás Boni, costumi di Stefania Scaraggi, coreografia di Silvia Giordano, luci di Daniele Naldi.
Allestimento della Fondazione Teatro Comunale di Bologna e dell’Opéra Garnier de Monte-Carlo. Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS.
A comporre il cast: Fabio Sartori (Andrea Chénier), Amartuvshin Enkhbat / Stefano Meo (Carlo Gérard), Maria Josè Siri (Maddalena di Coigny), Cristina Melis (La mulatta Bersi), Siranush Khachatryan (La contessa di Coigny), Manuela Custer (Madelon), Nicolò Ceriani (Roucher), Matteo Peirone (Fléville), Marco Camastra (Fouquier Tinville), Luciano Roberti (Mathieu), Didier Pieri (Un incredibile), Gianluca Sorrentino (L’abate), Franco Rios Castro (Il maestro di casa), Angelo Parisi (Dumas), Andrea Porta (Schmidt).
Emilio Arrieta: “¡Pobre Granada!”, “La niña abandonada”, “La primavera”, “Serenata morisca”, La Sombra”, “La niña sola”, “La rimembranza”, “A te!”, “Il desiderio”, “A sera”, “In morte di una bambina”, “Il sospiro”; Alberto García Demestres: “Los cisnes en palacio”. Sabina Puértolas (soprano), Rubén Fernández Aguirre (pianoforte). Registrazione: Auditorio Manuel de Falla, Granada, 6-9 giugno 2022. 1 CD IBS Artist IBS722023.
E’ un doppio omaggio a Emilio Arrieta (1821–1894) quello qui proposto dal soprano Sabina Puértolas e dal pianista Rubén Fernández Aguirre. Un omaggio diretto rappresentato dalle dodici romanze per canto e pianoforte del compositore Navarro, sei su testi spagnoli e sei in italiani – tra gli autori di questi troviamo due volte anche Felice Romani – e indiretto con la cantata “Les cisnes en Palacio” del compositore contemporaneo catalano Alberto García Demestres dedicata allo stesso Arrieta.
Arrieta è stato forse il più popolare operista spagnolo della seconda metà del XIX secolo, autore non solo di zarzuelas ma anche di autentica opere liriche secondo modelli italiani e francesi quali “Marina” – forse il suo titolo più noto, “Ildegonda”, “La conquista di Granada” (le ultime due su libretto di Solera).
La formazione teatrale di Arrieta è palese anche nelle composizioni cameristiche. Lo stile vocale è quello dell’opera italiana, il modello verdiano e palese ma non mancano neppure influenze della generazione precedente, quella di Bellini e Donizetti – in tal senso non è casuale la scelta di Romani tra gli autori dei testi – unita a una raffinatezza di tocco francese. La scrittura pianistica è ancora più influenzata dai modelli francesi e nelle composizioni più tardi assume tratti liquidi quasi impressionisti.
I brani spagnoli tradiscono una sensibilità analoga, qualche concessione folklorica non manca – si sentano i melismi arabeggianti di gusto andaluso in “¡Pobre Granada!” e soprattutto nelle breve ma deliziosa “Serenata Morisca” – su testo di José Zorilla – ma appare sempre letta attraverso gli occhi di una scrittura colta e raffinata, che rilegge la tradizione spagnola con uno sguardo forse più francese che autoctono e che sfiora un certo esotismo salottiero molto parigino. Una visione in forse naturale per il navarro Arrieta che era nato e cresciuto in una terra a cavallo tra quei due mondi. E’ proprio in uno dei brani spagnoli – “La primavera” – che la scrittura pianistica di Arrieta raggiunge uno dei suoi picchi di liquidità.
I brani italiani possono sembrare al riguardo più convenzionali nell’esplicito richiama al una tradizione formale ben definita e tradiscono una concezione decisamente teatrale e operistica.
La seconda parte del programma è dedicata alla Cantata di Demestres. Si tratta di una composizione in sette movimenti – di fatto sette romanze strutturalmente fuse in un ciclo unitario – su testi di Antonio Carvajal. Protagonista è Isabella II di Borbone che di Arrieta era stata mecenate e amante. La vicenda del compositore è così rivista attraverso gli occhi della donna innamorata tra abbandono passionale e profonda delusione quando Arrieta nel 1868 aderirà ai moti rivoluzionari contro i Borbone, scrivendo anche un nuovo inno nazionale per la repubblica che Demestres cita direttamente prima dell’ultimo grido disperato di Isabella, tradita come donna e come regina.
La scrittura vocale è tradizionale. Demestres guarda all’opera italiana verdiana, con qualche squarcio melodico da giovane scuola, verrebbe da dire “pucciniano”, unita a una scrittura pianistica francesizzante in cui su un andamento molto tradizionale di nota qualche eco di Novecento storico più vicino alle esperienze francesi che al rigore serialista. Vocalmente la scrittura è impegnativa, la tessitura è ampia complessa e richiede un perfetto controllo tecnico di tutte le componenti fino a rapidi passaggi di coloratura. La Puértolas è semplicemente perfetta. La voce è ricca di armonici, robusta, bella come timbro e colore e la lunga frequentazione del repertorio barocco e classica le permette di superare con assoluto naturalezza i passaggi di bravura. Interprete sensibile e raffinata si dimostra perfettamente a suo agio nella ricca gamma di espressioni che Demestres chiede alla protagonista che passa dalla cupa rassegnazione a una gioia quasi infantile ed estatica – En Aranjuez los cisnes dan lección de pureza – fino al disperato grido finale – Abajo los Borbones oigo que gritas/ yo, que fui la Borbona de tus quereres.
La stessa raffinatezza interpretativa caratterizza le romanze di Arrieta, non così estreme vocalmente ma di certo più impegnative sul terreno vocale di quanto ci si aspetti da composizioni da camera. Nei brani italiani si nota una dizione coatruita e non così nitida come si vorrebbe. Fernández Aguirre accompagna splendidamente il canto. Un tocco raffinato e una perfetta sintonia espressiva con questo repertorio contribuiscono alla perfetta riuscita della registrazione.
