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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Terza domenica dopo la Pasqua (Jubillata)

gbopera - Dom, 11/05/2025 - 07:55

La terza Cantata in ordine cronologico destinata alla terza domenica dopo la Pasqua, detta “Jubilate” è Wir müssen durch viel Trübsal in das Reich Gottes eingehen BWV 146 eseguita la prima volta a Lipsia il 12 maggio 1726 (ma si è ipotizzato il 1728). La partitura utilizza  nei primi due numeri i primi movimenti di un concerto per violino, probabilmente risalente al periodo di Kothen e del quale noi conosciamo una successiva versione per clavicembalo e archi BWV1052. Il terzo movimento è stato invece utilizzato da Bach come brano introduttivo della Cantata BWV88. Se il primo movimento viene trasformato nella Cantata in un “Allegro” da Concerto, una “Sinfonia” (Nr.1) con organo “obbligato”, il secondo movimento (Nr.2) si presenta come una pagina mottettistica, in stile imitativo, dotata di una scrittura vocale che risulta incastonata in quella strumentale, che vede anche qui la forte presenza di un organo concertante, prototipo della successiva versione cembalistica. Il testo si basa su un frammento tratto dagli Atti degli Apostoli (cap.14 vers.22) e da questo motto prende spunto il poeta, Gregorius Richter che si è poi ispirato a passi biblici, dal Salmo 126, vers.5 (Nr.5), dalla lettera ai Romani, cap.8 vers.18 (Nr.6). L’aria bipartita del soprano (il citato nr.5) è il punto centrale della partitura, ma anche uno dei punti più alti della produzione bachiana. Su un tenue rivestimenti degli archi si innesta un flauto traverso e una coppia di oboi d’amore che danno leggerezza e vaporosità a un duplice impianto vocale. Un’esposizione strumentale  di 16 battute ripresa in conclusione e inserita per separare le due sezioni dell’aria, prelude a un discorso che nella sua prima parte, con la sua linea sinuosa e tormentata si accentra sul concetto di lacrime, mentre nella seconda riflette il giubilo espresso nel testo. La Cantata comprende altre 2 arie, delle quali, la nr.7 è un duetto caratterizzato da ritmi di danza, nel quale, forse,  è da vedersi la parodia di una pagina vocale profana, ora perduta.
Nr.1Sinfonia
Nr.2 – Coro
È necessario attraversare molte tribolazioni
per entrare nel regno di Dio.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Voglio raggiungere il cielo,
perversa Sodoma, io e te
siamo ora separati.
La mia dimora non è la,
poiché io vivrò presso di te
in pace per sempre.
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
Ah! Se fossi già in cielo!
Non sarei attirato dell’empio mondo!
Mi sveglio in lacrime,
in lacrime mi rimetto a letto,
mi sento assediato!
Signore! Guardali
mi odiano e senza ragione,
come se le potenze del mondo
volessero la mia morte;
così vivo gemente e paziente
abbandonato e reietto,
persino della mia sofferenza essi hanno
una grande gioia.
Mio Dio, quanto questo mi pesa,
Ah! se fossi
mio Gesù, con te
già da oggi in cielo!
Nr.5 – Aria (Soprano)
Semino le mie lacrime
con l’angoscia nel cuore.
Eppure il mio cuore sofferente
risplenderà
nel giorno del raccolto benedetto.
Nr.6 – Recitativo (Tenore)
Sono pronto
a portare pazientemente la mia croce;
so che tutte le mie angosce
non hanno niente dello splendore
che Dio alla folla degli eletti
ed anche a me rivelerà.
Ma piango, poiché il rumore del mondo
appare come gioia davanti al mio dolore.
Ma ecco arriva il tempo
in cui il mio cuore gioisce,
e in cui il mondo senza speranza piange.
Chi combatte e lotta contro questo nemico,
costui sarà incoronato;
poiché Dio non lascia nessuno senza lavoro
in cielo.
Nr.7 – Aria/Duetto (Tenore, Basso)
Come sarò gioioso,
come sarò riconfortato
quando tutti i miei tormenti saranno passati!
Brillo come una stella,
risplendo come il sole,
la divina, benedetta gioia non sarà offuscata
da alcun pianto, lacrima e lamento.
Nr.8 – Corale
A chi, benedetto, va laggiù
dove la morte non può colpirlo,
a lui sarà accordato
tutto quello che desidera.
Egli vive nella città fortificata
dove Dio abita;
egli è condotto al castello
dove l’avversità non può toccarlo.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wir müssen durch viel Trübsal in das Reich Gottes eingehen” BWV 146

 

 

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro Bellini: “Morte accidentale di un anarchico” dal 13 maggio al 1° giugno 2025

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 22:50

Napoli, Teatro Bellini
“MORTE ACCIDENTALE DI UN ANARCHICO”
Di Dario Fo e Franca Rame
Con: CATERINA CARPIO, ANNIBALE PAVONE, DANIELE RUSSO, EDOARDO SORGENTE, EMANUELE TURETTA
Regia Antonio Latella
Dramaturg Federico Bellini
Scene Giuseppe Stellato
Costumi Graziella Pepe
Musiche e Suono Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Movimenti Isacco Venturini
Assistente alla Regia Mariasilvia Greco
Costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del PICCOLO TEATRO DI MILANO – TEATRO D’EUROPA
Produzione Fondazione teatro di Napoli – Teatro Bellini
Dal 13 maggio al 1° giugno 2025, al Teatro Bellini, va in scena Morte accidentale di un anarchico.
Nel 1921 un emigrante italiano «volò» fuori da una finestra del palazzo della polizia di New York: è questo l’episodio che ispirò “Morte accidentale di un anarchico”, una delle commedie più celebri di Dario Fo. L’azione comincia in una questura, dove il commissario Bertozzo si trova a fronteggiare un matto, capace di spacciarsi per più persone, motore e filo conduttore dell’intera vicenda. “La morte accidentale” a cui allude il titolo dell’opera è quella dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano nel 1969, in uno degli episodi più controversi della storia italiana del dopoguerra; dalla strage di Piazza Fontana, per cui Pinelli era indagato, ad alcuni dei terribili fatti che ne seguono, Dario Fo interroga con la sua opera non solo il caso giudiziario specifico, ma parte di un periodo storico ancora oggi difficile da decifrare e consegnare agli archivi.
Dalle Note di Regia:
«[…] Fo, con questo testo, parlava di scandalo; la sola cosa che vorrei riuscire a fare, graffiando con una risata da Joker, è quella di non dimenticare cosa e chi siamo stati. Provare a non cambiare la storia, ma tornare sul luogo del delitto non per attaccare coloro che non ci sono più, ma per comprendere e non ripetere gli stessi errori. Si può riuscire con una regia? Forse no, ma si deve provare.» (Antonio Latella). Qui per tutte le informazioni. Foto Teatro Bellini, “Morte accidentale di un anarchico” – prove

Categorie: Musica corale

Madrid, Teatro Real: “La fiaba dello zar Saltan”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 19:47

Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“LA FIABA DELLO ZAR SALTAN”
Opera in un prologo e quattro atti su libretto di Vladimir Belski, basato sul racconto folklorico in poesia di Aleksandr Pushkin
Musica di Nikolai Rimski-Korsakov
Zar Saltan ANTE JERKUNICA
Zarina Militrissa SVETLANA AKSENOVA
Tkačicha STINE MARIE FISCHER
Povaricha BERNARDA BOBRO
Babaricha CAROLE WILSON
Zarevic Gvidon BOGDAN VOLKOV
Zarevna Lebed (Principessa Cigno) NINA MINASYAN
Un vecchio EVGENY AKIMOV
Messaggero ALEJANDRO DEL CERRO
Skomoroj ALEXANDER VASSILIEV
Marinaio ALEXANDER KRAVETS
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Ouri Bronchti
Maestro del Coro José Luis Basso
Regia e scene Dmitri Tcherniakov
Costumi Elena Zaytseva
Luci e videoproiezioni Gleb Filshtinsky
Nuova produzione del Teatro Real di Madrid, in coproduzione con il Théatre Royal de La Monnaie / de Munt
Commemorazione del 225o anniversario della nascita di Aleksandr Pushkin
Madrid, 8 maggio 2025

Che i registi del teatro musicale non credano (per lo più) alle favole e alla loro traduzione scenica, qualche volta può essere foriero di riflessioni molto interessanti. La fiaba dello zar Saltan è il perfetto racconto folklorico, tutto articolato da dinamiche soprannaturali e mezzi magici; per questo, la versione teatrale dell’opera di Rimski-Korsakov che subito torna alla mente è quella di Luca Ronconi, datata 1988, attenta a rendere visibile la crescita prodigiosa del principe Gvidon, che in pochi minuti diventa, da bebè, adolescente (nella memoria è una ripresa deliziosa, al Comunale di Firenze nel 1997). Un uomo di teatro come Dmitri Tcherniakov, esperto conoscitore del repertorio russo, capace di suscitare nel pubblico del teatro d’opera “inestinguibil odio” e “indomato amor” (in particolare, a Madrid si chiacchiera ancora del suo Don Giovanni, presentato nel 2013, al tramonto dell’era di Gerard Mortier), con lo Zar Saltan concretizza l’idea, molto seria, di trasformare una fiaba popolare in narrativa terapeutica per curare un problema sociale come l’autismo. Giacché questo si realizza nel rispetto della partitura e del libretto, il merito artistico è ancor più grande. Tutto lo spettacolo si inquadra nella confessione iniziale di una madre, che presenta al pubblico il figlio autistico, unitamente alla propria disperazione; adesso – dice la donna – proverà a raccontargli una storia che lo riguarda, perché egli è stato abbandonato dal padre, esattamente come il protagonista dell’opera. Pertanto, il ragazzo autistico dagli abiti dimessi si identifica con il principe Gvidon (e la madre con la zarina Militrissa, naturalmente), vivendo in modo consapevole e sereno tutte le tappe del percorso di formazione; al termine dell’opera, però, quando lo zar incontra la sposa e il figlio per riconciliarsi con loro, il ragazzo soffre una violenta crisi epilettica e rifiuta il ricongiungimento. Forte dell’enigmatico coro finale («Ecco: così finisce la storia, ed è tutto quello che dovete sapere»), Tcherniakov sembra sconfessare il valore curativo dell’arte, della narrazione, addirittura della comunicazione in generale. Lo spettacolo è un successo notevole prima di tutto perché riesce assai bene sul piano teatrale, grazie alle straordinarie doti di Bogdan Volkov: non solo quelle vocali di tenore squillante, dalla voce ben proiettata, ricca di armonici e sicura, ma anche di attore sotto costante sforzo di iperattivismo, per imitare la gestualità iterativa e spesso convulsa di un bambino autistico. Dalla sua immaginazione si sprigionano i disegni coloratissimi che fanno da fondale alle apparizioni delle creature magiche (il cigno, lo scoiattolo, i soldati che emergono dal mare), ma anche gli altri personaggi, ossia lo stuolo di donne malvage (le sorelle di Militrissa e la crudele Babaricha) e di uomini bonari e imbecilli, tutti raffigurati come burattini colorati a pennarello: i costumi di Elena Zaytseva rendono visiva la goffaggine di tutte le deliziose figurine. In ogni caso, l’elemento che rende possibile la perfetta fusione dei vari livelli narrativi ed estetici è la musica di Rimski-Korsakov; il direttore francese Ouri Bronchti è autore di una concertazione accuratissima, possibile soltanto a chi abbia studiato la partitura con assiduità e in più occasioni. Per questo, riesce a esaltare la trasparenza dei temi più raffinati (quello della Principessa Cigno, in particolare), insistere sulla vivacità ritmica degli effetti imitativi (il Volo del calabrone, ça va sans dire), dinamizzare i momenti pompier più coinvolgenti (un solo caso, indimenticabile: la polifonia di ottoni che scandisce l’arrivo dei marinai al regno dello zar Saltan è così grandiosa e variegata nelle sonorità da sembrare un frammento di Janaček). La compagnia vocale è generalmente buona, anche perché tutti gli interpreti principali sono specialisti delle rispettive parti: evocativa dell’espressività popolaresca, tutta appoggiata “sul davanti”, incisiva e tagliente la vocalità delle tre antagoniste (Stine Marie Fischer, contralto, la tessitrice, magnifica; Bernarda Bobro, soprano, la cuoca; Carole Wilson, mezzosoprano, Babaricha). Diverso il caso di Svetlana Aksenova, il soprano che interpreta la zarina Militrissa, perché la sua emissione ha un appoggio più solido, sebbene la cavata non sia sempre adeguata alle richieste. Il basso Ante Jerkunica è uno zar Saltan scenicamente perfetto, anche se la voce (abbastanza debole nel registro inferiore) incorre in piccole stonazioni. Il soprano Nina Minasyan dà voce a Lebed, la Principessa Cigno, con la giusta delicatezza nei vocalismi e nelle sfumature della difficile parte (vari attacchi risultano più che ostici). Tra i comprimari spicca il tenore Evgeny Akimov, nella parte del Vecchio. Ottima la prova del Coro del Teatro Real, preparato da José Luis Basso. Al termine della recita, gli applausi vanno crescendo per tutti, e il pubblico di Madrid dimostra un apprezzamento completo per lo spettacolo, nell’unione di musica, canto e regia; successo dovuto, dal momento che questo Zar Saltan stimola soprattutto la riflessione. Nelle videoproiezioni in forma di disegni a carboncino che accompagnano l’interludio centrale del II atto si vede un bambino smarrito in mezzo a una folla che gli volge le spalle e lo ignora: allora, più che un brillante esercizio metanarrativo sulla salute pubblica, quella di Tcherniakov non sarà piuttosto una denuncia della scarsa responsabilità degli adulti nei confronti dell’infanzia?   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Tosca”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 18:50

