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Aggiornato: 1 ora 57 min fa

Robin Tritschler & Malcolm Martineau: “Song for Peter Pears”

Mer, 12/03/2025 - 09:37

Lennox Berkeley: “The half-moon westers low”, “The street sounds to the soldiers’ tread”, “He would not stay for me”, “Look not in my eyes”, “Because I liked you better” (“Five Housman Songs Op 14, part 3”); “Rachel”; “Full Moon”, “All that’s past”, “The Moth”, “The Fleeting” (“Songs of the Half-Light Op 65”); Benjamin Britten: “Sonet XVI”, “Sonet XXXI”, “Sonet XXX”, “Sonet LV”, “Sonet XXXVIII”, “Sonet XXXII”, “Sonet XXIV” (“Seven Sonnets of Michelangelo Op 22”); Arthur Oldham: “Under the Pondweed”, “The Herd Boy’s Song”, “Fishing”, “The Pedlar of Spells”, “A Gentle Wind” (“Five Chinese Lyrics”); Richard Rodney Bennett: “Tom O’Bedlam’s Song”; Geoffrey Bush: “Aries: the Ram”, “Gemini: the Twins”, “Taurus: the Bull”, “Cancer: the Crab”, “Leo: the Lio”, “Virgo: the Virgin”, “Libra: the Scales”, “Scorpio: the Scorpion”, “Sagittarius: the Archer”, “Capricorn: the Goat”, “Aquarius: the Water-carrier”, “Pisces: the Fish” (“Songs of the Zodiac”). Robin Tritschler (tenore), Malcolm Martineau (pianoforte), Philip Higham (violoncello), Sean Shibe (chitarra). Registrazioni: 24-26 settembre 2021, Wyastone Estate, Wyastone Leys, Monmouth e 31 ottobre 2021, St Augustine’s Church, Kilburn Park Road, London. 1 CD SIGNUM CLASSICS SIGCD774
Peter Pears è uno di simboli della rinascita musicale britannica del Novecento. Il suo sodalizio – umano e artistico – con Benjamin Britten ha avuto un ruolo centrale nel riportare l’Inghilterra al centro della vita musicale europea dopo oltre un secolo di sostanziale irrilevanza. Non sorprendi quindi che il suo ricordo sia ancora vivo e che resti un modello per tanti giovani artisti d’oltremanica come Robin Tritschler protagonista di questa nuova registrazione Signum Classics dedicata a una raccolta di arie da camera e da concerto scritte per Peter Pears – o in suo onore – da diversi musicisti britannici. Si tratta di una sfida non trascurabile esistendo di questi brani le registrazioni originarie di Pears, spesso con l’insuperabile accompagnamento pianistico di Britten, ma da cui il giovane tenore irlandese esce con grande onore. La voce di Tritschler è più classica di quella di Pears il cui materiale vocale era alquanto particolare come timbro e colore. Qui abbiamo invece una bella voce di tenore lirico dal timbro luminoso e dal canto fresco e spontaneo ma ovviamente dove il confronto si fa impervio e sul terreno dell’accento e dell’interpretazione dove nonostante l’innegabile cura Tritschler non ha – è neppure può avere considerando la giovane età – quelle qualità interpretative in cui Pears emergeva al sommo grado.
La parte pianistica è una sfida altrettanto importante dovendosi confrontare direttamente con Britten e per affrontarla si è chiamato uno dei massimi pianisti accompagnatori dei nostri tempi Malcolm Martineau che se non può risultare vincitore al confronto con il maestro ne esce comunque con grande onore. Completano il gruppo degli esecutori strumentali Philip Higham al violoncello e Sean Shibe alla chitarra.
Il primo ciclo proposto sono i “Five Houseman Song parte 3” composti da Lennox Berkeley nel 1940. Sono la composizione più datata tra quelle proposte, precedente all’affermarsi di Britten e frutto di un momento in cui la musica inglese ancora cercava una sua via. Berkeley era di formazione francese – allievo della Boulanger e amico di Ravel – e questo compare pienamente negli accompagnamenti acquatici di gusto ancora impressionista che caratterizzano la sua scrittura pianistica mentre la linea vocale ha forse caratteri più moderni. Notiamo qui i tratti migliori dell’esecuzione di Tritschler che alla piacevolezza vocale unisce una dizione perfettamente nitida e un’impeccabile senso musicale. Sempre di Berkeley merita una nota il successivo ciclo “Songs of the Half-Light” per canto e chitarra composto per Bears e Julian Bream che si ricollega alla tradizione delle canzoni inglesi per liuto.

Unica composizione di Britten sono i “Sette sonetti di Michelangelo” cantati con impeccabile senso stilistico e giusto slancio espressivo ma un po’ carenti sul piano della pronuncia italiana su ancora il tenore dovrebbe lavorare.
Arthur Oldham ebbe un rapporto complesso con Britten passato da una stretta collaborazione – di fatto fu l’unico allievo diretto di Britten – a violenti contrasti durante le collaborazioni al Festival di Edimburgo. “Five Chinese Lyrics” composti nel 1945 risalgono al periodo della formazione e risentono molto dello stile di Britten anche se la linea è più piana e diretta. Il brano più lungo del programma è “Tom O’Bedlam’s Song” di Rodney Bennett su un’anonima ballata degli inizi del XVII secolo rimasta molto popolare in Inghilterra. Si tratta di una composizione ampia dal taglio decisamente teatrale e dalla scrittura musicale particolarmente ricca – qui è centrale la parte del violoncello eseguita splendidamente da Higham. Tritschler può qui far valere una maturità interpretativa non trascurabile che riesce a dare la giusta tinta espressiva al canto eroico e sublime di questo folle sognatore. La scrittura musicale nel suo taglio teatrale si avvicina allo stile stravinskiano della “The Rake’s progress” cui si accomuna in parte anche per la tematica.Mai eseguita da Pears ma a lui dedicata è l’ultima composizione del ciclo, i dodici “Songs of the Zodiac” composti nel 1990 da Geoffrey Bush su testi del surrealista David Gascoyne. Il ciclo dedicato alla memoria di Pears – scomparso nel 1986 – fu eseguito per la prima volta da Anthony Rolfe-Johnson. Si tratta di piccoli schizzi musicali capaci però di cogliere nella loro brevità il carattere delle figure simboliche dei segni zodiacali. Il linguaggio musicale è nel complesso tonale e testimonia la sopravvivenza in ambito britannico di un legame diretto con il pubblico che nell’Europa continentale le avanguardie avevano in gran parte reciso. Il disco è l’occasione per conoscere un repertorio forse non così vicino alla sensibilità italiana ma che merita un piccolo sforzo di avvicinamento e per conoscere un giovane tenore dotato di qualità che lasciano presagire interessanti sviluppi per il futuro.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “La signora omicidi”

Mar, 11/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
LA SIGNORA OMICIDI
di William Arthur Rose
adattamento Mario Scaletta
con Giuseppe Pambieri, Paola Quattrini, Mario Scaletta, Roberto D’Alessandro, Marco Todisco
scene Fabiana Di Marco
costumi Graziella Pera
regia GUGLIELMO FERRO
cast Produzioni Teatro della Città

Roma, 11 marzo 2025
Se pensavate che le vecchiette affittacamere fossero solo dolci nonnine dedite alla maglia e alle confetture fatte in casa, ripensateci. “La Signora Omicidi”, in scena al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma, smonta il cliché con una buona dose di humour britannico e un cast che si muove tra il giallo e la commedia con una leggerezza magistrale. L’adattamento teatrale firmato da Mario Scaletta prende spunto dal celebre film del 1955 di Alexander Mackendrick e dal successivo remake dei fratelli Coen del 2004, riportando in scena quella miscela irresistibile di crimine, malintesi e humor nero che ha reso immortale la storia. Sul palco, due giganti della recitazione italiana, Giuseppe Pambieri e Paola Quattrini, accompagnati da un cast d’eccezione, tengono il pubblico incollato alla poltrona tra risate e colpi di scena. La loro sintonia sul palco è palpabile, con una capacità interpretativa che arricchisce di sfumature ogni battuta e ogni scambio di sguardi. La vicenda si sviluppa nella Londra anni Cinquanta, con la svampita e arzilla Louise Wilberforce (Paola Quattrini), che accoglie nella sua casa un distinto professor Marcus (Giuseppe Pambieri), presunto musicista. Peccato che l’uomo non abbia nulla a che fare con la musica, se non con quella di sottofondo perfetta per coprire le attività criminose sue e della sua banda di maldestri malviventi. Il piano è semplice: organizzare una rapina perfetta con la vecchietta ignara di tutto. O almeno, così sembra. Perché la nostra Louise, tra un pasticcino e un sorso di tè, si rivelerà più letale di un’intera squadra di detective di Scotland Yard. Il gioco di inganni e contromosse si dipana con sapiente maestria, rendendo ogni scena imprevedibile e coinvolgente. Il ritmo dello spettacolo è impeccabile: il primo atto gioca sulle sfumature della commedia d’equivoci, sfruttando il contrasto tra l’apparente ingenuità della protagonista e l’astuzia goffa dei malviventi. Gli spettatori si trovano immersi in un’atmosfera che ricorda le migliori produzioni della commedia inglese, dove la leggerezza nasconde una costruzione narrativa meticolosa. Nel secondo atto, invece, si lascia spazio a una tensione crescente, con un finale che, tra pathos e colpi di scena, strappa applausi convinti alla platea. La regia di Guglielmo Ferro riesce a valorizzare ogni dettaglio della narrazione, bilanciando con precisione la suspense e la comicità tipica dell’umorismo britannico. Pambieri modella il suo Marcus con ironia e spietata eleganza, delineando un personaggio subdolo ma affascinante, capace di dominare la scena con un semplice sguardo. Quattrini, dal canto suo, è perfettamente a suo agio nei panni della dolce (ma non troppo) signora Wilberforce, sfoderando una gamma di espressioni e trovate comiche che la rendono irresistibile. Il resto del cast, affiatato e spassoso, amplifica il gioco di contrasti tra i personaggi, mantenendo alta la tensione e l’ilarità. Gli attori che interpretano la banda di malviventi si distinguono per la caratterizzazione brillante di ogni singolo ruolo: ciascuno di loro incarna una diversa sfumatura della goffaggine criminale, dando vita a gag irresistibili. Le scene, curate nei minimi dettagli da Fabiana Di Marco, e i costumi di Graziella Pera si inseriscono perfettamente nella narrazione senza bisogno di stravolgimenti moderni. L’impianto scenografico è tradizionale e fedele all’epoca, senza ricercare innovazioni particolari, ma dimostrando che anche il classico ha un suo senso magico. La casa della signora Wilberforce diventa il fulcro dell’azione: un salotto dall’arredamento rétro, con tonalità pastello e suppellettili d’epoca, che si trasforma progressivamente da accogliente dimora a teatro del delitto perfetto… o quasi. Sullo sfondo, la ferrovia incombe, evocata con giochi di luci e suoni che contribuiscono alla tensione narrativa. Ogni elemento scenico è studiato per arricchire il contesto senza mai appesantire lo svolgimento dell’azione. I costumi di Graziella Pera sono in perfetta linea con l’ambientazione e rafforzano l’identità dei personaggi senza bisogno di stravolgimenti moderni. Anche qui, nessuna innovazione superflua: il fascino del classico sta nella sua capacità di evocare un’epoca e un’atmosfera senza forzature. La signora Wilberforce, con i suoi abiti dall’aria antiquata e le sue acconciature impeccabili, è la quintessenza della rispettabilità britannica, mentre i malviventi indossano abiti che tradiscono il loro desiderio di mimetizzarsi senza riuscirci del tutto. L’uso delle luci contribuisce a creare momenti di grande effetto scenico: le ombre allungate sui muri, i contrasti netti tra le scene illuminate con calore domestico e quelle dominate da tinte fredde rafforzano la contrapposizione tra il mondo apparentemente sicuro della protagonista e quello oscuro dei criminali. La regia sfrutta sapientemente questi elementi per guidare lo spettatore attraverso i cambi di tono dello spettacolo, senza mai perdere il ritmo né spezzare l’illusione teatrale. Il risultato? Uno spettacolo brillante, che dimostra come il noir e la commedia, se ben dosati, possano coesistere alla perfezione, regalando al pubblico due ore di godibilissimo intrattenimento. Il pubblico ride, si sorprende e, alla fine, si alza in piedi per applaudire un cast che ha saputo far rivivere una storia senza tempo con intelligenza e freschezza. In fondo, si sa: nel teatro e nella vita, spesso sono i più insospettabili a rivelarsi i veri maestri del crimine.