Roma, Teatro Vascello
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO
Scritto e diretto da Eleonora Danco
con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana, Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli
Costumi Massimo Cantini Parrini
Assistente costumi Jessica Zambelli
Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini
Luci Eleonora Danco
Musiche scelte da Marco Tecce
aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti
regia Eleonora Danco
produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.
“Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila.” – Giordano Bruno
La scena si apre su una casa che è un acquario, uno spazio di convivenza forzata dove i personaggi si osservano e si sbranano a vicenda. Eleonora Danco, autrice, regista ed interprete , orchestra un dispositivo scenico che, nell’estetica del frammento, compone una sinfonia emotiva in due movimenti. Il primo atto, “Bocconi Amari“, parla di una famiglia che si ritrova per un pranzo. Come accade in molte famiglie, quando sono in casa regrediscono a comportamenti infantili: si picchiano, si aggrediscono, i fratelli sono in competizione. Il testo si agita di tensioni domestiche, battute affilate come coltelli che incidono la memoria, rivelando cicatrici e ferite ancora fresche. La tavola diventa un’arena, il cibo un pretesto per riaprire vecchie ferite, e ogni battuta si trasforma in un dardo avvelenato che colpisce nel profondo. Il secondo atto, “Semifreddo“, i personaggi invecchiano perdendo intonaco come un muro che si sgretola, simbolo della vecchiaia come progressivo sbriciolarsi. Il secondo atto si muove su un doppio binario temporale, un’eco che ritorna in un gioco di luci e dissolvenze, tra passato e presente, tra la farsa e il dramma. La giovinezza viene evocata attraverso gesti e frammenti di dialogo che si sovrappongono alla condizione attuale dei protagonisti, evidenziando il contrasto tra la vitalità del passato e la decadenza del presente. Eleonora Danco porta in scena un teatro profondamente personale e sperimentale, in cui è al contempo interprete, autrice e regista. Il suo linguaggio scenico fonde teatro di ricerca, fisicità esasperata e suggestioni cinematografiche, dando vita a un’esperienza che oscilla tra il grottesco e il lirico. Il corpo è il fulcro della narrazione: gli attori non si limitano a recitare, ma abitano la scena in uno stato di tensione continua, i loro movimenti sono acrobatici, spezzati, quasi disarticolati, restituendo un senso di disagio esistenziale e di conflitto con la realtà circostante. Gli interpreti, in particolare la stessa Eleonora Danco e Orietta Notari, restituiscono con una potenza rara la trasformazione della materia umana nel tempo, in bilico tra giovinezza ed esaurimento, tra energia e disincanto. Federico Majorana e Beatrice Bartoni sostengono con rigore il contrappunto emotivo, mentre Lorenzo Ciambrelli porta in scena una fragilità che sa farsi detonazione. Il linguaggio si muove tra un realismo crudo e una dimensione poetica, in cui il parlato diventa ritmo sincopato, quasi musicale, scandito da ripetizioni ossessive e sprazzi di feroce ironia. La scenografia di Francesca Pupilli e Mario Antonini è minimale e simbolica: pochi elementi evocano stati d’animo e dinamiche familiari irrisolte, trasformando lo spazio in un territorio di battaglia psicologica. L’assenza di strutture complesse e stratificate diventa allora un elemento drammaturgico: il vuoto della stanza rispecchia il vuoto interiore dei protagonisti, mentre l’ombra dei ricordi si proietta sulle pareti nude. La direzione registica mescola elementi teatrali e cinematografici, con flash, dissolvenze e scene che sembrano quadri in movimento, amplificando il senso di straniamento e di sovrapposizione tra i piani temporali. Il montaggio scenico è frammentato, onirico, spezzato da momenti di pura fisicità che esplodono in contrasti violenti e commoventi: il corpo si fa verbo, il suono diventa immagine, il tempo non è lineare ma si sovrappone e stratifica e costruisce un’architettura di relazioni che si sfaldano e si riformano, trasformando il dramma familiare in una partitura universale, dove il gesto e la parola si rincorrono in un flusso ininterrotto. C’è un che di beckettiano nel disfacimento dell’identità e nel senso di ineluttabilità che avvolge i protagonisti. Ma c’è anche una visceralità tutta italiana, un realismo visionario che trova nella danza teatrale della Eleonora Danco la sua più alta espressione. L’ultimo quadro è un vortice emotivo in cui i personaggi, ormai privi di difese, si mostrano nella loro nuda vulnerabilità. Le voci si sovrappongono in un crescendo di tensione e disperazione, finché la scena si spegne su un’ultima, lacerante immagine: un padre che, come un Re Lear moderno, rimane solo con il suo trono di assenze. Quando le luci si riaccendono in sala, il pubblico rimane sospeso per un istante. Poi esplode l’applauso, lungo, incessante, carico di un’energia quasi catartica. Qualcuno si alza in piedi, altri restano fermi, scossi dalla violenza emotiva della pièce. Un teatro che travolge, scuote, e alla fine lascia il pubblico in bilico tra catarsi e vertigine.