Teatro dell’Opera di Roma Stagione Lirica 2024/25
“TOSCA”
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Tosca  ANNA PIROZZI
Mario Cavaradossi  LUCIANO GANCI
Il Barone Scarpia ARIUNBAATAR GANBATAAR
Angelotti  LUCIANO LEONI
Sagrestano  DOMENICO COLAIANNI
Spoletta  MATTEO MEZZARO
Sciarrone MARCO SEVERIN
Carceriere CARLO ALBERTO GIOJA
Un Pastorello FRANCESCO CICCIARELLO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore James Conlon
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Alessandro Talevi
Scene Adolf Hohenstein ricostruite da Carlo Savi
Costumi Adolf Hohenstein ricostruiti da Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma ricostruito sui bozzetti originali della prima esecuzione del 1900 in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi
Roma, 09 maggio 2025
Ultimo gruppo di recite di Tosca di Giacomo Puccini al Teatro dell’Opera di Roma, messa in scena in tre riprese nella stagione in corso per la celebrazione dei 125 anni dalla prima esecuzione che avvenne proprio al Costanzi il 14 gennaio del 1900 presenti in sala l’autore, Sua Maestà la Regina Margherita e le massime autorità dello Stato di allora. In questa occasione lo spettacolo ormai più che collaudato e sempre molto gradito al pubblico è stato affidato al maestro James Conlon e ad altri interpreti vocali. L’allestimento originale pensato per quella prima assoluta con le scene ed i costumi di Adolf Hohenstein che ricordiamo essere stato ricostruito grazie al prezioso e sapiente lavoro di recupero svolto da Carlo Savi e Anna Biagiotti ed alla regia di Alessandro Talevi ed è andato in scena più volte e con diversi cast a partire dal 2015. Nella recita di ieri sera tutto è parso procedere con spontanea e divertita naturalezza grazie al collaudato mestiere di tutti gli interpreti ed al piglio deciso e sicuro del direttore, il maestro James Conlon. Questi ha proposto infatti una Tosca di straordinario nitore nella concertazione e nella agogica, trovando un ottimo equilibrio fra la percussività e la cantabilità dell’involo melodico, ottenendo dall’orchestra un suono sempre morbido, bello e declinato in infinite sfumature di timbro e intensità. Il Coro diretto dal maestro Ciro Visco ha ripetuto le più che brillanti prestazioni delle recite precedenti, ritrovando nel Te Deum la solenne e quasi compiaciuta maestosità della liturgia della Roma papale. Nel ruolo eponimo abbiamo ascoltato Anna Pirozzi, la quale ha delineato un ritratto di Tosca spontaneo e più teneramente femminile che non da prima donna perennemente sulla scena, grazie ad una recitazione placida e misurata e ad una vocalità straordinaria per bellezza timbrica, omogeneità ed ampiezza di suono. Il baritono mongolo Ariunbaatar Ganbaatar è stato uno Scarpia appropriato e di assoluto fascino sia per la presenza scenica che, soprattutto, per l’ottima pronuncia, la varietà di fraseggio e una singolare autorevolezza vocale tale da consentirgli di sottolineare efficacemente le frasi più attese e di svettare sull’oceano di suono del coro e dell’orchestra nel Te Deum. Il tenore Luciano Ganci infine è stato un Cavaradossi dalla irresistibile, giovane e romana simpatia, cantato con voce bella e sicura impiegata con una non comune musicalità raffinata ed elegante. Domenico Colaianni nuovamente nei panni del Sagrestano restituisce anch’esso un autentico odore di sagrestia romana al suo collaudatissimo personaggio che ben dialoga con la gestualità e la recitazione del tenore. Infine tutti su un piano di ottima professionalità sono risultati gli interpreti delle parti minori, fra i quali vogliamo ricordare lo Sciarrone di Marco Severin per presenza scenica e precisione musicale ed il pastorello ben cantato da Francesco Cicciarello. Alla fine lunghi e assai calorosi applausi per tutti a conclusione di una felice serata, premiata dall’impegno professionale e dall’evidente entusiasmo del direttore e di tutta la compagnia. Photocredit Fabrizio Sansoni

Categorie: Musica corale

Roma, Terme di Caracalla: “Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 16:23

Roma, Terme di Caracalla
IMMAGINARE ROMA. LE PROSPETTIVE IMPOSSIBILI DI FRANCESCO CORNI
a cura di Elisabetta Corni e Mirella Serlorenzi
Enti promotori Soprintendenza Speciale di Roma
Roma, 10 maggio 2025
Non esiste arte che non sia, in fondo, un tentativo di ricostruzione. Ricostruzione del tempo, dello spazio, della memoria. In questo senso, Francesco Corni si presenta come un artista esatto, rigoroso, eppure poetico, visionario. La mostra Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni, allestita fino al 19 ottobre 2025 alle Terme di Caracalla, si offre come una retrospettiva analitica e al contempo onirica del lavoro di un disegnatore-archeologo che ha attraversato la storia non con il piccone, ma con la Rapidograph. A differenza del pittore che interpreta e dell’architetto che progetta, Corni restituisce. Ma lo fa come un artista concettuale che ha deciso di tradurre la classicità in una forma di esercizio mentale: la linea come operazione critica, la prospettiva come ipotesi e rivelazione. Le sue tavole, oltre sessanta, molte delle quali inedite, non sono solo rappresentazioni ma strumenti cognitivi, apparati logici che trasformano la storia in geometria emotiva. Non è una questione di estetica, ma di etica della forma. Il percorso espositivo, curato da Elisabetta Corni e Mirella Serlorenzi, si snoda attraverso due sale delle Terme, come due stanze del pensiero. Nella prima, la Roma topografica, si disegna la mappa del riconoscimento: dal Campidoglio al Foro Boario, passando per il Teatro di Marcello e il Portico di Ottavia. L’occhio non si limita a contemplare, ma viene guidato a leggere, a de-stratificare la superficie urbana per penetrare la densità storica. Qui il disegno diventa quasi un atto chirurgico: seziona, isola, confronta. La tavola verticale che mostra le colonne del Portico inglobate negli edifici moderni del ghetto romano è un esempio di archeologia visiva e ideologica: la modernità come palinsesto, la storia come sovrascrittura. Il disegno, in Corni, non è un esercizio mimetico ma una forma critica. A differenza della fotografia, che documenta l’istante, la sua arte documenta la possibilità: la Roma che c’era e che può ancora parlarsi dentro l’oggi. Non a caso l’intera sezione è affiancata da una mappa del SITAR (Sistema Informativo Territoriale Archeologico della Soprintendenza Speciale di Roma), che diventa complemento teorico, quasi una legenda dell’immaginazione scientifica. La seconda sala è un atlante della Roma concettuale: quella dei sistemi, delle invenzioni, delle macchine urbane. Il Colosseo in costruzione è una sinfonia di elementi strutturali, un manifesto di ingegneria disegnata. Le naumachie, il Circo di Domiziano, le Terme di Diocleziano e Caracalla sono oggetti di meditazione visiva, composizioni che affermano la capacità dell’arte di essere anche diagramma, progetto, esperimento. Corni è un artista della deduzione, un artigiano del sapere. Le sue prospettive non sono impossibili nel senso dell’assurdo, ma in quello dell’invisibile: sono ciò che non si può vedere, ma solo comprendere. Egli taglia, inclina, scompone come un analista che vuol far parlare le strutture. E riesce in un miracolo: far percepire l’interno e l’esterno, la funzione e la forma, la materia e il suo racconto. La sezione finale sulle sei tavole dedicate al Vaticano – dalla topografia degli Horti di Agrippina fino all’abbraccio berniniano – è un poema civile in forma di disegno. Come critico, è inevitabile qui pensare alla tradizione del disegno teorico: a Viollet-le-Duc, a d’Andrade, ma anche a Piranesi. Corni è erede e insieme innovatore. Dove Piranesi esaspera il dramma barocco delle rovine, Corni ricostruisce con l’ascetismo dell’umanista. Ogni tratto è verifica, ogni spaccato è domanda. Ed è in questo che il suo lavoro si fa artistico: nella volontà di trasformare il documento in immagine critica, il dato in visione. La mostra, per altro, non si accontenta di celebrare l’autore. Lo espone, ma lo problematizza. Ci invita a chiederci quale ruolo possa avere oggi il disegno a mano nell’era dell’intelligenza artificiale, della grafica 3D, della realtà aumentata. La risposta è nelle parole della curatrice Elisabetta Corni: “Il disegno di mio padre ha una capacità di comunicazione che nessun render riesce ad eguagliare”. È vero. Perché il disegno di Corni non è simulazione, ma sintesi. Un caso emblematico: le tavole delle Terme di Caracalla. Corni ha lasciato incompiuta la tavola ricostruttiva del complesso. Ma proprio questa assenza si fa presenza. L’opera mancante è una dichiarazione di metodo: ogni tavola è ipotesi, mai conclusione. L’arte di Corni non è definitiva, è interrogativa. C’è un momento, nella vita dell’artista, che è divenuto mito: il suo viaggio da Torino a Roma in bicicletta, a 15 anni. Prima tappa: la Basilica di San Pietro. E proprio San Pietro, con tutte le sue metamorfosi, chiude idealmente la mostra. Come a dire che ogni cammino nella storia, ogni tracciato artistico, è un ritorno. E un inizio. La mostra è stata organizzata con la cura e la sensibilità della Soprintendenza Speciale di Roma, guidata da Daniela Porro. Ma il vero cuore è nel metodo Corni: un modo di pensare che unisce lo storico dell’arte al teorico dello spazio, il conoscitore al poeta delle superfici. La sua opera si inserisce a pieno titolo in quella linea dell’arte italiana che ha sempre visto nel disegno non la preparazione ma il compimento: da Michelangelo a Boetti, da Piero della Francesca a Parmiggiani. Immaginare Roma è molto più di una mostra. È un manifesto. Un invito a credere nel potere euristico della mano, nella capacità dell’arte di essere strumento di verità. Corni ci consegna una Roma parallela, ma non alternativa: è la stessa, solo vista con l’occhio del sapere. E ci ricorda che il passato non è dietro di noi, ma dentro il nostro modo di guardare. Lì, in quel punto esatto dove la linea si fa storia.