 

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: “Rigoletto”

Mar, 11/03/2025 - 23:14

Torino, Teatro Regio,  Stagione d’opera e balletto 2024-2025
“RIGOLETTO”
Dramma per musica in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Rigoletto GEORGE PETEAN
Gilda GIULIANA GIANFALDONI
Il Duca di Mantova PIERO PRETTI
Sparafucile GODERZDI JANELIDZE
Maddalena MARTINA BELLI
Giovanna CARLOTTA VICHI
Il Conte di Monterone EMANUELE CORDARO
Marullo JANUSZ NOSEK
Matteo Borsa DANIEL UMBELINO
Il Conte di Ceprano TYLER ZIMMERMAN
La Contessa di Ceprano ALBINA TONKHIKH
Il Paggio della Duchessa CHIARA MARIA FIORANI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymomino
Luci Alessandro Verazzi
Torino,  9 marzo 2025
Un “Rigoletto” bifronte quello in scena al Regio di Torino che unisce una parte musicale più che convincente a un allestimento che suscita non poche perplessità.
La nuova regia di Leo Muscato non riesce, infatti, a convincere nonostante alcune intuizioni apprezzabili. L’attualizzazione a un primo novecento decadente e dannunziano non guasta. “Rigoletto” è – sotto una superficiale vernice rinascimentale – dramma prettamente borghese, rappresentazione di un moralismo ottocentesco portato al parossismo. Le atmosfere tra Huysmans e la proustiana Côté de Guermantes non mancano di fascino. L’impianto scenico è essenziale con blocchi cupi e opprimenti che trasmettono il senso della tragedia e su cui le luci creano effetti suggestivi. Il lavoro sugli attori è curato e preciso. Tuto sembrerebbe funziona ma appunto sembrerebbe. A mancare è una maggior coerenza drammaturgica. Il regista sembra ossessionato dall’idea di riempire la scena di personaggi e movimenti che alla fine tendono solo a disturbare e in più punti ci troviamo di fronte a soluzioni non solo fini a se stesse ma stridenti con la logica drammatica. La casa di Rigoletto è sostituita da un collegio in cui Gilda viene ospitata e se il duetto d’amore si sposta nella cappella tra ceri e statue mariane virando pericolosamente verso la scena di Margherita in chiesa è la scena del rapimento in una camerata di educande a perdere qualunque credibilità. Ugualmente succede nel III atto con il tugurio di Sparafucile trasformato in una via di mezzo tra una casa di tolleranza e una fumeria d’oppio con un continuo via vai di figuranti che lo rende il luogo ben poco adatto per un delitto da tenere celato. Trovate fini a se stesse, forse un’eccessiva voglia di stupire che guastano un lavoro che invece – quando si concentra sui personaggi e le loro psicologie – risulta assai ben fatto, abbiamo apprezzato l’idea di vedere Monterone come uno spettro evocato dalle ossessioni di Rigoletto. La direzione di Nicola Luisotti è – al netto di qualche eccesso fonico – di grande potenza teatrale. Una visione cupa e drammatica fatta di colori oscuri e di violente sferzate di luce dove a dominare sono contrasti netti e fortemente marcati. In questa corniche così ferrigna la morbidezza dei momenti più lirici trova ancora maggior risalto. La versione eseguita è sostanzialmente tradizionale, vengono riaperti i da capo delle cabalette ma restano tutte le puntature di tradizione. Molto buona la prova dell’orchestra del Regio e ancor più quella del coro che non solo canta splendidamente ma si muove e recita con maestria attoriale. George Petean è un Rigoletto per certi aspetti sorprendente. La voce è ricca e sonora, facilissima nell’emissione e molto presente in sala ma certo il timbro è piuttosto chiaro venendo così a mancare quella brunitura che ci si aspetterebbe nel ruolo. Lavora però con grande intelligenza sul proprio materiale vocale, non forza e trova una cifra espressiva assai convincente. Un Rigoletto essenziale, introverso, come avvolto nelle spire delle proprie ossessioni, capace di evitare cadute plateali – gli si perdano la puntatura della Vendetta – per concentrarsi su una musicalità raffinata e su una grande attenzione per la parola, aiutato da una dizione perfetta ancor più apprezzabile per un non italiano. Giuliana Gianfaldoni trova in Gilda un personaggio particolarmente congeniale. La virginale luminosità timbrica e un canto liliale si adattano perfettamente al personaggio cui non guasta anche una sensibilità interpretativa che ci è parsa più in sintonia rispetto ad altri ruoli più estroversi. La voce è piacevole e tolta una certa tendenza a velarsi nel settore medio grave acquisisce corpo e presenza salendo in acuto dove svetta con ammirevole sicurezza. Le mezzevoci, il controllo del fiato sono le sue armi migliori è il personaggio è perfetto per esaltarle. Piero Pretti è uno dei Duca di Mantova più apprezzati dei nostri tempi. La voce da autentico tenore lirico bella e luminosa, gli acuti facili e sicuri, un’innegabile comunicativa sono ideali per il ruolo cui si unisce ormai una lunga frequentazione che gli permetti di conoscere ogni cifra del personaggio. Manca sempre – bisogna riconoscere – quel quid in più che separa l’ottimo professionista dal fuoriclasse. Questo si nota soprattutto nei momenti più lirici – “Parmi veder le lagrime” in primis – dove la voce pur bella manca di quell’incanto che altri interpreti hanno saputo dare alla pagina e dove anche un gioco di colori più ricco e sfumato non avrebbe guastato. Nel complesso resta una prestazione più che convincente.
Ottimo lo Sparafucile di Goderdzi Janelidze, basso georgiano dalla voce profondo e brunita, potente e ricca di suono anche negli estremi gravi. Ottimo il gioco di contrasti con la voce di Petean nel duetto del I atto e qualche durezza non guasta nel personaggio. Martina Belli è una Maddalena dalla voce scura e profonda che si uniscono a un fraseggio ricco e sempre pertinente, capace di dare al personaggio particolare spessore. L’innegabile presenza scenica ben si addice al ruolo di oscura seduttrice. Le numerose parti di fianco – molte proveniente dall’Ensamble stabile del Regio – hanno offerto prova decisamente convincente contribuendo a quella coralità che circonda ed evidenzia la solitudine del protagonista. Una piccola nota per Carlotta Vichi (Giovanna) giunta a sostituire all’ultimo l’indisposta Siphokazi Molteno. Sala gremita come non si vedeva da tempo e caloroso successo per tutti gli interpreti. Foto Mattia Gaido, Daniele Ratti © Teatro Regio Torino

Categorie: Musica corale

Pistoia, Teatro Manzoni: Jordi Savall e Les Musiciennes Du Concert Des Nations

Mar, 11/03/2025 - 00:46

Pistoia, Teatro Manzoni – Concertistica al Manzoni 2024/25
“L’orchestra dell’Ospedale della Pietà”
Les Musiciennes du Concert des Nations
Direttore Jordi Savall
Primo violino Alfia Bakieva
Voce recitante Olivia Manescalchi
Antonio Vivaldi: Il Proteo, o sia Il mondo al rovescio – Concerto per violino, violoncello, archi e basso continuo in fa maggiore RV 544; Concerto per due violini, violoncello, archi e basso continuo in re minore RV 565; Concerto per quattro violini, violoncello, archi e basso continuo in si minore – RV 580; Le Quattro Stagioni – Concerti per violino, archi e basso continuo op. 8 n. 1-4
Pistoia, 7 marzo 2025
Il concerto di venerdì scorso, inserito nella 20esima stagione concertistica al Teatro Manzoni, alla vigilia dell’8 marzo e vista la presenza di un’orchestra femminile, ha presentato particolari caratteristiche. Protagoniste della serata «Les Musiciennes du concert des Nations» le quali [secondo la dichiarazione del direttore Jordi Savall] «si ispirano all’orchestra dell’Ospedale della Pietà ai tempi di Vivaldi». In sostanza non il classico concerto monografico ma un autentico progetto: «sotto la mia guida e quella di Alfia Bakieva, lavoreremo per condurre l’ensemble lungo i sentieri dell’eccellenza, della scoperta e della condivisione».
Il musicista catalano lo definisce “Ospedale musicale del XXI secolo” in cui «accogliere le migliori musiciste [da tutto il mondo] che suonano strumenti d’epoca […] con l’obiettivo di dare vita a un nuovo spazio esclusivamente femminile di incontro musicale, ricerca, studio […] dal periodo pre-vivaldiano ai primi anni del Romanticismo». Venendo alla serata: la maggior parte del pubblico, dopo essere stato ‘colpito’ da un bel colpo d’occhio, ha apprezzato la bellezza del programma, mentre ai più attenti non è sfuggita l’intenzione del direttore e delle musiciste di proiettarsi verso un’interpretazione scevra di clichés tradizionali. Già l’inizio con Il Proteo, o sia Il mondo al rovescio ha messo in evidenza la raffinatezza della scrittura contrappuntistica in cui il virtuosismo (inteso nella sua accezione etimologica) della Bakieva riusciva a coinvolgere l’ensemble in una relazione dialogica, mentre con la violoncellista Bianca Riesner il rapporto si orientava verso un’imitazione più elettrizzante. La direzione di Savall, in tutto il programma, ha mostrato una lettura esegetica delle partiture, pur con qualche ‘concessione’ all’orchestra nel suonare più cameristicamente, valorizzando ogni singola musicista.
Con i due concerti successivi, tratti dalla raccolta L’Estro armonico op. III, come si può intuire dal titolo, occorreva predisporsi a quella dialettica ed equilibrio tra creatività (‘estro’) e razionalità della dottrina compositiva armonica (‘armonico’). Sia nel Concerto in re minore RV 565 che in quello per quattro violini in si minore RV 580, si è potuta apprezzare ancora di più la straordinaria scrittura vivaldiana e le avvincenti idee della concertazione di Savall rinvigorendo le due partiture ed arrivando all’ascolto di dettagli come il rapporto imitativo tra le soliste, il bel fraseggio, il controllato equilibrio nelle entrate del fugato come nel secondo movimento (RV 565), le reiterate progressioni armoniche, il buon equilibrio delle voci e quant’altro, con estrema chiarezza e varietà di colori. Si segnala inoltre l’interessante scelta, per le sfumature timbriche, della realizzazione del continuo affidata ad Albane Imbs (Tiorba e Chitarrone) come la solidità di tutto il gruppo strumentale coinvolto in questa operazione, a parte il pochissimo suono del clavicembalo, probabilmente per la posizione troppo indietreggiata che, soprattutto in alcune sezioni, poteva contribuire a chiarire ulteriormente i fraseggi e le godibili armonie.
La seconda parte ha presentato i celeberrimi Concerti per violino, archi e basso continuo tratti da Il cimento dell’armonia e dell’inventione, op. 8, più conosciuti come Le Quattro Stagioni. Musica a programma, descrittiva, con una insolita declamazione dei Sonetti attraverso la duttile voce di Olivia Manescalchi durante l’esecuzione dell’opera, scelta che ha fatto storcere qualche naso tra i presenti. In sostanza è sembrato si volesse esplicitare quanto è già insito ed esplicitato nella partitura con il risultato, a tratti e probabilmente per ragioni acustiche, di una percezione del testo o di alcune nuances strumentali alquanto flebili. Entrando più nel dettaglio dell’esecuzione è emerso il virtuosismo della Bakieva congiuntamente ad una buona duttilità dell’orchestra che, grazie all’accuratezza di Savall, ha saputo garantire il giusto equilibrio con la solista. La musicista di origine tartara esprime una natura musicale talmente spiccata da renderla una versatile ed intelligente interprete, pertanto può essere sicuramente collocata accanto ai grandi violinisti della sua generazione. Ma se è vero che i simili attirano i simili (similia similibus) abbiamo assistito, da parte di tutte le musiciste, alla condivisione degli stessi intenti ove la ‘maraviglia’ era la condizione necessaria per ottenere successo. Se gli occhi hanno percepito il sorriso, la bella complicità dell’orchestra che vanta la presenza di una baldanzosa gioventù («donne di meno di 39 anni») il risultato complessivo è stato quello di aver percepito un’altra lettura vivaldiana certamente mutevole e destinata a far parlare di sé.
Il coraggio e la fulgida interpretazione dell’orchestra, nell’affrontare un programma che richiedeva una profonda conoscenza degli stilemi della musica barocca italiana e vivaldiana più nello specifico, unitamente al carisma e grande esperienza musicale di Savall, attraverso questo progetto, lasciano presagire un’altra ‘primavera’ nel far riconoscere la bellezza della musica del prete rosso collocandosi sulla scia di Bach nel trascrivere gli stessi Concerti (RV 565 per organo; RV580 per 4 clavicembali e archi) ed allontanando così il fuorviante giudizio di Stravinskij «On a beaucoup trop loué Vivaldi il est assommant et pouvait recomposer six cents fois le même concerto», ricordato anche dal maestro catalano come “ una certa critica”. La serata si è conclusa con reiterate ovazioni da parte del numerosissimo pubblico per il direttore e l’ensemble decretandone un meritato successo e regalando ai presenti un fuori programma con l’Andante del Concerto per violino, archi in si bemolle, RV583: un autentico gioiello che, attraverso il ‘canto’ della solista e nell’aver resa ‘libera’, da parte di Savall, l’orchestra, era ancora possibile godere dello stupore prodotto da questa radiosa compagine musicale che, nel tempo, impareremo ad amare. Foto Stefano Poggialini

