Roma, Teatro Parioli Costanzo
IL NUOTATORE DI AUSCHWITZ
Ispirato alla vera storia di Alfred Nakache e al libro Uno psicologo nei lager di Viktor E. Frankl
Con Raoul Bova
Testo e Regia Luca De Bei
Disegno Luci Marco Laudando
Contributi Video Marco Renda
Musiche Originali Francesco Bova
Aiuto Regia: Barbara Porta
Costumi Francesca Schiavon
Roma, 27 novembre 2024
“Il nuotatore di Auschwitz” intreccia le vite di Alfred Nakache e Viktor Frankl, due uomini accomunati dall’esperienza nei lager nazisti e dalla capacità di resistere e trovare un senso anche nell’abisso dell’umanità. Alfred Nakache, nuotatore di fama mondiale ebreo di origine algerina, deportato ad Auschwitz come detenuto 172763, trova nella sua passione per l’acqua una via per sopravvivere all’orrore. Malgrado le privazioni, la fame e la perdita dei suoi cari, non si arrende. Dopo la liberazione, torna a gareggiare e raggiunge il traguardo delle Olimpiadi di Londra del 1948. Parallelamente, la figura di Viktor Frankl, psichiatra e autore di Uno psicologo nei lager, offre una prospettiva sull’importanza di trovare un significato all’esistenza anche nelle situazioni più estreme, diventando il contrappunto intellettuale ed emotivo alla storia di Nakache. Luca De Bei sceglie un’impostazione minimalista per la regia, valorizzando la parola e le immagini. La narrazione è sostenuta dalla forza del testo e dall’evocazione visiva, con pochi elementi scenografici che suggeriscono piuttosto che mostrare. L’acqua, filo conduttore della storia di Nakache, viene richiamata con semplicità con quattro linee luminose parallele che attraversano il palco, che ricordano le corsie di una piscina, ma anche quelle dei binari che portano al viaggio della sofferenza di Auschwitz. Questo approccio sobrio evita ogni spettacolarizzazione, lasciando che l’intensità della narrazione emerga attraverso dettagli simbolici. Il disegno luci di Marco Laudando gioca un ruolo centrale nell’atmosfera. I colori variano tra azzurri, grigi, bianchi freddi e rossi, richiamando il gelo del lager, il fluire dell’acqua e una luce simbolica di speranza. I chiaroscuri accompagnano i momenti di maggiore introspezione, isolando l’attore e amplificando il senso di solitudine e resilienza. La scenografia, essenziale ma efficace, trova nei giochi di luce la sua forza comunicativa. I costumi, curati da Francesca Schiavon, si distinguono per la loro semplicità e coerenza simbolica. Raoul Bova indossa una maglia e un pantalone grigio, un abbigliamento che richiama un uniforme quasi anonima e spersonalizzante dei detenuti del lager, ma che al contempo evidenzia il legame con la scena essenziale e con la tonalità cromatica dello spettacolo. Raoul Bova, unico attore in scena, affronta un ruolo complesso che richiede equilibrio e profondità. Per chi conosce il suo passato di atleta e campione di nuoto, il legame con il personaggio appare quasi fortuito, la sua esperienza personale come atleta aggiunge autenticità alla figura di Nakache. La sua interpretazione si caratterizza per una compostezza che riflette la tensione del racconto. Si alterna con equilibrio le vite di Nakache e di Frankl, grazie a una performance mai eccessiva, che evita ogni enfasi per lasciare spazio alla loro storia. I due leggii e il centro del palco rappresentano i punti focali da cui si irradia la sua voce. Nella recitazione, il passaggio dal personaggio al narratore mantiene quasi la stessa linea tonale, creando un effetto di continuità che, se da un lato restituisce la sensazione di un unico flusso narrativo coerente, dall’altro potrebbe attenuare la distinzione emotiva tra le diverse voci. Le musiche originali di Francesco Bova sono sobrie, accompagnano lo sviluppo della storia senza mai sovrastarla. I suoni creano un’atmosfera sospesa, accentuando la dimensione riflessiva dello spettacolo e il senso di attesa che permea la narrazione. Il nuotatore di Auschwitz non cerca il forte impatto emotivo, ma punta sulla capacità di suggerire e stimolare riflessioni profonde. Il tema centrale – la resistenza umana contro ogni avversità – viene trattato con rispetto e misura, celebrando il coraggio e la speranza anche nei momenti più bui. È una storia che ricorda a ciascuno di noi che, anche quando si affrontano le acque più gelide della vita, si può continuare a nuotare, trovando nel coraggio e nell’amore la forza per andare avanti. Un inno alla resistenza umana, capace di trasformare l’orrore in un trampolino di lancio verso il senso più profondo della vita.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
DIOGGENE
con Stefano Fresi
Scritto e diretto da Giacomo Battiato
Musiche Germano Mazzocchetti
Costumi Valentina Monticelli
Scultore Oscar Aciar
Luci Marco Palmieri
Decoratore Bartolomeo Gobbo
Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo, Stefano Francioni Produzioni, Argot Produzioni
Roma, 27 novembre 2024
