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Roma, Villa Bonaparte, Ambasciata di Francia presso la Santa Sede: “Souvenirs alla Villa Bonaparte”

gbopera - Ven, 26/09/2025 - 11:38

Roma, Villa Bonaparte, Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
SOUVENIRS ALLA VILLA BONAPARTE
Organizzazione Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
Collaborazioni Roma Barocca in Musica (Presidente Régis Nacfaire de Saint-Paulet)
Sostegno Aline Foriel-Destezet
Programma musicale:
Domenico Cimarosa“Lasciate che passi la bella damina” dai Baroni di Rocca Azzurra (duetto)
Felice Blangini“Il faut partir” (prima esecuzione moderna, legata alla figura di Paolina Borghese e ripresa postuma in altra composizione commemorativa)
Saverio MercadanteMelodia per arpa e ensemble (ricostruzione da fonti lacunose)
Gaetano Donizetti“Una furtiva lagrima” da L’elisir d’amore
Giovanni Pacini“O tenera madre… Alfin pietoso il cielo” da La regina di Cipro
Giovanni PaciniNotturno a due voci (prima esecuzione moderna)
Giovanni PaciniTre Romanze (prima esecuzione moderna)
Giovanni Pacini / TonassiFantasia concertante sull’opera Saffo per flauto, viola e arpa (prima esecuzione moderna)
Domenico Cimarosa“Io vi lascio perché uniti” dal Matrimonio segreto (duetto conclusivo)
Esecutori:
Romina Casucci, soprano
Francesco Malafronte, tenore
Carlo Martiniello, pianoforte
Trio Chagall
Catello Coppola
, flauto
Adriana Cioffi, arpa
Simone de Pasquale, viola
Roma, 25 settembre 2025
Le soirées musicales promosse dall’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede alla Villa Bonaparte hanno assunto negli ultimi anni il carattere di una consuetudine preziosa, capace di unire la dimensione diplomatica al rigore della ricerca musicale. Grazie all’impulso dell’Ambasciatrice Florence Mangin, questi appuntamenti hanno trovato continuità e riconoscibilità, trasformando un luogo istituzionale in spazio vivo di confronto artistico. La recente serata intitolata Souvenirs ha posto al centro la figura di Paolina Borghese, sorella di Napoleone, evocata non soltanto come icona storica e mondana, ma come presenza viva nella memoria sonora del suo tempo. Il concerto ha intessuto un percorso che alternava pagine celebri e brani rari, costruendo un mosaico in cui la storia privata della principessa si specchiava nella produzione di autori che le furono vicini. Così i duetti di Domenico Cimarosa, tratti dai Baroni di Rocca Azzurra e dal Matrimonio segreto, hanno offerto la cornice settecentesca di un mondo ancora intatto, fatto di grazia teatrale e di leggerezza melodica. In questo contesto si è inserita la celebre Una furtiva lagrima dall’Elisir d’amore di *Gaetano Donizetti, la cui presenza, in apparenza dissonante rispetto al filo conduttore della serata, ha rappresentato piuttosto un elemento di confronto: il repertorio entrato stabilmente nel canone posto accanto a quello dimenticato, la memoria collettiva accanto alla memoria che necessita di essere riattivata. La figura di Paolina emerge con forza nell’aria Il faut partir di Felice Blangini, proposta in prima assoluta. Secondo le testimonianze, il brano era associato direttamente alla principessa e, dopo la sua morte, fu nuovamente citato in un’altra composizione con valore commemorativo. Ciò conferisce a questa pagina un significato che va oltre la sua struttura musicale: essa si configura come un segno di sopravvivenza, come la traccia di una presenza che la musica stessa ha voluto prolungare oltre i confini della vita terrena. Il centro di gravità della serata è stato occupato dalle musiche di Giovanni Pacini, figura spesso relegata ai margini rispetto al trionfo di Donizetti e Bellini, ma che in questa occasione ha rivelato una gamma sorprendente di espressioni. L’aria O tenera madre… Alfin pietoso il cielo da La regina di Cipro ha mostrato la dimensione teatrale più ampia della sua scrittura, mentre il Notturno a due voci e le Tre Romanze, eseguite in prima assoluta, hanno restituito un Pacini cameristico, intimamente legato all’idea di un canto raccolto, sostenuto da un pianoforte non ancillare ma pienamente dialogico. Particolare interesse ha suscitato la Fantasia concertante sull’opera Saffo, elaborata da Tonassi e Pacini, nella quale il materiale melodico di una tragedia operistica veniva distillato e trasposto in una tessitura cameristica, affidata al dialogo tra flauto, viola e arpa. È qui che si è potuto cogliere appieno il valore della ricerca che ha reso possibile questa serata. Gli spartiti eseguiti non appartenevano al repertorio consolidato, ma a un patrimonio inedito, trasmesso in copie manoscritte spesso lacunose, con indicazioni contraddittorie o segmenti incompleti. Restituire vita a queste pagine ha significato un lavoro di revisione e di ricostruzione, che Adriana Cioffi ha affrontato con rigore filologico e sensibilità musicale, sciogliendo le ambiguità testuali e restituendo coerenza sonora a frammenti destinati al silenzio. A ciò si è aggiunto l’impegno di Pino Adriano, che ha dovuto superare le difficoltà legate al reperimento delle fonti, spesso custodite in archivi esteri e sottoposte a vincoli normativi. L’opera di mediazione necessaria per ottenere l’accesso e l’autorizzazione all’esecuzione ha reso questa serata non solo un evento musicale, ma anche un atto di restituzione critica, reso possibile da una passione che ha trasformato ostacoli in opportunità. Accanto a Romina Casucci (soprano), Francesco Malafronte (tenore) e Carlo Martiniello (pianoforte), il Trio ChagallCatello Coppola al flauto, Adriana Cioffi all’arpa e Simone de Pasquale alla viola – ha dato sostanza al programma, passando dalla brillantezza cimarosiana alle ombre elegiache di Pacini. Va sottolineato anche il ruolo di Coppola, che ha introdotto i brani con passione e trasporto, guidando l’ascoltatore attraverso un repertorio complesso e non sempre immediato. L’iniziativa si è avvalsa della collaborazione di Roma Barocca in Musica, presieduta da Régis Nacfaire de Saint-Paulet, e del sostegno di Aline Foriel-Destezet, confermando la solidità istituzionale e il respiro internazionale di un progetto che si colloca a pieno titolo nel dialogo tra ricerca filologica e prassi esecutiva. Nel silenzio delle sale della Villa Bonaparte, le voci e gli strumenti hanno restituito un tessuto fragile di memorie, riportando alla luce suoni che rischiavano di restare prigionieri delle biblioteche. Ogni pagina ha testimoniato il lavoro paziente della ricostruzione, ma anche la capacità della musica di farsi medium del ricordo: la voce di Paolina Borghese, inscritta nelle note di Blangini e di Pacini, ha oltrepassato i limiti della storia per farsi ancora presente. Così, nella cornice di una serata diplomatica, la musica ha assunto la funzione più alta: restituire vita al tempo perduto, trasformando l’eco dell’archivio in esperienza viva.

Categorie: Musica corale

Massimo Crispi: “Cantami o Diva”

gbopera - Gio, 25/09/2025 - 21:00

Autore: Massimo Crispi
Editore: Entheos Edizioni
Data di pubblicazione: settembre 2025
Genere: Narrativa
Numero di pagine: 400
Formato: Brossura 12,7×19,5 cm
ISBN: 978-88-5517-057-4
Prezzo: 20 euro
Disponibile anche: ebook 5,99 euro
Entheos Edizioni è lieta di annunciare la pubblicazione del romanzo “Cantami o Diva” di Massimo Crispi, opera finalista fuori concorso di “È un vero mistero”.
Sinossi. Emma Ricci, la più grande voce del panorama lirico, è morta. Ma, mentre il mondo piange la diva, la procuratrice Maria Giovanna Cannavò, incaricata delle indagini sulle varie attività dell’artista e, soprattutto, del marito-regista-manager, sospetta che dietro la leggenda si nascondano intrighi, ricatti e fortune costruite nell’ombra. Tra camerini, palcoscenici e palazzi del potere, la verità si intreccia al teatro, e il mistero si dipana come un’opera, ora buffa, ora tragica, dal finale imprevedibile.
“Cantami o Diva” è un romanzo che cattura sin dalle prime pagine, dove l’eleganza della scrittura si intreccia a una tensione narrativa mai prevedibile. La musica non è solo sfondo, ma forza viva che attraversa le vicende, amplificando emozioni e rivelando contrasti. Ogni capitolo vibra come una partitura: armonie e dissonanze, momenti lirici e stonature improvvise.
L’autore mette in scena figure indimenticabili, scolpite nei loro vizi e nelle loro fragilità, che rimandano al teatro della vita più che al palcoscenico ufficiale.
Attraverso specchi che moltiplicano i piani della realtà, il lettore è condotto dietro le quinte di un mondo scintillante solo in apparenza, dove il potere e l’ambizione si svelano nella loro crudezza.
Il risultato è un’opera che seduce e inquieta, un affresco vivido della grande tradizione musicale e, insieme, un’indagine spietata sulle zone d’ombra dell’animo umano e di quelle nel dorato mondo della lirica.
Note sull’Autore. Di origini siculo-toscane, Massimo Crispi è cantante lirico, giornalista, fotografo, musicologo, critico letterario e musicale, scrittore. I suoi romanzi e racconti, così come i saggi, hanno quasi sempre una colonna sonora interna, composta dagli infiniti brani che hanno fatto parte della sua vita, dall’opera al madrigale, dal rock al jazz, dal musical alla sinfonica, che ha eseguito in teatri e festival prestigiosi in Italia e in Europa.
La sua prima opera letteraria è stata “Il primo fu Odisseo”, libro di viaggio dedicato alla Sicilia, nel 2000, per Vallardi.
Dopo una lunga pausa, durante la quale però sono apparsi articoli, saggi e racconti su riviste specializzate e dove gli sono stati conferiti menzioni e premi letterari (Nabokov 2023, La scrittura 2023, Rotary Libertà Palermo 2024, È un vero mistero 2024), “Cantami o Diva” è il suo primo romanzo a essere pubblicato.

