Roma, Teatro Vascello
RAINBOW vince il ROMA FRINGE FESTIVAL 2025
Roma, 28 luglio 2025
Rainbow illumina il Roma Fringe Festival 2025 senza fare rumore, con la naturalezza delle cose inevitabili. Francesco Rivieccio, autore e interprete, porta in scena una storia che non ha bisogno di effetti: poche parole, pochi gesti, e quel silenzio denso che il teatro vero conosce bene. È il racconto di una famiglia, ma anche di una guerra che sembra non avere confini né ragioni. Una guerra che non appartiene ai manuali di storia, ma a quella zona sospesa in cui ci si accorge di combattere senza sapere perché. La giuria lo ha detto chiaramente: “Sembra un verso di De André”. E in effetti, guardando Rainbow, si ha la sensazione di ascoltare una ballata muta, dove i fatti non spiegano nulla ma lasciano intravedere tutto. Con questo linguaggio essenziale e preciso, Rivieccio si è aggiudicato il titolo di Miglior Spettacolo del Roma Fringe Festival 2025, conquistando la giuria all’unanimità. La compagnia porterà ora Rainbow in tournée per dodici repliche nella stagione 2025/2026 nei teatri del circuito Zona Indipendente, trasformando una vittoria in un viaggio. Ma il trionfo non si ferma qui: lo spettacolo ha ricevuto anche il Premio della Critica per «la capacità di comporre, con pochi segni scenici, un’affabulazione densa e misurata» e il Premio Alessandro Fersen, che celebra le opere capaci di guardare oltre il teatro stesso. Intorno a questo successo, il Fringe ha distribuito altri riconoscimenti che fotografano la varietà e l’audacia della scena indipendente: Miglior Regia a Tanto Ormai di Adriano Gardumi, Miglior Drammaturgia a Cawboys, Miglior Attrice a Manuela Fischietti, Miglior Attore a Vincenzo Ricca, Premio Speciale Off a Ludopazza, Premio Spirito Fringe ad Azione Immediata. Premi che più che classifiche somigliano a coordinate di una mappa in continuo movimento. A scegliere Rainbow è stata una giuria di spessore: Manuela Kustermann, Raffaella Azim, Pierpaolo Sepe, Giancarlo Fares, Valentino Orfeo e Pasquale Pesce per la Fondazione Alessandro Fersen. Per il Premio della Critica, invece, hanno deciso Katia Ippaso, Letizia Bernazza e Laura Novelli, tre sguardi che hanno riconosciuto nella semplicità dello spettacolo una densità rara. E poi c’è il contesto. Il Roma Fringe Festival, nato nel 2012 e diretto da Fabio Galadini, resta un festival che vive senza finanziamenti pubblici, sostenuto solo dalla fiducia ostinata di chi pensa che il teatro non debba essere un ornamento, ma una necessità. Galadini lo ha detto con parole semplici e dirette: «Sono sinceramente soddisfatto del livello altissimo di questa edizione. Il Fringe resta libero, radicale, vitale». In tempi in cui tutto sembra richiedere un ritorno immediato, il Fringe resiste come un gesto di lentezza e urgenza insieme. Così, mentre cala il sipario su questa edizione, Rainbow non è soltanto il titolo di uno spettacolo vincitore. È il segno di un teatro che non pretende di spiegare il mondo, ma sa restituirlo nella sua disarmante verità. E forse è per questo che, alla fine, si esce dal Vascello senza applausi fragorosi nella testa, ma con la sensazione sottile che qualcosa, nel silenzio, abbia cominciato a cambiare.
La 46a edizione del Rossini Opera Festival si terrà a Pesaro dal 10 al 22 agosto 2025. Saranno proposte quattro produzioni liriche. Inaugurerà il Festival un nuovo allestimento di Zelmira (titolo che mancava al ROF dal lontano 2009), diretto da Giacomo Sagripanti e messo in scena da Calixto Bieito, al debutto al Festival. Seguirà un’altra nuova produzione, L’Italiana in Algeri, affidata alla bacchetta di Dmitry Korchak e alla regia di Rosetta Cucchi. Due le riprese: La cambiale di matrimonio già vista con successo al ROF 2020 e nella successiva tournée in Oman, ideata da Laurence Dale e questa volta diretta da Christopher Franklin, nonché Il viaggio a Reims nella consueta versione ideata da Emilio Sagi, diretta da Alessandro Mazzocchetti e interpretata dagli allievi dell’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”. Nel programma concertistico sono presenti diverse rarità: le tre Cantate Il pianto di Armonia sulla morte di Orfeo, La morte di Didone e Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron saranno eseguite in prima assoluta nell’edizione critica della Fondazione Rossini; la Messa per Rossini, proposta da Giuseppe Verdi poco dopo la morte del compositore e scritta nel 1869 da autori vari (tra cui lo stesso Verdi, Lauro Rossi, Carlo Pedrotti e Carlo Coccia), che chiuderà l’edizione 2025. Le tre prime serate del Festival saranno trasmesse in diretta su RaiRadio3.
In allegato tutto il Festival in dettaglio
Johann Sebastian Bach (1685 –1750): Partita No. 6 in E minor BWV 830; Chaconne from Partita No. 2 in D minor BWV 1004; Chromatic Fantasia and Fugue in D minor BWV 903. Lea Suter (clavicordo). Registrazione: 25-27 giugno 2024 presso la Konzerthaus der Abtei Marienmünster. T. Time: 54‘02. 1 CD MDG LC 06768
“Lo strumento preferito da Bach era il clavicordo. Dei cosiddetti «Flügel» disse che, quantunque anch’essi si prestassero ad una notevole varietà di espressioni, secondo lui non avevano anima ed i fortepiani erano ai suoi tempi ancora troppo poco perfezionati e troppo pesanti per soddisfarlo completamente. Considerava perciò il clavicordo come il miglior strumento sia per lo studio, sia, in generale, per la musica in famiglia. Sul clavicordo gli riusciva più facile esprimere i suoi pensieri più delicati e non credeva di poter ottenere su un clavicembalo o un fortepiano le molteplici sfumature del suono, realizzabili invece sul clavicordo, strumento certo non molto sonoro, ma nei suoi limiti estremamente malleabile”.
Quanto affermato da Forkel, nella sua biografia di Bach realizzata grazie alla testimonianza di Carl Philipp Emanuel, mostra l’alta considerazione del compositore di Eisenach per il clavicordo, strumento particolarmente amato anche, del resto, anche dal figlio il quale nel suo Saggio di metodo per la tastiera, sentenziò: “è dunque sul clavicordo che si può meglio giudicare chi suona uno strumento a tastiera”. In base a queste considerazioni è di particolare interesse la presente proposta discografica dell’etichetta tedesca MDG che propone l’ascolto di due capolavori di Bach per strumento a tastiera (la Sesta partita in mi minore e la Fantasia e Fugue in re minor BWV 903) e uno per il violino, la famosa Ciaccona dalla Seconda partita per violino solo, che, comunque, ha avuto e ha, ancora oggi, una vita anche sugli strumenti a tastiera e, in particolar modo, sul pianoforte grazie alla celebre trascrizione di Ferruccio Busoni. In questo caso, questo brano, il cui originale caratterizzato da doppie corde si presta a un’esecuzione su uno strumento a tastiera, è eseguito sul clavicordo, strumento che, per la verità, appare forse più vicino all’intenzione originaria di Bach, in quanto capace, come il violino, non solo di tenere i suoni, ma anche di “vibrare”. Questo repertorio è magistralmente eseguito da Lea Suter la quale, su una copia di un Adlung realizzata nel 2002 da Joris Potvlieghe, sfoggia sia una solida tecnica sia un bel tocco che le permette di evidenziare bene la polifonia costitutiva di alcuni brani, come la fuga della Fantasia cromatica, e di alcuni passi, ma anche il carattere espressivo di altri più lirici, come la bellissima Sarabanda della Sesta partita.