Categorie: Musica corale

Ostia Antica, Parco Archeologico: “Il mikveh dimenticato”. Una scoperta straordinaria per la storia della diaspora ebraica

Lun, 10/03/2025 - 19:24

Ostia Antica, Parco Archeologico
IL MIKVEH DIMENTICATO
Una scoperta di straordinaria importanza archeologica è avvenuta nell’estate del 2024 a Ostia Antica, antica città portuale di Roma. Durante gli scavi condotti nell’ambito del progetto OPS – Ostia Post Scriptum, è stato individuato un mikveh, un bagno rituale ebraico, databile all’età imperiale e frequentato fino al tardo antico. Si tratta del primo ritrovamento di questo genere nella diaspora ebraica occidentale, fuori dai territori tradizionali di Israele, Giudea e Galilea, e offre una testimonianza fondamentale sulla presenza ebraica nella città di Ostia. Il mikveh, nella tradizione giudaica, è una vasca destinata alla purificazione rituale. La legge religiosa ebraica (Halakhah) stabilisce che deve contenere acque “vive”, ossia non trasportate, ma provenienti direttamente da sorgenti naturali o raccolte dalla pioggia, e deve permettere l’immersione completa del corpo. L’immersione ha valore spirituale e simbolico, sancendo il ritorno a uno stato di purezza, e costituisce un aspetto centrale della pratica religiosa ebraica, associato a diversi ambiti della vita quotidiana, da quello personale e familiare fino alle pratiche collettive. La scoperta è avvenuta all’interno di un importante edificio posto nella cosiddetta “Area A” di Ostia Antica, un settore strategico della città mai indagato sistematicamente prima di oggi. L’area si trova nel cuore dell’antico impianto urbano, tra i Grandi Horrea, il Piazzale delle Corporazioni e il Mitreo delle Sette Sfere. Nonostante la sua centralità e la vicinanza ad alcuni degli edifici più significativi della colonia romana, fino al progetto OPS non era stata oggetto di scavi sistematici. Il progetto OPS – Ostia Post Scriptum è nato nel 2022, grazie a una collaborazione tra il Parco Archeologico di Ostia Antica, l’Università degli Studi di Catania e il Politecnico di Bari. Dopo decenni, il Parco ha ripreso in prima persona l’iniziativa di indagini archeologiche, con l’obiettivo di approfondire la conoscenza della città, restituire continuità ai percorsi di visita e promuovere una riflessione condivisa attraverso azioni di public archaeology. L’area A è stata individuata come zona prioritaria per la sua importanza topografica e per l’integrità dei depositi stratigrafici, mai manomessi in epoca moderna. Durante gli scavi, è emerso un grande edificio dotato di sontuose pavimentazioni a mosaico in tessere bianche e nere e di una complessa articolazione di ambienti. All’interno di questo complesso è stato scoperto un vano semi-ipogeo che ha subito attirato l’attenzione degli archeologi per le sue particolarità strutturali. Si tratta di un piccolo ambiente rettangolare, chiuso sul lato est da un’abside semicircolare e caratterizzato da diverse fasi edilizie. L’ultima fase, databile tra il IV e il VI secolo d.C., mostra un accesso dal lato occidentale tramite una soglia in marmo, oltre la quale si apre una scala composta da tre gradini. Le spallette laterali e le pareti interne sono rivestite da un intonaco idraulico di ottima qualità, segno evidente della necessità di rendere l’ambiente impermeabile. Al termine della scala si trova un pavimento realizzato in mattoni bipedali, posto a circa un metro di profondità rispetto al livello di ingresso. Un incasso continua lungo il pavimento e sulle pareti laterali, forse destinato a ospitare una transenna lignea che chiudeva parzialmente l’ambiente. Un altro elemento fondamentale è la presenza di un pozzo circolare, costruito in cementizio e coronato da una ghiera in mattoni, destinato a captare l’acqua di falda. Il pozzo si restringe a una profondità di circa un metro, con una risega utile a posizionare una griglia o una copertura mobile. Vi è anche un foro nella muratura, probabilmente collegato a un sistema di adduzione d’acqua piovana, utile a integrare quella di falda. La nicchia presente sull’abside, decorata con conchiglie e intonaco azzurro, potrebbe aver avuto una funzione devozionale. Lo scavo dell’ambiente e del pozzo ha restituito reperti che confermano inequivocabilmente la natura ebraica del sito. Tra questi, due lucerne decorate con una menorah (il candelabro a sette bracci), una delle quali raffigurante anche un lulav, simbolo delle feste di Sukkot, e un bicchiere in vetro praticamente integro. I reperti sono databili tra il IV e il VI secolo d.C. Le caratteristiche dell’ambiente, la sua configurazione e i reperti recuperati permettono di identificarlo con sicurezza come un mikveh. I mikva’ot conosciuti nell’area della Palestina romana e bizantina risalgono già all’età asmonea (II-I secolo a.C.) e sono diffusi soprattutto in Giudea, Galilea e Idumea. Tuttavia, esempi al di fuori della Terra d’Israele sono rarissimi per l’età romana e tardo-antica. Il mikveh di Ostia rappresenta quindi il primo rinvenimento documentato di questo tipo nella diaspora occidentale. La sua scoperta contribuisce in modo decisivo alla comprensione della presenza ebraica a Ostia, già nota grazie alla sinagoga individuata nel 1961 lungo la via Severiana, considerata la più antica del Mediterraneo occidentale. Ora, il mikveh completa un quadro che dimostra la vitalità e l’organizzazione della comunità ebraica nella colonia portuale di Roma. Non si trattava solo di un insediamento commerciale, ma di una comunità capace di conservare le proprie tradizioni religiose e rituali in un contesto cosmopolita. Dal punto di vista metodologico, l’indagine si è avvalsa di un approccio rigoroso e interdisciplinare. Il supporto dell’Associazione Archeologia Subacquea Speleologia Organizzazione (A.S.S.O.) è stato fondamentale per l’esplorazione del pozzo, mentre le analisi archeometriche hanno permesso di chiarire la cronologia delle fasi edilizie e dei reperti. Il mikveh di Ostia Antica è un ritrovamento che amplia la nostra conoscenza della diaspora ebraica nell’Impero romano. Testimonia una comunità radicata, osservante, che ha mantenuto un legame forte con le proprie tradizioni pur vivendo lontano dalla Terra d’Israele. In un porto come Ostia, crocevia di popoli, lingue e religioni, questa presenza si innesta perfettamente nel mosaico culturale che caratterizzava la città. Questa scoperta, frutto di una rinnovata attività di ricerca del Parco Archeologico di Ostia Antica e dei suoi partner scientifici, rappresenta un tassello prezioso nella ricostruzione della storia religiosa e sociale della Roma imperiale. Un mikveh rimasto silente per secoli, che oggi torna a parlare e a raccontare la storia di una fede e di una comunità. Photocredit Ministero della Cutura

Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Filarmonico: l’Elektra di Strauss in scena dal 16 al 23 marzo 2025

Lun, 10/03/2025 - 18:35

Domenica 16 marzo alle 15.30 l’opera  di Strauss va in scena al Teatro Filarmonico -l’unico precedente nei 50 anni di storia di Fondazione Arena risale al 2003-, in un allestimento tutto nuovo firmato dal giovane regista Yamal das Irmich e con la direzione del maestro Michael Balke, alla guida dell’ Orchestra areniana.  Per l’occasione, per la prima volta in Italia, si utilizzerà la nuovissima versione orchestrale di Richard Dünser (edita in Italia da Ricordi), che adatta lo smisurato organico straussiano (il quale richiederebbe un’orchestra di oltre 120 elementi) alle forze e all’acustica di un teatro d’opera oggi, quale è il Filarmonico, rendendo giustizia ed equilibrio sonoro alle trasparenze e alle elaborazioni tematiche originali di Strauss, altrimenti perdute nella semplice riduzione d’organico. Il cast vocale vedrà la presenza di Lise Lindstrom, quale Elektra  Anna Maria Chiuri che vestirà i panni di Clitennestra. Crisotemi  è affidata a Soula Parassidis,  il baritono Thomas Tatzl  quale  Oreste e il tenore Peter Tantsits quale Egisto. Nicolò Donini (Precettore), Anna Cimmarrusti (Confidente), Veronica Marini (Caudataria), Leonardo Cortellazzi e Stefano Rinaldi Miliani (Servi), Raffaela Lintl (Sorvegliante), Lucia Cervoni, Marzia Marzo, Anna Werle, Francesca Maionchi e Manuela Cucuccio (Ancelle) completano l’ampio cast dell’opera. Fuori scena ascolteremo le voci del Coro di Fondazione Arena di Verona diretto da Roberto Gabbiani.
Repliche mercoledì 19 marzo alle 19, venerdì 21 alle 20, domenica 23 alle 15.30. 

