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Roma, Sala Umberto: “I promessi suoceri”

Lun, 14/04/2025 - 23:59

Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo
Con  Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
Roma, 14 aprile 2025
C’è una comicità che si limita a far ridere — e poi c’è quella che, nel riso, porta con sé un retrogusto dolente, un’eco delle inquietudini familiari, dei disastri domestici, delle ipocrisie gentili. I promessi suoceri di Paolo Caiazzo, andato in scena alla Sala Umberto, appartiene a questa seconda stirpe. È una commedia costruita con mano esperta, che si muove nel solco della tradizione napoletana — da Scarpetta a Taranto, passando per la televisione anni ’80 — ma con l’intento, quasi tenero, di risarcire i suoi personaggi da ciò che sono diventati: maschere stanche che recitano la parte di padri, madri, suoceri, senza aver fatto davvero i conti con la propria biografia. Antonio, ex animatore turistico che ha ripiegato nella mediocrità borghese, è una figura tragicamente comica: indossa i vestiti della farsa, ma la sua malinconia filtra in ogni battuta, come un vino che fermenta nel fondo del bicchiere. Paolo Caiazzo, che firma anche la regia, lo interpreta con misura e umanità: non lo schiaccia nella macchietta, lo tiene sospeso tra il riso e il rimorso. È un uomo che non ha perdonato il tempo, e che adesso, all’alba delle nozze della figlia, teme di essere accantonato come un mobile fuori moda. Ma non è forse questa la condizione eterna del padre, che vede la figlia andarsene e intuisce, senza dirlo, che non sarà mai più la stessa? Maria Bolignano è un’Elisa magistrale: materna, assertiva, corporea, con quel tono da matrona napoletana che, senza bisogno di urlare, governa la scena. La sua recitazione si appoggia sull’improvvisazione, ma dietro il ritmo comico si avverte una sapienza istintiva: è una donna che conosce il teatro della vita, e lo mette in scena con l’intelligenza di chi ha imparato tutto sul corpo — anche le sconfitte. Il cast che ruota attorno a questa coppia è ben calibrato. Yulia Mayarchuk, nei panni della soubrette dal passato misterioso, introduce un elemento di grottesco quasi felliniano. Il suo personaggio vive nel confine tra la caricatura e la nostalgia: è il residuo di un varietà in disarmo, ma non rinuncia alla propria dignità. Domenico Pinelli e Antonio D’Avino offrono interpretazioni solide, funzionali a quell’impasto di equivoci e rivelazioni che costituisce la colonna vertebrale della commedia. Giovanna Sannino, nel ruolo di Lucia, è il centro calmo dell’uragano familiare: giovane, semplice, affettuosa, appare come un personaggio minore, ma è su di lei che si costruisce — e si spezza — l’equilibrio dell’intero impianto drammaturgico. La regia di Caiazzo è abile nel far emergere le dinamiche relazionali, senza sovraccaricare la scena. Ogni gesto è al servizio della parola, e la parola è sempre pensata per essere capita. Non c’è ricerca del virtuosismo, ma un amore profondo per il pubblico. In questo senso, I promessi suoceri non è una pièce sperimentale, ma un lavoro d’artigianato teatrale onesto, colto nel suo citazionismo (Scarpetta, Molière, Manzoni) e moderno nel suo modo di riflettere su quanto la famiglia sia diventata un luogo di finzioni condivise più che di verità. Le scenografie di Max Comune sono tra i dettagli più riusciti dello spettacolo. Nulla di eclatante, ma una scena viva, domestica, piena di oggetti quotidiani che parlano da soli: una casa che si finge casa, con i tulipani in saldo e il copri water restituito al mittente. Una scenografia, dunque, non come contenitore neutro, ma come luogo affettivo e ironico, capace di raccontare da sé la precarietà dei protagonisti. I costumi di Federica Calabrese sono divertiti, colorati, volutamente eccessivi in alcuni casi, quasi a rimarcare l’oscillazione tra verosimiglianza e parodia. Ma è soprattutto il loro uso narrativo a colpire: abiti che “parlano” del personaggio, del suo desiderio di apparire meglio di ciò che è, della sua tensione verso un’idea di decoro che vacilla. Le luci disegnate da Luigi Rai accompagnano le svolte emotive con discrezione: calde, d’ambiente, rassicuranti, fino a quei pochi ma efficaci viraggi che sottolineano gli snodi drammatici. Non c’è ricerca di effetti, ma un gioco scenico che funziona proprio perché non distrae. Non manca la risata, e nemmeno la battuta volgare (ma mai gratuita). E tuttavia, al fondo di tutto, resta un senso di struggimento per ciò che non è stato, per le strade sbagliate, per gli amori giovanili mai compiuti, per il tempo che corre e che, come sempre, non aspetta nessuno. E allora la “divina provvidenza”, evocata a mo’ di parodia manzoniana, diventa un modo garbato di dire che alla fine il teatro, almeno lui, ci salva. Non perché cambia la realtà, ma perché — per due ore — ci fa credere che ogni conflitto possa risolversi in una risata. E questa, sì, è la più seria delle illusioni.

Categorie: Musica corale

Intervista a Nicoletta Manni: danzatrice étoile del Teatro alla Scala di Milano interprete della Tat’jana in Onegin all’Opera di Roma

Lun, 14/04/2025 - 12:59

Intervista a Nicoletta Manni: danzatrice étoile del Teatro alla Scala di Milano interprete della Tat’jana in Onegin all’Opera di Roma
Roma, 14 aprile 2025
Il genere del balletto narrativo è un’eredità preziosa della danza teatrale che grazie alle politiche culturali dei teatri d’opera continua a restare in vita ai nostri giorni. Nel panorama della danza novecentesca ad imporsi è stato in particolare il balletto narrativo di marchio inglese con grandi nomi dalla portata universale quali Frederick Ashton, John Cranko e Kenneth Macmillan. Il balletto Onegin nasce poi da una particolare congiunzione. La musica è di Pëtr Il’ič Čajkovskij, già autore di un’opera sul romanzo in versi puškiniano. Tuttavia, nella rielaborazione del compositore Kurt-Heinz Stolze è proprio la musica operistica a venire esclusa. Ciò che rimane è la sostanza musicale di quel “volo pieno d’animo della Tersicore russa” tanto decantato nelle pagine puškiniane e consono al carattere di “limpida tristezza” spesso riconosciuto alla musica del compositore russo. La scrittura sul corpo appartiene al nome del coreografo sudafricano John Cranko che, come ben ricorda l’attuale sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Francesco Giambrone nelle note di sala, si trovava allora nella fase del “miracolo di Stoccarda”. Il balletto nacque proprio sessanta anni fa nel periodo maggiormente creativo e di successo di Cranko, anche se in realtà già negli anni londinesi egli si era accostato all’opera omonima al fine di realizzarne i divertissements per il Covent Garden. Nel particolare linguaggio danzato, ampio spazio occupa la costruzione dei personaggi ed un ruolo principale è affidato al carattere di Tat’jana, principale figura femminile del romanzo in versi nonché del balletto ad esso ispirato. Nella ripresa vista nelle scorse settimane al Teatro dell’Opera di Roma si è esibita la ballerina ospite Nicoletta Manni, danzatrice del Teatro alla Scala di Milano che proprio alla fine di una recita del balletto nel novembre 2023 ha ricevuto la nomina di étoile del prestigioso teatro milanese. Di questa particolare esperienza ci ha raccontato con la sua impeccabile grazia in un’intervista gentilmente concessa appositamente per GBOPERA.
Cara Nicoletta, l’abbiamo ammirata in scena in occasione della prima e delle repliche di Onegin. Potrebbe raccontarci come è nata l’idea di coinvolgerla nella produzione e che emozioni le ha regalato questa collaborazione?
“È stato un grande piacere ed un vero onore per me lavorare con il Balletto del Teatro dell’Opera di Roma. L’idea di coinvolgermi appartiene ad Eleonora Abbagnato, che ha scelto di affiancarmi Friedemann Vogel come partner. È questa la prima volta che danzo all’Opera di Roma, ed è anche la prima volta che danzo con Vogel. Invece Onegin è un balletto che ha segnato il mio percorso artistico, aiutandomi a scoprire tanti lati interiori nella ricerca della corretta interpretazione, soprattutto è il balletto che mi ha regalato la nomina di danzatrice étoile del Teatro alla Scala, dove lo danzavo accanto a Roberto Bolle”.
Tanti ricordi dunque associati al balletto di John Cranko. Dal suo punto di vista speciale di interprete quali aspetti caratterizzano lo spettacolo?
“L’Onegin di John Cranko è uno dei migliori esempi di balletto narrativo, un vero e proprio capolavoro. Qui il coreografo riesce veramente a raccontare il dramma toccando il cuore dello spettatore attraverso l’unione di movimento e musica in passi a due e pezzi di gruppo emotivamente molto comprensibili. Naturalmente, un grande contributo è offerto dall’intensità interpretativa dei diversi artisti, ovvero dalla loro capacità di costruire dei ruoli credibili, nonché dal loro affiatamento e dalla loro complicità in scena. A seconda dei diversi partner nell’interpretazione si sottolineano degli aspetti diversi. A prendere diversi accenti è la stessa ricostruzione della storia. Nel caso dell’ultima produzione in esame, l’Onegin interpretato da Vogel ha una peculiarità spiccatamente nobile, elegante. Del resto, Friedmann ha una grande sensibilità, e poi conosce bene il balletto poiché proviene dalla compagnia di Stoccarda”.
E invece il ruolo della figura femminile protagonista come si presenta ai suoi occhi?
“Il ruolo di Tat’jana ha grande evoluzione nel balletto. Da principio è una ragazza che sogna il grande amore, che crede nell’amore puro. L’incontro con Onegin le permette di crescere. Se è pur vero che nel balletto ella è in qualche modo derisa, successivamente presenta un grande coraggio nell’accettare il destino di donna adulta. Questo non vuol dire che la parte finale del balletto abbia maggiore importanza. Tutta l’evoluzione del personaggio va adeguatamente tratteggiata. Io adoro interpretare in scena Tat’jana, anche se nella vita di tutti i giorni ho una personalità alquanto diversa. Si tratta di una storia scenica incredibile da vivere: è struggente, è coinvolgente, alla fine dello spettacolo è del tutto impossibile trattenere le lacrime”.
Che posto occupa dunque il balletto nel suo repertorio?
Onegin occupa davvero uno dei primissimi posti tra i miei preferiti. Lo apprezzo molto in quanto oltre ad essere un balletto classico ha il pregio di presentare un racconto teatrale. A dire il vero, per me è molto difficile dire quale sia il mio balletto preferito. Nel corso della carriera si cresce molto, tutto dipende dal percorso artistico svolto. In questo momento particolare, posso affermare con certezza che Onegin occupa il primo posto tra i miei balletti del cuore”.
A proposito dei suoi progetti artistici ricordiamo ai nostri lettori la recente pubblicazione del libro autobiografico La gioia di danzare e lo spettacolo omonimo. Cosa può dirci a riguardo?
“Il libro è uscito nell’autunno del 2023. Qui mi racconto al pubblico adottando il punto di vista della creazione dei personaggi. Osservo me stessa dal lato del palcoscenico. Racconto qualcosa di me in modo particolare. Il gala omonimo si è svolto per la prima volta a Lecce nell’ottobre scorso al Teatro Politeama, e successivamente è stato replicato in altre città. Lo spettacolo è nato come un ritorno a casa, è stato pensato per (ri-)portare la danza nella mia terra. Non so ancora dove mi condurrà questo progetto. Per ora sono contenta di danzare con gioia e di aver trascorso questo periodo bellissimo a Roma, dove il pubblico mi ha riservato un’accoglienza estremamente calorosa”. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Categorie: Musica corale

Napoli, Piccolo Bellini: “Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio”