Categorie: Musica corale

Venezia, Ca’ Rezzonico: “Gusto neoclassico. L’Album Cicognara” dal 26 settembre 2025 al 12 gennaio 2026

gbopera - Gio, 25/09/2025 - 17:00

Un’opera unica, per l’importanza del collezionista, per il numero e nomi degli artisti, espressione di tutte le scuole artistiche del periodo: in mostra a Ca’ Rezzonico – Museo del Settecento Veneziano i disegni di Appiani, Hayez, Canova, raccolti da Leopoldo Cicognara: Gusto neoclassico. L’Album Cicognara dal 26 settembre 2025 al 12 gennaio 2026. A cura di Alberto Craievich.
Il Gabinetto dei disegni e delle stampe della Fondazione conserva una straordinaria testimonianza dell’arte e della cultura neoclassica in Italia. Si tratta dell’Album Cicognara, che prende il nome dal suo proprietario, il conte Leopoldo Cicognara (Ferrara 1767 – Venezia 1834), una delle personalità più affascinanti dell’epoca.
Uomo colto e brillante, particolarmente attivo nella politica culturale della città e non solo, durante l’incarico presso l’istituzione veneziana pubblicò le sue opere principali fra le quali la monumentale Storia della scultura e le Fabbriche più cospicue di Venezia. A Cicognara si devono iniziative di primo piano come la sistemazione delle Gallerie dell’Accademia che proprio allora prendevano forma con l’arrivo dei dipinti provenienti dagli edifici di culto soppressi per decreto napoleonico.
Inoltre, fu il promotore, alla morte di Canova, della sottoscrizione per erigere ai Frari il monumento dedicato al grande scultore di cui scrisse anche una fondamentale biografia.
Proprio della stretta amicizia con gli artisti del suo tempo è testimonianza proprio quest’album, una sorta di liber amicorum, composto da 81 fogli. Vi troviamo tutti i nomi del Neoclassicismo italiano: Vincenzo Camuccini, Andrea Appiani, Giuseppe Bossi, il giovane Francesco Hayez; ma anche artisti francesi come François-Marius Granet, Lancelot Thèodore Turpin de Crissé e Louis Léopold Robert. Ben sei disegni appartengono all’amico di una vita: Antonio Canova di cui Cicognara fu ammiratore appassionato.
I disegni in origine erano fascicolati in un album conservato in una sontuosa  custodia decorata con fregi in bronzo, che incorniciano cammei antichi e, al centro, una deliziosa miniatura con una Veduta di Venezia.
I fogli documentano tutte le tecniche grafiche e ogni possibile soggetto. Vi sono disegni a matita, a penna, gessi colorati e acquerelli che raffigurano vedute, ritratti, paesaggi, scene di genere, composizioni sacre e profane. Troviamo accostati studi preparatori per opere maggiori, oppure disegni ‘finiti’ eseguiti espressamente per Cicognara. Nell’insieme, un’opera unica, considerato sia il ruolo politico e culturale del collezionista, sia il numero degli artisti presenti, espressione di tutte le scuole artistiche del periodo.
Questo prezioso volume, segnalato agli studi da Alvar Gonzáles-Palacios nel 1970, fu presentato al grande pubblico nel 1978, in occasione della mostra Venezia nell’età di Canova. In quella circostanza, anche per ragioni conservative, le pagine dell’album furono sciolti e collocati entro passepartout.
Alcuni fogli, i più celebri, sono comparsi nel frattempo a mostre dedicate al Neoclassicismo in Italia e all’estero. Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni da quell’evento, si vuole presentare al pubblico per la prima volta, nella sua interezza, l’intero album che è stato oggetto di un accurato restauro promosso da Venice International Foundation. Qui per tutte le informazioni.
In foto: Ludovico Lipparini (Bologna, 1800 – Venezia, 1856), Infanzia di Bacco

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: Trittico Lander/Kylián/Bèjart

gbopera - Gio, 25/09/2025 - 16:11

Milano, Teatro alla Scala, stagione 2024/25
“TRITTICO LANDER / KYLIÁN / BÉJART”
“ÉTUDES”
Coreografia  Harald Lander (ripresa Johnny Eliasen)
Musica Carl Czerny (adattamento e orchestrazione, Knudåge Riisager)
Luci Teatro alla Scala da Harald Lander
Interpreti: NICOLETTA MANNI, MATTIA SEMPERBONI, NAVRIN TURNBULL, MARCO AGOSTINO
“PETIT MOZART”
Coreografia  Jiří Kylián (ripresa Elke Schepers)
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Pianoforte Takahiro Yoshikawa
Costumi Joke Visser
Luci Jiří Kylián realizzazione di Joop Caboort
“BOLÉRO”

Coreografia Maurice Béjart (ripresa Gil Roman, Piotr Nardelli)
Musica Maurice Ravel
Luci originali riprese da Marco Filibeck
Interpreti: ROBERTO BOLLE, CHRISTIAN FAGETTI, EDOARDO CAPORALETTI, DOMENICO DI CRISTO, EMANUELE CAZZATO
Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Simon Hewett
Milano, 24 settembre 2025
La serata è iniziata con Études, creato da Harald Lander nel 1948 per il Royal Danish Ballet, rimaneggiato nel ’52 per l’Opera di Parigi, e da lì venne consacrato al successo internazionale. Nasce come omaggio alla bellezza della tecnica accademica, una sorta di viaggio attraverso l’allenamento quotidiano, e attraverso i tempi, che partono dai primi passi codificati, passando dagli stilemi romantici e dai tutù da silfide, per approdare al grand ballet imperiale della scuola russa. Nel 1975, Clive Barnes, sul NY Times, lo definisce come “un superbo esempio di buon cattivo balletto”, perché “per gli standard normali e appropriati, Études è un balletto moderatamente orribile” per la “musica abominevole” (“una serie di quegli esercizi di pianoforte di Czerny che fanno schioccare le dita e intorpidiscono la mente, che sono tra i ricordi più dolorosi di tante adolescenze, orchestrati in modo pseudo-contemporaneo”), e per “la miserevole scenografia”, ma anche per la coreografia, che “non decide mai cosa sarà”: è una storia del balletto, ma anche una spettacolarizzazione dell’intera gamma del vocabolario della danza accademica. “I due obiettivi a volte convergono, non si incontrano mai e alla fine svaniscono”. “Dopo una noia moderatamente insopportabile” diviene poi “persino un gran bel cattivo balletto. Perché quando Lander finalmente si lascia andare e fa ballare la cosa, il cielo si scatena, ed è uno dei balletti più emozionanti del mondo, con un climax che si sviluppa su un climax, e un’impresa tecnica impossibile viene superata dalla successiva […] i passaggi finali non solo meritano l’attesa, ma possono anche offrire un’emozione insolita”. In parte, tralasciando le incomprensioni, non possiamo non dare tutti i torti a quest’opinione. Vogliamo però anche considerare che questa coreografia ci è parsa una sorta di prodromo di Jewels di Balanchine. Il rischio è quindi similare, quello di trasformare una creazione artistica in un saggio, e con un ulteriore fattore a svantaggio, la musica. Una partitura così frammentata induce il pubblico ad applaudire ogni tre minuti, e se il corpo di ballo non riesce a sostenere la liricità, la pomposità, che ha pure qualche venatura ironica – che traspare un po’ dalla musica (ad esempio nei primi pezzi, l’uso dei fiati ci è sembrato quasi da orchestra di paese specializzata in fanfare) – che c’è sotto quest’operazione, lo spettacolo diviene un susseguirsi di passi, danzati bene, e nulla più. Rischio che questa sera si è corso. La serata è proseguita con La Petite Mort, di Jiří Kylián creata nel 1991 per il Nederlands Dans Theater, in occasione del bicentenario della nascita di Mozart: ne utilizza il romantico secondo movimento del concerto n. 23 e il celeberrimo terzo movimento del n. 21. Il titolo, che in francese allude sia al momento dell’orgasmo sia a un piccolo trapasso, vuole essere rivelatore del tema: un dialogo costante eros-morte, vitalità-caducità, le spade prolungamenti del corpo, simboli di conflitto ma anche di desiderio. Questa volontà di essere astratti, ma voler tenere salde radici da ciò da cui si è astratto, è una caratteristica che abbiamo già valutato in passato (in occasione di questa serata). Abbandonando questa visione, che ci appare inutile ai fini della fruizione, resta una coreografia che gode di felici scelte anche scenografiche: il grande telo mosso dai ballerini, usato per un cambio di scena che fa sparire con grandi svolazzi gli stessi ballerini; le spade, usate in maniera molto interessante; gli abiti finti e rigidi dietro cui danzano i corpi nascosti delle ballerine, sono una trovata che ha della poeticità, oltre che dell’inventiva. Tutto il cast ha saputo svolgere un lavoro tecnicamente egregio. Teniamo anche a sottolineare la bella esecuzione pianistica di Takahiro Yoshikawa. Si è poi concluso con un classico diventato pop. Roberto Bolle si è esibito in Bolero di Béjart: dopo averlo già visto più volte nel recente passato qui alla Scala, è stato da lui portato anche a Sanremo. Lo stesso Barnes, nel suo essere tagliente, premette che “musicalmente, il pezzo è assurdo. Un tour de force fin troppo forzato”, ma riconosce la raffinatezza di Béjart, che “crea una decisa atmosfera di sensualità attorno all’opera. […] Bolero mostra la teatralità sfacciata del signor Béjart al suo meglio […] un balletto pomposo ma, con le gambe e le mani giuste, non delude.” Il pregio di questa coreografia sta proprio nella genialità di svincolarlo non solo dall’originaria sede narrativa – l’ambientazione di Bronislava Nijinska, per cui aveva lavorato Ravel; e da questa coreografia è stato dimostrato che Béjart ha tratto molto – ma l’ha anche liberata dal sesso dei ballerini. Non essendoci più narratività, non era più necessario alcun tipo di vincolo: al centro della pedana ha dapprima posto una donna, e poi, con Jorge Donn, anche un uomo, circondandolo successivamente da altri uomini. Non era più una danza di seduzione, la coreografia era una esecuzione della partitura. Grande è stato il plauso del pubblico, con commenti di una certa raffinatezza a fine spettacolo (“è la terza volta che lo vediamo, e volano sempre reggiseni!”). A Ravel non piacque la prima del ’28, sembra che immaginasse lo spettacolo sullo sfondo di uno stabilimento industriale: forse immaginava una coreografia à la Tempi moderni, interpretando la sua stessa musica come una catena di montaggio (in fondo la musica è un “tour de force fin troppo forzato”)? Chissà se Béjart lo avrebbe soddisfatto.
Prossime repliche 25, 26, 28 e 30 settembre, 2 e 3 ottobre (Bolle nelle repliche del 28 e 30 settembre). Foto  Brescia & Amisano © Teatro alla Scala

Categorie: Musica corale

Firenze, Maggio Musicale Fiorentino: prosegue la programmazione sinfonica con il ritorno di Min Chung il 26 settembre 2025

gbopera - Gio, 25/09/2025 - 14:35

Dopo il successo del primo concerto dopo la pausa estiva, diretto da Jérémie Rhorer, prosegue la programmazione sinfonica della stagione autunnale al Teatro del Maggiovenerdì 26 settembre alle ore 20 il maestro Min Chung torna sul podio della Sala Zubin Mehta, alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino: in programma le composizioni di Olivier Messiaen e Camille Saint-Saëns.
Il concerto si apre con L’Ascension, quattro meditazioni sinfoniche per orchestra, di Olivier Messiaen. Composta nel 1933, L’Ascension fu eseguita per la prima volta a Parigi nel febbraio 1935. Prima grande opera sinfonica di Messiaen – di cui il sottotitolo è “Quatre Meditations symphoniques pour orchestre”.
Segue, in chiusura, la “Sinfonia n. 3 in do minore – Sinfonia per organo op. 78”, firmata da Camille Saint-Saëns. Composta nell’inverno tra il 1885 e il 1886 fu eseguita a Londra, alla Philharmonic Society, il 19 maggio 1886, diretta dallo stesso autore e venne dedicata a Franz Liszt.
Solista all’organo nel corso dell’esecuzione del brano di Camille Saint-Saëns, Andrea Severi.
Il concerto è preceduto dalla guida all’ascolto tenuta da Katiuscia Manetta nel Foyer di Galleria della Sala Mehta. È riservata ai possessori del biglietto e si svolge 45 minuti prima dell’inizio dello spettacolo (durata: 30 minuti circa). Qui per ulteriori informazioni.