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Milano, Teatro alla Scala: “Evgenij Onegin”

Lun, 10/03/2025 - 00:23

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera e Balletto 2024/25
“EVGENIJ ONEGIN”
Dramma lirico in tre atti e sette quadri su Libretto di Pëtr Il’ic Cajkovskij e Konstantin Shilowski, tratto dal poema di Aleksandr Sergeevič Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Larina ALISA KOLOSOVA
Tat’jana AIDA GARIFULLINA
Olga ELMINA HASAN
Filipp’evna JULIA GERTSEVA
Evgenij Onegin ALEXEY MARKOV
Lenskij DMITRY KORCHAK
Gremin DMITRY ULYANOV
Capitano HUANHONG LI
Zareckij OLEG BUDARATSKIY
Triquet YAROSLAV ABAIMOV
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Timur Zangiev
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Coreografia Daniela Schiavone
Video Alessandro Papa
Nuova produzione del Teatro alla Scala
Milano, 05 marzo 2025
La nuova produzione dell’“Evgenij Onegin” scaligero può ben fregiarsi di un cast di livello altissimo, accuratamente selezionato tra i migliori interpreti di lingua russa in circolazione. Alexey Markov è un Onegin dalla vocalità sontuosa, forse solo un po’ povero di fraseggio nei primi atti, ma che nel terzo sfodera slanci appassionati e un’intensa recitazione; gli fa da contraltare il Lenskij di Dmitry Korchak, voce forse un po’ “leggera” per il ruolo, ma superbo fraseggiatore, ricco di accenti patetici e dalla dizione singolarmente limpida (la sua aria del secondo atto è magistrale, e il teatro non può esimersi dal riconoscerlo con generosissimi applausi, che invece non riserva alla maggior parte della recita); conclude il terzetto di eccellenza maschile Dmitry Ulyanov, Gremin di ragguardevole dolcezza, così distante dallo stereotipo tutto polmoni che abbiamo dei bassi russi: la sua romanza è un altro momento apprezzatissimo dal pubblico. Accanto a loro quattro ottime interpreti incarnano le donne della famiglia Larin: Alisa Kolosova è una convincente Larina, matronale e ingenua al punto giusto, la voce tonda, piacevolmente scura, si fa riconoscere; la Tat’jana di Aida Garifullina è semplicemente un angelo, di bellezza e grazia rare, sul piano vocale sfoggia colori bellissimi e la pienezza di armonici ma che non compensano del tutto la mancanza di un reale corpo vocale per questo ruolo e arriva al duetto finale dell’opera con un certo senso di affanno, pur mantenendo perfettamente il focus sul personaggio; che dire di Elmina Hasan, la recente scoperta di Operalia, bella voce contraltile profonda e suadente come sembra che solo oltre la Volga possano nascere? Nel ruolo di Olga è bellissima e altera, e certamente l’interprete azera sarà una delle superstar di un molto prossimo domani; infine, dolcissima njanja Filipp’evna è Julia Gertseva, solido mezzosoprano in grado di cesellare con attenzione la sua parte, mantenendosi su una linea di canto sapientemente omogenea. Tutti ben a fuoco anche i ruoli di lato, tra cui spicca naturalmente Yaroslav Abaimov nel ruolo del poeta francese Triquet, contraddistinto da una voce tenorile di grazia dai morbidi accenti giustamente manierati (visto il personaggio). Anche il direttore Timur Zangiev, sorprendentemente giovane, ci regala una concertazione di grande coesione, tutta al servizio della scena e del canto, ma capace di ritagliarsi momenti di significativo nitore, come l’ouverture o la celebre polonaise dell’atto terzo. Gli unici dubbi che abbiamo sull’effettiva riuscita di questo “Onegin” riguardano l’apparato creativo; in questa produzione, infatti, assistiamo a un singolare paradosso, ossia quello di una regia (a cura Mario Martone) molto ben riuscita nella costruzione delle dinamiche tra personaggi e nella gestione del coro, ma decisamente opinabile circa la messa in scena, che trasferisce la vicenda in una generica contemporaneità, cui evidentemente manca bellezza, un minimo di allure, per lasciare invece spazio a roghi di libri, case che crollano, costumi da provincia degradata – a parte per il breve terzo atto, dove però l’opulenza che dovrebbe contraddistinguere casa Gremin si riduce a qualche abito da sera e due o tre sofà Luigi XV. Inoltre il voler ricreare unicamente la camera di Tat’jana in mezzo alla natura, ottiene un poco gradevole “effetto gabbiotto” nel cuore, peraltro, di una campagna raffazzonata e sbrigativa, con il cielo solo sulla parete di fondo e le quinte nere a vista (per dire solo di un elemento che ci è parso stonato). Dispiace per Margherita Palli e Ursula Patzak, brave artiste che ci hanno abituati a ben altre grandiose messe in scena; in compenso le luci di Pasquale Mari ci sono sembrate davvero azzeccate, con il culmine al terzo atto, quando la festa di casa Gremin viene proiettata su un sipario di tulle rosso, ottenendo un effetto stranito e sovrapposto che ci ha ricordato l’apertura di “Mulholland Drive” di Lynch. Un plauso anche alle coreografie di Daniela Schiavone, semplici ma di grande impatto, capace di dare comunque un tocco di folklore in questa regia così occidentalizzante. Come già detto, non sappiamo se per la resa scenica o per altre ragioni, il numerosissimo pubblico in sala è stato gelido e il teatro è stato semivuoto già alla chiamata degli applausi individuali: un penoso spettacolo, questo sì, a fronte di un’opera che già di per sé avrebbe meritato lunghi tributi, e un cast certamente meritevole di un atteggiamento più educato da parte del pubblico. Foto Brescia & Amisano

 

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Verona, Teatro Ristori: “Le umane passioni” di MM Contemporary Dance Company di Michele Merola

Dom, 09/03/2025 - 15:58

Verona, Teatro Ristori, Baroque Festival
LE PASSIONI UMANE
LE ALTRE QUATTRO STAGIONI
Coreografia Michele Merola ed Enrico Morelli
Musica Antonio Vivaldi ricomposta da Max Richter
Musica eseguita dal vivo da I Virtuosi Italiani
Luci Gessica Germini
Costumi Nuvia Valestri
Interpreti danzatori della MM Contemporary Dance Company: Filippo Begnozzi, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Aurora Lattanzi, Federico Musumeci, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Giuseppe Villarosa
Prima nazionale
VIVALDI UMANE PASSIONI 2.0
Coreografia Michele Merola
Musica Antonio Vivaldi
Musica eseguita dal vivo da I Virtuosi Italiani
Luci Gessica Germini
Costumi Carlotta Montanari
Maestro ripetitore Enrico Morelli
Interpreti danzatori della MM Contemporary Dance Company: Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
Verona, 6 marzo 2025
“Le quattro stagioni” è il titolo con cui sono noti i primi quattro concerti solistici per violino dell’opera “Il cimento dell’armonia e dell’invenzione” di Antonio Vivaldi, tuttavia per la coreografia “Le altre quattro stagioni” si è fatto affidamento alla moderna variazione operata dal compositore Max Richter, già premiato con 3 Grammy Award per musiche da film. Nove danzatori della MM Contemporary Dance Company, vestiti di bianco in una scena scura ondeggiano morbidi su archeggi leggeri. Movimenti sinuosi sopra i violini dell’orchestra dal vivo riescono ad emozionare il pubblico vigile e attento, desideroso di cogliere il significato di sì tanta bellezza. Il ciclo dalla primavera all’inverno è un rituale ancestrale che per molti popoli coincide con il rinnovarsi dell’anno. Un ciclo che una volta chiuso ricomincia rigenerandosi in una nuova primavera, e questo ci conforta, ci dà forza e fiducia in un nuovo ciclo di cui siamo punto di partenza e punto di ritorno. Qui scaturiscono le passioni umane, dove il movimento incontra il suono e lo fa proprio con eleganza e stile. I coreografi Michele Merola ed Enrico Morelli hanno voluto rigenerare nuove danze dalla musica barocca di Vivaldi: nuove analogie e simmetrie. “Le altre quattro stagioni”, in prima nazionale, offre al pubblico un’esperienza totalizzante, ricca di sfumature e toni: un ciclo della vita ricco di riflessioni misurate e di allusioni. Invece in “Vivaldi umane passioni 2.0” Merola esprimere, con la danza, le gioie e i tormenti dell’essere. Per il coreografo si tratta di arrivare al senso della vita, che inizia nel trovare ispirazione dai quadri di Marc Chagall, quando l’intento è “staccarsi da terra e fluttuare nello spazio”. Merola visualizza l’ intimo coinvolgimento della sua danza con la stessa passione e lo stesso furore dettati dalle note di Vivaldi. Si tratta di un dialogo tra musica e danza, un equilibrato connubio ricco e complesso. Stavolta sette ballerini con abiti colorati su scena dai colori cangianti riproducono un inno solenne alla vita grazie alle variazioni sonore eseguite sempre dal vivo da “I virtuosi italiani”. I danzatori per questa seconda coreografia danzano più all’unisono formando composizioni slanciate di corpi su passi di danza in sincro come sembianze di un umano gioire e soffrire, come la vita sa offrire. In questa serata la MM Contemporary Dance Company di Michele Merola ha saputo testimoniare la sua importanza come centro di produzione di eventi e spettacoli e come promotrice di rassegne e workshop con l’obiettivo di favorire scambi e alleanze fra artisti italiani e internazionali, come portavoce della cultura contemporanea. Photocredit Riccardo Panozzo

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: “Der Herr denket an uns” BWV196

Dom, 09/03/2025 - 08:58

La Cantata nuziale “Der Herr denket an uns” BWV196 ha una datazione incerta. Si ritiene che si tratti di un’opera giovanile, per le sue somiglianze formali con altre cantate bachiane del primo decennio del XVIII secolo. Infatti, non ci sono recitativi solistici e il compositore utilizza un’introduzione orchestrale tematicamente legata al secondo movimento corale. Anche l’occasione per cui fu scritta è incerta, ma potrebbe essere il matrimonio del 1708 di Johann Lorenz Stauber e Regina Wedemann, zia della moglie di Bach, Maria Barbara. Stauber era anche l’ecclesiastico luterano che aveva celebrato il matrimonio di Bach e Maria Barbara l’anno precedente. Pertanto, la cantata la si colloca al periodo trascorso da Bach a Mulhausen (1707-1708). L’opera, di dimensioni e portata modeste si basa su un testo tratto dal Salmo 115 (vers.12-15) è divisa in cinque movimenti e presenta un’atmosfera generalmente intrisa di una gioia pacata con una scrittura strumentale e vocale non complessa.  Apre la Cantata una  Sinfonia (nr.1) dal ritmo moderato, il cui tema principale  è gioioso. Il Coro che segue (Nr.2) inizia con le parole del titolo, “Der Herr denket an uns” (Il Signore si ricorda di noi), cantate in mezzo a un’allegra attività contrappuntistica. Il terzo movimento è un’aria di soprano 8NR.3) relativamente malinconica emana una disinvolta sicurezza nel suo ritmo musicale. Il successivo duetto per tenore e basso (Nr.4) è più vivace e presenta un’accattivante scrittura contrappuntistica nella sezione centrale. Il Coro conclusivo (Nr.5)come nel precedente è ricco di contrappunti. Il testo, “Ihr seid die Gesegneten des Herrn…” (Voi siate i benedetti dal Signore), è brillantemente utilizzato da Bach che cattura l’essenza delle parole con un senso gioioso che sembra esplodere di fervore religioso. La doppia fuga sulla parola Amen si chiude però in “piano” con tinte delicate che si addicevano al giovane Bach che si propone, sobrio e discreto.
Nr.1 – Sinfonia
Nr.2 – Coro
Il Signore si ricorda di noi e ci benedice.
Benedice la casa d’Israele, benedice la casa di Aronne.
Nr.3 – Aria (Soprano)
Egli benedice coloro che temono il Signore,
Tutti, i piccoli e i grandi.
Nr.4 – Aria-Duetto (Tenore, Basso)
Vi benedica il Signore sempre più
Voi e i vostri figli.
Nr.5 – Coro
Voi siate i benedetti dal Signore,
che ha fatto Cielo e terra. Amen.
Traduzione Alberto Lazzari