 

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Roma, Parco Archeologico del Colosseo: “Una notte al Colosseo”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 11:59

Roma, Parco Archeologico del Colosseo
UNA NOTTE AL COLOSSEO
Da martedì 13 maggio torna il percorso di visita più amato: il Parco archeologico del Colosseo apre i cancelli per le visite notturne dell’Anfiteatro Flavio con l’iniziativa “Una Notte al Colosseo”. Il percorso guidato, della durata di circa 60 minuti, si sviluppa anche per questa edizione lungo il primo ordine del monumento, il piano dell’arena e i sotterranei. Le visite, programmate ogni martedì e giovedì dalle 20.00 alle 24.00 con ultimo ingresso alle 22.30, sono riservate a un massimo di 25 persone per turno. La visita sarà prevalentemente dedicata al racconto del Colosseo dal punto di vista degli spettatori e dei protagonisti degli spettacoli che si svolgevano nell’arco della giornata, tra cacce (venationes) e combattimenti gladiatorii (munera). L’itinerario prevede la partenza dal fornice Nord, anticamente l’entrata principale dell’Imperatore, con unapprofondimento sull’ingresso imperiale e le decorazioni in stucco. Qui, dal piano dell’arena, si potrà avereuna visione completa della cavea e un racconto degli spettacoli offerti dagli imperatori. Si prosegue poi nei sotterranei, dove sarà possibile esplorare la nuova esposizione permanente “Spettacoli nell’Arena del Colosseo. I protagonisti”, curata da Alfonsina Russo, Federica Rinaldi e Barbara Nazzaro. La mostra conserva i punti di forza della precedente esposizione temporanea “Gladiatori nell’arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus” e prevede un rinnovato allestimento permanente incentrato sui protagonisti degli spettacoli, ovvero i gladiatori e gli animali impegnati nelle venationes. L’allestimento prevede la suggestiva proiezione olografica con i gladiatori che avanzano dal buio del criptoportico orientale (realizzata da Katatexilux su idea e curatela di Federica Rinaldi), il mosaico bianco e nero di II sec. d.C. con scena di caccia, i gradini della cavea con i graffiti riproducenti i combattimenti tra gladiatori e gli inseguimenti tra animali, le lucerne, i modelli di montacarichi e i sistemi di sollevamento di uomini e animali, veri apparati tecnologici ante litteram. I reperti sono posti in dialogo con le riproduzioni alvero delle armature dei gladiatori nelle diverse tipologie del reziario, del secutor, del trace, del mirmillone, del provocator e dell’oplomachus, facenti parte della collezione del PArCo. Tra i reperti in mostra si segnala la copia realizzata da modello digitale eseguito con laser scanner 3D ad alta precisione di un rilievo proveniente dall’isola di Coo conservato presso il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann del Comune di Trieste. Il rilievo rappresenta il combattimento tra un reziario e un secutor con un’iscrizione in greco che riconduce con ogni probabilità allo scioglimento del vincolo contrattuale dell’auctoramentum, il sacramento alla divinità con cui il gladiatore accettava di rischiare la propria vita scendendo nell’arena e combattendo fino al giudizio del popolo. Novità del 2025 è la presenza della testa di gladiatore “Gallus” prestata dal Museo Archeologico al Teatro Romano di Verona, una straordinaria testa lapidea di gladiatore dell’inizio del I sec. d.C. proveniente dall’Anfiteatro di Verona e risalente alla prima metà del I secolo d. C. (la cosiddetta Arena). Successivamente, il percorso esplorerà la struttura dei corridoi sotterranei attraverso una passeggiata al chiaro di luna lungo la passerella fino alla camera di manovra occidentale. Al seguente link ulteriori informazioni: https://colosseo.it/evento/una-notte-al-colosseo-2025/ 

 

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Bru Zane Portraits 6: Georges Bizet (1838-1875). Djamileh, Vasco da Gama, Cantates, Musique corale, Mélodies, Musique pour piano.

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 08:44

Georges Bizet (1838-1875):“Djamileh”: Isabelle Druet (Djamileh), Sahy Ratia (Haroun), Philippe-Nicolas Martin (Splendiano), Maxime Le Gall “Le  Marchand d’esclaves”, Les SièclesChoeur de l’Opéra de Lille, François-Xavier Roth (direttore); “Vasco da Gama” – “Musique pour choeur et orchestre “ – “Ouverture en la mineur”: Mélissa Petit (Léonard / La Vigie), Cyrille Dubois (Alvar), Thomas Dolié (Vasco de Gama / Recitant), Orchestre national de Metz Grand EstFlemish Radio Choir, David Reiland (direttore); Venise” – “Variations chromatiques”, Célia Oneto Bensaid (Pianoforte); “Le Retour de Virginie”, Marie-Andrée Bouchard-Lesieur (Marguerite), Cyrille Dubois (Paul), Patrick Bolleire (Le Missionnaire des Pamplemousses), Orchestre national de Lyon, Ben Glassberg (direttore); “Nocturne en ré majeur”: Nathanaël Gouin (pianoforte); Mélodies: Adèle Charvet (mezzosoprano), Florian Caroubi (pianoforte), Reinoud Van Mechelen (tenore),  Anthony Romaniuk (pianoforte); “Clovis et Clotilde”: Karina Gauvin (Clotilde), Julien Dran (Clovis), Huw Montague Rendall (Rémy), Le Concert de la Loge, Julien Chauvin (direttore); “Chasse fantastique”: Nathanaël Gouin (pianoforte); Mélodies: Reinoud Van Mechelen (tenore), Anthony Romaniuk (pianoforte); “Six Choeurs de Gounod”: Nathanaël Gouin (pianoforte). 4 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane Portraits n. 6.

La fondazione Palazzetto Bru Zane celebra i 150 anni dalla morte di Georges Bizet con un ponderoso cofanetto di ben quattro CD che raccoglie musiche poco o punto note del compositore francese, comprese una serie di prime registrazioni assolute.
Il titolo più noto – oltre che unica pagina operistica del programma – è “Djamileh” del 1872 trionfo di quell’orientalismo di maniera che tanto successo aveva in quegli anni a Parigi. L’opera di ambientazione egiziano-mussulmana mostra un Bizet ormai padrone di un proprio stile seppur ancora alla ricerca di una propria strada all’esotico che si realizzerà solo con “Carmen”. L’orchestra Les Siècles e il Choeur de l’Opéra de Lille sono diretti con gusto e sensibilità da François-Xavier Roth capace di valorizzare sia il gusto decorativo dei passaggi più esotici sia il più sincero abbandono lirico delle pagine tra gli amanti. La registrazione permette di ascoltare l’opera per la prima volta con strumenti originali e con le intonazioni d’epoca. Tra i cantanti si fanno apprezzare sia Sahy Ratia tenore dal bel materiale lirico sia soprattutto Isabelle Druet che canta con bella voce e grande intensità la parte della protagonista. Philippe-Nicolas Martin canta la parte di Splendiano con voce da autentico baritone noble.
Decisamente insolita come struttura “Vasco da Gama” ode-sinfonia che unisce opera, cantata e sinfonia a programma con una coerenza formale nel complesso riuscita. Sotto la direzione David Reiland troviamo Thomas Dolié, tenore drammatico impegnato sia come protagonista sia nella parte recitata del narratore e soprattutto Mélissa Petit che gorgheggia deliziosa nel Bolero di Léonard.
Uno spazio non secondario è rappresentato dalle due cantate presentate in occasione delle partecipazioni al Prix de Rome. “Clovis et Clotilde” del 1857 mostra un compositore tecnicamente valido ma ancora immaturo. Lo stile è ancora quello di tradizione post-rossiniana fatto proprio dal grand-opéra parigino con la rigida struttura a pezzi chiusi e l’ampio uso di colorature. Il tema centrato sulla battaglia di Tolbiac e la conversione di Clodoveo affonda nel più puro patriottismo francese spingendo il giovane Bizet verso uno stile enfatico e declamatorio. Karina Gauvin e Julien Dran si adattano alla perfezione alla solenne retorica complessiva. Vocalmente lei si fa apprezzare nei rapidi passaggi di colorature mentre il tenore si fa perdonare qualche acuto non pulitissimo con l’autorevolezza dell’accento. Grande personalità e bella voce di basso per il Remy di Huw Montague Rendall.
Le Retour de Virginie” era destinata all’edizione 1853 del Prix ma non venne eseguita. Viene qui presentata in prima registrazione assoluta. Il carattere bucolico e dolente della composizione ispira a Bizet cifre più personali e sentite rispetto alla composizione successiva. Già notevole e la capacità di scrittura orchestrale che emerge della scena di tempesta. Cyrille Dubois (Paul) dispone di una vocalità schiettamente lirica ma riesce a piegarla ad accenti intensi e drammatici. Bella voce di mezzosoprano chiara e morbida quella di Marie-Andrée Bouchard-Lesieur mentre Patrick Bolleire ha la giusta autorevolezza richiesta dal Missionnaire des Pamplemousses.
Le composizioni più strutturate sono affiancate da una selezione di brani orchestrali e da camera. Le quattro “Musique pour choeur et orchestre” si caratterizzano come studi d’ambiente o di atmosfere per orchestra, coro e solisti. Ritroviamo la Petit e Dubois che confermano le belle prove delle composizioni più ampie mentre sul piano compositivo si fa notare soprattutto “La Mort s’avance” “méditation sur deux études de Frédéric Chopin” su un testo dell’Abbé Pellegrin per orchestra e coro.
La produzione pianistica di Bizet non è trascurabile per quantità e qualità ma nel complesso è ben poco nota. La registrazione permette di farsi un’idea più precisa di questa produzione. Tra i brani scelti non poteva mancare – considerando la sede della fondazione – “Venise” una delle tante composizioni di suggestione veneziana così di moda all’epoca. Genere oggi poco considerato ma all’epoca fondamentale strumento di conoscenza musicale le trascrizioni per pianoforte di brani o temi operistici. Bizet si cimentò nel genere e in programma è un piccolo ciclo di trascrizioni di sei brani corali da opere di Gounod.
La romanza da camera – in tutte le sue declinazioni nazionali – è un repertorio imprescindibile per ogni compositore. Ovviamente anche Bizet si è cimentato nel genere e nel cofanetto è proposta una nutrita selezione di brani. Gli interpreti sono il mezzosoprano Adèle Charvet dall’impostazione vocale più classica e dal timbro vocale morbido e caldo che ben si adatta soprattutto ai brani esoticheggianti come “Adieux de l’hôtesse arabe” e il tenore Reinoud Van Mechelen, specialista del repertorio barocco e settecentesco, voce non classicamente bella ma interprete di rara intelligenza espressiva e magistrale sul piano tecnico, si ascoltino le splendide mezzevoci.
I quattro CD sono accompagnati come sempre da un’ampia e documentata raccolta di saggi ancor più importante in un lavoro di sintesi come questo, dove la necessità di inquadramento storico dei vari brani si fa sentire con ancora maggior evidenza.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Noi Giuda” dal 15 al 16 maggio 2025