Categorie: Musica corale

Bari, Teatro Petruzzelli: “Giulio Cesare in Egitto”

gbopera - Gio, 25/09/2025 - 08:45

Bari, Teatro Petruzzelli, Stagione Lirica 2024/2025
GIULIO CESARE IN EGITTO”
Dramma per musica in tre atti Libretto di Nicola Francesco Haym
da Giacomo Francesco Bussani
Musica di Georg Friedrich Händel
Giulio Cesare RAFFAELE PE
Cleopatra SANDRINE PIAU
Sesto Pompeo GIUSEPPINA BRIDELLI
Cornelia SARA MINGARDO
Tolomeo FILIPPO MINECCIA
Achilla DAVIDE GIANGREGORIO
Curio DOMENICO APOLLONIO
Nireno ANGELO GIORDANO
Orchestra del Teatro Petruzzelli
Direttore Stefano Montanari
Regia Damiano Michieletto  ripresa da Diane Clement
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Disegno luci Alessandro Carletti
Coreografie Thomas Wilhelm
Bari, 23 settembre 2025
Al Teatro Petruzzelli l’opera barocca non è di casa ma grazie alla nuova direzione musicale di Stefano Montanari si prospettano interessanti progetti per offrire quel repertorio al pubblico pugliese. Bene, dunque, iniziare dal Giulio Cesare in Egitto di Händel, forse la più nota opera del primo Settecento, recuperando l’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma coprodotto con il Théatre des Champs-Elysées di Parigi e creato da Damiano Michieletto nel 2022. Il regista concepisce il Giulio Cesare – un dramma dove l’eroe, ormai all’apice della gloria, s’innamora di Cleopatra credendola la serva Lidia e segue quasi da mero spettatore le vicende della corte egiziana avvelenata dalla sete di potere – come l’occasione per mettere in scena una riflessione sulla morte: la presenza inquietante delle Parche domina, infatti, l’asola nera che si apre nella bianchissima architettura (nello stile di Alvaro Siza) racchiudente l’azione scenica; dalla bocca del defunto Pompeo esce l’anima, simboleggiata da un filo rosso, srotolato e poi reciso da Atropo. Ogni filo rosso è una vita spezzata e allora si deduce come la rossa ragnatela che all’alzarsi del sipario imbriglia un ingiacchettato Cesare-Yuppie (o meglio, il figurante che ne rappresenta il suo doppelgänger) possa essersi formata dai fili delle anime morte con cui il condottiero ha lastricato la sua ascesa al successo. La discrasia fra testo primigenio e riscrittura registica tocca l’apice quando la reboante musica händeliana ideata per il lieto fine fa da sfondo all’anticipazione al cesaricidio delle Idi di Marzo esibita sul palco prima che cali il sipario. Michieletto, insomma, piega alle ragioni della spettacolarità i simboli di morte, non solo quelli delle nature morte barocche (la clessidra che campeggia nelle tele intitolate Vanitas) ma anche quelli più macabri come le ceneri delle urne da cremazione: quando le polveri del corpo di Pompeo calano da una botola del soffitto l’effetto visivo si incide con la massima forza nelle retine degli spettatori. Con l’immagine predominante della fitta tela di fili rossi ben si lega idealmente la vocalità di Raffaele Pe che al personaggio di Cesare ha dedicato un’antologia di arie raccolta in un fortunato CD e che il 20 giugno 2023 deliziò il pubblico del Petruzzelli con il recital Giulio Cesare eroe barocco, durante il quale oltre a cantare inquadrò storicamente e stilisticamente i singoli brani dei diversi operisti settecenteschi. Interprete e personaggio (riletto anche alla luce delle idee di Michieletto) si sono fusi alla perfezione: prezioso il timbro nel range acuto, delicatissime le messe di voce, ben sgranate le note dei passi di coloratura, vibranti i segmenti che si inabissano nel registro grave. Parimenti superba la prova canora di Sara Mingardo, contralto dal timbro prezioso per densità e al tempo stesso chiarezza; il suo perfetto fraseggio, insieme a una dizione e recitazione da manuale, esaltava l’espressività dolente della moglie di Pompeo, stagliando a tutto tondo un personaggio che nella lettura ‘mortifera’ di Michieletto ha assunto un peso inedito (gli stacchi di tempo molto lenti scelti dal direttore Stefano Montanari per le arie di Cornelia enfatizzavano il lavoro di fino condotto sulla resa sonora della mestizia). Indimenticabile il duetto fra Cornelia e il figlio Sesto – un ragazzo in completo tennistico anni ’30 schiacciato dal desiderio di vendicare la morte del padre Pompeo – qui interpretato in modo volutamente ‘algido’ dall’ottima Giuseppina Bridelli il cui punto di forza risiede nella morbidezza degli acuti e nella rotondità e pastosità di timbro nei centri. Michieletto vuole smussare il decorativismo del primo ingresso in scena della protagonista Cleopatra (la scena I.V nell’originale è preceduta dalla mutazione scenografica e si ambienta nel gabinetto della regina circondata dall’intero suo seguito) e la fa giungere quasi inattesa come un’attrice nevrotica in lunga vestaglia che caccia dal camerino gli astanti (i due sbigottiti Cornelia e Sesto) prima di scegliere quale parrucca indossare sopra lo zuccotto déco. I lunghi silenzi tra e nei recitativi, peraltro sempre declamati con eccessiva lentezza, inficiano la scorrevolezza necessaria al ritmo drammatico rischiando di avvicinare l’opera händeliana a un lavoro di Ibsen (è questo l’unico vero neo di una regia altrimenti superba). Non vi sono sufficienti elogi per descrivere le qualità di Sandrine Piau, dalla cura per la prosodia, l’eleganza delle fioriture estemporanee, l’equilibrio fra registri, la preziosità della grana di una voce che con gli anni pare spostare sempre più in alto il grado di perfezione raggiunta. Indimenticabile la celebre aria “V’adoro pupille”, cantata nelle vesti di Gilda-Rita Hayworth (There never was a woman like [Cleopatra]…), dove comunque il regista ribadisce il concetto di fondo che vuole attanagliato ogni personaggio dai pensieri di morte (qui simboleggiati dal progressivo spegnersi dei candelabri con l’ultima fiamma estinta in corrispondenza della nota finale del pezzo, quasi un barocco memento mori). Ben timbrato, sicuro nelle colorature, smagliante negli acuti il Tolomeo di Filippo Mineccia che unisce con crescente maestria le doti canore a quelle attoriali. Bellissimo il colore e il volume del basso Davide Giangregorio la cui dimestichezza con il repertorio barocco dona al suo Achilla una misura e un equilibrio fra la violenza e la melliflua galanteria che caratterizzano il personaggio. Notevoli per raffinatezza di emissione e cura dei dettagli le due parti di fianco affidate a specialisti di settore come Domenico Apollonio (Curio) e Angelo Giordano (Nireno).

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Microclima”

gbopera - Mer, 24/09/2025 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
MICROCLIMA
Scritto e diretto da Alessia Cristofanilli
Con Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli
Movimenti di scena Alberto Bellandi
Scene Eleonora Ticca
Costumi Nika Campisi
Organizzazione e Ufficio Stampa Chiara Crupi – Artinconnessione
Consulente politologo Luca Argenta
Produzione Fragile Spazio, Fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung La Fabbrica dell’Attore in collaborazione con
Media Partner Scomodo- La redazione
Roma, 24 settembre 2025
Ogni società produce i propri spazi simbolici, luoghi in cui il tempo si congela e la realtà appare sotto una lente deformante. In Microclima questo spazio è una serra: habitat artificiale che custodisce la vita, ma al tempo stesso la controlla e la limita. Non una metafora generica, bensì un dispositivo drammaturgico che interroga la fragilità del presente. Centotrentotto piante e una famiglia di cinque persone convivono in questo microcosmo chiuso, sospeso tra cura e asfissia, memoria e collasso. È qui che il teatro di Alessia Cristofanilli fa emergere la sua carica più perturbante: mostrare come la quotidianità privata diventi riflesso e sintomo di una condizione storica più ampia. Il numero delle piante non è un dettaglio ornamentale: è cifra precisa, spigolosa, non arrotondata. Centotrentotto non è armonia, è eccesso. Genera un senso di inventario, di archivio ossessivo, come se ogni pianta fosse un frammento di memoria, un resto di battaglie ormai consumate. Eppure, invece di liberare, questo accumulo imprigiona. La serra diventa camera di pressione, un ambiente saturo in cui l’aria è al tempo stesso nutrimento e veleno. Così la memoria politica e affettiva, quando non viene rielaborata, smette di essere forza e diventa catena. In questo scenario si muovono Edda e Rud, due ex attivisti sospesi in un presente senza coordinate. Hanno perso il linguaggio della lotta, restano imprigionati in una quotidianità che si ripete uguale, immobile. Ma basta una frase pronunciata durante una cena per incrinare la patina di normalità e rivelare l’abisso che li separa da ciò che erano. La crisi non esplode con fragore, si insinua come infiltrazione silenziosa, trasformando l’ambiente domestico in paesaggio interiore. Gli interpreti – Federico Gatti, Sylvia Milton e Francesco Morelli – restituiscono questa tensione con un lavoro scenico corale che si distingue per rigore e intensità. La loro performance non cerca effetti esterni, ma costruisce dall’interno un’atmosfera percettibile quasi fisicamente. Gli sguardi, le pause, le inflessioni vocali diventano fenditure aperte nello spazio: non illustrano, ma scavano. È una recitazione calibrata sulla sottrazione, che vibra in sintonia con l’umidità della serra e con la crescita muta delle piante, fino a trasformarsi in partitura atmosferica. La regia di Cristofanilli modella questo mondo con precisione chirurgica. Non vi è frattura netta tra l’intimo e il collettivo: ciò che accade fuori filtra dentro, e ciò che si consuma tra le mura domestiche riverbera sul piano politico. È proprio in questa osmosi che si colloca la potenza visionaria dello spettacolo: il “microclima” non è solo condizione atmosferica, ma metafora di un’epoca in cui la vita privata è continuamente attraversata dalla pressione del contesto storico. Lo spettacolo si inserisce così nella grande tradizione del teatro politico europeo. Come in Brecht, la scena rinuncia alla catarsi per sollecitare un atteggiamento critico. Come in Weiss, la memoria e la responsabilità diventano materia drammatica che pesa sui corpi. E nei silenzi sospesi, nei frammenti interrotti, si avverte l’eco di Müller, dove il teatro si fa rovina, spazio in cui il passato sopravvive a brandelli e il presente fatica a trovare voce. Cristofanilli non imita, ma raccoglie questa eredità, rendendola attuale attraverso una scrittura asciutta e implacabile. La collaborazione con la Fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung aggiunge un ulteriore livello di senso. Un’istituzione che ha fatto della giustizia sociale e della difesa dei diritti umani la propria missione sceglie di affidarsi al teatro per affrontare una delle questioni più sottili della contemporaneità: la normalizzazione delle destre. È una scelta politica e culturale al tempo stesso, perché riconosce alla scena un potere di intervento che altre forme di comunicazione non possiedono. Laddove il convegno argomenta, il teatro smuove; laddove l’analisi elabora, la scena incrina, mette a disagio, costringe a interrogarsi. Il cuore di Microclima resta però psicologico. La serra non è soltanto spazio scenico, è metafora mentale: fertile e soffocante, generosa e opprimente. Le 138 piante sono un accumulo di passato che soffoca il presente. La loro crescita ininterrotta è la materializzazione di una memoria che non lascia respirare, che avvolge i personaggi fino a immobilizzarli. Ed è qui che lo spettatore viene interpellato: chi di noi non abita serre invisibili, fatte di convinzioni, ideali, ricordi che invece di nutrire finiscono per intrappolare? I personaggi non appaiono come eroi o vittime, ma come specchi. In loro si riflette una generazione che ha visto evaporare l’utopia e che ora convive con la cenere del compromesso. La domanda che lo spettacolo insinua – senza mai formularla apertamente – è radicale: fino a che punto si può restare fedeli a un ideale senza condannarsi all’irrilevanza? E fino a che punto scendere a compromesso senza tradirsi del tutto? La forza di Microclima sta proprio nel rifiuto di rassicurare. Non offre morali edificanti né finali concilianti. È teatro che punge, che lascia addosso l’umidità vischiosa della serra, che penetra nei vestiti e resta sulla pelle. Ma è proprio in questo disagio che si produce l’energia autentica della scena: l’impossibilità di restare indifferenti, il dover uscire dalla sala con una domanda irrisolta. Il pubblico lo percepisce con chiarezza. L’attenzione resta tesa dall’inizio alla fine, senza cedimenti. Gli applausi arrivano lunghi, liberatori, come un respiro trattenuto troppo a lungo. Non sono un tributo di circostanza, ma il segno di un’esperienza che ha lasciato traccia. Microclima non ha soltanto raccontato una storia: ha inciso una ferita, ha depositato nello spettatore un dubbio che continuerà a germinare. Ed è in questa capacità di far attecchire un pensiero, più che nel racconto stesso, che risiede la sua necessità. Il teatro diventa ciò che deve essere: non un rifugio, ma una scossa. Photocredit Ilena Landi

