Ancona, Teatro delle Muse “Franco Corelli”
NABUCCO
La Stagione Lirica di Ancona 2024 al Teatro delle Muse “Franco Corelli” si apre venerdì 25 ottobre alle ore 20.30 con replica domenica 27 ottobre alle ore 16.30 con Nabucco dramma lirico in quattro parti di Temistocle Solera, musica di Giuseppe Verdi, direttore György Győriványi Ráth, regia Mariano Bauduin, scene e luci Lucio Diana, costumi Stefania Cempini. Il cast include alcuni tra gli artisti più interessanti della nuova generazione di cantanti verdiani: protagonista è il baritono Ernesto Petti che interpreta Nabucco – appena reduce dal successo di Macbeth al Festival Verdi al Regio Parma -, Abigaille è interpretata da Rebeka Lokar, Zaccaria Nicola Ulivieri, Ismaele Alessandro Scotto Di Luzio, Fenena Irene Savignano, Gran Sacerdote è Andrea Tabili, Antonella Granata è Anna, Abdallo è Luigi Morassi. Sul podio della FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana sarà il maestro György Győriványi Ráth – già Sovrintendente e Direttore musicale dell’Opera di Stato Ungherese di Budapest – uno dei più autorevoli interpreti dell’opera italiana nei teatri internazionali. Il Coro Lirico “Vincenzo Bellini” di Ancona è diretto dal Maestro Francesco Calzolaro. Presente in palcoscenico l’Orchestra di Fiati di Ancona. La produzione è un nuovo allestimento della Fondazione Teatro delle Muse. Una serie di incontri con il pubblico e con le scuole farà da introduzione ai titoli in programma. Per Nabucco è prevista l’anteprima giovani mercoledì 23 ottobre alle ore 18.00 per le scuole secondarie e gli studenti dell’Università Politecnica delle Marche preceduta venerdì 18 ottobre da un incontro con il direttore artistico della Stagione Lirica Vincenzo De Vivo alle ore 15.00 al Ridotto del Teatro delle Muse seguito da una visione delle prove. Le anteprime giovani sono nate in collaborazione con L’Ufficio Regionale Scolastico e l’Università Politecnica delle Marche. Come di consueto la domenica precedente il debutto, quindi domenica 20 ottobre alle ore 11.00 al Ridotto del Teatro ci sarà la guida all’opera, gratuita, aperta alla città, a cura del critico musicale Fabio Brisighelli. Info: biglietteria Teatro delle Muse 071 52525 biglietteria@teatrodellemuse.org Vendita on line su www.vivaticket.com La Fondazione Teatro delle Muse è sostenuta da: Socio Fondatore: Comune di Ancona / Con il contributo di: Ministero della Cultura, Regione Marche, Fondazione Cariverona / Con il sostegno di: Associazione Palchettisti del Teatro delle Muse, Gli Amici del Teatro delle Muse / In collaborazione con Marche Teatro. Art Bonus: Luciana Mosconi / Con il patrocinio di Rai Marche.
Roma, Scuderie del Quirinale
GUERCINO. L’ERA LUDOVISI A ROMA
Guercino torna a Roma in una celebrazione trionfale dell’arte del Seicento, con la mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma”, alle Scuderie del Quirinale dal 31 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025. Un appuntamento imperdibile che vede protagonisti due giganti della storia dell’arte e del potere romano: Giovanni Francesco Barbieri, meglio noto come Guercino, e la dinastia Ludovisi, personificata dal cardinal Ludovico e dal suo influente zio Alessandro Ludovisi, Papa Gregorio XV. Il percorso espositivo si sviluppa come un racconto avvincente del breve ma significativo papato Ludovisi (1621-1623), una parentesi luminosa tra le grandi dinastie dei Borghese e dei Barberini, spesso trascurata dagli studiosi ma cruciale per la storia dell’arte romana. Proprio in questi anni, il giovane Guercino trovò a Roma un’opportunità unica per affermarsi, accendendo la sua ispirazione grazie alla raffinata committenza di Papa Gregorio XV. In mostra emergono i segni distintivi di un’epoca che ha gettato le basi per i successivi sviluppi artistici del Barocco. L’esposizione offre una visione d’insieme di un periodo storico in cui l’arte e la politica erano profondamente intrecciate. I Ludovisi, sulla scia delle altre potenti famiglie romane, crearono la loro villa emblematica, Villa Ludovisi, e collezionarono opere che spaziavano dall’antichità all’arte contemporanea del Cinquecento, arricchendo Roma con pezzi straordinari e con una visione artistica innovativa. La comunità artistica che ruotava attorno alla corte Ludovisi comprendeva nomi come Guido Reni, Domenichino, Lanfranco, i Carracci, Pietro da Cortona, Van Dyck, Poussin e persino Bernini. La mostra alle Scuderie mette in luce queste interazioni, presentando capolavori che dialogano tra loro, evocando le rivalità e le influenze reciproche. Il cuore dell’esposizione resta Guercino, il preferito del Papa, con la sua ricerca cromatica e il suo tratto inconfondibile che divennero simbolo dell’ascesa dei Ludovisi. Il suo stile, sensibile e vibrante, emerge come punto di equilibrio perfetto tra l’eredità classica e la sperimentazione barocca, rappresentando la cultura raffinata e la potenza politica della famiglia Ludovisi. Organizzata in collaborazione con prestigiose istituzioni come le Gallerie degli Uffizi, il Museo Nazionale Romano e i Musei Capitolini, la mostra conta 121 opere, provenienti da 68 musei e collezioni di rilievo. Un’occasione unica per immergersi in un periodo affascinante della storia romana, che, per la prima volta, offre anche l’opportunità esclusiva di visitare alcune sale del Casino di Villa Ludovisi, tra cui la Sala dell’Aurora, dove campeggia il celebre affresco del Guercino. Le visite, disponibili dal 9 novembre, saranno aperte soltanto nel weekend e previa prenotazione. La mostra non è soltanto un’esposizione di capolavori, ma un viaggio nell’essenza stessa dell’arte del Seicento: una celebrazione della bellezza e della potenza di un’epoca irripetibile, un’occasione per scoprire il breve, ma intensissimo, splendore della Roma Ludovisi, il cui riverbero risuona ancora oggi nelle sale delle Scuderie del Quirinale. Qui per tutte le informazioni.
Johann Sebastian Bach (1685-1750): Harpsichord Concerto in A major BWV 1055; Harpsichord Concerto in E major BWV 1053; Violin Concerto in A minor BWV 1041; Concerto for 2 Harpsichords in C minor BWV 1062. Mario Sarrechia (clavicembalo). Bart Naessens (clavicembalo, 1° nel BWV 1062). Sara Kuijken (violino). La Petite Bande. Sigiswald Kuijken (direttore). Registrazione: 2-5 Ottobre 2021, Paterskerk, Tielt (Belgio). T. Time: 61′ 02″. 1 CD Accent ACC24385
La produzione di concerti per clavicembalo di Johann Sebastian Bach si concentra nel decennio che va dal 1725 al 1735, quando i figli del compositore, diventati ormai dei virtuosi di questo strumento, avevano bisogno di nuove composizioni per potersi esibire nel «Collegium Musicum» della città di Lipsia, dove il padre ricopriva la carica di Thomaskantor e Direktor musices. Molti di questi concerti sono rielaborazioni di precedenti, andati perduti, per altri strumenti. In questo CD pubblicato dell’etichetta Accent che corrisponde al primo di tre volumi con cui sarà proposto l’integrale della produzione di concerti di Bach, comprendente non solo quelli per clavicembalo e per due clavicembali, ma anche quelli per violino e per due violini, è possibile ascoltare: il Concerto in la maggiore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1055, che, corrispondente alla trascrizione di un suo concerto per oboe d’amore, composto nel periodo di Köthen, si inserisce nella solida tradizione italiana di Vivaldi e Corelli; il Concerto in mi maggiore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1053, anch’esso una trascrizione per clavicembalo di un precedente lavoro di Bach per oboe o oboe d’amore e orchestra in fa maggiore; il Concerto in la minore per violino BWV 1041, risalente al felice periodo che va dal 1717 al 1723, trascorso da Bach a Köthen alle dipendenze del principe Leopold di Anhalt-Köthen dal quale era stato nominato Kappelmeister, nel cui primo movimento, che si snoda nella classica alternanza, qui resa in modo estremamente simmetrico, fra il tutti e il solista, il compositore anticipò alcuni principi della forma-sonata, e il Concerto in do minore per due clavicembali, archi e basso continuo BWV 1062, che è, infine, la trascrizione realizzata nel 1736 del Concerto BVW 1043 per due violini, le cui parti vengono riprodotte nel rigo della mano destra di ogni strumento solista. Di ottimo livello e storicamente informata è l’esecuzione di questi lavori da parte della Petite Bande, diretta da Sigiswald Kuijken, che mette ben in evidenza il carattere cameristico di queste pagine e lascia il giusto spazio agli ottimi solisti, i clavicembalisti Mario Sarrechia e Bart Naessens (al quale è affidata la parte del 1° nel BWV 1062) e la violinista Sara Kuijken, che esibisce un’espressiva cavata nel secondo movimento del Concerto per violino. Ascoltando questo primo album, non si può non auspicare la pubblicazione in tempi brevissimi degli altri due.