Dom, 13/04/2025 - 16:04

Napoli, Sala Piccolo Bellini, Stagione 2024/25
“SOLO UNA COSA HO AVUTO NEL MONDO. L’ORECCHIO”
Operina drammatica dal film “La Ricotta” di Pasolini
Regia, Drammaturgia, Musiche, Paesaggi Sonori Blastula.scarnoduo: Monica Demuru, Cristiano Calcagnile
Voce ed effettistica Monica Demuru
Voce, batteria, percussioni, strumentini, chitarra orizzontale Cristiano Calcagnile
Produzione Toscana Produzione Musica
Napoli, 9 aprile 2025
Al Piccolo Bellini, una graziosa sala del Teatro Bellini, va in scena Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio: un’operina drammatica eseguita da Blastula.scarnoduo: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile. Il materiale letterario e i momenti poetici dell’operina provengono dalla produzione artistica di Pier Paolo Pasolini. L’opera è una sintesi «musicale» de La ricotta, episodio cinematografico pasoliniano che, insieme ad altri tre episodi (di altri registi: Rossellini, Godard e Gregoretti), dà forma a un lavoro filmico collettivo del 1963: Ro.Go.Pa.G.. L’episodio – come il poeta afferma nei fotogrammi didascalici iniziali – rievoca indirettamente la Storia della Passione; e la rievocazione, nella finzione filmica, viene affidata a un povero figurante di un film sulla Passione, Stracci – che, dopo aver sofferto drammaticamente la fame, si ingozza così tanto di anguria, spaghetti e ricotta da morire. E muore in croce, come un buon ladrone delle borgate romane. Orson Welles, che interpreta il regista del film, ne prende atto freddamente: «Povero Stracci… crepare: non aveva altro modo per ricordarsi che anche lui era vivo». La vicenda del lavoro pasoliniano viene risolta attraverso la potenza poetica ed evocatrice della parola: la parola, filmica e teatrale, assume un senso «altro» da quello iniziale: la sceneggiatura cinematografica viene ricomposta e trasformata in un testo teatrale fatto di immagini e suoni, di immagini filmiche ricostruite soltanto attraverso la parola: il testo, di Monica Demuru, è un pastiche drammatico, strutturalmente determinato dal realismo della scrittura pasoliniana: la vicenda, però, è a volte interessata da digressioni canore, ottimamente innestate nella drammaticità della storia. La vicenda del povero Stracci assume, dunque, una tinta fortemente poetica – e i momenti dialettalmente romaneschi, pur conservando incisività ed efficacia espressive, assumono un senso puramente sonoro. Demuru dà voce ai personaggi principali de La ricotta, risolvendo solisticamente i dialoghi. L’azione teatrale viene evocata «vocalmente», e la determinazione delle scene e dei personaggi avviene grazie alla ricchezza timbrica e alle capacità espressive della voce, supportata e sostenuta dal microfono: lo strumento consente all’attrice-cantante-scrittrice di «variare» parossisticamente i registri della voce, grazie a un gioco di effettistica vocale. E ciò accade, per esempio, nella «conversazione» tra il regista Welles e il giornalista; un escamotage dal carattere anche sottilmente «comico». L’attrice riesce a evocare vocalmente anche i paesaggi periferici romani e al cromatismo dei tableau vivant dell’episodio cinematografico, riproducenti la Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo del Pontormo. Le parole vengono sostenute e «completate» da un altro linguaggio, quello musicale, eseguito e restituito da Cristiano Calcagnile. La scrittura prevede interventi irregolari di elementi sonori veementi e «rumorosi», che danno risalto al testo. L’irregolarità del linguaggio strumentale consente al musicista di poter «rinnovare» continuamente il materiale sonoro, anche attraverso una certa libertà interpretativa ed esecutiva. Batteria, percussioni, strumentini, chitarra orizzontale, e pochi interventi vocali del musicista, dialogano con il testo letterario. Si tratta, però, di una conversazione «impossibile», determinata da una irrisolvibile incomunicabilità, che allude alla drammaticità della vicenda. L’operina viene anche «interrotta» da un intervento estremamente commovente, quello della voce di Pasolini, impegnata nella lettura di una sua poesia. In definitiva, si è trattato di un lavoro teatrale e musicale accolto positivamente dal pubblico napoletano, che ha apprezzato la convivenza e l’originale commistione di registri espressivi e linguaggi artistici diversi.

Categorie: Musica corale

Parigi, Opera National de Paris: “Vers la Mort” e ” Appartement”

Dom, 13/04/2025 - 15:33

Parigi, Opéra National de Paris 
“VERS LA MORT”
Creazione coreografica originale OCD Love
Coreografia e costumi Sharon Eyal
Assistente alla coreografia e ai costumi Gai Behar
Musica Ori Lichtik
Lighting Design Thierry Dreyfus
Ripetitori Breanna O’Mara, Léo Lerus
Interpreti Naïs Duboscq, Caroline Osmont, Nine Seropian, Adèle Belem, Marion Gautier de Charnacé, Mickaël Lafon, Yvon Demol, Julien Guillemard, Nathan Bisson
“APPARTEMENT”
Coreografia Mats Ek
Musica ed esecuzione dal vivo Fleshquartet
Scene e costumi Peder Freiij
Luci Erik Berglund
Ripetitori Mariko Ayoama, Ana Laguna, Stéphane Bullion
Interpreti Ludmila Pagliero, Marc Moreau, Jack Gasztowtt, Antoine Kirscher, Pablo Legasa (La Salle de Bains), Hugo Marchand (La Télévision), Hanna O’Neill, Clémence Gross, Ida Viikinkoski, Germain Louvet, Marc Moreau, Antoine Kirscher, Pablo Legasa, Daniel Stokes (Le Passage Piéton), Valentine Colasante, Jack Gasztowtt (La Cuisine – Pas de Deux), Germain Louvet, Antoine Kirscher, Daniel Stokes (Trio – Pas de Deux), Hanna O’Neill, Pablo Legasa, Valentine Colasante, Jack Gasztowtt, Ludmila Pagliero, Hugo Marchand, Ida Viikinkoski, Marc Moreau (Valse), Valentine Colasante, Hannah O’Neill, Ludmilla Pagliero, Clémence Gross, Ida Viikinkoski (La Marche des Aspirateurs), Germain Louvet, Antoine Kirscher (Duo des Embryons), Ida Viikinskoski, Marc Moreau (La Porte – Pas de Deux)
Balletto creato per il Balletto dell’Opéra national de Paris il 27 maggio 2000
Parigi, Palais Garnier, 30 marzo 2025
Parigi, oggi come nel Seicento, è tra le capitali indiscusse della danza e del balletto. Diretta dal dicembre 2022 da José Martinez, già Danseur Étoile del teatro nonché direttore artistico tra il 2011 e il 2019 della Compagnie National de Danse d’Espagne, la compagnia di balletto dell’Opéra National de Paris punta ad intrecciare in uno scambio osmotico le coreografie più incisive del repertorio classico e contemporaneo, al fine di preservare la lunga tradizione devota all’eccellenza e di favorire al contempo una fruttuosa collaborazione con i nomi di punta della più fervente attualità autoriale. Si situa naturalmente in questa linea lo spettacolo da noi visto il 30 marzo scorso al Palais Garnier incentrato sul rapporto tra la più recente affermazione della coreografa israeliana Sharon Eyal e la classica contemporaneità di Mats Ek, di cui si festeggia l’ottantesimo compleanno. Due pezzi, quelli scelti, destinati alla riscoperta delle sfumature più solitarie dell’amore. Due espressioni di un diverso modo di concepire la scrittura coreografica, che nel riscoprire affinità e nel tracciare sentieri ereditari, evidenziano congiuntamente discordanze e disomogeneità. In un cammino a ritroso, possiamo quindi vedere quanto la danza di oggi nel suo essere sostanzialmente postumana si sia distanziata dalla danza più puramente postmoderna dei grandi autori novecenteschi. Nel primo pezzo, Vers la mort, ci troviamo di fronte ad una rielaborazione del più noto OCD LOVE. Tutto nasce da una poesia del trentenne poeta slam americano Neil Hilborg, ovvero da un monologo autobiografico in versi di un uomo innamorato che soffre di un disturbo ossessivo compulsivo. Una storia di tic mentali che si susseguono ripetendosi all’infinito. «Ho chiuso la porta? Sì. Mi sono lavato le mani? Sì». E all’improvviso la visione di una lei che sconvolge tutti i patterns mentali, cambiandone il paesaggio di immagini con una curva a spillo delle labbra o una ciglia caduta su una guancia. È questa la fonte della trilogia di Sharon Eyal, creata a partire dal 2015 per la propria compagnia di nome L-E-V, la traduzione in ebreo del termine «cuore». Nel 2003 la coreografa era divenuta direttrice artistica associata della Batsheva Dance Company. Dal 2005 al 2012 ne era stata coreografa residente. Nata a Gerusalemme nel 1971 Sharon Eyal si è imposta nel panorama della danza contemporanea israeliana con una trentina di creazioni e numerosi premi. Spesso associata all’universo della danza gaga, in realtà la coreografa ha mosso i primi passi nell’ambito della danza classica da cui prende sovente le mosse per la sua ricerca espressiva. La sensualità è uno dei temi cardine della sua coreografia, coniugata in una dimensione di metaverso techno dalla musica di Ori Lichtik. La scenografia del pezzo è oltremodo spoglia, ed a determinare il quadro di emozioni sono i fasci di luce di Thierry Dreyfus. Avvolta dalla luce bianca nella sua calzamaglia color carne, la prima danzatrice reagisce ai beat della musica con una distensione delle braccia, sfiorando leggermente l’avambraccio per poi contrarsi con improvvisa decisione. Da qui si passa alla spalla ed al cambré, per tornare lentamente in asse. Dopo un cambio di épaulement, la testa si scuote mentre le braccia scivolano giù. Il piede si stacca da terra coinvolgendo in un sussulto anche il ginocchio, e la gamba scavalca la prima posizione delle braccia in un assertivo développé. Si unisce una seconda danzatrice imponendosi con le accelerazioni del corpo, e le due si muovono a specchio. Infine, un piccolo corpo di ballo anima il pezzo di un’energia frenetica, obbligando lo spettatore a rimanere sintonizzato con questo loop di movimenti rivelatosi asfittico dopo lo stordimento iniziale. Ben diversa l’atmosfera di Appartement, creato originariamente nel 2000 da Mats Ek per la compagnia francese. Nella danza teatrale del coreografo svedese, la scenografia di Peder Freiij dà origine ad una dimensione di grottesco dadaista. Ci si rialza dal bordo inferiore di un sipario rosso per avanzare verso un bidet o una poltrona, così come si dà il via ad una danza con degli aspirapolvere o si recinta tutto di strisce colorate che indicano lavori in corso. La musica sullo sfondo è quella elettronica dei Fleshquartet che coniuga la leggerezza degli archi a ispirazioni più carnali. Il va’ e vieni di pedoni danzanti contorna le solitudini della città. Il movimento ricorda a volte la più banale quotidianità, in una tensione verso il basso che sembra discendere da Bachtin. Tuttavia, qui al riso si mescola la malinconia, una porta socchiusa lascia fuoriuscire una verità di vita ben diversa dalle nevrosi del primo pezzo, e su tutto prevale la poesia di ciò che non è imposto con forza aggressiva, ma con la semplicità di un bisbiglio che arriva quasi sussurrato allo spettatore, lasciandolo realmente inebriato. Foto Opéra National de Paris

 

Categorie: Musica corale

Jacques Offenbach (1819 – 1880): “La vie parisienne” (versione originale 1866).