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Roma, Gnam: “Ahmet Güneştekin. Catalogo della Mostra Yoktunuz”

gbopera - Mer, 24/09/2025 - 20:00

Ahmet Güneştekin – Yoktunuz (Eravate assenti)
Silvana Editoriale, 2025
Artista: Ahmet Güneştekin (Batman, 1966), turco di origine curda
Formato: 24 × 30 cm
Pagine: 224
Edizione bilingue italiano/inglese
ISBN/EAN: 9788836663200
Prezzo: € 32
Non si resta neutrali davanti a certi libri. Si può fingere, certo: si sfoglia distratti, si posa sul tavolo, si passa oltre. Ma il corpo sa quando è stato toccato. YOKTUNUZ — “eravate assenti” — non è un titolo furbo: è un modo di bussare alla porta della nostra coscienza e chiedere chi c’è davvero, adesso, qui. La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma accompagna la mostra di Ahmet Güneştekin con un catalogo edito da Silvana Editoriale. Non è l’oggetto elegante da esibire a fine visita: è una prova a carico e a discarico, tutte e due insieme. Dentro ci sono le opere, fotografate senza anestesia, e ci sono le parole che non addomesticano: il saggio di Sergio Risaliti, la lunga conversazione con Paola Marino, l’intervento di Renata Cristina Mazzantini, e il testo di Santa Nastro che ricostruisce la rimozione di Picco di Memoria. Un episodio che molti vorrebbero archiviare come incidente tecnico; invece è un rivelatore. Quando la memoria disturba, si prova a toglierle spazio. E proprio lì capisci quanto sia necessaria. Chi è l’artista che ci chiede conto del nostro sguardo? Ahmet Güneştekin nasce a Batman nel 1966, in quella Turchia dove le frontiere non sono linee sulla carta ma cicatrici sulla pelle. Le sue origini curde non sono una biografia esotica: sono il punto da cui parte la domanda più semplice e più scomoda—chi decide chi è visibile e chi no? La sua pittura è un verbo in sottrazione: stendere strati scuri, incidere, scavare, finché il colore non affiora come una bruciatura. Non è un’ornamentazione di superficie; è un atto. Ogni opera porta un segno che somiglia a una ferita rimarginata male: bella e dolorosa nello stesso tempo. Le pagine del catalogo sono un attraversamento, non un riassunto. I soli a più occhi, i sarcofagi incisi di alfabeti cancellati, gli oggetti recuperati dalle macerie—case, strade, vite—non chiedono interpretazioni brillanti; chiedono responsabilità. Non “cosa significa”, ma “che cosa mi riguarda”. Perché una scarpa di bambino senza piede non è un simbolo, è un’assenza che pesa. E i miti che arrivano dall’Anatolia o dalla Mesopotamia non stanno in un capitolo di storia antica: si accendono nel presente, come brace sotto la cenere. La mostra ha scelto il dialogo, non il recinto. Le opere di Güneştekin sono entrate tra Canova, Balla, Martini: non per vincere un confronto, ma per spostare il baricentro della bellezza. Da una parte il marmo levigato, dall’altra il ferro spezzato; da una parte l’ideale, dall’altra il quotidiano ferito. La domanda non è chi sia più “alto”: la domanda è che cosa chiamiamo comunità quando mettiamo accanto il monumento e il rottame, la forma perfetta e la vita spezzata. Se la bellezza non sa tenere insieme le due cose, è una bellezza che non basta. Il titolo YOKTUNUZ parla al plurale e al passato: eravate assenti. Ma ogni pagina, ogni immagine, ogni riga di questo libro sposta il tempo al presente. Dove siamo adesso? In quale assenza ci riconosciamo? Gli esclusi non sono un capitolo remoto: sono i corpi che non vediamo perché non ci conviene vederli. Le lingue negate, le culture spostate ai margini, le storie tagliate via: non stanno in un museo per essere pacificate, stanno in un catalogo per diventare compito. Non basta “ricordare”: bisogna lasciare che il ricordo cambi forma alle nostre abitudini. Il testo di Santa Nastro sulla rimozione di Picco di Memoria non cerca colpe da esibire, cerca responsabilità condivise. È facile parlare di prudenza, di protocolli, di sicurezza. È più difficile ammettere che a volte manchiamo il coraggio di reggere lo specchio che l’arte ci porge. Togliere un’opera che parla di memoria è un modo di rimuovere la memoria un’altra volta. Eppure qualcosa accade: l’assenza diventa più visibile della presenza negata. La ferita non si richiude, chiede cura. Dentro questo catalogo c’è anche la forma concreta del patto: un’edizione bilingue per far circolare la voce, un formato ampio per non trasformare le opere in miniature, una legatura solida per resistere al tempo. Sono dettagli editoriali, sì, ma dicono una visione: la memoria non è un evento stagionale, è un esercizio che si ripete. La mostra si chiude, il catalogo resta: lo si prende in mano come si prende in mano una storia che non ci apparteneva e ora non possiamo più restituire. C’è poi un dato che va detto senza enfasi e senza falsa modestia: Güneştekin è il primo artista dalla Turchia a presentare una personale alla Galleria Nazionale di Roma sotto la direzione di Renata Cristina Mazzantini. Non è un primato da calendario; è un varco. Significa allargare la casa comune perché dentro entri anche ciò che prima restava sull’uscio. E quando alcune opere entrano nella collezione, non diventano trofei: diventano un “noi” più grande. A chi serve questo catalogo? Non a chi cerca l’alibi della cultura ben frequentata. Serve a chi accetta di essere chiamato per nome. A chi sa che una pagina può cambiare la postura del corpo, come quando ci si raddrizza senza pensarci. A chi riconosce che “memoria” non è una parola gentile per addolcire il passato, ma una parola esigente per trasformare il presente. Possiamo ancora scegliere di essere assenti. Possiamo chiudere il volume, posarlo, tornare alle nostre cose. Ma c’è un’altra via, più scomoda e più vera: restare. Restare davanti alle pagine che graffiano, alle immagini che non lasciano dormire, alle domande che non fanno sconti. Restare non per devozione, ma per giustizia. Perché senza la giustizia della memoria, nessuna comunità regge: si sfalda al primo urto, si frantuma come vetro troppo tirato. Questo catalogo non chiede di essere amato; chiede di essere ascoltato. Non promette consolazione; promette presenza. Se lo apri davvero, non sei più spettatore: diventi parte in causa. E allora il titolo smette di accusare e comincia a includere. Non “eravate assenti”, ma “siamo presenti”. Qui. Adesso. Con la responsabilità di restare.

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Venezia, Palazzetto Bru Zane: “Ciclo Parigi romantica pop” dal 27 settembre al 28 ottobre 2025

gbopera - Mer, 24/09/2025 - 10:30

Nell’ambito del bicentenario di Hervé (1825-1892), al Palazzetto Bru Zane di Venezia, dal 27 settembre 2025 prenderà il via il Ciclo Parigi romantica pop, festival di musica da camera che terminerà il 28 ottobre.
Negli ultimi anni, il Palazzetto Bru Zane ha dedicato un’attenzione particolare a Hervé, con l’intento di ampliare le proprie ricerche scientifiche e proposte artistiche ai cosiddetti generi “leggeri”. Les Chevaliers de la Table ronde, Mam’zelle Nitouche, Le Compositeur toqué, Le Retour d’Ulysse, V’lan dans l’œil, Moldave et Circassienne: tutti questi lavori sono tornati in scena per far conoscere meglio l’umorismo unico di un autore spesso rimasto nell’ombra del suo contemporaneo e rivale Jacques Offenbach. Per celebrare il bicentenario della nascita di questo musicista prolifico e strampalato, il ciclo Parigi, romantica pop lo colloca al centro di un movimento artistico che, dal Secondo Impero alla Belle Époque, ha puntato sull’assurdo e sulla follia per divertire un vasto pubblico. Qui per tutti gli appuntamenti del ciclo e per ulteriori informazioni.

