Roma, Caracalla Festival 2025
Basilica di Massenzio
DON GIOVANNI
Il capolavoro di Mozart in un nuovo allestimento per il Teatro dell’Opera di Roma
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta un nuovo allestimento di Don Giovanni, dramma giocoso in due atti con musica di Wolfgang Amadeus Mozart e libretto di Lorenzo Da Ponte, tra le opere più complesse, stratificate e filosofiche dell’intero repertorio lirico. Un titolo che unisce leggerezza e abisso, comicità e dannazione, irresistibile seduzione e ineluttabile castigo. La nuova produzione vede sul podio Alessandro Cadario, direttore tra i più brillanti della scena italiana, attento alla trasparenza del linguaggio mozartiano e al dettaglio drammaturgico del suono. La regia è firmata da Vasily Barkhatov, tra i più apprezzati registi russi della nuova generazione, che restituisce un Don Giovanni inquieto e moderno, sospeso tra fedeltà testuale e riflessione sul presente. Zinovy Margolin cura le scene, essenziali ma cariche di tensione visiva; Olga Shaishmelashvili i costumi, che oscillano tra classicismo e suggestioni postmoderne; Alexander Sivaev firma un disegno luci che scolpisce gli ambienti con tagli netti e chiaroscuri teatrali. Il Maestro del Coro è Ciro Visco. Nel ruolo del protagonista, il baritono Roberto Frontali, interprete maturo e magnetico, dà corpo a un Don Giovanni carismatico e spregiudicato, affiancato da Vito Priante nel ruolo di Leporello, servo complice e specchio deformante del padrone. Completano il cast: Mihai Damian (Masetto), Gianluca Buratto (Commendatore), Anthony León (Don Ottavio), Nadja Mchantaf (Donna Anna), Carmela Remigio (Donna Elvira) ed Eleonora Bellocci (Zerlina). L’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma danno voce a una partitura che, pur nella sua apparente linearità, contiene infiniti livelli espressivi: ironia, erotismo, pathos e un senso profondo di ineluttabilità morale. In questo Don Giovanni, la seduzione non è solo tema, ma linguaggio stesso dell’opera: musicale, visivo, teatrale. Il nuovo allestimento offre al pubblico un’occasione unica per riscoprire l’attualità dell’opera mozartiana: il libertino di Da Ponte e Mozart, infatti, non è solo un dissoluto punito, ma un archetipo della modernità, una figura che interroga il nostro rapporto con il desiderio, la responsabilità e il limite. Don Giovanni torna così a Roma con una veste nuova, per continuare a sedurre, inquietare e far riflettere, in una produzione che unisce rigore musicale e visione scenica contemporanea. Qui per tutte le informazioni.
Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ BWV 177 (Lipsia, 6 luglio 1732) per la Quarta Domenica dopo la Trinità è una cantata su Corale, basata sull’omonimo inno Ich ruf zu dir musicato da Johann Agricola(1492-1566), le cui strofe riflettono il Vangelo che la Chiesa Luterana prevede per questo giorno (Lettera ai Romani 8: 18-23; Vangelo di Luca 6:36-42) . La melodia originale dell’inno è utilizzata nella prima strofa (Nr.1 – una fantasia su corale) e nell’ultima strofa (Nr.5 – una armonizzazione del Corale). Tra queste ci sono tre arie indipendenti, prive di recitativi. La prima (Nr.2 affidata al contralto) con solo continuo, la seconda (Nr.3 cantata dal soprano) con continuo e oboe da caccia obbligato e la terza (Nr.4) per tenore, con continuo, oboe da caccia obbligato e violino concertante. Questa struttura è molto efficace con uno schema che alterna pagine complesse (Nr.1), un ritorno al semplice (Nr.2), aumento della complessità (Nr.3) e infine ritorno alla massima semplicità (Nr.5). Indubbiamente il Coro iniziale è pagina meravigliosa, pienamente all’altezza degli standard più elevati di Bach in questo genere. Le tre arie basate sul corale sono stupefacenti nel loro contrasto e per essere perfettamente aderenti al testo. L’aria per contralto con continuo è straordinariamente profilata. La linea del basso comprende un classico disegno a “cuneo” in cui i parametri delle altezze si espandono gradualmente ed esprime magistralmente nel mostrare l’anima torturata vede il suo destino. L’aria del soprano con il corno inglese con le imitazioni fortemente stratificate della voce e delle parti strumentali danno vita a una straordinaria implorazione del peccatore tormentato. Allo stesso tempo il colore armonico è abbastanza gradevole; una combinazione interessante. L’aria del tenore con violino e fagotto obbligati è un sollievo rispetto al tormento delle arie precedenti, ma anche quest’aria ha una forte densità che colpisce. Il corale finale è una delle armonizzazioni corali più complesse di Bach. È infatti nel campo delle armonizzazioni corali che si assiste al più grande cambiamento stilistico del Bach degli anni 1720 rispetto a quello degli anni 1730.
Nr.1 – Coro
Ti invoco, Signore Gesù Cristo,
ti prego, ascolta la mia supplica,
assicurami la tua grazia in quest’ora,
non lasciarmi scoraggiare;
Signore, cerco il giusto cammino
che tu saprai indicarmi,
per vivere per te,
per essere utile al mio prossimo,
per custodire la tua parola.
Nr.2 – Aria (Contralto)
Ti chiedo ancora, o Signore Dio,
ciò che non mi potrai negare:
non sia mai disprezzato,
donami la speranza,
e infine, quando dovrò andarmene,
possa riporre in te la mia fiducia,
e non confidare solo
sulle mie opere,
altrimenti potrei pentirmene per sempre.
Nr.3 – Aria (Soprano)
Aiutami a perdonare i nemici
dal profondo del mio cuore,
perdonami in questo momento,
donami una vita nuova;
la tua Parola sia sempre il mio cibo,
nutrimento della mia anima,
per proteggermi
all’arrivo dell’avversità
che potrebbe fuorviarmi.
Nr.4 – Aria (Tenore)
Nessun piacere e nessuna paura in
questo mondo possano allontanarmi da te.
Donami infine la vita eterna,
tu solo ne hai il potere; e coloro a cui
ne fai dono, la ricevono gratuitamente:
nessuno può ereditare
o acquistare in virtù delle sue opere
la tua grazia
che ci salva dalla morte.
Nr.5 – Corale
Sono combattuto e resisto,
vinci la mia debolezza, o Signore!
Mi aggrappo solo alla tua misericordia,
tu puoi rendermi più forte.
Quando giunge la tentazione, Signore,
non lasciarmi cadere.
Tu la puoi contenere
in modo che non mi arrechi danno;
sono certo che non lo permetterai.