Nel 1729, Bach assunse la direzione musicale di una serie di concerti a Lipsia noti come Collegium Musicum, un termine generico utilizzato in Germania per indicare concerti (generalmente) semiprofessionali e spesso informali, normalmente basati sulla produzione musicale degli studenti. All’epoca di Bach esistevano due organizzazioni di questo tipo, quella in cui fu coinvolto era stata fondata da Telemann nel 1702. Questi concerti prevedevano generalmente l’esecuzione di opere strumentali e (i suoi concerti per tastiera erano destinati al Collegium Musicum) e di opere vocali profane di piccole dimensioni. Per occasioni importanti venivano invece eseguite opere più ampie. A questa categoria rientra la Cantata profana n. 201 (“Rientrate, o venti turbinosi” o “Il combattimento tra Febo e Pan”) composta nello stesso anno in cui Bach assunse la direzione. Il testo, un adattamento di un episodio delle Metamorfosi di Ovidio, è di Picander, pseudonimo del poeta Christian Friedrich Henrici con il quale Bach aveva avviato un proficuo periodo di collaborazione che porterà alla produzione delle Passioni di San Matteo e San Marco, ma anche svariate cantate sacre e profane. La designazione della partitura come dramma per musica è rivelatrice, in effetti, come altre cantate profane di Bach, “Febo e Pan” potrebbe essere considerata un’opera in miniatura, la più vicina a un genere che il compositore non ha mai esplorato. La trama, probabilmente ricca di allusioni contemporanee, prevede una satira poco velata sulla scarsa qualità della musica e del canto. Febo e Pan si arrabbiano a vicenda con pretese di superiorità vocale. Il loro litigio viene interrotto da Momus (soprano), che si prende gioco di Pan. Alla fine Mercurius (contralto) propone una gara di canto, aperta da una bellissima aria per Phoebus. Pan, al contrario, si rende ridicolo grazie all’uso di cliché e di uno stile che allude alla semplice musica galante in voga all’epoca. I due giudici che hanno distaccato i concorrenti (Tmolus per Febo, Mida per Pan) si pronunciano entrambi a favore dei loro committenti. La decisione palesemente assurda di Mida gli vale un paio di orecchie d’asino (e un meraviglioso raglio nell’accompagnamento!) che si aggiungono al berretto da sciocco del suo campione. Il coro iniziale (Nr.1), con una ricca e vorticosa strumentazione vorticosa, traduce quello che esprime il testo. Il primo recitativo (Nr.2) ci mostra Febo e Pan (entrambi bassi) che discutono, mentre Momus (soprano) agisce come voce della saggezza. Momus segue con una bella ma semplice aria, accompagnata dal solo Continui, che prende in giro Pan. Mercurio (contralto) si unisce al divertimento nel recitativo successivo (Nr.4), suggerendo a Pan e Febo di scegliere un giudice e di tenere un contesto. Febo sceglie Tmolo (tenore) e Pan Mida (anch’egli tenore). Inizia la gara! Phoebus inizia con una splendida aria che elogia il “bel Giacinto”, descrive così la sublime profondità del suo animo. La replica di Pan consiste in una brillante (ma meno raffinata) aria Zu Tanze, Zu Sprunge (Nr.7) che deride “l’oscura e malinconica” musica dell’altro. Immediatamente Timolus proclama Febo vincitore: Pan ha delle belle melodie, ma che quella di Febo è “nata dalla grazia stessa” (Nr.9). L’opinione di dissenso di Mida, non suscita grandi consensi, poiché tutti gli danno subito addosso e lo puniscono con un paio d’orecchie d’asino. Mercurio conclude la gara con un’aria riflessiva (Nr.13) che ammonisce coloro che non sanno nulla a non giudicare. In quest’aria spicca l’accompagnamento di straordinaria bellezza di una coppia di flauti. Il recitativo di Momus congeda Mida con una paternalistica pacca sulle spalle e invita Febo a “riprendere in mano la lira”. La partitura si chiude con un Coro che inneggia all’arte di Apollo.
Nr.1 – Coro
Rientrate o venti turbinosi tutti insieme nelle vostre caverne! Cosicchè il canto lontano si confonda con l’eco rendendo felice il cielo.
Nr.2 – Recitativo (Bassi e Soprano)
Febo
E tu saresti così arrogante da affermare
in mia presenza che il tuo canto è più bello del mio?
Pan
Come osi farmi una tale domanda?
L’intera foresta ammira le mie melodie; il coro delle ninfe,
che usano durante le loro danze il flauto a sette canne da me
creato, non possono che confermare che Pan canta meglio
di ogni altro.
Febo
Per le ninfe tu puoi andar bene, tuttavia, se vuoi essere gradito agli dei,
il tuo flauto non basta.
Pan
Appena il mio suono riempie l’aria si muovono le montagne, gli animali ballano, le fronde oscillano e sotto le stelle inizia una danza incantevole: gli uccelli si avvicinano a me e da me vogliono imparare a cantare.
Momus
Eilà! Udite ora Pan, il grande maestro cantore!
Nr.3 – Aria (Soprano)
Amico, quello è solo il vento!
Colui che si vanta e non ne ha i mezzi, che crede vero solo quello che vede, che gli sciocchi sono saggi, che la fortuna stessa è cieca. Amico, quello è solo il vento
Nr.4 – Recitativo (Contralto, Bassi)
Mercurio
Che bisogno c’è di litigare? nessuno di voi si riterrà inferiore all’altro. dopo aver riflettuto un po’ mi sembra che dobbiate scegliere un uomo che possa dare un giudizio di voi due punto, vediamo, chi potrebbe essere?
Febo
Timolus sarà il mio giudice.
Pan
E Mida io lo sarà per me.
Mercurio
Allora venite brava gente, Ascoltate bene e giudicate chi sarà il migliore.
Nr.5 – Aria (Basso/Febo)
Con tanto desiderio io avvolgo le tue guance, gentile e bel Giacinto, e i tuoi occhi vorrei baciare poiché sono le mie stelle del mattino e il sole della mia anima.
Nr.6 – Recitativo (Soprano, Basso 1)
Momus
Pan, Prepara la tua gioia e sentiamo le tue risonanti melodie.
Pan
Farò del mio meglio per mostrarmi più splendido Di Febo.
Nr.7 – Aria (Basso 2)
Pan
È la danza e i salti che commuovono il cuore. Quando invece il canto è troppo triste e la bocca rimane stretta nel cantare, allora nessuna gioia si risveglia.
Nr.8 – Recitativo (Contralto, Tenore 1)
Mercurio
Allora giudici, il vostro parere!
Timolus
Il mio giudizio non è difficile! La verità è ovvia: nessuno tranne Febo dovrebbe vincere il premio! Pan canta per la foresta, senza dubbio piace molto alle ninfe, ma il suo flauto non potrai mai essere valutato tale da eclissare il canto di Febo.
Nr.9 – Aria (Tenore 1)
Febo, la tua melodia è nata dalla grazia in persona. E chi comprende questa arte, la meraviglia dei suoni, si perderà in estasi.
Nr.10 – Recitativo (Basso 1, Tenore 2)
Pan
Su Mida, Dimmi dunque come sono stato io!
Mida
O Pan, quanto mi hai allietato! Il tuo canto mi ha tanto impressionato che me lo ricordo dopo averlo ascoltato soltanto una volta. Andrò nella campagna ad insegnarlo agli alberi. Febo ha troppo esagerato. Solo la tua, la più bella bocca, ha cantato soavemente e senza sforzo.
Nr.11 – Aria (Tenore 2)
Pan è un maestro, ricordatelo bene!
Febo ha perso la competizione perché le mie stesse orecchie mi dicono che Pan canta con incomparabile bellezza.
Nr.12 – Recitativo (Soprano, Contralto, Tenori, Bassi)
Momus
Ma come, Mida, sei pazzo?
Mercurio
Cosa ti ha fatto perdere i sensi?
Timolus
Ho sempre pensato che tu fossi uno sciocco!
Febo
Dimmi, cosa farò di te? Ti trasformerò in un corvo oppure ti scorticherò?
Mida
Oh! Ti prego non tormentarmi, così solo perché le mie orecchie mi hanno tradito!
Febo
Allora da questo momento avrai le orecchie di un asino.
Mercurio
Questo è il premio che merita l’ambizione sciocca.
Pan
Ahimè! perché mi sono messo in questa situazione senza riflettere?
Mida
Quanto mi spiace di aver accettato questo compito.
Nr.13 – Aria (Contralto)
Chi è gonfio di orgoglio e con poco cervello finisce per sopportarne le conseguenze. Colui che non sa navigare e prende in mano il timone, annegherà nel ridicolo e nel disprezzo.
Nr.14 – Recitativo (Soprano)
Momus
Ora caro Mida torna nella tua foresta e consolati che ci sono tanti sciocchi come te. La follia e l’assurdità saranno ora i vicini della saggezza. Chi emette un giudizio senza riflettere bene appartiene alla tua classe.
Febo, prendi ancora la tua lira., niente è più bello del tuo canto!
Nr.15 – Coro
Dilettate il cuore, o corde gentili, suonate con arte e con bellezza. Siano maestri oppure principianti, persino gli dei rimarranno incantati dei dei tuoi dolci suoni.