Roma, Teatro dell’Opera
LUCREZIA BORGIA
Il Teatro dell’Opera di Roma inaugura il mese di febbraio con un nuovo allestimento di Lucrezia Borgia, capolavoro donizettiano che coniuga dramma e bellezza musicale in una delle opere più intense e appassionanti del repertorio belcantistico. Tratta dall’omonima tragedia di Victor Hugo, questa produzione si avvale della direzione musicale di Roberto Abbado e della regia di Valentina Carrasco, che promette di esplorare con sensibilità e innovazione le sfumature tragiche e psicologiche dell’enigmatica protagonista. L’iconica figura di Lucrezia Borgia, tra potere e destino, sarà interpretata dalle soprano Lidia Fridman e Angela Meade, due voci di caratura internazionale capaci di rendere appieno la complessità di un personaggio diviso tra il suo passato di donna di potere e il suo amore materno per Gennaro, affidato alle voci di Enea Scala e Michele Angelini. Accanto a loro, il ruolo del duca Alfonso I d’Este sarà interpretato da Alex Esposito e Carlo Lepore, mentre Maffio Orsini, fedele compagno di Gennaro, vedrà alternarsi Daniela Mack e Teresa Iervolino. Un cast di grande spessore che include anche Raffaele Feo nel ruolo di Jeppo Liverotto, Arturo Espinosa come Don Apostolo Gazella, Alessio Verna nei panni di Ascanio Petrucci, Eduardo Niave in quelli di Oloferno Vitellozzo, Roberto Accurso come Gubetta, Enrico Casari nel ruolo di Rustighello, Rocco Cavalluzzi come Astolfo e Giuseppe Ruggiero e Michael Alfonsi come usciere. La regia di Valentina Carrasco, nota per la sua capacità di rileggere con originalità le grandi opere del repertorio, offrirà una visione contemporanea di Lucrezia Borgia, mettendo in luce la dimensione politica e psicologica della protagonista. L’impianto scenografico di Carles Berga e i costumi di Silvia Aymonino contribuiranno a costruire un’ambientazione affascinante, esaltata dalle luci di Marco Filibeck. Il tutto sarà sostenuto dalla maestria dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato dal Maestro Ciro Visco. Composta nel 1833, Lucrezia Borgia è una delle opere più affascinanti di Gaetano Donizetti, con una partitura che alterna momenti di lirismo struggente a pagine di grande virtuosismo vocale. Il dramma della protagonista, segnata da un passato di intrighi e vendette, si snoda in un crescendo di tensione emotiva, fino a culminare in un epilogo di rara intensità. Un capolavoro che continua ad affascinare il pubblico per la sua straordinaria forza teatrale e musicale. Le recite si terranno il 18, 19, 20, 21, 22 e 23 febbraio 2025 presso il Teatro dell’Opera di Roma. Per informazioni e biglietti, è possibile visitare il sito www.operaroma.it o contattare il teatro ai seguenti recapiti: info@operaroma.it, +39 06 481601. Per la stampa, l’Ufficio Stampa del Teatro dell’Opera di Roma è disponibile all’indirizzo press@operaroma.it o al numero +39 06 48160211.
Napoli, Teatro di San Carlo
ROMEO ET JULIETTE
di Charles Gounod
Il Teatro di San Carlo si prepara ad accogliere uno degli appuntamenti operistici più attesi della stagione: Roméo et Juliette, capolavoro lirico di Charles Gounod, in scena nella sua incantevole cornice partenopea. Un’opera intensa, avvolgente, che sublima il dramma shakespeariano in una partitura vibrante di lirismo e passione, interpretata da un cast di livello internazionale. Sotto la direzione del maestro Sesto Quatrini, al suo debutto sul prestigioso podio del San Carlo, e con la regia raffinata di Giorgia Guerra, questa produzione si annuncia come un trionfo visivo e musicale. A dare vita agli amanti di Verona saranno due voci d’eccezione: il soprano Nadine Sierra nel ruolo di Juliette e il tenore Javier Camarena nei panni di Roméo, entrambi acclamati per la loro straordinaria sensibilità interpretativa e il virtuosismo vocale. Ad arricchire il cast, un ensemble di artisti di primo piano: Gianluca Buratto sarà Frère Laurent, Alessio Arduini interpreterà Mercutio, Caterina Piva sarà Stéphano, mentre Mark Kurmanbayev debutterà al San Carlo nel ruolo di Capulet. Nei panni del feroce Tybalt si esibirà Marco Ciaponi, mentre Annunziata Vestri darà voce a Gertrude. Il Duca di Verona sarà interpretato da Yunho Kim, e completano il cast Antimo Dell’Omo (Pâris), Sun Tianxuefei (Benvolio) e Maurizio Bove (Gregorio). Le scene evocative, firmate da Federica Parolini, trasporteranno il pubblico in una Verona sospesa tra sogno e tragedia, arricchite dai sontuosi costumi di Lorena Marín e da un raffinato disegno luci curato da Fiammetta Baldiserri. Fondamentale anche l’apporto innovativo dei video di Imaginarium Studio, che contribuiranno a immergere gli spettatori in una narrazione dinamica e coinvolgente. L’opera, che rappresenta uno dei vertici del repertorio lirico francese, viene presentata in una produzione di ABAO Bilbao Opera e Ópera de Oviedo, garanzia di qualità artistica e di un allestimento di grande suggestione. Il Coro e l’Orchestra del Teatro di San Carlo, diretti dal maestro del coro Fabrizio Cassi, daranno ulteriore profondità e maestosità a questa edizione. Un evento imperdibile, capace di unire tradizione e innovazione, portando in scena il più grande amore della letteratura con l’energia e l’eleganza della grande opera. Il Teatro di San Carlo si conferma ancora una volta culla dell’arte e palcoscenico d’eccellenza per le grandi produzioni internazionali. Per ulteriori informazioni, biglietti e prenotazioni, si invita il pubblico a visitare il sito ufficiale del Teatro di San Carlo o a contattare la biglietteria.