Traduzione Emanuele Antonacci
Siracusa, Teatro Greco
Na nuttata ri passioni. Giuliano Peparini celebra Siracusa tra mito, memoria e visioni sceniche
Uno spettacolo corale al Teatro Greco per i vent’anni dell’iscrizione UNESCO di Siracusa e Pantalica
A vent’anni dall’iscrizione di Siracusa e delle Necropoli Rupestri di Pantalica nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO, la città celebra il suo passato millenario e il suo presente culturale con uno spettacolo che è rito, sogno e dichiarazione d’amore: Na nuttata ri passioni, ideato e diretto da Giuliano Peparini. L’evento avrà luogo giovedì 17 luglio alle ore 21.00 nello scenario maestoso del Teatro Greco, luogo simbolo della civiltà classica che oggi torna ad accogliere un nuovo dialogo tra le arti. Prodotto in sinergia dal Comune di Siracusa, dalla Fondazione INDA e dal Parco Archeologico di Siracusa, Eloro, Villa del Tellaro e Akrai, Na nuttata ri passioni non è solo un evento celebrativo, ma un affresco visionario e multidisciplinare che coniuga parola, musica, danza e immagini in una narrazione stratificata, densa di rimandi colti e affetti popolari. A guidare lo spettatore in questo viaggio tra echi del mito e frammenti di contemporaneità è una parata di interpreti che attraversano con disinvoltura linguaggi e generi: il giornalista Alberto Matano, la cantautrice Levante, gli attori Vinicio Marchioni, Milena Mancini, Danilo Nigrelli e Massimo Venturiello, il coreografo e danzatore Angelo Madonia, le voci di Eleonora Bordonaro e Puccio Castrogiovanni, i fiati dei fratelli Giovanni e Matteo Cutello. In scena anche la Fanfara del Comando Scuole dell’Aeronautica Militare/3° Regione Aerea, le danzatrici della Special Class della Peparini Academy, gli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico e le attrici Elena Polic Greco e Simonetta Cartia. Lo spettacolo, concepito come una successione di quadri simbolici e poetici, attraversa la memoria storica e letteraria di Siracusa evocando figure emblematiche del mito – Aretusa, Proserpina, Medea, Colapesce – e intrecciandole con brani tratti da Euripide e Ovidio, Plutarco e Oscar Wilde, Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, fino a Patrizia Cavalli. Non mancano suggestioni visive ispirate alla pittura di Caravaggio e riferimenti al cinema italiano, da Kaos dei fratelli Taviani a Nuovo Cinema Paradiso, fino al Gattopardo. “Ho voluto restituire l’immagine di una bellezza complessa, disseminata e viva, che si manifesta attraverso racconti, suoni, corpi e visioni”, afferma Giuliano Peparini, che firma regia e impianto scenico. “Siracusa è una città che non si esaurisce nella sua monumentalità: è una trama vivente di narrazioni, una somma di gesti e presenze, di stratificazioni emotive e culturali. Con questo lavoro ho cercato di mettere in relazione la dimensione collettiva della memoria con l’esperienza sensibile e vibrante dell’arte dal vivo”. La serata del 17 luglio si configura così come un atto performativo di restituzione: un mosaico di memorie e affetti, di storie individuali e leggende ancestrali, in cui il tempo si sospende per rivelare la forza evocativa della scena. “È un momento importante per Siracusa”, dichiara Francesco Italia, presidente della Fondazione INDA e sindaco della città. “Celebrare i vent’anni dall’iscrizione UNESCO significa anche rinnovare il nostro impegno verso la salvaguardia e la valorizzazione di questo patrimonio. La regia di Peparini e la partecipazione di artisti di assoluto valore offrono alla cittadinanza e al pubblico un’occasione per riflettere su chi siamo stati e su cosa possiamo diventare, nel segno della cultura e della bellezza condivisa”. Il programma alterna momenti intensi ed emozionanti: Levante interpreterà Lo stretto necessario, in una risonanza musicale che è anche dichiarazione poetica. Alberto Matano leggerà un testo dedicato al concetto di bellezza, mentre Angelo Madonia sarà protagonista di una coreografia che incarna la tensione tra corpo e paesaggio. Gli interventi attoriali – da Marchioni a Mancini, da Nigrelli a Venturiello – daranno voce a parole che attraversano epoche e stili, evocando la Sicilia come luogo dell’anima prima ancora che come geografia. Le musiche dal vivo e i canti tradizionali siciliani, reinterpretati da Eleonora Bordonaro e Puccio Castrogiovanni, si fonderanno con le sonorità jazz dei fratelli Cutello, creando un tessuto acustico denso e raffinato. Per Peparini, l’obiettivo è chiaro: “Dopo una stagione teatrale segnata da riflessioni profonde e drammaturgie intense, questo spettacolo vuole restituire anche il valore della leggerezza. Raccontiamo la nostra identità attraverso forme che parlano direttamente al cuore, senza perdere il senso della complessità. Il teatro non è mai solo intrattenimento: è una forma di conoscenza, un luogo in cui il presente può incontrare il passato e aprirsi al futuro”. L’evento, pensato come una tappa fondamentale nell’anno delle celebrazioni promosse dall’assessorato guidato da Fabio Granata, è anche un’occasione per riaffermare il ruolo di Siracusa come capitale della cultura mediterranea. Una città che, nelle parole di Peparini, “si svela sempre diversa e accogliente, custode di una bellezza che non smette di sorprendere. Ricevere l’abbraccio di Siracusa è un onore, ma anche una responsabilità: quella di esserne all’altezza, artisticamente ed emotivamente”. Na nuttata ri passioni non è solo una notte di arte e memoria, ma un atto d’amore per una città che continua a generare visioni. Una notte in cui il mito diventa materia viva e la scena si trasforma in specchio dell’anima collettiva.
Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Temistocle Solera, basato sull’omonimo poema di Tommaso Grossi
Musica di Giuseppe Verdi
Arvino IVÁN AYÓN RIVAS
Pagano MARCO MIMIKA
Viclinda MIREN URBIETA-VEGA
Giselda LIDIA FRIDMAN
Pirro DAVID LAGARES
Un priore della città di Milano JOSEP FADÓ
Acciano MANUEL FUENTES
Oronte FRANCESCO MELI
Sofia MERCEDES GANCEDO
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro José Luis Basso
Esecuzione in forma di concerto
Madrid, 9 luglio 2025
Per I Lombardi alla prima crociata che chiudono la stagione 2024-2025 del Teatro Real di Madrid si è parlato di una “crociata musicale allo stato puro”, di una “sinfonia militare”, di un agone calcistico. Fatte salve le buone intenzioni (e certo qual entusiasmo) dei recensori madrileni, non si potrebbe formulare giudizi sintetici più insipienti; in particolare, per un’esecuzione che si basa sulla meticolosa concertazione di Daniel Oren, artefice di una straordinaria rilettura della “narrazione musicale” e del suo divenire. Oren è forse il primo che abbia studiato nel dettaglio e rivelato con chiarezza (forse anche meglio del venerato Gavazzeni) il divenire interno della partitura dei Lombardi; lo ha fatto marcando una progressione, o addirittura una cesura, tra la prima parte dell’opera e la seconda. I primi due atti, infatti, sono tutti intessuti di tremuli degli archi, di poderose nervature nascoste dai temi, di colori corruschi degli ottoni (ottima la prestazione della Orquesta Sinfónica de Madrid, la compagine titolare del Teatro Real): è la rappresentazione della notte, del mistero, dell’assassinio, ossia dell’atmosfera di tutto il I atto e di parte del II. La seconda parte non è affatto una sinfonia di guerra, come scioccamente si è detto, bensì una responsione di temi musicali bellici (sia di parte cristiana sia di parte islamica), sempre soggetta all’intonazione di condanna dell’eccidio (è la funzione salvifica di Giselda) o di nostalgia dei tempi di pace (funzione del coro). In altre parole, lo sviluppo narrativo consegnato da Solera al libretto dei Lombardi soggiace a una diffusa negazione della violenza (privata e pubblica), contro qualunque idealizzazione dello spirito di crociata traducibile in fanfare oplitiche. Se anche tutto questo fosse opinabile (ma non lo è), vi sarebbe poi, a contraltare oggettivo, un riscontro nella resa sonora voluta e misurata dal direttore. Il gesto che Oren ripete più frequentemente è, appunto, quello della mano sinistra che impone con foga il “piano” o il “pianissimo”, che smorza le intensità, insomma che fa di tutto per evitare il fragore di una sinfonia di guerra o, ancor peggio, di una banda militare. Anche nei cori bellici, si apprezza sempre una gerarchia che dà priorità alle voci, soliste e corali, più che alla parte strumentale. All’ottima prestazione dell’orchestra si accompagna quella del Coro Intermezzo (titolare per il Teatro Real) preparato da José Luis Basso (ma efficacemente spronato durante l’esecuzione anche da Oren): tutte le sezioni hanno brillato nella resa dei distinti gruppi che punteggiano il dramma, dall’accolita di sicari di Milano alle donne dell’harem di Acciano ad