Vicenza, Teatro Olimpico, Vicenza Opera Festival 2024
“LE BURGEOIS GENTILHOMME SUITE”
“ARIADNE AUF NAXOS”
Opera in un atto su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss
Bacchus ANDREW STAPLES
Zerbinetta ANNA-LENA ELBERT
Ariadne EMILY MAGEE
Harlekin GURGEN BAVEYAN
Scaramuccio STUART PATTERSON
Truffaldino DANIEL NOYOLA
Brighella JUAN DE DIOS MATEOS
Najade SAMANTHA GAUL
Dryade OLIVIA VERMEULEN
Echo MIRELLA HAGEN
Attori UTKA GAVUZZO, CAMILO DAOUK
Budapest Festival Orchestra
Direttore Iván Fischer
Regia Iván Fischer e Chiara D’Anna
Scene Andrea Tocchio
Costumi Anna Biagiotti
Luci Tamás Bányai
Produzione della Iván Fischer Opera Company, Müpa Budapest, Vicenza Opera Festival e Festival dei Due Mondi di Spoleto
Vicenza, 27 ottobre 2024
Anche quest’anno il Vicenza Opera Festival diretto da Iván Fischer propone un titolo ambizioso, quell’“Ariadne auf Naxos” che rappresenta senza dubbio uno dei picchi (se non il picco) di originalità e genialità di Richard Strauss: la sua genesi e la sua natura composita ne fanno sia un’opera decisamente novecentesca, sia un omaggio accurato e sentito al secolo che l’ha preceduta, in particolar modo a quelle correnti che per Strauss sono state le più importanti – il belcanto italiano e il wagnerismo. Si diceva della genesi, poiché quest’opera inizialmente si inseriva fra le musiche di scena di una fastosa riscrittura hofmannsthaliana de “Il borghese gentiluomo“ di Molière, che vide la luce per la prima volta a Stoccarda nel 1912, rivelandosi un clamoroso fiasco, troppo lunga e troppo musicale per essere una commedia di prosa. Strauss chiese allora a Hofmannsthal di scrivere un apposito prologo, simile per intenti al “Borghese gentiluomo”, ma più agile, da porsi in musica. Ne nacque la versione dell’“Ariadne” che comunemente portiamo in scena, ma non quella scelta da Fischer per Vicenza: lungi da riprovare l’esperimento di Stoccarda, Fischer sceglie però di non portare in scena il prologo, e sostituirlo con la suite orchestrale che lo stesso Strauss (anni dopo il debutto dell’opera) fece del materiale musicale di scena di quella commedia; ecco allora che i primi trentasette minuti di questa recita sono occupati dalla suite delle musiche di scena di “Le bourgeois gentilhomme”, brioso e sorprendente pezzo sinfonico durante il quale i personaggi della Commedia dell’Arte, coadiuvati da due mimi strepitosi (Utka Gavuzzo e Camilo Daouk), giocano e scherzano con l’orchestra, ne spogliano e rivestono i musicisti, ma si divertono anche tra di loro. La scelta è coraggiosa e senza dubbio legittima, giacché si pone come obiettivo di ricostruire quei ponti tra le melodie della suite e quelle dell’“Ariadne”, che nacquero sorelle. Quando poi arriviamo, finalmente, all’opera vera e propria, ci accorgiamo che quelli che credevamo unicamente mimi e attori nella suite orchestrale, si rivelano essere gli interpreti stessi del dramma, veri attori cantanti e viceversa: il baritono Gurgen Baveyan è un Arlecchino rocambolesco ma anche accorato nei suoi spasimi d’amore per Zerbinetta – vocalmente presenta colore ambrato, linea di canto morbida, notevole estensione; Stuart Patterson è uno Scaramouche tutto compito, ma che sfoggia piacevoli colori di tenore buffo nei suoni ben proiettati e puliti; il Brighella di Juan de Dios Mateos è tra quelli che si spendono di più scenicamente, già dalla suite iniziale; pure la prova canora si rivela tuttavia ben superata, grazie a una bel fraseggio efficace; infine il Truffaldino di Daniel Noyola, si distingue non per volumi azzardati o virtuosismi, ma, al contrario, per la capacità di armonizzarli al meglio con le voci degli altri tre con cui passa la maggior parte del tempo. Tuttavia è la Zerbinetta di Anna-Lena Elbert l’étoile della serata: il giovane soprano tedesco sembra nato per il ruolo, sia per l’attitudine coquette che adotta in scena, senza tema di apparire anche in vesti succinte e di lanciarsi in momenti quasi di danza, sia per il registro lirico leggero dalla linea di canto fluente, dai sovracuti e picchiettati disinvolti, il colore argentino, la sapida accuratezza nel fraseggio. Le fa da ideale contraltare l’Ariadne di Emily Magee, ma purtroppo anche sul piano della resa. La voce appare stanca, con i centri opachi e un registro acuto non sempre controllato. Si apprezza ancora il bel colore vocale, ma non basta a salvarne la performance – che pure sul piano del fraseggio e quello scenico è un po’ ridotta ai minimi termini. Le tre ninfe, invece, sorprendono sia per la piena coesione delle linee di canto, ma soprattutto per le qualità vocali indiscutibili: la mezzo Olivia Vermeulen (la Driade) pone le fondamenta della frase con i suoi suoni avvolgenti e caldi, il soprano Samantha Gaul (la Naiade) costruisce le melodie con la sua vocalità tersa e asciutta mentre Mirella Hagen (Eco) la riprende a canone impreziosendola. Un trio che aiuta l’ascoltatore anche a tessere collegamenti con le ninfe del Reno del “Rheingold”, che Strauss voleva chiaramente richiamare. Infine, ma solo in ordine di apparizione, il Bacco di Andrew Staples ammalia già prima di comparire in scena, grazie a una vocalità di autentico tenore drammatico – “wagneriano” verrebbe giustamente da dire, visto l’eroismo madido di sentimento con cui Strauss reinterpreta il Dio dell’ebbrezza; la sua tecnica è granitica, il suono infonde sfumature metalliche a un porgere scolpito e veramente nobile, con una specifica attenzione al fraseggio. Grazie a lui il duetto finale (l’omaggio del compositore a “Tristan und Isolde”) sa veramente portarci dall’isola di Nasso alle vette del Valhalla; peccato per una certa immobilità scenica, dovuta, crediamo, a una scelta di regia non particolarmente felice. Questa, infatti, curata dallo stesso onnipresente Fischer, insieme all’italiana Chiara D’Anna, funziona a meraviglia nelle scene di gruppo e specificamente con i personaggi all’italiana, mentre in quelli “alla tedesca”, si arena in una serie di pose che sviluppano poco gli spunti della partitura. Tuttavia le scene di carta ispirate a Chagall di Andrea Tocchio, i bellissimi costumi di Anna Biagiotti e soprattutto le magnifiche e suggestive luci di Tamás Bányai, riescono sempre a dare movimento alle linee sceniche, senza consentire mai all’occhio rapito dello spettatore di distrarsi. Infatti, alla fine, ovazioni meritate per tutti sugellano anche questo Festival. Foto Vicenza Colorfoto – Francesco Dalla Pozza
Roma, Sala Umberto
ROMEO E GIULIETTA
L’amore è saltimbanco
con Anna De Franceschi, Michele Mori, Marco Zoppello
scenografia Alberto Nonnato
costumi Antonia Munaretti
produzione Stivalaccio Teatro
soggetto originale e regia Marco Zoppello
Roma, 29 ottobre 2024
“All the world’s a stage, and all the men and women merely players; they have their exits and their entrances.” – William Shakespeare
Lo spettacolo “Giulietta e Romeo” di Stivalaccio Teatro irrompe sulla scena con una potenza travolgente, trasformando ogni momento in un vortice di gesti, dialetti, parodie e improvvisazioni che immergono lo spettatore in una dimensione sospesa, fuori dal tempo ordinario. La rappresentazione della tragicità shakespeariana viene scomposta e ricostruita attraverso il filtro dell’ironia, passando per la voce irriverente di Giulio Pasquati e Girolamo Salimbeni, maschere viventi di un teatro popolare che sfida e gioca con i limiti stessi della rappresentazione teatrale. La trama non è solo narrata, ma agita, declinata con una sensibilità metateatrale che mette in discussione la separazione tra finzione e realtà, tra spettacolo e vita. Il testo shakespeariano, uno dei capisaldi della letteratura occidentale, viene qui reinterpretato con leggerezza e inventiva, senza tradire la sua profondità ma valorizzandola sotto una luce diversa. “Giulietta e Romeo” è infatti attraversato da uno spirito dissacrante che non manca di rispetto all’opera originale, ma ne rinnova il senso, lo attualizza e lo porta a dialogare con un pubblico contemporaneo. Gli attori non si limitano a interpretare i personaggi classici, ma oscillano tra diversi ruoli, tra il serio e il faceto, creando un flusso continuo che coinvolge il pubblico fino a renderlo parte integrante dello spettacolo. Questa interazione, tanto straordinaria quanto disarmante, rende ogni reazione del pubblico un momento di partecipazione autentica. La presenza scenica è sostenuta da un ritmo serrato e un’energia vibrante, elementi che definiscono l’essenza di questo allestimento. La scenografia di Alberto Nonnato, essenziale e mobile, si adatta fluidamente a ogni cambiamento di tono, trasformandosi con naturalezza da cornice poetica a spazio comico. Il disegno luci modula lo spazio e accentua con delicatezza i passaggi tra il comico e il poetico, diventando una componente espressiva che si insinua tra le parole e le azioni, creando chiaroscuri che esaltano le espressioni e i movimenti degli attori, amplificando la tensione emotiva e rendendo ogni cambio d’atmosfera ancora più pregnante. La tragedia di Giulietta e Romeo diventa veicolo di una vitalità incontenibile, una forza teatrale potente e difficile da contenere, incredibilmente viva. Il pubblico è coinvolto non solo come spettatore, ma come co-creatore di questo rito collettivo, un momento in cui il teatro torna a essere una festa, un’esperienza che trascende il semplice atto di guardare per diventare partecipazione, immersione e trasformazione. A dare vita a questa straordinaria alchimia teatrale sono Marco Zoppello, Michele Mori e Anna De Franceschi, funamboli della scena, capaci di muoversi con disinvoltura tra precisione e spontaneità. Ogni battuta è accompagnata da una fisicità esuberante che riempie l’intero spazio scenico, trascinando gli spettatori tra il mondo della commedia e quello della tragedia. Gli attori recitano con tutto il corpo: i gesti, le espressioni del volto, le pause, tutto diventa linguaggio, un racconto che si dipana davanti agli occhi del pubblico, catturando e affascinando. I costumi di Antonia Munaretti, sobri ma curati nel dettaglio, evocano una dimensione popolare e artigianale, in linea con lo spirito della commedia dell’arte, in cui tradizione e innovazione si fondono senza perdere autenticità. Le maschere, tipiche del teatro popolare, simboleggiano una tradizione che si rinnova, un linguaggio che non conosce barriere temporali o culturali. Ogni elemento scenico è carico di significato, ma allo stesso tempo leggero, agile, pronto a trasformarsi e reinventarsi, in un gioco teatrale al contempo serio e ironico. Il vero fulcro dello spettacolo è l’interazione con il pubblico. In questo spettacolo, la quarta parete viene infranta fin dai primi momenti, e il pubblico è chiamato a partecipare attivamente, a entrare nel gioco teatrale. Gli attori si rivolgono direttamente agli spettatori, coinvolgendoli con domande, battute, sguardi che rompono la distanza tra palcoscenico e platea. Questo dialogo continuo, questa apertura verso l’altro, rende lo spettacolo un’esperienza viva e unica, diversa ogni sera, modellata sulle reazioni di chi è presente in sala. L’energia in sala è talmente alta e vibrante da generare effetti contrastanti nel pubblico: c’è chi partecipa con entusiasmo, chi si lascia trascinare dall’esuberanza degli attori, e chi invece, più timidamente, si sente sopraffatto da tale vitalità. Non manca chi, fingendo disinteresse o annoiato, dissente su ogni azione sregolata sul palco e sul coinvolgimento attivo del pubblico. Questa molteplicità di reazioni rende ancora più affascinante l’atmosfera, contribuendo alla creazione di un microcosmo teatrale in cui ogni spettatore diventa protagonista. Il gioco delle parti, la consapevolezza della finzione, l’alternanza tra il ruolo dell’attore e quello del personaggio attraversano tutto lo spettacolo, conferendogli una profondità che va oltre la semplice comicità. Gli attori si muovono su un filo sottile, un equilibrio tra la necessità di far ridere e il desiderio di raccontare una storia tragica. Questo equilibrio è mantenuto con maestria, senza mai cadere nell’eccesso, preservando l’essenza del teatro come luogo di incontro, riflessione e condivisione. Al termine della rappresentazione, gli applausi del pubblico risuonano come un’onda che si infrange sul palcoscenico, una manifestazione di gratitudine e entusiasmo che travolge gli attori e li avvolge in un abbraccio ideale. Questo tripudio finale non è solo una formalità, ma il culmine di un’energia condivisa, di una comunione di intenti e emozioni che trova la sua espressione in quel fragore di mani, in quel coro di voci che rende omaggio non solo alla bravura degli interpreti, ma al teatro stesso come atto di creazione e partecipazione. “Giulietta e Romeo” non è semplicemente uno spettacolo, ma diventa un’esperienza, un rito collettivo, un momento di assoluta magia scenica.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica “Autunno 2024”
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, da “Madam Butterfly” di John L. Long e “Madame Butterfly” di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San CAROLINA LÓPEZ MORENO
Suzuki MARVIC MONREAL