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Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Les pêcheurs de perles”

gbopera - Mer, 24/09/2025 - 09:18

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione d’Opera 2025
LES PÊCHEURS DE PERLES”
Opera in tre atti – Libretto di Michel Carré ed Eugène Cormon
Musica di Georges Bizet
Léila HASMIK TOROSYAN
Nadir JAVIER CAMARENA
Zurga LUCAS MEACHEM
Nourabad HUIGANG LIU
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Jérémie Rhorer
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Wim Wenders (ripresa da Derek Gimpel)
Scene David Regehr
Costumi Montserrat Casanova
Luci Olaf Freese (riprese da Oscar Frosio)
Drammaturgia Detlef Giese
Firenze, 23 settembre 2025
Terminata la calura estiva, il Teatro del Maggio ha rialzato il sipario della Sala Grande con un titolo affascinante, “Les pêcheurs de perles” di Georges Bizet, tornato in cartellone a Firenze dopo nove anni, stavolta proposto nell’allestimento nato per la Staatsoper Unter den Linden di Berlino. Martedì 23 è andata in scena l’ultima delle tre recite, considerando l’annullamento di quella in programma venerdì scorso a causa dello sciopero nazionale indetto dalla CGIL per Gaza.
Bizet, giovane esordiente, fresco vincitore del Prix de Rome, compose l’opera nel 1863 per il Théâtre Lyrique di Parigi, musicando un libretto convenzionale ma “alla moda” secondo i gusti dell’epoca in quanto di ambientazione orientale. La trama, un classico triangolo amoroso, ruota attorno all’amicizia tra Nadir, pescatore di perle, e Zurga, capo dei pescatori, che si ritrovano a dover affrontare la loro passata – ma ancora attuale – infatuazione per una misteriosa sacerdotessa di nome Léila. Scoperto l’amore corrisposto fra Nadir e Léila, Zurga, geloso, condanna entrambi a morte, salvo poi, in seguito a un’inaspettata agnizione, pentirsi e salvarli.
Partendo dalla scelta di una scenografia essenziale a fondale nero e da costumi semplici ma appropriati, sono state le proiezioni di onde marine, nuvole e ombre di palme al chiaro di luna a evocare davanti al proscenio l’atmosfera esotica dello Sri Lanka (attuale nome dell’isola di Ceylon), così come le didascalie in stile cinematografico e alcuni frammenti video hanno contribuito a rendere più chiari gli eventi dei flashback narrativi. La suggestiva e visionaria regia del tedesco Wim Wenders ripresa da Derek Gimpel ha voluto così porre in risalto ogni movimento ed espressione dei personaggi, su cui ricadeva la responsabilità di animare la scena e di far avanzare lo svolgersi del dramma. Wenders, che ha recentemente ricevuto il Leone d’Oro alla carriera e la cui regia di un’opera è in scena in Italia per la prima volta, ha giustificato la sua scelta sostenendo che un’abbondanza di elementi visivi avrebbe distratto il pubblico da un ascolto attento dell’opera. La regia risulta nel complesso convincente ed è apprezzabile rispetto alle frequenti rivisitazioni fin troppo libere delle opere di repertorio.
Jérémie Rhorer ha diretto consapevolmente l’Orchestra del Maggio, curando i vari dettagli della partitura fra cui il risalto di colori timbrici e dinamiche espressive, relativi ad armonie a quell’epoca considerate bizzarre e inconsuete. Fra i momenti più significativi si evidenziano i toccanti soli dell’arpa e del flauto e le parti ritmiche valorizzate dalle percussioni. L’aver approfondito in passato lo stile di Bizet attraverso la concertazione del repertorio sinfonico lo ha indotto così a ricreare un suono orchestrale emotivamente vivo dotato di senso proprio e allo stesso tempo adatto a ispirare il canto dei solisti e a supportare gli interventi precisi ed efficaci del Coro di pescatori, fachiri e sacerdoti preparato da Lorenzo Fratini con la consueta competenza. Di grande effetto sono stati “Sur la grève en feu”, “L’ombre descend des cieux” e l’invocazione “O Dieu Brahma” ripresa da un Te Deum composto anni prima a Villa Medici. Era in scena anche un gruppo di bambini a interpretare la prole del villaggio.
Il tenore Javier Camarena (Nadir) ha fornito un’ennesima grande prova di talento e sensibilità, risolvendo con sapiente destrezza un ruolo impegnativo e suggellando la sua serata con una straordinaria interpretazione della famosa romanza “Je crois entendre encore”, cantata a mezza voce e impreziosita dall’utilizzo efficace di falsetti rinforzati. Si è mostrato convincente e calato nella parte durante l’intera rappresentazione, distinguendosi anche nei duetti con Zurga e Léila. Di notevole resa è stato soprattutto il celeberrimo duetto nostalgico del primo atto “Au fond du temple saint” che, in linea con l’edizione critica e non con le esecuzioni di tradizione, è confluito nella parte finale “Amitié sainte” anziché concludersi con la ripresa del tema principale. Fin dal duetto iniziale il baritono Lucas Meachem, ha impersonato Zurga gestendo consapevole una grande voce squillante dal timbro scuro e con acuti impetuosi, a cui ha aggiunto spiccate abilità attoriali, arrivando emotivamente al pubblico, in particolare nell’aria del terzo atto “O Nadir, tendre ami de mon jeune âge”. Il soprano Hasmik Torosyan, applaudita di recente in uno splendido Concerto di Belcanto al ROF, ha messo in luce tutte le sue qualità vocali e musicali, rivelando la sua natura di artista completa dotata di bel timbro lirico, buon vibrato e sentita interpretazione. L’apice del suo canto è stata la magnifica esecuzione dell’aria del secondo atto “Me voilà seule dans la nuit… Comme autrefois”. È stata lodevole anche l’interpretazione di Huigang Liu come sacerdote Nourabad, unico ruolo comprimariale dell’opera, per una voce risoluta di basso e una stentorea presenza scenica.
Al termine della recita si è riscontrato un successo generale con applausi a scena aperta in particolare per i tre protagonisti Torosyan, Camarena e Meachem. È uscito da teatro soddisfatto il numeroso pubblico melomane presente, curioso di assistere fra due settimane ai prossimi appuntamenti operistici: la prima esecuzione in tempi moderni de “Il Ciro” di Alessandro Scarlatti al Teatro Goldoni e il “Macbeth” con Luca Salsi per la regia di Mario Martone.

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Lombardia, OperaLombardia: al via la Stagione 2025/26 il 25 settembre con “L’elisir d’amore” al Teatro Sociale di Como

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 21:00

OperaLombardia: cinque Teatri di tradizione (il Teatro Donizetti di Bergamo, il Teatro Grande di Brescia, il Teatro Sociale di Como / AsLiCo, il Teatro Ponchielli di Cremona, il Teatro Fraschini di Pavia), tra i più belli del Nord Italia, continuano la collaborazione con la stagione 2025/2026, un cartellone affrontato e proposto sempre in maniera virtuosa, che premia l’ottimizzazione dei costi e la condivisione di idee, risorse, progetti, palinsesti, un fiore all’occhiello che fa sistema sul territorio, grazie al prezioso sostegno di Regione Lombardia, Fondazione Cariplo e Ministero della cultura.
I nuovi allestimenti, pensati per la stagione 2025/26, partono con L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti che vedrà il debutto il 25 e 27 settembre 2025 al Teatro Sociale di Como, con una replica in anteprima per la PrimaGiovani under30 martedì 23.
Nella stessa settimana, il 26 e 28 settembre, avrà invece inizio al Teatro Grande di Brescia la tournée di Carmen di Georges Bizet con Anteprima giovani il 24 settembre. Si continua poi con Don Quichotte di Jules Massenet che debutta dal Teatro Fraschini di Pavia il 31 ottobre e 2 novembre.
Un’altra produzione che vedrà il suo esordio a Como (14 e 16 novembre) sarà I puritani di Vincenzo Bellini. Infine chiude la Stagione Nabucco di Giuseppe Verdi che andrà in scena al Teatro Ponchielli di Cremona il 21 e 23 novembre.
Per questa stagione, le opere in scena saranno tutti dei nuovi allestimenti. OperaLombardia si dimostra ancora una volta una rete importante per il debutto di giovani artisti, cantanti, registi, direttori, con successo di pubblico e di critica, che hanno portato anche a importanti riconoscimenti, come il Premio Abbiati.
Si conferma anche per questa stagione la collaborazione con I Pomeriggi Musicali, diventata negli anni l’orchestra partner del Circuito e un eccellente accompagnamento musicale delle diverse produzioni. Qui per ulteriori informazioni.

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Milano, Pinacoteca di Brera: “Giorgio Armani: Milano, per amore” dal 24 settembre 2025 all’11 gennaio 2026

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 17:44

Per celebrare cinquant’anni di creatività, la Pinacoteca di Brera ospita per la prima volta una mostra sul coerente percorso di stile tracciato da Giorgio Armani attraverso una selezione di abiti, accogliendola nelle sue prestigiose sale con le opere che raccontano l’arte italiana dal Medioevo all’Ottocento: Giorgio Armani: Milano, per amore dal 24 settembre 2025 all’11 gennaio 2026.
Giorgio Armani ha più volte dichiarato il suo legame con Brera, il quartiere che aveva scelto per vivere e lavorare e di cui ammirava l’anima duplice, colta e insieme profondamente vitale, con il suo misto di eleganza e libertà artistica. Un rapporto profondo riconosciuto dall’Accademia di Belle Arti, che nel 1993 gli conferì il titolo accademico per la coerenza della sua ricerca di stile, e il rigore con cui ha saputo unire la funzione alla fantasia dell’invenzione.
Più di centoventi creazioni ripercorrono lo stile di Giorgio Armani reimmaginando il percorso della galleria d’arte. Storia pittorica e storia della moda invitano il visitatore a lasciarsi sorprendere da contrasti cromatici e materici. La selezione proviene da ARMANI/Archivio, che preserva e valorizza la visione di Giorgio Armani: un dizionario concettuale che racconta e definisce cinquant’anni di creatività, coerenza ed evoluzione, evidenziando il ruolo della moda nella costruzione e nella trasformazione degli immaginari estetici e culturali.
Trasmettere conoscenza attraverso l’esperienza diretta, consentendo di cogliere senza filtri la maestria dei grandi artisti, era e rimane il cuore della vocazione della Pinacoteca, inaugurata nel 1809 per sostenere la missione didattica dell’Accademia di Belle Arti, fondata nel 1776. L’esposizione delle creazioni di Giorgio Armani nelle sue sale, popolate da eccellenti espressioni artistiche, include per la prima volta in questa missione la moda, centrale per comprendere le società di ogni tempo.
Gli abiti raccontano la varietà di temi e codici che rendono il lavoro di Giorgio Armani inconfondibile: la rilettura della sartorialità; il senso unico della decorazione; la predilezione per i colori neutri ma mai piatti; l’amore per la ricchezza inaspettata di lavorazioni, trattamenti e ricami, segni di un estro misurato che si rivela poco a poco, e cambia la definizione stessa di sobrietà. I manichini, invisibili, lasciano che i corpi siano solo evocati dagli abiti, in continuità con i progetti espositivi realizzati in precedenza.
GIORGIO ARMANI: Milano, per amore riunisce per la prima volta abiti esposti in precedenza presso Armani/Silos e altre importanti istituzioni museali nel mondo, arricchendo la selezione di nuove scoperte tratte da ARMANI/Archivio. Qui per tutte le informazioni. In foto: Giorgio Armani, Milano Per Amore, Pinacoteca di Brera; photo credit @agnese_bedini @melaniadallegrave @dsl__studio

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Roma, Teatro Brancaccio: “La Nuova Stagione 2025-2026”