Antiochia. Il cantante più preparato di tutta la compagnia è senza dubbio Francesco Meli, nella parte di Oronte. La cavatina «La mia letizia infondere» e il suo completamento lirico «Come poteva un angelo» formano una di quelle scene che meglio riassumono le abilità di Meli: virtuosismo delle mezze voci, smalto e squillo, acuti spiegati e sicuri, emissione della voce che galleggia su fiati poderosi e al tempo stesso percepibili. La protagonista femminile avrebbe dovuto essere Anna Pirozzi, all’ultimo momento sostituita da Lidia Fridman; vari recensori, forse lasciandosi influenzare dalla circostanza, hanno scritto che la sua prestazione è stata inadeguata. Al contrario, proprio perché il timbro mezzosopranile di Fridman non è né angelico né carezzevole, la sua Giselda – caratterizzata da una costante forza espressiva, da un’emissione piena e da acuti ben proiettati – è la vera protagonista drammatica della serata. La tecnica le permette di superare le difficoltà delle arie e delle cabalette, ma il vero problema della cantante, al di là di qualche inflessione proclive al verismo, è la cura del fraseggio con una pronuncia che risultata per lo più incomprensibile. In ogni caso, è a lei (oltre che al direttore e al coro) che il pubblico del Teatro Real tributa gli applausi più entusiastici. Il basso Marco Mimika intende che il suo Pagano debba essere improntato alla solennità e autorevolezza della linea di canto; il timbro glielo consente e per il I atto funziona efficacemente, ma Pagano è personaggio che muta identità, cuore, attitudine, fino alla morte redenta dal perdono fraterno: tutto questo implicherebbe una gamma di registri emotivi e sentimentali in successione, e gioco di armonici, anziché una monolitica (ancorché corretta) enunciazione della parte. Molto ben riuscita, proprio perché sostenuta in pianissimo, la morte del personaggio nella scena finale. Voce interessante e squillante quella del tenore Iván Ayón Rivas (Arvino); a volte eccede nello sfogo di un’emissione forzata, ma è abbastanza tipico per l’interprete di Arvino (e per di più in una esecuzione in forma di concerto) cadere nella tentazione di gareggiare con Oronte … Tra i comprimari è degno di menzione il basso David Lagares nella parte di Pirro. Corretti (o almeno volenterosi) gli altri cantanti, ma soprattutto da ricordare la “voce del violino” di Gergana Gergova, concertino dell’orchestra, nel magnifico assolo del preludio al III atto. Quando un teatro presenta un titolo d’opera in forma di concerto, anche di fronte al successo più smagliante, come in questo caso, si sollevano sempre dubbi e critiche di varia natura. Anziché discutere su quel che non c’è (scene, costumi, regia, scelte estetiche), sarà meglio individuare (almeno) un elemento di comprensione di questa esecuzione memorabile. Potrebbe essere il sentimento del tempo, musicale e narrativo, con cui Oren anima la concertazione: pacato, disteso, percorso da qualche sprezzatura nel rapporto dinamico tra orchestra e coro, ma sempre motivato dalla sintassi musicale di Verdi, a sua volta dipendente dall’accidentato libretto di Solera; un tempo naturale e ininterrotto, come il «palpito | solo celeste e pio» invocato da Pagano nel celebre terzetto. Foto Javier del Real
Roma, Caracalla Festival 2025
LA TRAVIATA
Un nuovo sguardo al capolavoro verdiano per il Teatro dell’Opera di Roma
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta un nuovo allestimento de La traviata di Giuseppe Verdi, capolavoro assoluto del melodramma romantico, su libretto di Francesco Maria Piave tratto da La Dame aux Camélias di Alexandre Dumas figlio. Un’opera che, da oltre un secolo e mezzo, continua a commuovere e interrogare il pubblico per la sua struggente umanità e la sua forza tragica. A dirigere l’Orchestra, il Coro e il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma sarà Francesco Lanzillotta, tra i più apprezzati direttori della nuova generazione, capace di restituire la raffinatezza timbrica e la tensione drammatica della partitura verdiana con profondità e sensibilità. La regia è affidata a Sláva Daubnerová, artista poliedrica e regista emergente di origine slovacca, nota per la sua cifra visiva moderna e incisiva, al suo debutto sul palcoscenico romano. Lo spettacolo si avvale della collaborazione di una squadra artistica internazionale: Alexandre Corazzola firma le scene con un’estetica sobria ed evocativa, Kateřina Hubená i costumi che dialogano tra eleganza storica e contemporaneità, Alessandro Carletti cura le luci con la sua consueta precisione poetica, mentre la coreografia di Ermanno Sbezzo accompagna il dramma con movimenti essenziali e intensi. Il Maestro del Coro è Ciro Visco. Nel ruolo di Violetta Valéry, eroina fragile e indimenticabile, si alterneranno due interpreti di grande impatto: Corinne Winters e Hasmik Torosyan (1 e 3 agosto), entrambe celebri per l’intensità espressiva e la bellezza del timbro. Nei panni di Alfredo Germont, l’amato giovane perdutamente innamorato, Piotr Buszewski e Oreste Cosimo (1 e 3 agosto). Il ruolo del padre, Giorgio Germont, sarà interpretato da Luca Micheletti e da Gustavo Castillo (27 luglio, 2 agosto), due voci autorevoli capaci di restituire tutta l’ambiguità morale del personaggio. Completano il cast: Maria Elena Pepi (Flora), Sofia Barbashova (Annina), Roberto Accurso (Douphol), Alejo Alvarez Castillo (d’Obigny), Mattia Denti (Grenvil), Christian Collia (Gastone), Enrico Porcarelli (Giuseppe), Massimo Di Stefano (un domestico), Andrea Jin Chen (un commissionario). Alcuni ruoli sono affidati ai giovani talenti del programma “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, che continua a formare e valorizzare le nuove voci del panorama lirico internazionale. Con questa nuova produzione, il Teatro dell’Opera di Roma rinnova la propria missione: rileggere i grandi classici con uno sguardo audace, che tenga insieme fedeltà alla partitura e forza interpretativa. La traviata non è soltanto un dramma d’amore e sacrificio, ma una riflessione profonda sul giudizio, la libertà femminile e il prezzo della dignità. In questa nuova messinscena, Violetta torna a parlare al nostro tempo, fragile e fiera, simbolo di una purezza irriducibile nella disillusione del mondo. Qui per tutte le informazioni.
Macerata, MOF Sferisterio
RIGOLETTO
Melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma di Victor Hugo «Le roi s’amuse»
Prima rappresentazione Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851
Rigoletto, buffone di corte, vuole vendicare l’onore della figlia Gilda, sedotta dal Duca di Mantova ma la sua sete di vendetta porta a un finale tragico e ineluttabile. Giuseppe Verdi esplora temi come la maledizione, la giustizia e la sofferenza con grande intensità, intrecciando la psicologia dei personaggi con una potente partitura musicale. Sul palco, l’edizione del MOF 2015 con la regia di Federico Grazzini che, pur mantenendo un forte legame con la tradizione, propone una lettura contemporanea ed attenta che restituisce l’opera verdiana nella sua autenticità. Rigoletto è una delle opere più amate dal pubblico, capace di affascinare anche le nuove generazioni grazie alla sua bellezza senza tempo. Qui per tutte le informazioni.
Stagione estiva 2025 – Cavea del Teatro del Maggio
“L’ELISIR D’AMORE”
Melodramma giocoso in due atti, su libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Adina LAVINIA BINI
Nemorino ANTONIO MANDRILLO
Belcore HAE KANG
Dulcamara ROBERTO DE CANDIA
Giannetta ALOISIA DE NARDIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Alessandro Bonato
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Roberto Catalano
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Oscar Frosio
Nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento
Firenze, 9 luglio 2025