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 08:00

Roma, Teatro Parioli Costanzo
NOI GIUDA
con Massimo Ghini
scritto e diretto da Angelo Longoni
Musiche originali composte da Paolo Vivaldi in collaborazione con Aldina Vitelli
aiuto regia di Lorenzo Rossi
video di Gianni Del Popolo
produzione Il Parioli
produttore esecutivo Enzo Gentile
Giuda è il prototipo dell’essere abbietto e ambiguo. Ed è ambigua tutta la vicenda che lo lega indissolubilmente a Gesù. Giuda è l’umano con le sue infinite contraddizioni. Gesù è il divino con la sua perfezione. Ma narrativamente il tradimento è indispensabile alla morte di Gesù e alla diffusione della parola di Dio. Giuda è quindi anche l’esecutore del disegno divino. Ma si può eseguire la volontà divina e al contempo essere colpevole? Possiamo davvero considerare Giuda come siamo abituati a fare da secoli? Oggi Giuda, stanco della reputazione di cui soffre da due millenni, ritorna tra noi per dire la sua. La dice con il linguaggio e gli strumenti dei nostri giorni, in una impossibile e fantasiosa “conferenza”. Finalmente ci dirà cosa pensa dei famosi trenta denari, della sua iniziale speranza in un Messia liberatore e ci parlerà di un suo Vangelo. Giuda sa essere ironico, a volte tenero. La tradizionale malvagità attribuitagli non fa per lui. Gli è più congeniale l’indagine da investigatore e la ricerca delle contraddizioni narrative e di un movente credibile per difendere la propria reputazione. L’ironica assurdità della situazione, si fonda sempre sui fatti, su una visione rispettosa della fede e su una documentazione accuratamente controllata. Giuda non accetta di essere il simbolo di coloro che hanno crocifisso Gesù, desidera una riabilitazione. In fondo dovremmo tutti provare simpatia per questo personaggio, disprezzato anche per essersi tolto la vita ed essere morto praticamente insieme a Gesù. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: “Trittico Weill” in scena dal 13 al 30 maggio

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 20:32
Si avvicina la prima del Trittico Weill, una produzione dedicata a tre capolavori nati dalla collaborazione tra Bertolt Brecht e Kurt Weill, in scena dal 14 al 30 maggio alla Scala. Mentre I sette peccati capitali raccontano di due gemelle che affrontano i sette vizi nella disperata ricerca del successo, Mahagonny Songspiel descrive la vita degli abitanti della peccaminosa città di Mahagonny, e Happy End parla dell’amore improbabile di una missionaria per un gangster. Diretto da Riccardo Chailly e con la regia di Irina Brook, il Trittico riporta alla Scala la musica di Kurt Weill, ibrido tra jazz, cabaret e musical.
Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: “Il nome della rosa”

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 17:14
Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera 2024/25 “IL NOME DELLA ROSA” Opera in due atti su libretto di Francesco Filidei e Stefano Busellato, con la collaborazione di Hannah Diibgen e Carlo Pernigotti, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Umberto Eco. Musica di Francesco Filidei Adso da Melk KATE LINDSEY Guglielmo da Baskerville LUCAS MEACHEM La Ragazza del Villaggio/ Statua della Vergine KATRINA GALKA Jorge da Burgos GIANLUCA BURATTO Bernardo Gui DANIELA BARCELLONA Abbone da Fossanova FABRIZIO BEGGI Salvatore LORENZO FRONTALI Remigio da Varagine ENRICO BERRUGI Malachia OWEN WILLETTS Severino da Sant’Emmerano PAOLO ANTOGNETTI Berengario da Arundel/ Adelmo da Otranto CARLO VISTOLI Venanzio/ Alborea LEONARDO CORTELLAZZI Un cuciniere/ Girolamo vescovo di Caffa ADRIEN MATHONAT Ubertino da Casale CECILIA BERNINI Michele da Cesena FLAVIO D’AMBRA Cardinal Bertrando RAMTIN GHAZAVI Jean d’Anneaux ALESSANDRO SENES Orchestra, Coro e Voci Bianche del Teatro alla Scala  Direttore Ingo Metzmacher Maestro del Coro Alberto Malazzi Voci bianche dirette da Bruno Casoni Regia Damiano Michieletto Scene Paolo Fantin Costumi Carla Teti Luci Fabio Barettin Drammaturgia Mattia Palma Coreografia Erika Rombaldoni Prima Assoluta – Nuova Produzione del Teatro alla Scala in coproduzione con l’Opéra National de Paris e la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova Milano, 06 maggio 2025
L’ambizioso progetto di ricavare un’opera lirica da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, peraltro finanziato da tre fondazioni di prima importanza è parso, quando la notizia si diffuse, parimenti un’idea magnifica e molto pericolosa al contempo. Il romanzo, infatti, si nutre per larga parte delle ambientazioni che riesce a ricreare, della geografia di questa abbazia immaginaria quanto drammaticamente realistica – tanto che la prima edizione Bompiani dell’80 riportava stampata all’interno della copertina la mappa dei luoghi in cui Guglielmo e il giovane Adso si sarebbero mossi. Come poter ricreare quella magia nello spazio grande ma chiuso di un teatro? D’altro canto, tuttavia, la materia narrativa de “Il nome della rosa“, con le sue atmosfere inquietanti quasi oniriche, le maledizioni bibliche, i personaggi delineati con forza e insieme attenzione al dettaglio, hanno da sempre fatto gola alle arti performative – pensiamo alla bella pellicola di Annaud dell’86, o alla più recente serie Rai, con un John Turturro in stato di grazia: perché allora non anche un’opera? Questo si devono essere detti Francesco Filidei e Stefano Busellato, oltre alle direzioni dei teatri che hanno sostenuto il progetto. In effetti, sul piano teorico funziona tutto: la partitura è profondamente coesa, con un’enorme predominanza degli ottoni e delle percussioni, tutta giocata sull’alternarsi di recitativi tesi e ricchi di suoni ambientali, e la rielaborazione di melodie gregoriane dissonanti e fuori tempo, per accentuare il carattere thrilling della vicenda; il libretto, ad opera dello stesso Filidei oltre che di Busellato, supportati da Hannah Diibgen e Carlo Pernigotti, presenta una drammaturgia piuttosto efficace ed equilibrata, interessata, com’è ovvio, a porre molto del romanzo al suo interno, ma anche capace di sintesi e di pause; inoltre non si può certo dire un libretto banale, poiché presenta lunghe parti in latino ed alcune persino in greco, oltre che riflessioni teologiche e riferimenti semiotici e filologici. Insomma, un’operazione riuscita e di ampio respiro. Altra cosa, tuttavia, è portare questa magnifica creazione in scena, cantarla, recitarla – ed è questo l’aspetto su cui solleviamo alcune riserve. Per prima cosa la lunghezza dell’opera (quasi tre ore) avrebbe necessitato di parti vocali meglio variate: spesso abbiamo in scena solisti con registri simili, e questo non aiuta a seguire il serrato scambio nei lunghi recitativi; non solo: come abbiamo sottolineato, un’opera del genere crea altissime aspettative sul piano scenico, che non si può dire vengano soddisfatte: Paolo Fantin opta per una scena de facto vuota, nera, impreziosita da alcuni grandi oggetti colorati – la Vergine, il fregio del portone, le miniature ecc – che transitano per la scena; per il resto sono complementi trasparenti, di gusto ultramoderno e illuminati da neon, come la grande fonte di luce circolare in alto, come gli spalti sopraelevati da cui canta il coro (già visti qui in “Turandot”, in “Peter Grimes”, e in altre produzioni non scaligere). Per una messa in scena ci è parso il minimo indispensabile; così come “minimal” i costumi di Carla Teti – oltre che inspiegabilmente arancioni le vesti dei monaci – ove invece avrebbero potuto venire connotati sia cromaticamente sia per foggia (tanto non c’è un effettivo rispetto del periodo storico), anche per aiutare lo spettatore a capire chi è chi. La regia di Damiano Michieletto c’è e non c’è (come sovente ci è già capitato di notare): Michieletto sembra distratto, intermittente, m sa circondarsi di solidi professionisti – in questo caso emergono sono Erika Rombaldoni, che sa creare coreografie suggestive e complesse, come quella del fregio che prende vita, Fabio Barettin, con le sue luci davvero rarefatte, che sembrano cercare più il buio profondo che l’illuminazione della scena, senza per questo negarci un singolo gesto di quanto vi avvenga. Sulla nutritissima compagnia di canto (ben ventuno personaggi, interpretati da diciassette cantanti), paradossalmente, si può dire limitatamente, come avviene spesso per opere contemporanee di questo gusto: la mancanza di una tradizione, oltre alla costruzione fascinosa e cerebrale delle linee melodiche, impongono al cantante la sfida quasi mai superabile di distinguersi davvero per capacità interpretativa. In questo caso vi riesce senza dubbio Kate Lindsey (Adso da Melk), mezzosoprano dalla voce ricca di armonici e dalla ragguardevole estensione, ottima anche in scena – e il tutto ben si esprime nell’aria del Secondo Atto “Strega? Quale strega?”; accanto a lei certo anche Lucas Meachem è un fervente Guglielmo da Baskerville, sebbene i bei colori della voce riescano ad esprimersi meglio nel Secondo Atto, piuttosto che nel primo, merito anche di un’aria interessante – “Si dice che la donna” – e di un coinvolgente duetto finale con il basso profondo. Ed è proprio Gianluca Buratto, nel ruolo di Jorge da Burgos, pure a distinguersi, con la sua vocalità sicura e ben proiettata, da vero cattivo della storia. Fra gli altri interpreti, ben figurano i controtenori Carlo Vistoli (nel doppio ruolo di Berengario e Adelmo) e Owen Willetts (un convincente Malachia) e il tenore Leonardo Cortellazzi (Venanzio/ Alborea) per il nitore dell’emissione e il colore chiaro della voce. Artisti di indiscusso talento come Roberto Frontali (Salvatore) o Giorgio Berrugi (Remigio), affrontano i ruoli con grande professionalità, ma vi rimangono un po’ intrappolati, tra la concitazione della parola e il rispetto della linea di canto. Infine, un mistero rimane la scelta di un mezzosoprano come Daniela Barcellona per interpretare l’attempato inquisitore Bernardo Gui – e più la Barcellona si spende scenicamente e vocalmente, e più lo straniamento tra personaggio e interprete aumenta; forse trascrivere la parte per un altro basso profondo – per eventuali repliche –  potrebbe migliorare la ricezione del personaggio e la credibilità delle scene in cui è protagonista. L’opera, in ogni caso, ha saputo stimolare la curiosità della piazza meneghina, che ha visto diversi “tutto esaurito” e si avvia a celebrare un successo, senza dubbio non scontato per un inedito, per quanto il soggetto sia famoso. E in effetti, come detto all’inizio, del gran bel materiale c’è: forse, tuttavia, per avvicinarlo ulteriormente a una piena fruibilità, occorrerebbe semplicemente arricchire la scena e rivedere l’assegnazione dei ruoli.  Foto Brescia & Amisano
Categorie: Musica corale