“Stiffelio”, Il tesoro nascosto fra i titoli di Verdi, debutta finalmente al Teatro Filarmonico di Verona. Domenica 27 ottobre, alle ore 15.30, a 174 anni dalla prima triestina del 1850. Dramma intimista avvincente e attualissimo, fu innovativo e coraggioso per la sua epoca. Considerato da molti la prova generale della Traviata, tratta di tradimento e perdono, introducendo il tema del divorzio nell’opera italiana, con originale profondità nella struttura e nella psicologia dei personaggi principali. L’Orchestra e Coro di Fondazione Arena diretti da Leonardo Sini, la regia e luci di Guy Montavon e scene e costumi di Francesco Calcagnini. Come Stiffelio troviamo in scena Luciano Ganci (27 e 31/10) e Stefano Secco (29/10 e 3/11) accanto ai soprani Caterina Marchesini (27 e 31/10) e Daniela Schillaci(29/10 e 3/11) che vestiranno i panni di Lina. Stankar sarà il baritono Vladimir Stoyanov, l’anziano confratello Jorg al basso Gabriele Sagona. I cugini di Lina saranno Francesco Pittari (Federico) e Sara Rossini (Dorotea) mentre Raffaele il tenore Carlo Raffaelli. Il Coro della Fondazione Arena sarà preparato da Roberto Gabbiani.
Repliche martedì 29 ottobre alle ore 19, giovedì 31 ottobre alle ore 20 e domenica 3 novembre alle ore 15.30.
Napoli, Teatro Bellini, Inaugurazione Stagione 2024/2025
“LA GRANDE MAGIA”
Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo
Calogero Di Spelta NATALINO BALASSO
Otto Marvuglia MICHELE DI MAURO
Amelia Recchia VERONICA D’ELIA
Mariano D’Albino e Brigadiere di P. S. GENNARO DI BIASE
Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta CHRISTIAN DI DOMENICO
Signora Marino e Rosa Di Spelta MARIA LAILA FERNANDEZ
Gervasio e Oreste Intrugli ALESSIO PIAZZA
Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia MANUEL SEVERINO
Zaira, moglie di Marvuglia SABRINA SCUCCIMARRA
Marta Di Spelta e Roberto Magliano ALICE SPISA
Signora Zampa e Matilde, madre di Di Spelta ANNA RITA VITOLO
Regia Gabriele Russo
Scene Roberto Crea
Luci Pasquale Mari
Costumi Giuseppe Avallone
Musiche e Progetto Sonoro Antonio Della Ragione
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT/ Teatro Nazionale
Napoli, 18 ottobre 2024
Eduardo De Filippo, nel 1948, scandalizza il mondo teatrale, proponendo un testo dal carattere vistosamente «rivoluzionario»: La grande magia – attraverso cui sconvolge le convenzioni stilistiche e formali della consueta letteratura drammatica, ponendo così se stesso «al di là» anche della sua produzione drammaturgica. Un testo, dunque, che potremmo definire come «poeticamente realistico»: una definizione, almeno nominalmente, inafferrabile e «contraddittoria» – ma, per dirla con Pasolini, le «contraddizioni» sono necessarie, soprattutto se «strutturali»: La grande magia è una macchina narrativa inarrestabile, una commedia strutturalmente frammentaria, un sistema di simbolistiche «contraddizioni», regolamentate – però – attraverso una scrittura netta e poetica, schematicamente espressiva: Eduardo, dunque, innesta in un quadro fortemente realistico – «neorealistico», se vogliamo – e popolare la tematica del «soprannaturale», rappresentata dalla figura del mago Otto Marvuglia. Un’operazione che potremmo definire «shakespeariana», non nuova per Eduardo (già nel ’46, con Questi fantasmi!, il drammaturgo confonde uomini e spettri, frammenti di vita effettiva e fatti favolistici), ma questa volta conduce l’escamotage a estreme conseguenze: il mago Marvuglia consegna all’affranto e dispotico marito, Calogero Di Spelta (moralistico portavoce del mitizzato, ma feroce, decoro borghese), una scatola entro cui afferma d’aver sigillato la moglie, Marta, scappata invece con l’amante. Un trucco di magia parossisticamente comico, a cui l’uomo è «costretto» fermamente a credere, rifiutando aprioristicamente l’eventuale esistenza d’una realtà «altra da sé» o l’eventuale elemento scandaloso (il tradimento, in questo caso) che andrebbe a «rivoluzionare» la perfezione formale della «norma» borghese. L’evento magico, al Bellini, viene inquadrato entro un progetto registico potentemente «espressivo», curato da Gabriele Russo; una «vivacità» narrativa che conduce a conseguenze estreme gli elementi narrativi e i dati, prevalentemente pirandelliani, che determinano contenutisticamente non soltanto questa commedia, ma tutta la produzione drammaturgica eduardiana: la frantumazione dell’istituzione della famiglia, l’alienante mediocrità borghese e la frustrante repressione d’impulsi e inclinazioni. La messinscena, almeno esteriormente, presenta una forma narrativa preminentemente unitaria e continua – nonostante la presenza d’inevitabili transizioni da un atto all’altro, perfettamente innestate entro la cornice narrativa, perché investite d’una funzione altamente «poetica»: assumono la forma di brevi momenti d’irrazionalistica e tragica sospensione; brevi incisi dal carattere fortemente onirico e sognante – determinati dalle suggestive atmosfere sonore di Antonio Della Ragione. Ma la forma unitaria esteriore pone se stessa in netta «contraddizione» con la struttura interna potentemente frammentaria: scene di vita realistica interrotte da momenti surrealistici, caratterizzati da parossistiche connotazioni linguistiche. Ciò riguarda, però, soprattutto i personaggi «secondari», perché i due protagonisti Otto Marvuglia e Calogero Di Spelta (interpretati, rispettivamente, da Michele Di Mauro e Natalino Balasso) incarnano metaforicamente la drammaticità della vita. La povertà è il dato in cui risiede la disperazione, sia pure coscientemente comica, del mago Marvuglia, interpretato da Di Mauro in un modo graziosamente «vignettistico» e «fumettistico». Attraverso un tono scherzoso (soprattutto nelle frasi in lingua napoletana), un’astuta galanteria e un atteggiamento graziosamente «vanitoso», l’attore garantisce al mago una balenante allegria e una concreta inventiva linguistica, determinata da stabilità espressiva e da immediate, ma realistiche, variazioni tonali. Natalino Balasso, invece, offre un ritratto del suo Calogero Di Spelta drammaticamente «veristico»: improvvise variazioni d’intonazione e un linguaggio infantilmente «esitante» rappresentano i sintomi di una condizione emotiva autopunitiva e amara, in cui l’affranto marito è costretto; uno stato irrimediabilmente nevrotico, determinato da un degradante sentimento d’impotenza e da un nostalgico sentimentalismo. I personaggi «secondari» (la definizione è puramente convenzionale) assumono coralmente un linguaggio umoristicamente «artefatto»; un linguaggio che procede speditamente, accompagnato e sostenuto da un altro linguaggio, quello gestuale, determinato da un’espressività estrema, ritmicamente irrealistica: paiono figure provenienti da un mondo «altro», impalpabile e irrisolto: il mondo interiore dei due protagonisti. Ottimi, dunque, tutti gli attori – avvolti, peraltro, negli appropriati costumi di Giuseppe Avallone: Veronica D’Elia (Amelia Recchia), Gennaro Di Biase (Mariano D’Albino e Brigadiere), Christian di Domenico (Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta), Maria Laila Fernandez (Signora Marino e Rosa Di Spelta), Alessio Piazza (Gervasio e Oreste Intrugli), Manuel Severino (Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia), Sabrina Scuccimarra (Zaira, moglie di Marvuglia), Alice Spisa (Marta Di Spelta e Roberto Magliano), Anna Rita Vitolo (Signora Zampa e Matilde, madre di Di Spelta). Anche la struttura scenica, progettata da Roberto Crea, esprime – attraverso la potenza comunicativa delle cose e degli oggetti – la tragica e comica vitalità tipica della scrittura eduardiana: riproduce, in modo poeticamente «stilizzato» e colorato, gli spazi entro cui accadono i fatti, romanticamente illuminati da Pasquale Mari: un giardino (quello dell’albergo Metropole), le stanze dell’estrosa casa del mago Marvuglia e del freddo appartamento di Di Spelta. Un pubblico, particolarmente numeroso ed entusiasta, ha positivamente accolto l’opera che, forse, stava – e sta – più a cuore al suo grande ed eterno papà, Eduardo De Filippo. Foto Flavia Tartaglia
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
1984
di George Orwell
adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan
traduzione Giancarlo Nicoletti
con Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri
e con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore,
Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues, Chiara Sacco
scene Alessandro Chiti
musiche Oragravity
costumi Paola Marchesin
disegno video Alessandro Papa
disegno luci Giuseppe Filipponio
regia Giancarlo Nicoletti
Roma, 22 Ottobre 2024