Kate Pinkerton ELIZAVETA SHUVALOVA
F. B. Pinkerton PIERO PRETTI
Sharpless NICOLA ALAIMO
Goro ORONZO D’URSO
Il principe Yamadori MIN KIM
Lo zio Bonzo BOZHIDAR BOZHKILOV
Yakusidé GIOVANNI MAZZEI
Il commissario imperiale DAVIDE SODINI
L’ufficiale del registro EGIDIO MASSIMO NACCARATO
La madre NADIA PIRAZZINI
La zia THALIDA MARINA FOGASARI
La cugina PAOLA LEGGERI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Lorenzo Mariani
Scene Alessandro Camera
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 27 ottobre 2024
Il ciclo di opere autunnali prosegue con “Madama Butterfly” di Puccini, ultimo impegno ufficiale del maestro Daniele Gatti come direttore principale del Maggio. La regia di Lorenzo Mariani e le scene di Alessandro Camera evocano un Oriente sospeso, circoscritto da leggiadri veli ricadenti che plasmano il nido d’amore dei protagonisti, in una vicenda dove l’immedesimazione è garantita dagli attuali costumi di Silvia Aymonino. L’intera produzione sembra esaltare l’immacolata purezza di Cio-Cio-San e il suo contrasto con le consuete dinamiche di ciò che oggi definiremmo “turismo sessuale”, come testimonia il suo isolamento dal resto della famiglia e l’ingresso in scena mediante un’apposita pedana discendente. In particolare, l’impianto registico trova appiglio nelle parole di Pinkerton “che di rincorrerla furor m’assale, se pure infrangerne dovessi l’ale”, a sottolineare l’ineluttabilità della catastrofe e quella fragilità lacerata che tanto strugge in questo dramma. Così, i veli del letto nuziale iniziano a strapparsi nel secondo atto e, grazie a un ingegnoso effetto di luci di Marco Filibeck, si tingono di rosso non appena si paventerà la possibilità del suicidio. Di pari passo, il pavimento della “casa a soffietto” s’inclina progressivamente come fosse il ponte di una nave, fino a squarciarsi in due nell’atto finale. Pochi tratti, dunque, ma significativi, a riprova di come sia possibile godere di riletture in chiave moderna con economia di risorse. Nel corso della rappresentazione non sono mancati momenti più stereotipati, di esasperata passione o d’ironico sarcasmo, e un’ultima sorpresa era riservata al finale, quando le “due” mogli si fronteggiano con abiti gemelli, in un pericoloso gioco di riflessi. Dalla buca dell’orchestra, la direzione evidenzia l’instabilità dell’apparente equilibrio d’amore del primo atto con un’agogica molto varia, a tratti decisamente scorrevole, ma non priva di momenti di grande indugio, volti a saggiare le scale difettive e gli effetti cromatici dell’esotismo d’Oriente. A Daniele Gatti non sfugge la caratterizzazione musicale di uno sviluppo di tipo leitmotivico, con particolare sensibilità sulle poche note del tema identificativo del soprano, che contrastano con le invasive sonorità dell’inno americano (ai tempi inno della marina), sottolineando la morsa del tempo che passa e l’angoscia dell’attesa con moduli cromatici ricorrenti. Di grande intimismo (forse anche troppo) la delicata grana orchestrale che accompagna la celebra aria di Butterfly, ancor più velata sul “coro a bocca chiusa” di Lorenzo Fratini, mentre per gli effetti più vibranti si dovrà attendere l’intermezzo musicale introduttivo al terzo atto e la folgorante restituzione dell’emblematico accordo sospensivo della chiusa. Di buon livello anche il cast vocale, capeggiato dall’interessante prova di Carolina López Moreno. Il giovane soprano si presenta in scena con un timbro diamantino, tanto suadente quanto soffice nell’emissione, inserito in un fraseggio scelto e coadiuvato da spiccate doti attoriali. A fronte di uno strumento vocale non corposissimo, il soprano si concentra sulla caratterizzazione della delicata linea di canto di Cio-Cio-San, modulandola con filati in piano di singolare finezza, in cui non mancano diminuendi ad hoc, tesi a figurare le aspettative e le paure del personaggio. La cantante ben si districa col derisorio atteggiamento verso Yamadori e tratteggia con credibilità la progressiva corsa verso l’autodistruzione, che culminerà nella pregnante interpretazione del finale. Una performance degna di nota, che lascia qualche punto interrogativo su alcuni affondi sui gravi e sugli sbalzi sopra il rigo, in cui il soprano sembra essere meno a suo agio. Le faceva da spalla l’accorata Marvic Monreal, per estensione e timbro piuttosto adatta alla tormentata parte di Suzuki, forse non sempre iper penetrante, ma in grado di bilanciare qualche punto dall’emissione più ingolata con un notevole impegno interpretativo. Piero Pretti torna al Maggio nel superficiale ruolo di F. B. Pinkerton, confermando l’usuale squillo di una voce che soffre la mancanza di una tessitura più acuta, ma che comunque riesce a trovare un equilibrio in mezzo forte nelle insistenti frasi di centro, su cui l’inventiva diminuisce rispetto ai moti di rimorso o d’amore. Un ritorno anche per Nicola Alaimo, baritono dalla grande esperienza nell’opera buffa, che garantisce grande disinvoltura nella scena della lettura della lettera, dove la messa a punto del fraseggio, dell’emissione e delle soluzioni dinamiche traspira tutta la complessità di uno Sharpless di sentita umanità e lontano dall’emissione leggermente più fumosa della sortita. Intorno alla cerchia dei protagonisti si segnala l’efficace apporto del Goro di Oronzo D’Urso, tenore leggero pronto a fraseggiare con gusto e determinazione, mentre non proprio tonante è stata l’irruzione dello zio Bonzo di Bozhidar Bozhkilov, così come l’emissione di Davide Sodini (commissario imperiale) è risultata un po’ impastata nel dare lettura dell’atto di matrimonio. Completavano il quadro i convincenti e partecipativi interventi di Min Kim (contrito Yamadori) e Elizaveta Shuvalova (rattristata Kate Pinkerton), di Egidio Massimo Naccarato (ufficiale del registro), Giovanni Mazzei (Yakusidé) e gli schietti giudizi di Nadia Pirazzini, Thalida Marina Fogasari e Paola Leggeri, rispettivamente come madre, zia e cugina di Cio-Cio-San. Deciso il consenso di pubblico al termine della rappresentazione, in cui non è mancata una timida ovazione per la protagonista. Foto Michele Monasta
Roma, Palazzo delle Esposizioni
PIETRO RUFFO:L’ULTIMO MERAVIGLIOSO MINUTO
Roma, 28 Ottobre 2024
Dal 29 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025, il Palazzo delle Esposizioni di Roma si trasforma in un monumento dedicato all’arte contemporanea con la mostra personale di Pietro Ruffo, intitolata “L’ultimo meraviglioso minuto”. Curata da Sébastien Delot, direttore della collezione del Museo Nazionale Picasso di Parigi, l’esposizione è promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, che ne è anche produttrice e organizzatrice. Questa mostra rappresenta il culmine delle realizzazioni artistiche di Ruffo, la più grande esposizione personale che un’istituzione pubblica abbia mai dedicato al suo lavoro. Un’occasione straordinaria per immergersi in un viaggio attraverso le trame del tempo e dello spazio, culminante in un omaggio appassionato alla città eterna. Con oltre cinquanta opere realizzate specificamente per quattro delle sale del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni, Pietro Ruffo affronta uno dei temi più urgenti e complessi della nostra epoca: il rapporto tra l’essere umano e il pianeta. Con un approccio visionario e audace, l’artista invita i visitatori a esplorare il potenziale “meraviglioso” della nostra presenza sulla Terra, interrogandosi sulla potenza e la fragilità dell’interazione umana con l’ambiente naturale. Riconosciuto a livello internazionale, Ruffo è stato protagonista alla Biennale di Venezia del 2024 con una monumentale installazione dal titolo “L’immagine del mondo”, e alcune delle sue opere fanno parte di collezioni prestigiose come quelle dei Musei Vaticani, del MAXXI e della Deutsche Bank Foundation. La mostra al Palazzo delle Esposizioni segna un momento cruciale nella carriera dell’artista, evidenziando il dinamismo e la vitalità della sua ricerca espressiva. “L’ultimo meraviglioso minuto” si articola come un dialogo complesso tra passato, presente e futuro, giocando sulla dilatazione e contrazione del tempo e dello spazio. L’obiettivo è quello di condurre i visitatori attraverso ere che si estendono ben oltre la memoria collettiva: dalla storia del pianeta alla storia della nostra specie, in un’unica esperienza visiva che si sviluppa attraverso diverse sale espositive. L’avventura creativa ha origine durante la residenza di Ruffo presso la Nirox Foundation in Sudafrica, un’esperienza arricchita dall’incontro con Lee Berger, antropologo e paleontologo di fama mondiale. Questo incontro ha portato l’artista nel sito paleoantropologico noto come “La Culla dell’Umanità”, uno dei luoghi più emblematici della storia umana, situato nei pressi di Johannesburg, dove fu scoperto il primo primate della storia. Questa esperienza ha segnato profondamente l’opera di Ruffo, fornendo il contesto per un racconto che idealmente inizia 55 milioni di anni fa. La prima sala della mostra, intitolata “Le monde avant la création de l’homme”, trae ispirazione dal libro di Camille Flammarion del 1886, “Origines de la terre, origines de la vie, origines de l’humanité”. Ruffo esplora gli elementi caratteristici del pianeta pre-umano attraverso disegni realizzati con penna Bic, creando una foresta primordiale che avvolge l’intero spazio espositivo su una superficie di 700 metri quadrati. Questa imponente installazione circonda i visitatori con immagini di piante e minerali, evocando un’era in cui la giungla tropicale ricopriva gran parte delle terre emerse. Tuttavia, per quanto l’allestimento sia tecnicamente curato, la sua grandiosità sembra talvolta mancare di una vera coerenza emotiva, come se il rigore espositivo non riuscisse pienamente a trasmettere l’intensità primordiale che vuole evocare. Attraversata questa foresta, il pubblico si trova immerso tra le tracce di una vita antica. Ventuno opere circolari dal titolo “De Hortus” galleggiano come ninfee su un pavimento bianco, creando un’atmosfera visiva di forte impatto cromatico e simbolico, un richiamo alla vita vegetale che precedette e accompagnò i primi passi dell’evoluzione animale. Anche qui, nonostante l’evidente ricerca estetica, alcune scelte sembrano non sposarsi del tutto con l’intenzione dichiarata di evocare la bellezza primigenia del mondo naturale, risultando a tratti eccessivamente compiaciute e distanti dal tema. Il percorso della mostra si sviluppa poi nell’Antropocene, l’epoca geologica segnata dall’impatto dell’attività umana. La paleontoclimatologa Rebecca Wragg Sykes, riprendendo il “calendario cosmico” di Carl Sagan, ha descritto questa fase come una manciata di minuti nell’intero anno della storia dell’Universo. Ed è proprio a questi ultimi minuti, alla nostra era, che sono dedicate le tre sale successive. Nella seconda sala, opere su carta intelata con intagli e inchiostro di china ripercorrono l’evoluzione umana, dai Neanderthal di Saccopastore fino alle prime statuette votive, simbolo del pensiero astratto e delle prime società organizzate. La terza sala offre un radicale cambio di scenario con una video installazione intitolata “The Planetary Garden”, ispirata all’omonimo testo del filosofo francese Gilles Clément, che esplora la dinamicità e il cambiamento del paesaggio naturale. Nonostante la qualità tecnica delle opere e l’efficacia della video installazione, alcune delle scelte estetiche risultano discutibili, con una rappresentazione visiva che talvolta sembra non essere all’altezza della profondità dei concetti filosofici espressi, generando un senso di distanza tra forma e contenuto. L’ultima sala, “Antropocene attraverso le stratificazioni di Roma”, rappresenta un omaggio alla città eterna. Partendo dalle celebri mappe di Giovanni Battista Nolli e Luigi Canina, Ruffo reinterpreta la città fondendo squarci di paesaggi naturali inattesi, dal mare primordiale alla giungla tropicale, fino al contesto urbano attuale. Le opere esposte compongono un mosaico di momenti storici e futuri ipotetici, proponendo una riflessione sulle trasformazioni del paesaggio urbano e naturale. Anche in questo caso, nonostante l’abilità tecnica e l’erudizione che permea il lavoro, alcune delle scelte compositive appaiono poco in sintonia con la monumentalità del tema, come se il peso simbolico della storia di Roma non trovasse pieno riscontro nell’allestimento visivo proposto. Con il suo linguaggio visivo, Pietro Ruffo riesce comunque a far riscoprire l’infanzia del nostro pianeta, mettendo in luce la vitalità della Terra e la complessità delle sue trasformazioni. L’esposizione invita a una riflessione profonda e poetica sul significato della nostra presenza nel mondo, sottolineando l’importanza della meraviglia come strumento di comprensione e azione. Tuttavia, alcune delle scelte estetiche e allestitive sembrano ridurre l’impatto emotivo complessivo, lasciando talvolta un senso di incompletezza rispetto all’ambiziosa narrazione proposta. La mostra sarà accompagnata da un catalogo curato da Sébastien Delot, con contributi di Guido Rebecchini, Rebecca Wragg Sykes e Sofia Di Gravio, pubblicato da Drago.