Venezia, Palazzetto Bru Zane: “Bizet segreto” con Roberto Prosseda

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 08:32

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Bizet, L’amore ribelle”, 29 marzo-16 maggio 2025
BIZET SEGRETO”
Pianoforte Roberto Prosseda
Georges Bizet: Nocturne n° 2; Charles Gounod: La Veneziana; Souvenance; Romances sans paroles (extraits); Georges Bizet: “Chants du Rhin”; Louise Farrenc Naples: “La Grand’mère”; Georges Bizet: “Variations chromatiques”
Venezia, 6 maggio 2025
Un “Bizet segreto” veniva rivelato nel corso di questo concerto, attraverso l’esecuzione di alcune sue pagine pianistiche ‘poco conosciute’ e dal carattere ‘intimo’, ‘introspettivo’, ‘notturno’: complice il pianismo sensibile e trascendentale di Roberto Prosseda che, oltre a Bizet, ha indagato due altri compositori francesi dell’Ottocento – Charles Gounod e Louies Farrenc –, i quali, come l’autore di Variations chromatiques, rivisitano il virtuosismo del pianoforte.
Intensamente espressivo quanto tecnicamente prestante si è dimostrato Prosseda, nell’affrontare i brani di Bizet. Nel Nocturne n° 2 – un pezzo cromatico, instabile dal punto di vista tonale, risalente a un periodo in cui l’autore aveva raggiunto una certa notorietà, grazie a Les Pêcheurs de perles (1863) – si è colto un sapore vagamente lisztiano. Gli Chants du Rhin – ispirati ai Lieder ohne Worte di Mendelssohn, pur collegati a dei versi di Joseph Méry – hanno di fatto rivelato la loro vicinanza all’estetica francese, oltre che a Chopin. Impeccabile il pianista di Latina nel caratterizzare ogni “Lied”: L’Aurore con il suo leggiadro tema danzante, Le Départ e Les Rêves dalla densa scrittura, il vigoroso La Bohémienne, l’intimo e commosso Les Confidences, il festoso e anelante Le Retour. Un esaltante saggio di virtuosismo ma anche di finezza interpretativa si è apprezzato nelle Variations chromatiques (1868), dove Bizet dà prova di rigore strutturale come di profondità artistica – esplorando le potenzialità della scrittura pianistica senza perdere di vista la bellezza dell’insieme –, di ricchezza armonica e audacia virtuosistica, pur trattandosi di un virtuosismo che sa essere anche introspettivo. Analoga, per molti versi, la sua lettura dei brani di Gounod e di Louise Farrenc. Quanto alle pagine firmate dall’autore di Faust, Prosseda ci ha conquistato affrontando il cromatismo che percorre La Veneziana (1874), una barcarola venata di tristezza – impossibile non pensare a Mendelssohn –, introdotta da alcuni arpeggi ‘affannati’, che formano un flusso continuo, narrativo e introspettivo al tempo stesso. Più serena l’atmosfera di Souvenance (Rimembranza), un notturno – di incerta datazione –, che illustra l’estetica intimista dell’autore, vario nei ritmi e nei toni emotivi, resi con sapienza di tocco. Appassionatamente felice l’aura evocata da Chanson de printemps (1849, trascritta per pianoforte solo nel 1866), appartenente alla raccolta “Romances sans paroles”, sostenuta da un moto perpetuo di semicrome, a ricordare il mormorio della natura che si ridesta. Intriso di mestizia, Ivy/Le Lierre – appartenente alla medesima raccolta –, la cui fluida melodia gira e rigira continuamente su se stessa. Il brano, che ha qualche affinità con una poesia di Dickens, fu scritto (intorno al 1872) da Gounod in una casa che era appartenuta al poeta inglese. Alquanto semplice il linguaggio dei due “Rondoletti” di Louise Farrenc: Naples – basato su una barcarola di Francesco Masini, compositore italiano contemporaneo dell’autrice – perentorio nell’esordio e poi danzante, in cui hanno cantato alternativamente le due mani dell’esecutore; e La Grand’mère, un pezzo analogamente deciso all’inizio e in seguito scanzonato, giocoso, brillante con rapide volatine cromatiche. Successo caloroso con reiterati applausi. Due fuoriprogramma: il Notturno n.1 op. 62 di Chopin e – doverosamente Venetianisches Gondellied (Il Lied della gondola veneziana) op. 30 n. 6 di Felix Mendelssohn.

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Roma, Teatro Vascello: “Felicissima Jurnata” dal 13 al 18 maggio 2025

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 08:00

Roma, Teatro Vascello
FELICISSIMA JURNATA
Finalista Forever Young – La Corte Ospitale 2022

Vincitore del premio Giuria Popolare – Dante Cappelletti 2021
drammaturgia e regia Emanuele D’Errico
con Antonella Morea e Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
scene Rosita Vallefuoco
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
luci Desideria Angeloni
costumi Rosario Martone
aiuto regia Clara Bocchino
realizzazione scene Mauro Rea
macchinista Michele Lubrano Lavadera
fonico Stefano Cammarota
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations (Valeria Bonacci, Giorgia Simonetta)
produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia
in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo
e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania
Felicissima jurnata cerca di cogliere l’essenza o, forse, l’assenza di vita reale che unisce sul filo della solitudine il basso napoletano e quel che ne resta di Giorni Felici di Beckett. Dal 2018 Putéca Celidònia vive attivamente il Rione Sanità di Napoli portando il teatro in mezzo ai vicoli bui ed abbandonati. “Ci è successo, dopo aver gradualmente preso confidenza, di entrare in alcuni bassi (la tipica abitazione al piano terra con ingresso su strada) e di trovare una situazione surreale. Così abbiamo deciso di iniziare un viaggio! Nello zaino abbiamo messo la macchina da presa, il quaderno degli appunti e le domande che il testo di Giorni Felici ci ha mosso, immergendoci nelle storie delle persone che ci hanno sorpreso, rapito e portato su di una strada imprevista. E tra un’intervista e l’altra abbiamo domandato loro chi fosse Beckett e nessuno lo aveva mai sentito nominare. Eppure ci sembravano così vicini, così familiari. Il testo è venuto da sé, lo hanno scritto loro: le storie di Assunta, Pasqualotto, Angela e di tutti gli altri sono così pregne da poterci scrivere romanzi per ognuno di loro. Questo testo è anche la storia di una donna di centonove anni C-E-N-T-O-N-O-V-E ANNI che ancora si trucca, che mette lo smalto e “sente” la gente intorno che suona e che canta. Di queste storie si compone Felicissima jurnata, che pone l’accento sulla paralisi emotiva e fisica che queste persone si impongono per mancanza di mezzi. Molti di loro non sono mai usciti dalla loro città – nel migliore dei casi – e nel peggiore non sono mai usciti dal proprio quartiere e chissà da quanto tempo dalla propria casa. Non è prigionia questa? È una prigionia consapevole o inconsapevole?” Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Argentina: “Ritorno a casa”

gbopera - Mer, 07/05/2025 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
RITORNO A CASA
di Harold Pinter
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio
e con Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Alessandro Saviozzi
foto Claudia Pajewski
produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
07 maggio 2025
«Sotto ogni superficie di normalità, nella famiglia, nella casa, nelle parole, serpeggia il morso nascosto dell’istinto.»
Harold Pinter
Nel 1964, mentre l’Europa si illudeva di assistere a una nuova fioritura di civiltà e libertà, Harold Pinter, con The Homecoming, ne scopriva il rovescio oscuro. Con una scrittura che incide come una lama nella carne della quotidianità, Pinter raccontava il collasso silenzioso dei legami familiari, mettendo in scena non più la comunicazione tra uomini, ma il loro fallimento a comprendersi, a vivere, persino a esistere gli uni accanto agli altri. Le parole, nei suoi testi, non servono più a trasmettere messaggi: sono maschere, schermi, armi di sopraffazione, capaci di insinuare anziché chiarire. Massimo Popolizio raccoglie oggi quella sfida letteraria e teatrale con uno spettacolo di rara intelligenza registica e forza espressiva. Il suo Il ritorno a casa, in scena al Teatro Argentina, è un percorso spietato dentro la casa pinteriana, dove la ferocia e l’humour si intrecciano fino a diventare indistinguibili, in un gioco pericolosamente divertente che lascia lo spettatore senza appigli, senza vie di fuga. Il merito principale della regia di Popolizio è quello di assecondare e al tempo stesso potenziare la natura quasi cinematografica del testo: i dialoghi brevi, taglienti, si succedono come rapide inquadrature; le pause diventano montaggi interni, scandendo un ritmo interno che incalza senza mai esplodere. La scena, firmata da Maurizio Balò, è uno spazio chiuso, asfittico: un interno borghese consunto e squallido, dominato da pochi arredi stanchi, senza memoria né promessa di riscatto. Questo non-luogo, perfettamente neutro e claustrofobico, accoglie i personaggi come presenze residuali, vittime e carnefici di una stessa condizione esistenziale. In perfetta coerenza con questo disegno visivo, i costumi di Gianluca Sbicca vestono i corpi con abiti anonimi e scoloriti, parlando prima dei personaggi stessi del loro naufragio umano. Le luci di Luigi Biondi, cesellate con una sapienza quasi scultorea, disegnano traiettorie di isolamento, riquadri di solitudine, improvvise fenditure di crudezza che sembrano aprire abissi sotto i piedi degli attori. Il suono, curato da Alessandro Saviozzi, accompagna senza invadere: silenzi e vibrazioni appena percepibili sottolineano lo svuotamento emotivo e il vuoto pneumatico che regna sulla scena. La regia di Popolizio non rincorre l’effetto facile: non carica il grottesco né sottolinea il tragico. Al contrario, lascia che la crudezza emerga naturalmente dalle parole e dai gesti, orchestrando il tutto con un rigore che si fa cifra stilistica. Il ritmo dello spettacolo è sapientemente controllato: Popolizio dosa sapientemente immobilità e improvvisi scatti nervosi, modulando la tensione in un gioco di compressioni e rilasci che mantiene il pubblico in uno stato di allerta inquieta. Il cast, composto da Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale e lo stesso Popolizio, offre una prova corale di altissimo livello. La direzione attoriale è coerente e compatta: non vi sono picchi narcisistici o virtuosismi isolati, ma una coralità dolente e serrata, perfettamente aderente all’universo pinteriano. Gli attori plasmano i loro personaggi attraverso una recitazione asciutta, antipsicologica, affidandosi a mezzi toni, silenzi, posture che rivelano più dei dialoghi stessi. Il linguaggio scenico diventa così una trama di tensioni sotterranee, dove il non detto pesa più del detto, e ogni gesto minimo — un sorriso trattenuto, uno sguardo abbassato — si carica di un’ambiguità spaventosa. La capacità di Popolizio di far emergere la vena cinica e crudele dell’opera raggiunge qui il suo massimo compimento. Il riso che Il ritorno a casa suscita è un riso amaro, destabilizzante, un riso che costringe lo spettatore a interrogarsi su ciò che trova comico e su ciò che cela dietro quella comicità. Attraverso questa operazione, Popolizio restituisce in pieno la natura “pericolosamente” divertente della pièce: diverte scardinando, diverte demolendo certezze, diverte mettendo a nudo le ipocrisie su cui si reggono la famiglia, la società, la convivenza stessa. L’arrivo di Ruth nella casa, figura ambigua e catalizzatrice, non introduce una frattura violenta: agisce piuttosto come un acido silenzioso che scioglie definitivamente i già fragili equilibri familiari. Popolizio riesce a raccontare questa lenta corrosione senza mai ricorrere a forzature: tutto avviene sotto gli occhi dello spettatore con una naturalezza atroce, come se l’orrore fosse il destino inevitabile di quella convivenza, e non un incidente. In questo Il ritorno a casa, la famiglia si rivela come il primo e il più crudele teatro del potere. Le relazioni non sono fondate sull’affetto, ma sulla forza; la parola non è veicolo di amore, ma strumento di dominio; l’identità stessa dei personaggi si dissolve in una lotta continua per l’affermazione e la sopravvivenza. Alla fine, lo spettacolo di Popolizio non concede alcuna via di fuga né illusione di catarsi. Il pubblico esce da questo ritorno a casa con il peso di una verità scomoda: che dietro ogni normalità si cela una violenza muta, e che il vero orrore non è l’eccezione, ma il quotidiano. Con rigore intellettuale, lucidità registica e una straordinaria compattezza interpretativa, Massimo Popolizio firma uno spettacolo che non solo rende piena giustizia a Harold Pinter, ma riafferma, con forza rara, la funzione inquietante e necessaria del teatro.