Sotto la nuova veste dovuta all’installazione di 1000 sedute, che hanno accolto gli spettatori con maggiore comfort, la cavea del Maggio Musicale Fiorentino torna operativa per la seconda recita de “L’elisir d’amore” estivo. La scena di Emanuele Sinisi c’introduce all’interno di un parco urbano di periferia, dove un’Adina bambina gioca con spensieratezza col suo primo fidanzatino, divertendosi sull’altalena del parco. La prima delusione infantile non tarderà, però, a venire, quando poco dopo, sotto gli occhi di un artista di strada, la bimba viene abbandonata dal suo compagno di giochi, che la fa cadere dall’altalena, suscitando in lei una ferita indelebile. Ed è proprio su questa ferita che la regia di Roberto Catalano insiste, mostrandoci come anni dopo Adina sia una caporeparto professionale, impegnata a revisionare con freddezza i conti del reparto, al riparo di una corazza che inibisce la breccia di un nuovo amore. Spostando lo sguardo, i moderni e casual costumi di Ilaria Ariemme confermano l’ipotesi di uno spaccato di società, intenta a consumare la pausa pranzo nel medesimo parco, dove le luci di Oscar Frosio prolungano la staticità di una collettività frivola, volgendo sui toni del blu giusto sulla parentesi seria data dalla celebre romanza del tenore. Anche Nemorino, goffo manutentore, fa eccezione, con la sua profonda e sensibile capacità di amare, risultando un pesce fuor d’acqua oggetto di continui scherni, totalmente opposto a Belcore, che invece incarna perfettamente l’ideale celebrato dall’immaginario collettivo. Ed ecco che nel gioco dei pochi personaggi che reggono l’opera, anche Dulcamara acquista una luce particolare: sarà proprio quell’artista di strada che aveva offerto aiuto alla piccola Adina a dare nuova spensieratezza ai frequentatori del parco e a riscattare la protagonista, sotto la burla di un filtro dei desideri che altro non è che vino da tavola, prima, e l’acqua pubblica del fontanello, poi. Così, Adina torna a cullarsi sull’altalena, fiduciosa in un inatteso epilogo d’amore. Scevra da alcune varianti di tradizione e piuttosto aderente a partitura e libretto, la direzione di Alessandro Bonato si concentra sulla caratterizzazione in musica dei personaggi e l’alternanza tra sezioni dialogiche e liriche, all’interno di una direzione frizzante, dalle sonorità contenute. Più che insistere sulla dinamica o sulla sontuosità delle scene di folla dal retrogusto militaresco, il giovane direttore sembra affascinato dall’attenzione alle indicazioni agogiche, assai dettagliate in partitura, per una vivida resa dei cambi di tempo entro lo stesso numero musicale e una lettura studiatamente scorrevole. Sempre all’altezza della situazione, inoltre, la prova del coro guidato da Lorenzo Fratini, che assolve alle sue funzioni di spettatore, interlocutore e di contesto, sfoggiando una recitazione minuziosa e continua, all’altezza di quella centralità del coro tanto frequente nelle opere di Donizetti. Sul piano vocale, i cantanti che hanno dimostrato il miglior bilancio tra vocalità e resa complessiva sono stati i due baritoni. Hae Kang ha un timbro scuro e nitido, ben dispiegato nella saldezza delle eleganti linee melodiche di presa su Adina e guizzante sulla caratterizzazione del militaresco; mezzi che hanno ben trasmesso la peculiarità di un carattere piuttosto duro, bramoso di un amore che è più conquista che coronamento passionale. Grande l’attenzione all’espressività e alle movenze sceniche, mentre si riscontrava una minore duttilità nel cromatismo e nel canto d’agilità. Disinvolta anche la prova del Dulcamara di Roberto De Candia, ricca d’indugi, battute e modulazioni di tono, che hanno perlopiù restituito con originalità l’armamentario tipico del “buffo” e le qualità istrioniche da cantante-attore. Abile affabulatore e sicuramente a suo agio con la non particolarmente grave tessitura, all’interprete non è mancato di esibire la buona rotondità del registro medio-acuto e di districarsi con destrezza nei rapidi sillabati dall’accento sdrucciolo che tratteggiano la parte. A chiusura dei ruoli maschili, il giovane Nemorino di Antonio Mandrillo è un tenore lirico-leggero dal timbro chiaro e omogeneo in tutta l’estensione della parte, che affronta con elevato impegno attoriale. In quest’ottica, ci saremmo aspettati una maggiore levigatura del fraseggio e della resa coloristica, che indugia a muoversi da un recidivo mezzo-forte anche quando la voce dovrebbe sbocciare, forse per bilanciare agilità alle volte perfettibili. Il momento di minore timidezza vocale è senz’altro quello della romanza, dove pure qua e là la voce approda a suoni con qualche fissità di troppo e la tendenza al canto equilibrato smorza un po’ il consueto applauso. A confronto con l’intero cast, Lavinia Bini rimane l’interprete con i mezzi vocali più interessanti, soprattutto nel vellutato appoggio che pervade le malinconiche frasi di centro, nei soffici assottigliamenti che approcciano l’acuto e nella raffinatezza di alcuni passi virtuosistici, entro una resa attoriale ed espressiva di grande d’immedesimazione. Non sempre, però, ha mostrato la duttilità canora richiesta dalla scrittura, soprattutto al momento delle puntature acute (spesso tagliate) e della sbalzata cabaletta finale, risultando probabilmente più atta a ruoli maggiormente lirici e con minore salita sul pentagramma. Chiude il cerchio la Giannetta di Aloisia De Nardis, inizialmente un po’ sullo sfondo nei concertati, ma in seguito capace di rimarcare con pregnanza timbrica e di fraseggio gli scambi col coro. La recita termina poco prima della mezzanotte, nell’entusiasmo di un pubblico non troppo folto, ma ben disposto per la fresca temperatura e i generosi gelati offerti da Sammontana all’arrivo e durante l’intervallo.
Napoli, Teatro di San Carlo
“ROBERTO DEVEREUX”
Dal 16 al 22 luglio, al Teatro di San Carlo, va in scena Roberto Devereux: tragedia lirica in tre atti di Gaetano Donizetti su libretto di Salvadore Cammarano, tratto dalla tragedia di Jacques-François Ancelot Elisabeth d’Angleterre. La Prima è il 16 luglio 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 19 luglio, 22 luglio 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Riccardo Frizza; Maestro del Coro: Fabrizio Cassi. La regia è a firma di Jetske Mijnssen, con drammaturgia di Luc Joosten, scene di Ben Baur, costumi di Klaus Bruns e luci di Cor van den Brink.
Nel ruolo di Elisabetta, Roberta Mantegna. Annalisa Stroppa interpreta, invece, Sara. Nel ruolo eponimo, Ismael Jordi. Il duca di Nottingham è, invece, interpretato da Nicola Alaimo. Completano il cast: Enrico Casari (Lord Cecil), Mariano Buccino (Sir Gualtiero Raleigh), Giacomo Mercaldo (Un cavaliere), Ciro Giordano Orsini (Un familiare di Nottingham). Una Coproduzione del Teatro di San Carlo, Dutch National Opera, Palau de les Arts Reina Sofia – Valencia. Qui per tutte le informazioni. Foto Prova Roberto Devereux / De Nationale Opera – DNO © Ben van Duin
Roma, Teatro romano di Ostia Antica
ANTIGONE
di Jean Anouilh
adattamento e regia Roberto Latini
con (in o. a.) Silvia Battaglio (Ismene), Ilaria Drago (Emone), Manuela Kustermann (Nutrice), Roberto Latini (Antigone), Francesca Mazza (Creonte)
scene Gregorio Zurla
costumi Gianluca Sbicca
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
foto Masiar Pasquali
produzione La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roberto Latini presenta una rilettura contemporanea dell’Antigone di Anouilh, ambientata nella Francia occupata e trasformata in una potente metafora della resistenza, esplora il conflitto eterno tra legge e coscienza. Antigone, figura archetipica che oltrepassa i confini del tempo, rimanendo eterna nella sua essenza, simbolo universale di ribellione diventa un’indagine intima sull’essenza dell’essere umano. In scena, un gioco di specchi tra Antigone e Creonte, un soliloquio a più voci che rileva le contraddizioni umane invitando il pubblico a riflettere sul significato dell’essere umano. La regia di Roberto Latini, anche interprete di Antigone, dirige Manuela Kustermann (Nutrice) in un dialogo tra ragione, giustizia, leggi umane e morali. Coprodotto dal Teatro di Roma e La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello, il cast include anche Silvia Battaglio (Ismene), Ilaria Drago (Emone) e Francesca Mazza (Creonte). Qui per tutte le informazioni.
Macerata, MOF Sferisterio
LA VEDOVA ALLEGRA
Operetta in tre atti di Franz Lehár / VERSIONE ITALIANA
Libretto di Victor Léon e Leo Stein
Tratto dalla commedia di Henri Meilhac « L’Attaché d’ambassade »
Prima rappresentazione Vienna, Theater an der Wien, 30 dicembre 1905
Traduzione e adattamento del testo a cura di Gianni Santucci
Per la prima volta allo Sferisterio La vedova allegra, celebre operetta in tre atti di Franz Lehár. La vicenda si svolge a Parigi, dove il conte Danilo, segretario dell’ambasciata del regno immaginario di Pontevedro, deve conquistare Hanna Glawari, una ricca vedova pontevedrina, per evitare che la sua fortuna venga trasferita fuori del piccolo regno prossimo alla bancarotta. La raffinata musica di Lehár, che spazia tra valzer, polke e mazurke e pagine come la “Romanza della Vilja” e il duetto “Tace il labbro” – amate e conosciute dal pubblico di tutto il mondo -, insieme alla trama che unisce romanticismo, momenti di leggerezza e l’eco di un’epoca al suo massimo splendore, fa sì che La vedova allegra, a 120 anni dalla sua prima esecuzione, continui a incantare spettatori di ogni generazione. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Palazzo delle Esposizioni
SERGIO STRIZZI. LO SGUARDO OLTRE IL SET
Sala Fontana
A cura di Melissa e Vanessa Strizzi
Mostra promossa dall’ Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
realizzata da Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con Archivio Sergio Strizzi.