Roma, EuropaFestival 2024
“NOTTE MORRICONE”
di Marcos Morau
Ennio Morricone, Marcos Morau, Centro Coreografico Nazionale/ Aterballetto
Regia e coreografia Marcos Morau
Musica Ennio Morricone
Direzione e adattamento musicale Maurizio Billi
Sound Design Alex Röser Vatiché, Ben Meerwein
Testi Carmina S. Belda
Set e luci Marc Salicrù
Costumi Silvia Delagneau
Danzatori Ana Patricia Alves Tavares, Elias Boersma, Estelle Bovay, Emiliana Campo, Albert Carol Perdiguer, Sara De Greef, Leonardo Farina, Matteo Fiorani, Matteo Fogli, Arianna Ganassi, Clément Haenen, Arianna Kob, Federica Lamonaca, Giovanni Leone, Ivana Mastroviti, Nolan Millioud
Direttore Gigi Cristoforetti
Direttrice di compagnia Sveva Berti
Produzione Fondazione Nazionale della Danza/ Aterballetto
Prima rappresentazione outdoor 1 agosto 2024
Commissione Macerata Opera Festival
Coproduzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Prima rappresentazione indoor
Roma, Teatro Argentina, 24 ottobre 2024
Una nuova vita e una diversa poesia è donata alle immagini musicali presenti nei capolavori del compositore Ennio Morricone nello spettacolo di Marcos Morau dal titolo Notte Morricone, presentato in prima nazionale indoor al Teatro Argentina il 24 ottobre 2024. Il buio della notte, una costruzione grigia con scritte dipinte su di essa, delle luci tremolanti che coinvolgono anche la sala, una ragazza che gira attorno al palcoscenico spinta su una sedia mentre indossa delle cuffie, lo straniamento derivato dal contrasto tra un operatore di scena e un uomo che osserva il movimento di un metronomo, tutto ciò fornisce l’ambientazione scenica che coinvolge lo spettatore in un clima quasi surreale. Diviene quasi un sollievo riconoscere una consolle musicale con due protagonisti maschili che vi si sfidano al di sopra, metafore dei contrasti interiori tra le diverse anime del nostro Morricone. E piano piano si costruisce lo spettacolo inglobando al suo interno i movimenti del corpo di ballo e soprattutto vivificandosi grazie alla musica del Grande Maestro. Le sue melodie tratte da capolavori come Nuovo Cinema Paradiso sono arrangiate da Maurizio Billi e registrate con l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, e qui sono rivelate nella loro estrema potenza suggestiva. Durante una conversazione con lo stesso Billi, il Maestro Morricone aveva affermato con sicurezza: «la mia musica non ha bisogno di stampelle…». E sicuramente lo sapevamo anche tutti noi, stimatori del grande compositore profondamente dedito alla cinematografia. Il vantaggio qui non è solo però di poterle ascoltare in una intelligente redazione musicale, ma anche di vederne il contenuto immaginifico incarnato nella coreografia di un visionario come Marcos Morau. Nell’atmosfera notturna, i suoni sprigionano la loro massimale potenza luminosa e si intensificano grazie all’intricato groviglio di movimenti del corpo di ballo, che nelle loro flessioni e involuzioni esprimono un dialogo interiore incessante, mai assopito, anche se associato ad un’anima sensibile. A rivelare quest’anima interviene dunque un emblematico pupazzo, caratteristico della figuratività teatrale di Morau, e qui volto a manifestare i sogni del bambino Morricone, che sperava di farsi strada e di creare qualcosa di grande anche per onorare l’amore dei genitori. Una profonda sensibilità che però necessita di sporcarsi le mani con il lavoro, di materializzarsi in un dinamismo costruttivo palesato dall’uso delle tute. Eppur non basta ancora, ecco aprirsi allora i pannelli mobili e comparire un pianoforte. Solo abbandonandosi allo slancio lirico si può arrivare ai vertici, solo in questo momento la coreografia può spingersi verso languide pose. Morau però procede per discordanze. Il lirismo si accompagna a frastuoni elettronici, la creazione coreografica si accosta al risuonare delle registrazioni della voce di Morricone. Ci confrontiamo a tratti con l’interiorità del Maestro, e in altri momenti con il mondo onirico inframezzato nelle sue composizioni. Non manca il riferimento ai film di Sergio Leone, agli spaghetti-western e all’assolo di tromba. Questo richiamo a una più diretta narratività guida Morau verso la riproduzione su uno schermo di scene tratte dai film. Prevale però il riferimento a Morricone uomo, alla sua carriera, ai premi Oscar, ed infine alla sua scomparsa che grazie all’eternarsi della musica non è del tutto assoluta. Il compositore prima della sua dipartita aveva scritto: «Io, Ennio Morricone, sono morto». Il coreografo di origine spagnola, recentemente nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese e selezionato come miglior coreografo dell’anno scorso dalla rivista tedesca TANZ, ci dimostra che tale affermazione non è affatto vera. Ai suoi occhi, «i creatori e gli artisti sempre ci lasciano senza lasciarci», e per questo lo spettacolo Notte Morricone rappresenta un regalo al Maestro, «un devoto tributo alla bellezza che ha donato al mondo». Spiega il coreografo: «Ennio Morricone potrebbe essere mio padre, o mio nonno, io sono un erede diretto della sua eredità, dei film che gli devono un debito incommensurabile (siano essi capolavori, buoni, mediocri o brutti). Fischiettare le sue melodie era già, prima di immergermi nella sua musica, un suono ricorrente nella mia vita… Ennio mise la sua creatività, la sua ispirazione, la sua eterodossia al servizio della ‘fabbrica dei sogni’, incorporando quei suoni nella nostra memoria, diventando un classico, incarnazione del compositore intellettuale, del musicista popolare e quasi di una rock star». Forse è il voler rendere l’idea di questa fabbrica a concretizzarsi in una certa artificiosa ingegnosità nel variegato costruirsi dello spettacolo, spettacolo che al di là di tutto è decisamente impattante, malioso e persino commovente. Merito anche della collaborazione con l’Aterballetto, divenuto Centro Coreografico Nazionale, e improntato alla centralità della musica nello spettacolo. Dopo il successo quest’estate al Macerata Opera Festival, lo spettacolo ha conquistato il pubblico del Romaeuropa Festival e sarà in scena al Teatro Argentina fino al 10 novembre nell’ambito della stagione del Teatro di Roma. Assolutamente da non perdere. Foto Christophe Bernard
Roma, arrivano i “Monumenti Sonori”
Un viaggio musicale attraverso la storia, dove le note di Puccini, Morricone e Respighi trasformano l’architettura in un palcoscenico a cielo aperto.
Roma, 25 Ottobre 2024
“Ogni luogo racconta una storia” è il motto che ha inaugurato un’iniziativa straordinaria, trasformando alcuni dei siti più iconici di Roma in “testimoni sonori”. L’esperienza immersiva conduce i visitatori tra arte, musica e storia, in un viaggio che sembra annullare le barriere del tempo. Sei percorsi sonorizzati en plein air, distribuiti in alcuni luoghi simbolici della Capitale, creano un dialogo suggestivo tra le melodie scelte e l’essenza storica dei siti, un vero e proprio viaggio multisensoriale. La musica diventa la voce della storia, gli dà una nuova vita, la rende tangibile, risuona tra le pietre e le architetture secolari. Il progetto Monumenti Sonori è stato inaugurato al Portico d’Ottavia, nel cuore del Ghetto Ebraico. Alla cerimonia di apertura erano presenti Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale, e Michele dall’Ongaro, presidente-sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Gli altri cinque monumenti coinvolti nell’iniziativa saranno rivelati nei prossimi mesi e il programma si estenderà fino a novembre 2025, con installazioni che interesseranno varie zone della città, dal Flaminio alla Magliana. Un sistema audio all’avanguardia, con altoparlanti integrati nell’ambiente, sfrutta le caratteristiche acustiche dei luoghi per creare un’esperienza sonora avvolgente, che permette di percepire ogni nota come se provenisse dalle stesse mura. L’innovativo l’“olofono”, sviluppato dal Centro Ricerche Musicali (Crm), orienta le emissioni sonore per creare spazi d’ascolto immersivi lungo il percorso. Le sonorità, così, sembrano emergere dagli ambienti stessi, la musica ti abbraccia e ti invita ad entrare. Il repertorio musicale scelto per “Monumenti Sonori” rende omaggio alla ricca tradizione musicale italiana, curato con maestria dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Tra i brani selezionati spiccano celebri capolavori come la Tosca di Giacomo Puccini, eseguita dall’Orchestra e dal Coro dell’Accademia, e i suggestivi poemi sinfonici di Ottorino Respighi, tra cui Pini di Roma, Feste romane e Fontane di Roma. Non mancano le emozionanti note del Love Theme composto da Andrea Morricone per la colonna sonora di Nuovo Cinema Paradiso, a cui si aggiungono le indimenticabili melodie di Ennio Morricone tratte dalla colonna sonora del film Mission. Il palcoscenico architettonico diventa in questo modo più che suggestivo e il visitatore non può che trovarsi sorprendentemente immerso in una sinfonia di emozioni. I percorsi sonorizzati sono accessibili gratuitamente, con due fasce orarie: dalle 11:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 18:00. Le diverse condizioni di luce e atmosfera offrono esperienze variabili, permettendo di cogliere le sfumature sonore in modi sempre nuovi, sia sotto la luce del giorno che nella morbidezza del tramonto. Questa iniziativa rientra nel più ampio progetto “Roma Smart Tourism”, che mira a valorizzare la Capitale con approcci innovativi alla fruizione culturale. L’obiettivo è restituire voce ai luoghi storici di Roma, risvegliando l’interesse di visitatori, turisti e cittadini romani. E la buona riuscita del progetto è il risultato di una sinergia tra varie istituzioni. Ideato dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e coordinato dal Dipartimento alle Attività Culturali, ha visto la collaborazione della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e della Fondazione Cinema per Roma. La direzione artistica è stata affidata all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, supportata dal Centro Ricerche Musicali (Crm), che ha condotto un’approfondita indagine artistica e tecnica sui monumenti coinvolti. Il coordinamento organizzativo è stato curato da Zètema Progetto Cultura. Monumenti Sonori rappresenta un ponte tra passato e presente, tradizione e innovazione, promettendo di lasciare un’impronta indelebile nella percezione dei luoghi storici di Roma. Le maestose note musicali rinnovano il legame tra la città e le sue storie meno note, creando un racconto che si diffonde e rimane impresso nella memoria di chi lo vive. I luoghi si trasformano in scrigni di suoni che, pur confinati nello spazio, continuano a riecheggiare nel tempo, arricchendo il patrimonio culturale della Capitale e l’anima di chi li visita.
Piacenza, Teatro Municipale, Stagione Opera 2023/2024
“MOSÈ IN EGITTO”
Azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Mosè MICHELE PERTUSI
Osiride DAVE MONACO
Amaltea MARIAM BATTISTELLI
Faraone ANDREA PELLEGRINI
Elcia AIDA PASCU
Amenofi ANGELA SCHISANO
Mambre ANDREA GALLI
Aronne MATTEO MEZZARO
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro lirico di Modena
Direttore Giovanni Di Stefano
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Pier Francesco Maestrini
Scene e video Nicolás Boni
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Bruno Ciulli
Nuovo allestimento del Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena in comproduzione con Teatro Municipale di Piacenza e Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia
Piacenza, 28 ottobre 2024
Mosè in Emilia: inaugurata la stagione a Modena, riversato su YouTube da Opera Streaming, fa il suo trionfale ingresso a Piacenza. Dove il pubblico migliore del mondo lo attendeva in trepidante eccitazione: “stai attenta alla preghiera alla fine: sentirai!” raccomanda chi “a casa ho anche il disco”. Ma poi precisa: “io c’ho il Mosè, senza in Egitto, ma per il grosso la musica è la stessa”. Il musicologo e il rossinista storcano i loro nasi: la sintesi è di indubbia efficacia. Pubblico migliore del mondo (va bene: al netto delle caramelle), si diceva, perché gaudente, sincero, amante. E, come ogni amante che si rispetti, cieco. Cieco a certi inveterati vezzi della messa in scena, quali pugnali che per buone mezz’ore vanno minacciando ugole cantanti, o palmi di mano che si levano scattanti con tutti i ditini ben ritti e staccati. Per non dire del piè furtivo mosso dal corista che, col favor delle tenebre (e del light designer, qui Bruno Ciulli), si piazza in scena, bell’e pronto per il suo prossimo intervento, mentre solo qualche centimetro più avanti qualcuno sta ancora finendo la propria intima aria. Pier Francesco Maestrini ci mette, insomma, il solito mestiere e ne viene una narrazione piana se non piatta. L’impianto visivo di Nicolás Boni è piuttosto astuto: un fondale animato e un eterno tulle su cui la stessa immagine del fondale fa da quintatura. C’è qualche remoto richiamo al bozzettismo ottocentesco (tardo però, soprattutto la grotta), ma l’immagine digitale si tradisce subito e fa parecchio videogioco. Per inciso, il Mosè rossiniano è protagonista di una delle prime proiezioni in movimento sulla scena lirica: a tentarla fu niente meno che Nicola Benois, alla Scala, nel 1937. Giustamente il pubblico amante non si cura troppo di queste cose e va al sodo: le voci. Michele Pertusi brilla per la bellezza della linea del canto, lubrificata dal mezzo così pastoso e morbido che gli conosciamo. Già “Celeste man placata” è una delizia, e poi la famigerata preghiera, bissata a furor di popolo in un pianissimo smorzato, quasi fosse un “a sé”, una preghiera interiore, di grande effetto. Si difende da cotanto Mosè il Faraone di Andrea Pellegrini, giovane voce che abbiamo già ascoltato in tutti i ruoli di fianco possibili e immaginabili. Il timbro è molto bello, mostoso, e il cantante sensibilissimo all’accento, alla parola, alle intenzioni. Ma a stupire per varietà di colori, d’accenti, di dinamiche, in un fraseggio articolato, vario, cangiante, sfumato, iridescente (può bastare?) è l’Osiride di Dave Monaco, dal timbro fresco, limpido, etereo e solare. Accanto a lui l’Elcia di Aida Pascu, voce nerboruta dai centri solidissimi, qualche spigolosità la rivela negli acuti. Amaltea è Mariam Battistelli, bellissima nella sua armatura da guerriera spaziale (i costumi sono di Stefania Scaraggi), chiara fresca e dolce voce di lussureggiante giovinezza ma irrimediabilmente, anzi irresistibilmente “lezzera”. Nelle parti di fianco spicca l’Aronne sonoro netto e squillante di Matteo Mezzaro, accanto all’Amenofi avvolgente e scura di Angela Schisano, e al maligno Mambre di Andrea Galli. L’Orchestra Filarmonica Italiana diretta da Giovanni Di Stefano oscilla lodevolmente fra complicità cameristiche e turgori romantici, mentre il Coro lirico di Modena di Giovanni Farina scandisce con suono netto e compatto il protagonistico lignaggio del proprio ruolo. Lo spettacolo approderà ancora a Reggio Emilia il 15 e 17 novembre prossimi. Foto Rolando Paolo Guerzoni
Novara, Teatro C. Coccio, stagione d’opera 2024
“LA BENEDIZIONE”
Opera in un atto su libretto di Marco Malvaldi
Musica di Cristian Carrara
Buoso MARCELLO ROSIELLO
Zita FRANCESCA MERCURIALI
Gherardo XIAOSEN SU
Simone STEFANO PARADISO
Rinuccio NICOLA DI FILIPPO
Un frate EUGENIO DI LIETO
“GIANNI SCHICCHI”
Opera in un atto su libretto di Gioacchino Forzano
Musica di Giacomo Puccini
Giani Schicchi MARCELLO ROSIELLO
Lauretta BEATRICE CATERINO
Rinuccio NICOLA DI FILIPPO
Zita FRANCESCA MERCURIALI
Gherardo XIAOSEN SU
Nella ZI JING
Gherardino GIULIO ONGERI
Betto di Signa EUGENIO DI LIETO
Simone STEFANO PARADISO
Marco LORENZO LIBERALI
La Ciesca MARIATERESA FEDERICO
Maestro Spinelloccio/ Ser Amantio RANYI JIANG
Guccio ALBERTO PAROLA
Pinellino JESUS NOGUERA
Buoso Doati DANIELE GUIDA
Orchestra Bazzini Consort
Direttore Vittorio Parisi
Regia Teresa Gargano
Scene Lorenzo Mazzoletti
Costumi Silvia Lumes
Novara, 25 ottobre 2024
Spettacolo annuale del progetto AMO, la scuola di formazione per giovani cantanti portata avanti dal Teatro Coccia, questo dittico segue l’ormai consueta formula di affiancare un’opera di tradizione – quest’anno il ciclo delle farse rossiniane è stato interrotto da “Gianni Schicchi” all’interno delle celebrazioni pucciniane – a un nuovo lavoro introduttivo, appositamente commissionato e in qualche modo legato all’opera di repertorio. Questa volta l’obiettivo è stato pienamente raggiunto sul piano tematico essendo “La benedizione” con musiche di Cristian Carrara su libretto di Marco Malvaldi di fatto un prologo al “Gianni Schicchi” in cui si raccontano la morte di Buoso e le ragioni del testamento a favore dei Minori di Santa Reparata.