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Roma, Teatro dell’Opera: “Tosca” dal 09 al 13 maggio 2025

gbopera - Mer, 07/05/2025 - 13:03

Roma, Teatro dell’Opera
TOSCA
Dopo il grande successo delle precedenti repliche, il Teatro dell’Opera di Roma presenta il terzo appuntamento con Tosca di Giacomo Puccini, in un allestimento che è già entrato nella memoria visiva della stagione come un tributo fedele e appassionato al debutto storico dell’opera nel 1900. Nel cuore della città dove la vicenda si svolge e dove Puccini stesso vide il suo capolavoro prendere vita per la prima volta, Tosca torna sul palcoscenico del Costanzi nella sontuosa ricostruzione filologica dell’allestimento originario firmato da Adolf Hohenstein, uno dei maggiori illustratori e scenografi italiani del primo Novecento. Un’operazione raffinata che restituisce al pubblico non solo l’opera nella sua essenza musicale, ma anche lo stile e il gusto dell’epoca, con scene e costumi riprodotti con straordinaria cura da Carlo Savi e Anna Biagiotti. Sul podio, la direzione musicale è affidata a James Conlon, maestro di assoluto prestigio internazionale, che affronta la partitura pucciniana con rigore e passione, conducendo l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma in una lettura intensa, attenta al dettaglio drammatico e lirico, capace di restituire tutta la forza emotiva del melodramma. La regia è firmata da Alessandro Talevi, che accompagna lo spettatore all’interno della narrazione con mano sicura, lasciando che la teatralità arda sotto le superfici della fedeltà storica, senza mai ingabbiare la vitalità dei personaggi o la loro tragedia. Anna Pirozzi è una Tosca maestosa e sanguigna, eroina dell’istinto e della gelosia, ma anche figura dolente capace di commuovere e sorprendere. Accanto a lei, Luciano Ganci disegna un Cavaradossi appassionato, idealista e generoso, mentre Ariunbaatar Ganbaatar veste con impressionante autorevolezza i panni del barone Scarpia, incarnazione torbida del potere e del desiderio. Intorno a questo triangolo tragico, si muove un cast d’eccellenza: Luciano Leoni interpreta l’angelico Cesare Angelotti, Domenico Colaianni il pittoresco Sagrestano, Matteo Mezzaro lo spietato Spoletta, Marco Severin il fedele Sciarrone, e Carlo Alberto Gioja il carceriere. Il Coro del Teatro dell’Opera, diretto da Ciro Visco, e il Coro di Voci Bianche, preparato dal maestro Alberto De Sanctis, completano il quadro sonoro di un’opera che, ancora una volta, si dimostra capace di toccare le corde più profonde dello spettatore. Il disegno luci è curato da Vinicio Cheli, che scolpisce la scena con tagli d’ombra e bagliori dorati, esaltando la tensione drammatica e la poesia tragica che percorre ogni atto. Tornare a vedere Tosca oggi, in questa forma storica ma sorprendentemente viva, è come varcare una soglia temporale. È l’incontro con un tempo doppio: quello della Roma ottocentesca in cui si consuma il dramma, e quello del 1900, quando il mondo intero cominciava a conoscere la potenza della musica pucciniana. Il Teatro dell’Opera di Roma invita il pubblico a lasciarsi coinvolgere da questa esperienza immersiva, dove ogni elemento — dalla musica alla scena, dalla parola cantata al silenzio più teso — contribuisce a rendere Tosca non solo uno spettacolo, ma un evento culturale di profonda bellezza e memoria. Per ulteriori informazioni: www.operaroma.it

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Roma, Teatro India: “La banalità dell’amore”

gbopera - Mar, 06/05/2025 - 23:59

Roma, Teatro India
LA BANALITA’ DELL’AMORE
di Savyon Liebrecht
adattamento e regia Piero Maccarinelli
con Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giulio Pranno, Mersila Sokoli
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Javier Delle Monache
musiche Antonio Di Pofi
aiuto regia Emanuela Annecchino
assistente costumi Francesca Colica
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 06 maggio 2025
La scena non cerca indulgenza, né chiede pietà. In “La banalità dell’amore” , Piero Maccarinelli traduce in teatro una delle fratture più laceranti del Novecento: l’impossibilità di separare l’intelligenza dalla colpa, l’amore dalla vergogna. È in questa tensione irriducibile che si muove la scrittura di Savyon Liebrecht, ed è in questa tensione che lo spettacolo, andato in scena al Teatro India di Roma, trova la sua verità più scottante. Non la ricostruzione storica, non l’agiografia, ma il corpo vivo della memoria che si dibatte tra nostalgia, tradimento e solitudine. In un interno sobrio, dove il tempo pare sospeso, la vecchia Hannah Arendt, straordinariamente interpretata da Anita Bartolucci, lotta contro i fantasmi del passato. Siamo nel 1975, a New York, e la filosofa, convalescente dopo un infarto, cerca di mantenere un’apparente quiete. Ma l’arrivo di un giovane giornalista, che chiede un’intervista sul processo Eichmann, rompe ogni fragile equilibrio. La memoria esplode, irrompe la giovane Hannah, incarnata con energia da Federica Sandrini, e con lei il 1924, la Germania, la baita nella Foresta Nera dove il pensiero e il desiderio hanno radici comuni. Maccarinelli sceglie la via della sottrazione: una regia severa, priva di ogni enfasi, che lascia spazio al conflitto interno dei personaggi. La scena di Carlo De Marino taglia fisicamente il palco in due spazi paralleli: il presente e il passato, continuamente in collisione. I costumi di Zaira de Vincentiis e le luci chirurgiche di Gigi Saccomandi accompagnano questa frattura senza mai chiuderla, mentre le musiche discrete di Antonio Di Pofi suggeriscono il battito sommerso del ricordo. Sulla scena, il tempo si spezza e si rincorre. Non si procede per linee rette, ma per balzi, rotture, fenditure emotive. Hannah giovane e Hannah anziana si sfiorano, si parlano senza capirsi, senza salvarsi. La memoria non redime, semmai condanna. Il cuore dello spettacolo è la contraddizione irrimediabile che attraversa Hannah Arendt: la filosofa della “banalità del male” incapace di rinnegare il legame con Martin Heidegger, l’amante, il maestro, il pensatore che scelse di piegarsi al nazismo. Claudio Di Palma costruisce un Heidegger ambiguo e affascinante: non un carnefice, ma un uomo che ha tradito senza davvero capire. L’amore che lega i due è insieme sublimazione intellettuale e rovina inevitabile. La drammaturgia di Liebrecht evita la trappola del biopic: costruisce piuttosto una partitura frammentata, dove il teatro diventa macchina della memoria. Ogni scena, ogni gesto è una scheggia che ferisce. L’intervista che dovrebbe chiarire diventa invece un processo sommerso. Il giovane intervistatore, rivelatosi figlio di Raphael Mendelsohn, il compagno di studi perduto, incarna l’accusa mai sopita: non solo verso l’amore proibito, ma verso la stessa idea di fedeltà alla memoria.  Anita Bartolucci regge con impressionante misura la complessità del personaggio: un corpo segnato dal tempo, una mente ancora affilata, una donna che ha amato senza mai potersi assolvere. Le sue esitazioni, i suoi scatti di orgoglio, la dolorosa ironia che affiora nei momenti più tesi disegnano una Hannah Arendt piena, viva, lontanissima dalle santificazioni. L’intero impianto registico si regge su un’idea chiara: il conflitto non si risolve, non si può risolvere. Il palco spaccato in due è la rappresentazione visiva di una frattura esistenziale. E anche quando, nei momenti di maggior tensione emotiva, le due Hannah sembrano avvicinarsi, il passato e il presente non si fondono mai davvero. Restano a guardarsi, divisi. Giulio Pranno e Mersila Sokoli offrono interpretazioni di grande sensibilità e profondità. Pranno, nel ruolo del giovane Michael Ben Shaked, porta in scena un personaggio complesso con notevole intensità emotiva. Sokoli, nei panni della giovane Arendt, restituisce con finezza la passione e le contraddizioni di una figura storica affascinante. Il lavoro di Maccarinelli evita ogni didascalia. Il nazismo, la Shoah, l’esilio sono presenze fantasmatiche, mai tematizzate apertamente, ma onnipresenti. Il vero centro è l’ambiguità: l’ambiguità della cultura, della lealtà, del sentimento. E il teatro diventa il luogo in cui questa ambiguità si espone, senza appello. Nel finale, lo spettacolo non concede pacificazioni. Quando la giovane Hannah si dissolve e la vecchia Arendt resta sola, a scrutare una finestra buia, resta solo la certezza che il pensiero, da solo, non può salvarci. Resta la ferita del desiderio che sopravvive alla storia. E resta il monito di Rainer Maria Rilke, che attraversa come un’eco sommessa tutta la pièce: “Il bello è solo l’inizio del tremendo.” La banalità dell’amore è uno spettacolo che non conforta e non consola. È teatro della memoria, ma di una memoria frantumata, dolente, incapace di chiudere le proprie ferite. È il racconto di un amore che non redime, di una storia che non insegna, di una ferita che non guarisce. E per questo, più necessario che mai.

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Oper Frankfurt: “Der Rosenkavalier”