Dom, 13/04/2025 - 11:35

Opéra buffe in cinque atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Anne-Catherine Gillet (Gabrielle), Véronique Gens (Métella), Sandrine Buendia (La Baronne de Gondremarck), Elena Galitskaya (Pauline), Louise Pingeot (Clara), Marie Kalinine (Bertha), Marie Gautrot (Mme de Quimper-Karadec), Caroline Meng (Mme de Folle-Verdure), Artavazd Sargsyan (Raoul de Gardefeu), Marc Mauillon (Bobinet), Jérôme Boutillier (Le Baron de Gondremarck), Pierre Derhet (Le Brésilien, Le Major Frick, Gontran), Philippe Estèphe (Urbain, Alfred, Un Employé), Carl Ghazarossian (Prosper, Joseph, Alphonse). Choeur de l’Opéra national du Capitole de Toulouse, Gabriel Bourgoin (maestro del coro), Orchestre national du Capitole de Toulouse, Romain Dumas (direttore). Registrazione: Halle aux Grains, Toulouse. 10-13 gennaio 2023. 2 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane,  Opéra français n. 41
I lavori di Offenbach hanno spesso avuto una vita sofferta che ha creato non pochi grattacapi agli editori e ai filologi. Senza raggiungere gli eccessi di altri titoli anche “La vie parisienne” è passata attraverso non poche traversie. Andata in scena per la prima volta nel 1866 ha subito negli anni seguenti numerose variazioni conseguenti al cambio del clima e della sensibilità che caratterizzano gli anni successivi alla disastrosa guerra del 1870 e alla caduta del II Impero. La successiva versione del 1874 taglia in toto il IV atto – molto recitato – modifica, taglia e aggiunge numerosi brani musicali tanto che le due versioni possono essere quasi considerati titoli diversi. La versione del 1874 è quella che si è stabilizzata in repertorio e per la prima volta viene incisa integralmente – e in edizione critica a cura di Sébastien Troester– la versione andata in scena nel 1866.
Andata in scena al Capitole e successivamente incisa per la Collana Opéra francaise da parte della fondazione Palazzetto Bru Zan.
L’opera è ben poco nota in Italia ed è un vero peccato vista la qualità dell’ispirazione musicale, la scanzonata ironia del libretto e un particolare senso nel ricercare un colore ambientale moderno che vuole esaltare Parigi, vera capitale del mondo. Esemplare al riguardo il primo atto ambientato in una stazione tra i richiami dei macchinisti, il coro che simula sbuffi di treni in arrivo e in partenza e i viaggiatori che accorrono da ogni dove verso la grande seduttrice.
Roman Dumas è anche lui nome quasi sconosciuto da questo versante delle Alpi ma il suo curriculum è di alto livello e brilla soprattutto la lunga collaborazione come assistente di Marc Minkowski. Quest’ultimo è un modello ben presente nella direzione di Dumas che dal maestro ha ereditato il gusto per ritmi rapinosi e trascinanti – cosa sono i galop che chiudono terzo e quarto atto – uniti a sonorità leggere e setose e a un sentimento di garbata melanconia che di questa musica coglie l’essenza più profonda, un’energia intrisa di sentimento e un sentimento rivisto con quello sguardo disincantato e bonariamente ironico che è l’essenza stessa dello spirito parigino.
Il cast è composto tutto di cantanti madrelingua, vantaggio non da poco in un titolo come questo caratterizzato anche da lunghe sezioni parlate. Tra le due prime donne questa versione da maggior spazio a Gabrielle, soprano lirico leggero dal canto spumeggiante è virtuosistico. Ad affrontare la parte è Anne-Catherine Gillet, subentrata nel progetto dopo la dolorosa scomparsa di Jodie Devos. Voce non grande ma dal timbro cristallino, agile e nitidissima nei passaggi di bravura che si adatta come un guanto a questa scrittura.
Metella – la cui parte sarà ampliata nella versione del 1874 – è cantata con la solita classe da Véronique Gens, elegantissima e affascinante nel suo rondò e impeccabile nel taglio salottiero e un po’ blase da gran dama. Sandrine Buendia è spassosissima nella parte della contessa danese di Gondremarck con le sue inflessioni volutamente caricate. Elena Galitskaya è una Pauline incantevole per brio e precisione, interpretativamente centratissima nel suo ruolo di piccola borghese chiamata a far la gran dama e in una parte come questa le qualità prevalgono su una voce nel complesso abbastanza piccola. Parte principalmente parlata quella della temutissima Mme de Quimper-Karadec – che Offenbach fa entrare in un melologe sul tema del Commendatore del “Don Giovanni” – resa con sulfurea estroversione da Marie Gautrot.
Altrettanto valide le prestazioni sul versante maschile. Veterano delle registrazioni della Fondazione Artavazd Sargsyan è un Raoul de Gardefeu dalla voce lirica e di bel colore, capace di alternare con naturalezza abbandoni lirici e ironica brillantezza così che gli si perdona qualche acuto non sempre ben centrato. Tra i tenori di carattere si fanno apprezzare Marc Mauillon, un Bobinet in punta di forchetta e  Pierre Derhet che supera con limpida sicurezza i vertiginosi sillabati del Rondeau de Brésilien. Jérôme Boutillier sfrutta la sua voce ampia e ricca di armonici, quasi sovradimensionata per il contesto per rendere i modi impacciati del Baron de Gondremarck che con la sua schiettezza nordica si muove come un elefante nella cristalleria tra le trine della coquetterie parigina. Philippe Estèphe con la sua bella voce di baritono chiaro da un ottimo contributo alla perfetta riuscita del trascinante Trio diplomatique. Impeccabili tutte le parti di contorno, ottima la qualità della registrazione e come sempre ricchissimo il volume di accompagnamento.

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Domenica delle Palme

Dom, 13/04/2025 - 00:15

La domenica delle Palme, “Domenica Palmarum” o “Domenica in Palmis” è, nella liturgia dei nostri giorni, la seconda Domenica di Passione, con la quale ha inizio la Settimana Santa. Sappiamo che fin dal IV° secolo, a Gerusalemme, si era organizzato di fare, nel pomeriggio di quel giorno, una processione che, scendendo dal Monte degli Ulivi, raggiungeva la città. I partecipanti recavano in mano Palme (simboleggianti il trionfo di Cristo sulla morte) e rami di ulivo (a simbolo della Pace in Dio). La tradizione passò poi in Occidente, sviluppandosi specialmente in Francia, dove poi si arrestò, affermando, già nel VII° secolo, l’usanza di conservare i rami di ulivo in casa per un anno intero. La lettura evangelica del giorno è quella stessa che aveva già caratterizzato la prima domenica di Avvento (Matteo cap. 21,vers. 1-9) che narra dell’ingresso di Cristo in Gerusalemme, simbolo dell’ingresso in un’altra Gerusalemme, quella celeste. “E quando furon vicini a Gerusalemme e furon giunti a Betfage, presso al monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nella borgata che è dirimpetto a voi; e subito troverete un’asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e menatemeli. E se alcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà.
Or questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta: Dite alla figliuola di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto, e montato sopra un’asina, e un asinello, puledro d’asina. E i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; menarono l’asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli, e Gesù vi si pose a sedere. E la maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; e altri tagliavano de’ rami dagli alberi e li stendevano sulla via. E le turbe che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: Osanna al Figliuolo di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!”
Per questa festività, Bach scrisse una Cantata che risale agli anni di Weimar, unico luogo nel quale era consentito l’impiego della “Musica figuralis” durante il periodo di penitenza in preparazione alla Pasqua. Si tratta della Cantata nr. 182 Himmelskönig sei willkommen,  eseguita per la prima volta il 25 marzo 1714. Questa  è la prima, in ordine di tempo,  delle Cantate scritte da Bach dopo aver ricevuto la nomina di “Konzermeister”, con l’obbligo di comporre una Cantata al mese. L’incipit del testo “Re del Cielo, benvenuto!
Concedi anche a noi di essere il tuo Sion! 
 è forse di Solomo Franck, mentre al Salmo 40 (versetti 8-9) è ispirato il testo dell’unico recitativo (nr.3) “Ecco io vengo.Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia, mio Dio, la tua volontà...”. La Domenica delle Palme di quel 1714, coincideva con la Festa dell’Annunciazione del Signore e per tale festività venne ripresa a Lipsia, dove non poteva essere impiegata nella Domenica delle Palme, ma appunto per la Festa dell’Annunciazione degli 1724 e 1728.
La cantata si apre con un brano strumentale che Bach qualifica come “Sonata”, che vede impegnati violino concertante, flauto, su un pizzicato degli archi, violino di ripieno e due parti di Viola e violoncello, nello svolgimento di una trama melodica tendenzialmente ascendente, con ritmo puntato, in uno stile di “Ouverture”, dal carattere marcato che guarda al soggetto della Cantata, con l’incedere solenne che preannuncia l’ingresso di Cristo nella Cttà Santa. Il coro che segue è nella forma con il “da capo” . Lo stile, almeno nelle due sezioni estreme, è quello rigoroso della fuga di permutazione. Troviamo poi tre arie: la prima, affidata al Basso, vede un violoncello concertante su un armonia sorretta dalle due parti di Viola e dal continuo in stile “ostinato”, la seconda, affidata al Contralto, con il flauto  concertante. La terza, per voce di tenore, è con il solo accompagnamento del violoncello del Continuo, ancora in stile “Ostinato”. Il Corale, penultimo brano della Cantata,  è intonato in stile mottettistico derivato da Pachelbel, mentre il brano conclusivo, ancora un Coro, sfrutta nuovamente il principio della fuga di permutazione, con una “fuga” di stile più rigoroso, rispetto al Coro iniziale.
Nr.1 Sonata  
Flauto, Violino concertante, Violino di ripieno, Viola I/II, Continuo e Violoncello
Nr.2 – Coro
Re del Cielo, benvenuto!
Concedi anche a noi di essere il tuo Sion!
Vieni, entra, tu che hai preso i nostri cuori.
Nr. 3 – Recitativo (Basso)
Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro
di me è scritto che io faccia,
mio Dio, la tua volontà.
Nr.4 – Aria (Basso)
Amore potente per il quale tu, grande Figlio di Dio,
hai abbandonato il trono della tua gloria
e per la salvezza del mondo hai offerto te stesso in sacrificio
con il sigillo del tuo sangue.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Prostratevi dinanzi al Salvatore, voi, cuori dei cristiani!
Indossate la candida veste della fede per incontrarlo,
corpo e anima e tutto ciò che avete siano ora consacrati al Re.
Nr.6 – Aria (Tenore)
Gesù, nella bene e nel male lasciami venire con te!
Anche se il mondo grida “Crocifiggilo!”,
fà che io non fugga, o Signore, dinanzi alla tua croce;
là troverò la gloria e le palme.
Nr.7 – Corale
Gesù, la tua passione è per me pura gioia,
la tue ferite, spine e offese l’alimento del mio cuore;
la mia anima cammina sulle rose  quando penso a questo:
che in cielo tu prepari un posto per me.
Nr.8 – Coro
Dunque lasciaci entrare nel Salem della gioia,
accompagnando il Re nell’amore e nel dolore.
Egli ci precede e ci apre il cammino.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Himmelskönig, sei willkommen”BWV 182
Categorie: Musica corale

Roma, Museo di Arte Contemporanea: “Nino Bertoletti 1889-1971”

Sab, 12/04/2025 - 17:03

Roma, Museo di Arte Contemporanea
NINO BARTOLETTI 1889-1971
a cura di Pier Paolo Pancotto
Roma, 11 aprile 2025
Ogni tanto, nella programmazione espositiva di una città come Roma, emerge una mostra che non solo colma un vuoto, ma chiarisce un malinteso. La retrospettiva dedicata a Nino Bertoletti alla Galleria d’Arte Moderna (fino al 14 settembre 2025) rientra esattamente in questa categoria: un progetto che riordina, ricostruisce, e soprattutto riconduce l’attenzione su una figura colta, appartata, ma tutt’altro che marginale nel panorama artistico del Novecento italiano. Pier Paolo Pancotto, curatore dell’iniziativa, ha scelto di non alterare il profilo dell’artista. Al contrario, lo ha riportato alla luce per quello che fu: un autore schivo, articolato, appartato ma non periferico. Bertoletti non fu un innovatore nel senso rivoluzionario del termine, ma un uomo di cultura nel senso pieno, che attraverso la pittura ha esplorato le possibilità dell’arte figurativa con attenzione, rigore, misura. Il suo mondo, come ricorda il percorso espositivo, è fatto di paesaggi discreti, di interni silenziosi, di ritratti senza retorica. L’allestimento si segnala per un’ottima lettura cronologica e per un’illuminazione che non forza le opere, lasciando parlare le superfici, le tonalità, le impaginazioni delle tele. L’esposizione si apre con i lavori della giovinezza, dipinti tra il 1902 e gli anni Venti: quadri ancora legati a un’espressionismo controllato, più di impianto mitteleuropeo che mediterraneo, in cui emerge un giovane artista che guarda all’arte come esercizio etico, prima ancora che estetico. Ma è tra gli anni Venti e Trenta che Bertoletti matura una scrittura pittorica personale, più stabile, come se il suo linguaggio prendesse finalmente forma nella quieta intensità della composizione. Le opere realizzate in questo periodo, visibili nella seconda sala, parlano di un artista che predilige la riflessione all’enfasi, la chiarezza dell’impianto al virtuosismo, e che sembra sempre voler domare l’immagine con la mente, prima che con il pennello. Il punto di svolta, e anche la parte forse più interessante della mostra, è rappresentato dalla produzione del secondo dopoguerra. Qui il realismo di Bertoletti, pur conservando il proprio ordine, lascia filtrare una luce diversa: più interiore, più esistenziale. I soggetti si fanno simbolici: paesaggi e nudi che rimandano a un classicismo antico, eppure reinterpretato, come se l’artista cercasse nell’antico non il rifugio, ma un archetipo. Un aspetto poco noto, ma ben valorizzato in mostra, è la sua produzione grafica e illustrativa. Questi fogli, in parte presentati a parete e in parte sfogliabili in riproduzione, rivelano un lato più diretto del suo operare. Un disegno essenziale, nitido, che guarda alla linea come a un elemento narrativo e non solo formale. Bertoletti fu anche collezionista, mercante e osservatore critico del suo tempo: e ciò si riflette in una pittura che è sempre anche commento, lettura, risposta al presente. Il catalogo edito da Dario Cimorelli Editore accompagna degnamente la mostra, con saggi puntuali e ben documentati. Non si tratta, fortunatamente, di una pubblicazione ridondante, ma di un lavoro editoriale che restituisce serietà alla critica d’arte. Segno che l’operazione non si limita al recupero museale, ma tenta un inserimento pieno di Bertoletti nel tessuto storico e culturale italiano. Non manca in mostra la figura discreta ma centrale di Pasquarosa, sua compagna di vita e di arte. Ritratta in molti dipinti, Pasquarosa non fu solo musa, ma interlocutrice culturale, pittrice lei stessa, presenza viva e compartecipe. Nelle sue sembianze, che cambiano con gli anni – da giovane modella a figura domestica, fino a donna anziana – si legge anche la continuità di una poetica dell’affetto che in Bertoletti non fu mai decorativa, ma necessaria. Una nota meritano infine le scelte espositive: le opere non sono costrette in griglie o didascalie invadenti, ma respirano, e questo aiuta la lettura del percorso e del pensiero visivo dell’artista. Anche l’illuminazione è equilibrata, mai invasiva, segno di un rispetto raro per la superficie pittorica. In tempi in cui l’allestimento tende spesso a rubare la scena all’opera, qui si è scelto il contrario: lasciare parlare i quadri, e ascoltarli. Sarebbe vano cercare in questa retrospettiva uno stile dominante o una cifra univoca. Bertoletti, artista colto e riflessivo, ha attraversato stagioni diverse, ma sempre con la medesima discrezione. Non si è mai imposto, ma ha tracciato una traiettoria coerente, fatta di costanza, cultura, ricerca. Questa mostra non lo trasforma in un maestro riconosciuto, e non lo pretende. Ma restituisce, con onestà e precisione, la figura di un uomo che ha saputo coniugare arte e pensiero senza cadere nell’esibizione. Un artista la cui opera non cerca l’effetto, ma l’equilibrio. E oggi, in un tempo così rumoroso, questo è già molto.