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Der Herr denket an uns”BWV 196

 

 

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Saronno, Teatro “Giuditta Pasta”: “Anna Karenina” il 13 marzo 2025

Sab, 08/03/2025 - 16:33

Saronno (VA), Teatro “Giuditta Pasta”: “Anna Karenina” il 13 marzo 2025
Come raccontare a teatro una delle storie più belle del mondo?Innanzitutto con un cast di livello che parte da una delle migliori attrici italiane, Galatea Ranzi, per il ruolo di Anna, ma anche da un insieme di interpreti di altrettanto spessore. Insieme col drammaturgo Gianni Garrera si è deciso di non nascondere l’origine letteraria del testo, ma anzi di valorizzarla. Al di là dei dialoghi, le parti più strettamente narrative e i pensieri dei personaggi saranno detti dagli stessi attori che interpretano i ruoli, seguendo la lezione del Ronconi del “pasticciaccio” e configurando degli “a parte” tipici del linguaggio teatrale.
A queste tecniche puramente teatrali ho aggiunto un montaggio veloce, cinematografico, composto di molte brevi scene e contrassegnato dalla grammatica visivo-musicale, di Marta Crisolini Malatesta, Gigi Saccomandi e Ran Bagno. Le coreografie sono di Alessandra Panzavolta. Come nel romanzo tutto inizia e termina con un treno, emblema del testo di Tolstoj. Naturalmente sta a noi l’arduo compito di tradurre in immagini, suoni, parole uno dei libri che più spesso si trova sul comodino di ognuno di noi.
Per Info e Biglietti: qui

 

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Roma, Teatro Brancaccio: “I Tre Moschettieri- Opera Pop”

Ven, 07/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Brancaccio
I TRE MOSCHETTIERI: OPERA POP
con Vittorio Matteucci, Giò di Tonno, Graziano Galatone
e con:
Sea John – D’Artagnan
Leonardo Di Minno – Rochefort
Cristian Mini – Richelieu
Camilla Rinaldi – Milady
Beatrice Blaskovic – Costanza
Roberto Rossetti – Dumas
Gabriele Beddoni – Planchet
Performers: i ragazzi della Peparini Academy Special Class
coreografie Veronica Peparini e Andreas Muller
testi Alessandro Di Zio
musiche Giò Di Tonno
orchestrazioni Giancarlo Di Maria
produzione STEFANO FRANCIONI PRODUZIONI E TEATRO STABILE D’ABRUZZO
organizzazione VENTIDIECI
Direzione artistica e regia Giuliano Peparini
Roma, 07 marzo 2025
Se c’è una cosa che il teatro musicale ci ha insegnato è che trasformare un classico letterario in un’opera pop non è mai un’impresa semplice. C’è chi ci riesce con un’intuizione geniale, chi con una partitura capace di restituire il peso drammatico della narrazione e chi, invece, si affida alla magniloquenza visiva per colmare le lacune strutturali. I Tre Moschettieri – Opera Pop, produzione di Stefano Francioni e del Teatro Stabile d’Abruzzo, si colloca in questo solco con un’estetica imponente, una regia spettacolare e una partitura che, pur volenterosa, procede a strappi, senza mai decollare del tutto. L’idea di Giuliano Peparini di far partire la vicenda da una fabbrica di scatoloni, dove il ritrovamento di un libro innesca la magia della narrazione, ha il sapore del déjà vu: un espediente narrativo che strizza l’occhio al teatro metatestuale, ma che nella pratica si traduce in un preambolo didascalico che spezza l’ingresso nell’azione. Roberto Rossetti nei panni di Dumas è carismatico e si fa garante della narrazione, ma la sua funzione rimane accessoria, un collante che risolve più che arricchire. Dal punto di vista musicale, Giò Di Tonno si cimenta in un’operazione ambiziosa, con una scrittura che tenta la fusione tra musical popolare e partitura sinfonico-drammatica, senza tuttavia raggiungere una sintesi convincente. Le orchestrazioni si affidano a progressioni armoniche consolidate e a un uso reiterato di climax sonori che, invece di intensificare la tensione, finiscono per appiattirla. L’assenza di numeri realmente memorabili è il vero tallone d’Achille della partitura: i brani funzionano come raccordi tra le scene, ma non emergono con quella forza tematica che avrebbe reso lo spettacolo un’opera compiuta. I tre protagonisti, pur sostenuti da un’ottima presenza scenica, non trovano nella scrittura musicale una reale caratterizzazione individuale: Di Tonno, Matteucci e Galatone giocano sul carisma vocale e sul mestiere, ma la musica non conferisce loro una tridimensionalità emotiva. L’apparato scenografico è di grande effetto, con un uso esteso di proiezioni e strutture mobili che suggeriscono una Parigi evocata più che ricostruita. Peparini, come sempre, padroneggia il linguaggio del grande affresco teatrale, ma l’alternanza di chiaroscuri e bui scenici, anziché sottolineare il dramma, talvolta ne smorza il ritmo. Il corpo di ballo, diretto da Veronica Peparini e Andreas Müller, si conferma elemento portante dello spettacolo, fungendo da contrappunto dinamico alla narrazione. La coreografia, per quanto tecnicamente ineccepibile, si inserisce nella narrazione con una funzione più illustrativa che drammaturgica. Dal punto di vista interpretativo, Sea John si distingue per una presenza scenica incisiva e un’ottima gestione della prossemica teatrale. Il suo D’Artagnan è impulsivo, energico, ma avrebbe beneficiato di una scrittura musicale più incisiva. La sua linea di canto è pulita, con un uso equilibrato del registro medio-alto, ma l’assenza di un vero e proprio “theme song” per il protagonista lascia la sua caratterizzazione in sospeso. Beatrice Blaskovic offre una Costanza di grande eleganza, con una vocalità morbida e una tenuta scenica di classe, mentre Camilla Rinaldi riesce a dare a Milady una sfumatura interessante tra crudeltà e sensualità. La sua interpretazione è ricca di dettagli espressivi, con un controllo della dinamica vocale che si fa notare nei momenti più lirici. Cristian Mini tratteggia un Richelieu essenziale, senza concessioni a eccessi caricaturali, con un’intonazione precisa e una recitazione misurata. Leonardo Di Minno, nei panni di Rochefort, è un antagonista pungente e ben calibrato, con un fraseggio scattante e un uso efficace della dizione teatrale. Gabriele Beddoni si distingue per la poliedricità: la sua capacità di passare da un ruolo all’altro con naturalezza e il suo controllo fisico impeccabile ne fanno un elemento prezioso della compagnia. Luca Callà, nel ruolo di Luigi XIII, utilizza con intelligenza la gestualità scenica, offrendo un’interpretazione che, pur senza battute di rilievo, comunica l’ambiguità del personaggio con estrema precisione. Nel complesso, I Tre Moschettieri – Opera Pop è uno spettacolo che affascina per la potenza visiva e per la solidità del cast, ma che manca dell’elemento imprescindibile di ogni grande musical: una scrittura musicale che dia identità ai personaggi e ne scandisca l’evoluzione. Il lavoro di Peparini è efficace nella resa spettacolare, ma il rischio è quello di restare prigionieri di un’estetica che sovrasta il racconto, invece di sostenerlo. Un’operazione ambiziosa, che merita di essere vista, ma che avrebbe beneficiato di una maggiore coesione tra linguaggio scenico e musicale. E dopotutto, quando i moschettieri incrociano le spade, il pubblico non può che esultare – anche se qualche nota si perde lungo la strada.

 

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Roma, Teatro Vascello: “Edipo Re”

Gio, 06/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe
assistenti alla regia Paolo Costantini, Andrea Lucchetta
costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Roma, 06 marzo 2025
“Sventurato, non chiamarmi da parte: io non sono tuo figlio, ma figlio del fato.”
Sofocle
Da questa citazione prende avvio il percorso interpretativo di Andrea De Rosa, il quale penetra nelle pieghe dell’Edipo Re con un approccio che, pur rispettando il canone sofocleo, ne amplifica le tensioni esistenziali e le implicazioni universali. Rappresentata al Teatro Vascello di Roma, la messinscena del regista configura un rito scenico che esalta la dialettica fra luce e oscurità, fra l’indagine razionale e la vertigine dell’inconoscibile. L’impianto visivo, curato da Daniele Spanò, è simbolicamente pregnante: un’architettura di riflessi e trasparenze, costruita per suggerire un labirinto concettuale e spirituale. Le luci di Pasquale Mari, lungi dall’essere mero complemento estetico, assolvono il compito drammaturgico di scandire l’alternanza fra svelamento e occultamento. Esse non si limitano a illuminare la scena, ma tracciano percorsi simbolici, rendendo il palco un microcosmo in cui l’incontro tra umano e divino si manifesta in tutta la sua dolorosa complessità. Al centro di questo dispositivo teatrale, Marco Foschi dà vita a un Edipo segnato da un’inquietudine profonda, figlio del dubbio e della disperazione. La sua interpretazione si configura come un meticoloso scavo psicologico, attraverso cui emerge il conflitto irrisolvibile fra l’esigenza di conoscere e il terrore di scoprire la verità. Frédérique Loliée, nel ruolo di Giocasta, si muove con raffinata ambivalenza: il suo personaggio incarna la fragilità dell’essere umano di fronte all’ineluttabile, pur mantenendo un’aria di dignità regale. Roberto Latini nel ruolo di Tiresia, rappresenta il medium attraverso cui il sacro si fa parola: il suo tono oracolare, il suo incedere ieratico sottolineano la presenza del divino come forza oscura e inaccessibile. Il Coro, interpretato da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica, funge da voce collettiva, riflettendo il dramma individuale di Edipo sulla comunità tebana. La loro vocalità, sospesa tra il lirico e il tragico, diviene il tessuto connettivo che salda il singolo al destino universale. L’adattamento di Fabrizio Sinisi si distingue per la finezza linguistica e l’acume con cui restituisce le tensioni originarie del testo. Ogni battuta sembra frutto di una scelta consapevole e rigorosa, un’operazione che mira a far emergere il nodo centrale della tragedia: il rapporto conflittuale tra razionalità e inconoscibile. L’operazione drammaturgica non è mai pedissequa, ma vive di una rinnovata sensibilità che attualizza senza tradire. Le suggestioni sonore di G.U.P. Alcaro compongono un paesaggio acustico che non si limita a sottolineare le azioni, ma le amplifica emotivamente. I suoni sordi e vibranti si amalgamano alle voci, creando un’atmosfera sospesa che accresce la tensione drammatica. I costumi di Graziella Pepe raccontano la caduta e il disfacimento di un ordine simbolico: le stoffe, inizialmente pregiate, si trasformano progressivamente, lasciando trasparire una realtà che si sfalda sotto il peso della verità. L’Edipo Re di Andrea De Rosa non è soltanto una rilettura fedele del capolavoro sofocleo, ma un’opera che interroga il nostro rapporto con la verità e con l’identità. In questo contesto, la tragedia non si limita a rappresentare l’ineluttabilità del fato, ma diviene uno specchio in cui riflettere le angosce contemporanee. De Rosa, attraverso una regia sapiente e una cura maniacale dei dettagli, riesce a trasformare il testo classico in un’esperienza profondamente perturbante, capace di scuotere il pubblico e di suscitare interrogativi che vanno ben oltre il palcoscenico. Lo spettacolo, nella sua apparente semplicità, rivela una struttura compositiva complessa, in cui ogni elemento – attoriale, visivo, sonoro – contribuisce a costruire un linguaggio teatrale che si nutre di stratificazioni simboliche e rimandi culturali. È un teatro che non cerca la facile emozione, ma ambisce a una riflessione di ampio respiro, spingendo gli spettatori a confrontarsi con i limiti del conoscere e con la vertigine dell’essere. In definitiva, questa versione dell’Edipo Re si presenta come un laboratorio di pensiero e di sensazioni, un luogo in cui il sacro e il profano, la storia e il mito, l’antico e il contemporaneo trovano un equilibrio raro e prezioso. Il risultato è un’esperienza teatrale che non si esaurisce nella visione, ma continua a lavorare dentro di noi, come un enigma che non smette mai di interrogare la nostra coscienza. Photocredit Andrea Macchia