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“ROBERTO DEVEREUX”
Tragedia lirica in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, dalla tragedia “Élisabeth d’Angleterre” di Jacques-François Ancelot
Musica di Gaetano Donizetti
Elisabetta ROBERTA MANTEGNA
Lord duca di Nottingham NICOLA ALAIMO
Sara ANNALISA STROPPA
Roberto Devereux ISMAEL JORDI
Lord Cecil ENRICO CASARI
Sir Gualtiero Raleigh MARIANO BUCCINO
Un cavaliere GIACOMO MERCALDO
Un familiare di Nottingham CIRO GIORDANO ORSINI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Riccardo Frizza
Regia Jetske Mijnssen
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Scene Ben Baur
Costumi Klaus Bruns
Luci Cor van den Brink
Drammaturgia Luc Joosten
Coproduzione del Teatro di San Carlo, Dutch National Opera, Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia
Napoli, 19 luglio 2025
Al Teatro di San Carlo, va in scena Roberto Devereux: tragedia lirica in tre atti di Gaetano Donizetti. Lo sviluppo teatrale dell’opera appare soprattutto determinato da una costruzione scenografica fortemente «moderna» – progettata da Ben Baur –, che tende a smorzare, almeno «visivamente», l’irrimediabile «tragicità» del capolavoro teatrale donizettiano. La «sala terrena nel Palagio di Westminster» assume, nell’atto primo, la forma di un’elegante camera da letto – così ironicamente «perfetta» da apparire come una particolareggiante ricostruzione scenica di una sontuosa camera d’albergo, nitidamente illuminata da Cor van den Brink. Il dramma, pertanto, vorrebbe assumere la forma di un Kammerspiel – di un «dramma da camera», cioè. Questo, almeno, nelle intenzioni della regista Jetske Mijnssen – da lei, peraltro, sottolineate in una conversazione, con Lucia Licciardi, inserita nel programma di sala. Soltanto che questa concezione soltanto vagamente «intimistica» della figura di Elisabetta I, regina d’Inghilterra – e, in generale, del Roberto Devereux –, appare come un’operazione puramente «estetica», rafforzata dalla scelta di abiti elegantissimi, disegnati da Klaus Bruns. La camera da letto, soltanto nell’atto secondo, viene sostituita da uno stanzone: vaga restituzione di un’altra sala del Palazzo; ma le pareti della camera da letto – vuota, ormai (didascalica allusione alla disperazione o alla condizione di estrema solitudine della Sovrana) – tornano, alla fine del dramma, a occupare lo spazio scenico. La drammaturgia di Luc Joosten e il disegno registico prevedono, inoltre, una «novità»: la trasformazione di Sara, duchessa di Nottingham, in mamma di due bimbe. Se, da un lato, la «novità» costringe il Duca a «mitigare», in presenza delle figlie, il furore emotivo nei confronti della consorte – al momento del Duetto, nell’atto terzo –, dall’altro lato, la presenza delle figlie riesce ad accentuare il sentimento di estrema sofferenza della Duchessa. Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Riccardo Frizza. Egli, sensibilissimo conoscitore della produzione operistica donizettiana, propone un’interpretazione di teatrale «flessibilità», attraverso cui riesce a emergere tutta la modernità strutturale dell’opera; e, fortunatamente, sono state eseguite anche le riprese delle Cabalette. Si tratta, inoltre, di una concezione, in un certo senso, «totalizzante» del dramma: il linguaggio strumentale concorre perfettamente alla febbrile determinazione degli eventi drammatici. Nel ruolo di Elisabetta, Roberta Mantegna. Il soprano affronta opportunamente il ruolo, garantendo alla Sovrana un temperamento teatrale variegato, determinato da momenti di introspezione emotiva (come la Cavatina, nell’atto primo, L’amor suo mi fe’ beata) e da momenti di collera altera e irrimediabile furore: un ritratto psicologico estremamente complesso. L’attrice-cantante, inoltre, riesce agilmente ad affrontare la Cabaletta Ah! ritorna qual ti spero: un momento vocale estremamente funzionale alla determinazione teatrale del personaggio. Occorre, certamente, anche menzionare il momento, drammaticamente potente, della celebre Cabaletta finale, Quel sangue versato, perfettamente affrontato. Si ravvisano, peraltro: un’emissione sempre ferma, una notevole padronanza del registro grave e un fraseggio di particolare e sentita teatralità. Nel ruolo di Sara, Annalisa Stroppa. Il mezzosoprano offre un ritratto psicologicamente pregnante del ruolo, conferendo alla Duchessa di Nottingham una condotta teatrale intrisa di estrema, profonda, «romantica» sofferenza. I patimenti emotivi, sofferti dal personaggio, si traducono in un comportamento scenico inappuntabile, la cui spontaneità viene costantemente sostenuta e vivificata dall’innegabile avvenenza del colore timbrico e dalla «drammaticità» dell’intelligente fraseggio. Tutto ciò è ravvisabile, per esempio, nella Romanza dell’atto primo, All’afflitto è dolce il pianto, e nel Duetto con il Duca, nell’atto terzo, Non sai che un nume vindice. A interpretare Nottingham è, invece, Nicola Alaimo – che riesce a proporre una recitazione estremamente coinvolgente. Non soltanto nel momento di accorata e commovente «mestizia» – la Cavatina, dell’atto primo, Forse in quel cor sensibile –, ma anche nel momento di trascinante «vigore» della Cabaletta Qui ribelle ognun ti chiama – attraverso cui manifesta, al Conte d’Essex, l’assoluta fedeltà del sentimento amicale che lo pervade. I tormenti del Duca, già ravvisabili nella summenzionata Cavatina, toccano un’opportuna acme espressiva al momento del già citato Duetto. Il registro acuto è, inoltre, attentamente governato, ed emerge una costante e «teatrale» varietà di fraseggio. Nel ruolo di Roberto, Ismael Jordi. Il tenore mostra un’evidente e generale propensione a gestire opportunamente il ruolo, la cui risoluzione avviene attraverso una vocalità appropriata, dal convincente colore timbrico. Soltanto che nell’affrontare la Cabaletta dell’atto terzo, Bagnato il sen di lagrime, non mostra di essere totalmente a suo agio. La determinazione scenica del personaggio avviene, inoltre, attraverso una recitazione non così drammaticamente pregnante – che, pertanto, resta un po’ generica. Completano il cast, ottimamente: Enrico Casari (Lord Cecil), Mariano Buccino (Sir Gualtiero Raleigh), Giacomo Mercaldo (Un cavaliere), Ciro Giordano Orsini (Un familiare di Nottingham). Il Coro, parimenti ottimo e preparato da Fabrizio Cassi, riesce a emergere perfettamente – non soltanto negli interventi introduttivi dell’atto secondo, ma anche quando viene collocato fuori dalla scena, durante la Cabaletta del baritono, nell’atto primo. In definitiva, si è trattato di un Roberto Devereux accolto positivamente dal pubblico napoletano – forse, però, con qualche riserva sulla costruzione scenografica. Foto Luciano Romano
Deutsche Oper Berlin, season 2024/2025
“WERTHER”
Opera in four acts. Libretto by Edouard Blau, Paul Milliet and Georges Hartmann,based on the novel The Sorrows of Young Werther by Johann Wolfgang von Goethe
Music by Jules Massenet
Werther JONATHAN TETELMAN
Charlotte AIGUL AKHMETSHINA
Albert DEAN MURPHY
Sophie LILIT DAVTYAN
Le Bailli MICHAEL BACHTADZE
Schmidt CHANCE JONAS-O’TOOLE
Johann GERARD FARRERAS
Brühlmann JÖRG SCHÖRNER
Käthchen KARIS TUCKER
Kinderchor der Deutschen Oper Berlin
Orchester der Deutschen Oper Berlin
Conductor Enrique Mazzola
Children’s Chorus Christian Lindhorst
Berlin, 23 July 2025
The thirteen-year tenure of Dietmar Schwarz as the director of the Deutsche Oper Berlin is coming to an end, during which a considerable number of French operas were staged, unfortunately none by Jules Massenet. It is therefore commendable that Werther is being performed in two concerts at the end of his era. Due to my lack of language skills, I am not a big fan of the French repertoire. However, the great Russian mezzo-soprano Elena Obraztsova, whom I greatly admire, made Samson et Dalila and Werther extremely accessible to me with her outstanding vocal interpretations of Dalila and Charlotte, alongside her congenial partners Placido Domingo and Alfredo Kraus. So the bar has been set high and, to say it straight away, there is nothing to find fault with the concert performance. Enrique Mazzola was once again engaged as an experienced conductor of bel canto and the French repertoire to lead the Orchester der Deutschen Oper Berlin confidently and transparently through the colourful impressionistic score by conjuring up a particularly beautiful Claire de lune, savouring the musical highlights and finally driving the tension towards the tragic end. I first heard Jonathan Tetelman as Rodolfo at the Komische Oper Berlin six years ago, and it is amazing to see what a meteoric career the American singer of Chilean origin has had since then. He is probably the biggest star in the current spinto tenor firmament and perfectly suited to the challenging and rewarding title role. He rhapsodises and yearns, repeatedly soaring to emphatic stentorian tones without ever losing his musical line. An outstanding performance! The same applies to the young Bashkir singer Aigul Akhmetshina, who lets her beautifully warm mezzo-soprano with a slight Slavic touch convey all of Charlotte’s emotional highs and lows. I would argue that she already continues the tradition of Irina Arkhipova or Elena Obraztsova. Armenian singer Lilit Davtyan has a beautiful, crystal-clear coloratura soprano, which she uses to great effect for Charlotte’s sister Sophie and excels particularly in her two arias. Dean Murphy, who recently stood out as the Herald in Lohengrin and Prince Yeletski in The Queen of Spades, makes the most of the thankless role of Albert, Charlotte’s fiancé and husband. Other members of the Deutsche Oper ensemble contribute to the perfect success of the concert evening, such as Georgian baritone Michael Bachtadze as Bailli, Chance Jonas-O’Toole and Gerard Farreras as his friends Schmidt and Johann, Jörg Schörner as Brühlmann and Karis Tucker as Käthchen. The Kinderchor der Deutschen Oper Berlin, rehearsed by Christian Lindhorst, sings at a famously high standard. A magnificent opera night in every respect! Photo Bettina Stöss