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Roma, Museo di Arte Contemporanea: “Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo”

Sab, 12/04/2025 - 13:01

Roma, Galleria d’Arte Moderna
OMAGGIO A CARLO LEVI. L’AMICIZIA CON PIERO MARTINA E I SENTIERI DEL COLLEZIONISMO
collaborazione tra la Fondazione Carlo Levi di Roma e l’Archivio Piero Martina di Torino
Roma, 11 aprile 2025
Come il guizzo tremulo di una luce di tramonto che si rifrange su un volto antico, la pittura di Carlo Levi non si lascia catturare con la rete delle definizioni. Essa è, per usare un ossimoro leopardiano, una “serietà immaginosa”: pittura che crede al visibile come a un’urgenza civile, e al medesimo tempo lo trascende per suggerire le zone di silenzio che si celano sotto la superficie del reale. La mostra “Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo”, allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Roma in occasione del cinquantenario della scomparsa dell’artista, non è soltanto un percorso antologico. È, nel suo disegno curatissimo, una partitura a due voci, un’“allegoria della relazione”, come l’avrebbe forse detta Warburg. In essa, il dialogo fra Levi e Piero Martina non si limita al registro biografico, ma si traduce in un tessuto pittorico complesso, fatto di assonanze timbriche, fughe tematiche, ritorni inattesi. Il primo movimento del percorso — La formazione — ci riconduce a quella Torino di fine anni Venti e Trenta che, più che una città, fu per i due una matrice spirituale. I toni ora densi, ora traslucidi dei quadri torinesi (si pensi al candore abbacinante del cappellino bianco in Lelle seduta, 1933) sono in Levi un “chiaroscuro morale”: mai esercizio accademico, piuttosto affondo psicologico. A contrasto, Martina par che voglia negare la sostanza pittorica: lo si osserva nei suoi interni quasi sussurrati, come Figura con maschera del ’38, dove la materia si fa vaporosa, inafferrabile — e proprio per questo carica di presenze. Con la sezione Da Torino a Roma, la mostra si fa geografia emotiva e politica. La guerra incombe, e l’amicizia si rifugia nel colore, come nella doppia fisionomia speculare dei Ritratti reciproci del 1942. Eppure qui, nel momento del dolore e del nomadismo coatto (Levi è già segnato dall’esperienza lucana), si precisa il loro sguardo sul mondo. Levi piega la linea al peso della realtà: Autoritratto con fornello è una tela che ha lo stesso impasto della terra, e lo stesso silenzio. Martina, invece, comincia a sperimentare una pittura più costruita, come se cercasse nei solidi una difesa dal crollo. La Ragazza al clavicembalo è la trascrizione delicata di un’armonia perduta. Con la Roma del dopoguerra entriamo nella sezione più vibrante del percorso: La stagione dell’impegno civile. Qui, Levi diviene quello che già era nella sostanza: un pittore delle classi oppresse, ma non attraverso il grido, bensì la forma. Il ragazzo Aleandro e Contadine rivoluzionarie sono tele che rifuggono la retorica: non denunciano, esistono, come presenze che chiedono attenzione, mai pietà. Martina risponde con le sue Tessitrici, con La manifattura tabacchi — e lo fa traducendo la fatica in colore, e la ripetizione in ritmo. Qui la pittura non illustra, evoca il lavoro come durata, come pulsazione. La sezione Il nudo e il paesaggio è forse quella dove il dialogo si fa più sfuggente. Martina sembra danzare con la luce, nelle sue vedute dove le figure quasi si disfano nel fogliame. Levi, al contrario, si appesantisce (ma non nel senso deteriore): il suo Alberi del 1964 è quasi una battaglia vegetale, un corpo a corpo con la natura, dove il pennello lotta per farsi spazio tra le pieghe della tela. Il suo paesaggio non è evasione, è materia che pensa. Chiude la mostra una sezione dal sapore privato, ma non per questo meno necessaria: Le opere di Carlo Levi nella Collezione De Lipsis Spallone. In queste tele inedite, selezionate con cura quasi da miniaturista dalla collezionista romana, si avverte una malinconia quieta, un’archeologia dell’anima. Dal Piccolo nudo del ’28 fino agli Amanti dell’ultimo periodo, è come se Levi tornasse su se stesso, ripetendo senza ripetersi: ogni nudo è anche un paesaggio, ogni albero un corpo, ogni volto un destino. La mostra, nel suo insieme, non costruisce un monumento, ma un organismo. Non esalta, ma riflette. E, nella riflessione, illumina. Non solo Carlo Levi, ma l’intera idea di un’arte come responsabilità del vedere. Un’arte che non fugge il mondo, ma lo ascolta — nella materia, nella luce, nell’amicizia.

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Roma, Sala Umberto: “I promessi suoceri” 14 aprile 2025

Sab, 12/04/2025 - 12:20

Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo
Con  Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
L’evoluzione da “Papà” a “Suocero” è un momento complicato della vita di un uomo ed è arrivato il momento per Antonio. Ex animatore di villaggi turistici non ha mai perdonato sua moglie Elisa, insegnante di italiano, per avergli impedito una carriera artistica. La sua unica figlia Lucia ha deciso di accettare la proposta di matrimonio del suo amato Renzo e lo comunica ai genitori. Con l’inevitabile timore di finire nella soffitta dei ricordi, Antonio essendo legato alle tradizioni, chiede un incontro ufficiale con la famiglia dello sposo. Dopo i primi convenevoli notano la grande distanza sociale ed economica delle famiglie: Gaetano è erede di un capo clan e Giulia è straniera trapiantata a Napoli ma con un passato da soubrette. Si cerca comunque di trovare punti di incontro fino a quando una verità inconfessabile costringe Antonio e gli altri ad ostacolare il progetto di nozze. Così Renzo e Lucia, come quelli Manzoniani, si troveranno davanti ad una inspiegabile strategia per un “Questo matrimonio non s’ha da fare”. Le dinamiche ed i colori strizzano l’occhio alla umana comicità della commedia all’italiana dei tempi d’oro, condita con i meccanismi del teatro classico partenopeo. Non a caso l’esordio del colloquio tra i suoceri è un chiaro omaggio a quello di “Miseria e Nobiltà” di Eduardo Scarpetta. I nostri giovani troveranno, come quelli del romanzo, mille impedimenti al loro matrimonio. Con una serie di colpi di scena a catena la matassa si ingarbuglia fino ad apparire inestricabile. Anche con loro però la divina provvidenza interverrà?… (spoiler) Sì! Interverrà ma in maniera molto particolare, regalando un lieto fine, ma che non potrà rimarginare vecchie ferite e scheletri finalmente liberati dagli armadi dei nostri “Promessi Suoceri”. Qui per tutte le informazioni. 

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Roma, Teatro dell’Opera: Lezione dimostrativa della Scuola di Danza

Ven, 11/04/2025 - 23:15

Lunedì 7 aprile la Scuola di danza (o Scuola di ballo, secondo la dicitura più antica tipica dei teatri lirici) del Teatro dell’Opera di Roma diretta da Eleonora Abbagnato apre ancora una volta le porte al pubblico per mostrare le proprie attività didattiche.
Nei saluti iniziali Abbagnato ha posto l’accento, insieme al Soprintendente Francesco Giambrone, sull’interesse da parte della Fondazione per una proficua gestione della Scuola come fucina di artisti. Ne è emerso un approccio efficace nella cura non solo del canonico percorso didattico accademico, quanto nell’ampliamento delle attività a tutto tondo, al fine di inserire i ragazzi in una formazione di livello internazionale. Il tutto sull’eco dell’impostazione che la stessa Direttrice ha acquisito prima alla Scuola dell’Opéra di Parigi e poi della tradizione che ha saggiato con la propria carriera di Étoile del Corpo di ballo parigino.
Qualcuno potrà chiedersi quanto sia necessario che in Italia i tre Enti lirici che ancora possono vantare una Scuola di formazione professionale siano affidati o a direttori francesi o a italiani francesi di formazione. Senza scendere nei particolari (diversissimi e che qui sarebbero fuori luogo) di Milano e Napoli, basti dire che l’italianissima Abbagnato (e così chiunque altro/a) non potrebbe agire diversamente rispetto al far fruttare quanto appreso nel corso della propria vita, per di più in uno dei templi mondiali della danza e che ognuno mette a frutto ciò che conosce meglio. D’altra parte la Scuola francese attuale è quella storicamente più vicina a noi, tant’è che per gli storici della danza si parla di scuola franco-italiana già dalle origini. Gli stili sono poi altra cosa e ognuno si identifica con quello che gli appartiene maggiormente. L’incrocio di maestri di diversa provenienza permette inoltre ai ragazzi – soprattutto dei corsi superiori – di acquisire quella versatilità necessaria al professionista.
Tra le materie di studio si rileva l’apertura anche al canto (arte che già dall’inizio delle fondazioni di insegnamento coreutico accompagnava la formazione delle allieve donne alla prima Scuola d’Italia, fondata nel 1812 al San Carlo di Napoli), alla istituzione ormai consolidata del corso introduttivo per gli allievi che vengono “scovati” in tutta Italia e all’estro per permettere uno scouting sempre più ampio, ma anche alle progettualità dedicate ai giovani coreografi emergenti provenienti dalla Scuola stessa, oltre all’impegno degli allievi alla GNAMC di Roma (Galleria Nazionale di arte Moderna e Contemporanea) in un progetto sul Futurismo e alla collaborazione con l’ospedale Gemelli per altre iniziative. Restano non svelati ulteriori cantieri che dimostrano ulteriormente la volontà di un costante miglioramento e del radicamento della Istituzione sul territorio nazionale.
Si tratta di una prospettiva importante in un contesto – quello italiano – in cui le Scuole teatrali si contano sulla punta delle dita e non sempre sono affidate a una guida che sappia (o che possa) andare davvero nella direzione giusta per gli allievi.
Al Teatro dell’Opera di Roma l’azione sinergica di volontà politiche e spirito artistico consente evidenti benefici che Eleonora Abbagnato, Direttrice in forze anche al Corpo di Ballo del TOR al quale la Scuola garantisce continuità, è perfettamente in grado di assicurare.
Si sono succeduti sul palco tutti i corsi, dalla propedeutica all’VIII, in cui ciascun Maestro ha presentato un momento di lezione con gli elementi caratteristici di ciascun livello, accompagnati al pianoforte dai Maestri accompagnatori della Scuola. La serata è stata aperta dalla tecnica del Passo a due con gli allievi degli ultimi corsi, forti e dinamici nelle difficili combinazioni del Maestro Pablo Moret (docente del VII e VIII corso maschile) e che, insieme alla moglie Ofelia Gonzalez (VII e VIII corso femminile), costituisce la punta di diamante (per esperienza e sapienza) del Corpo docenti. Ciascun corso, ognuno con le relative difficoltà legate all’età e alla velocità di esecuzione che l’impostazione francese esige, ha mostrato sicurezza progressiva e ottimo lavoro. Dai piccoli della Propedeutica affidata a Valentina Canuti, al I – II femminile di Federica Lanza e I – II maschile di Alessandro Rende.
Molto applauditi i frammenti di lezione dei Maestri Silvia Curti (III e IV femminile), Gerardo Porcelluzzi (III e IV corso maschile), Alessandro Molin (V e VI corso maschile), Gaia Straccamore (V e Vi femminile) le cui ragazze sembravano già delle professioniste, oltre ai già menzionati VII e VIII corso di Moret e Gonzalez. Le notevoli difficoltà delle sequenze sono state sostenute con sicurezza dai ragazzi, in proporzione alle doti e ai risultati raggiunti da ciascuno. Talvolta è evidente come fisici meno dotati in senso estetico siano invece quelli che garantiscono maggiore affidabilità e risultati migliori.
Oltre alla conoscenza delle danze storiche e di carattere, come da tradizione, affidate a Ioulia Sofina, la giusta attenzione è posta allo studio storico della Modern dance con la tecnica Graham, affidata a Jacqueline Bulnes e al laboratorio coreografico col maestro Marco Bellone. I ragazzi sono apparsi ben preparati anche su questo versante – cosa non scontata nelle Scuole di balletto. Il corso professionale è affidato invece a Francesco Vantaggio, mentre non manca, tra le materie di studio, la storia della danza affidata a Francesca Falcone.
Commovente il dolce tributo ai nonni messo in scena con i più piccoli per la dimostrazione di canto, con movimenti coreografici composti dagli stessi allievi, sotto la guida del maestro Giuseppe Annese.
Una importante apertura “imprenditoriale” (nel senso positivo del termine) accompagna la guida di questa Scuola in un momento in cui essere imprenditori di sé stessi è non solo importante, ma è l’unico modo per incrementare le opportunità di studio per ragazzi che decidono di dedicare la propria vita all’arte difficile della danza in un Paese che, nell’immaginario collettivo, ancora stenta a  riconosce l’arte come lavoro e spesso vede ingiustamente i propri figli volare all’estero per mettere a frutto quello su cui si è a lungo investito. (foto Fabrizio Sansoni)