Teatralmente il nuovo lavoro funziona bene, è breve – poco più di mezz’ora di musica – e il libretto di Malvaldi con la sua ironia un po’ lugubre si fa decisamente apprezzare. La musica di Carrara è sostanzialmente tonale e d’impianto tradizionale. Lo scrittura orchestrale è di buona fattura e l’aspetto sinfonico non manca di colpire positivamente. latitano invece un maggior senso melodico e un maggior abbandono alla cantabilità, così che la parte vocale si riduce a un declamato teatralmente funzionale ma alla lunga fin troppo ripetitivo.
La parte musicale è stata affidata all’Orchestra Bazzini Consort, compagine bresciana formata da giovani musicisti e guidata per l’occasione da Vittorio Parisi. Si tratta di una formazione quasi amatoriale nata dall’iniziativa degli stessi strumentisti ma nel complesso capace di fornire una prestazione convincente con buona compattezza sonora e in cui si riconosce un notevole impegno. La direzione cerca soprattutto una quadratura complessiva dello spettacolo, sostenendo un cast d’interpreti alle prime armi e riuscendo a garantire una buona tenuta dell’insieme.
Lo spettacolo è una sorta di saggio per i ragazzi del progetto AMO e come tale deve essere considerato risultando evidente, da parte di tutti, una certa immaturità. Unico interprete di esperienza – e presenza abituale sulle scene novaresi – Marcello Rosiello fa un po’ da chioccia per il gruppo dei giovani impegnandosi nel doppio ruolo di Buoso e di Gianni Schicchi. La voce è solida anche se un po’ arida sul piano timbrico, la dizione però è ottima – fondamentale in parti di questo tipo – e il personaggio è ben colto, senza eccessi caricaturali e con una sobrietà complessiva che si apprezza sempre. Forse un accento più sfumato e cangiante non sarebbe stato sgradito ma la prova nel complesso è stata di convincente solidità. Alcuni cantanti partecipano a entrambe le opere. Eugenio di Lieto (un frate e Betto) ci è parso uno dei più solidi, con una buona voce di basso e una corretta linea vocale. Il Rinuccio di Nicola di Filippo ha una buona voce squillante e un’innegabile simpatia scenica però nello stornello è ancora un po’ generico e appare evidente una necessità di maturazione sia vocale sia interpretativa. Funzionale – soprattutto scenicamente – il Gherardo di Xiaosen Su. La Zita di Francesca Mercuriali manca purtroppo di un registro grave solido quale la parte richiede mentre il Simone di Stefano Paradiso non appare ancora centrato sufficientemente. Tra i cantanti presenti solo nel titolo pucciniano ci è parsa alquanto “acerba” la Lauretta di Beatrice Caterino mentre funzionano meglio – nella brevità delle loro parti – la Cesca di Mariateresa Federico e la Nella di Zi Jing. Di anonima correttezza gli altri. Lo spettacolo firmato da Teresa Gargano ha il merito di mantenere una forte coerenza tra le due opere unite dallo spazio scenico oltre che dal racconto. L’ambientazione è contemporanea – e in un’opera come lo Schicchi manca il medioevo di cui libretto e musica sono così profondamente impastati – con tinte fosche e caratterizzazioni grottesche, palese il riferimento a una certa cinematografia italiana – “Parenti, serpenti” di Monicelli su tutti. Si nota il lavoro di preparazione attoriale – tanto più importante con interpreti così giovani e inesperti – e nel complesso la parte visiva riesce a divertire. Le scene di Lorenzo Mazzoletti con il loro gusto un po’ gotico e le citazioni fiorentine non mancano di efficacia visiva, più anonimi i costumi di Silvia Lumes.
Rho (MI), Teatro Civico Roberto da Silva, Stagione 2024/25
“MADAMA BUTTERFLY”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San DARIA MASIERO
Pinkerton GIUSEPPE DISTEFANO
Sharpless FRANCESCO LA GATTUTA
Goro GIACOMO LEONE
Suzuki CARLOTTA VICHI
Il Principe Yamadori YIMING GUO
Lo zio Bonzo GIACOMO PIERACCI
Kate Pinkerton BRONISŁAWA SOBIERAJSKA
Il Commissario Imperiale LIU ALL SONG HAO
Coro e Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Riccardo Bianchi
Maestro del coro Paolo Targa
Regia e Scene Stefano Monti
Costumi Desirée Costanzo e Allegra Montanelli
Movimenti mimici Monique Arnaud
Nuova produzione International Music and Arts in coproduzione con Teatro Civico Roberto De Silva, Fondazione “U. Artioli” Mantova Capitale Europea dello Spettacolo, Teatro Splendor Aosta
Rho (MI), 25 ottobre 2024
C’è una buona notizia al principio di questa recensione: il Comune di Rho, città metropolitana di Milano, per anni considerato il simbolo delle cosiddette “città-dormitorio“ fuori dal capoluogo meneghino, ha un nuovo teatro, bello, della giusta grandezza, con una buca per l’orchestra piccola ma molto profonda, in grado di ospitare compagini di una trentina di strumenti, e una acustica sorprendente; non solo: il Teatro Civico Roberto da Silva ha una stagione ricca, che comprende prosa di alto livello, musica sinfonica d’eccezione (quest’anno vi dirigeranno Pappano e Fasolis) e opera – non potevamo, dunque, farci scappare la loro prima, vera produzione, “Madama Butterfly”. Il dubbio che si tratti di una produzione di serie B viene immediatamente fugato dalla locandina, ove compaiono coro, orchestra, giovani artisti in carriera, e altre due realtà coproduttrici (il Teatro Splendor di Aosta e la Fondazione “U. Artioli” Mantova Capitale Europea dello Spettacolo di Mantova). La compagnia musicale vede senz’altro distinguersi il direttore d’orchestra, Riccardo Bianchi: la sua conduzione energica, senza dubbio personale, non tradisce tuttavia lo spirito più radicale, sofferto della partitura pucciniana; l’Orchestra Filarmonica Italiana, per l’occasione composta da trentuno elementi, non fa certo rimpiangere compagini più numerose, grazie a un suono potentemente coeso, ove senza dubbio spiccano gli archi; anche il rapporto con la scena è preciso e puntuale, e Bianchi si mostra sapiente mediatore tra rispetto filologico e convenzioni della concertazione. Il secondo astro della serata è Daria Masiero, esperta e apprezzata interprete del ruolo: la sua Butterfly è vocalmente morbida e tenace, passa con maestria dai filati più evanescenti al temperamento più passionale mettendo in evidenza un registro sempre brillante e una grazia smaltata e ardente allo stesso tempo, con una linea di canto sempre elegante. Accanto a lei ritroviamo la buona Carlotta Vichi nei panni di Suzuki, che abbiamo appena ascoltato a Savona nello stesso ruolo, riconferma il bel colore vocale, la solida tecnica, unite a un fraseggio accurato e a una efficace naturalezza scenica. Più alterno il Pinkerton d Giuseppe Distefano che mostra, almeno in questa occasione delle pecche nell’emissione con suoni sfocati o che risultano quasi metallici. Di conseguenza il fraseggio ne esce fortemente penalizzato. Complessivamente valida la prova di Francesco La Gattuta (Sharpless) soprattutto a partire dal secondo atto nel quale il baritono mostra una vocalità fresca e morbida. Di pregio il Goro di Giacomo Leone, soprattutto per la bellezza del colore vocale, oltre che per l’impegno profuso in scena. Nell’alveo della correttezza anche le altre performance: lo zio bonzo di Giacomo Pieratti, il Principe Yamadori di Yiming Guo, il Commissario Imperiale di Liu All Song Hao e la Kate Pinkerton di Bronisława Sobierajska, quest’ultima dalle screziature insolitamente e piacevolmente brunite. L’apporto del Coro è pure molto convincente – un plauso al maestro Paolo Targa –, mentre ci lascia più perplesso l’apparato scenico curato da Stefano Monti: la scelta è quella di un Giappone minimale, proiezioni sullo sfondo e tre grandi paraventi soli in scena, che vengono spostati, aperti e chiusi, per ricreare spazi diversi. Pur apprezzando questa idea, e anche la fattura degli oggetti di scena, troviamo le proiezioni alle spalle degli interpreti non solo di produzione scadente (sembrano una presentazione di PowerPoint), ma anche poco significative e dall’arbitrario valore artistico; anche un paio di trovate della regia non ci paiono persuasive – nella fattispecie: la presenza di un mimo silenzioso (Monique Arnaud) in abito tradizionale che durante alcune scene compare per danzare, o muovere oggetti, non sempre in maniera godibile, mai in maniera comprensibile per il pubblico; e l’uso di proiezioni dietro i paraventi, belle e di tradizione, ma che, ad esempio, anticipano al pubblico la presenza del piccolo Dolore (che, invece, molto presumibilmente, negli intenti originali dovrebbe rappresentare il colpo di scena del secondo atto). Inoltre la regia in quanto tale è troppo statica rispetto alla ricchissima drammaturgia musicale di Puccini: spesso i cantanti sono immobili, si osservano, a volte aspettano chiaramente di cantare, ma la cosa forse più stonata è il chiarissimo disagio durante il duetto d’amore del primo atto, in cui Pinkerton e Cio-Cio-San a malapena si toccano (in barba ai vari “Sei mia” e “Ti tengo”), cantandosi semplicemente addosso in maniera un po’ straniante. Insomma, la netta sensazione è che la regia sia composta di elementi slegati tra di loro, senza tener del giusto conto di ciò che Giacosa e Illica, ma soprattutto Puccini, hanno lasciato scritto.
Venezia, Festival “Passione violoncello”, 21 settembre-24 ottobre 2024
“IL TEMPO RITROVATO”
Violoncello Miriam Prandi
Pianoforte Gabriele Carcano
Claude Debussy: Sonate pour violoncelle et piano en ré mineur; Nadia Boulanger: Trois Pièces pour violoncelle et piano; César Franck: Sonate pour violon et piano en la majeur (transcrite pour violoncelle et piano)
Venezia, 24 ottobre 2024
Non poteva concludersi in un modo migliore il mirabolante viaggio virtuale alla scoperta del violoncello, iniziato il 21 settembre, su iniziativa del Centre de Musique Romantique Française, nella sontuosa sala capitolare della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista e proseguito nella deliziosa sala dei concerti del Palazzetto Bru Zane. L’ultimo concerto, infatti, si è svolto all’insegna della finezza interpretativa e della padronanza tecnica, del puro piacere estetico e dell’emozionata partecipazione del pubblico. Complici i due solisti, entrambi italiani, già affermatisi nel panorama internazionale, nonostante la loro ancora giovane età – Miriam Prandi al violoncello e Gabriele Carcano al pianoforte –, che hanno mirabilmente interpretato tre composizioni di indubbio fascino: La Sonata per violoncello e pianoforte di Claude Debussy, i Tre pezzi per violoncello e pianoforte di Nadia Boulanger, una trascrizione per violoncello e pianoforte della celebre Sonata per violino e pianoforte di César Franck. E proprio a quest’ultima si riferisce il rimando proustiano contenuto nel titolo, assegnato all’evento di cui trattiamo: è possibile, infatti, che Proust pensasse proprio al capolavoro del compositore belga, quando nella Recherche si riferisce all’enigmatica quanto immaginaria “Sonata di Vinteuil”, contenente la “petite phrase”, che Swann associa – ogni qual volta la sente – all’amata Odette. Nella realtà storica la Sonata di Franck lasciò un’impronta duratura sulla musica francese a cavallo tra Otto e Novecento. Nadia Boulanger, che nasce nello stesso anno della prima esecuzione parigina della Sonata, raccoglie il retaggio di Franck, ma è anche interessata alla rivoluzione di Debussy, che ha segnato un punto di svolta nella Francia musicale di inizio secolo. Questa dunque la ratio sottesa ai pezzi in programma nella serata, che il duo Prandi-Carcano ha eseguito, tra l’altro, con grande sensibilità e adeguatezza stilistica.