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 16:13

Roma, Teatro Brancaccio
STAGIONE 2025 – 2026
Il sipario del Teatro Brancaccio si prepara ad alzarsi su una nuova stagione che intreccia tradizione e innovazione, leggerezza e riflessione, musica, danza, prosa e comicità. Dal prossimo ottobre, lo storico palcoscenico romano accoglierà un cartellone che si annuncia ricco e variegato, capace di parlare a pubblici diversi e di offrire emozioni in molteplici forme. Ad aprire la stagione sarà Giovanni Scifoni con Fra’, diretto da Francesco Brandi, una riflessione ironica e profonda sul senso della spiritualità oggi. Subito dopo, il palco si accenderà con la comicità di Andrea Pucci e Pierluca Mariti, per poi accogliere Alessandro Cattelan con Benvenuto nell’AI!, spettacolo che porta in scena le domande e le sfide legate al nostro presente tecnologico. Tra i debutti attesi anche Avanguardia Pura con Camilla Boniardi e Guglielmo Scilla, e il ritorno di Giorgio Panariello con E se domani…, un viaggio tra memorie personali e il ritratto della nostra società. La danza contemporanea sarà protagonista con Thikra: Night of Remembering, un rito scenico che intreccia memoria e corpo, mentre la musica diventerà racconto con Frida Opera Musical, che vedrà in scena Federica Butera, Drusilla Foer e Andrea Ortis in un omaggio potente all’icona messicana. Non mancheranno i grandi titoli del musical internazionale, dal cult intramontabile Rocky Horror Show all’atteso Anastasia diretto da Federico Bellone, fino al ritorno di una pietra miliare del repertorio italiano come Aggiungi un posto a tavola, che riporterà sul palco Lorella Cuccarini accanto a Giovanni Scifoni. Il Brancaccio non dimentica la sua vocazione cosmopolita: tra le presenze più attese della stagione torna Dita Von Teese con Nocturnelle, spettacolo simbolo del neo-burlesque mondiale che trasformerà il teatro in un luogo di seduzione, ironia e magia notturna. Accanto ai grandi titoli, la programmazione conferma un’attenzione costante alle nuove generazioni e al pubblico più giovane. Con il Teatro Ragazzi il Brancaccio rinnova infatti l’impegno a offrire spettacoli pensati per le famiglie: musical, circo contemporaneo, prosa per bambini e adolescenti, occasioni di crescita culturale che trasformano il teatro in un’esperienza condivisa fin dall’infanzia. La Stagione 2025-2026 è dunque una dichiarazione di fiducia nella vitalità del teatro come luogo d’incontro. Ogni titolo non è soltanto un evento, ma un tassello di un mosaico che parla della nostra epoca: tra la comicità che alleggerisce, la danza che interroga, la musica che unisce, e la prosa che racconta. Biglietti e abbonamenti sono già disponibili attraverso le prevendite ufficiali e sul sito del Teatro Brancaccio. Per informazioni aggiornate e per scoprire tutti i dettagli del cartellone si invita a consultare il sito ufficiale. Il Brancaccio si conferma così come uno spazio che non teme di mescolare linguaggi e generi, restituendo al pubblico di Roma e non solo una stagione che è insieme festa, riflessione e meraviglia. Qui per tutte le informazioni.

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Lucca: “Lucca e gli organi di Puccini” dal 27 settembre al 26 ottobre 2025

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 16:00

Cinque concerti per riscoprire una pagina poco nota di Giacomo Puccini e svelare la sua passione per l’organo. “Lucca e gli organi di Puccini” è la rassegna organizzata dall’associazione Toscana Classica con il contributo del Ministero della Cultura che, dal 27 settembre al 26 ottobre 2025, celebrerà il legame profondo tra Puccini e il re degli strumenti. L’organo accompagnò il grande compositore fin dall’adolescenza e oggi torna protagonista grazie al ritrovamento di circa 60 brani composti d’artista per questo strumento.
A far da cornice saranno proprio quelle chiese lucchesi dove Puccini mosse i primi passi. Agli organi, strumenti con secoli di storia, siederanno interpreti di fama internazionale quali Antonio Frigé, Maurizio Croci, Lorenzo Ghielmi, Gabriele Giacomelli e Paolo Bottini. Tutti i concerti saranno a ingresso libero.
“Lucca e gli organi di Puccini” prenderà il via sabato 27 settembre (ore 21) alla Chiesa di San Pietro Somaldi: vincitore di prestigiosi concorsi e cultore dei repertori seicentesco e settecentesco, Antonio Frigé proporrà un programma che, dal Barocco di Storace, Clarke e Stanley, ci condurrà al Preromanticismo di Domenico Puccini fino alle “Due sonate in sol maggiore” composte da un Giacomo Puccini appena ventenne. Il legame di Puccini con l’organo di San Pietro Somaldi fu suggellato dallo stesso Giacomo, che volle apporre la sua firma, tuttora visibile, sulla parete anteriore della cassa.
Per informazioni e prenotazioni si può contattare la segreteria, tel. 055.783374, o visitare, anche per il Calendario completo, il sito www.toscanaclassica.com. La rassegna “Lucca e gli organi di Puccini” è organizzata con il patrocinio di Comune di Lucca, Centro Studi Giacomo Puccini, Rotary Club di Lucca e Rotary Club Viareggio Versilia. In foto: Antonio Frigé

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Roma, Teatro Vascello: “A Place of Safety” dal 26 al 28 settembre 2025

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 10:00

Roma, Teatro Vascello
A PLACE OF SAFETY
Viaggio nel Mediterraneo centrale
ideazione Kepler-452
regia e drammaturgia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con le parole di Flavio CatalanoMiguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña
con Nicola Borghesi, Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña
assistente alla regia Roberta Gabriele
scene e costumi Alberto Favretto
disegno luci Maria Domènech
suono e musiche Massimo Carozzi
consulente per il movimento Marta Ciappina
progetto video Enrico Baraldi
consulente alla drammaturgia Dario Salvetti
assistente alla regia volontario e video editor Alberto Camanni
scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
video dello spettacolo Vladimir Bertozzi
foto di scena Luca Del Pia
si ringrazia Giovanni Zanotti per il fondamentale contributo alla drammaturgia
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier (Francia)
in collaborazione con Sea-Watch EMERGENCY
il progetto gode del sostegno del bando Culture Moves Europe, finanziato dall’Unione Europea e dal Goethe-Institut
spettacolo in italiano, inglese, spagnolo e portoghese con Sovratitoli
A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale, è l’ultimo lavoro della compagnia Kepler-452 realizzato in collaborazione con Sea-Watch e con EMERGENCY, che racconta uno dei fenomeni più drammatici degli ultimi anni, la tratta migratoria nelle acque del Mediterraneo centrale, attraverso le voci degli stessi operatori umanitari. Gli interpreti non sono attori professionisti, ma soccorritori e soccorritrici che hanno partecipato a moltissime missioni di ricerca e soccorso di migranti in mare. In questo momento, due di loro, Miguel Duarte, fisico matematico portoghese oggi capo missione per Sea-Watch, e Flavio Catalano, ufficiale tecnico sommergibilisti della Marina Militare in pensione volontario su Life Support per EMERGENCY, si sono imbarcati sulla Global Sumud Flottilla verso Gaza, dove tenteranno di consegnare aiuti umanitari alla popolazione civile. Il loro rientro era originariamente previsto in tempo per le repliche dello spettacolo al Teatro Vascello, ma alcuni ritardi nella missione, dovuti soprattutto al fatto che l’imbarcazione sulla quale viaggia Duarte è stata colpita da una bomba incendiaria lanciata da un drone, ne mettono a rischio la presenza. Senza contare il pericolo che, secondo quanto ha affermato il Ministro della sicurezza nazionale israeliana, vengano detenuti dalle forze armate israeliane. «Ad oggi non sappiamo se due dei sei interpreti di questo spettacolo saranno presenti al Teatro Vascello» dichiarano i registi e drammaturghi Enrico Baraldi e Nicola Borghesi, fondatori della compagnia. «Dopo che la nave Familia Madeira è stata colpita dalla bomba incendiaria Miguel ha dichiarato che non si sarebbero fatti intimidire e avrebbero continuato il loro viaggio. Pensiamo, nel minuscolo caso di questo nostro spettacolo, di dover fare altrettanto. Non sappiamo se Flavio e Miguel riusciranno a essere a Roma, ma sappiamo che, se non ci saranno, il motivo della loro assenza sarà enorme. Un enorme fatto umano, artistico e civile, del quale, come autori e registi di questo spettacolo, sentiamo di doverci fare carico. Lo spettacolo andrà comunque in scena, così come la Flottilla prosegue il suo viaggio benchè danneggiata e le soluzioni che inventeremo non saranno orientate a restituire lo spettacolo per come avrebbe dovuto essere, ma piuttosto a sottolineare l’assenza dei due interpreti, dando alla loro mancanza la giusta dignità: testimonianza viva che nuovi pezzi di realtà e dunque di teatro si stanno scrivendo». A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale, è costruito sulla reale esperienza di chi è in scena, sulla trasposizione scenica della realtà. Una compagnia di teatro si è imbarcata su una nave SAR (search and rescue) per capire in prima persona ciò che sta accadendo a pochi chilometri dalle coste italiane: la tratta migratoria più letale al mondo, un grande rimosso collettivo della civiltà europea. Lo spettacolo è la storia dell’incontro tra gli artisti e un gruppo di persone che ha deciso di dedicare una parte della propria vita al soccorso in mare, ma è anche un discorso intimo su ciò che l’Europa vorrebbe essere, su ciò che non è, su ciò che potrebbe essere. Il lungo periodo di indagine sul campo intorno al tema della SAR, è cominciato con dialoghi tra Enrico Baraldi e Nicola Borghesi – fondatori e componenti della compagnia – e alcuni referenti di ONG, e proseguito con un periodo di residenza a Lampedusa e con la successiva partenza per la rotta mediterranea a bordo della nave Sea-Watch 5. In quasi cinque settimane di navigazione, l’equipaggio ha soccorso 156 persone, sbarcate poi nel “place of safety”, il porto di La Spezia. La nave, con Borghesi e Baraldi a bordo, è tornata in Sicilia al termine della missione. Durante il percorso, gli artisti hanno incontrato alcuni operatori di Life Support – la nave di EMERGENCY e di Sea-Watch, che sono diventati protagonisti dello spettacolo, in scena con Nicola Borghesi: Flavio Catalano (ufficiale tecnico sommergibilisti della Marina Militare ora in pensione e volontario su Life Support per EMERGENCY in 26 missioni dal 2022), Miguel Duarte (fisico matematico portoghese, un civil sea rescuer nel Mediterraneo centrale dal 2016, membro dell’equipaggio della nave Iuventa che ha rischiato fino a venti anni di carcere per un’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oggi capo missione per Sea-Watch); Giorgia Linardi (giurista e portavoce di Sea-Watch, con esperienze con Medici Senza Frontiere); Floriana Pati (infermiera specializzata in medicina della migrazione); José Ricardo Peña (texano, figlio di immigrati messicani, ha lavorato come elettricista sulle navi prima di diventare volontario con Sea-Watch). Qui per tutte le informazioni.