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Milano, Teatro alla Scala: “L’opera seria” di Florian Leopold Gassmann

Ven, 11/04/2025 - 08:23

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e belletto 2024/25
“L’OPERA SERIA
Commedia per musica in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Florian Leopold Gassmann
Fallito PIETRO SPAGNOLI
Delirio MATTIA OLIVIERI
Sospiro GIOVANNI SALA
Ritornello JOSH LOVELL
Stonatrilla JULIE FUCHS
Smorfiosa ANDREA CARROLL
Porporina SERENA GAMBERONI
Bragherona ALBERTO ALLEGREZZA
Befana LAWRENCE ZAZZO
Caverna FILIPPO MINECCIA
Ballerina MARIA MARTIN CAMPOS
Coro di ballerini DILAN SAKA, HAIYANG GUO, XHIELDO HYSENI
Orchestra e coro del Teatro alla Scala – Les Talens Lyriques
Direttore Christophe Rousset
Regia e costumi Laurent Pelly
Scene Massimo Troncanetti
Luci Marco Grossi
Coreografie Lionel Hoche
Milano, 6 aprile 2025
Florian Leopold Gassmann chi era costui? Potremmo chiederci come faceva Don Abbondio con Carneade e la domanda non sarebbe importuna essendo il boemo praticamente sconosciuto. Eppure si tratta di figura non marginale nella vita musicale europea del pieno settecento. Allievo di Padre Martini, musicista cesareo, propugnatore degli ideali riformatori di De Calzabigi e Gluck, maestro di Salieri. Questi pochi dati potrebbero bastare a indicarne la rilevanza. L’opera seriaandata in scena a Vienna nel 1769 e qualcosa di più delle semplici parodie metateatrali tanto care al Settecento. È un vero pamphlet in musica con cui i propugnatori della riforma attaccano il melodramma post metastasiano ormai diventato mera ripetizione di formule e schemi – “non c’è obbligo di stare in attenzione”, “non ti muove a timor né a compassione” citando il libretto – e al contento la fallimentare gestione della vita musicale affidata a impresari spesso senza scrupoli. Libretto e musica giocano tutte le carte al riguardo. L’ampollosità ridicola dei versi, la rigidità formale delle arie sono armi di denuncia ci si contrappone la naturalezza dell’opera riformata. Molte le citazioni, i rimandi, le parodie forse non sempre così evidenti all’ascoltatore odierno ma sicuramente perfettamente fruibili al tempo. Un lavoro forse non ispiratissimo ma di certo godevole e che molto chiede all’esecuzione. E in tal senso la non comune sensibilità di Laurent Pelly sa cogliere l’essenza di questo tipo di lavori. Allestimento essenziale, tutto giocato su alternanze di bianco, grigio e nero quasi a dar vita a una raccolta d’incisioni. Costumi in epoca rivisti con ironia – solo Fallito indossa abiti moderni, infondo certe figure non hanno tempo – ma soprattutto un lavoro attoriale meticoloso e puntualissimo. Una regia che parte dai personaggi e dai loro rapporti e che li fa vivere in una realtà stralunata ma mai caricato. Spettacolo leggerissimo dove tutto si svolge con la massima eleganza ma senza nulla sacrificare sul terreno della pura teatralità. Le coreografie di Lionel Hoche perfettamente coerenti completano la parte visiva.
Christophe Rousset è una certezza assoluta in questo repertorio e per l’occasione i complessi scaligeri – impegnati su strumenti d’epoca – sono rinforzati dagli splendidi Talens lyrique. In perfetta aderenza con lo spettacolo viene data una lettura orchestrale di magistrale chiarezza e impeccabile senso teatrale. Sonorità nette, nitide, ritmi guizzanti danno al gioco scenico tutta la sua energia vitale.
Il vero punto di forza è, però una compagnia di cantanti attori perfettamente calati nello spettacolo e con un senso di complicità quale raramente si riscontra. L’impresario Fallito è affidato a Pietro Spagnoli e difficilmente si poteva far scelta migliore. Maestro assoluto della parola trova nel personaggio il terreno ideale per far emergere le sue doti d’interprete concedendosi qualche uscita improvvisata – il richiamo a Petrolini dopo la caduta del teatro – che s’inserisce a pennello nel contesto. Unico in abiti moderni incarna alla perfezione l’eterno truffatore che è uno degli archetipi della commedia all’italiana. La coppia poeta e librettista che anziché aiutarsi non fanno altro che litigare e danneggiarsi a vicenda è affidata a Mattia Olivieri (Delirio) e Giovanni Sala (sospiro). Entrambi vocalmente impeccabili, voci belle, schiette, sincere e interpretativamente calati alla perfezione. Il primo un nevrotico sempre sull’orlo del tracollo, il secondo di una sospirosità volutamente caricaturale. Alessio Arduini riesce dare forte risalto al ruolo in fondo secondario del maestro di ballo Passagallo. Non solo canta molto bene e con splendido materiale vocale – peccato la parte si riduca a un’aria e poco più – ma si muove con l’eleganza di un vero ballerino. Il primo musico Ritornello è qui affidato a un tenore. Scelta abbastanza insolita, ci si aspetterebbe un mezzosoprano a parodiare i castrati. Il canadese Josh Lovell canta con gran gusto – da autentico specialista mozartiano – e si dimostra interprete spigliato e simpatico. Il terzetto femminile è capitanato da Julie Fuchs. La prima donna Stonatrilla è parte assai impegnativa cui sono affidate arie di bravura volutamente esasperate – “No, se a te non toglie il fato” – che la cantante francese risolve con inappuntabile maestria. Sul piano interpretativo si apprezza assai un’interpretazione moderata che evita inutili smancerie, centrata sulla musica ed efficacie proprie nella sua essenzialità. Le due seconde donne in perenne lite tra loro sono Serena Gamberoni (Porporina) e Andrea Carroll (Smorfiosa). La prima, personaggio più forte spesso in contrasto con la Primadonna, è ideale per il temperamento della Gamberoni. Vocalmente in ottima forma cesella la spassosa “Delfin che al laccio infido” e in scena si muove da attrice consumata. La Carroll mostra qualche limite sul piano vocale – gravi poveri di suono e acuti a volte un po’ al limite – ma rende con grande simpatia il personaggio, lamentoso e sempre afflitto da ogni problema. Cosa dire del terzetto Alberto Allegrezza, Filippo Mineccia e Lawrence Zazzo nei panni delle insopportabili madri delle cantanti se non che le loro parti sono troppo brevi. Il loro terzetto è tra le pagine più irresistibili dell’opera e il trio degli interpreti è semplicemente perfetto. Viste certe assonanze con la futura Mamma Agata viene da chiedersi se Donizetti non conoscesse quest’opera. Splendido il finale dove il tema classico del giuramento di odio eterno di Annibale verso i romani diventato un topos dell’opera seria – si pensi al finale del “Mitridate re di Ponto” – viene parodisticamente rivolto contro l’infida stirpe degli impresari. Sala gremita –moltissimi i giovani – e grande successo di pubblico. Foto Brescia e Amisano

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Roma, Villa Bonaparte: “Serate Musicali a Villa Bonaparte”

Gio, 10/04/2025 - 22:52

Roma, Villa Bonaparte
Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
SERATE MUSICALI A VILLA BONAPARTE
Harp Trio Chagall
CATELLO COPPOLA, flûte
ADRIANA CIOFFI , harpe
SIMONE DE PASQUALE, alto
e con 
GIUSEPPINA PERNA, soprano
STEFANO SORRENTINO, tenore
CARLO MARTINIELLO, piano
Programma
G. Rossini : “Giusto cielo, in tal periglio” da “L’assedio di Corinto”
M. Carafa : “Fra tante angosce e palpiti da “Berenice in Siria”
G. Pacini : “Quai lugubri lamenti” da “Cesare in Egitto”
S. Mercadante : Largo per flauto, viola e arpa
G. Rossini: “O muto asil del pianto” da “Guglielmo Tell”
S. Mercadante: “Addio felici sponde” da “Didone abbandonata”
G. Donizetti: “Vivi tu te ne scongiuro” da “Anna Bolena”
G. Pacini: Composizione da camera per Soprano, Tenore, Arpa e
Pianoforte (Prima Assoluta)
Roma, 10 aprile 2025
Villa Bonaparte, oggi sede dell’ Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, non è soltanto un palazzo monumentale carico di storia: è un luogo che continua a interrogare il tempo attraverso la cultura. Con il ciclo “Serate musicali a Villa Bonaparte”, avviato nel 2024 e destinato a proseguire fino al termine del 2025, prende corpo un progetto di lungo respiro che coniuga rigore filologico, memoria storica e prassi esecutiva, restituendo significato e respiro alla funzione diplomatica come spazio di pensiero, ascolto e scambio. Tra le linee tematiche che il programma ha saputo esplorare, la figura di Paolina Borghese Bonaparte si impone per carisma, sensibilità e potere evocativo. Sorella di Napoleone, icona ambivalente del neoclassicismo romano, Paolina non fu solo presenza mondana: seppe costruire attorno a sé un vero laboratorio culturale. La sua dimora accanto a Porta Pia, oggi sede diplomatica francese, divenne nei primi decenni dell’Ottocento luogo di incontri, serate teatrali, concerti e improvvisazioni tra attori, pittori e compositori emergenti. Una Roma alternativa, sensibile, inquieta. La serata si è articolata come un itinerario musicale che, attraversando Rossini (Giusto cielo, in tal periglio, O muto asil del pianto), Carafa, Mercadante, Donizetti e Pacini, ha riportato alla luce pagine raramente eseguite e costruito un paesaggio sonoro coerente con la sensibilità salottiera del primo Romanticismo italiano. Il vertice, idealmente e musicologicamente, è stato toccato con l’esecuzione in prima assoluta di una Composizione da camera per soprano, tenore, arpa e pianoforte di Giovanni Pacini, ricostruita a partire da un manoscritto ritrovato a Pescia. In quell’“album di romanze” dedicato alla “distintissima dama”, la musica non è soltanto linguaggio affettivo, ma traccia vivente di un legame tra arte e biografia. Il recupero di questa partitura – frammentaria, delicata, preziosa – è il risultato di un lavoro corale e stratificato. A Pino Adriano, ideatore e coordinatore del progetto, si deve l’intuizione e la tenacia nel rintracciare la fonte, con il sostegno dell’assessorato alla cultura del Comune di Pescia; a Adriana Cioffi, la cura della trascrizione e della realizzazione musicale, affrontata con competenza filologica e profonda intelligenza del suono. È a lei che si deve l’equilibrio tra rigore e cantabilità, tra strutturazione e libertà timbrica. L’organico esecutivo – il Trio Chagall, qui esteso a sestetto con Catello Coppola (flauto), Adriana Cioffi (arpa), Simone de Pasquale (viola), Giuseppina Perna (soprano), Stefano Sorrentino (tenore) e Carlo Martiniello (pianoforte) – ha saputo attraversare il repertorio con sobrietà e senso della forma, evitando ogni compiacimento lirico per restituire, invece, un suono asciutto, interiorizzato, coerente con la destinazione originaria delle composizioni. Ma il dato più sorprendente non risiede soltanto nell’equilibrio interpretativo o nella rarità del repertorio. A rendere l’esperienza irripetibile è stato il modo in cui la Villa stessa ha reagito al suono. Non come cassa armonica, ma come organismo sensibile, capace di riconoscere ciò che già le apparteneva. Come se le musiche, tornate a vibrare dopo due secoli, avessero risvegliato una stratificazione silenziosa, dando luogo a un fenomeno di sospensione temporale: non rievocazione, bensì presenza. La musica, in questo contesto, agisce non come citazione, ma come interruzione del tempo lineare, come breccia nella durata. Il passato non ritorna: si impone. Un’esperienza del genere non sarebbe stata possibile senza l’ospitalità elegante e concreta di S.E. Florence Mangin, Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, la cui visione ha saputo restituire alla diplomazia una funzione generativa, e non meramente cerimoniale. Accanto a lei, il consorte Pino Adriano, figura centrale nella costruzione intellettuale e operativa dell’intero progetto, ha incarnato con fermezza e discrezione un modello di curatela culturale fondato sulla competenza e sull’idea di continuità. Fondamentale anche il lavoro dell’ufficio stampa dell’Ambasciata, nella figura di Pierluca Ferrari, la cui azione – precisa, generosa, appassionata – ha saputo accompagnare e accelerare ogni fase organizzativa, contribuendo con lucidità e sensibilità alla piena riuscita dell’iniziativa.  In tempi in cui la cultura rischia spesso di farsi evento, e l’arte di essere puro spettacolo, queste serate restituiscono un’altra possibilità: quella di un gesto lento, meditato, costruito nel tempo. Villa Bonaparte non è un contenitore, ma un luogo attivo, che reagisce. E la musica, in questo contesto, non è ornamento: è sostanza, strumento critico, memoria incarnata.