La nuova versione teatrale di “1984” diretta da Giancarlo Nicoletti rappresenta uno degli adattamenti più ambiziosi dell’ultimo decennio. L’opera di Orwell, pilastro della letteratura distopica, viene trasposta in una produzione che riesce a mantenere viva la cupezza e la potenza narrativa del romanzo originale, riuscendo al contempo a offrire una riflessione attuale e provocatoria sulla nostra società contemporanea. Il romanzo di George Orwell, pubblicato nel 1949, è uno dei più potenti racconti distopici del ventesimo secolo. Racconta la storia di Winston Smith, un uomo comune intrappolato in un regime totalitario dove ogni pensiero e azione vengono sorvegliati. Orwell esplora la perdita dell’individualità e l’annullamento della verità, rappresentando la paura di un futuro totalitario. Nicoletti ha mantenuto intatto il messaggio dell’autore, riuscendo a farlo risuonare con il pubblico moderno, costretto a confrontarsi con temi come la sorveglianza di massa e la manipolazione delle informazioni. L’adattamento di Nicoletti non si limita a replicare fedelmente la trama, ma arricchisce l’esperienza visiva e sensoriale attraverso un uso sapiente di videoproiezioni ed elementi multimediali. Flussi di dati e immagini di telecamere di sorveglianza amplificano la sensazione di essere costantemente sotto controllo, suggerendo una connessione profonda tra la distopia immaginata da Orwell e la nostra realtà attuale. Questa scelta stilistica rende ancora più evidente l’attualità del messaggio di Orwell, ponendo l’accento sull’invasività delle moderne tecnologie di sorveglianza e sul crescente potere delle istituzioni nel controllo della vita privata. La regia crea una messa in scena tesa e coinvolgente, mantenendo l’intensità e la cupezza dell’opera originale. L’interpretazione del controllo totalitario si concretizza in un allestimento scenico essenziale ma fortemente evocativo, fatto di ambienti claustrofobici e luci oppressive. La scenografia volutamente minimalista, insieme alla scelta di luci e ombre, contribuisce a ricreare un’atmosfera asfissiante, in cui i personaggi sembrano imprigionati non solo fisicamente, ma anche mentalmente. La narrazione visiva alterna momenti di tensione palpabile a passaggi di profondo silenzio, volutamente angoscianti, che suggeriscono un’assenza di speranza e un senso di impotenza. Tuttavia, queste pause, sebbene drammaticamente efficaci, possono talvolta spezzare il ritmo della rappresentazione, risultando in un andamento frammentario che ha il potere di attenuare l’intensità emotiva dell’opera. Questa scelta stilistica, pur coerente con l’intento di evocare un’atmosfera di desolazione e controllo, può risultare divisiva, poiché non tutti gli spettatori apprezzano un ritmo così volutamente rallentato. La scenografia di Alessandro Chiti è stata studiata con particolare attenzione per accentuare il senso di oppressione e isolamento vissuto dal protagonista. Non c’è via di fuga nella stanza 101, e questo viene trasmesso al pubblico attraverso uno spazio volutamente limitato, che diventa una vera e propria trappola mentale. La scelta di ambientazioni ristrette, con pareti che sembrano chiudersi sempre di più intorno ai personaggi, dà vita a un ambiente che simboleggia il controllo inesorabile del Partito. Le luci di Giuseppe Filipponio, con cambi repentini dal buio soffocante a esplosioni di luce accecante, simboleggiano l’alternanza tra la sorveglianza totalitaria e i momenti di oppressione invisibile. Questa alternanza contribuisce a rendere l’esperienza teatrale ancora più coinvolgente, trasportando lo spettatore nel mondo angoscioso di Winston. Uno degli aspetti più evidenti dell’allestimento è stata senza dubbio l’interpretazione degli attori. Woody Neri, nel ruolo di Winston Smith, ha restituito con grande intensità la fragilità e la sofferenza del personaggio, mostrando il suo progressivo annientamento psicologico sotto il peso del sistema totalitario. L’attore è riuscito a incarnare le paure più profonde dell’essere umano: la perdita dell’identità e dell’umanità di fronte al potere. La sua performance è stata caratterizzata da una vulnerabilità autentica, che ha permesso al pubblico di empatizzare profondamente con Winston e con la sua lotta disperata contro un nemico invisibile. Violante Placido, nel ruolo di Julia, ha saputo trasmettere con efficacia sia la speranza sia la disperazione del suo personaggio, donando alla scena una carica emotiva vibrante e carismatica. Placido è riuscita a dare vita a una Julia complessa, combattuta tra il desiderio di libertà e la consapevolezza dell’inevitabilità del fallimento. Ninni Bruschetta ha dato corpo con maestria al ruolo del traditore, un personaggio che si muove con disinvoltura tra l’inganno e la spietatezza. Inizialmente, accoglie i due protagonisti nella “Fratellanza” clandestina, solo per svelare, con fredda determinazione, la sua vera identità di funzionario del regime. La sua interpretazione di O’Brien si distingue per una crudeltà calcolata, priva di empatia e di ogni briciolo di umanità: il suo obiettivo, ancor prima della condanna a morte dei dissidenti, è quello di spezzarli, di condizionarli fino a svuotarne lo spirito ribelle, anche nel momento estremo della loro esecuzione. Accanto a lui, il cast si è distinto per una resa coesa ed efficace, con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues e Chiara Sacco a incarnare inquisitori e aguzzini, aggiungendo al tutto un’aura di minaccia costante e ineluttabile. “1984” di Giancarlo Nicoletti è un adattamento teatrale che riesce a catturare l’essenza del romanzo di Orwell senza rinunciare a scelte stilistiche audaci. La potenza della regia, l’uso intelligente della scenografia e delle luci, e le interpretazioni intense degli attori fanno di questo spettacolo un’esperienza immersiva e disturbante, capace di scuotere le coscienze del pubblico. Un’opera che conferma come il teatro possa ancora essere uno strumento potente di critica e riflessione sul presente, in grado di attualizzare i grandi temi della letteratura e renderli significativi per il nostro tempo. Con tutte le sue sfumature e ambivalenze, l’adattamento di Nicoletti è un invito a confrontarsi con le nostre paure più profonde e a riflettere sul prezzo della libertà in una società sempre più monitorata e controllata. Il pubblico ha applaudito convintamente, in particolare per le interpretazioni degli attori, riconoscendo l’impegno e la profondità delle loro performance.
Roma, Teatro Vascello
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
una co-creazione con Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
regia Daria Deflorian
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
una produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
Torna al Romaeuropa Festival in veste di regista e attrice per portare in scena insieme a Monica Piseddu, Paolo Musio e Gabriele Portoghese il gesto misterioso, potente, irrazionale quanto politico di Yeong-hye, protagonista de “La vegetariana”, romanzo della scrittrice sudcoreana Han Kang. Un testo sensuale, provocatorio, ricco di immagini potenti, colori sorprendenti e domande inquietanti: il rifiuto radicale, categorico quanto violento di una donna che sceglie di non mangiare più carne dà il via ad un graduale processo di metamorfosi. Mentre Yeong-hye cambia, cercando di diventare essa stessa vegetazione, ecco che è l’intero mondo che la circonda a vivere l’impatto della sua trasformazione: dall’irritazione sconcertata del marito, all’esaltazione artistica del cognato fino alla consapevolezza addolorata della sorella. L’umanità è dannosa, furiosa, assassina, violenta, tutte cose che Yeong-hye non vuole essere. Lei non vuole smettere di vivere. Vuole smettere di vivere come noi. Daria Deflorian Attrice, autrice e regista, tra i nomi di spicco della scena teatrale contemporanea. Come attrice lavora tra gli altri con Nanni Moretti, Stephane Braunschweig, Massimiliano Civica, Lotte Van Den Berg, Lucia Calamaro, Martha Clarke, Fabrizio Arcuri, Mario Martone, Remondi e Caporossi. Vince il Premio Ubu 2012 come miglior attrice e il Premio Hystrio2013. Dal 2008 al 2021 condivide i progetti con Antonio Tagliarini. I loro spettacoli girano l’Europa e vincono molti premi: Premio Ubu 2014 come miglior testo, miglior spettacolo straniero in Canada nel 2015, Premio Riccione 2019 e Premio Hystrio 2021. I loro testi sono pubblicati da Titivillus, Cue Press e Luca Sossella. Nel 2022 firma la drammaturgia e la regia di En finir dai testi di Edouard Louis per La Manufacture/Alta scuola di formazione di Losanna e poi per l’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Nel 2023 firma drammaturgia e regia di Elogio della vita a rovescio, prima tappa del progetto biennale attorno a La vegetariana. Dal 2021 cura la direzione artistica di INDEX (index-productions.com) insieme alla compagnia Muta Imago.
Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
Filarmonica “Arturo Toscanini”
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore James Conlon
Maestro del Coro Martino Faggiani
Solisti: Roberta Mantegna, Szilvia Vörös, Fabio Sartori, Alexander Vinogradov
Giuseppe Verdi: “Messa da Requiem” per soli, coro e orchestra
Parma, 19 ottobre 2024
Tradizionale appuntamento del Festival è la Messa da Requiem: quest’anno diretta da James Conlon. La cui lettura rifugge l’enfasi, la retorica, l’effetto; alla ricerca invece di un raccoglimento, di un’intimità che sono garantiti dall’eleganza, dalla sobrietà. Benché il ventaglio delle dinamiche sia alla sua massima apertura, com’è naturale e necessario, non si avvertono forzature, contrasti violenti, in una parola: eccessi. La Filarmonica Arturo Toscanini suona davvero bene, con una mirabile trasparenza, figlia del reciproco ascolto fra le sezioni, garantendo sempre un perfetto equilibrio fra i diversi piani sonori. Anche nei pianissimi più smaterializzati i tremoli degli archi restano fittissimi e nitidi; anche nel disorientante inizio del Tuba Mirum gli ottoni assicurano esattezza ritmica e d’intonazione. Quando piccole sbavature, qui, sono cose che capitano anche nelle migliori orchestre. Anche il Coro del Teatro Regio si distingue per intelligibilità del testo latino, scansione ritmica e equilibrio fra le voci più che per corposità o colore del suono. In generale, ne risulta un Requiem tutto etereo, tutto celeste, un Requiem che è un fatto intellettuale, interiore, che trova il suo svolgimento nella coscienza dell’individuo, un Requiem autenticamente ed esclusivamente sacro. Non con questo si vuol sostenere che sia questa musica sacra e niente abbia di teatrale (inutile qui ritornare sui vasi comunicanti, sui ricicli dalla prima versione dell’incipit dell’atto del Nilo e dal compianto su Posa morto di Philippe Deux): la musica è musica, è l’interpretazione a doverle restituire il giusto carattere. Storicamente, essendo il nome di Verdi così strettamente legato al teatro, si è troppo spesso guardato al suo Requiem come una sorta di sacra rappresentazione con effetti speciali. Nel ricondurne la musica alla sua dimensione più spirituale, Conlon ne raffredda forse la materia, ma non le fa certo torto: anzi rifulge di un’inedita, spigliata, agile, leggera, vibrante modernità. Fra i solisti spicca la voce invero di rara bellezza di Roberta Mantegna: limpida e chiara, eppure piena, sostanziosa, ricca di armonici, voluminosa, è un incanto. Szilvia Vörös fa assai bene con un timbro ambrato e snello, senza inutili rigonfiamenti, e dunque la voce è ben proiettata. Fabio Sartori canta da par suo, con un serbatoio di accortezze, intenzioni, sfumature espressive che si può mettere insieme solo con una lunga esperienza; e se il volume e la solidità della voce non conoscono vacillamenti, lo smalto conosce invece qualche crepa. Alexander Vinogradov è un basso piuttosto luminoso, che canta con un’ottima pronuncia e corretta posizione nei risuonatori cerebrali (se vi piace “in maschera”, o comunque à la Christoff per capirci subito): il punto critico che sembra un po’ preoccuparlo è il volume non immenso della voce, cui però la corretta proiezione può porre rimedio. Il concerto si è concluso con trentasette secondi di religioso silenzio, tale da lasciar trasparire in lontananza gli scrosci che fuori si stavano abbattendo sulla città; silenzio finalmente interrotto dall’entusiasmo di un pubblico pago e riconoscente.
Teatro Verdi di Padova – Stagione 2024/25
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San FRANCESCA DOTTO
F.B.Pinkerton GIORGIO BERRUGI
Suzuki FRANCESCA DI SAURO
Sharpless JORGE NELSON MARTINEZ
Goro ROBERTO COVATTA
Il principe Yamadori WILLIAM CORRÒ
Lo zio Bonzo CRISTIAN SAITTA
Kate Pinkerton ALEZANDRA METELEVA
Il commissario imperiale FRANCESCO MILANESE
L’ufficiale del registro FRANCESCO TOSO
Danzatrice ALESSIA GELMETTI
Orchestra di Padova e del Veneto Coro Lirico Veneto
Direttore Francesco Rosa
Maestro del coro Matteo Valbusa
Regia, scene e luci Filippo Tonon
Costumi Filippo Tonon e Carla Galleri
Nuovo allestimento e nuova produzione del Teatro Verdi di Padova
in coproduzione con il Teatro Sociale di Rovigo e col Teatro Comunale Mario Del Monaco
Padova, 20 ottobre 2024
La Stagione Lirica di Padova 2024 rende un doveroso omaggio al maestro Giacomo Puccini, in occasione del centenario della morte, aprendo la stagione lirica con Madame Butterfly, opera tra le più struggenti e amate del repertorio lirico, della quale ricorre il 120° anniversario della prima rappresentazione. Sin dalla scena di apertura, grazie alla scenografia di Filippo Tonon, ci si sente soavemente trasportati in un Giappone di raffinata purezza, stilizzato e poetico. La quinta è una casa in più piani, capaci di trasformare gli spazi alle esigenze rappresentative; le porte a soffietto riescono a donare al palcoscenico la profondità necessaria, trasformandolo da una collina che si affaccia sul porto ad un luogo di pura intimità. Il gioco di luci è pure molto elegante e sobrio: un chiarore, o meglio un bagliore dalle tenui sfumature, in stretta correlazione con i tempi, luoghi e vicissitudini dell’opera, insomma una perfetta aderenza tra colore e calore. La regia dello stesso Tonon viaggia sul filo della coerenza, restituendo verità allo stile e alla cultura giapponese, senza esaltarla né togliendone credibilità. Infine molto apprezzata la filologia sulla scelta dei costumi di Filippo Tonon e Carla Galleri che rende ancora più autentico ed elegante il nostro viaggio. La concertazione è affidata al direttore Francesco Rosa, esperta bacchetta del Teatro di Padova, perfettamente a suo agio con la collaudata Orchestra di Padova e del Veneto. Il maestro ha diretto l’opera con la dovuta enfasi, come richiesto dalla partitura, mettendo in risalto la bellezza delle armonie pucciniane.La rappresentazione è stata di grande impatto emotivo anche grazie a un cast molto ben selezionato. Nel primo atto un po’ tutte le voci sono state penalizzate da un volume orchestrale leggermente troppo carico, includendo purtroppo anche il momento topico della comparsa di Butterfly (dove coro, orchestra e solisti dovrebbero fondersi in un unicum sonoro), ma tutto si è successivamente ritarato e tutte le compagini hanno saputo ricalibrarsi alla perfezione. Francesca Dotto, nel ruolo della sfortunata Cio-Cio-San, ha dato vita a una performance toccante e appassionata. La sua interpretazione, ben bilanciata tra fragilità e forza, ha catturato il cuore del pubblico, grazie a una voce limpida e ben proiettata, capace di esprimere con intensità il dramma interiore della protagonista; nel “Un bel dì vedremo” ha saputo incantare per delicatezza e profondità. Molto buona la sua interpretazione scenica. Giorgio Berrugi, (F.B. Pinkerton), ha restituito con abilità la complessità del personaggio. La sua voce sicura e brillante, unita a una presenza scenica adeguata, ha delineato un Pinkerton forse meno superficiale del solito, aggiungendo un velo di rimorso alle azioni che lo rendono così tragicamente colpevole agli occhi dello spettatore. Come Suzuki Francesca Di Sauro è stata una presenza solida e affettuosa, offrendo un’interpretazione vocale ben equilibrata. Il suo rapporto con Cio-Cio-San ha evidenziato il legame di fiducia e compassione, risultando in uno dei momenti più sinceri della rappresentazione. Jorge Nelson Martínez ha convinto nei panni di Sharpless, con una voce calda e un’interpretazione empatica del console americano, che ben riflette la sua impotenza di fronte al dramma imminente. Roberto Covatta, nei panni di Goro, ha saputo esprimere la meschinità del personaggio con un’ottima interpretazione attoriale e vocale. William Corrò (Yamadori), Cristian Saitta (Zio Bonzo), Aleksandra Meteleva (Kate Pinkerton), Francesco Milanese (il commissario imperiale) e Francesco Toso (l’ufficiale del registro) hanno completato il cast con grande professionalità e capacità interpretativa. Come sempre buona la prova del Coro Lirico Veneto diretto da Matteo Valbusa. È altresì doveroso menzionare un momento di rara bellezza e per di più giunto inaspettato: il balletto durante il coro a bocca chiusa. La brava Alessia Gelmetti, incorniciata in una scenografia eterea, è stata capace di commuovere lo spettatore interpretando la funzione simbolica che la danza rappresentava vale a dire la morte che viene a prendersi la vita. In conclusione questa produzione di Madame Butterfly è stata un successo sotto ogni punto di vista. La combinazione di regia attenta, una scenografia evocativa e un cast di grande talento ha permesso al pubblico di vivere un’esperienza teatrale ed emotiva intensa. E la tragica fine di Cio-Cio-San ha lasciato tutti profondamente toccati, in un silenzio sospeso che si è trasformato poi in applausi calorosi. Un appuntamento che, sicuramente, resterà nei cuori degli spettatori padovani e non solo.