Milano, Teatro alla Scala
DIE WALKURE
Riprende alla Scala la Tetralogia wagneriana iniziato lo scorso novembre con “Das Rheingold”. Dal 5 al 23 febbraio va in scena la prima giornata del ciclo “Die Walküre” l’opera che nella mitopoietica wagneriana segna la scoperta meravigliosa e terribile dell’umanità dopo il mondo divino del prologo. Il più passionale e diretto tra i titoli della Tetralogia – e forse il più amato almeno dal pubblico italiano – vedrà alternarsi sul podio Simone Young (5, 9 e 12 febbraio) e Alexander Soddy (15, 20 e 23 febbraio), una staffetta che è ormai diventata una delle cifre caratterizzanti questo Ring dopo la rinuncia di Christian Thielemann. La regia è affidata – per tutto il ciclo – allo scozzese David McVicar affiancato da Hanna Postlethwaite (scene) e Emma Kingsbury (costumi) in una produzione nel segno del fantastico che reinterpreta le iconografie della tradizione wagneriana alla luce della moderna cultura fantasy. Il cast è composto da specialisti assoluti di questo repertorio. Tra gli interpreti del prologo ritroviamo la coppia divina composta dal Wotan di Michael Volle e dalla Fricka di Okka von der Damerau. Il personaggi umani saranno interpretati da Klaus Florian Vogt (Siegmund), Elza van den Heever (Sieglinde) e Günther Groissböck (Hunding). Il gruppo delle Valchirie è capitanato da Camilla Nylund (Brünnhilde) affiancata da Olga Bezsmertna (già apprezzata Freja in “Das Reinhgold”), Caroline Wenborne, Kathleen O’Mara, Stephanie Houtzeel, Eva Vogel, Virginie Verrez, Eglė Wyss e Freya Apffelstaedt. Le recite inizieranno alle ore 18:00 (le domenicali del 9 e 23 febbraio alle ore 14:30) con una durata prevista di 4 ore e 42 minuti circa inclusi intervalli. Un’ora prima dell’inizio di ogni recita, presso il Ridotto dei Palchi “A. Toscanini”, si terrà una conferenza introduttiva all’opera tenuta da Liana Püschel. Il ciclo proseguirà con “Siegfried” a giugno 2025 e “Götterdämmerung” a febbraio 2026. A inizio marzo 2026, in occasione dei 150 anni dalla prima esecuzione del 1876, la Tetralogia sarà ripresa per due cicli interi, ciascuno racchiuso nell’arco di una settimana, così come desiderava il suo autore Richard Wagner. La rappresentazione del 12 febbraio sarà trasmessa in live streaming sulla piattaforma LaScalaTv a partire dalle 17:45. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Chiesa di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni
GRANDE APERTURA INAUGURALE
Un nuovo capitolo si è aperto per la chiesa di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni, autentico gioiello del barocco romano, che ha riacquistato il suo splendore grazie a un attento intervento di restauro. L’inaugurazione ufficiale ha visto la partecipazione dell’Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, S.E. Florence Mangin, figura di raffinata cultura e instancabile promotrice del dialogo tra Francia e Italia, che ha sottolineato l’importanza di questo luogo non solo come punto di riferimento per la comunità francese a Roma, ma anche come simbolo della reciproca influenza tra i due Paesi. Non è un caso che proprio sotto il suo impulso si moltiplichino le occasioni di valorizzazione del patrimonio artistico francese nella capitale. Nel solco di un’ambasciata che si distingue per il dinamismo delle sue iniziative culturali, l’Ambasciatrice Mangin ha sostenuto con forza la riapertura di questo spazio sacro, testimone di una lunga storia di connessioni e scambi tra Roma e la Francia. La sua azione si inserisce in una visione che non si accontenta di proteggere il passato, ma lo rende parte di un presente vivo, aperto alla città e ai suoi visitatori. Costruita tra il 1728 e il 1731 dall’architetto Antoine Dérizet, la chiesa sorge in Piazza San Silvestro e rappresenta una delle cinque chiese storiche francesi nella capitale. Voluta dalla comunità borgognona residente a Roma, nacque con l’obiettivo di offrire un luogo di culto ai mercanti, artigiani e pellegrini provenienti dalla Borgogna, una delle regioni storicamente più legate alla città eterna. Il progetto architettonico, caratterizzato da una pianta ellittica e da una facciata elegante e sobria, riflette l’influenza del tardo barocco romano, mentre gli interni, riccamente decorati con stucchi dorati e affreschi, sono un omaggio alla maestria artistica dell’epoca. Oggi, dopo un lungo periodo di chiusura, l’edificio è tornato a essere un luogo di culto e di incontro, grazie all’impegno dei Pii Stabilimenti della Francia a Roma e a Loreto, che ne hanno promosso il restauro. Un intervento meticoloso ha restituito ai dipinti murali, agli stucchi e ai marmi la loro luminosità originaria, riportando alla luce le dorature e i dettagli architettonici con una cura che si avvicina alla filologia della materia. Anche le vetrate, ora restaurate, permettono di apprezzare la luce naturale in tutto il suo valore, mentre un nuovo sistema di illuminazione esalta le ricchezze artistiche della chiesa. L’adeguamento degli impianti elettrici e la rimozione dei vecchi sistemi di riscaldamento hanno inoltre migliorato la fruibilità degli spazi, garantendo una maggiore armonia con la struttura storica. Nel corso della cerimonia inaugurale, l’Ambasciatrice ha voluto sottolineare come il restauro di San Claudio e Sant’Andrea non sia solo un atto di conservazione, ma un rinnovamento del legame profondo che unisce la Francia a Roma, un gesto che testimonia il desiderio di rendere accessibile il proprio patrimonio e condividerlo con la città. È un impegno che attraversa gli anni e le istituzioni, rafforzato da iniziative che vedono la Francia sempre più protagonista nella vita culturale romana. Con la riapertura della chiesa, la comunità francese a Roma ritrova un punto di riferimento fondamentale per la sua vita religiosa e culturale. La cerimonia ha visto la partecipazione di numerosi esponenti del mondo diplomatico e culturale, oltre alla presenza dell’Amministratore dei Pii Stabilimenti della Francia a Roma e a Loreto, Frère Renaud Escande, o.p., che ha ribadito il valore spirituale e storico di questo luogo. In questa occasione, è stata inoltre presentata l’associazione degli “Amici di Sant’Andrea e San Claudio dei Borgognoni”, nata con l’obiettivo di rafforzare il legame tra la chiesa e la regione della Borgogna-Franca Contea. Nel cuore di Roma, accanto al fermento della città moderna, questa chiesa rinnovata si affaccia nuovamente sul presente, con la consapevolezza di chi sa che la memoria è un’architettura in continua trasformazione. La riapertura di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni è la dimostrazione che la storia non è mai un atto concluso, ma un racconto che si rinnova attraverso gesti concreti, come il restauro, e attraverso la volontà di chi, come l’Ambasciatrice Mangin, vede nell’arte e nella cultura un ponte imprescindibile tra i popoli. @photocredit Pierluca Ferrari
Roma, Teatro Parioli Costanzo
LA COMMEDIA
con Ale e Franz
scritto da Francesco Villa, Alessandro Besentini, Alberto Ferrari e Antonio De Santis
regia Alberto Ferrari
e con Rossana Carretto e Raffaella Spina
Organizzazione Carmela Angelini
Produzione esecutiva Michele Gentile
Due uomini di mezza età. L’incontro causale in un parco. I soliti discorsi di circostanza che lentamente prendono forma e confluiscono in un unico argomento: l’amore. Questa emozione che non invecchia mai. La più libera, la più vera, la più profonda delle passioni. Il sentimento, per eccellenza, quello da vivere senza limiti o barriere, di alcun tipo. L’amore che mantiene sempre giovani, che arriva a qualunque età. L’amore con la A maiuscola! Una trepidazione che è impossibile controllare, perché, al cuor non si comanda, mai! Però…Quando dai bei discorsi si passa alla realtà, le cose cambiano…e non poco. “Comincium la commedia” scritto da Ale Franz ed Alberto Ferrari, che ne firma anche la regia. Un evolversi di eventi e situazioni che si susseguono, costruendo certezze e ribaltandone un attimo dopo, togliendo ogni punto di riferimento agli spettatori e ai protagonisti in scena. Sul palco Ale Franz, accompagnati da Rossana Carretto e Raffaella Spina, artefici di un intreccio esplosivo di risate, colpi di scena e reazioni comiche a catena, in uno spettacolo che come sempre parla di noi, parte da noi e racconta di noi, come se fossimo davanti a uno specchio. Uno spettacolo scoppiettante, leggero e divertente perché, di ridere, non ci stanca mai… proprio come di amare. Qui per tutte le informazioni.