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“Salome” inaugura l’87esima edizione del Festival del Maggio Fiorentino

Mer, 09/04/2025 - 18:20

Si alza il sipario del Festival del Maggio Musicale Fiorentino che quest’anno giunge alla sua 87ª edizione. In programma, domenica 13 aprile 2025 alle ore 18, nella Sala Grande del Teatro, uno dei grandi capolavori del ’900 che torna al Maggio a distanza di 15 anni dalla sua ultima messinscena, la Salome di Richard Strauss. Altre tre sono le recite previste in cartellone: il 16 e il 23 aprile alle ore 20 e il 27 aprile alle ore 15:30.
Sul podio, alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, il maestro Alexander Soddy, al suo debutto in Teatro.  La regia dello spettacolo è firmata da Emma Dante, anche lei al suo debutto al Maggio. Un altro debutto fiorentino è segnato dal soprano Lidia Fridman subentrata nella compagnia di canto al posto della già annunciata Allison Oakes che per una indisposizione è stata costretta a lasciare la produzione.
Il cast vocale schiera le voci di Nikolai Schukoff che veste i panni di Herodes; di  Anna Maria Chiuri che è Herodias e di Brian Mulligan che interpreta Jochanaan. Eric Fennell è Narraboth; Marvic Monreal è Ein Page der Herodias; i Cinque ebrei sono Arnold BezuyenMathias FreyPatrick VogelMartin Piskorski e Karl Huml. Interpretano i Due nazareni William Hernandez e Yaozhou Hou (quest’ultimo veste inoltre i panni di Uno schiavo); Frederic Jost e ancora Karl Huml sono Due soldati mentre Davide Sodini chiude il cast lirico vestendo i panni di Un uomo della Cappadocia.
Le scene di questo nuovo allestimento sono curate da Carmine Maringola, i costumi sono di Vanessa Sannino, le luci di Luigi Biondi e la scenografia di Silvia Giuffrè.  Il manifesto dell’opera è di Gianluigi Toccafondo.
La recita del 13 aprile sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3 e in differita televisiva su Rai 5 (ore 21:15)

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Torino, Teatro Regio: “Pikovaja Dama” (La dama di picche)

Mer, 09/04/2025 - 13:30

Torino, Teatro Regio Stagione d’opera 2024 – 2025
PIKOVAJA DAMA “ (La dama di Picche)
Opera in tre atti e sette scene su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij dall’omonimo racconto di Aleksandr Sergeevič Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Hermann MIKHAIL PIROGOV
Il conte Tomskij ELCHIN AZIZOV
Il principe Eleckij VLADIMIR STOYANOV
Čekalinskij ALEXEY DOLGOV
Surin VLADIMIR SAZDOVSKI
Čaplickij, giocatore, maestro di cerimonia  JOSEPH DAHDAH
Narumov, giocatore VIKTOR SHECHENKO
Contessa JENNIFER LARMORE
Liza ZARINA ABAEVA
Polina DENIZ UZUN
La governante KSENIA CHUBUNOVA
Maša IRINA BOGDANOVA
Il piccolo comandante voce bianca LUCA DEGRANDI
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino
Direttore Valentin Uryupin
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Direttore del coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Sam Brown
Scene e Costumi Stuart Nunn
Coreografia Angelo Smimmo
Luci Linus Fellbom
Allestimento Deutsche Oper di Berlino
Torino, 3 aprile 2025
La Dama di Picche che in questo inizio di aprile, per la seconda volta dopo la memorabile edizione Noseda – Krief del 2009, va in scena al Teatro Regio si conferma qual è un grande e multiforme polittico, unificato dalla potente campitura musicale di Čajkovskij. In un continuo variare di scene e di ambienti, emergono Hermann e Liza i personaggi che, con l’anziana Contessa, ne sono gli straziati protagonisti. I bambini e le governanti nel parco, gli irridenti commilitoni di Hermann al tavolo da gioco, l’apparato nobiliare e la Zarina, Polina e le sue amiche diventano parte corale di una gigantesca sinfonia patetica che comunque, fin dall’Introduzione orchestrale, impone un clima oscuro e ansioso che neppure nel Requiem finale troverà la sua catarsi. La regia che si dice Sam Brown abbia ripreso da un’idea originale di Graham Vick, si appiattisce sull’ormai bolsa tradizione dei neon e delle proiezioni in bianco-nero che non illustrano e ancor meno emozionano. Il racconto avanza quindi abbastanza piatto e non si giova dell’aggiunta di un qualche innocuo tocco “alla moderna”. Sorprendente ed apprezzabile la trasformazione, possibile per l’intenso e indiscutibile fascino di  Jennifer Larmore, della vecchia e cadente Contessa in maliosa adescatrice sexy. Le scene di Stuart Nun, come le luci di Linus Bellbom risultano vivaci e ben funzionali allo spettacolo. Sempre di Stuart Nun sono i costumi che, se esaltano la “rivisitazione” glamour della Contessa, non sono altrettanto efficaci nel vestire Liza. Se si cercasse lo stile Vick lo si potrebbe forse solo trovare nei movimenti coreografici dei due atti finali, in cui il coreografo Angelo Smimmo sicuramente rimanda al Tell del ROF 2013. Nonostante la presentazione da parte del Maestro di cerimonie, è stata brutalmente tagliata la “pastorelleria” mozartiana dell’atto secondo. La rinuncia a questa parentesi settecentesca è tutt’altro che indolore: per Čajkovskij, mozartiano viscerale, costituisce, in quest’opera onnicomprensiva, una parte non secondaria di un suo ipotetico autoritratto artistico e spirituale. L’esecuzione sconta la più che eccellente prestazione dei Cori, compreso quello di voci bianche del Teatro Regio, che Ulisse Tabacchin e Claudio Fenoglio conducono con la nota perizia, pur nei trambusti di un affollatissimo palcoscenico che, specie nella scena iniziale, ne ingarbuglia le file. L’Orchestra del Teatro Regio ha ben sostenuto l’immane partitura che, per molti aspetti, è pari a quella di una grande sinfonia con voci. Gli ottimi orchestrali, sempre affossati e invisibili, vengono tradizionalmente trascurati rispetto a chi agisce in scena. I legni, le prime parti e le file, gli archi, i violoncelli e le viole in specie, sono stati a tutti gli effetti assolutamente determinanti al buon esito. In un punto specifico del finale primo, Liza piange e Čajkovskij sul rigo del primo cello scrive in italiano: molto espress.piangendo: la commozione è giunta in sala. La direzione di Valentin Uryupin, sicuramente efficace e tecnicamente agguerrita, soffre di una visione più episodica che unitaria. Ricordando la coinvolgente e inarrestabile spirale emotiva della precedente edizione, si passa qui di scena in scena senza un reale continuum sinfonico. Scoppi sonori a fine scena cercano di animare delle non supportate steppe ghiacciate cui la sola eccellenza di strumentisti e cantanti dà vita. La compagnia di canto è eccellente quando non eccezionale. Mikhail Pirogov, Hermann, è tenore essenzialmente lirico che, pur non sottraendosi all’eroismo di alcune frasi, umanizza strepitosamente il personaggio. Il timbro è virilmente piacevole, così come è notevole la correttezza di intonazione e di fraseggio. Sulla follia e sulla disperazione di Hermann esercita il controllo tipico di chi interiorizza, senza placarle, le proprie angosce. Il pubblico l’ha molto apprezzato e applaudito. Zarina Abaeva, Liza, soprano lirico dai magnifici centri. Il timbro dolce ne fa un carattere remissivo e fragile. Nell’aria dell’ultimo atto, sulla sponda della Neva, ha modo di farsi ammirare per delle doti non comuni di tecnica e di fraseggio. Trova qualche difficoltà nel duetto del primo atto con Polina, Deniz Uzun: le due pare che cantino con sistemi tonali paralleli ma non coincidenti. Polina, sempre la Uzun, esegue poi magnificamente, con le giuste bruniture, la sua canzone Carissime mie amiche. Il reparto femminile si arricchisce della fama e del fascino intatto della Contessa di Jennifer Larmore. L’aria di Gretry, che lei bisbiglia prima di addormentarsi, ben sopporta gli strali di molte stagioni passate su palcoscenici di tutto il mondo. Il conte Tomskij trova in Elchin Azizov, un inappuntabile e fascinoso interprete dalla voce bella, timbrata e sfogata che corre con facilità per tutto il teatro. Determinante l’apporto che Vladimir Stoyanov dà all’innamorato e poi vendicativo Principe Eleckij. Voce chiara, sonora, dal timbro assolutamente accattivante e dalla tecnica sopraffina. Completano l’apprezzabile elenco Alexey Dolgov come Čekalinskij e il Surin di Vladimir Sazdovski. Una certa ilarità divertita l’ha suscitata l’autoritaria governante, con frustino, di Ksenia Chubunova. Irina Bogdanova è la cameriera della contessa e Joseph Dahdah con Viktor Shevchenko completano con efficacia il lotto dei giocatori. Il pubblico della prima ha approvato incondizionatamente tutti gli esecutori musicali. Segnata da particolare riconoscenza e affetto è stata poi l’accoglienza riservata alla Larmore. Gli artefici della parte visiva, con gli applausi, si sono dovuti subire anche uno spento e silenziato mugugno: è il massimo di disapprovazione a cui ardisca il pubblico subalpino. Foto Mattia Gaido

 

 

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Napoli, Teatro di San Carlo: “La fanciulla del West” dal 16 al 29 aprile 2025

Mer, 09/04/2025 - 12:45

Napoli, Teatro di San Carlo
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Al Teatro di San Carlo, dal 16 al 29 aprile 2025, va in scena La fanciulla del West: opera in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco.
La Prima è il 16 aprile 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 19 aprile, 23 aprile, 26 aprile, 29 aprile 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Jonathan Darlington. Maestro del Coro: Fabrizio Cassi. La regia, le scene e i costumi sono a firma di Hugo De Ana, con l’apporto scenico del light designer Vinicio Cheli e del projection designer Sergio Metalli.
A interpretare Minnie è Anna Pirozzi; Gabriele Viviani interpreta, invece, Jack Rance; nel ruolo di Dick Johnson, Martin Muehle. Completano il cast: Alberto Robert (Nick), Mariano Buccino (Ashby), Leon Kim (Sonora), Lodovico Filippo Ravizza (Sid), Antonio Garés (Trin), Clemente Antonio Daliotti (Bello), Gregory Bonfatti (Harry), Sun Tianxuefei (Joe), Pietro Di Bianco (Happy), Lorenzo Mazzucchelli (Larkens), Sebastià Serra (Billy Jackrabbit), Antonia Salzano (Wowkle), Gabriele Ribis (Jack Wallace), Yunho Kim (José Castro), Michele Maddaloni (Un postiglione). Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con ABAO Bilbao Opera. Qui per tutte le informazioni. Foto © Luciano Romano / Teatro di San Carlo 2017