Mantova, Teatro Sociale
BALANCE OF POWER
produzione di Art Works Production – Antonio Gnecchi Ruscone
in collaborazione con Alveare Produzioni
distribuzione in Italia Sava’ Produzioni Creative
organizzata da Mister Wolf per la rassegna Mantova Live Theatre
Parsons Dance si prepara a travolgere nuovamente le platee italiane con la sua danza vibrante e radiosa che è un inno alla fantasia e alla vita. Il programma del nuovo tour, dal titolo Balance of Power, presenta una tappa a Mantova, organizzata da Mister Wolf per la rassegna Mantova Live Theatre. Fondata nel 1985 dal genio creativo dell’eclettico coreografo David Parsons e del lighting designer Howell Binkley, Parsons Dance è una tra le poche compagnie che, oltre a essersi affermate sulla scena internazionale con successo sempre rinnovato, è riuscita a lasciare un segno nell’immaginario contemporaneo e a creare coreografie divenute veri e propri “cult” della danza mondiale. I loro spettacoli, sempre attesissimi, sono già andati in scena in più di 445 città, in 30 paesi nei cinque continenti e nei più importanti teatri e festival del mondo, fra cui The Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, Sydney Opera House, Maison de la Danse di Lione, Teatro La Fenice di Venezia e Teatro Municipal di Rio de Janeiro. Parsons Dance incarna alla perfezione la forza dirompente di un’arte carica di energia e positività, acrobatica e comunicativa al tempo stesso. È una danza solare che diverte in quanto espressione di gioia, capace di trasmettere emozioni tali da raggiungere un vasto pubblico. L’elevata preparazione atletica dei ballerini, guidata dalla maestria di David Parsons nel dare anima alla tecnica, è stata, sin dagli esordi, tra gli elementi distintivi della compagnia. “L’arte è un potente strumento espressivo e di comunicazione. Il mio obiettivo è fornire a più persone l’opportunità di vivere le meraviglie della danza.” (David Parsons) Balance of Power, titolo di una coreografia che caratterizza il nuovo tour 2024, sottolinea l’importanza del potere dell’equilibrio, nella vita e sul palcoscenico. Tutte le creazioni di David Parsons – prima fra tutte l’iconica Caught (coreografia che Parsons creò per sé stesso nel 1982) – portano il segno di una straordinaria teatralità e di un lavoro fisico che si trasforma in virtuosismo e leggerezza. Fondamentale nella storia della compagnia il ruolo del pluripremiato lighting designer Howell Binkley (vincitore, tra gli altri, di un Tony Award per il musical di Broadway Hamilton) che, con la semplicità e l’efficacia delle soluzioni sceniche date dalla padronanza dell’utilizzo della luce, ha sempre esaltato le creazioni coreografiche di David Parsons. Il programma di Balance of Power – tour 2024 include sei pezzi coreografici – amati classici del repertorio di Parsons Dance e due novità – in un mix che valorizza l’intera compagnia e i suoi singoli elementi. Tra le pietre miliari del loro repertorio non poteva mancare la già citata Caught, definita dalla critica “una delle più grandi coreografie degli ultimi tempi”: un assolo mozzafiato, sulle note di Let The Power Fall di Robert Fripp, nel quale il danzatore sembra sospeso in aria grazie a un gioco di luci stroboscopiche. Un altro classico del programma è Takademe (1996), assolo creato da Robert Battle quando era ballerino della compagnia, che mescola umorismo e movimento acrobatico in una decostruzione accorta dei ritmi della danza indiana Kathak; forme chiare e salti propulsivi imitano le sillabe ritmiche vocalizzate della partitura sincopata di Sheila Chandra. Al centro del programma saranno presentati, per la prima volta in Europa, due nuove produzioni del 2024: Juke e The Shape of Us. Juke, commissionato a Jamar Roberts, già ballerino dell’American Dance Theatre di Alvin Ailey e coreografo residente, è un omaggio a Spanish Key, tratto dall’album Bitches Brew (1970) del leggendario jazzista Miles Davis, e agli anni ‘70, con le forme psichedeliche che creano una cornice per far risaltare il talento dei singoli danzatori. Sempre intorno alla musica ruota The Shape of Us, l’ultima creazione di David Parsons: un viaggio dall’alienazione alla connessione con la musica del gruppo elettronico sperimentale Son Lux, guidato da Ryan Lott, che ha ricevuto una nomination all’Oscar per la colonna sonora del film premio Oscar 2023 Everything Everywhere All At Once. I ballerini si esplorano scoprendo la reciproca bellezza e i loro legami comunitari. Balance of Power, che dà il titolo al tour, è un recente assolo di David Parsons di grande successo. Creato nel 2020, in periodo di pandemia, in collaborazione con il compositore/percussionista italiano Giancarlo De Trizio, Balance of Power mette in luce l’intrigante equilibrio di potere tra musicista, danzatore e coreografo. Ogni movimento ha un suo corrispettivo sonoro ed è perfettamente accordato a uno specifico suono delle percussioni, dall’inizio in sordina fino al frenetico finale. Chiude il programma un lavoro di Parsons che mette in luce la sua affascinante visione artistica: Whirlaway, commissionato nel 2014 per celebrare Allen Toussaint, il fenomeno musicale di New Orleans. Sulle note che spaziano dal rock al blues, passando per tutta la gamma del jazz, la coreografia è un continuo alternarsi di assoli, passi a due, a quattro, a sei, a otto, con coppie che si rimescolano continuamente, come se si divertissero spensieratamente in una danza giocosa. David Parsons si dice più innamorato che mai dell’Italia: “La mia prima volta fu nell’89 e fu subito amore a prima vista. L’Italia ha cambiato la mia vita, mi ha dato potere ed energia”. Parsons Dance incarna il senso più genuino di una danza che punta dritto all’emozione e al desiderio nascosto di ogni spettatore di ballare, saltare e gioire insieme ai ballerini. Difficile non lasciarsi trasportare dalla leggerezza dei corpi, dal ritmo incalzante, dalla commistione di linguaggi, e dai colori caldi, sofisticati e profondi. I biglietti per l’appuntamento del 21 novembre al Teatro Sociale sono in vendita su TicketOne e presso il botteghino del teatro.
Milano, fACTORy 32, Stagione 2024/25
“CASA DI BAMBOLA, PARTE 2”
di Lucas Hnath
Nora ALICE MISTRONI
Torvald SIMONE LEONARDI
Anne Marie ANTONIA DI FRANCESCO
Emmy ERICA SANI
Traduzione e regia Claudio Zanelli
Nuova produzione CDM
Milano, 19 ottobre 2024
FACTORy 32, probabilmente la più interessante proposta off del teatro milanese, ha inaugurato la nuova stagione con un testo inedito in Italia, recentissimo, di produzione americana, ma, per evidenti motivi, molto legato alla grande drammaturgia europea: “Casa di bambola, parte 2“, scritto dal giovane drammaturgo statunitense Lucas Hnath, che nel 2017 è stata candidata a otto Tony Award, vincendo quello per Miglior Interpretazione di un’Attrice in un Ruolo da Protagonista. È davvero raro trovare sui palcoscenici italiani testi tanto recenti, che ci aiutano a comprendere la temperie culturale della drammaturgia globale, e ad uscire dal nostro orticello, talvolta decisamente provinciale; inoltre, l’idea di un sequel del celeberrimo dramma di Ibsen “Casa di Bambola“, è stimolante, vuoi per il valore ideologico che questo dramma ha incarnato da sempre, vuoi per il fatto che, in effetti, il suo è un finale aperto, con Nora che lascia la casa di suo marito e dei suoi figli per un futuro nebuloso, ma nel quale potrà sentirsi libera. L’idea di Hnath riparte proprio da qui: dopo quindici anni, Nora bussa di nuovo a quella porta, perché ha da chiedere un favore al suo ex marito Torvald, che, dal canto suo, non ha mai depositato i documenti del divorzio; Nora, per questo, potrebbe essere perseguita per vari capi d’accusa, ma, soprattutto, questo potrebbe minare la sua nuova credibilità di autrice femminista apertamente contro l’istituzione matrimoniale. Il testo, da un punto di vista drammaturgico, funziona alla perfezione: nell’arco di un pomeriggio, Nora dovrà confrontarsi con la sua vecchia governante, rimasta al servizio degli Elmer, con suo marito, e, inaspettatamente, con la sua figlia diciottenne, Emmy, che nemmeno la ricorda – ne seguiranno, come previsto, molte scene ad alta tensione, ma anche altre cariche di sarcasmo, che strappano più di una risata – fino al dialogo finale, che, vivaddio, trova una nuova Nora, più consapevole, meno legata a certi dogmi femministi, ma comunque pronta ad uscire di nuovo da quella porta. La produzione italiana di questo testo è affidata alla Compagnia del Musical, ossia la compagnia di attori che è uscita dalla Scuola del Musical di Milano, sebbene questo testo non possegga nemmeno una musica: questa ai nostri occhi è un’anomalia, giacché un testo simile, che si rifà a un tale capolavoro, avrebbe dovuto essere attenzionato da compagnie ben più importanti, con risorse maggiori, e, detto francamente, anche con un novero di talenti maggiormente accreditati. In ogni caso, sebbene la produzione sia davvero low budget, quasi tutto il cast ha saputo essere pienamente all’altezza: Alice Mistroni è una Nora molto convincente, dotata di una fisicità e una vocalità piacevolissime, ma soprattutto consapevole di tutti i colori che il suo personaggio deve mostrare, da quelli più cupi, rabbiosi, introspettivi, a quelli più leggeri, scherzosi, quasi frivoli; la sensazione che si ha è che Mistroni sia più a suo agio proprio con questi momenti