L’ultimo spettacolo interpretato da Stefano Fresi, “Dioggene”, scritto e diretto da Giacomo Battiato, si configura come un’ardita esplorazione delle infinite potenzialità dell’arte teatrale nel dipanare il paradosso dell’esistenza umana. Lo spettacolo, suddiviso in tre quadri, è un percorso a spirale che scava nella psiche del protagonista, Nemesio Rea, restituendo la condizione umana in tutta la sua cruda contraddittorietà, sfuggendo alle convenzioni più rassicuranti e stabilite. La struttura narrativa di “Dioggene” si articola attraverso tre lingue e tre ambientazioni simboliche che si riflettono nella parabola del protagonista: una progressiva discesa verso l’essenza più autentica dell’essere. Nel primo quadro, “Historia de Oddi, Bifolcho“, Nemesio interpreta un testo in autentico volgare duecentesco, immergendosi nella crudezza della battaglia di Montaperti, evocando un’atmosfera epica, popolata da eroi contadini spogliati di qualsiasi retorica romantica. La rappresentazione è rafforzata da una scenografia essenziale ma potentemente evocativa, dominata da un mostruoso spaventapasseri, simbolo di terrore atavico, emblema di un’umanità inerme e inconsapevole della propria fragilità. La scultura di Oscar Aciar dona alla scena una dimensione mitologica, capace di far emergere le paure più profonde dell’essere. Le opere di Oscar Aciar contribuiscono alla profondità simbolica dello spettacolo, amplificando i temi e le emozioni che permeano la narrazione. Nel primo quadro, lo spaventapasseri di Aciar incarna il terrore e l’afflizione dell’umanità, un simbolo della condizione precaria e vulnerabile dell’uomo. Nel secondo quadro, “L’attore e il buon Dio“, il testo si fa confessionale, e la scena si trasforma nel luogo sacro e profano del camerino, santuario della metamorfosi dell’attore. Qui, il linguaggio è diretto e brutale, aderente alla realtà cruda della frattura coniugale che il protagonista racconta. L’armatura posta sul palco è simbolo della fragilità celata dietro una parvenza di forza, sospeso tra maschera e verità. Anche qui, la scultura di Aciar gioca un ruolo fondamentale: l’armatura non è solo oggetto di scena, ma diventa un’opera d’arte che amplifica il significato del conflitto interiore, rendendo tangibile la lotta del protagonista tra apparenza e sostanza. Nel terzo quadro, “Er Cane de via der fosso d’a Maijana“, si giunge al culmine del processo di spoliazione del protagonista. Nemesio rinuncia a ogni possesso e apparenza, abbandonando carriera e identità sociale per vivere, come un moderno Diogene, in un bidone dell’immondizia. La scelta del romanesco, lingua della strada, accompagna la metamorfosi di Nemesio in un filosofo dei nostri tempi, che attraverso il rifiuto delle convenzioni si riappropria della propria libertà. La scenografia essenziale presenta il bidone dell’immondizia come simbolo dei rifiuti di una società che rigetta e abbandona, ma che allo stesso tempo diviene rifugio, luogo di rinascita. L’opera di Aciar, qui, incarna il degrado e la rinascita, trasformandosi da oggetto di scarto a culla filosofica, dove il protagonista riscopre la propria essenza. La regia di Giacomo Battiato gioca sapientemente sulla dissonanza tra testo e azione scenica. L’apparente semplicità dei gesti è frutto di un lavoro accurato e calibrato che mira a svuotare la scena di ogni orpello, concentrando tutta l’attenzione sulla parola e sulla presenza fisica dell’attore, valorizzando così il carisma di Stefano Fresi. Il protagonista si erge come monumentale perno dell’intero spettacolo, offrendo una performance titanica, capace di spaziare dall’epicità alla commedia con una fluidità straordinaria, intrisa di umanità e in grado di incarnare sia la tragicommedia della vita che la sua dimensione poetica. La sinergia tra la visione registica e la presenza scenica di Fresi rappresenta il punto più alto di questo spettacolo, che si fa appello alla meraviglia del mondo e della vita, proprio attraverso la violenza, la rabbia e la malinconia che segnano il percorso esistenziale. Fresi si muove con disinvoltura tra le tre lingue, costruendo un’architettura narrativa in cui ogni gesto e parola sono carichi di significati stratificati, suggerendo allo spettatore una continua ricerca di senso, senza risposte definitive, ma con il conforto del dubbio. Una performance di complessità e profondità rare, capace di toccare il pubblico e restituire al teatro la sua dimensione più pura e vera: quella dell’incontro tra umano e umano.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
IL TEMPO DEL FUTURISMO
3 dicembre 2024 – 28 febbraio 2025
A cura di Gabriele Simongini