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Opéra de Marseille: “Sigurd”

Mer, 09/04/2025 - 07:31
Marseille, opéra municipal, saison 2024/2025 “SIGURD” Opéra en 4 actes, livret de Camille du Locle et Alfred Blau Musique Ernest Reyer Brünhilde CATHERINE HUNOLD Hilda CHARLOTTE BONNET Uta MARION LEBEGUE Sigurd FLORIAN LACONI Gunther ALEXANDRE DUHAMEL Hagen NICOLAS CAVALIER Prêtre d’Odin MARC BARRARD Un Barde GILEN GOICOECHEA Irnfrid MARC LARCHER Hawart KAËLIG BOCHE Rudiger JEAN-MARIE DELPAS Ramunc JEAN-VINCENT BLOT Orchestre et Chœur de l’Opéra de Marseille Direction musicale Jean-Marie Zeitouni Mise en scène Charles Roubaud Décors Emmanuelle Favre Costumes Katia Duflot Lumières Jacques Rouveyrollis Vidéos Julien Soulier Marseille, le 6 avril 2015 Restant dans le cadre “l’Opéra fête son centenaire”, SIGURD l’opéra d’Ernest Reyer nous était proposé en ce dimanche après-midi. Le 13 novembre 1919, après une représentation de “L’Africaine”, l’opéra est en flammes. Reconstruit dans un pur style art-déco, c’est “Sigurd” qui est à l’affiche pour son inauguration le 3 décembre 1924. Cent ans déjà, et quoi de mieux que “Sigurd” pour cette année d’anniversaire ? Mais 30 ans aussi que l’ouvrage n’a plus été représenté sur cette scène. Maurice Xiberras, directeur général de l’Opéra de Marseille relève le défi dans une production toute française et, pourquoi pas, marseillaise aussi. Séduit par les compositeurs germaniques tels Meyerbeer ou Richard Wagner (d’ailleurs n’a-t-il pas modifié son patronyme Rey en Reyer) et malgré le sujet qui reste très proche des deux derniers volets de la Tétralogie de Richard Wagner, le Sigurd du compositeur marseillais reste une belle illustration du grand opéra français avec ballet obligé. Son goût pour le romantisme allemand, à la mode à cette époque, l’entraîne à se tourner vers “La chanson des Nibelungen” mais les aléas des conflits et de la politique feront que Sigurd sera refusé à Paris en 1870 ; il sera créé à Bruxelles le 7 janvier 1884 et connaîtra alors un immense succès. Dans cet opéra fleuve des coupures sont aménagées, notamment le ballet, elles sont assez bien amenées et ne nuisent en rien à sa compréhension. La mise en scène est confiée à Charles Roubaud, claire, épurée, toujours de bon goût et d’une grande lisibilité, mettant les personnages en valeur tout en laissant au chœur ces effets de puissance dans une bonne direction d’acteurs. Dans une coopération intelligente avec Emmanuelle Favre qui signe les décors, de beaux tableaux nous sont proposés et épuré ne signifie pas toujours vacuité. Une immense charpente à pans coupés occupe une partie de la scène laissant évoluer les chanteurs, mais c’est dans l’originalité du dernier acte que nous avons trouvé le plus de beauté : les hautes poutres qui encadrent un Sigurd agonisant se referment lentement occultant Brünhilde venue le rejoindre dans la mort. Image sublimée par les lumières conçues par Jacques Rouveyrollis, poétiques et dans des couleurs souvent estompées. Les vidéos de Julien Soulier viennent soutenir les atmosphères suggérées par la musique, faisant apparaître les épreuves vécues par Sigurd avec légèreté dans une esthétique toujours renouvelée ; les 3 Nornes tissant son linceul, sa lutte avec les Kobolds ou sa résistance aux séduisantes Elfes. Les costumes de Katia Duflot viennent compléter avec bonheur cette fresque. Habits militaires sombres pour les hommes du chœur, superbes robes 1930 d’une rare élégance pour les dames et tenues qui frisent l’époque Renaissance pour les servantes, longues chasubles blanches qui recouvrent un fourreau noir, Sigurd, tout de blanc vêtu se détachant dans la lumière. Le visuel de cette nouvelle production participera en grande partie du succès final. Distribution française bien choisie avec le Sigurd de Florian Laconi en pleine forme vocale, type même du ténor héroïque. Investi et voix solide dans une partition qui ne le ménage pas, vaillance des aigus puissants soutenus par un souffle long, le ténor français, malgré une émission souvent forte, est capable de jolies nuances et de sensibilité dans son duo d’amour. Justesse irréprochable pour une prestation remarquée. Belle prestance pour le Gunther d’Alexandre Duhamel. Mais au-delà du jeu et de l’allure, la voix paraît un peu fatiguée faisant ressortir quelques inégalités vocales. C’est dans le médium et certains aigus solides que l’on retrouve la rondeur du timbre. Nicolas Cavalier fait montre d’autorité et d’investissement dans ce Hagen péremptoire où la voix très projetée résonne avec puissance dans un joli phrasé. Marc Barrard laisse ressortir la chaleur de sa voix de baryton dans des nuances appropriées, donnant au Prêtre d’Odin sensibilité et relief sonore dans un phrasé musical. Vif succès pour le Barde de Gilen Goicoechea, rôle court mais remarqué ; timbre, style et profondeur de voix. La superbe Brünhilde de Catherine Hunold investit la scène dans une interprétation tout en finesse mais dans une voix puissante au timbre coloré. Aigus sûrs, ronds et soutenus, longueur de souffle dans le piano et nuances sensibles. Une Brünhilde très applaudie. Très applaudie aussi, la Hilda de Charlotte Bonnet à l’émission franche et directe aux solides aigus mais au legato sensible dans un jeu passionné qui réclame peut-être un peu plus de souplesse. Timbre harmonieux, voix bien placée et conduite du chant, font apprécier Marion Lebègue dans le rôle d’Uta au jeu fluide. Marc LarcherKaëlig BochéJean-Marie Delpas et Jean-Vincent Blot, les envoyés d’Attila animent la scène dans un bel ensemble. Bien préparé par Florent Mayet, le Chœur est à la fête et au succès. Ensemble, homogénéité des voix, présence scénique et investissement vocal jusque dans la demi-teinte de coulisse. Bravo ! Partition orchestrale fournie et superbement interprétée dès la magistrale ouverture par un orchestre aux sonorités homogènes qui laissent ressortir les instruments solistes, profondeur du violoncelle, mélancolie de la clarinette ou du cor anglais, rondeur des cuivres sous la baguette attentive et nuancée de Jean-Marie Zeitouni qui a su trouver les inflexions de la musique française, autorité mais souplesse. Longs, longs, rappels ! Photo Christian Dresse
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Roma, Palazzo del Quirinale: “La Sala Regia apre al pubblico”

Lun, 07/04/2025 - 11:27

Roma, Palazzo del Quirinale
LA SALA REGIA NEL PERCORSO DELLA MOSTRA “BAROCCO GLOBALE”
In occasione della mostra “Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, il Palazzo del Quirinale offre un’occasione rara, quasi iniziatica: l’accesso eccezionale al Salone dei Corazzieri, già noto nei secoli passati anche come Sala Regia, nome che ne esplicita la destinazione originaria quale spazio di ricezione per sovrani, legati pontifici e ambasciatori. Questa apertura non è solo un gesto museale, ma un atto performativo: il luogo dove il potere si è rappresentato nei secoli viene riconsegnato allo sguardo pubblico, come se l’architettura si spogliasse, per un istante, della sua funzione istituzionale per diventare puro linguaggio. Costruita nei primi decenni del Seicento su impulso di Papa Paolo V Borghese e realizzata sotto la supervisione di Carlo Maderno, la sala è il massimo esempio della volontà pontificia di affermare, anche attraverso la materia, la centralità della Chiesa cattolica in un’epoca di espansione e competizione globale. Il Quirinale, da residenza estiva papale, si trasforma in dispositivo simbolico, e la Sala Regia — oggi Salone dei Corazzieri — è il fulcro di questa trasformazione. La sua monumentalità non è un fatto quantitativo, ma qualitativo: misura la distanza tra il reale e il rappresentato, tra l’individuo e il potere. Il soffitto ligneo a cassettoni, dorato, scolpito con ordine e maestosità, si specchia nel pavimento marmoreo a intarsio policromo, realizzando una simmetria visiva di forte intensità simbolica. Ogni superficie concorre alla costruzione di uno spazio scenico totale, dove l’individuo è messo in posizione di subalternità prospettica rispetto all’ambiente. Questo è lo spazio barocco: uno spazio che domina, persuade, ingloba. Alle pareti, due cicli decorativi raccontano due ideologie del potere. Il primo, risalente al 1616, è un fregio affrescato da una bottega guidata da Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco e Carlo Saraceni. Vi si celebrano otto ambascerie ricevute da Paolo V, con una iconografia che si inserisce pienamente nel clima dell’espansionismo spirituale post-tridentino. La più celebre è quella del giapponese Hasekura Tsunenaga, ritratto con dignità ieratica: è il corpo dell’altro che entra nella pittura romana e ne altera le coordinate. Questo incontro, che all’epoca suscitò stupore, oggi si rivela essere una delle prime raffigurazioni ufficiali di un dignitario nipponico nella storia dell’arte occidentale, anticipando — senza saperlo — la globalizzazione dell’immaginario barocco. Il secondo fregio, aggiunto dopo l’Unità d’Italia, è un intervento sabaudo che si inserisce senza distruggere l’impianto esistente: vi sono rappresentati gli stemmi delle principali città italiane, a suggello dell’unificazione politica della penisola. Un esempio perfetto di come l’arte possa essere palinsesto: la stratificazione dei poteri e delle loro estetiche si giustappone senza cancellazione, ma per sovrapposizione. È la permanenza della forma a garantire la continuità tra i regimi. Nel salone, convivono anche due cicli di arazzi settecenteschi, posti a rivestire le pareti con un fasto tutto francese e napoletano. La prima serie, di manifattura francese, raffigura le Storie di Psiche: un mito dell’amore e della trasfigurazione, ideale per un ambiente dove il potere si riveste di seduzione. La seconda, dedicata a Don Chisciotte, combina ironia e pathos in un cortocircuito tra letteratura e arte decorativa, anch’essa frutto della cultura barocca che dissolve i confini tra alto e basso, sacro e profano. A vegliare silenziosa in una nicchia, la lunetta marmorea della Lavanda dei Piedi, scolpita da Taddeo Landini nel 1578 per la Basilica di San Pietro e traslata al Quirinale nel 1616, introduce una nota di etica cristiana dentro l’apparato del potere. È un gesto di servizio scolpito nel marmo, che diventa paradossalmente monumentale, eterno. L’umiltà come forma di autorappresentazione del potere pontificio, ma sempre attraverso il filtro dell’arte, che trasforma anche la pietà in stile. Nel Novecento, il Salone dei Corazzieri subisce un’eclisse di senso: pensato come pista da pattinaggio e persino adibito a campo da tennis coperto nel 1912, sembra per un momento svuotato del suo portato simbolico. Ma la forma resiste, come un’armatura. È solo nel secondo dopoguerra, e poi in modo definitivo con la Repubblica, che il salone riacquista la sua funzione di rappresentanza: diventa il luogo dove la nuova forma dello Stato — non più sacra, ma laica — continua la messa in scena del potere, ora sotto il segno della democrazia protocollare. Con la mostra “Barocco globale”, questo spazio non solo si apre, ma si riattiva. Torna a essere quello che era: un teatro dell’universale, un atlante visivo del dialogo tra Roma e il mondo. Ma non più solo luogo di autorappresentazione del potere: oggi il Salone dei Corazzieri diventa luogo di riflessione estetica e storica, nodo concettuale tra le culture che il Barocco ha saputo mettere in relazione. Una chance per toccare con lo sguardo la grammatica del potere, fatta di oro, marmo, mito e silenzio. Un’epifania barocca nel cuore stesso della Repubblica.