di leggerezza che con quelli di profonda amarezza, ma in generale ci offre una performance davvero ad alto livello; anche la prova di Antonia Di Francesco nei panni della governante Anne Marie è convincente, forse soltanto un filo troppo versata sul lato buffo: a un certo punto la governante si rivolta contro il pensiero rivoluzionario di Nora, con un’imprecazione volgare molto forte, e il pubblico ride, non capendo davvero cosa implica per il personaggio una simile parolaccia rivolta a quella che era non solo la sua padrona, ma anche la sua bambina; in ogni caso anche Di Francesco è perfettamente a suo agio nel ruolo, sia sul piano vocale che su quello scenico, ed è chiaro che si tratti di un’interprete con molte esperienze scenice di estrazione molto variegata. Tuttavia, è la performance di Simone Leonardi, nei panni di Torvald, quella più impressionante: la voce baritonale, lievemente graffiata, la naturale eleganza del gesto, lo sguardo profondo dell’interprete, sanno rendere un Torvald per niente antipatico o ottuso, ma ci offrono un uomo spezzato, ancora dopo quindici anni, un marito che apparentemente non ha saputo andare avanti, un padre approssimativo, un essere umano svuotato dalla dipartita dell’adorata moglie; eppure, durante lo spettacolo, è proprio questo il personaggio che sa evolvere di più, e Leonardi ci accompagna passo passo sul percorso di redenzione, questa volta del marito, e non della moglie. L’interprete meno convincente della produzione, invece, è senza dubbio Erica Sani, nei panni della figlia Emmy, a causa in primis di una vocalità non piacevole, oltre che di un lavoro sul personaggio che si mantiene sempre superficiale: non ci convince una parola di quello che dice, capiamo da subito come si evolverà la scena con la madre; Sani forse non ha avuto modo di costruire a tutto tondo questo personaggio, che, a sua volta, gode di un’unica scena di confronto. Claudio Zanelli, regista e traduttore, ha fatto senz’altro un buon lavoro, con alcuni limiti: la regia è molto tradizionale, ma funziona bene, pur mancando di qualche guizzo più perturbante; sulla traduzione, invece, abbiamo alcuni dubbi: il linguaggio della recita è molto contemporaneo, e questo porta a una recitazione altrettanto contemporanea; non che ciò sia di per sé un male, ma, considerata la ricostruzione storica delle scene e dei costumi, e anche il precedente letterario, ci saremmo aspettati una lingua più ricercata, una recitazione giusto un filo più manierata, tradizionale, insomma, più “teatrale“ e meno da serie TV. Tuttavia, non avendo noi avuto il piacere di leggere il testo originale, può anche essere che Lucas Hnath abbia pensato a questo tipo di registro linguistico, in contrasto con la messa in scena, e che quindi Zanelli si sia giustamente limitato a rispettare l’intenzione del drammaturgo – cosa che, trattandosi di una prima nazionale, è sempre consigliabile: tanto, considerata la grande qualità di questo testo, di sicuro presto vedremo regie anche più “sperimentali” applicarsi ad esso. Foto Riccardo Italiano
Roma, Fonte di Anna Perenna
Piazza Euclide
FONTE DI ANNA PERENNA
Un nuovo allestimento immersivo dedicato alla dea dell’eterna rinascita si svela nel ciclo di aperture straordinarie della Fonte di Anna Perenna. Dal 5 ottobre al 30 novembre, quattro date per scoprire il sito archeologico rinvenuto alla fine del 1999 nel corso di uno scavo di archeologia preventiva per la costruzione di un garage in piazza Euclide. «La ninfa Anna Perenna era conosciuta attraverso le fonti antiche, Ovidio in particolare, ma, al contrario di altre divinità – spiega il Soprintendente Speciale di Roma Daniela Porro – fino al secolo scorso non erano stati trovati luoghi di culto a lei dedicati. Dopo un lungo lavoro di allestimento, con queste aperture straordinarie, restituiamo alla città una delle scoperte più importanti avvenute a Roma alla fine del secolo scorso, con l’intenzione di rendere sempre più regolare l’apertura di questo sito». Le visite guidate gratuite fino a esaurimento posti si terranno il 5 e il 26 ottobre, il 9 e il 30 novembre con quattro turni di 50 minuti, con partenza ogni ora dalle 9.40. La prenotazione è obbligatoria compilando gli appositi moduli. «Per la riapertura della Fonte di Anna Perenna, è stato realizzato un progetto di valorizzazione – dichiara l’archeologo Fabrizio Santi, responsabile del sito – volto a migliorare l’esperienza di visita. La nuova illuminazione è pensata per creare un ambiente immersivo, evocando la presenza dell’acqua attraverso il blu, mentre una luce bianca radente consente una migliore leggibilità delle iscrizioni. Sono stati realizzati un intervento di pulitura e il restauro delle murature; un video, attraverso un rilievo 3D, mostrerà ai visitatori le caratteristiche costruttive e degli oggetti rinvenuti nella fonte». Il rinvenimento della fonte e il culto di Anna Perenna sono al centro di un podcast di approfondimento realizzato dal Servizio Educativo della Soprintendenza Speciale con il responsabile del sito Fabrizio Santi https://open.spotify.com/episode/2SiP93NXtPoiOpws7tehxT?si=AheBled3ROepPfdxerTWxg
Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo GIOVANNI SALA
Renato KANG HAE
Amelia ILARIA ALIDA QUILICO*
Ulrica DANBI LEE*
Oscar LICIA PIERMATTEO*
Silvano GIUSEPPE TODISCO
Samuel AGOSTINO SUBACCHI*
Tom LORENZO BARBIERI
Un giudice/ Un servo di Amelia FRANCESCO CONGIU*
* Allievi e già dell’Accademia Verdiana
Orchestra Giovanile Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Fabio Biondi
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Teatro Comunale di Bologna, Fondazione Rete lirica delle Marche
Parma, 18 ottobre 2024
Nella piccola Mecca dei verdiani quest’edizione del Festival ha proposto Un ballo in maschera per parlare del quale conviene cominciare dalla regia di Daniele Menghini. Che punta tutto sul carattere libertino, anzi: epicureo del protagonista. Un palloncino è l’effimero simbolo della vita, che come tutte le feste è destinata a finire: vanità delle vanità. E di palloncini (e scoppi) si popola l’eclettica scena fissa di sottile eleganza visiva firmata da Davide Signorini. Riccardo, nei suoi folleggianti eccessi, si trasforma in un’icona fluida (grazie ai bei costumi di Nika Campisi, di ricca varietà materica): insomma, il fascino del personaggio è tale che il regista decide di tradurlo in quello che oggi è un modello più che positivo, vincente, di tendenza. Perché lo sbarazzino Conte di Boston ancora oggi ci affascini e catturi in un’ammirata complicità è mistero che Andrea Rostagno aveva tentato di dissipare con una tesi altrettanto seducente. In quest’opera così eccentrica i cospiratori da eroici che erano stati sempre diventano una macchietta, e il sovrano da tiranno passa a irresistibile simpaticone, amatore ma leale, superficiale e volubile, ma buono e giusto. È lui, V.E.R.D.I., che, fallito il progetto rivoluzionario, i patrioti dovranno appoggiare, il Re italiano che dell’italiano ha tutti i caratteri (anche se l’italiano ancora non esiste). Ecco perché, insiste Rostagno, Verdi ci teneva a dare l’opera a Napoli, o almeno a Roma, comunque nel meridione: perché era lì che il messaggio doveva ancora arrivare. Giovanni Sala è un protagonista dai centri timbratissimi, morbidi e pieni, e se il registro acuto lo è meno, se la voce corposa ma non squillante può sembrare poco rispettosa dell’ortodossia verdiana, si fa però perdonare: è una presenza scenica e vocale insieme, un mattatore, non c’è niente da fare. Kang Hae è invece un Renato stentoreo, inscalfibile, voluminoso e brillante; che poi sa però trovare accenti più teneri nella sua grande aria del terz’atto. L’Amelia di Ilaria Alida Quilico ha voce di bel timbro e di gran volume, valorizzato poi da una magnifica proiezione del suono. Soltanto il passaggio di registro resta un poco scoperto, lo si nota solo nelle scale delle cadenze, perché forse centro e grave non si sono ancora altrettanto sviluppati. Impressionanti invece nell’Ulrica di Danbi Lee: sempre ben timbrata, morbida, consistente, voluminosa e ricca di armonici. Perché ricorrere a quelle sonorità cosiddette di petto non è affatto sbagliato, anzi; a patto però che sia sempre preservata la qualità del suono, com’è qui. Licia Piermatteo, seppur annunciata indisposta, ha cantato brillantemente il suo credibilissimo Oscar: en travesti come il suo Conte. Nel ricordare ancora le belle voci di Agostino Subacchi, Samuel, e Lorenzo Barbieri, Tom, va fatto notare quanto giovino all’ascolto spazi così ridotti: si gode davvero di ogni sillaba (dizione ottima da tutti) e sempre perfettamente a tempo (essendo così vicini è difficile perdersi). Ma qui il merito è di Fabio Biondi, che dirige con gesto netto e sicuro l’Orchestra Giovanile Italiana. In una formazione ad organico ridotto, naturalmente, approntata per l’occasione da lui stesso con meticolosa sensibilità all’orchestrazione, cui sa restituire ogni effetto. La sua lettura è di un nitore e di una definizione probabilmente possibili solo in quello spazio per pochi privilegiati.
Torino, I Concerti del Lingotto, stagione 2024-25
NDR Elbphilharmonie Orchester
Direttore Alan Gilbert
Pianoforte Yefim Bronfman
Sergej Rachmaninov: Concerto per pianoforte e orchestra n.3 in re minore op.30. Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n.4 in fa minore op.36.