Roma, 09 luglio 2025
Non c’è star system, non c’è lustrino, non c’è flash da red carpet. C’è solo uno che guarda. Sempre, in silenzio, mentre tutto il resto fa casino. È Sergio Strizzi, uno che ha vissuto mezzo secolo di cinema con l’occhio del samurai e il passo felpato del ladro gentile. Non ha mai chiesto una posa, non ha mai detto “sorridi”. Eppure ha tirato fuori alcune delle immagini più sincere, spiazzanti e umane della storia del cinema italiano. Ora che la sua fotografia si prende tutta la Sala Fontana del Palazzo delle Esposizioni di Roma, con la mostra Lo sguardo oltre il set, ce lo ritroviamo davanti senza filtri: sessanta scatti, alcuni leggendari, altri mai visti prima, a dimostrarci che il backstage può essere più potente del film. Strizzi non cercava l’effetto. Trovava l’essenziale. Le sue foto non sono ricordi, sono fenditure. E dietro quella fenditura, ecco Monica Vitti, bellissima, verticale e ironica su un tetto milanese nel 1960. Lontana anni luce dal cliché della diva: fragile, incuriosita, reale. Il servizio realizzato da Strizzi alla Torre Galfa non è una seduta fotografica. È un film che non è mai stato girato. La Vitti non interpreta, si espone. E Strizzi fa la cosa più rivoluzionaria che può fare un fotografo: non disturba. Chi entra in questa mostra aspettandosi la sagra della nostalgia verrà deluso. Non c’è feticismo per la pellicola, né santini da appendere. Quello che emerge, semmai, è un senso quasi punk dell’immagine: fotografare significa spogliare. E Strizzi, armato della sua macchina fotografica, ha spogliato il cinema dalla sua retorica. Che siano le riprese di L’eclisse o una pausa sul set de La vita è bella, la logica è sempre la stessa: cercare la verità dove nessuno guarda. Sofia Loren mangia in mezzo alla folla durante le riprese de L’oro di Napoli e sembra un’apparizione pasoliniana. Antonioni sta zitto e pensa. Benigni è sorpreso mentre ancora non sa di star diventando una leggenda. Sono momenti senza aureola, e proprio per questo diventano eterni. Il vero colpo di scena è che Strizzi non ha mai avuto bisogno di gridare. Niente acrobazie estetiche, niente photoshop ante litteram, nessun culto del virtuosismo tecnico. Le sue immagini sono precise come una dichiarazione d’amore fatta in un giorno di pioggia: sanno dove colpire, senza far rumore. Quello che colpisce – a livello epidermico, emotivo e anche politico – è l’assoluta sobrietà dello sguardo. Strizzi non trasforma l’attore in personaggio. Fa il contrario. Ti mostra il momento in cui il personaggio cade, e sotto rimane l’essere umano. E lo fa con una gentilezza che oggi si è persa, travolta dall’estetica social dell’istantaneo, dell’iper-saturo, del selfie preconfezionato. Questa mostra è una lezione di sguardo. Non solo per chi ama il cinema, ma per chiunque senta il bisogno di tornare a vedere senza giudicare. Il cinema, quello vero, lo si riconosce nei dettagli: un microfono appeso, una sigaretta accesa fuori campo, un tecnico che regge una lampada come fosse un rito antico. Ecco, Strizzi è l’etnologo di quel mondo scomparso. Senza didascalie, senza moralismi, senza nostalgia. Con lo stesso rispetto con cui si fotografa un amore finito. Melissa e Vanessa Strizzi, che hanno curato la mostra, hanno fatto una scelta precisa: non spiegare troppo. Le immagini non vengono sovraccaricate di parole, non cercano consenso. Stanno lì, fiere, silenziose, a sfidarti. E se non le capisci, pazienza. Sono immagini pensate per chi ha ancora il coraggio di fermarsi. Di rallentare. Di sentire il peso leggero di uno sguardo che non ti vuole vendere nulla. Perché in fondo Sergio Strizzi non fotografava il cinema. Fotografava le sue pause. I suoi silenzi. Le crepe in cui il racconto si smarrisce e torna umano. Faceva ciò che oggi nessuno fa più: aspettava. E in quell’attesa, trovava l’immagine.
Roma, Crypta Balbi
Museo Nazionale Romano
CRYPTA BALBI: CANTIERE APERTO
Roma, 09 luglio 2025
Nell’inesauribile palinsesto urbano di Roma, la Crypta Balbi si impone come uno dei più raffinati esempi di stratigrafia storica visibile, documentata e musealizzata. Situata nel cuore della città, tra via delle Botteghe Oscure e via dei Delfini, essa costituisce un laboratorio sperimentale per la comprensione delle dinamiche di trasformazione urbana dalla tarda età repubblicana sino all’età contemporanea. Oggi, in seguito a un importante intervento di restauro e scavo archeologico in corso dal gennaio 2023, la Crypta si appresta a vivere una nuova stagione scientifica e museale, sostenuta da un imponente investimento pubblico che supera i cinquanta milioni di euro. L’intervento in corso non si configura come una mera operazione conservativa, ma si propone quale occasione per approfondire la conoscenza del sito e offrire nuove modalità di fruizione. A partire dal 9 luglio, è previsto l’inizio del programma “Crypta Balbi: cantiere aperto”, che consentirà al pubblico di osservare, ogni sabato mattina, lo svolgersi degli scavi in diretta, sotto la guida di archeologi professionisti. Tra questi, figurano studiosi di primissimo piano nel panorama della ricerca italiana, come Daniele Manacorda e Federico Marazzi, che hanno contribuito anche alla realizzazione di un video esplicativo dedicato alla storia del sito e ai più recenti rinvenimenti. L’area, attualmente interdetta al pubblico, tornerà a essere accessibile in forma parziale grazie a una serie di visite guidate anche in orario serale, in concomitanza con il ciclo di conferenze Al centro di Roma, che prenderà avvio il 17 luglio presso la sede di Palazzo Altemps, anch’essa parte del Museo Nazionale Romano. L’origine della Crypta Balbi risale al 13 a.C., quando Lucio Cornelio Balbo fece erigere, nel Campo Marzio, un complesso teatrale secondo i canoni della tradizione ellenistica. La crypta, propriamente detta, costituiva il portico retrostante la scena, destinato al passeggio e alle attività diurne del pubblico, e in origine circondava un grande giardino porticato. Tuttavia, la vera ricchezza archeologica del sito non è da ricercare nell’edificio monumentale originario, quanto piuttosto nella densità e nella varietà di riusi, trasformazioni, abbandoni e nuove destinazioni d’uso che si sono succeduti nel corso di oltre due millenni. La Crypta Balbi è, a tutti gli effetti, un luogo privilegiato per l’osservazione della cosiddetta longue durée urbana: al di sotto dei piani rinascimentali si conservano tracce di officine tardoantiche, fulloniche, sacelli, strutture abitative e persino stratificazioni post-unitarie legate alla vita quotidiana della Roma moderna. Le più recenti campagne di scavo, in parte condotte nell’ambito del progetto URBS, hanno consentito di ampliare in modo significativo la conoscenza dell’assetto tardoantico dell’area, portando alla luce nuovi ambienti artigianali, tra cui una fullonica – officina per il trattamento, la tintura e il lavaggio dei tessuti – databile al IV secolo d.C. Tra i ritrovamenti più rilevanti, si segnala anche l’individuazione di un sacello, la cui identificazione cultuale resta tuttora incerta. Sebbene non sia ancora stato possibile attribuirlo con certezza a una divinità specifica, l’orientamento delle strutture e alcuni indizi iconografici e materiali suggeriscono un possibile legame con i culti orientali, in particolare con quello isiaco e con la figura sincretica di Serapide. All’interno dell’area sacra è stata rinvenuta una fossa votiva contenente offerte in terracotta – probabili ex voto – nonché elementi strutturali pertinenti a un edificio di culto la cui costruzione non fu mai completata, forse a causa di una precoce interruzione del cantiere. Si tratta di un rinvenimento che, pur nella sua frammentarietà, arricchisce ulteriormente il quadro delle presenze cultuali ed economiche della zona in età tardoantica, delineando uno spazio urbano in continua trasformazione, segnato da sincretismi religiosi e dalla compresenza di funzioni produttive e rituali. Questi ritrovamenti arricchiscono il già straordinario corpus di dati sulla commistione fra pratiche religiose, funzioni produttive e organizzazione urbanistica nel tessuto post-classico del Campo Marzio meridionale. Degno di nota è anche il rinvenimento di affreschi medievali pertinenti al complesso della chiesa di Santa Caterina dei Funari, un tempo insistente sull’area della crypta, che restituiscono una memoria figurativa ancora poco conosciuta del paesaggio urbano della Roma tardo-gotica e rinascimentale. Le pitture, in fase di restauro, saranno integrate nei futuri percorsi museali. Ma l’ambizione del progetto non si esaurisce nella sola dimensione archeologica. Il piano complessivo – che si estende su circa 25.000 metri quadri di superficie edilizia e oltre 8.000 metri quadri di area archeologica – mira alla creazione di un vero e proprio “quartiere culturale” nel centro di Roma. Gli spazi restaurati ospiteranno, oltre al museo rinnovato, anche residenze per studiosi, laboratori didattici, aree per la ricerca interdisciplinare, sale per eventi e una caffetteria con affaccio sulle antiche strutture. Particolare attenzione è rivolta al tema dell’accessibilità: le passerelle di nuova concezione, in vetro trasparente e struttura sospesa, consentiranno una visione diretta delle strutture sottostanti, in un dialogo costante tra antico e moderno. La narrazione museale non si limiterà alla sola antichità classica, ma si estenderà alle vicende più recenti dell’area, tra cui il rastrellamento del ghetto del 1943 e il ritrovamento, nel 1978, del corpo di Aldo Moro in via Caetani, a pochi passi dal sito. L’intera operazione, promossa dal Ministero della Cultura e dal Museo Nazionale Romano, si distingue per il suo approccio metodologico integrato, che coniuga la ricerca scientifica con la partecipazione pubblica e l’educazione al patrimonio. La formula del cantiere aperto è qui esemplare: lungi dall’essere un’eccezione, dovrebbe costituire un modello replicabile in altre aree urbane ad alto potenziale archeologico. L’attenzione alla comunicazione dei risultati, la produzione di materiali audiovisivi, la promozione di cicli di conferenze e la valorizzazione del ruolo degli archeologi come mediatori culturali confermano una visione del museo come organismo vivo, in dialogo costante con la città. La Crypta Balbi, nella sua nuova veste, non è solo un sito da visitare, ma un luogo da attraversare, da studiare, da interrogare e si pone oggi come uno dei più ambiziosi esempi europei di rigenerazione culturale e di museo partecipato, in cui la storia si lascia leggere non come racconto chiuso, ma come processo aperto e condiviso.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Stanislav Kochanovsky