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Venezia, Teatro La Fenice, Rudolf Buchbinder interpreta Beethoven

Lun, 07/04/2025 - 07:53

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e pianoforte Rudolf Buchbinder
Ludwig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19; Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58; Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore op. 15
Venezia, 3 aprile 2025
È tornato alla Fenice Rudolf Buchbinder, uno dei performer più leggendari del nostro tempo che, al culmine di una luminosa carriera di sessantacinque anni, continua a suonare il pianoforte coniugando autorevolezza e spontaneità, tradizione e innovazione. Le sue interpretazioni delle opere di Beethoven, in particolare, sono considerate modelli assoluti: non a caso, è stato il primo pianista a interpretare tutte le Sonate di Beethoven, all’interno di una manifestazione estiva al Festival di Salisburgo del 2014, e il Musikverein di Vienna, per la prima volta nella sua storia, gli ha concesso, nella Stagione 2019-2020, l’onore di eseguire tutti i cinque Concerti di Beethoven. È stata, come sempre, una grande emozione assistere alla sua esecuzione: ammirare la compostezza con cui affronta anche i passaggi più ardui, guidando nel contempo l’orchestra, con rapidi cenni, nei momenti in cui può staccarsi dalla tastiera; sentirsi rapire da quell’energia, che proviene dall’assoluta padronanza della tecnica pianistica, dalla perfetta, intima conoscenza del dettato beethoveniano. Presupposti di un’interpretazione, che ci conquista con la forza interiore e, insieme, l’olimpico dominio delle passioni, che caratterizzano Buchbinder come tutti i più grandi interpreti della grande tradizione viennese e mitteleuropea, mai pedissequamente imitata dall’insigne artista, bensì sempre reinventata con autenticità e apertura mentale. La serata si è aperta con il Concerto in si bemolle maggiore n. 2 op. 19 (in realtà il primo in ordine di composizione, essendo precedente a quello dell’op. 15), dove il dialogo del pianoforte con l’orchestra si è svolto con una leggerezza mozartiana, in un rapporto paritetico tra i due interlocutori – del resto è evidente in questa partitura l’influenza del Concerto in re minore kv 466 del Salisburghese, che si è colta anche nella prima entrata del pianoforte con libere figurazioni derivanti dal materiale tematico già esposto dall’orchestra –. Strabiliante per la chiarezza nell’articolazione la cadenza del primo movimento – composta da Beethoven vari anni dopo la pubblicazione del Concerto, avvenuta nel 1801 – proiettata verso il futuro, preannunciando la Sonata op. 101 (1816). Particolarmente suggestivo il secondo movimento, un grande Adagio tipicamente beethoveniano, a metà del quale l’orchestra si è stagliata autorevolmente sul morbido fondo sonoro del pianoforte, e poi ha partecipato con accenti drammatici alla grande cadenza, aperta da accordi e trilli del solista e da lui chiusa con un recitativo. Un tono brillante e, al tempo stesso, pastorale si è colto nel Rondò finale. Seguiva il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58, composto tra il 1805 e il 1806, che rappresenta una reazione, da parte di Beethoven, al virtuosismo esteriore, imperante a quell’epoca in questa forma musicale, insieme ad un tono celebrativo e marziale del movimento iniziale. Un tono di luminosa intimità ha caratterizzato l’iniziale Allegro moderato, aperto dalla breve entrata del solista che, in modo innovativo, precede l’esposizione orchestrale. Un drammatico dialogo si è svolto nel secondo movimento tra sonorità crepuscolari. Alle quali si sono alternate, nel movimento conclusivo, sonorità brillanti, come in un breve intervento del solista a mani alternate, che si pone in una prospettiva di tecnica prelisztiana. La serata si è conclusa con il Concerto per pianoforte n. 1 op. 15, terminato nel 1798 e pubblicato, in una versione rivista, nel 1801. Qui il tono è cambiato fin dal primo movimento, vicino alla tradizione del ‘concerto militare’ – molto gradito al pubblico di fine Settecento – tra sonorità brillanti e ritmi di marcia sia dell’Orchestra che del pianista, che ha sfoggiato staccati incisivi e agilità, anche nella mano sinistra: un movimento, con solo pochi momenti di più raccolto intimismo. Nel Largo, centro espressivo del Concerto, cui un’orchestra ridotta ha conferito un insolito colore timbrico, il primo clarinetto e il pianoforte, nel loro intimo dialogo, hanno creato un’atmosfera veramente ‘magica’. Molto brillante il Rondò finale – con tre temi dal carattere di danza –, conclusosi in modo ‘sorprendente’ alla fine della cadenza, quando il pianoforte ha iniziato, secondo tradizione, un trillo, per poi farlo divergere dalla prevedibile conclusione e indirizzarlo, con raffinata modulazione, verso una tonalità inattesa. Reiterati applausi tra molti “Bravo!”

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Onegin”

Dom, 06/04/2025 - 20:29

Roma, Teatro dell’Opera, stagione 2024/25
“ONEGIN”
Balletto in tre atti su musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Arrangiamento e orchestrazione di Kurt-Heinz Stolze
Coreografia John Cranko
Onegin FRIEDEMANN VOEGEL
Lenskij ALESSIO REZZA
Tatiana NICOLETTA MANNI
Olga SUSANNA SALVI
Solisti, corpo di ballo e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Philip Ellis
Scene e costumi Elisabeth Dalton
Roma, 5 aprile 2025
Quello del balletto Onegin al Teatro dell’Opera di Roma era un successo annunciato. Complice la coreografia di John Cranko (1927-1973), grande creatore di drammi danzati diventati dei classici del balletto moderno, che sanno scavare nella psicologia dei personaggi e si offrono come perfetta sintesi di quello che la danza eredita dalla tecnica più pura del balletto classico, in felice simbiosi con le evoluzioni tecniche del Novecento. Ma non solo, perché l’anima di tutto è la musica di PÏotr Îl’ič Čjajkovskij, non quella dell’omonima opera composta nel 1877, ma una antologia di brani pianistici orchestrati da Kurt-Heinz Stolze in cui il sapore del sentimento čjajkovskijano per l’inutile vagheggiamento di una vita felice echeggia di continuo e offre continui cromatismi per i mutamenti dei personaggi, incardinandosi in quella tradizione nazionale di polacche e mazurche che ci riportano ai fasti dei Teatri imperiali dei grandi balletti di Marius Petipa. Eppure non è ancora tutto: il capolavoro di Cranko (prima rappresentazione: Stoccarda, 1965 – debutto italiano: Spoleto, 1984), coreografo sudamericano che ha saputo fare scuola con i suoi balletti narrativi, la cui carriera è fiorita tra Inghilterra e Germania, si costruisce partendo dal romanzo in versi di Alexandr Sergeevič Pušhkin (1799-1837), fonte primaria di tutto e il cui spirito intrinseco (tra lo spleen di Eugenio Onegin e la forza di Tatiana) emerge nel trasferimento dal codice della parola a quella della danza attraverso una serie di sequenze coreografiche e di attenzione alla gestualità attoriale che rendono la vicenda non solo immediatamente fruibile, ma riescono a calarlo all’interno della storia attirandolo come una potente calamita. Ma ancor più il lavoro di Cranko rende indispensabile la qualità dell’interprete, la cui sensibilità diviene la conditio sine qua non per la materializzazione della coreografia e la riuscita della messa in scena. Tutto questo è stato presente nell’allestimento andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma con la compagine di balletto diretta brillantemente da Eleonora Abbagnato (volitiva direttrice anche della Scuola di ballo, che il 7 aprile si esibirà in una lezione dimostrativa aperta al pubblico) e due ospiti d’eccezione quali Nicoletta Manni e Friedemann Vogel nel ruolo del titolo. Vogel è probabilmente il migliore Onegin nel panorama internazionale: capace di riempire la scena con le sue eloquenti espressioni anche nell’immobilità o in una semplice promenade, è interprete maturo e smaliziato che associa alla tecnica eccellente e a un partnering sicuro e senza sbavature la padronanza del ruolo. Dispettoso e superficiale (tanto da suscitare espressioni di vero dispetto anche nel pubblico femminile, quando umilia Tatiana stracciandole in mano la lettera), sa essere poco dopo contrito e sinceramente ravveduto ma, soprattutto, sa mostrare con grande efficacia il drastico cambiamento di sentimento di Onegin, irrimediabilmente destinato a soffrire come tutti gli altri.
Al suo fianco una Tatiana che è, per Nicoletta Manni, il ruolo della vita: diventata Étoile del Teatro alla Scala di Milano con questa interpretazione, si conferma portabandiera della grande scuola italiana scaligera. La sua figura dolce e aggraziata coesiste con una tecnica limpida e dalla fluidità vellutata, priva delle asprezze che spesso accompagnano i virtuosismi, perché le forze sono abilmente dosate e “la ragazza della porta accanto” (quale appare Nicoletta nella sua semplicità giornaliera) si trasforma in una Tatiana innocente e allo stesso tempo determinata. Quando giunge anche per lei «il tempo delle marmellate» (Fabio Sartorelli), Tatiana accetta il suo dovere di moglie e, pur conservando l’ardore della fiamma che l’angoscia quando rivede Onegin dopo tanto tempo, onora la sua posizione di donna sposata con grande forza. Nicoletta Manni fa conservare a Tatiana la stessa innocenza del primo e del secondo atto, nonostante sia ora una donna matura.
La coppia brilla per affiatamento, pur essendo al debutto insieme: il Passo a due dello specchio, metafora erotica di geniale eleganza e sensualità, così come quello del terzo atto fatto di continui contrasti affidati ai Leitmotiv coreutici e musicali che Cranko sapientemente utilizza in una formularità di grande effetto emotivo, sono interpretati magistralmente.
Ottima prestazione per l’Étoile di casa Susanna Salvi nei panni di Olga, sorella gaia e talvolta frivola della più riflessiva Tatiana, anch’ella destinata a soffrire per la morte dell’amato Lenskij per mano di Onegin nel corso di un duello tanto inutile quanto crudele. La difficoltà delle sezioni coreografiche di Olga non ha messo in difficoltà Susanna Salvi, così come è stata molto ben sostenuta da Alessio Rezza, Étoile maschile del Teatro dell’Opera nei panni dello sfortunato poeta Lenskij, il cui triste assolo nella scena che precede quella del duello vede difficoltà di legato e di interpretazione connessa al lirismo del momento, che non escludono insidie tecniche notevoli, in cui la danza non si fa sostituire dalla sola pantomima ma diviene essa stessa significante per il procedere dell’azione. Ottima prestazione da parte di tutto il Corpo di ballo: non sono mancati applausi a scena aperta in più momenti. L’elegante e caldo allestimento del Duch National Opera and Ballet di Amsterdam, l’eleganza sobria dei costumi di Elisabeth Dalton (che firma anche le scene), l’orchestra diretta dal Maestro Philip Ellis hanno garantito l’apprezzamento senza riserve da parte del pubblico, che al termine è rimasto a lungo in sala ad applaudire con calore e ad attendere i protagonisti all’uscita, per garantirsi di fermare per sempre, con uno scatto fotografico, l’abbraccio con Tatiana e Onegin. (foto Fabrizio Sansoni)

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G. F. Malipiero: “Quartetti 2, 3, 6” – C. Monteverdi: “Messa a quattro voci”

Dom, 06/04/2025 - 16:51

C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Kyrie; G. F. Malipiero, Quartetto n. 2, Stornelli e ballate; C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Gloria; G. F. Malipiero, Quartetto n. 3, Cantari alla Madrigalesca; C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Credo; G. F. Malipiero, Quartetto n. 6, Arca di Noè; _C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei. Quartetto Sincronie. Registrazione: Aprile 2023, San Terenziano Capranica (VT). T. Time: 70′ 44″. 1 CD Stradivarius STR 37281
Molto interessante è la presente proposta discografica dell’etichetta Stradivarius, il cui programma è costituito da un binomio Malipiero-Monteverdi particolarmente appropriato soprattutto, se si considera il fatto che il primo realizzò l’edizione completa delle opere del grande compositore dell’Orfeo. In questo CD sono eseguiti, in particolar modo, i Quartetti n. 2, 3 6, di Malipiero e un’originale versione per quartetto d’archi della Messa a 4 voci (1650) di Monteverdi. I Quartetti di Malipiero mostrano l’evoluzione dello stile del compositore veneziano, in quanto, nel Secondo, intitolato Stornelli e ballate (1923), è utilizzata ancora una struttura a pannelli, abbandonata nel Terzo (Cantari alla madrigalesca) del 1931, che appare come un’opera di transizione tra i primi due e il quarto, mentre il Sesto (L’arca di Noè), completato nel mese di agosto del 1947, era considerato dallo stesso compositore come il seguito ideale del Terzo. Di Monteverdi viene eseguita in una trascrizione, che non sarebbe dispiaciuta al suo compositore il quale visse in un periodo in cui un brano vocale poteva tranquillamente essere eseguito con strumenti e viceversa, la Messa a 4 voci, un lavoro costruito sul tetracordo Sol-Fa-Mi-Re, i cui brani, inseriti nel CD in alternanza con quelli di Malipiero, vanno a comporre, come si legge nell’interessante Booklet di Francesco Fontanelli, il “ritornello’ sacro dei profani quartetti di Malipiero. Ottima l’esecuzione da parte del Quartetto Sincronie che rende molto bene l’ordito polifonico di queste composizioni e nel caso della Messa non fa certo rimpiangere l’esecuzione vocale. Si tratta, in definitiva, di una proposta discografica particolarmente bella e originale.

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