 

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Napoli, Teatro Bellini: “Extra Moenia” dal 11 al 16 marzo 2025

Gio, 06/03/2025 - 19:23

Napoli, Teatro Bellini
EXTRA MOENIA
uno spettacolo di Emma Dante
con Verdy Antsiou, Roberto Burgio, Italia Carroccio, Adriano Di Carlo, Angelica Di Pace, Silvia Giuffrè, Gabriele Greco, Francesca Laviosa, David Leone, Giuseppe Marino, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino
luci Luigi Biondi
assistente ai movimenti Davide Celona
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte
capo reparto fonica Giuseppe Alterno
elettricista Marco Santoro
macchinista Giuseppe Macaluso
sarta Mariella Gerbino
amministratore di compagnia Andrea Sofia
produzione Teatro Biondo Palermo
in coproduzione con Atto Unico – Carnezzeria
in collaborazione con Sud Costa Occidentale
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
«Danziamo, danziamo… altrimenti siamo perduti»
Pina Bausch
Extra moenia è una locuzione latina che significa “fuori dalle mura della città”. Vuole indicare un evento o un’attività svolti fuori dalla sede appropriata, fuori dalla propria residenza. Lo spettacolo racconta i momenti di una giornata qualunque in cui una comunità si sveglia, si prepara ed esce di casa per affrontare il mondo. Dalla sveglia mattutina, in un crescendo animato di suoni, parole e gesti, senza una trama precisa si susseguono accadimenti legati al presente. C’è un ferroviere, c’è la donna ucraina che scappa dai bombardamenti, c’è il migrante che arriva dal Congo, c’è il militare che esalta la guerra, ci sono due innamorati che si promettono amore ma lei non si decide a sposarlo, c’è una famiglia religiosa, una donna iraniana, due calciatori del Palermo, c’è lo stupro del branco, il mercato, il lungo elenco dei divieti, c’è il grido di protesta e il canto di speranza. Tutti si ritrovano per strada, fuori dalle mura di casa, per vivere insieme le meraviglie e le miserie della vita. Prima su un treno, poi in una piazza, in una chiesa, al bar, poi di nuovo per strada, al freddo, al caldo, in un posto non sicuro dove un attentato semina il panico fino ad arrivare al mare in un naufragio collettivo. Alla fine della giornata questa comunità è immersa in un mare di plastica dove, dolcemente, si lascia andare alla deriva. Le relazioni, gli incontri, le frustrazioni e i fallimenti sono alcuni dei tasselli del frenetico mosaico di questa giornata. Dall’alba al tramonto tutti e tutte camminano insieme, nella stessa direzione. Il cammino è l’unico modo per liberarsi del proprio fardello in un rituale condiviso, liberatorio e potente. Extra moenia è una ballata allegorica che mostra le atrocità del nostro tempo. Emma Dante Qui per tutte le informazioni.

 

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Manifatture Teatrali Milanesi: “Barbablù”

Gio, 06/03/2025 - 19:15

Milano, MTM – Sala La Cavallerizza, Stagione 2024/25
BARBABLÙ”
Drammaturgia di Sofia Bolognini
Interpreti: BENEDETTA BRAMBILLA, SEBASTIANO SICUREZZA
Regia Michele Losi
Scene e Costumi Michele Losi, Annalisa Limonta
Suono Luca Maria Baldini, Stefano Pirovano
Luci Stefano Pirovano, Alessandro Bigatti
Produzione Campsirago Residenza
Milano, 04 marzo 2025
E proprio quando credevamo (speravamo?) che fosse andato in letargo, ecco risvegliarsi in quasi tutta la sua essenza il postdrammatico, naturalmente protagonista di una residenza teatrale organizzata in un paesino delle valli lombarde, ovviamente preso a rileggere e rielaborare un classico, insomma comme il faut. “Barbablù” ci riporta indietro di una quindicina d’anni, quando Milano era molto più satura di adesso di spazi teatrali improvvisati in garage, cantine, strutture di non meglio identificato scopo, animate da gruppi a cavallo tra l’amatoriale e il Premio Ubu, il geniale e il disastroso; per nostra fortuna questa produzione non ambisce a toccare nessuna di queste due vette, ma si mantiene più sul livello di una mediocritas che, se non proprio aurea, almeno potremmo definire argentea. Vi sono, in questo spettacolo, infatti, alcuni spunti molto apprezzabili: in primis il talento degli attori Benedetta Brambilla e Sebastiano Sicurezza, che presentano belle vocalità, espressività non scontate, ritmi generalmente accettabili e fisicità consapevoli; la scena di Michele Losi e Annalisa Limonta è pure interessante, dominata da questi brandelli di blue-jeans che rappresentano ogni singola possibilità del male, e che insieme sembrano proprio una barba blu; funzionali e affascinanti anche le luci di Stefano Pirovano e Alessandro Bigatti, perlopiù, ovviamente, su toni freddi, ma capaci anche di inaspettati sprazzi di calore, che non disorientano, ma conferiscono significati nuovi a qualche passaggio; e azzeccati anche i costumi (sempre ad opera Losi-Limonta), manco a dirlo blu, che vogliono in qualche modo richiamare anche l’origine barocca della fiaba. Quello che convince meno invece è proprio la modalità di elaborazione drammaturgica e di messa in scena dell’immortale fiaba di Perrault (ad opera, rispettivamente, di Sofia Bolognini e di Miche Losi); ancor prima di entrare avremmo potuto prefigurarci la sua natura laboratoriale, da studio, coi suoi esercizi ormai codificati in ogni modo – ripetere le cose a specchio, creare sequenze di gesti che supportino/sostituiscano la parola, infrangere i pudori con il turpiloquio, sopportare la prevaricazione fisica dell’altro, riservare alla scena solo l’introspezione simbolica del personaggio e comunicare al microfono o le informazioni circa la vicenda, o il rapporto che l’attore stesso ha costruito col personaggio. Apprezziamo, in questa congerie, che perlomeno non si sia cantata qualche canzone pop degli anni 80 accompagnati da kazoo e ukulele, né si sia proceduto oltremodo a giochi di iterazione. Sia ben chiaro: chi scrive non crede nell’originalità a tutti i costi, quasi ogni regia ripete cose che abbiamo già visto, ma ci si aspetta che siano cose belle, non esercizi di stile spesso fini a se stessi e dall’imperscrutabile comprensione da parte del pubblico medio. Tuttavia, anche in questo contesto, abbiamo apprezzato alcune idee, come quella di far raccontare la storia di Barbablù ai suoi ipotetici figli, quindi a delle creature ibride che non si possano dire davvero avulse a quel male cosmico che si vuole che Barbablù incarni; e con questi occhi da bambini è pure interessante rivivere i grandi genocidi del passato, come naturale eco del localizzato uxoricidio, fino alla semplice presa di responsabilità capace di aprire gli occhi a questi bambini, e a farne, da adulti, dei persecutori del male. Insomma, questo “Barbablù” è uno spettacolo quasi riuscito, che dovrebbe liberarsi da qualche autocompiacimento di troppo per poter parlare chiaramente non solo agli avventori dei teatri. Foto Alvise Crovato

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Recollection of a Falling” di Spellbound Contemporary Ballet

Gio, 06/03/2025 - 17:12

Roma, Teatro Vascello
“RECOLLECTION OF A FALLING”. 30 anni di Spellbound Contemporary Ballet
Forma mentis
Coreografia, Art Direction, Luci, Costumi Jacopo Godani
Musica originale Ulrich Müller
Musica dal vivo Sergey Sadovoy
Assistente alle coreografie Vincenzo De Rosa
Daughters and Angels
Coreografia e regia Mauro Astolfi
Set e disegno luci Marco Policastro 
Musica originale Davidson Jaconello
Costumi Anna Coluccia
Assistente alle coreografie Elena Furlan
Interpreti Maria Cossu, Giuliana Mele, Lorenzo Beneventano, Alessandro Piergentili, Anita Bonavida, Roberto Pontieri, Martina Staltari, Miriam Raffone, Filippo Arlenghi
Produzione Spellbound Contemporary Ballet
con il contributo del Ministero della Cultura e della Regione Lazio
in collaborazione con Comune di Pesaro & AMAT per Pesaro Capitale italiana della Cultura 2024, Festival Torino Danza
Roma,  28 febbraio 2025
Parrebbe strano che uno spettacolo dedicato al trentennale della compagnia Spellbound Contemporary Ballet sia in realtà dedicato ad una caduta. Nelle note di sala si fa esplicito riferimento al ricordo della prima caduta, l’attimo in cui si perde l’equilibrio per spingersi verso “esperienze più profonde”. Trent’anni sono parecchi, e i ricordi che li accompagnano anche. Si attraversano diverse tappe, diversi momenti per ricordarsi che non si è indipendenti, ma parte di un tutto. I ricordi sono come un sistema di dati intriso nell’anima ed entrarci dentro serve a riconnettersi con se stessi, per ripartire ancora una volta, per ricostruire. È questa l’idea che spinge ad affidare la prima coreografia della serata a Jacopo Godani, incontrato nel periodo in cui aveva appena lasciato la direzione artistica della Frankfurt Dance Company mentre si svolgeva la pre-produzione del trentennale. Si tratta di un autore immaginifico, la cui potenza ben si incastra con i progetti della compagnia. E Godani dal suo canto ha inteso utilizzare una forma di danza “intelligente” per comunicare con le nuove generazioni. Forma mentis si intitola per l’appunto la prima coreografia. È dunque una piattaforma coreografica vibrante in cui ogni passo si trasforma in una visione, ispirando i danzatori ad alimentare le proprie aspirazioni attraverso una pluralità di idee creative. Partito come un’esplosione di movimenti sull’accompagnamento di una fisarmonica, il pezzo lascia in seguito spazio a duetti che significativamente celebrano in realtà lo stile del direttore della compagnia Mauro Astolfi. I danzatori sono lasciati liberi di divincolare i propri arti quasi fluttuando nello spazio. Centrale è la figura di Maria Cossu, che sembra cercare con lo sguardo il proprio punto di riferimento. Tuttavia, essendo una delle veterane della compagnia, diviene anche coreograficamente una musa per gli altri danzatori, ispirando le loro azioni coreografiche fino al crollo finale. Diversa invece l’ispirazione del secondo pezzo, Daughters and Angels, coreografato dallo stesso Astolfi e immortalato dall’uso di un velo nero, opera di Marco Policastro. Qui si fa riferimento all’immaginario legato alle “streghe”, che interessa il coreografo fin dall’adolescenza, ma lo si rinnova attraverso il tramite della lettura di Knowledge and Powers di Isabel Pérez Molina, pubblicato da un centro di ricerca universitario di Barcellona molto riconosciuto nell’ambito degli studi di genere. Secondo l’autrice del testo, le donne nel loro potere di terapeute fin dall’antichità destabilizzarono il potere patriarcale, al punto da scatenare nel corso dei secoli la caccia alle streghe. La coreografia si fa quindi qui più violenta e oscura, e la seta nera diviene un confine dietro cui sparire o da cui poi riapparire per sfidare il mistero, la notte, l’ignoranza. Una celebrazione di un trentennale che pare dunque svolgersi a ritroso, dal chiaro verso lo scuro. Mauro Astolfi non è del resto dedito a un tipo di coreografia leggera. E nell’andare avanti si propone di continuare a indagare. Foto Cristiano Castaldi