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Parma, 25° Festival Verdi: al via il 26 settembre 2025 con “Otello” al Teatro Regio

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 10:00

Otello è l’opera inaugurale del XXV Festival Verdi, in debutto al Teatro Regio di Parma venerdì 26 settembre 2025 ore 20.00 (recite domenica 5 ottobre ore 15.30, sabato 11 ottobre ore 20.00, domenica 19 ottobre ore 20.00). L’opera è eseguita per la prima volta nella nuova edizione critica a cura di Linda B. Fairtile, The University of Chicago Press e Casa Ricordi. Roberto Abbado dirige il titolo verdiano per la prima volta sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, del Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani e del Coro di voci bianche del Teatro Regio di Parma preparato da Massimo Fiocchi Malaspina. Il nuovo allestimento dell’opera, realizzato nei laboratori di scenografia e sartoria del Teatro Regio di Parma, è firmato dal regista Federico Tiezzi, per la prima volta al Regio, con Margherita Palli alle scene, Giovanna Buzzi ai costumi, Gianni Pollini alle luci e Fabrizio Sinisi alla drammaturgia. In scena Fabio Sartori (Otello), Ariunbaatar Ganbaatar (Jago), Mariangela Sicilia (Desdemona), Davide Tuscano (Cassio), Francesco Pittari (Roderigo), Francesco Leone (Lodovico), Alessio Verna (Montano), Natalia Gavrilan (Emilia), Cesare Lana (Un Araldo).
La première dell’opera sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3.
«In Otello – spiega il direttore Roberto Abbado – c’è davvero tanto materiale musicale eccezionale che, il concetto di tinta verdiana, che ingloba tantissimi elementi, qui si può dire addirittura superato. Io penso che Otello non abbia una vera e propria tinta, perché ormai siamo di fronte a un dramma psicologico, a un’opera in cui Verdi si è spinto molto avanti. Per sintetizzarla con un aggettivo abusato, è un’opera modernissima. È modernissima nel linguaggio armonico, da questo punto di vista pienamente rappresentativa del proprio tempo, e in più ogni atto è una grande campata che viene articolata in diversi momenti, senza numeri chiusi. Se proprio si volesse identificare una tinta generale si potrebbe spendere il concetto di “violenza”, visto che l’opera comincia violentemente con una tempesta, che è anche metafora di quello che si agita nella mente di Otello, e finisce con due gesti violenti, l’assassinio di Desdemona seguìto dal suicidio di Otello». Qui per ulteriori informazioni.

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Maria Callas: “Il mio dramma d’artista e di donna” – 2

gbopera - Mar, 23/09/2025 - 07:20

Ricordando Maria Callas  a 48 anni dalla morte.
Da “Oggi” – 16 gennaio 1958.
Di Maria Meneghini Callas
Vana Speranza
Ricordate: era l’1° gennaio; a Capodanno tutti sono in vacanza, anche in teatro non c’era nessuno. Alle 13 mio marito, impegnatosi affannosamente, riuscì a trovare un medico, che mi ordinò di fare dei cataplasmi alla gola, per vincere l’infiammazione ormai manifestatasi violentemente.  Incomincia a sottopormi al supplizio e continuai per il tutto il pomeriggio, fino alle prime ore della sera.
Dopo cena, finalmente, arrivò Sampaoli, il direttore artistico del teatro si era riusciti ad avvertire. “Come stai?”, mi chiese. “Male. Forse fareste bene a cercare di sostituirmi. Del resto, senti in che condizioni è la mia voce”. “Sostituirti? Brava, e con chi? E poi la gente ha pagato per sentire la Callas, sai; c’è poco da fare, bisogna che tu canti”.
Dovevo cantare. Mancavano ventiquattro ore, ad andare in scena: inghiottii un sonnifero e piombai nel nulla. Dormii dodici ore di seguito. Quando mi destai (e fui subito ripresa dal terrore) provai ad emettere un suono e mi sembrò di cominciare a sognare: cantavo! La mia voce era pronta, a mia disposizione!  In un impeto di gioia mi misi a pensare alla lieta serata che mi aspettava; mi dedicai ai consueti mille preparativi necessari ad una cantante per andare in scena. Alle due pomeridiane pranzai, mi riposai un’oretta ancora; ma poi compresi quanto era stata vana la mia speranza e fugace la mia gioia. La voce se ne stava andando di nuovo.
I cataplasmi avevano disinfiammato momentaneamente la mia gola, ma non curato la causa vera del male, una bronchite che del resto non poteva essere guarita in così breve tempo. Anzi, ora si stava manifestando ancor più preoccupante. Allora ebbe inizio quel pomeriggio del 2 gennaio, che rimane tra i più angoscianti della mia vita. Farmi sostituire? Impossibile. Annunciare che lo spettacolo doveva essere rinviato? Non era facile, in un’occasione come quella: inaugurazione della stagione, alla presenza del Capo dello Stato. Non era meglio che questa Callas cantasse comunque, come le sarebbe riuscito? Tanto, si sa, che la maggioranza della gente sarebbe venuta in teatro per passeggiare nei ridotti e pe far sfoggio d’eleganza! Così pensò certo più d’uno. Io guardavo l’orologio implacabile. provavo la mia voce che se n’andava a brandelli e mi sentivo sommergere dalla paura. Non dimenticate, vi prego, che sono una donna.
La “Tigre” entrò in teatro.
M’hanno dato il soprannome di “Tigre”, non soltanto per l’impeto con cui mi impegno nell’interpretazione dei più personaggi più drammatici., ma anche perché tante volte un critico musicale che mi conosce e mi stima, Eugenio Gara, ha ricordato, scrivendo di me, l’antico proverbio che dice: “Chi cavalca la tigre non può più scendere”. Ma, dunque, chi ma affibbiato Il nomignolo di “tigre” non ha capito il paragone. La “tigre” che è un artista cavalca è quella del successo dell’entusiasmo che suscita: è in ultima analisi non il cantante ma il pubblico stesso, che decreta quel successo. La sera del 2 gennaio la “tigre” entrò in teatro splendida e spaventosa, mentre già nel camerino io ero pronta, truccata e quasi senza voce. Per tenere a bada la “tigre” (continuiamo pure nel paragone) occorre avere un fucile a portata di mano. Con la mia arma – con la mia voce – mi era sempre riuscito. Ma quella sera ero disarmata. Allora inghiottì del chinino, e poi mi feci fare un’iniezione eccitante, di quelle che, come si suol dire “rimettono in piedi un morto”.
“Norma viene”…cantava già il Coro e io entrai in scena con il coraggio della disperazione. Toccava a me. Cominciai: “Sediziose voci…e poi “voci di guerra”, che  sono si bemolle, la bemolle e Sol, note del registro centrale:  Sentendo il risultato, dissi tra me “Dio mio, il centro se n’è già andato del tutto. Speriamo che il resto resista “. Cantai” Casta Diva “e alla fine me l’ha presi mentalmente con chi m’ha applaudì: quella non era la mia” Casta Diva “, non volevo applausi. poi cantai la cabaletta, impegnando con terribile tensione ogni risorsa tecnica, e finalmente uscì di scena. Ero finita. Adalgisa e Pollione,  continuavano il loro duetto che chiudeva l’atto*, ma io avevo già deciso e andavo ripetendo a tutti non avrei continuato. Calò il sipario, vennero a prendermi per trascinarmi alla ribalta, forzando la mia volontà perché ho troppo alto il concetto dell’arte, e sentivo di non meritare applausi. La gente batteva le mani e io pensavo con dolore adesso dovrete tornare a casa subito. Mi chiusi in camerino.  Allora ebbe inizio la processione di quelli che volevano persuadermi ad andare avanti. “Canta lo stesso, canta in qualche modo, non si può mandare a casa da gente pensa che c’è il Presidente della Repubblica, pensa che tanti hanno cantato col mal di testa con la febbre con una caviglia slogata”. Ma io dissi di no. È vero, si può cantare con la febbre, si può cantare con le gambe doloranti con la testa che scoppia. Io stessa l’ho fatta più di una volta, ma non si può cantare senza voce. C’erano il Presidente della Repubblica e donna Carla, in teatro, è vero. Al capo dello Stato ho inviato una lettera per esprimere il mio profondo rammarico. A me non spettava di fare altro. Se i dirigenti del teatro, di fronte alla mia tempestiva dichiarazione che non avrei continuato, non hanno provveduto ad avvertire il capo dello Stato nelle debite forme, la circostanza concerne appunto quei dirigenti. Io non ho offeso Giovanni Gronchi. Certo io mi sono anche ricordata che sui manifesti c’era il nome di Vincenzo Bellini. Non potevo per salvaguardare esigenze di protocollo, recare offesa al grande musicista, mugolando gli altri atti della sua Norma, anziché cantarle. Così, la sera del 2 gennaio, è stato eseguito al Teatro dell’Opera di Roma, il primo atto della Norma: in modo non eccelso, se volete; ma correttamente. Agli altri atti è stata evitata ogni offesa.
Tornai in albergo con 38 di febbre. Il giorno dopo mi accorsi che il mio linciaggio era in atto, con violenza inaudita. Eppure non avevo vilipeso ne pubblico ne le istituzioni, non avevo usato sgarbo al capo dello Stato, non avevo attentato alla vita del teatro lirico italiano: avevo soltanto la bronchite. Allora mi tornarono in mente le parole della Traviata, le parole della mia Violetta: “Così, alla misera che è un dì è caduta, di più risorgere speranza è muta! Se pur benefico le indulge Dio, l’uomo implacabile per lei sarà!..” . E decisi che non avrei mai più cantato. Poi, nei giorni seguenti, sono successe tante cose. I telegrammi di solidarietà sono cominciati ad arrivare da tutto il Mondo, da ovunque sono giunte le lettere di amici e di sconosciuti tutte commoventi per l’affetto e l’ammirazione di cui traboccavano. Sono arrivati i fiori da riempire la mia stanza, sono giunte telefonate di persone illustri, la toccante manifestazione d’affetto del maestro Gavazzeni, di care colleghe come Giulietta Simionato e  Graziella Sciutti e del grande Luchino Visconti. Paolo Monelli, sia pur dopo uno scherzoso “processo” mi ha inviato dalle colonne della “Stampa” un ideale mazzo di rose che ho immensamente gradito. Per tutti, anche per quanti non riesco ora a ricordare, ho avuto un pensiero riconoscente. Donna Clara Carla Gronchi, una signora che ama davvero la musica e il cui animo conosce il valore delle gioie o della sofferenza che la vita ci destina ha detto a mio marito a proposito della disavventura che m’era capitata, parole che m’hanno profondamente toccato.
Nello stesso momento in cui la mia “bronchitella” incominciava ad esser vinta dalle medicine, la ferita del mio animo ha preso a rimarginarsi. e allora ho sentito, con un intima piccola indicibile gioia, che la mia voce tornava: la mia voce perché una voce che canta non è che un suono che si riempie di affetti. Con questa voce che mi è mancata per pochi giorni – cosa che è successa e succeda tanti cantanti – e che ora è tornata ad essere mia, continuerò a cantare, finché Dio mi darà forza: con tutta umiltà di fronte all’arte, e con infinito riconoscenza per quelli che in un momento triste non m’hanno abbandonato.
*Si inseriva un intervallo dopo il duetto Adalgisa-Pollione, in concomitanza con il cambio scena.