Napoli, Teatro Bellini
ORPHEUS GROOVE
ideazione, scrittura scenica, regia Annalisa D’Amato
drammaturgia Elvira Buonocore e Annalisa D’Amato
con Andrea de Goyzueta, Juliette Jouan, Savino Paparella, Stefania Remino, Antonin Stahly
musiche Annalisa D’Amato e Antonin Stahly
scenografia Simone Mannino
costumi Giuseppe Avallone
sound design Tommy Grieco
luci Cesare Accetta
assistente alla regia Maria Chiara Montella
consulente alla teoria musicale Massimiliano Sacchi
distribuzione per la Francia Laure Duqué
foto di scena Mikaël Lubtchansky
produzione Ente Teatro Cronaca (Italia), Fondazione teatro di Napoli – Teatro Bellini (Italia), Compagnie D’Amato Stahly (Francia), Théâtre Molière- Sète, Scène nationale archipel de Thau (Francia), Fondazione Campania dei Festival (Italia)
progetto sostenuto dal Ministère de la Culture – Direction régionale des affaires culturelles d’Île-de-France, Parigi (Francia)
con il sostegno in residenza di creazione la vie brève – Théâtre de l’Aquarium, La Cartoucherie, Le Pavillon, Romainville, (Francia), Research Institute of Philosophy and Music, Londra (Regno Unito), La Maison Folie de Wazemmes, Lille, (Francia), Culture Moves Europe – Goethe Institute – Creative Europe Program con l’aiuto alla ricerca Boarding Pass Plus – Direzione Generale dello spettacolo del Ministero della Cultura (Italia) e con la partecipazione del Jeune Théâtre National (Francia)
ringraziamenti Robert Brewer Young, Thomas Perriau-Bébon, Bruna Bonanno
La sorprendente figura di Orpheus Shivandrim, eclettico fisico del suono, musicista e poeta, ci conduce dentro un laboratorio di ricerca. Qui, un team di scienziati conduce studi sul suono allo scopo di riarmonizzare la vibrazione degli Esseri Umani e della Terra che si sta drammaticamente affievolendo. Un progetto mirabolante che parte da un assunto reale: esiste una condizione globale, un malessere che ci riguarda tutti. E un obiettivo cruciale: come fare a stare bene? Come curare questo mondo troppo offeso? Una donna, in particolare, si staglia al centro della narrazione. A lei si affidano tutte le istanze di rinascita. Mescolando le altezze dei grandi compositori alle più piccole fragilità dell’essere umano, la guida orfica conduce lo spettatore lungo un viaggio iniziatico di cura e svelamento del sé e della propria voce.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
VICINI DI CASA
dalla commedia Sentimental di Cesc Gay
traduzione e adattamento Pino Tierno
con Amanda Sandrelli, Gigio Alberti, Alessandra Acciai, Alberto Giusta
regia Antonio Zavatteri
regista assistente Matteo Alfonso
scene Roberto Crea
costumi Francesca Marsella
luci Aldo Mantovani
sarta Marisa Mantero
foto Laila Pozzo
service audio/luci Fonal di Federico Pennazzato
co-produzione CMC/Nidodiragno, Cardellino srl, Teatro Stabile di Verona
in collaborazione con Festival Teatrale di Borgio Verezzi
Roma, 05 febbraio 2025
In un microcosmo claustrofobico racchiuso tra le mura domestiche, “Vicini di casa” esplora con finezza drammaturgica le dinamiche di coppia e le contraddizioni insite nelle relazioni affettive e sociali. Per un’ora e un quarto, lo spettatore assiste a un confronto serrato tra due visioni antitetiche della sessualità, dell’amore e della quotidianità, declinate con un equilibrio calibrato tra commedia e dramma. L’autore catalano Cesc Gay, noto per la sua scrittura vivida e ironica, ha concepito nel 2015 la brillante pièce “Los vecinos de arriba”, poi trasposta in una versione cinematografica nel 2020. La traduzione e l’adattamento di Pino Tierno, uniti alla regia calibrata di Antonio Zavatteri, conferiscono alla versione italiana un’efficace aderenza alla sensibilità del pubblico contemporaneo. Il perno drammaturgico dell’opera è l’incontro-scontro tra due coppie che incarnano modelli esistenziali diametralmente opposti. Anna e Giulio, interpretati con grande verosimiglianza da Amanda Sandrelli e Gigio Alberti, rappresentano il paradigma della coppia di lunga data, logorata dalla routine e dalla progressiva perdita di entusiasmo reciproco. Laura e Toni, invece, portati in scena con spregiudicata vivacità da Alessandra Acciai e Alberto Giusta, si delineano come il contraltare libertino e disinibito, il cui stile di vita scandalizza e, al contempo, affascina i loro ospiti. La narrazione si sviluppa attraverso un meccanismo drammaturgico serrato, in cui l’umorismo si intreccia con una sottile critica sociale. La scrittura di Gay non indulge in facile volgarità, bensì costruisce un gioco di battute e situazioni che oscillano tra la provocazione e l’introspezione. La regia di Zavatteri, attenta ai ritmi e ai silenzi, valorizza la stratificazione emotiva del testo, evitando la deriva farsesca e mantenendo la tensione emotiva sempre viva. La scenografia di Roberto Crea, essenziale ma funzionale, definisce uno spazio domestico che diviene metafora della prigione interiore in cui si dibattono i protagonisti. I costumi moderni di Francesca Marsella e le luci di Aldo Mantovani contribuiscono a rafforzare l’atmosfera di realismo e introspezione. La regia gioca abilmente con i contrasti: la compostezza frustrata di Giulio e Anna si specchia nella vitalità sfrenata di Laura e Toni, creando un cortocircuito narrativo che innesca risate e riflessioni. Fondamentale per il successo della rappresentazione è la qualità delle interpretazioni. Amanda Sandrelli e Gigio Alberti conferiscono ai loro personaggi una palpabile autenticità emotiva, riuscendo a rendere credibile il logorio di