Roma, Teatro Romano di Ostia Antica
IFIGENIA
tragedia di Euripide
adattamento Silvia Zarco
regia Eva Romero
con María Garralón (Hécuba), Juanjo Artero (Agamennone), Beli Cienfuegos (Clitennestra) Laura Moreira (Ifigenia), Nuria Cuadrado (Polissena), Alberto Barahona (Ulisse) Néstor Rubio (Águilas), Rubén Lanchazo (Poliméstor, vecchio), Maite Vallecillo (Corifeo, Schiavo di Troia)
scene Elisa Sanz
costumi Elisa Sanz e Igone Teso
composizione musicale Isabel Romero
disegno luci Rubén Camacho
foto Jorge Armestar
produzione Festival di Merida e Maribel Mesón produzione e distribuzione teatrale
Ostia Antica, 25 luglio 2025
“Le parole delle donne uccise pesano anche quando non vengono pronunciate.” (Marcela Lagarde, antropologa e attivista, in Los cautiverios de las mujeres, 1990) In questa frase si racchiude la vibrazione profonda di Ifigenia, l’opera riscritta da Silvia Zarco e diretta da Eva Romero, andata in scena al Teatro Romano di Ostia Antica. La tragedia, frutto di una coproduzione tra il Festival Internacional de Teatro Clásico de Mérida e il Teatro di Roma, con la produzione teatrale curata da Maribel Mesón, non propone una mera riscrittura dei testi di Euripide (Ifigenia in Aulide, Ecuba) ed Eschilo (Agamennone), ma una ricomposizione drammaturgica potente, che colloca al centro due figure sacrificate e dimenticate: Ifigenia e Polissena. Due corpi offerti, due bocche mute, due volti che ritornano per parlare oggi, tra le pietre di Ostia. Silvia Zarco — filologa classica, docente e drammaturga — fonde i tre testi tragici in un’unica struttura narrativa che mette in dialogo le vittime: Ifigenia, la prima offerta per la gloria greca; Polissena, l’ultima offerta per l’onore degli achei. Due ragazze, due figlie, due giovani vite trasformate in simboli di una logica di potere che attraversa i secoli. “La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda”, scriveva Paul Ricoeur in La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000). Ifigenia non rievoca il passato per nostalgia, ma lo interroga per rivelare quanto quel sacrificio sia ancora attuale. La regia di Eva Romero — direttrice della Escuela Municipal de Teatro de Guareña, attivista femminista — non cede alla tentazione dell’estetizzazione. Anzi. Sceglie la spoliazione come linguaggio scenico, lasciando che siano i corpi e le voci a costruire il dramma. Le scene di Elisa Sanz sono essenziali: grandi rocce, disposte come presenze ancestrali, definiscono una spiaggia rituale senza tempo. I costumi, curati da Sanz insieme a Igone Teso, si muovono in una scala cromatica neutra, privi di ogni folclore. Le luci di Rubén Camacho lavorano per incisioni, scolpendo lo spazio come un bassorilievo tragico. La partitura sonora di Isabel Romero — minimale, atmosferica — accompagna il testo con un respiro di attesa e morte. Ma è la parola il vero centro incandescente di questo spettacolo. Il testo di Zarco è tagliente, controllato, poetico senza essere mai decorativo. Le frasi non sono declamate, ma incise. Ogni battuta pesa. Ogni silenzio è carico di significato. La lingua, pur fedele alla tragedia classica, si apre a registri contemporanei che parlano di oggi: della violenza di genere, dell’impunità, della trasmissione del trauma. Non si tratta di attualizzazione forzata, ma di necessità tragica. Come scriveva Simone Weil in La fonte greca (1953), “la tragedia greca è la prima forma d’arte che mostra il male in tutta la sua realtà, senza tentare di giustificarlo”. È esattamente ciò che accade qui. Il cast si distingue per rigore e intensità. Laura Moreira è un’ Ifigenia dolorosa ma non supina: nei suoi gesti trattenuti, nel timbro controllato della voce, c’è la consapevolezza di una morte che non redime, ma denuncia. Nuria Cuadrado dà voce a una Polissena vibrante, che non chiede pietà ma giustizia. Il loro dialogo, pur provenendo da tragedie distinte, si fonde in un’unica traiettoria: sono figlie che rifiutano di morire nel silenzio. María Garralón è una Hécuba maestosa, mater dolorosa che non implora ma inchioda. Il suo dolore è scolpito nella postura e nello sguardo. Beli Cienfuegos, nei panni di Clitemnestra, è una figura di colpa lucida e determinazione ferrea. Juanjo Artero, nel ruolo di Agamennone, costruisce un personaggio credibile e trattenuto, attraversato dal dissidio interno. Alberto Barahona è un Ulisse infido e politico, voce di un potere che calcola. Néstor Rubio interpreta un Achille energico e retto, mentre Rubén Lanchazo affronta con misura i doppi ruoli di Poliméstor e del Vecchio. Maite Vallecillo, intensa come Corifea e come schiava troiana, è filo narrativo e coscienza collettiva. Il ritmo drammaturgico è scandito con intelligenza: non ci sono cadute, né compiacimenti. L’alternanza tra momenti lirici, dialoghi asciutti, cori solenni e improvvisi squarci epici permette allo spettatore di attraversare la tragedia senza mai smarrirsi. Lo spettacolo non cerca effetti né complicità emotive. Chiede rispetto. Chiede ascolto. Chiede memoria. Alla fine, il pubblico del Teatro di Ostia Antica ha risposto con un lungo applauso, preceduto da un silenzio carico come una notte. Ifigenia non è solo una messa in scena riuscita. È un rito laico. Un grido civile. Un monito tragico. Come scriveva Marguerite Yourcenar in Fuochi (1936): “I sacrifici umani non sono mai cessati. Solo hanno cambiato metodo.” Ecco perché questa Ifigenia ci riguarda. Perché dietro ogni mito ci sono ancora domande senza risposta. E dietro ogni tragedia, se è scritta e diretta con questa forza, c’è la possibilità di tornare a vedere. E di non dimenticare. Con Ifigenia, giunge a compimento il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato, prima edizione a cura del Teatro di Roma. Una rassegna che ha restituito centralità al teatro classico nel cuore palpitante del Parco Archeologico di Ostia Antica, con un crescendo di adesione da parte del pubblico e una costante tenuta sul piano artistico. Nonostante alcune difficoltà riscontrate nella lettura dei sopratitoli in lingua italiana – a causa della messa in scena in spagnolo – lo spettacolo ha incontrato un notevole favore da parte degli spettatori, a conferma della vitalità del mito anche nella sua trasposizione linguistica. Ostia Antica si configura dunque non soltanto come spazio della memoria, ma come scena vivente del presente, capace di coniugare il passato con l’urgenza dell’oggi. Per le prossime edizioni, andrà ottimizzata la gestione dei flussi, affinché la forza del mito non sia vanificata da disagi logistici che mortificano l’esperienza dello spettatore.
Roma, Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2024/2025
Terme di Caracalla
“LA TRAVIATA”
Opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave,
da La Dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry CORINNE WINTERS
Flora Bervoix MARIA ELENA PEPI*
Annina SOFIA BARBASHOVA*
Alfredo Germont PIOTR BUSZEWSKI
Giorgio Germont LUCA MICHELETTI
Gastone, Visconte di Létorières CHRISTIAN COLLIA
Il Barone Douphol ROBERTO ACCURSO
Il marchese D’Obigny ALEJO ALVAREZ CASTILLO*
Il Dottor Grenvil MATTIA DENTI
Un commissario ANDREA JIN CHEN
Un domestico MASSIMO DI STEFANO
Giuseppe ENRICO PORCARELLI
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra,Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Slàva Daubnerovà
Scene Alexandre Corazzola
Costumi Ekaterina Hubenà
Coreografia Ermanno Sbezzo
Luci Alessandro Carletti
Nuovo allestimento del teatro dell’Opera di Roma
Roma, 23 luglio 2025
Per la stagione operistica estiva delle Terme di Caracalla l’opera d Roma ha affidato la nuova produzione de “La Traviata” alla bacchetta romana del maestro Francesco Lanzillotta e al debutto dell’avanguardista del teatro sperimentale slovacco Slàva Daubnerovà, regista e performer che si propone come pioniera dell’analisi delle tematiche femminili. Queste scelte si sono rivelate la prima una piacevole e valida conferma di un solido mestiere e di una profonda conoscenza di quanto dovesse essere rappresentato in scena, la seconda a nostro giudizio una meno felice decisione per la sostanziale monotonia della regia al di là delle scelte di impostazione. L’opera viene letta come distruzione del corpo e della psiche della protagonista causata da un abuso infantile, del quale in Verdi non c’è memoria, dalla vita da prostituta e dalla malattia. Per tutti e tre gli atti è ingombrante presenza in scena un brutto busto femminile dorato nel primo atto e poi via via livido e verdastro come per corruzione cadaverica, sul quale Alfredo si arrampica per cantare la sua aria fra la “pompa del suo sen” e che nel terzo atto finalmente si apre. Da dietro la scena una incomprensibile cortina fumogena nasconde la vista delle rovine di Caracalla per tutto lo spettacolo. Lo spettacolo è un continuo di inutili quanto distraenti movimento di figuranti, oggetti, mimi e ballerini che talvolta producono anche rumori e cigolii come il tavolo da gioco che esce nel finale del secondo atto. Il coro viceversa è assolutamente immobile. Inutile soffermarsi sulla descrizione delle molteplici trovate spesso di gusto discutibile. Comprendiamo l’intento programmatico di una artista che con il suo lavoro ha aspirato a rompere gli schemi del teatro di tradizione slovacco ma in un sistema così definito e strutturato come il teatro verdiano questo genere di operazioni non funziona. Quando si abbandona un linguaggio noto e comune senza crearne un altro, il rischio è di cadere nell’ ”insalata di parole” dei pazienti