Veramente notevole la prestazione offerta da Miriam Prandi, che si è segnalata per la bellezza del suono, l’eleganza del fraseggio, la varietà degli accenti, ora ruvidi e perentori ora delicati e sognanti, oltre che per la perfetta concentrazione dimostrata durante ogni esecuzione, quasi che l’artista si estraniasse completamente dalla vita reale per immergersi in una dimensione, nella quale ogni sua fibra vibrava insieme allo strumento, cassa di risonanza del suo profondo sentire. Assolutamente encomiabile anche Gabriele Carcano, che ha dimostrato un’analoga capacità di immedesimarsi totalmente nella musica, facendosi apprezzare per l’estrema sensibilità e la profonda partecipazione, con cui ha interagito con la violoncellista, grazie anche ad un sicuro dominio della tastiera, da cui ha saputo trarre una ricchezza di colori e di accenti, davvero straordinaria. In un’aura notturna, lunare ci ha immerso la Sonata di Debussy – che l’autore voleva inizialmente intitolare “Pierrot faché avec la Lune” –, di cui si è pienamente apprezzato il colore armonico, prevalente in questo pezzo sulle linee melodiche. Molto espressivo, tra contrasti e sfumature, il dialogo tra i due strumenti: nel perentorio Prologo, che termina con con un diafano suono armonico del violoncello; nella Serenata, dove alla sognante linea melodica del violoncello il pianoforte ha contrapposto secchi accordi di chitarra stilizzata; nell’animato Finale concluso da una una strappata del violoncello e un secco accordo del pianoforte. Analogamente variegata l’espressività nei Tre pezzi di Nadia Boulanger: estatico il primo, dolcemente malinconico il secondo, dionisiaco il terzo. Strepitosa l’esecuzione della Sonata di Franck, trascritta per violoncello e pianoforte: un arrangiamento – verosimilmente quello realizzato da Jules Desart – molto fedele all’originale, che lascia intatta la parte del pianoforte e traspone quella del violino all’ottava inferiore solo quando risulta opportuno. Espressivo il pianoforte in apertura del primo movimento, Allegretto ben moderato, con i suoi pacati accordi introduttivi, prima che, alla quinta battuta, entrasse il violoncello con un leggiadro tema dal caratteristico andamento altalenante, il cui nucleo, rielaborato, sarebbe ritornato ciclicamente in tutta la sonata; un secondo tema dai toni quasi supplichevoli è stato poi introdotto dal pianoforte, dopodiché alcune modulazioni hanno rasserenato il clima espressivo, fino alla coda dolce e cullante. Emotivamente intenso, pervaso da accenti palpitanti, a volte drammatici – che ricordano il Quintetto in fa minore –, è risultato il secondo movimento, Allegro, aperto dagli arpeggi del pianoforte, da cui è emerso il primo tema, che si richiama all’idea ciclica, poi ripreso dal violoncello; una seconda idea tematica, triste e desolata, essa pure derivata dall’idea generatrice, ha rappresentato, in questo movimento turbinoso, una fase distensiva, consentendo al violoncello, cui era affidata, di mettersi in luce sopra arpeggi in terzine del pianoforte; successivamente sono riaffiorati, tramite brevi richiami, i temi precedenti, prima dell’impetuosa chiusura tra arpeggi e trilli dei due strumenti. Originale per concezione e struttura, il terzo movimento, Recitativo-Fantasia – altamente lirico e misterioso, nonché caratterizzato da passaggi a varie tonalità –, si è aperto con un lungo recitativo magnificamente eseguito dal violoncello, intervallato dal tema ciclico espresso con pari efficacia dal pianoforte, prima della comparsa di un nuovo tema, dapprima tranquillo, poi via via più drammatico e più volte elaborato, che si sarebbe poi ripresentato nel movimento successivo; più oltre la forte carica espressiva si è stemperata nel pianissimo che ha chiuso il movimento. Introdotto da un disegno imitativo, il quarto movimento, Allegretto poco mosso – che si sviluppa con un procedimento a canone, di cui César Franck è grande maestro – ha visto l’alternarsi di episodi e ritornello, via via riproposti in tonalità differenti, oltre al riapparire del tema presentato per la prima volta nel terzo tempo così come dell’idea tematica principale, prima della brillante chiusura, animata dai trilli del violoncello. Scrosciati applausi alla fine, placati da un bis: il Largo dalla Sonata per violoncello e pianoforte di Chopin, in cui il violoncello ha sfoggiato una serie di piano a dir poco sublimi.
Mache dich, mein Geist, bereit BWV 115 è la seconda delle tre Cantate bachiane giunte a noi e destinate alla ventiduesima domenica dopo la Trinità. Eseguita per la prima volta a Lipsia il 5 novembre 1724, questa partitura ha alla base l’inno omonimo di Johann Burchard Freystein (1671-1718) un importante esponente della vita sociale di Dresda, consigliere di Corte e di Giustizia. L’inno che costituisce un invito a tenersi sempre pronti ad invocare il soccorso Divino e a respingere le tentazioni di Satana in vista del giudizio finale è costruito in 10 strofe musicate nel 1655, da Johann Rosenmüller (1615-1684) uno dei collaboratori di Tobias Michael (1592-1657) Thomaskantor a Lipsia dal 1647 al 1655. Apparentemente il testo sembra avere rapporti con le letture evangeliche, ma in realtà il lied vuole cogliere il messaggio che punta a voler impetrare il perdono Divino. Su questo stimolante invito, Bach costruisce un altro dei suoi capolavori, l’ennesima vetta in un panorama che pare non conoscere limiti ne pecche. La Fantasia su Corale che apre la partitura, nonostante la sua brevità, è articolata in modo assai complesso, un perfetto esempio di quella concisione, eleganza e ricercatezza che Bach sa profondere a piene mani in ogni momento. Le due arie con “da capo” in un andamento “Adagio” e “Molto Adagio” evitano la monotonia espressiva mediante di precisi colorismi strumentali. La prima aria (nr.2) per contralto impiega l’oboe d’amore e gli archi, in un tempo di “Siciliana”, affiancandosi alla tipologia delle melodrammatiche “arie del sonno”, sostenuta dalle regolari pulsazioni del Continuo, con una particolare attenzione delle differenziazioni dei piani e dei pesi sonori, nonché delle pause che gli interrogativi del testo suggeriscono. La seconda aria (Nr.4) per soprano, impone un impegnativo “tour de force” contrappuntistico al flauto e al violoncello piccolo. La lentezza dell’accompagnamento viene compensata dal fluttuante e fluido dipanarsi del motivo melodico.
Nr.1 – Coro
Preparati, anima mia,
veglia, implora e prega
che il momento del Male non arrivi
su di te all’improvviso;
poiché
l’astuzia di Satana
sa indurre i giusti
in tentazione.
Nr.2 – Aria (Contralto)
O anima addormentata, come? Dormi ancora?
Svegliati subito!
Il giudizio potrebbe coglierti all’improvviso
e, se tu non ti svegli,
potrebbe avvolgerti nel sonno della morte eterna.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
Dio, che veglia sulla tua anima,
detesta la notte del peccato;
ti invia la sua luce di grazia
ed in cambio dei suoi doni,
che ti ha abbondantemente promesso,
desidera che tu apra gli occhi dello spirito.
Non c’è limite all’astuzia di Satana
per sedurre i peccatori;
se tu stesso ora spezzi il patto di grazia
non avrai più il soccorso.
Il mondo intero ed i suoi componenti
non sono altro che falsi fratelli;
eppure la tua carne ed il tuo sangue
cercano le loro lusinghe.
Nr.4 – Aria su Corale (Soprano)
Prega allora
finchè sei sveglia!
Per la tua grande colpa implora
la pietà del tuo Giudice,
affinchè ti liberi dal peccato
e ti purifichi!
Nr.5 – Recitativo (Tenore)
Egli si commuove per i tuoi pianti,
volge ad essi le sue orecchie benigne;
se i nemici gioiscono delle nostre sventure,
noi vinceremo grazie al suo potere:
poiché suo Figlio, che noi preghiamo,
crea in noi coraggio e forza
e verrà in nostro soccorso.
Nr.6 – Corale
Allora dobbiamo sempre
vegliare, implorare, pregare,
poiché paura, angoscia, pericolo
si avvicinano sempre di più;
ma non è lontano
il momento in cui
Dio ci giudicherà
distruggendo il mondo.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Accademia Nazionale di San Luca
ALIGHIERO E BOETTI. RADDOPPIARE DIMEZZANDO
La mostra Alighiero e Boetti. Raddoppiare dimezzando ha ormai aperto le sue porte al pubblico presso l’Accademia Nazionale di San Luca, offrendo un’occasione unica per esplorare l’opera di uno degli artisti più rivoluzionari del XX secolo. Curata da Marco Tirelli e ideata insieme a Caterina Boetti, la mostra rappresenta non solo un tributo, ma un dialogo intimo e profondo con l’eredità di Alighiero Boetti, nel trentennale della sua scomparsa. Il percorso espositivo si snoda attraverso gli spazi suggestivi di Palazzo Carpegna, con le opere collocate nel Salone d’Onore, nella Sala bianca e sotto il porticato borrominiano. Le scelte curatoriali di Marco Tirelli, noto per la sua capacità di creare atmosfere sospese e meditative, hanno saputo esaltare la complessità dell’opera di Boetti, mettendo in rilievo i temi centrali della sua ricerca: il doppio, la moltiplicazione e la frammentazione. Nelle sale, si percepisce un silenzio denso di significato, che avvolge il visitatore in un dialogo visivo con le opere. Tra i lavori esposti, le famose Mappe di Boetti catturano l’attenzione con la loro maestosità: i confini del mondo sono ridisegnati attraverso ricami colorati, che raccontano non solo una geografia politica, ma una riflessione profonda sull’idea di identità e appartenenza. La moltiplicazione dei segni e delle bandiere diventa simbolo di un mondo frammentato, dove l’individualità si scontra con la globalità. Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è la sua capacità di far dialogare le opere con l’architettura del Palazzo. Nel porticato borrominiano, i lavori di Boetti si fondono con la luce naturale, creando un gioco di ombre che amplifica il concetto di raddoppiare dimezzando. La presenza fisica delle opere, che si espande nello spazio, riflette quel senso di crescita organica che caratterizza tutta la produzione dell’artista. Come sottolinea Marco Tirelli, “nessuna opera di Alighiero si esaurisce in sé stessa; apre sempre a un altro senso, a nuove interpretazioni”. La curatela di Tirelli, supportata dalla profonda conoscenza dell’opera del padre da parte di Caterina Boetti, offre al visitatore una lettura sfaccettata e raffinata, dove la potenza concettuale di Boetti è valorizzata attraverso un allestimento che ne esalta la poeticità e la profondità filosofica. La mostra non si limita a esporre opere, ma diventa un’esperienza immersiva, in cui lo spettatore è invitato a riflettere sul rapporto tra l’uno e il molteplice, tra l’ordine e il caos. L’inaugurazione ha segnato un momento di grande partecipazione culturale, con critici e appassionati d’arte che hanno elogiato la coerenza e l’eleganza della mostra. La scelta di esporre opere simboliche come le Mappe, accanto a lavori meno noti ma altrettanto emblematici del percorso di Boetti, dimostra un approccio curatoriale che guarda alla totalità dell’opera dell’artista, senza limitarla a categorie o periodi storici. Con Raddoppiare dimezzando, la mostra non solo celebra la memoria di Alighiero Boetti, ma offre una chiave di lettura contemporanea del suo pensiero, capace di interrogare lo spettatore sulle sfide del presente. Attraverso le opere, emerge la forza innovativa di un artista che ha saputo giocare con i confini dell’arte, della geometria e della filosofia, lasciando un’impronta indelebile nella storia culturale. L’installazione, tra rigore concettuale e vibrante poesia, si presenta così come una delle più significative manifestazioni artistiche dell’anno, un invito a scoprire (o riscoprire) l’universo di Alighiero Boetti con uno sguardo nuovo, capace di cogliere le infinite sfaccettature del suo pensiero.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
regia Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Roma, 25 Ottobre 2024
Roberto Saviano e Mimmo Borrelli presentano “Sanghenapule. Vita straordinaria di San Gennaro”, un’opera densa di pathos che disvela la Napoli più profonda, quella delle periferie marginali e dei segreti sepolti sotto la sua superficie. Il testo, scaturito dalla collaborazione tra Saviano e Borrelli, esplora la città nelle sue intrinseche contraddizioni: un locus di brutalità e speranza, che si dipana sul palcoscenico attraverso una drammaturgia pervasa di tensione e di poesia oscura. Napoli è una città che vive in un equilibrio precario tra il sacro e il profano, un luogo in cui la bellezza coesiste con la tragedia, e la storia si intreccia con il mito. È una polis di fuoco e sangue, ove il Vesuvio si erge come un guardiano silente e minaccioso, emblema della forza primordiale che la contraddistingue. Napoli è un mosaico di storie ataviche, di personaggi che si muovono nei vicoli angusti, di preghiere sussurrate e di grida disperate. La sua anima si alimenta di contrasti: la devozione religiosa si interseca con la violenza della strada, l’opulenza barocca dei suoi edifici storici con la povertà che serpeggia nei suoi quartieri popolari. È un luogo in cui ogni pietra reca il racconto di resistenza e sopravvivenza, in cui il folklore diventa atto di sfida alla sofferenza quotidiana. In questo spettacolo, che intreccia narrazione e poesia, Borrelli e Saviano conducono lo spettatore nel cuore incandescente di Napoli, dove convivono mistero e contraddizione. Attraverso un linguaggio denso di forza espressiva, i due attori ripercorrono le tappe di una storia che si snoda in equilibrio fra il sacro e il profano, tra il mondo celeste e quello sotterraneo. Il tema del sangue diviene il filo conduttore che lega la narrazione, dalle antiche storie di martiri sino al presente, evocando la sofferenza e la resistenza di una città che lotta incessantemente contro l’oppressione. È il sangue che si scioglie ogni anno in segno di speranza; è il sangue dei martiri della fede e dei “martiri laici” della Repubblica Partenopea, che nel tardo Settecento tentò di contrapporsi all’oppressione borbonica; è l’emorragia dei migranti che lasciarono Napoli nei primi decenni del Novecento, in cerca di un futuro migliore; è il sangue degli innocenti falciati dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale e delle vittime della camorra. La regia di Mimmo Borrelli è rigorosa ed essenziale, volta a cogliere la forza primordiale del testo senza concessioni al superfluo. Borrelli modella la scena come un’incudine su cui forgiare l’anima di Napoli, scandendo il ritmo con cambi repentini e pause che divengono respiri profondi, indispensabili per immergersi nell’abisso della città. Ogni dettaglio della regia mira a scuotere lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con la crudezza della realtà napoletana, in un percorso che lo conduce nei vicoli bui e senza tregua di una città che ride e sanguina, vive e muore. La trama si dipana attraverso narrazioni intime e confessioni, esplorando una Napoli percorsa da contrasti e popolata da un’umanità dolente. Saviano e Borrelli danno voce a personaggi che si dibattono tra miseria e speranza, con una presenza scenica carismatica e densa di pathos. Saviano, con la sua parola acuminata e tagliente, si fa testimone delle storie di dolore e resistenza; Borrelli, con la sua voce potente e una gestualità evocativa, dà corpo al dolore e alla rabbia di Napoli, in una performance che rasenta il rituale, carica di autenticità e di una forza ancestrale. La scenografia di Luigi Ferrigno è ridotta all’essenziale: pochi elementi suggeriscono una Napoli oscura, fatta di vicoli angusti e di interni modesti, con il Vesuvio che incombe sullo sfondo come un monito perenne. I costumi di Enzo Pirozzi rievocano l’iconografia tradizionale in modo sobrio ed efficace, mentre le luci di Salvatore Palladino creano atmosfere crude e drammatiche, evidenziando la precarietà di una città sospesa fra speranza e dannazione. Le luci fredde, particolarmente nei momenti di violenza, acuiscono il senso di smarrimento e l’urgenza di sopravvivere. La musica, curata ed eseguita da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione, accompagna la narrazione con un tessuto sonoro che coniuga sonorità elettroniche e ritmi tradizionali napoletani. La colonna sonora si intreccia alla recitazione, creando un dialogo costante tra le voci degli attori e la musica, amplificando la tensione emotiva e rendendo la narrazione ancora più viscerale. Il sound design di Alessio Foglia avvolge lo spettatore in un ambiente sonoro che lo trascina in una Napoli sospesa tra mito e realtà. “Sanghenapule” è uno spettacolo che non può lasciare indifferenti, che invita alla riflessione sulla realtà di Napoli e, per estensione, sull’Italia intera. Saviano e Borrelli, con una onestà disarmante, portano sul palco una città fatta di vicoli oscuri, di esistenze spezzate, e di una speranza che non smette di resistere. Il teatro diviene luogo di denuncia e riflessione, ma anche di possibile rinascita: un altare su cui sacrificare l’indifferenza e accendere una fiamma di consapevolezza. Un’opera di intensa potenza, che si imprime nell’animo come un marchio indelebile, un grido disperato che non può essere ignorato. Il pubblico ha applaudito con entusiasmo e grande partecipazione, dimostrando di aver colto e apprezzato l’intensità e la profondità dello spettacolo. Napoli, con la sua storia di oppressioni e lotte, diviene un simbolo universale di resistenza e di umanità, invitando ciascuno di noi a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà e a cercare una redenzione collettiva attraverso la solidarietà e la consapevolezza. Photocredit©LorenzoCevaVall