un rapporto soffocato dall’abitudine. Sandrelli, con il suo incedere spontaneo e misurato, dona ad Anna una dimensione di fragile inquietudine, mentre Alberti costruisce un Giulio disilluso e ironico, capace di suscitare empatia. Alessandra Acciai e Alberto Giusta, nei panni della coppia disinibita, offrono una performance vibrante e trascinante: Acciai tratteggia una Laura carismatica e analitica, mentre Giusta si distingue per la fisicità esuberante e la perfetta gestione dei tempi comici. L’interazione tra i quattro attori è impeccabile, e la loro alchimia scenica amplifica l’efficacia del testo. La pièce pone interrogativi scomodi ma universali: quanto la routine incide sulla qualità delle relazioni? Qual è il confine tra la libertà individuale e la necessità di conformarsi a un modello sociale prestabilito? Il pubblico si ritrova a interrogarsi su questi dilemmi attraverso un’escalation di situazioni imbarazzanti e rivelazioni inaspettate. Il climax narrativo si consuma in un momento di rottura, in cui i protagonisti sono costretti a confrontarsi con i propri desideri inespressi e le proprie ipocrisie. L’esito della rappresentazione conferma l’intelligente costruzione del testo: si ride, si riflette e, inevitabilmente, si partecipa emotivamente alle vicende dei personaggi. Il teatro, come spesso accade nei lavori ben congegnati, si fa specchio delle fragilità umane, portando in superficie le tensioni sotterranee che attraversano la nostra esistenza. “Vicini di casa” riesce così a coniugare intrattenimento e profondità, confermandosi come un esempio eccellente di teatro contemporaneo capace di parlare al pubblico con ironia e acume. Lo spettacolo si conclude tra le risate e gli applausi scroscianti di un pubblico coinvolto e divertito, che omaggia la brillante interpretazione del cast e la finezza di una messa in scena che sa essere tanto leggera quanto incisiva.
Arezzo, Sala Sant’Ignazio
“Venere, che le Grazie la fioriscono” – Omaggio a Giorgio Vasari
Flauto Roberto Fabbriciani
Lettura di testi vasariani e note al concerto Luisella Botteon
Regia del suono (“centro di ricerca Tempo Reale”) Damiano Meacci
Musiche di: Claude Debussy, Roberto Fabbriciani, Wolfang Amadeus Mozart, Orazio Tigrini, Bruno Maderna, Ennio Morricone in una proposta sonora per flauto e strumenti elettronici.
Arezzo, 3 febbraio 2025
Attraversando la Sala Sant’Ignazio (ex chiesa di Sant’Ignazio), che in questo periodo ospita quattro pale dipinte da Giorgio Vasari, un gruppo abbastanza numeroso di persone sosta in fondo ed in piedi aspettando l’inizio di un concerto. Ad accogliere il pubblico, presentando l’evento, Lorenzo Cinatti, Direttore della Fondazione “Guido d’Arezzo”. Poi arriva lentamente Roberto Fabbriciani con il suo flauto traverso d’oro, suonando in modo piuttosto ispirato Syrinx di Claude Debussy, uno dei brani più celebri della letteratura del Novecento. L’atmosfera è sognante, quasi indeterminata, e il brano dal melos caratterizzato dai delicati contorni, sfuggevoli e cromatici, chiarisce la sua natura impressionista che, all’interno del contesto in cui era concepito il concerto (mostra internazionale Vasari. Il Teatro delle Virtù), evidenziava la particolare correspondance tra musica e arte visive, compreso il tema dell’amore. Lo stesso inizio con la composizione di Debussy offriva una narrazione che ruotava intorno al sentimento del dio Pan per la ninfa Sýrinx che poteva intendersi anche come ‘incanto’ del pubblico attraverso il suono del flautista. Il brano in programma di Orazio Tigrini, altro illustre aretino vissuto nel XVI secolo e dunque contemporaneo di Vasari, merita un’attenzione particolare. Il titolo Canzon da Sonare. Cantai un tempo allude ad una versione per flauto e pianoforte (1975) di un madrigale tratto dal I Libro di madrigali a 6 voci (1582) di Tigrini, realizzata da Claudio Santori. Ciò che si è percepito durante l’esecuzione è stato un singolare ‘incontro’ tra antico (madrigale cinquecentesco) e contemporaneo. La versione di Franz Anton Hoffmeister, coevo di Mozart, dell’aria di Papageno tratta dal Die Zauberflöte del compositore salisburghese, in sostanza è imperniata sul racconto secondo cui il principe Tamino, aiutato da Papageno, combatte per la liberazione dell’amata Pamina. Fabbriciani, con la sua interpretazione, è riuscito a coinvolgere tutti e traghettare in un mondo fiabesco tanto che in alcuni momenti sembrava di percepire le parole di Papageno in cui dichiara di essere abile nell’affascinare e nello zufolare. Elegia (1976) di Fabbriciani ha costituito un’interessante occasione per presentarsi in veste di compositore e interprete, offrendo un brano in cui erano presenti, come ispirazione, alcuni spunti autobiografici. A ciò ha fatto seguito un leitmotiv di Ennio Morricone, tratto dal film La gabbia, di cui Fabbriciani ha registrato la colonna sonora. Un Adagio del musicista aretino ha fatto quasi da prologo, per rimanere nell’autobiografismo, ad un Lamento (pianto ancestrale) del compositore novecentesco Bruno Maderna. Il programma si è concluso con altri due brani di Fabbriciani: un Sonetto a Orfeo su testo di Rainer Maria Rilke dedicato al mitico cantore e, ancora una volta sottolineando il rapporto sinergico delle arti, Venere, che le Grazie la fioriscono – Omaggio a Giorgio Vasari, composizione dedicata ad Arezzo ed in prima esecuzione, il cui titolo ha un riferimento alla Primavera di Botticelli e Vasari cita come «Venere che le Grazie la fioriscono, dinotando Primavera».