con deficit cognitivi tanto per restare nell’ambito del tema della malattia. E il risultato è spesso costituito dalla noia, dall’incapacità a commuovere o comunque a destare emozioni e dalla scarsa comprensibilità dei propri intenti senza voler entrare nel merito ideologico delle scelte. Il compito dell’avanguardia dovrebbe esser quello di fare per l’appunto l’avanguardia e non di costituirsi in una sorta di nuova accademia nella quale per altro correndo da soli si arriva, o si presume di arrivare, sempre primi per forza di cose. E veniamo finalmente alla parte musicale della serata. Francesco Lanzillotta dirige la partitura con la nota sensibilità, varietà di colori e di dinamiche nonostante i limiti e le difficoltà di una esecuzione amplificata ed effettuata all’aperto, riuscendo a far ritrovare, nonostante quanto avviene in scena, il senso della sintassi verdiana. Il coro diretto dal maestro Ciro Visco conferma anche in questa serata il livello di eccellenza raggiunto. Nel ruolo della protagonista Corinne Winters, sia pur con alcune asprezze del registro acuto, impersona una Violetta intensa e partecipe grazie anche ad un bel fraseggio e ad una convincente presenza scenica nell’ambito della concezione dello spettacolo. Piotr Buszewsky è un Alfredo dal timbro qua e là un po’ nasale e che bisticcia, perdendo quasi sempre, con le insidiose doppie della lingua italiana. Luca Micheletti, decisamente il migliore della serata sul piano vocale per nobiltà del fraseggio e chiarezza di dizione, è un Germont padre inspiegabilmente truccato da giovane ma che si muove da anziano. Corretta la Flora di Maria Elena Pepi del progetto “Fabbrica” e meritevole di menzione il Gastone di Christian Collia per eleganza vocale e bellezza del timbro. Gli altri comprimari sono stati tutti funzionali alla concezione dello spettacolo. Molto interessante abbiamo trovato il bel saggio di Benedetta Craveri proposto nel programma di sala. Alla fine nonostante le perplessità già espresse, il pubblico ha applaudito convinto. La musica funziona e comunica comunque. Photocredit Fabrizio Sansoni Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Castel Sant’Angelo
GIOVANNI PAOLO II, L’UOMO, IL PAPA, IL SANTO
Negli scatti di Gianni Giansanti
A cura di Massimo Bray e Ilaria Schiaffini
Promossa e realizzata da Ministero della Cultura, Istituto Pantheon e Castel Sant’Angelo – Direzione Musei Nazionali della città di Roma
Promossa dalla Presidenza della Commissione Cultura della Camera dei Deputati
Con il patrocinio di: Regione Lazio, Ambasciata di Polonia in Italia, Ambasciata di Polonia presso la Santa Sede, Centro di Documentazione e Studio del Pontificato di Giovanni Paolo II – Fondazione Vaticana Giovanni Paolo II, Pontificio Collegio Polacco
Organizzata da Castel Sant’Angelo in collaborazione con Civita Mostre e Musei e Archivio Giansanti
Con la collaborazione di Rai Teche
Media partnership: Rai Cultura, TV2000
Roma, 24 luglio 2025
«Non si può penetrare il volto senza subirne la luce» — scriveva Emmanuel Lévinas, ponendo l’etica della relazione come fondamento di ogni incontro con l’altro. E se vi è un luogo in cui quella luce si fa immagine, narrazione e memoria, è nello spazio della fotografia. La mostra Giovanni Paolo II, l’uomo, il Papa, il Santo – negli scatti di Gianni Giansanti, ospitata nei silenzi monumentali di Castel Sant’Angelo, si inscrive esattamente in questa tensione: quella tra visibilità e interiorità, tra il documento visivo e la trascendenza incarnata. Lungi dall’essere una semplice retrospettiva fotografica, l’esposizione si configura come un’operazione culturale complessa, che intreccia biografia, storia e iconografia sacra in un’unica traiettoria di senso. Al centro di questo dispositivo narrativo sta la relazione profonda, quasi simbiotica, fra il pontefice Karol Wojtyła e il fotografo Gianni Giansanti: due testimoni del secolo, due figure pubbliche che, pur parlando con linguaggi diversi, hanno saputo farsi interpreti di una medesima urgenza — quella di comunicare, attraverso lo sguardo, la dignità e la fragilità dell’umano. Il percorso visivo, articolato in oltre quaranta scatti selezionati da Ilaria Schiaffini, docente di Storia della Fotografia alla Sapienza Università di Roma, restituisce con sobrietà e potenza i ventisette anni di pontificato di Giovanni Paolo II: dall’elezione nel 1978 ai giorni segnati dalla malattia, passando per eventi epocali come l’attentato del 1981, il Giubileo del 2000, i viaggi apostolici e i momenti di intimità. Ma ciò che colpisce, oltre la sequenza cronologica, è la coerenza stilistica e la profondità etica che attraversano l’intera opera di Giansanti. Il fotografo non documenta semplicemente: interpreta, custodisce, partecipa. Il suo obiettivo non cattura, ma si affida. La sua è una fotografia dell’avvicinamento, mai dell’invasione. Giansanti osserva senza violare, registra senza imporre. Così, Giovanni Paolo II emerge non come icona costruita, ma come figura radicata nella realtà: un pontefice che prega, sorride, si china, soffre; un uomo che si lascia attraversare dal proprio tempo senza mai dimenticare l’eterno. Lo scatto che lo ritrae nella quotidianità di una colazione con il cardinale Stephen Kim ne è emblema: non vi è nulla di spettacolare, eppure tutto vibra. È nella semplicità che si cela il carisma. A rendere ancora più incisivo il racconto visivo è la collocazione dell’esposizione. Castel Sant’Angelo — luogo liminale tra Roma imperiale e Roma cristiana, tra difesa militare e ascesa spirituale — diventa qui una camera della memoria, quasi una cripta laica in cui l’immagine del papa trova la propria eco tra le pietre secolari. Il Passetto di Borgo, che collega il mausoleo al Vaticano, non è solo architettura, ma metafora: connessione fra potere e preghiera, fra pubblico e privato, fra tempo e mistero. Alla sezione fotografica si affianca un importante apparato documentario, curato da Massimo Bray. Lì, in una timeline disposta nella prima sala dell’Armeria Superiore, si intrecciano manoscritti, oggetti liturgici, abiti, encicliche e video d’archivio concessi da Rai Teche e Vatican Media. Fra i reperti, spiccano la copia autografa della Fides et Ratio, l’inginocchiatoio del periodo cardinalizio e l’anello giubilare. Non semplici cimeli, ma frammenti di una storia incarnata che si fa racconto per immagini e cose. La mostra, promossa dal Ministero della Cultura e dalla Presidenza della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, con il patrocinio della Regione Lazio, delle ambasciate polacche e del Pontificio Collegio Polacco, è organizzata da Castel Sant’Angelo in collaborazione con Civita Mostre e Musei e l’Archivio Giansanti. Si avvale inoltre della media partnership di Rai Cultura e TV2000, a conferma della volontà di costruire un dialogo tra istituzioni, pubblico e patrimonio, in una prospettiva inclusiva e attuale. Ma al di là dell’apparato formale, è nella sostanza delle immagini che il visitatore è chiamato a riflettere. Gli scatti di Giansanti ci riportano un Papa in cammino, un viandante della fede che attraversa il mondo come un pellegrino tra le rovine della storia. Le folle che lo accolgono, i capi di Stato che lo ascoltano, i bambini che lo sfiorano, tutto parla di una missione che ha saputo unire spiritualità e azione, silenzio e parola. In ogni fotografia, si legge non solo la cronaca di un evento, ma la traccia di un ethos. Come ha ricordato Andrea Giansanti, figlio del fotografo, il lavoro del padre fu sempre discreto, mai invadente, animato da un rispetto profondo per il soggetto ritratto. L’archivio che oggi custodisce quelle immagini è un deposito di senso, una memoria collettiva che si fa narrazione condivisa. Ed è proprio questo lo spirito della mostra: non commemorare, ma comprendere; non fissare un’icona, ma ascoltarne il respiro. In un’epoca segnata dalla velocità dell’immagine e dall’oblio immediato, Giovanni Paolo II, l’uomo, il Papa, il Santo ci ricorda che alcune fotografie possono ancora farsi preghiera. E che nello sguardo di chi guarda, e in quello di chi viene guardato, può ancora accendersi una scintilla di verità. Photo Gianni Giansanti
Roma, Museo della Civiltà
LE FIABE SONO VERE…STORIA POPOLARE ITALIANA
A cura di Massimo Osanna, Andrea Viliani
con le équipe multidisciplinari di Direzione generale Musei, MUCIV-Museo delle Civiltà e ICPI-Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale,
la collaborazione di Cristiana Perrella
e il progetto di allestimento di Formafantasma
Progetto organizzato dalla Direzione generale Musei del Ministero della Cultura e sostenuto da fondi PNRR-Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
Roma, 23 luglio 2025