Torino, 18 ottobre 2024
Il Lingotto Musica, con l’iniziata stagione 2024-25, festeggia anch’esso, come già segnalato per l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, il trentennale. Nel maggio del 1994, i Berliner con Abbado inauguravano, eseguendo la Nona di Mahler, la nuova sala ideata dall’architetto Piano nell’ex stabilimento FIAT delle automobili. La Elbphilharmonie Orchester della Radio NDR di Amburgo è protagonista della serata, a guidarla Alan Gilbert, direttore principale dell’orchestra fin dal 2019. Vincitore di un Grammy Award e titolare di molte registrazioni, non conta molte presenze nel nostro paese e quindi neppure della notorietà che ne deriverebbe. Il pubblico è foltissimo, la curiosità e l’attesa, vista la qualità delle proposte di Lingottomusica, sono vivissime. Rachmaninov con il suo Terzo concerto per pianoforte (il Rach 3 di filmica memoria) apre la serata. Il pianista Yefim Bronfman, una sola volta a Torino vent’anni fa, siede alla tastiera. Fin da subito si nota quanto sia l’intesa tra podio e pianista; il direttore costantemente gli si volge e ne segue le intenzioni. Noto per le sparate di virtuosismo richieste, il concerto ci sorprende per un’inattesa “classicità”. Il discorso si svolge, senza mai sfondare sul forte-fortissimo, in un clima crepuscolare di ricordi e nostalgie. Parrebbe di essere scivolati, passeggiando la sera tra i vialetti del giardino di Sergej, in Svizzera, in un racconto di Čekov. L’esposizione è screziata di mille sfumature, brillano come lampi gli acuti, sussurrano e mormorano i bassi, tra di loro si snodano pazzeschi virtuosismi, doveri imprescindibili del concertista di successo. Il pedale non viene mai neppure sfiorato, tant’è che, abbagliati dalla quantità di colori e di dinamiche, si sospettano invisibili affossamenti millimetrici e progressivi. Nel solo spettacolare e rumoroso finale, imprescindibile impegno del solista per ottenerne un trionfo, per superare il clangore della massa orchestrale, il piede affonda e vince la contesa con sfolgoranti risonanze. L’orchestra, in assoluta concordanza, si allinea alla visione del pianista e non gli oppone mai la visione cinamatografico-hollywoodiana di cui sovente si è tacciato l’autore. Il successo è stato strepitoso ma, nonostante le innumerevoli richiamate sul palco, quasi a pietire un (doveroso?) fuori programma, nulla c’è stato. Dal tramonto di Čekov alla straziante mezzanotte di Dovstoevskij, così, all’avvio della Sinfonia n.4 di Čaikovskij, suona la fanfara di corni e fagotti che così prosegue, con un’impudica esposizione dei sentimenti, lungo l’intera sinfonia. La provenienza newyorkese del direttore avrebbe dovuto prepararci allo choc. Così facevano alcuni dei grandi direttori del Novecento che hanno forgiato il carattere all’orchestra della Grande Mela. Mitropoulos, il giovano Bernstein, Maazel e, dal 2009 al ’17, lo stesso Gilbert. Nella tradizione russa contemporanea, Mravinskij, Temirkanov, Jansons, attenuano razionalizzano sotterrano perorazioni e slanci, nella “libera” NY tutto è più spontaneo: si grida, si ride e si piange senza remore. La brillantezza dei suoni, il lussureggiare degli impasti timbrici, la scienza degli intrecci polifonici e dei trapassi armonici fungono da predella ad un’esposizione assolutamente appassionante e coinvolgente. L’Helbphilharmonie suona come da anni non si era più sentito a Torino. L’orchestra è in maggioranza costituita da giovani strumentisti che seguono, con un’attenzione spasmodica, il direttore che, con gesti mai eccessivi e mai sovrabbondanti, li guida in una ridda infinita di colori, di ritmi contrastanti con dinamiche estreme. È affascinante cogliere come, ad ogni minimo gesto e ad ogni accennato movimento della bacchetta, corrispondano immediatamente, senza esitazioni, sorprese sonore. I piani strumentali sono sempre ben delineati e i loro intrecci si definiscono all’ascolto, senza necessità di leggere la carta, impresa non facilissima, coabitando essi con il gran dispiegamento appassionato delle passioni. Già la fanfara iniziale degli ottoni qualifica l’altissima qualità tecnica dei leggii che viene ulteriormente confermata dall’ingresso delle altre sezioni. In specifica evidenzia il fascino introdotto, con suono brillante e compatto, dagli archi che si tramuta poi nel virtuosismo più spinto nei pianissimi del pizzicato dello scherzo. La cavalcata folgorante del Finale Allegro con Fuoco trascina inesorabilmente tutti verso il successo conclusivo. Un Čaikovskij che crediamo rimarrà, per tutti i presenti, di riferimento. Per l’orchestra e il direttore ci auguriamo numerosi riapprodi alle nostre latitudini. Più che un felice successo la serata ha scontato un trionfo completo, sancito dai ben perduranti e sonori applausi che il numerosissimo pubblico ha tributato agli artisti sul palco.
Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
“DER ROSENKAVALIER”
Commedia per musica in tre atti su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss
Die Feldmarschallin KRASSIMIRA STOYANOVA
Der Baron Ochs GÜNTER GROISSBÖCK
Octavian KATE LINDSEY
Herr von Faninal MICHAEL KRAUS
Sophie SABINE DEVIEILHE
Jungfer Marianne Leitmetzerin CAROLINE WENBORNE
Valzacchi GERHARD SIEGEL
Annina TANJA ARIAN BAUMBARTNER
Ein Polizeikommissär/ Ein Notar BASTIAN THOMAS KOHL
Der Haushofmeister bei der Feldmarschallin HAIYANG GUO
Der Haushofmeister bei Faninal/ Ein Wirt/ Ein Tierhändler JÖRG SCHNEIDER
Ein Sänger PIERO PRETTI
Eine Modistin LAURA LOLITA PEREŠIVANA
Drei Adelige Waisen GABRIELLA LOCATELLI, DANIELA DE PREZ, ELONORA ARDIGÒ
Vier Lakaien der Marschallin/ Vier Kellner LUIGI ALBANI, GUILLERMO ESTEBAN BUSSOLINI, ANDRZEJ GLOWIENKA, EMIDIO GUIDOTTI
Hausknetcht GIORGIO VALERIO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Kirill Petrenko
Maestro del Coro Bruno Malazzi
Maestro del Coro di Voci Bianche Marco de Gaspari
Regia Harry Kupfer
Scene Hans Schavernoch
Costumi Yan Tax
Luci Jürgen Hoffman
Video Thomas Reimer
Milano, 15 ottobre 2024
La ripresa del Teatro alla Scala della produzione di “Der Rosenkavalier” curata da Henry Kupfer è decisamente apprezzabile, sebbene non presenti grandi novità nemmeno dal punto di vista vocale: gode, infatti, ancora dei magnifici talenti di Krassimira Stoyanova e Günter Groissböck, Marescialla e Barone, due interpreti ormai di riferimento per questi ruoli, che mettono in luce tutte le loro doti (sceniche e musicali) con la disinvoltura che ci aspetteremmo. La Stoyanova rimane soprano di granitica presenza vocale, centri poderosi e acuti svettanti, ancora padrona della linea di canto e di un fraseggio forse perfettibile, ma senza dubbio navigato; Groissböck, da parte sua, è rutilante, instancabile, capace di mascherare perfettamente il naturale fascino con lo stolido e detestabile viscidume che il barone Ochs non cessa mai dimostrare; la prova canora è sontuosa, di livello altissimo, perfettamente consapevole lungo tutta la tessitura e caratterizzata da suoni naturalmente smaltati. Accanto a questa coppia veramente formidabile, il nuovo cast pone perlomeno due apprezzatissimi artisti, a partire dalla giustamente celebrata Sabine Devieilhe, ormai soprano di riferimento della sua generazione, il cui suono argentino sembra nato per cantare Sophie, perfettamente a proprio agio sia negli abbandoni più lirici che nei momenti più rapidi della pochade, oltre che ben incarnati scenicamente nella splendida grazia della cantante francese; queste recite sono altrettanto benedette dalla presenza di Michael Kraus nei panni di Faninal: la sua voce potente e vellutata allo stesso tempo, percorsa da venature calde, si piega con nobiltà su un fraseggio accuratissimo. L’Octavian di Kate Lindsey, invece, pur muovendosi nell’alveo della correttezza, non sa brillare in mezzo a questi quattro maestosi interpreti, e se trova apprezzatissimi slanci nei momenti più languidi, appare più impersonale in quelli d’azione, quando non lievemente a disagio nei panni di Mariandel; dispiace, invece, constatare come la zitella Marianne Leitmetzerin di Caroline Wenborne non fosse del tutto a fuoco, né per intonazione, né per emissione. Fra i molti ruoli di lato, di sicuro si è fatta notare Tanja Ariane Baumgartner, contralto sonoro e splendidamente proiettato, cui non mancano accenti di mezzo carattere che il personaggio di Annina giustamente richiede; molto apprezata pure la piccola ma incisiva performance di Piero Pretti, nel ruolo del cantore italiano. Senz’altro il vero protagonista di queste nuove recite, è, tuttavia, il direttore Kirill Petrenko, per la prima volta sul podio del tempio scaligero: senza abbandonarci a sperticati encomi dalla delirante deriva, come è avvenuto ad alcuni colleghi di altre testate, constatiamo che tanto entusiasmo sia giustamente ripagato dall’elegantissimo gesto e dalla grande coesione che Petrenko ottiene dall’orchestra, che padroneggia perfettamente, conducendola fra i diversi momenti sinfonici dell’opera così come al pieno servizio di una scena dal quale non si distacca mai; probabilmente il maestro russo, abituato ai Berliner Philarmoniker, ha trovato la formazione nostrana singolarmente compiacente al suo stile, e questo lo capiamo anche dai pubblici riconoscimenti che artisti di scena e di cavea gli hanno tributato anche in occasione della nostra recita. Infine, pure questa volta non ci è possibile fare una precisa disamina dell’apparato creativo scenico, ma, considerato il successo che ebbe otto anni fa, possiamo facilmente rifarci ad una recensione dell’epoca (qui). Foto Brescia & Amisano