Vivo successo del concerto per Fabbriciani, senza dimenticare l’importante contributo di Damiano Meacci per la regia del suono e di Luisella Botteon nel saper guidare l’ascoltatore in uno spettacolo particolare. La serata si è conclusa con un fuori programma in cui il tema Gabriel’s Oboe di Morricone, in quel particolare contesto, poteva rappresentare la naturale colonna sonora di un evento ove, per lasciarsi conquistare dal fascino, era necessaria un’immaginazione vivifica.
Roma, Teatro Argentina
GUERRA E PACE
di Lev Tolstoj
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
regia Luca De Fusco
con in ordine di apparizione
Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
coreografia Monica Codena
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania
Roma, 04 febbraio 2025
Non esiste grandezza là dove non vi è semplicità, bontà e verità.” – Lev Tolstoj
Ridurre per il teatro un’opera-mondo quale Guerra e Pace di Lev Tolstoj è impresa che solo in apparenza si risolve nel lavoro di adattamento drammaturgico. La materia romanzesca, smisurata per dimensioni e profondità, non si lascia facilmente costringere nei canoni della messinscena senza subire una metamorfosi sostanziale: i toni epici si comprimono, le riflessioni filosofiche si contraggono, la stratificazione psicologica si piega alla semplificazione drammatica. Luca De Fusco affronta questa titanica operazione con un approccio che si potrebbe definire di diligente prudenza: senza avventurarsi in soluzioni formali ardite, costruisce uno spettacolo compatto, levigato, in cui tutto è al proprio posto, ma nulla realmente vibra di quella necessità espressiva che fa del teatro un organismo vivente. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Biondo di Palermo in collaborazione con il Teatro Nazionale di Roma e il Teatro Stabile di Catania, si presenta come un affresco di innegabile solidità, dove la minuziosa ricostruzione storica e la perizia interpretativa degli attori si collocano entro un solco tradizionale, privo di scosse e senza alcun intento di rinnovamento della lettura tolstoiana. L’impianto scenografico di Marta Crisolini Malatesta disegna un suggestivo palazzo in rovina, spazio di memorie che funge da dispositivo narrativo attraverso la grande scalinata che ospita, con sapienza visiva, il fluire degli eventi. Questo elemento architettonico, pur suggestivo, viene utilizzato con un’insistenza quasi manieristica, caricando la narrazione di un’enfasi melodrammatica che talvolta sfiora l’illustrazione didascalica. Non si percepisce, tuttavia, un tentativo di superare la mera funzione di supporto visivo per divenire autentico motore drammaturgico: la scena rimane elegante, evocativa, ma lontana dall’essere realmente parte attiva della narrazione. Le luci di Gigi Saccomandi svolgono un lavoro di cesello sulle atmosfere, accentuando il tono romantico e solenne dello spettacolo, mentre le musiche di Ran Bagno e i video di Alessandro Papa sono elementi che si incastonano senza sopraffare la narrazione, accompagnando con discrezione lo sviluppo drammaturgico. De Fusco rimane fedele a un’idea di teatro che predilige la chiarezza narrativa e il rispetto della tradizione. Nulla è lasciato all’improvvisazione, ogni gesto è calcolato, ogni snodo drammaturgico risponde a una logica di equilibrio e simmetria, ogni passaggio è funzionale alla comprensione dello spettatore. Tuttavia, questa calibrata armonia diventa anche il limite più evidente dello spettacolo: nella sua impeccabile costruzione, Guerra e Pace si presenta come un meccanismo perfetto, ma privo di quella vibrazione emotiva capace di scuotere, sorprendere, o mettere in discussione. È un teatro che si rifugia nella sicurezza dell’accademia, che non rischia e non destabilizza, che si appoggia con rassicurante eleganza sulla grandezza del testo originario senza mai tentare di attraversarlo con uno sguardo davvero personale. Le interpretazioni sono tutte di buon livello, con un cast ben assortito che annovera attori di comprovata esperienza. Pamela Villoresi offre una Anna Pavlovna di raffinata autorevolezza, mentre Mersila Sokoli dipinge una Natàša di delicata fragilità, riuscendo a trasmettere la nevrotica oscillazione emotiva del personaggio. Raffaele Esposito presta al principe Andrej una tormentata introspezione, mentre Giacinto Palmarini restituisce un Anatòlij dall’aria tanto vanitosa quanto vacua. Eppure, sebbene le interpretazioni siano puntuali, manca quel senso di urgenza drammatica che rende il teatro un atto di rivelazione. Tutto scorre con una linearità che finisce per anestetizzare le tensioni interiori dei personaggi, assorbite in una messinscena che predilige la fluidità alla vertigine, la compostezza alla passione, la classicità alla sperimentazione. Lo spettacolo si configura dunque come un’operazione colta e ben confezionata, che omaggia la grande letteratura senza però interrogarsi fino in fondo sulla sua trasposizione teatrale. Il Guerra e Pace di De Fusco è un’elegante pagina di storia portata in scena con una fedeltà che sfiora il filologico, ma che rimane priva di un reale confronto con le inquietudini del presente. La guerra è un tema eterno, il potere e le sue logiche di sopraffazione non cessano di ripetersi nella storia, ma questa messinscena si limita a raccontare senza problematizzare, a rievocare senza interrogare. In definitiva, siamo di fronte a uno spettacolo che ripercorre con accuratezza le vicende del romanzo, che assolve il proprio compito con un’eleganza che non si può non riconoscere, ma che non lascia tracce profonde. Tolstoj ha consegnato alla letteratura un’opera sconfinata, capace di tenere insieme il destino del singolo e quello della Storia, la grandezza e la miseria dell’uomo, il pensiero e l’azione. Qui tutto è restituito con rispetto e misura, ma nulla eccede i confini di una rassicurante normalità teatrale. Se la guerra e la pace sono il motore della Storia, il teatro dovrebbe essere il luogo del turbamento, della tensione, del cortocircuito emotivo. In questo caso, però, tutto è saldo, quadrato, imperturbabile. Persino il lampadario, simbolo visivo di un passato che non crolla mai davvero, sembra dirci che la memoria è più forte della vita. E non è detto che questo sia sempre un bene. A suggellare la rappresentazione, un pubblico partecipe ed attento ha saputo premiare tutti gli attori con applausi sentiti e partecipi, riconoscendo il valore della loro interpretazione e il rigore dell’allestimento scenico.