Pompei, Parco Archeologico
DAGLI SCAVI IN CORSO NELL’INSULA DEI CASTI AMANTI UN NUOVO ESEMPIO DI CASA SENZA ATRIO RICCAMENTE DECORATA
Gli inglesi le chiamerebbero “Tiny House”: piccole case autonome, dalle dimensioni ridotte ma in questo caso, dalle decorazioni estremamente raffinate. È il caso di una tra le più recenti unità abitative emerse nel corso delle indagini in atto nel cantiere dell’Insula dei casti Amanti, nel quartiere centrale della città antica di Pompei, lungo Via dell’Abbondanza. Una casa dallo spazio ristretto, senza il tradizionale atrio. Una particolarità considerato che, nonostante le ridotte dimensioni della dimora, non sarebbe stato impossibile l’inserimento di un piccolo atrio con la classica vasca (impluvio) per la raccolta dell’acqua piovana, tipico nell’architettura delle ricche dimore pompeiane, e che invece in questo caso è assente. Una scelta probabilmente da mettere in relazione con i mutamenti che stavano attraversando la società romana, e pompeiana nello specifico, nel corso del I secolo d.C. e che questo rinvenimento consente di studiare e approfondire. Un primo inquadramento scientifico è riportato nell’ultimo articolo della rivista scientifica digitale del Parco https://pompeiisites.org/e-journal-degli-scavi-di-pompei/. L’abitazione colpisce per l’alto livello delle decorazioni parietali, che non ha nulla da invidiare alla più grande e ricca casa dei Pittori al Lavoro, con la quale confina. Grazie al ritrovamento di un affresco ben conservato, rappresentante il mito di Ippolito e Fedra, la si è denominata provvisoriamente Casa di Fedra. I due ambienti attualmente oggetto di indagini si trovano nella parte retrostante dell’abitazione. Nel primo, oltre al quadretto mitologico con Ippolito e Fedra, le pareti splendidamente decorate in IV stile mostrano altre scene tratte dal repertorio dei miti classici: una rappresentazione di un symplegma (amplesso) tra satiro e ninfa, un quadretto con coppia divina, forse Venere e Adone, nonché una scena, purtroppo danneggiata dalle esplorazioni borboniche, in cui probabilmente si può riconoscere un Giudizio di Paride. Una finestra, a fianco al quadretto con Ippolito e Fedra, si apre su un piccolo cortile, dove al momento dell’eruzione erano in corso lavori edilizi, caratterizzato all’ingresso dalla presenza di un piccolo larario (altare domestico) con una ricca decorazione dipinta a motivi vegetali e animali su fondo bianco. Il cortile è dotato di una zona coperta che precede una grande vasca con le pareti dipinte di rosso. Intorno correva una canaletta, che consentiva di convogliare l’acqua piovana verso l’imbocco di un pozzo collegato con una cisterna sottostante. Nella decorazione del larario campeggia nella parte alta un rapace in volo, probabilmente un’aquila, che regge fra gli artigli un ramo di palma, e nella parte inferiore la scena principale composta da due serpenti affrontati, che incorniciano un altare con fusto circolare e scanalato su cui si dispongono le offerte. Si riconoscono da sinistra: la pigna, un elemento sopraelevato che sostiene un uovo, quelli che sembrerebbero essere un fico e un dattero. A riempire il fondo della scena due arbusti con foglie lanceolate e bacche gialle e rosse su cui si muovono tre passeri. All’interno della nicchia sono statti rinvenuti gli oggetti rituali, lasciati con l’ultima offerta prima dell’eruzione del 79 d.C che distrusse Pompei: un bruciaprofumi in ceramica acroma con lacune antiche e una lucerna, entrambi con evidenti tracce di bruciato. Le analisi di laboratorio hanno consentito di individuare resti di rametti di essenze odorose, mentre due parti di un fico essiccato sono state recuperate alle spalle dei due oggetti. Sul piano dell’altare sono stati ritrovati, inoltre, due listelli in marmi colorati e un terzo elemento, presumibilmente in marmo rosso, con una raffigurazione di un volto riconducibile alla sfera dionisiaca, probabilmente un sileno. Infine, nella parte anteriore dell’altare si sono individuati una base quadrangolare e modanata in marmo, con un alloggio centrale e sulla sinistra un coltello in ferro il cui manico termina con gancio ad occhiello per la sospensione. Il cantiere in corso presso l’Insula dei casti amanti è oggetto di un complesso progetto- diviso in due lotti differenti – che ha previsto diverse fasi, di cui alcune già conclusesi e che hanno permesso di rendere possibile la fruizione al pubblico del complesso, attraverso un sistema di passerelle sopraelevate. Le diverse fasi hanno interessato: la verifica, progettazione e realizzazione della nuova copertura; gli scavi archeologici; la riprofilatura dei fronti di scavo; la messa in sicurezza degli elevati murari; il restauro delle superfici e degli elementi archeologici. Attualmente, gli archeologi del Parco stanno operando nel settore nord-est dell’isolato, all’interno di una serie di ambienti con accesso dal vicolo orientale. L’apporto delle indagini in corso sta permettendo di definire sempre più precisamente la sistemazione planimetrica dell’Insula, tanto da consentire di individuare questa nuova unità abitativa. “È un esempio di archeologia pubblica o, come preferisco chiamarla, archeologia circolare: conservazione, ricerca, gestione, accessibilità e fruizione formano un circuito virtuoso – dichiara il Direttore del Parco, Gabriel Zuchtriegel – Scavare e restaurare sotto gli occhi dei visitatori, ma anche pubblicare i dati online sul nostro e-journal e sulla piattaforma open.pompeiisites.org significa restituire alla società che finanzia le nostre attività tramite biglietti, tasse e sponsorizzazioni la piena trasparenza di ciò che facciamo, non per il bene di una ristretta cerchia di studiosi, ma per tutti. L’archeologia deve essere di tutti perché solo così creeremo comprensione verso gli archeologi che lavorano in tutta Italia sui cantieri nell’ambito della cosiddetta archeologia preventiva. Se il cantiere della metro o di una strada ritarda a causa di rinvenimenti archeologici, visitare Pompei e osservare il lavoro di archeologi e restauratori può aiutarci a capire perché vale la pena documentare e salvaguardare le tracce delle generazioni che hanno vissuto prima di noi.” Poche settimane fa anche Alberto Angela e’ tornato nell’Insula dei Casti Amanti per realizzare un servizio su questi nuovi ambienti. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il servizio andrà in onda in versione integrale su Raiuno sabato 26 ottobre alle 15,05 circa nella trasmissione Passaggio a Nord Ovest.
Roma, Sala Umberto
BUONASERA A TUTTI
al 24 Ottobre al 27 Ottobre 2024
al pianoforte il M° Luca Urciuolo
produzione Tradizione e turismo – centro di produzione teatrale | Teatro Sannazaro | Ag Spettacoli
Regia di Francesco Esposito
Roma, 24 Ottobre 2024
Peppe Barra, uno degli interpreti più iconici e rappresentativi del panorama teatrale italiano, incarna in maniera straordinariamente autentica e raffinata la tradizione scenica napoletana, di cui è un emblema vivente. La sua opera è caratterizzata da un costante processo di risemantizzazione e attualizzazione di uno dei patrimoni teatrali più ricchi e complessi del nostro Paese. Nato e cresciuto tra Napoli e Procida, Barra ha dedicato la sua vita all’arte, affermandosi come uno dei massimi esponenti del teatro partenopeo, nel quale elementi popolari e colti si fondono in una sintesi polifonica, dove musica, poesia e drammaturgia si intrecciano in una tessitura drammatica densa e inestricabile. La sua carriera si è sviluppata nel solco della continuità con le radici popolari del teatro napoletano, rievocando le maschere, i miti e le narrazioni che appartengono alla tradizione della sua città, ma rinnovandoli e reinterpretandoli attraverso un approccio sempre personale e innovativo. Peppe Barra è stato una figura chiave nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, insieme alla madre Concetta Barra, e ha contribuito a portare la cultura napoletana ben oltre i confini regionali, facendosi ambasciatore di un linguaggio artistico capace di parlare al pubblico nazionale e internazionale, rendendo tangibile la potenza evocativa di una tradizione secolare. Il disordine e la follia sono caratteristiche fondanti dell’arte di Peppe Barra, ma si tratta di un disordine sapientemente orchestrato, una follia consapevole che rivela la sua maestria artistica e la capacità di trasmettere emozioni profonde e poliedriche. Nel suo teatro, la dimensione biografica si intreccia indissolubilmente con quella dell’opera: i ricordi dell’infanzia si fondono con le prime cantate, le prime adesioni a quel mondo fiabesco che rappresenta il clima ideale per Barra, tingendo ogni avvenimento di una qualità affabulatoria e mitopoietica. Dalle lezioni di dizione della maestra, ai momenti di struggente lirismo delle canzoni napoletane, Peppe Barra ha saputo navigare tra il dolore e l’allegria, dalla sofferenza più profonda alla risata più sfrenata. Questo universo artistico, appreso dalla madre Concetta Barra, con la quale ha condiviso per anni la scena, si è arricchito ulteriormente nel momento in cui è diventato l’unico responsabile della propria arte, facendone un percorso unico e inimitabile. In “Buonasera a tutti“, lo spettacolo in scena al Teatro Sala Umberto Peppe Barra si trasfigura in una pluralità di creature magiche, ciascuna caratterizzata da una cifra interpretativa unica, con costumi che spaziano tra il fulgore scintillante e l’austerità delle vesti nere, offrendo allo spettatore un’esperienza caleidoscopica di significati e sensazioni. Il canto è spesso enigmatico, rifacendosi a un napoletano arcaico, fino a giungere a Giambattista Basile, di cui Barra racconta la favola de “La scortecata“. Qui, egli assume i toni del narratore fiabesco, capace di riportare lo spettatore in un’atmosfera di meraviglia e stupore continuo. La maschera di Pulcinella, a cui Barra è particolarmente legato, fa capolino con la sua voce profonda e misteriosa, evocando l’essenza stessa della Commedia dell’Arte. Con la regia di Francesco Esposito e l’accompagnamento musicale del Maestro Luca Urciuolo, il recital si presenta come una profonda meditazione sulla carriera di sessant’anni di Peppe Barra che con la sua esperienza e raffinatezza interpretativa, riesce a instaurare un rapporto di complicità e partecipazione con gli spettatori, facendosi interprete di un vissuto artistico che si intreccia intimamente con il patrimonio culturale partenopeo. Alterna momenti di esilarante comicità a passaggi di intensa introspezione, utilizzando una gamma espressiva che si estende dal grottesco al lirico, dal comico al tragico, in una policromia di registri e tonalità. L’atmosfera generata tra il palco e la platea è intenzionalmente intima e informale, eppure intrisa di una ritualità teatrale che rende il rapporto con il pubblico un elemento costitutivo dell’azione scenica. Barra dà vita a uno scambio vivace e affettuoso, un dialogo che attinge a riferimenti culturali e simbolici profondi, capace di coinvolgere e divertire grazie alla capacità di alternare, con maestria, toni leggeri e momenti di profondo lirismo. La sua voce – che spazia dai registri più gravi a quelli più acuti – diviene uno strumento duttile, un mezzo per esplorare le molteplici sfumature della cultura napoletana, in cui il colto e il popolare si fondono in una continua osmosi. L’approccio teatrale di Barra è stato spesso definito come “le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo“, per la capacità di combinare tradizione e innovazione, attraversando generi e stili diversi, dalla musica barocca alla tradizione popolare, passando per il cabaret, il varietà e la poesia di autori come Basile, Petito e Viviani. Ma è soprattutto nel condurre gli spettatori al delirio collettivo che Peppe Barra eccelle: un canto che si fa disperato e beffardo, allegro e tragico, in cui il coinvolgimento del pubblico diventa parte integrante della performance, e la risposta è sempre entusiasta. L’essenza delle sue interpretazioni non risiede tanto nel significato delle parole, quanto nel modo in cui esse vengono pronunciate: l’espressione dei sentimenti si manifesta attraverso diverse modalità vocali che, oltre al significato letterale, trasmettono un senso profondo del dire, la propria vocazione artistica, passando dal gioco infantile alla risata grottesca, dal canto romantico alla violenza di un personaggio improvvisamente evocato per scacciare quelli più lacrimevoli. Il Maestro Luca Urciuolo accompagna con sensibilità i capricci vocali e scenici di Peppe Barra, che passa agilmente da un registro all’altro, manifestando non solo la propria abilità ma anche quella del Maestro, capace di trasformare il pianoforte in un vero e proprio co- protagonista della scena. Tra i due si instaura una complicità profonda, che soddisfa il gusto dell’improvvisazione e del concertare in base alla risposta di un pubblico entusiasta. Alla fine dello spettacolo, gli spettatori si alzano in piedi in un tripudio di applausi, eliminando quella barriera tra platea e palcoscenico che si dissolve quando il successo è totale.