Sergej Prokof’ev: “Chout” (Il buffone) op. 21; Pëtr Il’ič Čajkovskij: “Il lago dei cigni” – estratti
Venezia, 5 luglio 2025
Una serata interamente dedicata alla musica per la danza non poteva che svolgersi nel nome di due grandi autori russi, che hanno contribuito in modo decisivo alla diffusione e al rinnovamento del balletto classico, seppure con cifre stilistiche tra loro alquanto diverse. Questo l’intento programmatico del recente concerto, svoltosi nell’ambito della Stagione Sinfonica del Teatro La Fenice – l’ultimo prima della pausa estiva –, che ha visto il gradito ritorno a Venezia di un altro esponente della grande cultura musicale al di qua degli Urali: il maestro Stanislav Kochanovsky, che ha diretto Chout di Prokof’ev e alcuni estratti da Il lago dei cigni di Čajkovskij. Per il tema, alquanto sessista e misogino, Chout – il secondo balletto di Prokof’ev, composto nel 1920 per i Ballets Russes di Sergej Diaghilev e messo in scena a Parigi il 17 maggio 1921 – ha richiamato alla nostra memoria Pericolosamente, un atto unico di Eduardo De Filippo, nel quale un marito, per tenere a freno la moglie, irascibile quanto ingenua, le spara (a salve) non appena questa accenna ad un litigio, provocando in lei – che, restando illesa, si crede miracolata – un repentino cambiamento di umore. È un po’ quello che avviene nel balletto di Prokof’ev, dove un astuto buffone, per estorcere denaro ad altri sette giullari li invita a casa propria e finge, di fronte a loro, di uccidere la moglie – rifiutatasi di apparecchiare la tavola –, senonché la donna, dopo qualche colpo di frusta infertogli dal marito, riprende vita e si mostra obbediente. I sette invitati – credendo di aver trovato il modo di dare un’analoga lezione alle loro mogli – comprano a peso d’oro la frusta e, tornati a casa, uccidono le rispettive consorti, le quali ovviamente, nonostante le frustate, non ritornano in vita. Ma questo non è che l’inizio di una serie di rocambolesche vicende, che vedranno i sette sprovveduti buffoni soccombere agli intrighi dell’astuto protagonista. Lavoro di carattere satirico e crudele, tipicamente russo, ispirato a un racconto tratto dalla raccolta di Antiche fiabe russe di Alexander Afanas’ev, Chout si fonda su una musica, piena di trovate strumentali e di spunti sarcastici, sfoggiando un’orchestrazione di grande brillantezza. Più che alla Sagra della primavera il compositore parve ispirarsi a Petruška, che lo aveva interessato anche per il sadismo inflitto al povero burattino. Di grande impatto sonoro l’interpretazione offerta da Kochanovsky, che con un gesto di espressionistica potenza ha guidato la nutrita compagine orchestrale lungo questa partitura piena di fantasia e di brio, con vari elementi tratti dal folklore russo: ‘barbariche’ le sonorità dell’ampia sezione delle percussioni, ma effetti percussivi e metallici erano prodotti anche dal pianoforte e dalle due arpe. Dopo l’iniziale sferragliare dell’orchestra, le varie scene si sono succedute tra scintillanti invenzioni sonore, dissonanze, asperità, soluzioni poliritmiche, frequenti reiterazioni dal carattere meccanico: protagonisti gli ottoni con le loro potenti sonorità e i violini spesso proiettati nel registro acuto o suonati sul ponticello. Non sono, comunque, mancati momenti di malinconico lirismo, che denotavano una sottile ricerca armonica e timbrica.
Quanto al Lago dei cigni, il primo dei grandi balletti di Čajkovskij è uno dei caposaldi del balletto classico, per quanto sia stato inizialmente sfortunato. Composto tra il 1875 e il 1876 e andato in scena con scarso successo al Bol’šoj di Mosca il 4 marzo 1877, si affermò solo grazie al celebre allestimento di Petipa e Ivanov, proposto al pubblico dopo la prematura morte dell’autore nel 1894 (limitatamente al secondo atto) e nel gennaio 1895 (completo). La vocazione a comporre musica per balletto consentì a Čajkovskij di rinnovare questo genere in modo geniale fin dalla prima esperienza, che anche per la sua originalità e novità fu scarsamente compresa. Congeniale alla sensibilità di Čajkovskij era certamente il soggetto del balletto: l’amore infelice tra il principe Siegfried e Odette, una sventurata fanciulla, costretta, per un crudele incantesimo, a trasformarsi durante il giorno in un cigno; un amore che si conclude con la morte dei due giovani, uniti per sempre. Per la coerenza drammatica, il respiro sinfonico e l’intensità espressiva, il primo balletto di Čajkovskij rivela complessità e inquietudini fino ad allora sconosciute dal genere, rese con suprema eleganza. Ne ha offerto un esempio, nel corso della suggestiva interpretazione del maestro russo, il tema più celebre del balletto: un tema fondato su una sequenza discendente in minore – ad evocare l’infausto destino – e legato ai cigni e a Odette: presentato nel Preludio dall’oboe – prima di un movimento agitato, ad evocare il sortilegio del mago Rothbart ai danni della fanciulla – è tornato più volte in momenti particolarmente drammatici, assumendo sempre maggiore forza drammatica. Comunque nel balletto c’è spazio anche per episodi brillanti e divaganti (divertissements), come la festa per il compleanno di Sigfrido nel primo atto, dove l’Orchestra ha sfoggiato un giusto accento elegante e spensierato. Straordinaria la prestazione del primo violino di Miriam Dal Don, nell’evocare l’incontro fatale fra il principe e Odette, nel secondo atto: dopo un’introduzione, in cui si è messa in luce l’arpa, il violino solo ha intonato con grazia e leggerezza – ma, al tempo stesso, con intensità emotiva – lo struggente tema lirico a lui affidato; un tema che nel corso della elaborazione successiva è stato ripreso con analoga finezza interpretativa dal violoncello. Il tema del cigno è risuonato ancora verso la fine – tratto dalla parte conclusiva del breve quarto atto, dalla drammaticità straordinariamente sobria e concisa –, qui intonato, a mo’ di apoteosi, dalle trombe in modo maggiore, seguito dalla cadenza conclusiva tra gli ultimi ghirigori dell’arpa. E a una vera apoteosi si è assistito anche dopo la fine dello spettacolo, quando il pubblico ha salutato degnamente il direttore e gli orchestrali.
Disc 1: Concerto for Violin and Winds (1970); Concerto for Violin and Strings (1977) Philharmonia Orchestra. David Parry (direttore). Cristina Anghelescu (violino).
Disc 2: Cello Concerto (1997). Albany Symphony Orchestra. David Alan Miller (direttore). Anthony Ross (violoncello).
Registrazione: 29 giugno-3 luglio 1998 presso la Henry Wood Hall di Londra (Concerti per violino); 22 aprile 2001 presso la Troy Savings Bank Music Hall, Troy, NY (Concerto per violoncello). T. Time: 64′ 37″ (CD1) 29′ 40″ (CD2). 2 CD Lyrita SRCD.24223
Di formazione violinistica, George Lloyd, della cui vita e attività si è già parlato a proposito della nostra recensione sui Concerti per pianoforte, dedicò al suo strumento soltanto due concerti nei quali è possibile notare la sua profonda conoscenza delle possibilità tecniche del violino. Composto nel 1970, il Concerto per violino e fiati, che sarebbe stato eseguito per la prima volta soltanto quasi trent’anni dopo nel 1998 in occasione di questa incisione, presenta un insolito organico costituito dai soli fiati (tre flauti di cui il terzo con obbligo di ottavino, due oboi, il corno inglese, due clarinetti, un clarinetto basso, due fagotti, un controfagotto, due corni, due trombe e due tromboni) e si segnala per il carattere vivace dei due movimenti esterni, marcati il primo Con Brio e Grazioso il terzo, e per l’intenso lirismo di quello centrale, Lento. Inoltre, il particolare organico non disturba affatto il violino, che potrebbe sembrare a prima vista poco a suo agio con i fiati, ma che invece emerge sempre con grande personalità. Un organico più tradizionale, e, oserei dire, di ascendenza barocca presenta il Concerto per violino e archi, il quale ebbe una fortuna migliore del fratello maggiore. Composto nel 1977, fu, infatti, eseguito per la prima volta, il 5 gennaio 1986, sotto la direzione del compositore con la BBC Philharmonic Orchestra, nello Studio 7 della New Broadcasting House, Manchester con Manoug Parikian in qualità di solista. In quattro movimenti il Concerto si apre con un suggestivo Lento, nel quale inizialmente il solista e gli archi dialogano in una scrittura drammatica che conduce a una episodio sinistro. Questo clima si rasserena nel successivo Con Brio, pagina nella quale il solista mette in mostra tutte le sue doti virtuosistiche, per assumere un carattere poetico e quasi elegiaco nel terzo movimento (Largo). Nell’ultimo movimento, Vivace, il ritmo di tarantella del tema principale contrasta con la ripresa di elementi del primo movimento che qui assumono la forma di una fanfara. In questa incisione, pubblicata dall’etichetta Lyrita, i due concerti sono eseguiti, rispettivamente, dalla sezione dei fiati e da quella degli archi della Philharmonia Orchestra sotto la direzione di David Parry che non solo stacca dei tempi adeguati, ma riesce a trovare soprattutto nel Concerto per violino e fiati delle sonorità tali da non soverchiare mai il solista con il quale riesce bene ad amalgamarsi. Splendida la perfomance di Cristina Anghelescu che mostra la sua grande abilità tecnica nei movimenti di carattere virtuosistico e una cavata molto espressiva in quelli lenti.