Entrando nel Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari all’EUR, si ha la sensazione di varcare la soglia di un tempo che non è mai passato davvero, ma che respira ancora tra le fibre della stoffa, nel legno scolpito, tra i suoni degli strumenti antichi e le forme degli ex voto. La mostra Le fiabe sono vere… Storia popolare italiana, in corso al Museo delle Civiltà, non è solo un’esposizione di oggetti: è un viaggio nel corpo vivo della memoria collettiva, una lunga passeggiata tra simboli, parole non dette, gesti ripetuti nei secoli. È come aprire il baule dei nonni e trovarci dentro non solo utensili e fotografie, ma anche racconti, usanze, timori, desideri che ancora ci appartengono. Curata con sguardo ampio e sensibile da Massimo Osanna e Andrea Viliani, questa mostra è frutto di un lavoro corale che coinvolge numerosi enti e istituzioni – tra cui il MUCIV, l’ICPI e la Direzione generale Musei – con il sostegno dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ma al di là della sua struttura complessa, si avverte un intento semplice e potente: restituire dignità e voce a ciò che per lungo tempo è stato relegato ai margini della cultura ufficiale. Tradizioni, saperi contadini, racconti tramandati oralmente, oggetti umili, pratiche dimenticate. Eppure tutte queste cose parlano, se si ha il cuore e l’attenzione per ascoltarle. I materiali esposti – più di cinquecento – arrivano da ogni angolo d’Italia: maschere che ricordano i carnevali dell’Appennino, abiti cerimoniali cuciti con pazienza e maestria, strumenti musicali che ancora sanno evocare suoni antichi, giocattoli lignei, ex voto in cera, utensili domestici, fotografie ingiallite, video e filmati d’epoca. La selezione è stata fatta non per impressionare, ma per raccontare. Ogni oggetto è stato scelto per la sua capacità evocativa, per la storia che porta con sé, per ciò che può ancora dire a chi lo osserva. La struttura della mostra segue un andamento che assomiglia a quello di una fiaba: si parte da una piazza, luogo d’incontro e di scambio, per poi addentrarsi nella foresta – simbolo di mistero e di prova – e approdare infine al paesaggio marino, luogo dell’ignoto e del desiderio. Lungo il percorso si attraversano l’infanzia, il lavoro e la festa, il mondo magico, la migrazione, l’intreccio, il filo della vita. Ogni sezione è costruita con cura, come se fosse una stanza della memoria in cui ci si può fermare a ripensare, a sentire, a riconoscere. Una fiaba originale, scritta per l’occasione da Elena Zagaglia, accompagna i visitatori attraverso il viaggio. È la storia di Elio, un ragazzo che parte, incontra l’altro, scopre mondi nuovi e alla fine torna cambiato. Una trama semplice, ma ricca di simboli, proprio come le fiabe della tradizione. La narrazione è disponibile in diversi formati, accessibile a tutti, perché l’idea che guida il progetto è chiara: la cultura deve essere di tutti, senza esclusioni. Proprio l’accessibilità è uno dei punti di forza più profondi della mostra. Non si tratta di un’attenzione formale, ma di una scelta politica e poetica: ogni persona, indipendentemente dalle sue condizioni fisiche, sensoriali o cognitive, deve poter attraversare questo percorso e trovare un senso, un legame, una memoria. Sono stati realizzati percorsi tattili, materiali semplificati, traduzioni in Lingua dei Segni Italiana e Americana, versioni audio, supporti visivi e simbolici. Il lavoro è stato portato avanti con la collaborazione di associazioni come AIPD, ANFFAS, ENS, FAND, FISH, UICI e molte altre. Una comunità che si è riunita non per adattare un percorso già pensato, ma per costruirlo insieme, passo dopo passo. L’allestimento, curato da Formafantasma con la co-progettazione dell’architetta Maria Rosaria lo Muzio, è discreto e poetico. Non invade, non costringe. Lascia spazio agli oggetti, ma anche al silenzio, alla riflessione, all’incontro. Si muove tra materiali naturali, luci morbide, superfici tattili. È come camminare in una casa abitata, dove ogni cosa ha un posto e ogni dettaglio racconta una storia. Accanto agli oggetti italiani, alcuni pezzi provengono da contesti extraeuropei, come la Papua Nuova Guinea. Una scelta che ricorda a tutti che le culture non sono mai chiuse, ma sempre in dialogo. Che la tradizione non è un recinto, ma un campo aperto dove si incrociano cammini, linguaggi, speranze. In questo senso, la mostra è anche un invito a ripensare l’identità: non come qualcosa da difendere, ma come qualcosa da condividere. Le fiabe sono vere… non è un’operazione nostalgica. Non c’è qui il desiderio di tornare a un passato idealizzato, ma piuttosto la volontà di comprendere da dove veniamo per immaginare dove possiamo andare. Le fiabe, come i miti, non servono solo a consolare, ma anche a mettere in discussione. Sono strumenti per leggere il mondo, per affrontare la paura, per attraversare il cambiamento. Camminando tra le sale, si ha l’impressione di non essere soli. Come se ogni oggetto avesse un’eco, un sussurro, un ricordo che ci riguarda. Come se da ogni maschera, da ogni abito, da ogni fotografia venisse fuori una voce che ci dice: anche tu sei parte di questa storia. Anche tu vieni da un racconto, da un intreccio di gesti, parole, sogni. E forse è proprio questa la verità più profonda della mostra: ricordarci che non siamo mai davvero separati, ma legati da fili invisibili che ci attraversano, ci uniscono, ci raccontano. Perché sì, le fiabe sono vere. Lo sono nella misura in cui parlano ancora di noi, dei nostri desideri, delle nostre paure, delle nostre speranze. E in fondo, come accade nelle fiabe più belle, basta ascoltarle con il cuore aperto per ritrovare la strada. Anche quando sembra smarrita. Photocredit MIC
Torino, Cappella della Sindone
Oculus-Spei: il corpo iconico della speranza
Torino, 23 luglio 2025
“La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”. Sant’Agostino
In un’epoca che celebra la virtualità come nuovo sacramento della visione, Oculus-Spei di Annalaura di Luggo si impone come dispositivo iconico e architettura performativa del desiderio collettivo. L’occhio, centro assoluto dell’opera e della poetica di Di Luggo, smette di essere organo percettivo per farsi soglia, cratere di rivelazione, spazio liminale tra biologia e trascendenza. Dalla sua prima epifania al Pantheon di Roma nel dicembre 2024 — luogo classico e pagano, monumento del tempo trasformato in crocevia di visione laica — fino alla trasfigurazione architettonica nella Cappella della Sindone di Torino nel giugno 2025, Oculus-Spei evolve da installazione a vero e proprio sistema antropologico dell’immagine. Non un oggetto da osservare, ma un corpo di luce che osserva chi guarda. Annalaura di Luggo, artista transmediale, pratica un’estetica dell’identità plurima attraverso una grammatica dell’iride. Il suo lessico visivo è tanto più incisivo quanto più concentrico: non disperso nel racconto, ma condensato in un simbolo ricorrente e ossessivo, l’occhio, in cui ogni trama biologica si converte in mappa del sé. Dalla mimesi ottica alla semiologia dell’alterità: la Di Luggo non fotografa, cartografa. Oculus-Spei è composto da cinque porte, cinque varchi iniziatici, ognuno dei quali attraversato da figure umane reali — testimoni dell’esclusione, della resilienza, della differenza. Ma il punto non è documentaristico: l’artista non descrive, attiva. La presenza del visitatore non è passiva, ma generativa: i sensori, i sistemi di riconoscimento, le tecnologie gestuali non sono gadget, bensì protesi concettuali, estensioni dell’intenzione etica dell’opera. In particolare, la quinta porta, ispirata al carcere di Rebibbia, si carica di una tensione sacrale: la gabbia è figura archetipica, citazione implicita del labirinto, della prigione dell’anima, della cella della clausura mistica. Ma è proprio lì, nel luogo della massima restrizione, che si attiva la luce. Non si tratta di un effetto luminoso: è una teofania tecnologica. La luce, come nella poetica barocca, non è decorazione ma struttura morale. Annalaura di Luggo, in questo lavoro, opera un montaggio semiotico tra visione e memoria, tra architettura e corpo, tra pietà e codice. L’arte non è qui ornamento né illustrazione: è rituale laico di riscatto, funzione antropologica che restituisce forma alla speranza, facendola transitare dal linguaggio della teologia a quello della biopolitica. L’inclusione non è tema, ma grammatica. E il pubblico non è spettatore, ma testimone co-attivo. Oculus-Spei non è arte sacra. È arte del sacro, cioè arte che assume su di sé il compito di creare lo spazio della separazione e della rivelazione. In questo senso, l’intera installazione non si oppone alla Cappella della Sindone, ma la prolunga: Guarini e Di Luggo condividono la stessa urgenza di coniugare geometria e luce, vuoto e intensità, architettura e visione. Se oggi l’arte può ancora avere una funzione — oltre l’intrattenimento, oltre l’indignazione — è quella di mettere in forma l’intenzione etica. Oculus-Spei lo fa senza retorica, con la densità di un pensiero strutturato, con la leggerezza di un’icona che si lascia attraversare. È un lavoro che non descrive la speranza: la offre come esperienza collettiva. Perché in fondo, come scriveva Ernst Bloch, «solo chi ha speranza può essere critico». E Annalaura di Luggo costruisce con precisione il luogo in cui la critica diventa forma. Prorogata sino al 28 settembre 2025. Foto: Andrea Guermani per i Musei Reali di Torino
Milano, Palazzo Reale
VALERIO BERRUTI. MORE THAN KIDS
curata da Nicolas Ballario
promossa dal Comune di Milano – Cultura, è prodotta e organizzata da Palazzo Reale e Arthemisia, in collaborazione con Piuma e con il sostegno della Fondazione Ferrero
Milano, 21 luglio 2025