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
GOBEKLITEPE: L’ENIGMA DI UN LUOGO SACRO
Roma, 24 Ottobre 2024
L’installazione “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, attualmente ospitata nelle maestose arcate del Colosseo, si propone di offrire al pubblico una rappresentazione del celebre sito anatolico, uno dei più antichi e affascinanti testimoni delle origini della civiltà umana. Malgrado l’intento dichiarato sia quello di creare un’esperienza immersiva e accessibile, l’iniziativa evidenzia alcuni limiti che, dal punto di vista tecnico e archeologico, ne attenuano la capacità di trasmettere appieno la complessità e il valore storico del luogo originario. Le riproduzioni in truciolare sagomato delle iconiche colonne monolitiche e le tre sculture, anch’esse in copia, pur risultando evocative, non riescono a restituire integralmente la potenza simbolica e la maestosità delle strutture originarie. La mancanza di una ricostruzione in scala o di una rappresentazione fedele dell’intero complesso conferisce all’allestimento un carattere frammentario, che finisce per limitare la comprensione della vera grandiosità del sito archeologico di Göbeklitepe. L’esposizione si articola attraverso una serie di pannelli didattici, fotografie ad alta risoluzione e la proiezione di un documentario realizzato da National Geographic. Questa combinazione di elementi multimediali genera un’esperienza visivamente suggestiva, ma priva di quel contatto diretto con i manufatti storici che è imprescindibile per una fruizione museale di profondo valore culturale e scientifico. Il visitatore è guidato lungo un percorso narrativo ricco di dettagli, ma che risente inevitabilmente dell’assenza della materia originaria, dell’autenticità tangibile che solo il contatto diretto con gli artefatti può garantire. La potenza evocativa delle riproduzioni non è sufficiente a trasmettere la dimensione spirituale e culturale di un sito come Göbeklitepe, la cui straordinarietà risiede non soltanto nella sua antichità, ma nella capacità di suscitare domande sul senso del sacro nelle comunità umane primordiali. Oggi, grazie alle tecnologie digitali più avanzate, è possibile esplorare virtualmente siti archeologici con un livello di dettaglio e interattività straordinario. Questo pone un interrogativo sulla reale necessità di un’installazione come questa per avvicinarsi al significato profondo di Göbeklitepe. Le esperienze immersive offerte dalla realtà virtuale e aumentata, facilmente fruibili da casa, consentono di scoprire i tesori dell’archeologia in modi che erano impensabili fino a pochi anni fa. Di fronte a tali possibilità, un allestimento che non prevede il contatto diretto con la materia originale e si basa esclusivamente su riproduzioni e materiali multimediali rischia di risultare superfluo o, per lo meno, non all’altezza delle aspettative di un pubblico più esigente e desideroso di autenticità. L’accostamento tra la monumentalità del Colosseo e l’importanza archeologica di Göbeklitepe aggiunge indubbiamente fascino all’iniziativa, creando un dialogo simbolico tra due epoche lontane ma fondamentali per la storia umana. Tuttavia, tale parallelo rischia di apparire forzato se non supportato da un’esperienza espositiva più approfondita e scientificamente rigorosa. Mentre il Colosseo offre una testimonianza tangibile e imponente della grandezza dell’Impero Romano, l’installazione di Göbeklitepe, priva di reperti originali e di una ricostruzione fedele, non riesce a trasmettere con la stessa efficacia la maestosità e il mistero del sito anatolico. Le riproduzioni, pur accuratamente realizzate, non possiedono quella patina del tempo che conferisce ai reperti archeologici una dimensione emozionale e una profondità storica uniche. Questo progetto potrebbe essere interpretato forse come un gesto di avvicinamento politico e culturale tra Italia e Turchia, volto a rafforzare i legami diplomatici attraverso la valorizzazione reciproca dei rispettivi patrimoni storici, ma non altro. L’orientamento verso il marketing culturale e la spettacolarizzazione sembra prevalere sull’approfondimento scientifico e archeologico, limitando l’efficacia dell’iniziativa nel trasmettere la vera essenza di Göbeklitepe. In un contesto così ricco di significati e suggestioni, sarebbe stato auspicabile un approccio più rispettoso della complessità e della specificità del sito, capace di valorizzarne l’unicità senza ricorrere a semplificazioni o scorciatoie scenografiche. L’iniziativa, pur animata da intenti nobili, risente della mancanza di un contatto diretto con i reperti originali e di una ricostruzione accurata del sito, limitando così la sua capacità di trasmettere la complessità e il fascino di Göbeklitepe. L’effetto complessivo è quello di un’operazione più orientata alla spettacolarizzazione che alla vera comprensione del contesto archeologico, un’occasione mancata per raccontare con rigore e profondità uno dei luoghi più enigmatici e affascinanti della storia dell’umanità.
Pavia, Teatro Fraschini, Stagione 2024/25
“LA BOHÈME”
Opera lirica in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Mimì MARIA NOVELLA MALFATTI
Musetta FAN ZHOU
Rodolfo VINCENZO SPINELLI
Marcello JUNHYEOK PARK
Schaunard DAVIDE PERONI
Colline GABRIELE VALSECCHI
Benoît/Alcindoro ALFONSO CIULLA
Parpignol ERMES NIZZARDO
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro di OperaLombardia
Coro delle Voci Bianche del Teatro Sociale di Como
Direttore Riccardo Bisatti
Maestro del Coro e del Coro delle Voci Bianche Massimo Fiocchi Malaspina
Regia e costumi Marialuisa Bafunno
Scene Eleonora Peronetti
Coreografie Emanuele Rosa
Luci Gianni Bertoli
Nuovo allestimento in coproduzione Teatri di OperaLombardia, Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Pavia, 20 ottobre 2024
La stagione di OperaLombardia 2024/25 non poteva aprirsi che con un’opera di Puccini, visto il centenario in corso: la scelta è caduta su un grande classico, “La Bohème“, per la messa in scena del quale si è ricorsi a una selezione tra progetti under 35, e probabilmente qui risiede l’origine dei limiti di questa stessa produzione. È chiaro, infatti, che questa “Bohème“ presenti alcuni problemi strutturali; il primo di essi è proprio quel tipo di regia che siamo soliti definire “delle trovate“, cioè una sequela di situazioni e siparietti di per sé non legati a un chiaro progetto generale, né necessari a una migliore ricezione dell’opera. Si è voluta mettere in scena una “Bohème“ contemporanea, e per questo si è pensato di trasformare Colline in un militante ambientalista, Schaunard in un performer omosessuale, Marcello in un creatore di urban stencil, e Rodolfo? Non si capisce, giacché i fogli del dramma iniziale che brucerà piovono dal cielo, e quando all’inizio del quarto quadro dovrebbe scrivere, in realtà raccoglie spazzatura, così noi non vediamo mai il giovane scrittore, ma solo uno che vivacchia in una soffitta con i suoi amici; questa scelta sarebbe interessante qualora la regia avesse voluto indagare i simboli del contemporaneo portando in scena i loro significati, invece Marialuisa Bafunno preferisce lasciare tutto in superficie, un po’ come la scelta di porre all’inizio e durante tutto il dramma il personaggio del vecchio Rodolfo che ricorda la vicenda (perché, se poi non interviene, non scrive, non apporta nulla all’opera?), o quella di trasformare il momento del Tamburo maggiore in una coreografia di gruppo stile TikTok, senza una ragione, senza un legame col resto, solo per perseguire un’estetica – che, peraltro, nemmeno appaga lo sguardo, poiché se le scene di Eleonora Peronetti sono perlomeno interessanti nella costruzione degli spazi, i costumi della stessa Bafunno sono alquanto banali, un po’ anni 90, un po’ anni 70, con un abuso evidente di paillettes e, anch’essi, senza alcuna visione d’insieme. Eppure, la parte peggiore di questa produzione non è la regia in quanto tale, che presenta perlomeno nel lavoro sui personaggi e i cantanti alcune scenette anche godibili (soprattutto grazie alle coreografie di Emanuele Rosa nel secondo atto), ma il disegno delle luci, a cura di Gianni Bertoli: alla ricerca di effetti arditi, suggestioni interiori e forse innovazioni, le luci sono perlopiù date a caso, lasciando spesso i cantanti in piena ombra nel cantare i loro pezzi iconici, mentre inquadrano angoli vuoti, parti del coro inattive in quel momento, altri interpreti che stanno in silenzio (ci riferiamo perlomeno alla romanza di Mimì del primo quadro, al valzer di Musetta del secondo, al duetto del terzo): questa “sperimentazione“ ci è parsa incomprensibile, oltre che irrispettosa sia del pubblico che dell’artista in scena. Per fortuna, l’apparato musicale ci ha regalato performance complessivamente positive, a cominciare dalla direzione di Riccardo Bisatti che ha saputo in tutti i momenti dell’opera, anche i più complessi, mantenere una bella armonia tra cavea e scena, oltreché mettere in luce con prudenza tutti i leitmotiv presenti, rendendo giustizia alla partitura con una concertazione partecipe sul piano espressivo. Vincenzo Spinelli è un Rodolfo corretto, forse un po’ leggero, ma almeno ci è parso sicuro nell’intonazione e nel registro acuto e con un fraseggio particolarmente efficace nei passi più squisitamente sentimentali; accanto a lui brilla Maria Novella Malfatti, soprano lirico pieno, dalla vocalità ben proiettata, con suoni tondi e piacevolmente pastosi; unico aspetto non del tutto convincente della sua prova, la cantante ci è parsa un po’ troppo “vigorosa”, faticando a cesellare un fraseggio adeguato al momento drammatico. Spicca anche la bella vocalità autenticamente baritonale del giovane Junhyeok Park, dal suono caldo, avvolgente, omogeneo nell’emissione rendendo così il suo Marcello un vero secondo protagonista (come in effetti era nelle “Scènes de la Vie de Bohème” di Henry Murger). Corretta, ma davvero “leggera” nel registro, e piuttosto generica nel fraseggio, la prova di Fan Zhou (Musetta); rutilante, sonoro e molto coinvolto scenicamente lo Schaunard di Davide Peroni, mentre forse ancora acerbo il Colline di Gabriele Valsecchi, che compensa con buona propensione scenica un’interpretazione tutto sommato bidimensionale, anche nell’arioso della “vecchia zimarra“. Infine, inaspettatamente piacevole, ben scandito e fraseggiato il Benoît di Alfonso Ciulla. Certamente soddisfacente la performance del Coro di OperaLombardia, coeso e presente alla scena, e anche le Voci Bianche del Teatro Sociale di Como si sono distinte per chiarezza dell’eloquio e omogeneità del suono (un plauso al maestro Massimo Fiocchi Malaspina, istruttore di entrambe le compagini). Crediamo tuttavia che un simile giovane cast, che ha fornito una prova complessiva tanto buona, avrebbe meritato una messa in scena che partecipasse della grande bellezza di questa musica, e non tentasse di sabotarla nel nome di una ridicola pretesa di modernità. Foto Andrea Butti
Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
MANON
Opera in cinque atti e sei quadri. Libretto di Henry Meilhac e Philippe Gille dal romanzo Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine François Prévost
Musica di Jules Massenet
Manon Lescaut EKATERINA BAKANOVA
Lescaut BJŐRN BŰRGER
Il Cavaliere Des Grieux ATALLA AYAN
Il Conte Des Grieux ROBERTO SCANDIUZZI
Guillot de Morfontaine THOMAS MORRIS
Monsieur de Brétigny ALLEN BOXER
L’Oste YOANN DUBRUQUE
Poussette OLIVIA DORAY Javotte MARIE KALININE
Rosette LILIA ISTRATII Il Locandiere YOANN DUBRUQUE Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Evelino Pidò
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Assistente di Regia Stephen Taylor
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 20 ottobre 2024
Il trittico Manon, messo in scena in quest’Ottobre 2024 dal Teatro Regio di Torino, si esalta e, forse, pure si danna nel bianco-grigio-nero delle scene e dei costumi, rispettivamente di Alessandro Camera e di Carla Ricotti e nelle inserzioni di pellicole d’antan, volute dal Regista Arnaud Bernard. Questa volta è a una pellicola con la bellissima, impudica e non proprio signorile Bardot, BiBi per il volgo, ad essere intercalata, con relativi dialoghi francesi, all’opera. Bianca-bianca la chioma della diva, bionda-bionda la fluente ed esagerata parrucca imposta all’incolpevole, come si dice per il portiere che si becca un gol, Ekaterina Bakanova. Fortunatamente le calcolatissime inserzioni degli spezzoni di pellicola non giungono fino al deprecabile annullamento della musica che abbiamo dovuto subire nel finale della Lescaut di Puccini. Inutili sempre, ma esenti da killeraggio. Le luci di Fiammetta Baldisseri sono eccellenti nel dar corpo alla bella scenografia, bipartita in orizzontale, che campeggia in tutta la recita. Si coglie poi l’indubbio pregio della scena che, chiudendo verso il fondo, riflette verso la platea le voci che possono così godere dell’apprezzabile positivo sostegno purtroppo mancato nell’opera di Puccini. I primi tre atti, fino al duetto di Saint Sulpice, scorrono meravigliosamente. Il Coro del Teatro Regio, guidato da Ulisse Tabacchin, a tratti, nella confusione della scena, risulta vociante, forse per tema che, per gli scalpiccii dell’andirivieni, non venga ben sentito. La festa e il passeggio di Cours la Reine, a confermare l’ambientazione anni’60-70 della Bardot, sono stati metamorfizzati, assai positivamente, in un defilé di toilettes Balenciaga. Begli abiti, bellissime indossatrici per l’entusiasmo del pubblico, non solo femminile. Massenet mantiene nel quarto atto, in cui l’afflato poetico ha una parentesi, una sua specificità descrittiva che il regista realizza ambientandolo in un bar di stazione tra convenuti forse eccezionalmente eleganti per il luogo e l’occasione. Atto finale, in ospedale, trespolo da fleboclisi, lettino e suora infermiera. È il logico seguito della scena del film in cui BB, in carcere, coi polsi sanguinati, muore dissanguata. Massenet sopperisce a una certa stanchezza musicale con l’aiuto di “temi conduttori” alla Wagner. Ci risentiamo tutte le melodie strappalacrime dell’opera e la malanconia e il rimpianto si prendono gradatamente e poeticamente il sopravvento. Con una lettura consapevole e mai smancerosa, controllata ed efficace, attenta alle esigenze del canto e della scena, il Maestro Evelino Pidò sigla il successo della produzione. Ekaterina Bakanova, la protagonista, sopperisce a qualche limite negli acuti e nella coloratura, con un timbro che ben rispecchia il carattere anche umbratile del personaggio, come nell’iniziale “Je suis encor tuot étourdie…” che testimonia lo sgomento del primo viaggio. Anche la Petite table si fa apprezzare per il perfetto taglio da parigine feuilles mortes. Non forza ed è assai elegante nella Gavotte dell’atto 3°. Altrettanto efficace nella seduzione della mano nel duetto di Saint Sulpice. Il tenore brasiliano Atalla Ayan ha voce che forse più si adatterebbe al Des Grieux di Puccini che a questo, poco eroico, di Massenet. I centri son robusti e ben timbrati, non pervenute le mezze-voci e velocemente sfiorati gli acuti. Il Sogno, forse perché l’artista vi ha messo molto studio e moltissimo impegno è risultato apprezzabile ed esente da gravi mancanze. Certo i colori sono pochi e così il fascino scarseggia. Björn Bürger disbriga con buona professionalità la parte di Lescaut; formidabile per capacità attoriali e querulo al giusto con la voce il Guillot de Morfontaine di Thomas Morris, freddato dal colpo di pistola da una Manon esasperata e vendicativa. Con esiti vocalmente alterni sia il Monsieur de Brétigny di Allen Boxer che il Conte Des Grieux di Roberto Scandiuzzi, ambedue con formidabili doti attoriali e di tenuta della scena. Yoann Dubruque, l’Oste e Locandiere e le meravigliose Poussette Olivia Doray, Javotte Marie Kalinine e Rosette Lilia Istratii completano felicemente la locandina. Come per tutte le altre recite di questo “Trittico Manon” a cui abbiamo assistito, il pubblico, pur intervenuto con molta moderazione, ha sonoramente apprezzato la recita e gli interpreti. Grandissimi gli applausi poi, per la Signora Bakanova e per il Maestro Pidò.
Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
“LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Opera in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano da La Bataille de Toulouse di Joseph Méry
Musica di Giuseppe Verdi
Federico Barbarossa RICCARDO FASSI
Lida MARINA REBEKA
Arrigo ANTONIO POLI
Rolando VLADIMIR STOYANOV
Marcovaldo ALESSIO VERNA
Il Podestà di Como / I Console di Milano EMIL ABDULLAIEV*
II Console BO YANG*
Imelda ARLENE MIATTO ALBELDAS*
Uno Scudiero di Arrigo/ Un Araldo ANZOR PILIA*
*Allievi e già allievi dell’Accademia Verdiana
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Diego Ceretta
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Valentina Carrasco
Scene Margherita Palli
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Parma, 20 ottobre 2024
“…sprona il suo possente cavallo fiammingo, il quale nitrendo, lacerato nei fianchi si rizza sulle coscie e batte colle ferrate zampe del davanti sul tavolato del Carroccio”: il soggetto è Federico, il Barbarossa, e l’autore è Felice Govean, patriota torinese ideatore della fortunata raccolta “Libri per il popolo”, che come forse si può dedurre dal frammento citato consiste di narrazioni piuttosto melodrammatiche e, ovviamente, in chiave propagandistica risorgimentale di gloriosi episodî dalla storia patria. E magari, chi sa?, proprio da qui è guizzata l’intuizione di Valentina Carrasco che ha voluto centrare la sua Battaglia di Legnano sul cavallo, da sempre simbolo e vittima di ogni battaglia che si rispetti. L’onesto patriota piemontese non rientra tuttavia fra le letture del grande Cammarano. Che riesce, da Napoli, a convincere un Verdi tutto ubriacato dell’aria di Parigi e ormai quasi seccato dalla storia del contratto col San Carlo, ad accettare un intreccio tratto della pièce di Méry (sì, uno dei futuri librettisti del Don Carlos) La bataille de Toulouse, ou Un amour espagnol; intreccio che già gli era servito per il donizettiano Poliuto (ma che ai napoletani era nuovo, essendo stato il Poliuto affondato dalla censura borbonica). Quindi siamo alla consueta ricetta: l’intreccio sentimentale, da condirsi poi con uno sfondo storico. Ma Verdi ha in mente uno spettacolo di parigine proporzioni, a lui pare che “se non vi è qualche cosa di grandioso, di spettacoloso manchi sempre qualche cosa” e poi, per carità, senza l’amore: “perché sempre far l’amore come perno di tutti i drammi?”. Cammarano ci resta male: “ed io credeva che l’introduzione, il giuramento dei cavalieri della morte, e tutto l’intiero ultimo atto, da me aggiunto, potessero essere a quelle passioni ciò ch’è un bel fondo alle figure d’un quadro”. Illuso: Verdi vuole le figure sullo sfondo e lo sfondo in primo piano. Quindi piuttosto parigina e sperimentale come opera di propaganda risorgimentale italiana. E tutto questo per arrivare a dire: ma perché questo titolo così ricco, così carico d’idee non ci piace, né è piaciuto granché dopo le primissime esecuzioni (in cui l’entusiasmo era tale che il quarto atto veniva replicato per intero)? Difficile trovare una risposta razionale. Soprattutto se si esce dal Teatro Regio dopo averlo ascoltato nella splendida, consapevole, cesellata (aggettivo normalmente rifuggito, ma qui è il caso di farvi ricorso) direzione di Diego Ceretta. Tanto per citare un momento solo: che cosa vien su dalla buca, dove a sedere è l’ottima orchestra del Teatro Comunale di Bologna, mentre Arrigo si appresta a scrivere alla madre! E come non pensare, di poi, alla Luisa, alla Violetta, alle loro lettere? Protagonista assoluto è il Coro, il sempre sia lodato Coro del Comunale di Bologna diretto da Gea Garatti Ansini che stupisce ogni volta per compattezza, volume, rotondità, bellezza del suono. E poi l’ovazionata Marina Rebeka, con quello strumento avvolgente, brillante, sensuale, carnoso, voce che corre: corre, raggiunge e conquista. Bizzarramente orbato dell’applauso alla sua prima aria, invece, ma ben ricompensato dopo, l’Arrigo di Antonio Poli: vocalmente centrato, saldo e sicuro, dalla voce robusta e piena, tratteggia un eroe sensibile e umano. Vladimir Stoyanov è una vecchia certezza che con Parma e con il Festival ha una consuetudine particolarmente affettuosa, e sembra prendere molto sul serio la pacata raffinatezza di Ceretta che nel suo cantabile vede il germe del Di Provenza: sicché di gran trasporti guerrieri non se ne sentono. In generale, la recita non è attraversata da un gran turbine d’energia, di vitalità. Come invece ce ne mette Riccardo Fassi nel suo ahinoi troppo breve intervento come Barbarossa: voce più unica che rara di autentico basso, e gloriosa per volume, timbro, morbidezza, vigoria, una delizia che lascia appagati. A completare dignitosamente il cast l’affidabile Alessio Verna nel ruolo del delatore Marcovaldo e la squillante Imelda di Arlene Miatto Albeldas. Ancora, nei ruoli di fianco, i bravi Allievi e già dell’Accademia Verdiana. Dell’allestimento si accennava all’inizio. È sicuramente condivisibile l’idea del cavallo: se non altro perché serve su un piatto d’argento materiale di prima teatralità a Margherita Palli, che difatti riesce, complici anche le luci di Marco Filibeck, a trarne un intero spettacolo. Del resto il cavallo, e una ronconiana come lei lo sa meglio di chiunque altro, è sempre portentoso a teatro. Poi però, andando oltre il cavallo, la regia sembra abbandonare i cantanti ai tipici tic attoriali da cantante lirico. E, forse, anche la povera Silvia Aymonino, che per le divise militari in particolare è imbattibile, è stata lasciata nella difficoltà di non poter sciogliere l’imbarazzo temporale voluto dalla regia. Foto Roberto Ricci
Savona, Teatro Chiabrera – Opera Giocosa, Stagione Lirica 2024
“MADAMA BUTTERFLY”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San CLARISSA COSTANZO
Pinkerton DAVID ESTEBAN
Sharpless PAOLO INGRASCIOTTA
Goro RAFFAELE FEO
Suzuki CARLOTTA VICHI
Lo zio Bonzo YONGHENG DONG
Il principe Yamadori WOOSEOK CHOI
Kate Pinkerton VALENTINA DELL’AVERSANA
Il Commissario Imperiale RZA KHOSROVZADE
L’Ufficiale del Registro RICCARDO MONTEMEZZI
Orchestra Sinfonica di Savona
Coro del Teatro dell’Opera Giocosa
Direttore Cesare Della Sciucca
Maestro del coro Gianluca Ascheri
Regia Renata Scotto ripresa da Renato Bonajuto
Scene Laura Marocchino
Costumi Artemio Cabassi
Luci Andrea Tocchio
Coproduzione con la Fondazione Teatro delle Muse di Ancona e con la Fondazione Rete Lirica delle Marche
Savona, 18 ottobre 2024
Molto saggiamente l’Opera Giocosa di Savona ripropone nel centenario pucciniano la messa in scena che Renata Scotto aveva realizzato nel 2017, con l’assistenza di Renato Bonajuto: si tratta infatti di una produzione piuttosto tradizionale, ma che nelle sue linee pulite, nella sua semplicità funziona sempre e non sembra avvertire i segni del tempo. Le scene di Laura Marocchino ricreano davvero una casa dalle pareti di carta di riso, ove pochi mobili semplicissimi rimangono ai margini di uno spazio vuoto, in cui la dimensione decorativa è più importante di quella d’uso; i costumi di Artemio Cabassi, per quanto tradizionali, non soggiacciono al peso di una ricostruzione filologica, ma trovano le linee sinuose e tinte unite di un oriente forse immaginario, trasognato; le luci sono saggiamente governate da Andrea Tocchio, che gioca con elementi interni (la luna, la luce del cielo, la cornice decorata che inquadra il boccascena) e illuminazione esterna, ricreando atmosfere rarefatte spesso cariche di sentimento. La regia in quanto tale è molto rispettosa del libretto, e si prende solo qualche piccola, innocente libertà: nessun dramaturg vi ha messo mano, ed è così tranquillizzante sapere che nessuna trovata dell’ultimo minuto interferirà nella parabola di amore, abbandono e morte di Cho-Cho-San; una regia che è evidentemente frutto della mente di una cantante, ma che non per questo si rivela noiosa, anzi: è quasi consolatorio riscoprire il leggero brivido di sapere già cosa avverrà e come. Sul piano musicale, invece, le sorprese non mancano, a partire dalla direzione del giovane Cesare della Sciucca: dotato di un gesto morigerato e di una singolare visione d’insieme, mette in luce soprattutto i momenti più patetici, senza per questo sottrarre energia e slanci epici all’orchestra. Altra piacevole sorpresa è David Esteban (Pinkerton): sebbene forse più adatto a ruoli meno drammatici, il tenore ha sfoggiato acuti efficaci e buona tecnica anche nel sostegno dei centri; belli anche il fraseggio, ben cesellato, e la padronanza della linea di canto. Decisamente riuscito anche il Goro di Raffaele Feo, che sorprende per la naturalezza del suo canto ma anche la resa scenica è attenta e partecipe, distante da certi Goro macchiettistici. Carlotta Vichi è una navigata Suzuki, e fa proprio della consapevolezza del ruolo la sua cifra interpretativa, ponderata, ben sonora senza essere esagerata: una prova, la sua, ricca di dignità e nobiltà nel porgere. Complimenti anche a Paolo Ingrasciotta, che debutta qui uno Sharpless elegantissimo, intenso, in cui sfoggia tutte le mezzetinte del suo importante mezzo vocale – sua, senza dubbio, la performance migliore. Abbiamo lasciato per ultima la protagonista perchè ci ha lasciati un po’ perplessi. Clarissa Costanzo, una Cio-Cio-San per lo meno opinabile: il primo atto è del tutto frainteso nell’emissione e nel fraseggio, e talvolta anche nell’intonazione; dal secondo si profila una Butterfly certamente pregevole, ma spesso più voluminosa che piacevole; “Un bel dì” è interpretato con qualche impaccio, molto meglio “Tu piccolo iddio” e il duetto con Suzuki, ove il fraseggio si plasma sulla linea di canto con l’abilità che la Costanzo ha saputo mostrare in altri ruoli; la sensazione è che il soprano napoletano sia un po’ troppo “spinto” per questo ruolo, considerata anche la natura spiccatamente “Falcon” del suo registro vocale. Infine non possiamo non citare la puntuale prova del coro del Teatro dell’Opera Giocosa, diretto da Gianluca Ascheri, che sia dalla scena (nel primo atto), che dalle quinte (nel celebre “A bocca chiusa” fra secondo e terzo) ha saputo creare una sensibile cornice alla vicenda, contribuendo in modo determinante alla riuscita della serata. Foto Luigi Cerati