gbopera - Mar, 06/05/2025 - 21:53

Oper Frankfurt, Stagione 2024/25
“DER ROSENKAVALIER”
Commedia musicale in tre atti su libretto di Hugo von Hofmannstahl
Musica di Richard Strauss
Die Feldmarschallin MARIA BENGTSSON
Der Baron Ochs WILHELM SCHWINGHAMMER
Octavian IDA RÄNZLÖV
Herr von Faninal LIVIU HOLENDER
Sophie ELENA VILLALÒN
Jungfer Marianne Leitmetzerin MAGDALENA HINTERDOBLER
Valzacchi MICHAEL MCCOWN
Annina CLAUDIA MAHNKE
Ein Polizeikommissär BOŽIDAR SMILIANIĆ
Der Haushofmeister bei der Feldmarschallin/Ein Wirt ANDREW BIDLACK
Der Haushofmeister bei Faninal PETER MARSCH
Ein Notar FRANZ MAYER
Ein Sänger KUDAIBERGEN ABILDIN
Eine Modistin SMAGDALENA TOMCZUK
Ein Tierhandler DONÀT AVÀR
Ein Hausknecht HYEONJOON KWON
Mohammed GUILLERMO DE LA CHICA LÒPEZ
Drei adlige Waisen STEFANIE HEIDINGER, ENIKO BOROS, HIROMI MORI
Frankfurter Opern- und Museumsorchester 
Chor der Oper Frankfurt
Direttore Thomas Guggeis
Maestro del Coro Alvaro Corral Matute
Regia Claus Guth ripresa da Antonia Bär, Dorothea Kirschbaum
Scene e costumi Christian Schmidt
Luci Olaf Winter
Drammaturgia Norbert Abels
Frankfurt, 4 maggio 2025
In attesa della nuova produzione del Parsifal che chiuderà la stagione, l’ Oper Frankfurt riprende l’allestimento del Rosenkavalier di Claus Guth andato in scena per la prima volta nel 2015. Il sessantunenne regista, che è nato a Frankfurt e ha allestito diversi spettacoli per il teatro della sua città natale, ha ambientato la vicenda in un luogo a metà fra un hotel di lusso e una casa di riposo per ricchi, dove la Marschallin vive rimpiangendo i tempi della sua giovinezza. Come sempre accade nelle produzioni di Guth, il racconto scenico è portato avanti con molto gusto e precisione tecnica, ma alla fine io ho avuto l’ impressione che il concetto scenico del regista fosse leggermente riduttivo e non mettesse in luce tutte le sfaccettature della drammaturgia. Facendo il paragone con la recente splendida produzione di Barrie Kosky alla Bayerische Staatsoper, mi sembra che Guth non sia riuscito a evidenziare pienamente tutta la varietà di aspetti psicologici contenuti nel testo di Hugo von Hofmannsthal musicato con tanta raffinatezza da Richard Strauss, che vanno dalla malinconia nostalgica di fronte al passato che si allontana sino allo smarrimento di una classe nobiliare di fronte all’ affermarsi dei nuovi ricchi. A livello di godimento estetico, la messinscena è anche abbastanza monotona da vedere anche a causa delle scene e dei costumi, entrambi ideati da Christian Schmidt. Pienamente apprezzabile invece era la recitazione che evitava i bozzettismi manierati da cui sono troppo spesso infestate le produzioni dell’ opera straussiana, e l’ idea di togliere alla vicenda tutta l’ ambientazione settecentesca è coerente con il carattere della musica. Del resto, se esiste un’ opera il cui il profumo di Jugendstil è percepibile al massimo, questa è proprio Der Rosenkavalier, tanto più se si riflette sul fatto che il valzer, su cui tante pagine della partitura straussiana sono costruite, all’ epoca di Maria Teresa non esisteva. Sintetizzando, a mio avviso non si tratta di uno fra i migliori spettacoli di Claus Guth, che nelle opere di Strauss ha ottenuto risultati artistici molto più significativi di questa produzione tutto sommato non completamente risolta. Di livello molto più elevato la parte musicale, soprattutto per merito della direzione di Thomas Guggeis. La condotta musicale impostata dal nuovo Generalmusikdirektor del teatro, che il prossimo anno compirà un altro step significativo nella sua carriera con il debutto sul podio dei Berliner Philharmoniker, si faceva apprezzare per la bellezza del suono realizzata da una Frankfurter Opern- und Museumsorchester in eccellente stato di forma, la narrazione fluida e scorrevole, il senso del racconto teatrale e la cura attentissima all’ equilibrio tra buca e palco che aiutava non poco un cast composto in gran parte di voci non strabordanti. Forse per il mio personalissimo gusto sarebbe stato opportuno un filo di abbandono in più negli episodi squisitamente lirici come il monologo della Marschallin e la scena con Oktavian che concludono il primo atto, ma senza dubbio sia il carattere di Wienerische Maskarad’ della vicenda che il complesso intreccio di sentimenti proposti dal testo di Hoffmannsthal sono stati resi in maniera eccellente dalla lettura del giovane maestro bavarese, che ha dato un’ altra dimostrazione del suo telento davvero fuori dal comune e mi ha ulteriormente aumentato la curiosità di sentirlo misurarsi col Parsifal, che andrà in scena fra un paio di settimane. Per quanto riguarda il cast vocale, la migliore prestazione è stata senza dubbio quella di Ida Ränzlov, giovane mezzosoprano svedese che da alcuni anni è membro stabile dell’ ensemble della Staatsoper Stuttgart, assolutamente convincente nella sua raffigurazione di un Oktavian impulsivo e sentimentale, cantato con una voce luminosa e en proiettata. Il soprano Maria Bengtsson, ospite regolare dell’ Oper Frankfurt e cantante di carriera internazionale, ha delineato un bel ritratto della Marschallin, raffigurata come una donna malinconica e rassegnata alla fine della sua relazione con Oktavian. interessante era anche la Sophie interpretata dal giovanissimo soprano cubano-americano Elena Villalón, per la freschezza del timbro vocale e il fraseggio molto appropriato nel raffigurare una ragazzina ingenua che scopre l’ amore per la prima volta. Il quarantottenne basso bavarese Wilhelm Schwinghammer, che con questa produzione faceva il suo esordio all’ Oper Frankfurt, ha delineato un ritratto scenicamente convincente del Barone Ochs, raffogurato come un uomo ancora giovane e vitale e non come il solito Alte Trottel da farsa. La voce però, oltre a non essere di qualità speciale, è anche abbastanza debole nelle note gravi e nel finale del secondo atto i RE sotto il rigo rischesti da Strauss suonavano piuttosto fiochi e sordi. Vocalmente e scenicamente impeccabili erano le caratterizzazioni di Magdalene Hinterdobler (Marianne), Liviu Holender (Faninal) e della coppia di trafficoni Valzacchi e Annina, raffigurati in modo incisivo e spiritoso da Michael McCown e Claudia Mahnke. Il tenore kazako Kudaibergen Abildin è sembrato molto a disagio nella tessitura vocale molto acuta dell’ aria del Cantante Italiano. Molto buona era anche la prestazione di tutte le rimanenti parti di fianco. Il pubblico ha seguito in maniera attenta e partecipe la vicenda di un’ opera che è fra le più amate dagli spettatori tedeschi e alla fine ha applaudito a lungo e con calore tutti i componenti del cast. Foto ©Barbara Aumüller

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Roma, Palazzo delle Esposizioni: “World Press Photo 2025”

gbopera - Mar, 06/05/2025 - 12:01

Roma, Palazzo delle Esposizioni
WORLD PRESS PHOTO 2025
Roma, 05 maggio 2025
Ogni anno, mentre il frastuono dell’attualità rincorre se stesso e la cronaca affonda nel rumore bianco della ripetizione, esiste ancora un luogo in cui l’immagine resiste. Non quella del marketing, del selfie, del filtro digitale. Ma l’immagine nuda, cruda, necessaria. È la fotografia del dolore, della sopravvivenza, della tenacia. Quella che non chiede di essere scattata, ma che si impone all’obbiettivo come testimonianza. A Roma, a Palazzo delle Esposizioni, torna la mostra World Press Photo, e con essa la consapevolezza – che talvolta urta e turba – che guardare non è un atto neutro, ma una responsabilità. Chi varca la soglia del palazzo, non entra in una galleria come le altre. Si entra piuttosto in un universo collassato. Ogni immagine è una faglia, un’apertura su un mondo che, seppure distante, ci appartiene. Non si tratta solo di guerra, di crisi, di clima. Si tratta, per dirla chiara, di umanità. Di quella che resiste tra le rovine e quella che cerca un varco tra le frontiere. È un reportage dell’anima, più che della cronaca. E ha il potere di scorticare l’indifferenza con l’arma più semplice e antica: uno sguardo. Quest’anno il premio principale va a uno scatto che non si dimentica. Non per la sua violenza, ma per il suo silenzio. Il volto di Mahmoud Ajjour, nove anni, seduto in un letto d’ospedale a Gaza, ci guarda. Due monconi al posto delle braccia, perse in un’esplosione mentre tentava la fuga con la famiglia. La fotografia è di Samar Abu Elouf. Palestinese, donna, fotogiornalista per il New York Times. Non un nome qualsiasi, non uno sguardo qualsiasi. È la rappresentazione plastica dell’insensatezza, sì, ma anche della volontà di sopravvivere. In quello sguardo c’è una domanda che nessun trattato di geopolitica potrà mai contenere: perché? Accanto a questa icona, si stagliano altre due finaliste. Due spettri di un presente altrettanto tragico e ugualmente reale. Night Crossing di John Moore ritrae un gruppo di migranti cinesi accovacciati attorno a un fuoco dopo aver attraversato il confine tra Messico e Stati Uniti. Lo scatto cattura l’umanità congelata, l’attesa tra una notte e un’altra, tra un’identità lasciata e una ancora non conquistata. Poi, Droughts in the Amazon di Musuk Nolte ci porta in Brasile, dove un ragazzo cammina sul letto prosciugato di un fiume per portare del cibo alla madre. Il clima non è più una previsione, ma una condanna. E la fotografia, qui, si fa prova: atto giudiziario contro la nostra stessa specie. Nel percorso della mostra, tra i 42 progetti selezionati da oltre 59.000 immagini inviate da quasi 4.000 fotografi di 141 Paesi, la voce dell’Italia c’è. E non è marginale. Cinzia Canneri, unica italiana premiata, porta in mostra un lungo progetto di documentazione delle donne eritree e etiopi in fuga da regimi e conflitti. Un lavoro che non cerca la retorica della denuncia, ma il dettaglio della vita. I capelli raccolti in fretta, i corpi contratti per il freddo e la paura. Dettagli che valgono più di mille editoriali. La selezione, articolata in sei aree geografiche, è passata per mani esperte, e il giudizio finale è stato affidato a una giuria globale indipendente. Nulla di improvvisato, nulla di ammiccante. Le fotografie in mostra non lusingano, non seducono. Esigono. Esigono tempo, silenzio, una postura interiore. E chi ha ancora la presunzione di ritenere la fotografia un’arte minore, farebbe bene a fermarsi qui più a lungo del previsto. Perché questa non è una mostra che si attraversa con leggerezza. È un campo minato di emozioni, un rosario laico di tragedie, un archivio del presente che nessuno vorrebbe leggere, ma che tutti devono conoscere. E proprio per questo, è una delle mostre più urgenti dell’anno. Non si tratta di estetica, ma di etica. Non si tratta di gusti, ma di coscienza. Nel disordine del mondo, mentre le notizie si consumano nella velocità dello scroll, questa esposizione ci ricorda che ogni scatto è una scelta. E ogni scelta comporta una responsabilità. I fotografi premiati dalla World Press Photo Foundation non cercano l’applauso, ma la verità. Quella che si affaccia in una finestra bombardata, in un volto scavato dal sole, in un abbraccio rubato al pericolo. E allora, uscendo da Palazzo delle Esposizioni, viene da pensare che forse non tutto è perduto. Che finché esisteranno occhi capaci di vedere, e mani capaci di fermare l’istante in uno scatto che ci costringe a pensare, il mondo avrà ancora una speranza. Piccola, fragile, ma vera. Come quella che si legge nello sguardo mutilato di Mahmoud. Un bambino senza braccia che ci tende, paradossalmente, le mani. Perché siamo noi, adesso, a dover fare qualcosa. Almeno guardare. Guardare davvero.

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Alfredo Billetto. Un artista libero

gbopera - Lun, 05/05/2025 - 23:43

Opere di Alfredo Billetto – a cura di Francesco Longo e Simone Billetto.
Un vero peccato non averlo conosciuto, ma una fortuna aver conosciuto il figlio, Simone che ci ha permesso di poter esplorare gustare e conoscere le opere di Alfredo Billetto, un autore che mi rimanda ad una sorgente come la Bauhaus ma con più elastica dinamicità di rappresentazione di un suo pensiero attraverso il modo con cui componeva le immagini sia figurative che astratte ed in questa collezione di opere che ho scelto con Simone, prevale una linea molto varia che passa dalla grafica ai montaggi su carta e matericamente dal dipinto alla lavorazione concreta di oggetti in oro. Sia la linea che la materia appartengono ad una forma mentis indipendente ma contestualizzata a periodi in cui Alfredo Billetto è stato un valido surfista che con molta libertà è riuscito ad offrire un contributo alternativo con garbo ed eleganza a ciò che in trent’anni abbiamo potuto vedere nel mondo dell’arte non solo torinese. Libertà è la parola corretta per descrivere lui e le sue opere e in questa mostra chi e cosa meglio dei suoi lavori possa definirlo un artista libero (Francesco Longo).
Inaugurazione e vernissage : 07 maggio 2025 ore 18.00-21.00
La mostra sarà aperta al pubblico con i seguenti orari:
● 07 maggio 2025 al 25 maggio 2025
● dal martedì al venerdì 15.00 – 21.00 durante il weekend 16.00 – 21.00
Informazioni e Contatti
Musa Art Gallery/SpazioMusa – Via della Consolata 11E – Torino
Per ulteriori informazioni, contattare:
spaziomusa.torino@gmail.com

 