Teatro Leonardo di Milano
AMLETO
di Corrado D’Elia
sino al 27 ottobre 2024
“Racconta di me e della mia causa, non dimenticare…”
Sono queste le ultime parole che Amleto morente rivolge a Orazio, l’amico carissimo, l’unico sopravvissuto della storia. E questi accoglie la preghiera e ne diventa il testimone. Col procedere del tempo però, com’è normale, il ricordo si sbiadisce e nella mente di Orazio la vicenda si confonde. In una stanza vuota raccontiamo – ma forse è più esatto dire ricordiamo – la vicenda di Amleto, così come la memoria di Orazio ce la rimanda: una sequenza più o meno logica di quadri in cui i volti e le immagini emergono dal buio con la rapidità di un battito di ciglia. La scena è una stanza della memoria, claustrofobica e senza via d’uscita. Le azioni si susseguono al ritmo ossessivo del ricordo, si confondono e si mischiano come avviene nella mente di Orazio, che ci restituisce una storia spezzata, frammentaria, ma colma di umanità. Amleto si inserisce nel filone degli spettacoli shakespeariani della compagnia: Otello, Romeo e Giulietta e Macbeth, allestimenti caratterizzati da messe in scena originali, un linguaggio visivo marcato e quasi cinematografico, ritmo sostenuto, uso drammaturgico delle luci e della musica e spesso mancanza totale di coordinate spazio-temporali concrete e naturalistiche. Un percorso verso la frammentarietà, che qui, con Amleto, raggiunge il suo apice. Per info e biglietti, qui
Teatro Olimpico di Vicenza
“ARIADNE AUF NAXOS”
dal 24 al 27 ottobre
Il “Vicenza Opera Festival” giunge alla sua VII edizione: dopo le inquietanti ambiguità di The Turn of the Screw (Britten) e il lacerante dramma familiare di Pelléas et Mélisande (Debussy), quest’anno con “Ariadne auf Naxos” Iván Fischer abbandona le tinte fosche e propone un’opera leggera e brillante che nacque dalla collaborazione fra Richard Strauss e il librettista Hugo von Hofmannsthal. Fischer ci restituisce una versione inedita, creativa e in qualche modo filologica del capolavoro di Strauss anteponendo alla messa in scena dell’opera la suite orchestrale da “Le bourgeois gentilhomme” che il compositore scrisse nel 1920. Così la Suite torna alla sua originaria dimensione teatrale e la Commedia dell’Arte si innesta sul mito di Arianna con gag e parentesi molto divertenti che coinvolgono anche i musicisti sul palco. Per info e biglietti qui
Teatro Civico di Rho
“MADAMA BUTTERFLY”
25 e il 27 ottobre
Una delle opere più amate di Puccini, in occasione del centenario della morte dell’autore, verrà provata, messa in scena e presentata in prima nazionale al Teatro Civico di Rho grazie ad una importante coproduzione con altri quattro teatri (Teatro Sociale di Mantova, Teatro Splendor di Aosta, Teatro Galli di Rimini ed Ente Musicale Luglio Trapanese) e con International Music&Arts. Nel cast, Daria Masiero come Cho-Cho San e Giuseppe Distefano nel ruolo di Pinkerton; la direzione è affidata al maestro Riccardo Bianchi. Un appuntamento nel segno della Lirica, che assesta un secondo significativo passo del Teatro di Rho in questa direzione, dopo l’opera contemporanea “Il sogno liberato” andata in scena la scorsa primavera. Per info e biglietti qui
MASSIMILIANO PELLETTI – Versus
24 ottobre 2024 – 12 gennaio 2025
A cura di Stéphane Verger
Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, Roma
Il Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo accoglierà, dal 24 ottobre 2024 al 12 gennaio 2025, la mostra dedicata all’artista Massimiliano Pelletti. Il progetto espositivo, intitolato Versus e curato dal direttore del Museo, Stéphane Verger, è un’operazione site-specific che vede le opere inedite di Pelletti entrare in un dialogo serrato con la collezione permanente di scultura antica. Promossa dal Ministero della Cultura, dal Dipartimento per la Valorizzazione Culturale, dai Musei Italiani e con il supporto della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, la mostra è stata realizzata in collaborazione con la Galleria Barbara Paci, che ha partecipato attivamente all’ideazione e all’organizzazione dell’evento, insieme all’artista stesso. La mostra Versus si configura come un confronto tra le opere della collezione museale e le sculture create ex novo da Pelletti, con una riflessione sulla dialettica tra azione e inazione, tra coazione alla produttività e l’atto contemplativo. L’esposizione si fa portavoce di una meditazione sulla natura umana e sul nostro tempo, ponendo l’accento sull’urgenza del fare che caratterizza la contemporaneità e la tensione tra l’azione immediata e la contemplazione più profonda. Massimiliano Pelletti, riprendendo i modelli classici presenti a Palazzo Massimo, li reinterpreta utilizzando materiali naturali insoliti e preziosi, talvolta mai adoperati prima in scultura, così da proporre un contrappunto, una dimensione speculare e contemplativa alle opere classiche. In questo contesto, la collezione del Museo offre una stimolante opportunità di riappropriazione e rielaborazione, che stimola nell’osservatore una potenziale narrazione alternativa. “Con Versus, Massimiliano Pelletti entra nel vivo delle opere della collezione di Palazzo Massimo – afferma il Direttore Stéphane Verger –. Il suo è un progetto di grande innovazione, al quale ho partecipato con entusiasmo e attenzione. Insieme abbiamo dato forma a un dialogo ravvicinato con alcuni dei capolavori del Museo, come l’Afrodite accovacciata, il Dioniso, il Discobolo Lancellotti, e la Testa di Eracle. Sono convinto che il linguaggio del contemporaneo, fatto di ricerca, confronto e innovazione, sia il passepartout ideale per conoscere l’archeologia classica, di cui Palazzo Massimo è lo scrigno per eccellenza.” Federico Mollicone, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, ha dichiarato: “Nelle opere di Pelletti, la mano dell’artista scolpisce pietre antiche, evocando figure mitologiche. Al pari del tempo, le sue sculture si mostrano corrose, come testimoni di un passato remoto che si interseca con il presente. Mettere in dialogo forme classiche e moderne è un’operazione di profonda suggestione e valore culturale, capace di rivelare l’eterno fluire del divenire umano. Complimenti al Museo Nazionale Romano, alla Galleria Barbara Paci e all’artista Pelletti per questo contributo prezioso.” Massimiliano Pelletti, nel delineare la propria visione della mostra, cita Paul Valery: “L’essenza del classicismo è venire dopo. L’ordine presuppone un disordine che esso viene a sistemare.” In questa frase risiede il senso profondo del suo lavoro: il classico non è mera riproduzione del passato, ma risorge in un contesto nuovo, assumendo una nuova vitalità e una dimensione ancora più autentica. Il percorso espositivo si articola lungo una serie di confronti speculari: opere come il Discobolo Lancellotti trovano nel lavoro di Pelletti una figura ribaltata, che suggerisce quiete e contemplazione, contrapponendo l’azione fisica alla riflessione estatica. La Testa di Saffo, reinterpretata dall’artista, utilizza un raro onice nero con inserti di micromosaico che riproducono la costellazione delle Pleiadi, simbolo di un altrove luminoso e onirico. Questi dettagli instaurano un legame con il passato classico, attualizzandolo e facendo emergere nuovi significati. L’approccio dell’artista alla materia è altrettanto significativo: Pelletti utilizza materiali come il quarzo, l’onice, il calcare e altre rocce naturali che presentano venature e imperfezioni, espressione delle trasformazioni geologiche. In questo modo, le opere si possono definire co-autoriali: il dialogo è non solo tra classico e moderno, ma anche tra l’uomo e la natura. La mano dell’artista e quella della Terra si fondono, creando sculture che trascendono il mero oggetto per diventare specchio di un equilibrio esistenziale. L’esposizione Versus è un viaggio tra epoche diverse, accomunate da una medesima aspirazione alla comprensione della condizione umana. Nel cuore del Palazzo Massimo, il visitatore viene invitato a contemplare non solo l’arte, ma anche la natura stessa della storia e della temporalità, con la consapevolezza che è proprio l’inazione, l’otium latino, a dare forma piena all’humanum, a rendere l’atto del fare autenticamente umano. Questa mostra rappresenta un invito a ritrovare il valore del contemplare, del fermarsi a riflettere, in un mondo in cui la velocità del fare spesso sottrae spazio all’essere. Con Versus, Pelletti propone una riconciliazione con il ritmo naturale della creazione artistica, in cui ogni dettaglio, ogni venatura, racconta un processo che è al contempo fisico e spirituale.
Massimiliano Pelletti
Nato nel 1975 a Pietrasanta (Lucca), Massimiliano Pelletti è cresciuto nella bottega del nonno, apprendendo le tecniche di lavorazione del marmo. Diplomatosi al Liceo Artistico di Pietrasanta, ha proseguito gli studi in Filosofia all’Università di Pisa, disciplina che ha profondamente influenzato la sua visione artistica. Dal 2006, anno del suo esordio vincendo la XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, Pelletti ha esposto le sue opere in importanti contesti nazionali e internazionali, inclusa la Biennale di Venezia e altre prestigiose mostre. Le sue sculture, caratterizzate dall’uso innovativo di materiali naturali, sono il frutto di una continua sperimentazione, che guarda al passato classico con spirito contemporaneo, reinterpretando la tradizione con uno sguardo al futuro.