Il secondo CD di questa proposta discografica dell’etichetta Lyrita è dedicato al Concerto per violoncello e orchestra, che, composto nel 1997, un anno prima della morte, si configura quasi come un testamento spirituale del compositore che all’epoca aveva 85 anni. Il Concerto appare venato da una profonda malinconia sin dal primo movimento Violante, doloroso, la cui parte iniziale ricorda il movimento centrale del Quarto concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven. Nel secondo movimento, di carattere vivace, si può ascoltare una splendida ed espressiva cadenza, mentre il terzo movimento, Adagio, conquista per la bellezza della malinconica melodia affidata al solista. Un carattere pastorale, realizzato anche attraverso l’uso delle doppie corde nella parte del solista, informa il quarto movimento, Andante. Ad esso segue un altro movimento vivace (Vivo) che conduce a un Moderato che prelude al Largo conclusivo nel quale ritorna in una forma rivisitata il materiale tematico del primo movimento. Ad eseguire questo concerto è la Albany Symphony Orchestra sotto la direzione di David Alan Miller che, come il suo collega, stacca tempi adeguati e trova sonorità altrettanto adeguate. Dotato di una solida tecnica, Anthony Ross risolve con grande facilità i passi virtuosistici del concerto e sfoggia una cavata intensa ed espressiva in quelli di carattere lirico.
Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2024-2025
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro atti su libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier GREGORY KUNDE
Carlo Gérard FRANCO VASSALLO
Maddalena di Coigny MARIA AGRESTA
La mulatta Bersi MARA GAUDENZI
La contessa di Coigny FEDERICA GIANSANTI
Madelon MANUELA CUSTER
Roucher ADRIANO GRAMIGNI
Pietro Fléville e Fouquier-Tinville NICOLÒ CERIANI
Il sanculotto Mathieu VINCENZO NIZZARDO
Un “incredibile” RICCARDO RADOS
L’abate poeta DANIEL UMBELINO
Dumas TYLER ZIMMERMAN
Schmidt JANUSZ NOSEK
Il maestro di casa MARCO SPORTELLI
Una pescivendola EUN YOUNG JANG
Flando Fiorinelli ANDREA MAURI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Giancarlo Del Monaco
Scene Daniel Bianco
Costumi Jesús Ruiz
Luci Vladi Spigarolo
Torino, 22 giugno 2025
Ultimo titolo della stagione 2024-25 e primo affidato ad Andrea Battistoni in qualità di direttore musicale del teatro Regio di Torino “Andrea Chénier” torna a Torino con una produzione di gran lusso che pur non avendoci convinto pienamente in tutte le componenti si conferma dimostrazione di qualità produttiva e d’impegno artistico assolutamente encomiabili. Battistoni mostra già ottima sintonia con i complessi torinesi che gli garantisce una perfetta tenuta tra palcoscenico e orchestra. Sul piano esecutivo notiamo un forte senso teatrale e uno spiccato gusto per i contrasti. Particolarmente riuscite sono le scene più liriche dove la direzione raggiunge notevoli picchi di partecipazione emotiva – esemplare in tal senso “La mamma morta” in perfetta sintonia con lo straziante lirismo del canto dell’Agresta – mentre altrove si lascia un po’ trascinare. L’inizio del secondo atto e la conclusione dello stesso sono resi con un andamento fin troppo precipitoso. Molto buona la prova dell’orchestra e sempre magnifica quella del coro assai impegnato anche sul versante attoriale. La prova di Gregory Kunde ha del miracoloso. Certo a più di settant’anni qualche ruga si nota, specie nel settore medio-grave, ma appena la linea sale trova uno squillo e una fermezza che vince ogni sfida del tempo. L’interprete è poi perfettamente padrone del personaggio. Il suo è uno Chénier autentico poeta, lontanissimo dalla prosopopea retorica di una certa tradizione sostituita da una sincerità di accento e da una spontaneità espressiva che non possono che conquistare. Maria Agresta è però la vera trionfatrice della serata. Voce schiettamente lirica evita ogni forzatura, non cerca una drammaticità che è estranea alla sua voce ma piega il ruolo alle sue qualità con grande intelligenza. La voce di luminoso lirismo è sfruttata con somma intelligenza da un fraseggio che scava ogni cifra del personaggio rendendone la maturazione progressiva con rara sensibilità. Quando poi si arriva ai momenti più drammatici la sincerità espressiva del canto dell’Agresta giunge immancabilmente a commuovere. Splendidamente accompagnata da Battistoni risulta emozionante fino alle lacrime nella grande aria del III atto.Franco Vassallo ha sicuramente una voce possente ma come interprete è un po’ monocorde, più feroce rivoluzionario che idealista schiacciato dalle disillusioni. Rende bene nei momenti più drammatici e concitati ma nei grandi squarci lirici di “Io della Redentrice figlio” o “Io t’ho voluto allor che tu piccina” risulta troppo prosaico, priva di quell’abbandono che certe melodie naturalmente richiedono. Molto buone – al netto del troppo flebile Abate di Daniel Umbelino – le parti di fianco. Forse nessuna oggi conosce la parte di Madelon come Manuela Custer è nessuna sa imprimere al personaggio una tale icasticità teatrale pur nella brevità della parte. Federica Giansanti è una Contessa sfumata ed espressiva, Mara Gaudenzi una Bersi di carattere e forte presenza teatrale. Vicenzo Nizzardo dona a Mathieu una bella linea vocale e un’interpretazione sobria e senza fronzoli; voce ricca e di bel colore per il Roucher di Adriano Gramigni e ben centrato l’Incredibile di Riccardo Rados. La regia di Giancarlo Del Monaco è sicuramente più divisiva. Il regista parte da una concezione fortemente pessimistica della storia che nega ogni valore al progresso umano e in cui ogni illusione si trasforma in orrore, ogni libertà in tirannide. Dopo un primo atto sostanzialmente tradizionale l’irrompere di militari armati di mitragliatrici cambia il passo dell’opera. I tre atti successivi rinunciano a ogni colore, a ogni luce. Sono cupe muraglie di cemento, torrette di guardia, grate che ovunque opprimono. Le epoche si mischiano. Il Settecento si fonde con gli anni della II guerra mondiale e questi con la nostra contemporaneità. Tutto può fondersi perché tutto è solo oppressione e squallore. Resta solo l’amore come speranza di fuga – se non di redenzione – individuale.Lettura condotta con assoluta coerenza registica e con rara capacità di lavoro attoriale – si vedano i gesti minuti, quasi rallentati con cui Chénier e Maddalena tentano di sfuggire ai fari delle sentinelle. Il rischio è però quello di un’eccessiva cupezza, di una mancanza di contrasti che rischia di spegnare quasi l’attenzione. Resta da chiedersi se serva davvero tutto questo insistere su una violenza mostrata con gusto quasi voyeuristico – Bersi freddata alle spalle mentre tenta di raggiungere la padrona, questo voler appiattire tutto su un presente diretto e immediato anziché lasciare alla sensibilità del pubblico di ricostruire la trama che lega passato e presente e l’eternità dolorosa degli affetti umani. Risposte che forse non esistono se non nell’intima sensibilità di ognuno.