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Menotti: Danio Manfredini dall’11 al 16 marzo 2025

Gio, 06/03/2025 - 17:01

Al teatro Menotti  Danio Manfredini, una delle voci più intense e poetiche del teatro contemporaneo, per tre appuntamenti imperdibili:
11 marzo – Divine
Una lettura scenica in cui voce e disegni di Danio Manfredini cuciono una sceneggiatura liberamente ispirata a Notre Dame des Fleurs di Jean Genet. La storia di Divine, un ragazzo che lascia la casa natale per immergersi in una Parigi notturna e clandestina, tra furti, passioni e incontri indelebili.
Info e biglietti: qui  
12 marzo – Incontro con Danio Manfredini: 20 anni di Cinema Cielo (ore 19.00)
Un’occasione preziosa per ascoltare dalla voce dell’autore il racconto del viaggio artistico e umano che ha dato vita a Cinema Cielo, a vent’anni dal debutto di questo spettacolo di culto.
Info e biglietti: qui 
13 – 16 marzo – Cinema Cielo
Torna in scena uno degli spettacoli più iconici di Manfredini, Premio Ubu 2004 per la miglior regia. Un’opera che porta lo spettatore all’interno di un vecchio cinema a luci rosse, dove le ombre del presente si intrecciano con quelle del romanzo di Jean Genet, in un gioco di specchi tra realtà e poesia.
Info e biglietti: qui

Categorie: Musica corale

Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini: “Caravaggio 2025”

Gio, 06/03/2025 - 16:34

Roma, Palazzo Barberini, Gallerie Nazionali di Arte Antica
CARAVAGGIO 2025
a cura di Francesca CappellettiMaria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon
progetto delle Gallerie Nazionali di Arte Antica
realizzato in collaborazione con Galleria Borghese
con il supporto della Direzione Generale Musei – Ministero della Cultura, con il sostegno del Main Partner Intesa Sanpaolo
con il supporto tecnico di Coopculture per i servizi al pubblico e di Marsilio Arte per la pubblicazione del catalogo.
Roma, 06 marzo 2025
Se la pittura ha mai conosciuto un eroe, questi ha un nome: Michelangelo Merisi da Caravaggio. Eroe per eccesso, per talento, per tormento. Le Gallerie Nazionali di Arte Antica gli rendono omaggio con Caravaggio 2025, mostra che ambisce a tracciare nuove rotte critiche e a portare sotto una luce rinnovata il percorso del pittore che, più di ogni altro, ha inciso a fuoco il naturalismo nell’anima della pittura moderna. Ma la luce di Caravaggio non è mai concessa con generosità: essa illumina e acceca, rivela e sottrae, si contorce nella drammaticità del vero. L’allestimento è classico nella sua impostazione museale e si sviluppa su tre sale, dove l’uso della luce diventa elemento di costruzione scenica. Tuttavia, tra ombre fin troppo dense e scritte espositive esili e poco illuminate, si rischia di compromettere la leggibilità dell’apparato critico. La prima sala appare eccessivamente densa, con un numero di opere che rischia di soffocarsi a vicenda, rendendo difficile un’esperienza contemplativa. L’affollamento dei visitatori renderà arduo avvicinarsi alle didascalie, la cui dimensione ridotta e la scarsa illuminazione rappresentano un ulteriore ostacolo alla fruizione. Con ventiquattro opere provenienti dalle più illustri collezioni pubbliche e private, Caravaggio 2025 non si accontenta di esibire capolavori, ma intende raccontare l’artista nel suo farsi. Il percorso, diviso in quattro sezioni, si apre con gli anni romani e l’incontro decisivo con il cardinale Francesco Maria del Monte, figura cruciale nel primo sviluppo della sua carriera. I Musici, la Buona Ventura, i Bari emergono come icone di una pittura ancora in bilico tra manierismo e naturalismo, in cui la luce, più che rivelare, inizia a creare. Segue la sezione dedicata ai ritratti, con la straordinaria opportunità di confrontare due versioni del Ritratto di Maffeo Barberini, una delle quali recentemente riemersa e attribuita con fermezza da Roberto Longhi nel 1963. Qui Caravaggio è magistrale nel tratteggiare la psicologia dei suoi soggetti, penetrandoli con un realismo che è più di un esercizio pittorico: è una sfida al tempo, un’insolenza alla morte. Il cuore pulsante della mostra si trova nella sezione dedicata alle grandi tele di soggetto sacro. Il San Giovanni Battista, la Giuditta e Oloferne, il San Francesco in meditazione si collocano lungo un’ideale traiettoria che dal teatro della violenza approda al mistero della penitenza. L’Ecce Homo, recentemente riscoperto e mai visto in Italia dopo quattro secoli, è forse il vertice di questo segmento espositivo: qui il Merisi scompone il pathos della Passione in una visione disarmante, in cui il dolore è trattenuto, negato, reso quasi burocratico nella sua inesorabilità. L’epilogo della mostra ha il sapore di una fuga senza scampo, quella di Caravaggio stesso, braccato non solo dalla giustizia terrena, ma dall’inesorabile rovina del suo destino. Le opere dell’ultimo periodo – il Martirio di Sant’Orsola, il David con la testa di Golia – non si limitano a rappresentare un dramma sacro, ma sembrano trascrivere in pittura l’urgenza disperata dell’artista, la sua identificazione con l’eroe vinto, con il peccatore in cerca di redenzione, con il carnefice che diventa vittima. Visitando Caravaggio 2025, si ha la sensazione di assistere a un dramma in cui il sipario non si apre mai del tutto, lasciando lo spettatore in un’attesa costante, quasi soffocata dall’allestimento che non sempre restituisce il respiro necessario alle tele. Se da un lato la luce, cupa e incalzante, amplifica la tensione emotiva dell’opera caravaggesca, dall’altro il percorso espositivo impone limiti alla piena comprensione del gesto rivoluzionario dell’artista. Tuttavia, la mostra si rivela un’operazione che non si esaurisce nell’esposizione, ma si configura come un atto di affermazione per Palazzo Barberini, che trova nella mitizzazione di Caravaggio un potente vettore per riportare l’attenzione su sé stesso e sulle potenzialità di un luogo non sempre al centro dei grandi circuiti museali. A questa rinascita contribuisce anche il catalogo edito da Marsilio, che non si limita a documentare l’esposizione, ma si impone come strumento di studio imprescindibile, capace di aprire nuove prospettive critiche e linee di ricerca su un artista che, ancora oggi, continua a sfidare la nostra capacità di vedere. Photocredit Alberto Novelli, Alessio Panunzi

 

Categorie: Musica corale

Salvatore Pappalardo (1817-1884): Quartetti d’archi in 3P (Vol. 1)

Gio, 06/03/2025 - 10:56

Salvatore Pappalardo (Catania 1817 – Napoli 1884)Quartetto n. 1 in do maggiore op. 4; Giovanni Pacini (Catania 1796 – Pescia 1867)Quartetto n. 2 in do maggioreQuartetto di Catania. Augusto Vismara (Violino). Marcello Spina (Violino). Gaetano Adorno (Viola). Alessandro Longo (Violoncello). Registrazione: presso TRP Studios, Tremestieri Etneo (CT), 2023. T. Time: 59′ 36″. 1 CD TRP-CD0081
Il nome di Giovanni Pacini, compositore contemporaneo di Bellini, noto soprattutto per alcune sue opere, è accostato in questa produzione discografica dell’etichetta TRP, a quello di un altro musicista anche lui catanese, Salvatore Pappalardo, nato nel 1817 nella città etnea e morto nel 1884 a Napoli dove fu compositore di camera del conte di Siracusa, Don Leopoldo di Borbone, e dove fu insegnante di contrappunto presso l’Albergo dei Poveri. Entrambi operisti, i due compositori sono presenti in questo CD nell’insolita veste di autori di musica strumentale, in quanto della loro produzione sono presentati il Quartetto n. 1 in do maggiore op. 4 di Pappalardo e il Quartetto n. 2 in do maggiore di Pacini. Apprezzato dai contemporanei, come si evince da una recensione, apparsa in seguito ad un’esecuzione fatta dal Quartetto di Firenze, dove si leggeva “il quartetto di Pappalardo è opera improntata di originalità tutta propria”, il primo è un lavoro in quattro movimenti, di piacevole ascolto, che rivela la solida preparazione musicale del suo autore e si può catalogare tra quelle opere nel quale si evidenzia un buon mestiere. Più interessante e originale appare sicuramente il lavoro di Pacini, nel quale, oltre ad alcune inflessioni “operistiche” di alcuni passi, si evidenziano il terzo movimento, Andantino affettuoso, per la cantabilità di alcune sue parti, e il quarto, Allegro, che si segnala per la bella scrittura melodica. Una solida professionalità contraddistingue la performance degli artisti del quartetto di Catania composto da Augusto Vismara (Violino) e Gaetano Adorno (Viola), artefici della riscoperta di questi lavori che faranno parte di un progetto più ampio che coinvolgerà in successive produzioni discografiche anche l’altro compositore catanese Pietro Platania, e da Marcello Spina (Violino) e Alessandro Longo (Violoncello). Ben evidenziato è nel complesso l’ordito polifonico sempre sostenuto da un bel suono da parte degli artisti che in questa incisione mostrano un grande affiatamento. Si tratta di un CD di piacevole ascolto che, comunque, non fa gridare ai capolavori dimenticati e ritrovati.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “L’uomo dei sogni”