Quando si accumulano nella medesima mostra affreschi, sculture monumentali, video-animazioni, caroselli sonori e colonne sonore firmate da Ludovico Einaudi, Rodrigo D’Erasmo, Samuel dei Subsonica e Daddy G dei Massive Attack, il sospetto che la forma prevalga sulla sostanza non può che insinuarsi. La mostra Valerio Berruti. More than kids, ospitata a Palazzo Reale di Milano dal 22 luglio 2025, si presenta come un viaggio immersivo nell’universo dell’artista albese, ma si rivela soprattutto una sapiente operazione di estetizzazione sentimentale, costruita su una poetica dell’innocenza che rischia di trasformarsi in retorica dell’infantilismo. Valerio Berruti ha indubbiamente sviluppato un linguaggio riconoscibile, asciutto, coerente: figure infantili stilizzate, rese con la tecnica antica dell’affresco su supporti contemporanei, delineano un immaginario sospeso, apparentemente fuori dal tempo. Tuttavia, dietro questa coerenza grafica si cela una ripetitività strutturale che svuota le opere di reale ambiguità, riducendo il bambino – e l’infanzia in senso più lato – a feticcio visivo, oggetto di identificazione collettiva tanto immediata quanto irriflessa. Il sottotitolo stesso dell’esposizione, More than kids, suggerisce l’intenzione di oltrepassare il dato anagrafico per accedere a un orizzonte simbolico. Ma ciò che dovrebbe porsi come interrogazione critica si risolve, nella maggior parte dei casi, in un compiacimento formale. Le opere non sfidano l’osservatore, lo cullano; non pongono domande, suggeriscono risposte emotive già confezionate. Non c’è conflitto, non c’è scandalo, non c’è nemmeno malinconia autentica: solo un’estetica pulita, levigata, priva di asperità. Le grandi installazioni, come La giostra di Nina – monumentale carosello animato dalla musica di Ludovico Einaudi – o la scultura Don’t let me be wrong, collocata nel cortile di Palazzo Reale e accompagnata da un cortometraggio sonorizzato da Daddy G e Stew Jackson, si inseriscono in una logica immersiva dove lo spettatore è invitato a partecipare, a “salire” letteralmente sulle opere. Ma si tratta di un’interattività che non rompe, bensì rafforza il meccanismo spettacolare: lo spettatore non è più osservatore critico, ma fruitore passivo di un’esperienza sensoriale perfettamente coreografata. Le video-animazioni Lilith e Cercare silenzio, con le musiche rispettivamente di Rodrigo D’Erasmo e Samuel Romano, si collocano sulla stessa linea: la leggerezza dei disegni in sequenza, pur animati da una grazia artigianale, si combina con un uso sonoro fortemente narrativo, che tende a ingabbiare il senso dell’opera in una sola direzione interpretativa. Anche i lavori precedenti, musicati da Paolo Conte o Ryuichi Sakamoto, confermano questa tensione tra immediatezza visiva e costruzione sentimentale. Le figure di Berruti, per quanto sospese, non sono mai ambigue. Sono bambini “belli” nel senso più disarmante del termine: silenziosi, assorti, eleganti nella loro monocromia. Ma è proprio questa bellezza senza incrinature a destare perplessità. L’infanzia, nella storia dell’arte, è stata terreno di una pluralità di rappresentazioni, dal crudele realismo di Goya ai bambini spettinati e ruvidi di Cézanne, fino ai piccoli proletari graffiati dalla luce di Pasolini. Berruti ne offre invece una versione idealizzata, levigata, museale. Nel percorso espositivo si incontrano anche riferimenti a temi d’attualità – come il cambiamento climatico, evocato in Nel silenzio, dove tre bambine giacciono su una terra arida – ma si tratta di allusioni deboli, non sufficienti a generare uno scarto reale. L’opera resta subordinata alla sua funzione emotiva: colpire, commuovere, rassicurare. Anche qui, il bambino non è figura tragica, ma simulacro estetico. La monumentalità non aiuta. Quando l’infanzia viene ingigantita sino a occupare spazi pubblici e museali con sculture alte metri, il rischio è che perda proprio ciò che dovrebbe renderla significativa: la sua fragilità, la sua dimensione intima, la sua ambivalenza. La scala diventa dichiarazione, non interrogazione. E la narrazione curatoriale – che insiste sul “viaggio emotivo”, sulla “poetica universale”, sulla “partecipazione del pubblico” – contribuisce ad amplificare una retorica dell’empatia che pare sempre più al servizio di un intrattenimento culturale a bassa intensità critica. Nicolas Ballario, curatore del progetto, definisce Berruti un “regista che, stanza dopo stanza, tocca tutti i grandi temi della contemporaneità”. Ma il paragone, azzardato, non regge. La regia presuppone uno scarto, una visione stratificata, una regola di montaggio che metta in discussione la continuità delle immagini. Qui, al contrario, la mostra procede per iterazione, per accumulo di segni sempre simili, quasi timorosa di spezzare l’incantesimo. La stessa serialità – cifra dominante nella produzione dell’artista – anziché generare una grammatica, finisce per costruire una lingua chiusa. Ogni figura rimanda alla precedente, ogni gesto si replica, ogni composizione riecheggia le altre. L’effetto è ipnotico, ma anche statico. Non si cresce, non si cade, non si sbaglia. Non si cambia. Valerio Berruti è artista abile, dotato di controllo tecnico, capace di suscitare emozione in un pubblico vasto. Ma proprio questa sua capacità, portata al massimo grado, rischia di trasformarsi in maniera. Dietro l’apparente innocenza dei suoi soggetti si cela una sapiente costruzione iconografica che ha il suo modello non tanto nella pittura, quanto nella comunicazione visiva delle campagne educative e promozionali: linee morbide, colori desaturati, posture assortite. Un’estetica del consenso, più che della provocazione. In un tempo che reclama nuovi linguaggi e nuove forme di pensiero, More than kids sembra suggerire, paradossalmente, una fuga nel già visto, nel già sentito, nel già approvato. L’infanzia, che dovrebbe aprire mondi, qui li chiude in un’estetica decorosa. E se davvero, come afferma il titolo, c’è qualcosa “more than kids”, forse è proprio questo: la nostalgia addomesticata di un passato che non è mai esistito. Photocredit Tino Gerbaldo
Roma, Caracalla Festival 2025
Basilica di Massenzio e Costantino
“DON GIOVANNI”
ossia Il dissoluto punito KV 527
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni ROBERTO FRONTALI
Donna Anna MARIA GRAZIA SCHIAVO
Don Ottavio ANTHONY LEON
Il Commendatore GIANLUCA BURATTO
Donna Elvira CARMELA REMIGIO
Leporello VITO PRIANTE
Masetto MIHAI DAMIAN
Zerlina ELEONORA BELLOCCI
Orchestra e Coro del Teatro dell’ Opera di Roma
Direttore Alessandro Cadario
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Vasily Barkhatov
Costumi Olga Shaishmelashvili
Scene Zinovy Margolin
Luci Alexander Sivaev
Nuovo Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 16 luglio 2025
Nel Don Giovanni diretto da Vasily Barkhatov per il Caracalla Festival 2025, il celebre seduttore perde ogni residuo di fascino romantico e viene finalmente riconsegnato per ciò che è: un eterno adolescente con sindrome da luna park. Niente più fiamme dell’inferno o sguardi magnetici: il Don Giovanni qui sembra piuttosto un uomo smarrito tra zucchero filato, trenini colorati e pupazzi giganti, bloccato in una regressione affettiva così visiva da sembrare la sceneggiatura di un reality show psicoterapeutico. La scena firmata da Zinovy Margolin non costruisce un ambiente drammatico: costruisce un’infanzia irrisolta, con tanto di ruota panoramica (naturalmente in moto perpetuo), bancarelle da fiera e panchine scarabocchiate di nomi d’amore, come in un diario scolastico troppo cresciuto. L’effetto? Più che un dispositivo semiotico, un’installazione Instagram-friendly. Ogni oggetto parla, sì, ma grida soprattutto “tema della recita scolastica: traumi e zuccherini”. Il nostro Don Giovanni, più che conquistare, balbetta relazioni, prova a ricomporle con lo stesso entusiasmo con cui si tenta di rimontare un giocattolo rotto. Sedurre? Non sia mai. Qui si agisce per riflesso condizionato, come chi ordina sempre lo stesso frappè convinto che stavolta avrà un sapore diverso. Il gesto erotico diventa automatismo, il piacere scompare dietro una giostrina meccanica. Ora, va detto: l’ambientazione da luna park decadente sarà anche coerente con la poetica dell’infanzia contaminata, ma è diventata ormai il nuovo “bosco simbolico” del teatro contemporaneo. Lo si è già visto — e rivisto. L’effetto deja-vu è dietro ogni angolo illuminato al neon. Anche le luci di Alexander Sivaev, pur ricche di sprazzi visionari e saturazioni pop, a volte abbagliano più che illuminare. Lo spettatore, anziché perdersi nel sogno, rischia di chiedere gli occhiali da sole. I costumi di Olga Shaishmelashvili completano il quadro con insetti antropomorfi, perle di plastica formato famiglia, orsetti rosa formato trauma e dettagli da carnevale metropolitano. Tutto ben pensato, nulla da dire. Ma a tratti si ha l’impressione che l’apparato simbolico si mangi la regia, come un’enorme bocca da clown. In questo paesaggio ipersemantico si inserisce con rigore la direzione di Alessandro Cadario, che offre una lettura chiara, sobria e architettonicamente limpida della partitura. Cadario non impone un’interpretazione: plasma la materia musicale con senso della forma e lucidità drammaturgica. I tempi sono tesi alla parola, i recitativi accompagnati restituiscono tensione armonica senza rigidità, mentre l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma risponde con brillantezza e controllo, in particolare nei legni e negli archi primi. In un allestimento visivamente ridondante, la sua direzione rappresenta il contrappeso necessario: misura, ascolto, coerenza. L’ensemble vocale si distingue per omogeneità stilistica e tensione interpretativa, restituendo nel canto il perturbante equilibrio tra desiderio e disillusione. Roberto Frontali, al debutto nel ruolo, interpreta un Don Giovanni maturo, scavato, segnato da una sensualità automatizzata e stanca. L’emissione è sicura, l’accento plasmato sul testo, il fraseggio articolato. La voce si fa veicolo di un’umanità ferita, più che di un fascino torbido: un libertino attraversato dal fallimento, non dall’estasi. Vito Priante propone un Leporello preciso, mai caricaturale, in bilico tra ironia e malinconia. Il timbro è compatto, la dizione incisiva, la musicalità sempre aderente all’azione scenica. Il “Catalogo” scorre con naturalezza e chiarezza ritmica, mentre i duetti mostrano un equilibrio perfetto tra i registri comico e drammatico. Maria Grazia Schiavo, in Donna Anna, offre una delle prove più autorevoli della serata. Il timbro ambrato, la linea salda, il controllo dell’agilità e l’intonazione ferma le permettono di delineare un personaggio tragico senza retorica. L’espressività è costante, sostenuta da un’eccellente padronanza tecnica. Carmela Remigio restituisce una Donna Elvira stratificata, sospesa tra frustrazione e tenerezza. L’emissione è omogenea, il fraseggio netto, la linea melodica sempre vibrante. “Mi tradì quell’alma ingrata” è scolpita con grande cura dinamica, in una sintesi rara tra impulso e forma. Anthony León, nei panni di Don Ottavio, si distingue per eleganza e sobrietà. La voce è tornita, il legato fluido, il fraseggio esatto. Le arie vengono affrontate con senso lirico e compostezza espressiva, evitando ogni leziosità. Eleonora Bellocci si impone come una Zerlina fresca e ben calibrata. Il timbro chiaro, la linea agile e la dizione accurata le consentono una presenza scenica naturale, convincente, mai forzata. I duetti scorrono con leggerezza controllata, mantenendo una cifra di precisione e misura. Mihai Damian, Masetto, offre una prova corretta e funzionale, anche se priva di particolari sfumature. La voce è proiettata con solidità, ma la costruzione musicale si mantiene su un piano più lineare. Gianluca Buratto, nel ruolo del Commendatore, impone una vocalità salda e autorevole, con emissione compatta e registro grave ben centrato. La linea vocale, sorretta da solido controllo del fiato, conferisce al personaggio una solennità ieratica, amplificata da dizione incisiva e fraseggio essenziale. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, guidato da Ciro Visco, si conferma preciso e compatto, pur con un ruolo marginale nell’economia scenica. La scrittura corale mozartiana è affrontata con chiarezza e disciplina, contribuendo alla tenuta drammatica dell’insieme. Il pubblico accoglie l’opera con entusiasmo, riservando ovazioni a Frontali, Schiavo e Remigio. Nessuna contestazione, nessun dissenso: tutto scorre con la prevedibile fluidità del consumo culturale odierno. In un’epoca in cui la provocazione è diventata un genere, e la trasgressione si è fatta formato, anche Don Giovanni tra i pupazzi e i neon di un luna park non turba più. Forse è proprio qui che Barkhatov ha colto nel segno: rendere l’inferno della ripetizione talmente familiare da non farci più paura. Photocredit Fabrizio Sansoni Teatro dell’Opera di Roma
Riguardo questa Cantata profana, della quale sono giunti a noi soltanto la ricostruzione di alcuni brani, si è supposto sia stata eseguita a Lipsia come tributo per il Consiglio comunale di Lipsia per un’occasione sconosciuta, probabilmente nel 1728 o in un anno successivo. Di queste cantate si sono conservate le parti per soprano e contralto e il testo, forse di Picander. La musica è andata perduta, ma è stata possibile una sua parziale ricostruzione visto che l’opera era una parodia di Vergnügte Pleißenstadt, BWV 216, una cantata nuziale con testo di Picander eseguita a Lipsia il 5 febbraio 1728 in occasione del matrimonio di Johann Heirich Wolff e Susanna Regina Hempelnel 1728. Il clavicembalista Alexander Grychtolik ha ricostruito Erwählte Pleißenstadt a partire dalla bozza del libretto e da frammenti di notazione riscoperti nel 2003 tra le carte postume di un pianista giapponese e che potete ascoltare nella registrazione qui proposta.
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
NUOVA SEZIONE IPOGEA
a cura di Federica Rinaldi, Alessandra Celant e Claudia Minniti
Roma, 16 luglio 2027
Nell’ambito di un’ampia strategia di rilettura archeologica del monumento flavio, il Parco Archeologico del Colosseo ha inaugurato una nuova porzione espositiva all’interno degli ipogei dell’anfiteatro, proseguendo un articolato progetto di musealizzazione che si configura come un intervento sistemico sul concetto stesso di fruizione monumentale. La sezione si colloca nella parte occidentale dei sotterranei e offre, per la prima volta, un’indagine archeologica incentrata non più sui protagonisti dell’arena, ma sulla massa anonima degli spettatori: una moltitudine stratificata socialmente, culturalmente e simbolicamente, il cui comportamento e consumo del tempo costituiscono oggi una fonte preziosa per comprendere l’intero sistema spettacolare romano. Dopo la realizzazione, nel 2023, dell’allestimento dedicato ai gladiatori, articolato intorno alla funzione logistica e simbolica del criptoportico connesso al Ludus Magnus, si assiste ora a un mutamento di paradigma: lo sguardo si sposta dalla scena all’auditorium, dal corpo dell’atleta a quello dell’osservatore, dall’azione spettacolare alla ricezione collettiva. La curatela scientifica della nuova sezione — affidata a Federica Rinaldi, Alessandra Celant e Claudia Minniti — è fondata su una solida base di scavi e analisi multidisciplinari condotte a partire dal 2022. L’intervento ha riguardato in particolare il sistema idraulico ipogeo della zona meridionale dell’edificio, restituendo circa 70 metri lineari di stratigrafia continua. L’evidenza archeologica emersa da tali contesti, spesso considerati residuali o marginali, si è invece rivelata cruciale: materiali di scarto, gettati nei collettori nel momento di progressivo abbandono dell’anfiteatro, si sono rivelati archivio materiale delle pratiche quotidiane del pubblico romano. Fra i reperti, si segnalano oggetti di uso personale — aghi, pettini, spilloni, stuzzicadenti — accanto a strumenti ludici come dadi, pedine, tavolette defixionali e monete di piccolo taglio, che testimoniano attività ludiche, superstizioni e ritualità superstite. Particolarmente significativa è la scoperta di una laminetta plumbea, databile tra III e IV secolo d.C., recante una defixio con iconografia apotropaica: uno scudo e un albero secco colpiti da fulmini. L’oggetto, chiaramente connesso a forme di magia legata alla competizione, si inserisce in una prassi ampiamente attestata nel mondo romano e oggi riletta in chiave antropologica. L’allestimento, progettato dallo studio Tortelli e Frassoni, ha mirato a tradurre l’esperienza della visione collettiva in un percorso immersivo: la cavea è stata parzialmente ricostruita con gradinate espositive che espongono graffiti originali e repliche leggibili, testimonianza della pratica diffusa di incidere i momenti salienti dello spettacolo sulla pietra del sedile. In un caso, un gradino ancora recante l’iscrizione di un senatore — databile tra IV e V secolo d.C. — è stato ricollocato in posizione originaria, in prossimità dell’arena, a indicare la relazione tra status sociale e collocazione nello spazio. Il Colosseo, come noto, non era solo macchina di morte o palcoscenico di esotismi: era prima di tutto uno spazio di aggregazione sociale e politica. La folla, convocata gratuitamente per decreto imperiale, era destinataria di una messa in scena del potere attraverso la distribuzione di cibo, vino, giochi e spettacoli. La celebre formula panem et circenses, sintetizzata da Giovenale, trova qui una materializzazione tangibile: ostriche, fichi, orate, spezie orientali e frutta esotica emergono dai resti organici analizzati nei collettori, suggerendo una dieta da banchetto collettivo. Di particolare rilievo è una moneta in lega di oricalco, recante l’effigie di Marco Aurelio, coniata per celebrare il decennale dell’imperatore: un emblema della sovrapposizione tra sfera politica e spettacolare. L’apparato tecnico dell’arena non è stato trascurato: ascensori lignei, carrucole e strutture meccaniche restaurate dall’Istituto Centrale per il Restauro sono stati integrati nel percorso museale, offrendo una visione d’insieme del funzionamento della machina spectaculorum. La presenza di diverse essenze lignee — tra cui castagno, abete bianco ed olmo — è documentata tramite riproduzioni illustrative degli alberi, con attenzione anche all’identificazione botanica delle fibre e al loro uso funzionale. Dal punto di vista della museologia, il nuovo percorso si configura come tappa di un più ampio progetto di riorganizzazione dell’intero itinerario di visita del Colosseo. Si persegue una logica di “museo diffuso” in cui i reperti vengono esposti, per quanto possibile, in situ, secondo un principio di prossimità semantica con il contesto di rinvenimento. Tale scelta, oltre a favorire una narrazione storica coerente, consente una gestione più fluida dei flussi di visita, ridistribuendo il carico antropico in maniera più omogenea. In quest’ottica, anche il museo permanente al secondo ordine dell’anfiteatro subirà tra il 2025 e il 2026 un’importante revisione tematica e formale. La finalità è quella di integrare le varie fasi di uso, disuso e riuso del Colosseo nella sua dimensione storica continua, superando la visione monolitica del monumento come luogo esclusivo di spettacoli gladiatori. Le attività di scavo, ricerca e valorizzazione sono state condotte in stretta sinergia con l’Università “La Sapienza” di Roma, tramite i Dipartimenti di Scienze dell’Antichità, di Biologia Ambientale e di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin”. Due protocolli d’intesa hanno permesso di integrare studi archeobotanici, archeozoologici, numismatici e antropologici in una piattaforma scientifica coerente. Il contributo dell’Istituto Centrale del Restauro si è rivelato decisivo nella restituzione conservativa dei materiali lignei e metallici. Una pubblicazione scientifica monografica è attualmente in preparazione e vedrà la luce nell’autunno 2025: essa restituirà, in forma analitica, i dati di scavo e le interpretazioni maturate in questi anni, costituendo un tassello fondamentale per il ripensamento filologico e funzionale del Colosseo nella sua interezza. Come affermato da Alfonsina Russo, direttrice del PArCo, il compito di ogni istituzione museale che ambisca a restare viva nel tempo è quello di coniugare tutela, ricerca e valorizzazione: non in successione, ma come processo simultaneo e continuo. La nuova sezione ipogea non solo contribuisce a restituire un’immagine più articolata del Colosseo tardoantico, ma riafferma la centralità della ricerca scientifica nella costruzione di un sapere condiviso e dinamico.