Roma, Caracalla Festival 2025
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
Tony MAREK ZUROWSKI
Maria SOFIA CASELLI
Anita NATASCIA FONZETTI
Bernardo SERGIO GIACOMELLI
Riff SAM BROWN
Qui il resto del cast
Coreografie Sasha Riva e Simone Repele
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Regia Damiano Michieletto
Direttore Michele Mariotti
Orchestra e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 05 luglio 2025
Il nuovo allestimento di West Side Story presentato dal Teatro dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla, con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Michele Mariotti, si inserisce con decisione nel filone delle riletture radicali. La regia di Michieletto intende liberare West Side Story da ogni tentazione nostalgica, trasferendola in un presente segnato da disillusione, fratture sociali e sorveglianza diffusa. La scena – una piscina in disuso, crepata e invasa da detriti – delinea un paesaggio post-urbano, desolato ma non privo di riferimenti simbolici. Al centro, la fiaccola spezzata della Statua della Libertà suggerisce una visione corrosa dell’ideale americano, evocato nella sua rovina più che nella sua promessa. L’allestimento, così concepito, stabilisce un suggestivo parallelismo con le stesse Terme di Caracalla, nate come complesso termale monumentale, ricco di vasche e piscine: una piscina scenica dentro le rovine di piscine reali, metafora di un doppio collasso – storico e ideologico – che interroga lo spettatore su ciò che resta, oggi, dei miti fondativi della collettività. Siamo lontani dalla New York realistica dell’originale: Jets e Sharks si muovono in uno spazio allegorico, sospeso tra degrado e astrazione. Questa scelta, pur coerente nella sua radicalità, si scontra in alcuni momenti con l’impianto lirico dell’opera, ancorato a una dimensione relazionale. Il linguaggio musicale di Bernstein e il testo di Sondheim esprimono tensione emotiva e desiderio: elementi che, a tratti, faticano a trovare corrispondenza nell’estetica spoglia della regia. Non sempre questa distanza si traduce in tensione drammaturgica: nei passaggi più intimi, la rarefazione scenica rischia di ridurre la parola a superficie, privandola di peso. Michele Mariotti, dal podio, affronta la partitura di Bernstein con una visione lucida, strutturalmente solida e musicalmente ispirata, restituendone appieno la ricchezza timbrica e la varietà stilistica. Jazz, sinfonismo novecentesco, idiomi latini, Broadway song e complesse architetture poliritmiche scorrono in un flusso coerente, articolato con rigore analitico e naturalezza interpretativa. L’orchestra risponde con grande reattività a ogni cambiamento di clima espressivo, restituendo la stratificazione del tessuto sonoro con precisione e duttilità. La direzione evita ogni forma di compiacimento o retorica, rifiutando tanto l’enfasi cinematografica quanto il neutralismo sinfonico. Ogni sezione – dagli ottoni alle percussioni, dai legni alla sezione ritmica – è valorizzata come voce autonoma, funzionale alla drammaturgia interna della partitura. Il fraseggio orchestrale è cesellato, le dinamiche finemente sfumate, il bilanciamento timbrico sempre attento alla costruzione narrativa del suono. Ma il dato più rilevante è forse la sua relazione con la scena: Mariotti mantiene un contatto costante e partecipato con i cantanti, sostenendoli con una direzione flessibile e generosa, capace di adattarsi al gesto vocale e alla parola drammatica. Marek Zurowski interpreta Tony con voce ampia, ben proiettata, e una linea lirica morbida, non sempre pienamente controllata ma capace di sostenere l’eloquenza emotiva del personaggio. La sua presenza scenica è marcata da una fisicità evidente, che non cerca di nascondere ma anzi espone con naturalezza, anche quando risulta talvolta più impattante che realmente calibrata rispetto alla fragile idealità di Tony. La lettura resta ancorata a un modello narrativo tradizionale – l’innocente travolto dalla passione e dal rimorso – che la regia non si cura di mettere in crisi. L’interpretazione è professionale, sincera, ma priva di ambiguità o torsioni interiori. Sofia Caselli presta a Maria un timbro limpido, una tecnica solida e un’intenzione interpretativa calibrata. Il suo fraseggio è corretto, l’intonazione precisa, il registro acuto ben gestito. Ma anche qui il personaggio rimane imprigionato in un ruolo simbolico: figura eterea e pacificatrice, portatrice di un’innocenza che la scena, peraltro, rende impossibile. Il conflitto tra testo e ambientazione è irrisolto: la Maria cantata non corrisponde mai davvero a quella che si vede. Molto più centrata, invece, l’interpretazione di Natascia Fonzetti, che nel ruolo di Anita riesce a spezzare la cornice archetipica. La sua vocalità è piena, potente, il ritmo è impeccabile, l’espressività misurata ma penetrante. In America il suo corpo e la sua voce costruiscono un personaggio consapevole, ironico e lucido, perfettamente integrato nel linguaggio scenico. Sergio Giacomelli (Bernardo) e Sam Brown (Riff) offrono prove solide: il primo con voce brunita e asciutta, il secondo con energia ritmica e controllo scenico. Per tutti gli interpreti si percepisce una maggiore disinvoltura nelle parti cantate, mentre la componente recitativa appare in alcuni casi meno rifinita e omogenea nel tono e nell’intenzione. In linea il resto del cast. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele abbandonano del tutto la grammatica di Robbins, elaborando un linguaggio nervoso, frammentato, fatto di strattoni, rigidità, collisioni. Il corpo non è più veicolo di liberazione, ma dispositivo di tensione e contenimento. Una scelta coerente con la visione registica, ma che accentua la sensazione di spaesamento emotivo. Questo West Side Story non è certo un’operazione nostalgica, né tantomeno un esercizio di calligrafia teatrale. È, piuttosto, un tentativo – per molti versi lodevole – di reiniettare senso politico e urgenza estetica in un’opera iconica, anche a costo di esasperarne le frizioni. Che il risultato sia irrisolto, talvolta incoerente, non ne inficia la necessità. L’opera di Michieletto ha almeno il merito di non rifugiarsi nel comfort della filologia né nella grazia inoffensiva del citazionismo. I personaggi restano prigionieri dei loro archetipi come cavie in un esperimento semiotico, ma l’apparato complessivo – musicale, visivo, coreografico – insiste nel porre domande, anche quando pare ignorare le risposte. E se la fiaccola della libertà viene rappresentata a pezzi, con zelo quasi didattico, forse è proprio perché si è ormai smesso di credere che possa scaldare. Al massimo, illumina – brevemente – il bordo delle crepe. Photocredit: Fabrizio Sansoni / Teatro dell’Opera di Roma
Ich bin in mir vergnügt BWV 204 si suppone sia stata composta tra il 1727 e il 1728, ma non è chiaro quale potesse essere il suo scopo originario. Il testo, adattato da un libretto di Christian Hunold (1681-1721), è uno dei più soggettivi e introspettivi tra quelli composti da Bach.
Di certo è una partitura poco considerata, forse per la natura personale del testo, o forse per l’apparente mancanza di varietà vocale, visto che si tratta di composizione per soprano impegnata in tutti gli otto movimenti. Un’altra ragione potrebbe essere il fatto che, come abbiamo detto, non ne sappiamo la destinazione. Certamente contiene temi che vengono regolarmente esplorati nelle cantate religiose, come ad esempio l’affermazione che la ricchezza non porta felicità o appagamento spirituale e la soddisfazione che si può trarre dalla pace interiore di accettare la parola di Dio e le sue leggi. Ma queste argomentazioni non sono incentrate su un giorno particolare o su un tema dell’anno ecclesiastico; né Dio, o la nostra lode e apprezzamento dei suoi benefici, sono il punto focale del testo. Si tratta piuttosto di un’opera che guarda all’interno della psiche umana, esplorando nozioni sul comportamento personale, sugli atteggiamenti e sulla ricerca di conforto spirituale e pace interiore. Le quattro arie, raggiungono un senso di varietà e contrasto attraverso diverse combinazioni strumentali. Le due centrali fanno ricorso rispettivamente a un violino e a un flauto come strumenti obbligati, mentre quelle esterne sono leggermente più ricche, la prima per due oboi e l’ultima per orchestra d’archi e flauto. In questo alternarsi di recitativo-aria ascoltiamo la prima (Nr.2) che inneggia alla calma interiore, splendidamente accompagnata da due oboi che si intrecciano. La seconda (Nr.4) riprende il tema della ricchezza mondana che implica la povertà spirituale (e viceversa) e qui la bella linea vocale dell’aria è accompagnata da un brillante violino solista. Segue il messaggio dell’appagamento attraverso la comunione con Dio e qui l’aria (Nr.6) fa brillare il flauto. Il recitativo finale continua il tema del denaro come radice del male e si sviluppa in arioso in cui anche gli amici della vita mondana sono giudicati inaffidabili. L’aria finale (Nr,8), che amplifica il messaggio, ossia che la vera felicità deriva dall’unione con Dio, è uno dei più bei brani musicali del repertorio bachiano. Il compositore l’ha utilizzata nuovamente nella Cantata BWV 216/3 e BWV 216a/3 e forse anche nella perduta Passione di San Marco.