Roma, Palazzo Bonaparte
MUNCH. IL GRIDO INTERIORE
Curata da Patricia G. Berman
Palazzo Bonaparte si prepara a inaugurare un’importante stagione espositiva per il 2025, un anno straordinario che coinciderà con il Giubileo e con il 25° anniversario dalla nascita di Arthemisia. Nell’ambito di queste celebrazioni, da febbraio a giugno, sarà ospitata una grande monografica dedicata a Edvard Munch, un evento di portata internazionale che segnerà il ritorno dell’artista nella Capitale a oltre vent’anni dall’ultima mostra a lui dedicata. Grazie a una prestigiosa collaborazione con il Munch Museum di Oslo e con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, la rassegna rappresenterà la più ampia retrospettiva mai realizzata in Italia sull’artista norvegese. Edvard Munch (1863-1944), considerato un precursore dell’Espressionismo e uno dei massimi esponenti del Simbolismo ottocentesco, sarà celebrato con un corpus di cento opere provenienti dal museo di Oslo, raccontando l’intero percorso umano e artistico del maestro. Curata da Patricia G. Berman, una delle più autorevoli studiose di Munch a livello mondiale, la mostra offrirà un viaggio immersivo nel suo universo espressivo, attraversando i temi fondanti della sua arte: l’amore, la morte, l’angoscia esistenziale e la complessità della psiche umana. Tra i capolavori esposti spicca una delle versioni litografiche de L’Urlo (1895), icona assoluta dell’arte moderna, accanto a opere di straordinaria intensità come La morte di Marat (1907), Notte stellata (1922–1924), Le ragazze sul ponte (1927), Malinconia (1900–1901) e Danza sulla spiaggia (1904). L’evento si inserisce in una programmazione culturale di altissimo profilo, sottolineando il ruolo di Palazzo Bonaparte come punto di riferimento per l’arte in Italia. Grazie a un allestimento coinvolgente e a un percorso espositivo accuratamente studiato, il pubblico potrà entrare in contatto diretto con la forza visionaria e rivoluzionaria di Munch, riscoprendone il genio attraverso una prospettiva inedita. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ANTONIO E CLEOPATRA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Nadia Fusini e Valter Malosti
con Anna Della Rosa, Valter Malosti, Danilo Nigrelli, Dario Battaglia, Massimo Verdastro, Paolo Giangrasso, Noemi Grasso, Ivan Graziano, Dario Guidi, Flavio Pieralice, Gabriele Rametta, Carla Vukmirovic
chitarra elettrica live Andrea Cauduro
arpa celtica live Dario Guidi
scene Margherita Palli
costumi Carlo Poggioli
disegno luci Cesare Accetta
progetto sonoro GUP Alcaro
cura del movimento Marco Angelilli
maestro collaboratore Andrea Cauduro
regia Valter Malosti
Antonio e Cleopatra sono gli straripanti protagonisti di un’opera basata sulle opposizioni: maschile e femminile, dovere e desiderio, letto e campo di battaglia, giovinezza e vecchiaia, antica verità egiziana e realpolitik romana. Politicamente scorretti e pericolosamente vitali, al ritmo misterioso e furente di un Baccanale Egiziano vanno oltre la ragione e ai giochi della politica. Inimitabili e Impareggiabili, neanche la morte li può contenere. «Di Antonio e Cleopatra – racconta Valter Malosti, qui nella duplice veste di regista e interprete – la mia generazione ha impresso nella memoria soprattutto l’immagine, ai confini con il kitsch, della coppia hollywoodiana Richard Burton – Liz Taylor. Ma su quest’opera disincantata e misteriosa, che mescola tragico, comico, sacro e grottesco, su questo meraviglioso poema filosofico e mistico (e alchemico) che santifica l’eros, che gioca con l’alto e il basso, scritto in versi che sono tra i più alti ed evocativi di tutta l’opera shakespeariana aleggia, per più di uno studioso, a dimostrarne la profonda complessità, l’ombra del nostro grande filosofo Giordano Bruno: un teatro della mente che esige un nuovo cielo e una nuova terra». Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO
Scritto e diretto da Eleonora Danco
con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana,
Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli
Costumi Massimo Cantini Parrini
Assistente costumi Jessica Zambelli
Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini
Luci Eleonora Danco
Musiche scelte da Marco Tecce
aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti
regia Eleonora Danco
produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.
Primo atto. Una famiglia si riunisce per il compleanno della madre. Il padre la madre e la figlia trentenne Paola vivono insieme. Li raggiungono i due fratelli Luca 40 anni Pietro 38 anni. Una volta tutti insieme nella casa paterna si mangiano l’un l’altro come pesci in un acquario. Battute serrate dai ritmi travolgenti. I meccanismi dei conflitti familiari espressi in un linguaggio universale, in cui tanti si potranno riconoscere.
Secondo atto. Vent’anni dopo. La famiglia si ritrova nella stessa casa per festeggiare il compleanno del padre. Luca, sessant’anni, Pietro cinquantotto anni, invecchiati e travolti dalla crisi economica, patiscono l’egoismo del padre, un Re Lear del terzo piano che si schiera ora con un figlio, ora con l’altro. La scena diventa un’arena dove le ombre e i ricordi si agitano come lembi. I flash, come in un film, rendono i personaggi giovani e vecchi, a tratti tonano bambini e adolescenti. Cadono in uno stato di trans allucinatorio, non si accorgono di esprimere le immagini più profonde del loro subconscio. Una regia fisica. Una danza, un movimento continuo, visionario e commovente. Qui per tutte le informazioni.