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Venezia, Teatro Malibran: “Der Protagonist” di Kurt Weill

gbopera - Lun, 05/05/2025 - 08:50

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025 della Fondazione Teatro La Fenice
DER PROTAGONIST”
Opera in un atto op. 15 Libretto di Georg Kaiser
Musica Kurt Weill
Protagonist MATTHIAS KOZIOROWSKI
Catherine, Schwester MARTINA WELSCHENBACH
Der junge Herr DEAN MURPHY
Der Hausmeister des Herzogs ALEXANDER GELLER
Der Wirt ZACHARY ALTMAN
John, 1. Schauspieler SZYMON CHOJNACKI
Richard, 2. Schauspieler MATTEO FERRARA
Henry, 3. Schauspieler FRANKO KLISOVIĆ
Musicisti in scena:
Flauti: Gianluca Campo, Fabrizio Mazzacua
Clarinetti: Giona Pasquetto, Nicolas Palombarini
Fagotti: Nicoló Biemmì, Fabio Grandesso
Trombe: Piergiuseppe Doldi, Giovanni Lucero
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Markus Stenz
Regia, scene, costumi e luci Ezio Toffolutti
Realizzazione luci Andrea Benetello
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 2 maggio 2025
Debutta a Venezia Der Protagonist, opera d’esordio di Kurt Weill, proposta dalla Fenice al Teatro Malibran in un nuovo allestimento, firmato da Ezio Toffolutti – quanto a regia, scene, costumi e luci – e da Markus Stenz per la direzione musicale. Nella Berlino degli anni Venti, culla del movimento espressionista, il venticinquenne musicista di Dessau – poco dopo la morte di Ferruccio Busoni, uno dei suoi maestri, avvenuta nel 1924 – attende alla composizione di Der Protagonist, reagendo all’intellettualismo delle avanguardie, che avevano ignorato il genere operistico, privilegiando la ‘musica assoluta’. A una riconciliazione tra quest’ultima e il versante musicale dell’opera puntava, invece, Weill, che intendeva rinnovare la tradizione del melodramma seguendo l’esempio di Berg, Debussy, Richard Strauss e soprattutto Stravinskij. In quel periodo Weill entrò in contatto con molti intellettuali legati ai circoli espressionisti. Nel 1924 conobbe il drammaturgo Georg Kaiser: il primo successo, nato dalla loro collaborazione, fu appunto l’opera Der Protagonist, rappresentata a Dresda nel 1926 (di lì a poco sarebbe cominciato il sodalizio con Brecht, destinato a segnare profondamente il teatro del Novecento). Musica e libretto riflettono l’atmosfera espressionistica che si respirava in quegli anni in Germania, e in particolare a Berlino. Nella finzione scenica una compagnia di attori sta provando uno spettacolo, in forma di pantomima, incentrato sul tema della gelosia, ma il gioco del teatro nel teatro finisce in tragedia quando il Protagonista-capocomico uccide per davvero Catherine, sua sorella, che ha la ‘colpa’ di amare un Giovane Signore. Come notò Adorno, Weill lascia poco spazio all’emotività, rifacendosi al carattere oggettivo, crudo e graffiante dell’espressionismo berlinese. Fanno eccezione due episodi, che vedono la Sorella come protagonista: la scena d’amore con il Giovane Signore e quella in cui la fanciulla dialoga con il Fratello appena prima della seconda pantomima. In essi l’orchestra intona dei motivi melodici, assenti invece nelle altre scene dell’opera, dove il canto è tutto declamazione sopra un’irregolare pulsazione dell’orchestra. A proposito di questo aspetto ritmico Adorno parlò di ‘motorismo’, chiamando in causa lo Stravinskij dei balletti degli anni Dieci. Ma stravinskiano è anche il colore timbrico delle pantomime, dove domina l’ottetto di fiati (I Musicisti del Duca). Venendo allo spettacolo, Ezio Toffolutti, profondamente legato alla cultura tedesca per aver studiato e insegnato in Germania, segue cum grano salis le indicazioni del raffinato libretto, al pari di quelle sottese alla musica, talmente ricca, che – afferma – è essa stessa a suggerire la regia. L’idea del ‘teatro nel teatro’ è tratta da Shakespeare, per questo nella prima scena dietro un sipario neutro si vede un’immagine tardo-ottocentesca del Bardo, trovata dal regista a Berlino. Ma i riferimenti all’Inghilterra elisabettiana si fermano qui, giacché l’ambientazione si rifà alla temperie culturale il cui l’opera è nata: la Germania del primo dopoguerra tra Avanguardie storiche ed Espressionismo. Punto di riferimento per la messinscena è stata anche la casa berlinese in cui Weill abitò con la moglie Lotte Lenya – la danzatrice conosciuta proprio tramite Kaiser – e dove compose Der Protagonist. Lo spostamento della vicenda negli inquieti, ‘nevrotici’ Anni Venti – quelli della Repubblica di Weimar – rende più credibile la schizofrenia del Protagonista, che confonde arte e vita. Quanto alla direzione, Markus Stenz – che può vantare una frequentazione piuttosto assidua del teatro musicale di Kurt Weill – ha messo in adeguata evidenza la tensione drammatica racchiusa nella musica, oltre alla sapiente scrittura per le voci, da lui guidate con amorevole cura. Nella sua lettura ha saputo valorizzare l’economia di mezzi con cui il compositore rende lo svolgersi della vicenda, nei suoi risvolti comici come in quelli tragici, fino al momento culminante – quando il Protagonista-persona reale e il Protagonista-attore si completano a vicenda –, sottolineato musicalmente dalla trionfante tonalità di re maggiore. Sotto la sua esperta bacchetta i due ridotti ensemble strumentali – I Musicisti del Duca e l’Orchestra – si sono fatti apprezzare per la qualità del suono, l’intensità espressiva, la capacità di fornire il giusto sostegno ai cantanti, tutti di eccellente livello. Il soprano Martina Welschenbach, nei panni della Sorella, si è dimostrata a suo agio nell’affrontare l’ardua tessitura della sua parte, risultando incisiva nel declamato drammatico, lirica negli episodi ‘melodici’, cui si è sopra accennato. Le ha pienamente corrisposto il tenore Mathias Koziorowski nel ruolo eponimo, da lui affrontato con vigore interpretativo e brillantezza timbrica. Validissimi anche gli altri componenti del Cast: Dean Murphy (Il Giovane Signore), Alexander Geller (Il Maggiordomo del Duca), Zachary Altman (L’Oste), oltre a Szymon Chojnacki, Matteo Ferrara e Franko Klisović (I Tre Attori). Caloroso successo per tutti.

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Parigi, Museo del Louvre: “Louvre Couture: objets d’art, objets de mode”

gbopera - Dom, 04/05/2025 - 17:49

Parigi, Museo del Louvre
“LOUVRE COUTURE: OBJETS D’ART, OBJETS DE MODE”
a cura di Olivier Gabet e Marie Brimicombe
Parigi, 03 maggio 2025
È un evento di portata storica l’ingresso della moda al Louvre. Invitando a passeggiare tra le sale del Dipartimento di Arti Decorative, la mostra Louvre Couture a cura di Olivier Gabet e Marie Brimicombe, aperta fino al 21 luglio 2025, propone un dialogo unico tra “oggetti d’arte” e “oggetti di moda”. Da Christian Dior a Marine Serre, si possono osservare un centinaio di abiti e accessori, presi in prestito da circa quarantacinque case di moda diverse e insinuati tra le collezioni permanenti del museo nell’ottica di una rilettura congiunta della storia dell’arte e della storia della moda. In realtà, i legami tra la moda e il Louvre erano già presenti. Già nel 2022 era stato infatti realizzato un omaggio a Yves Saint Laurent, e ancor prima nel 1981 nella Cour Carrée si era svolta la prima sfilata parigina di Yohji Yamamoto. Con l’attuale mostra si vuole rivalutare il ruolo delle maisons di moda come luoghi di conservazione del patrimonio culturale, ed in questo senso il Museo del Louvre offre nuove interessanti prospettive. Il suo Dipartimento di Arti Decorative condivide con la moda una storia comune di artigianato artistico fatto di know-how, di tradizioni, di eredità culturali che consacrano il ruolo di Parigi nella storia della moda. In 9.000 metri quadrati di spazio espositivo, si esplorano qui gli approcci più diversi, si esalta il fascino delle varie estetiche succedutesi nel tempo e si esamina la connessione tra la cultura popolare e la cultura più elevata. Le opere vengono adattate agli spazi, creando l’impressione di essere sempre state nel posto in cui le vediamo adesso. L’abito di apertura è a firma di Christian Dior, che nel 1949 lo intitolò per l’appunto “Musée du Louvre”. Si tratta di un vestito da sera corta in faille di seta ricamata della collezione haute couture primavera/estate. Numerose volte ricompariranno nella mostra gli abiti del grande stilista inventore del New Look nelle sale da noi percorse. Avremo infatti modo di osservare l’abito disegnato da John Galliano per la collezione haute couture autunno/inverno 2004-2005, che con il suo velluto cremisi ricamato evoca il mondo dell’Imperatrice Sissi, così come quello di Napoleone III. In un’altra sala, vedremo invece un abito disegnato da Maria Grazia Chiuri, la prima direttrice donna della Maison Dior nota per lo slogan “We should all be feminist”. Nato per la collezione haute couture autunno/inverno 2018-2019, questo lungo abito da sera con bustier e il mantello di seta ricamato reca in sé insolite assonanze con gli arazzi della fine del Medioevo presenti nel museo. Al centro della mostra, a richiamo del sontuoso regno di Luigi XIV, appare in tutto il suo sfarzo una silhouette in organza di seta immaginata da John Galliano per la collezione haute couture autunno/inverno 2006-2007. Una criniera da leone si estende come fiamma lungo la parte anteriore della gonna. Il tessuto drappeggiato dall’aspetto metallico si sposa con la stravaganza dell’armatura del braccio e dell’elmo che completa l’abito. Tra le creazioni delle altre maisons, si distingue il modello disegnato da Demna per Balenciaga, esposto nella grande sala da pranzo dei cosiddetti appartamenti di Napoleone III. Nell’assenza di crinolina, questa silhouette sorprende per la sua semplice solennità. Quasi ad apertura di mostra è inoltre un abito di Yohji Yamamoto, di cui è ben nota l’ossessione per il nero e per gli abiti storici occidentali. Lo stilista crea una silhouette complessa: l’armatura di metallo che dà forma alla gonna si intreccia in modo tale da lasciar intravedere un corpetto che crea un volume pronunciato dalla parte bassa della schiena fino alle caviglie. Caratterizzato da un gioco di curve e controcurve è anche l’abito di Iris Van Herpen ammirato quasi ad inizio mostra. Si tratta del modello Syntopia disegnato per la collezione haute couture autunno/inverno 2018-2019 prendendo spunto dalla cronofotografia, una tecnica sviluppata nell’ultimo quarto del XIX secolo, all’incrocio tra arte e scienza. Basandosi sullo scatto di immagini fotografiche a intervalli di tempo molto brevi, la cronofotografia consente di ottenere sequenze che scompongono il movimento. Il risultato è un abito dal volume stravagante, una sorta di uccello le cui ali creano un’architettura vaporosa finemente costruita grazie al taglio laser. Non manca Versace, con un vestito a fondo oro evocativo della produzione artistica sacra bizantina o con un completo provocante dalle foglie d’acanto stilizzate, in simbolico parallelo con l’arredo della camera da letto di Luigi XVIII al Palazzo delle Tuileries. Né manca Dolce & Gabbana, accostato ai motivi d’argento dorato dell’Ordine della Cavalleria dello Spirito Santo, fondato da Enrico VIII nel 1578. Di Chanel ammiriamo una giacca blu e bianca ricamata con motivi a rilievo, disegnata per la collezione haute couture primavera/estate 2019 da Karl Lagerfeld. Tra i nomi più recenti, riconosciamo l’unicità di Alexander McQueen con le sue stampe di anfibi, rettili, conchiglie e le scarpe dall’arco plantare vertiginoso. Jean-Charles de Castelbajac ci stupisce con un abito in stile Bambi. Infine, Silvia Venturini Fendi con i suoi motivi geometrici ripetuti ci riporta al mondo dei palazzi romani dell’antichità, al Rinascimento e all’epoca barocca. Foto Musée du Louvre – Nicolas Bousser

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