Gio, 06/03/2025 - 00:48

Roma, Sala Umberto
L’UOMO DEI SOGNI
scritto e diretto da Giampiero Rappa
Con Andrea Di Casa, Elisa Di Eusanio, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli
Scenografia: ROMASCENOTECNICA
Costumi: Lucia Mariani
Musiche: Massimo Cordovani
Disegno luci: Gianluca Cappelletti
Assistente alla regia: Michela Nicolai
Direttore di scena: Davide Zanni
Sarta: Debora Pino
Organizzazione Rosi Tranfaglia
Roma, 04 marzo 2025
Giocoso, intelligente, sorprendente “L’uomo dei sogni” di Giampiero Rappa. Lo spettacolo conquista con una scrittura intelligente e una regia capace di trasformare un testo complesso in un’esperienza fluida e coinvolgente. La piece teatrale gioca sul sottile confine tra sogno e realtà, sorprendendo il pubblico con risate improvvise, cambi di luce e illusioni sceniche che sovvertono ogni certezza. Quando ci si immerge nella riflessione, una risata o un effetto scenico trasportano lo spettatore in una nuova dimensione. La gestione dei tempi comici e drammatici è equilibrata: il pubblico è colpito dalle risate nei momenti più seri, dai silenzi che aumentano la tensione emotiva, e da effetti sonori e luminosi inediti. Giovanni, il fumettista in crisi interpretato magnificamente da Nicola Pannelli, è un uomo tormentato dai suoi incubi e dai fantasmi del passato, che sembrano prendere vita dai suoi stessi sogni. Pannelli dà voce a un personaggio dalle mille sfaccettature, alternando ironia amara e malinconia struggente. La sua performance rappresenta un uomo che si confronta con le sue paure più intime. Al suo fianco, Elisabetta Mazzullo interpreta Viola, la figlia, che riporta alla luce un mondo sommerso, rivelando la lotta tra il bisogno di riconciliazione e il desiderio di riscatto. La loro interazione è un continuo oscillare tra forza e vulnerabilità, tra amore non espresso e necessità di redenzione, cuore pulsante di uno spettacolo che si muove tra verità e finzione. Ma senza i suoi sogni, Giovanni non lo conosceremmo davvero. E così entrano in gioco Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio che si completano come ombre e riflessi, incarnando le figure dei sogni di Giovanni: l’uomo nero delle paure, l’uomo bianco delle illusioni, i sogni incatenati che non riescono a fuggire. Sono il doppio che lo sfida, la coscienza che sussurra, le voci che lo tormentano e lo spingono oltre i confini della realtà. Insieme, danno corpo a tutto ciò che in Giovanni resta imprigionato, trasformando la scena in un labirinto di specchi in cui il protagonista si perde e si ritrova. Le luci, tra fredde e calde, si fondono progressivamente con una complessa linearità per sottolineare quel labile confine tra onirico e realtà. Riescono anche a creare atmosfere che trasformano la platea stessa, protagonista di questo gioco in cui lo spettatore è parte integrante della scena. Il momento in cui Giovanni immagina un paesaggio marino, i suoni ne creano l’atmosfera, ma la luce illumina la platea e diventa oceano, riversandosi sulla sala con una potenza emozionale che rende tangibile quel confine tra attore e spettatore. Le sonorità, ora delicate e malinconiche, ora esplosive e incalzanti, accompagnano la narrazione con una sensibilità che rende ogni scena ancora più immersiva, incalzante.  Tutti i personaggi indossano abiti che sono il riflesso del loro mondo, interiore ed esteriore. Come te lo immagineresti l’uomo nero? E l’uomo bianco? Particolarmente affascinanti sono, infatti, gli abiti straordinari dei personaggi nati dalla propria mente: l’uomo nero, l’uomo bianco, o la super eroina-detective creata dalle fantasie di Giovanni, che con il suo abito rosso, irradia forza e lucidità; una figura capace di leggere e decifrare ogni segreto, in contrasto con le incertezze che circondano il resto. Le parasonnie, quegli incubi che sembrano prendere vita nella stanza stessa, diventano così una metafora per l’incapacità di “riposare” davvero, di lasciarsi andare e affrontare le proprie verità interiori. Con un sapiente gioco scenografico, le pareti della casa di Giovanni si trasformano in finestrini di un aereo, in specchi che riflettono sogni e paure, in quinte teatrali che svelano “le verità” nascoste nella sua mente. L’idea di dividere la scenografia in due sezioni, con una parte dedicata ai sogni incorniciata da tende teatrali, è una scelta simbolica interessante, che richiama il cuore dello spettacolo: i sogni esistono grazie alle persone, e il teatro grazie agli spettatori. Rappa stesso ha dichiarato quanto sia fondamentale oggi il teatro come luogo di esperienza innovativa e autentica in un’epoca dominata dal digitale. In un crescendo emozionale, non è facile distinguere il confine tra lo spazio-tempo della realtà e lo spazio-tempo del sogno. La divisione della scena appare così mutevole, fluida e sfumata. L’atmosfera visiva richiama i colori di Edward Hopper, ma con una forte personalità che rende ogni immagine densa di significato. Lo spettacolo ci porta lontano, per poi riportarci indietro con una nuova consapevolezza. “L’uomo dei sogni” è un vero e proprio viaggio nel subconscio del protagonista e una riflessione universale sul confronto con le nostre paure, i sogni non realizzati e le relazioni che ci definiscono. Con una regia sapiente, attori straordinari e una scenografia che trasforma lo spazio in un’illusione visiva e psicologica, lo spettacolo ci invita a riflettere sulla fragilità umana e sulla nostra costante ricerca di significato. Il pubblico si ritrova coinvolto emotivamente, sospeso tra il mondo tangibile e quello onirico, e alla fine, non può fare a meno di portare con sé la sensazione di consapevolezza che nasce solo dall’esperienza del teatro. La riflessione che resta è chiara: a volte, per affrontare la realtà, dobbiamo permetterci di sognare. E così, tra lacrime e sorrisi, “L’uomo dei sogni” lascia un segno, celebrando l’autenticità dell’esperienza teatrale, capace di emozionare e far riflettere, anche molto dopo il calare delle luci. Applausi scroscianti, meritati fino all’ultimo sogno. Photocredit Achille Lepera

 

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Benvenuti in casa Esposito”

Mer, 05/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
BENVENUTI IN CASA ESPOSITO
con Giovanni Esposito, Nunzia Schiano, Susy Del Giudice, Salvatore Misticone, Gennaro Silvestro, Carmen Pommella, Giampiero Schiano , Aurora Benitozzi
Regia Alessandro Siani
Commedia in due atti scritta da Paolo Caiazzo, Pino Imperatore, Alessandro Siani
Liberamente tratta dal romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”
di Pino Imperatore (Giunti Editore)
Musiche Andrea Sannino
Direzione musicale e arrangiamenti Mauro Spenillo
Scene Roberto Crea
Costumi Lisa Casillo
Roma, 05 marzo 2025
A volte, il teatro sa trasformare il grottesco in un’amara elegia della mediocrità, e Benvenuti in Casa Esposito, in scena all’Ambra Jovinelli, si muove proprio su questo crinale sottile, tra la farsa e il dramma, tra il riso e una sottesa inquietudine. La trasposizione teatrale del romanzo di Pino Imperatore, curata da Paolo Caiazzo e Alessandro Siani, si fa specchio di una Napoli contraddittoria, dove l’ombra della camorra non è soltanto una realtà tangibile, ma anche un retaggio culturale da cui è difficile emanciparsi. Tonino Esposito, il protagonista, è l’ennesima incarnazione di una maschera tragicomica: figlio di un boss, incapace di raccoglierne l’eredità criminale, si dibatte in un’esistenza fatta di aspirazioni mal riposte e goffi tentativi di emulazione. Giovanni Esposito gli conferisce un’umanità disarmante, riuscendo a cogliere quel misto di stoltezza e malinconia che definisce il personaggio. Accanto a lui, un cast di spessore amplifica la narrazione con grande efficacia: Nunzia Schiano, Susy Del Giudice, Salvatore Misticone, Gennaro Silvestro, Carmen Pommella, Giampiero Schiano e la giovane Aurora Benitozzi offrono interpretazioni solide e perfettamente amalgamate, ciascuno donando sfumature diverse alla coralità della messa in scena. L’idea di suddividere lo spettacolo in capitoli, ricalcando la struttura del libro, è un espediente efficace che restituisce il senso di un racconto popolare, quasi da cantastorie. La messinscena è calibrata con misura: le scenografie, curate da Roberto Crea, si trasformano con fluidità, suggerendo senza invadenza gli spazi mutevoli del racconto, mentre i supporti multimediali, impiegati con saggezza, evitano la facile deriva dell’effetto speciale fine a sé stesso. Il palco diventa così una tela cangiante, che accoglie la vicenda con un senso di dinamismo continuo, perfettamente in linea con il ritmo narrativo dello spettacolo. Un altro elemento che contribuisce alla riuscita estetica dello spettacolo è il lavoro sui costumi firmati da Lisa Casillo. La caratterizzazione visiva dei personaggi gioca un ruolo chiave nell’accentuare il loro status sociale, il loro radicamento in un contesto urbano definito e il sottotesto ironico della messa in scena. Ogni scelta cromatica e stilistica contribuisce a delineare il microcosmo in cui si muove Tonino Esposito, rendendolo ancora più credibile e incisivo nella sua goffa tragicomicità. Ciò che distingue Benvenuti in Casa Esposito da una semplice commedia è il sottotesto: l’umorismo partenopeo, che nel teatro di Eduardo e nei film di Totò ha sempre affondato le radici nel reale, qui si tinge di una consapevolezza più cupa. Il crimine, nella sua quotidianità quasi banale, diventa una trappola esistenziale più che una scelta consapevole. L’apparizione del fantasama di un ufficiale spagnolo, figura eterea di una coscienza assente, è il segnale che la risata non è mai davvero liberatoria, ma sempre intrisa di un’ironia che lascia il segno. L’intreccio segue fedelmente le vicende del romanzo di Imperatore: Tonino Esposito, erede designato di una figura paterna ingombrante, cerca invano di farsi largo nel sottobosco della criminalità napoletana, ma la sua natura ingenua e impacciata lo porta a collezionare fallimenti uno dopo l’altro. Il capoclan Pietro De Luca, detto ‘o Tarramoto, che ha preso il posto del padre, non ha nessuna intenzione di lasciare spazio a un incompetente, e lo scontro tra i due diventa il fulcro di un gioco tragicomico in cui il protagonista si muove come un burattino fuori tempo. La sua goffaggine lo condanna a essere vittima delle circostanze, ma è proprio in questo suo arrancare senza possibilità di riscatto che emerge il lato più amaro della storia: Tonino non è un eroe, né un vero criminale, ma un uomo alla deriva in un sistema che non concede alternative. Se da un lato la scrittura sa dosare battute efficaci e trovate sceniche ben congegnate, dall’altro la messa in scena accusa, almeno nelle fasi iniziali, una certa esitazione. Il ritmo impiega del tempo per assestarsi, forse complice la necessità di rodare gli ingranaggi di un meccanismo narrativo che alterna registri differenti. Tuttavia, una volta raggiunto l’equilibrio, lo spettacolo si dispiega con un’energia crescente, guadagnando progressivamente in compattezza. Il pubblico si trova così immerso in una girandola di situazioni paradossali che ricordano la comicità del cinema neorealista italiano, capace di far ridere e, al tempo stesso, di insinuare il germe di una riflessione più profonda. La Napoli che emerge da questa rappresentazione non è solo il palcoscenico delle vicende di Tonino, ma un personaggio a tutti gli effetti. Il rione Sanità, quartiere dalla storia complessa e stratificata, si fa metafora di una città che vive costantemente in bilico tra luce e ombra, tra speranza e disillusione. Non è un caso che proprio in questo contesto nascano personaggi come Totò, il cui retaggio aleggia implicitamente sullo spettacolo, come a voler ricordare che la grande comicità napoletana è sempre stata capace di raccontare il dolore con un sorriso amaro. Alla fine, Benvenuti in Casa Esposito è uno spettacolo che diverte senza mai cadere nella superficialità. Nel riso si annida sempre un retrogusto amaro, e in questa risata sospesa tra la leggerezza e la disillusione sta tutta la sua forza. Non è solo una commedia ben congegnata, ma un ritratto che, dietro la maschera dell’umorismo, porta con sé una nota di malinconia impossibile da ignorare. Un’operazione teatrale che, nel suo alternare registri e nel suo oscillare tra farsa e riflessione, si rivela un piccolo gioiello di intelligenza scenica e sensibilità narrativa. Forse, al di là dell’umorismo, ciò che resta davvero è il senso di una battaglia persa in partenza, il destino di un uomo che si affanna a recitare un ruolo che non gli appartiene. E in questa amara consapevolezza, paradossalmente, risiede tutta la potenza dello spettacolo.

 

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