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Firenze, Palazzo Strozzi: “Beato Angelico” dal 26 settembre al 25 gennaio 2026

gbopera - Lun, 22/09/2025 - 19:10

Firenze, Palazzo Strozzi
BEATO ANGELICO
Dal 26 settembre 2025 al 25 gennaio 2026 la Fondazione Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco presentano Beato Angelicostraordinaria e irripetibile mostra dedicata all’artista simbolo dell’arte del Quattrocento e uno dei principali maestri dell’arte italiana di tutti i tempi. L’esposizione, realizzata in collaborazione tra Fondazione Palazzo Strozzi, Ministero della Cultura – Direzione regionale Musei nazionali Toscana e Museo di San Marco, mettendo in atto uno stretto dialogo tra istituzioni culturali e territorio, costituisce uno degli eventi culturali di punta del 2025, celebrando un padre del Rinascimento in un percorso tra le due sedi di Palazzo Strozzi e del Museo di San Marco. La mostra affronta la produzione, lo sviluppo e l’influenza dell’arte di Beato Angelico e i suoi rapporti con pittori come Lorenzo Monaco, MasaccioFilippo Lippi, ma anche scultori quali Lorenzo GhibertiMichelozzo e Luca della Robbia. A cura di Carl Brandon Strehlke, Curatore emerito del Philadelphia Museum of Art, con – per il Museo di San Marco – Angelo Tartuferi, già Direttore del Museo di San Marco, e Stefano Casciu, Direttore regionale Musei nazionali Toscana, Beato Angelico rappresenta la prima grande mostra a Firenze dedicata all’artista esattamente dopo settant’anni dalla monografica del 1955 andando a creare un dialogo unico tra istituzioni e territorio. Celebre per un linguaggio che, partendo dall’eredità tardogotica, utilizza i principi della nascente arte rinascimentale, Beato Angelico (Guido di Piero, poi Fra Giovanni da Fiesole; Vicchio di Mugello, 1395 circa – Roma, 1455) ha creato dipinti famosi per la maestria nella prospettiva, nell’uso della luce e nel rapporto tra figure e spazio. La mostra offre una occasione unica per esplorare la straordinaria visione artistica del frate pittore in relazione a un profondo senso religioso, fondato su una meditazione del sacro in connessione con l’umano. L’esposizione riunisce tra le due sedi oltre 140 opere tra dipinti, disegni, sculture e miniature provenienti da prestigiosi musei quali il Louvre di Parigi, la Gemäldegalerie di Berlino, il Metropolitan Museum of Art di New York, la National Gallery di Washington, i Musei Vaticani, la Alte Pinakothek di Monaco, il Rijksmuseum di Amsterdam, oltre a biblioteche e collezioni italiane e internazionali, chiese e istituzioni territoriali. Frutto di oltre quattro anni di preparazione, il progetto ha reso possibile un’operazione di eccezionale valore scientifico e importanza culturale, grazie anche a un’articolata campagna di restauri e alla possibilità di riunificare pale d’altare smembrate e disperse da più di duecento anni. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Castel Sant’Angelo: “Castel Sant’Angelo 1911–1925”

gbopera - Lun, 22/09/2025 - 15:31

Roma, Castel Sant’ Angelo
CASTEL SANT’ ANGELO 1911-1925
A cura della Direzione Musei Nazionali della città di Roma – Pantheon e Castel Sant’Angelo
Direttore ad interim Luca Mercuri
Roma, 22 settembre 2025
Castel Sant’Angelo, quel cilindro imponente che sorveglia il Tevere con aria da custode arcigno, oggi ci parla non di imperatori né di papi, ma della nascita di un museo. E non di un museo qualsiasi: il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, inaugurato nel 1925 e giunto ora al suo primo secolo di vita. Per festeggiarlo, dal 23 settembre 2025 al 15 febbraio 2026 si apre la mostra Castel Sant’Angelo 1911–1925. L’alba di un museo, organizzata dal Pantheon e Castel Sant’Angelo – Direzione Musei nazionali della città di Roma, con la direzione ad interim di Luca Mercuri. Non una rassegna celebrativa di maniera, ma un viaggio dentro le origini, quando il castello si trasformò da fortezza papale e prigione oscura a palcoscenico di memorie artistiche. L’Italia del 1911 aveva cinquant’anni di unità. Mezza età da festeggiare con trombe e tamburi, con grandi esposizioni retrospettive e padiglioni improvvisati, con quadri, sculture e cimeli tirati fuori dai depositi come vecchie fotografie di famiglia. Era l’epoca in cui si costruiva l’identità nazionale non solo con le ferrovie e i ministeri, ma anche con i musei: veri santuari della memoria, che insegnavano a un popolo ancora diviso in dialetti a riconoscersi in una storia comune. Castel Sant’Angelo fu scelto come scenario della Mostra retrospettiva del 1911, e la scelta non fu casuale: un mausoleo imperiale che era diventato fortezza papale e carcere, e che ora si reinventava come vetrina della nazione, era il simbolo perfetto della stratificazione italiana. Immaginiamo il visitatore di quell’anno. Entrava nel castello e trovava dipinti, sculture, armi e acquerelli disposti nelle sale che avevano visto le prigioni di Beatrice Cenci o i passaggi segreti dei papi. Il contrasto doveva essere potente: là dove si respirava ancora odore di umidità e ferro, ora si vedevano luci, cornici, drappi e un allestimento che oggi potremmo definire un po’ barocco, ma che allora appariva solenne. Le fotografie d’epoca, esposte nella mostra del 2025, ci restituiscono quell’atmosfera: sale dense, sovraccariche, con oggetti ammassati quasi a comporre un’enciclopedia tridimensionale, dove il criterio era insieme pedagogico e teatrale. Tra il 1911 e il 1925 passano quattordici anni che non furono tranquilli: la Grande Guerra, il dopoguerra, il mutamento delle istituzioni e dei linguaggi artistici. Ma nel frattempo a Castel Sant’Angelo si elaborava un’idea: fare del castello un museo stabile. Non bastava più la mostra celebrativa; occorreva trasformare quel cilindro romano in una casa permanente della memoria. E così si lavorò, tra acquisizioni e prestiti, tra donazioni e riordini, con quella pazienza tutta italiana che alterna slanci visionari e ritardi burocratici. Il 1925 segnò la svolta: venne istituito ufficialmente il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo. Non era un semplice atto amministrativo, ma una metamorfosi simbolica. Il mausoleo di Adriano e la roccaforte papale diventavano ufficialmente museo, con collezioni che spaziavano dalle armi ai bronzi, dagli arredi papali agli affreschi. Ogni pezzo raccontava una storia, ma insieme contribuiva a costruire una narrazione: l’Italia come nazione antica, gloriosa, stratificata. La mostra odierna, a un secolo di distanza, restituisce quell’alba con un allestimento che mette in dialogo opere e fotografie storiche. Non ci sono solo i dipinti e le sculture, ma anche la memoria del loro primo apparire in veste museale. È un gioco di specchi: l’oggetto antico e la sua messa in scena novecentesca si riflettono l’uno nell’altra. Così il visitatore di oggi non osserva soltanto l’opera, ma anche il modo in cui fu interpretata cento anni fa. È un’esperienza quasi teatrale: ci sediamo in platea e assistiamo a due spettacoli sovrapposti, l’arte e la sua museografia. E qui bisogna dirlo: i musei non sono mai innocenti. Sono sempre racconti, costruzioni ideologiche, a volte persino sceneggiature di potere. Nel 1911 servivano a mostrare un’Italia giovane ma desiderosa di apparire antica e solida. Nel 1925 dimostravano che una fortezza poteva diventare tempio della cultura. Oggi, nel 2025, i musei oscillano tra ricerca scientifica e intrattenimento turistico, tra vocazione accademica e spettacolarizzazione. Ricordare come nacque il Museo di Castel Sant’Angelo è dunque un esercizio salutare: ci aiuta a capire che ogni museo è una narrazione, e che la sua neutralità è solo apparente. Tra le sale della mostra, gli occhi si fermano sulle fotografie in bianco e nero: file di armature che paiono soldatini in parata, stanze cariche di arredi papali, busti marmorei disposti come un coro silenzioso. C’è una teatralità ingenua ma efficace, la stessa che faceva dire a certi critici dell’epoca che i musei erano “cattedrali laiche”. Oggi possiamo sorridere di quel gusto un po’ ottocentesco, ma dobbiamo riconoscere che proprio grazie a quelle scelte il museo è nato e sopravvissuto. Castel Sant’Angelo è del resto maestro di trasformazioni. Nato come tomba di Adriano, diventato fortezza medievale, palazzo rinascimentale, prigione e infine museo, incarna la capacità tutta romana di riciclare il passato. Ogni epoca lo ha reinterpretato secondo le proprie esigenze, e il 1925 non fece eccezione. La mostra del centenario ci ricorda che anche il museo è una costruzione storica, e che le sue radici affondano in un tempo preciso, fatto di scelte politiche e culturali. E allora, passeggiando oggi tra quelle sale, non possiamo non pensare a quante vite ha avuto quel cilindro sul Tevere. Forse è proprio questa la sua forza: non essere mai uguale a sé stesso. La mostra ce lo ricorda con grazia e intelligenza, riportandoci a quell’“alba” in cui si decise che Castel Sant’Angelo sarebbe stato non più soltanto un monumento, ma un museo. Un gesto che oggi possiamo leggere come un atto di fiducia nella cultura, un atto che, a distanza di un secolo, continua a parlarci con voce limpida. E viene quasi da sorridere pensando che mentre nel 1925 si immaginava un museo come cattedrale della memoria, nel 2025 ci accontentiamo spesso di musei come parchi tematici, con bookshop pieni di calamite e code più lunghe di quelle della mensa universitaria. Ma forse è proprio così che il museo continua a vivere: oscillando tra la solennità del rito e la leggerezza del souvenir.

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Modena, Modena Belcanto Festival: al via il 25 settembre 2025 con “Il martirio di Santa Teodosia” di Alessandro Scarlatti

gbopera - Lun, 22/09/2025 - 14:38

Giovedì 25 settembre 2025, alle ore 20:30, nella Chiesa di Sant’Agostino, prende il via con Il martirio di Santa Teodosia, oratorio in musica di Alessandro Scarlatti, il Modena Belcanto Festival, dedicato al belcanto nella sua accezione più ampia, dall’antico al contemporaneo. Come in questo caso, uno degli appuntamenti del festival è dedicato ogni anno alle origini del belcanto e in particolare alla rivalutazione di antiche musiche conservate nel fondo musicale estense. Ambientato nella Roma pagana del IV secolo, Il martirio, di cui Modena conserva uno dei due manoscritti – l’altro è custodito in Germania – venne eseguito per la prima volta a Roma tra il 1683 e il 1684 e poi riproposto proprio nel capoluogo modenese nel 1685.  L’opera viene riproposta a trecento anni dalla scomparsa del compositore. Qui per il programma del Modena Belcanto Festival.

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