La mostra “Il Tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, promossa e sostenuta dal Ministero della Cultura e curata da Gabriele Simongini, celebra l’ottantesimo anniversario dalla scomparsa di Filippo Tommaso Marinetti, avvenuta il 2 dicembre 1944. Diversamente dalle mostre del passato dedicate al rivoluzionario movimento d’avanguardia fondato nel 1909 da Marinetti, questa mostra si concentra sul rapporto tra arte e scienza/tecnologia e illustra quel “completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche” posto alla base della nascita del Futurismo. Una riflessione oggi attualissima, se si pensa che lo tsunami tecnologico dell’intelligenza artificiale sta investendo l’umanità, avverando la profezia della macchinizzazione dell’umano e dell’umanizzazione della macchina preconizzata proprio dai futuristi. La mostra punta a essere inclusiva, didattica e multidisciplinare, si rivolge al grande pubblico e in particolare alle nuove generazioni. Per questo illustra i concetti di velocità, di spazio, di distanza e di sensibilità percettiva evidenti nei capolavori del Futurismo contestualizzandoli nella società dell’epoca, rivoluzionata dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Saranno esposte circa 350 opere fra quadri, sculture, progetti, disegni, oggetti d’arredo, film, oltre a un centinaio fra libri e manifesti, con un’attenzione alla matrice letteraria del movimento marinettiano che non ha precedenti, insieme con un idrovolante, automobili, motociclette e strumenti scientifici d’epoca. Per descrivere al meglio l’atmosfera futurista, l’esposizione sarà arricchita da due installazioni site-specific di Magister Art e di Lorenzo Marini e sarà vivacizzata da incontri di approfondimento a cura della Fondazione Magna Carta. Si ringraziano i musei italiani e stranieri, tra cui il MOMA, il Metropolitan Museum di New York, il Philadelphia Museum of Art, la Estorick Collection di Londra e il Kunstmuseum Den Haag de L’Aia che con i loro prestiti hanno generosamente contribuito alla mostra. Il catalogo sarà pubblicato da Treccani. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Sistina
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
originariamente diretto e coreografato da Jerome Robbins
Coreografie Billy Mitchell
Direzione Musicale Emanuele Friello
Regia e adattamento italiano di Massimo Romeo Piparo
Acclamata dagli spettatori di tutto il mondo, la storia d’amore “per eccellenza” sta per infiammare il palco del Teatro Sistina: il Musical-Kolossal “West Side Story“, nella versione adattata per il pubblico italiano da Massimo Romeo Piparo che ne firma anche la regia, si annuncia come una delle novità più attese dell’anno. Con la grandiosa colonna sonora composta da Bernstein, suonata dall’Orchestra dal vivo di 18 elementi diretta dal Maestro Emanuele Friello, ed oltre 30 artisti sul palco coreografati da Billy Mitchell, stella emergente del West End londinese, lo spettacolo vedrà protagonisti, nel ruolo di Tony, Luca Gaudiano (vincitore di Sanremo Giovani nel 2021 e della 13° edizione del varietà di Rai1 “Tale e Quale Show”) e in quello di Maria, Natalia Scarpolini, già nel cast di “Cats” di M.R. Piparo. Tratto dall’omonimo Musical che Arthur Laurents, Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Jerome Robbins crearono nel 1957 ispirandosi al “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, da cui poi nel 1961 venne realizzato anche il celebre film diretto dallo stesso Robbins con Robert Wise, questo autentico gioiello promette intense emozioni grazie anche ai suoi temi forti, come l’amore contrastato tra due giovani e la rivalità tra due gang contrapposte destinata a sfociare in tragedia. In ormai quasi 70 anni di vita, “West Side Story” ha saputo parlare a ogni epoca e a tutte le età: una gloriosa carriera testimoniata da una lunga scia di successi di pubblico e critica, nonché dai tantissimi premi vinti. Se la commedia teatrale ottenne una strepitosa accoglienza a Broadway e a Londra, rimanendo sulle scene di fatto fino a oggi e continuando a essere rappresentato in numerosi revival, il film consacrò definitivamente il successo di questa storia appassionante, in cui l’amore e il coraggio si contrappongono alla violenza e all’intolleranza. La pellicola di Robbins e Wise infatti ottenne la candidatura a undici premi Oscar, vincendone dieci e diventando così il musical più premiato agli Academy Awards. “West Side Story” è stato anche il primo film a ottenere un doppio Oscar al miglior regista, per Wise e Robbins. Robbins fu inoltre insignito di un Oscar speciale per i suoi meriti in campo coreografico.
Ambientato negli anni ’50, “West Side Story” racconta la contrastata storia d’amore tra Tony e Maria, due giovani appartenenti a mondi completamente diversi, e i dissidi tra due bande che si contendono il predominio sul quartiere dell’Upper West Side: i Jets, un gruppo di nativi bianchi guidato da Riff, e gli Sharks, immigrati portoricani capitanati da Bernardo. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
PROGETTO ČECHOV – terza tappa
IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o.a.): Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Immersi nell’inutilità del nostro giardino.
Leggendo il Giardino dei Ciliegi di Anton Čechov mi è sempre sembrato palese – e magari ho sempre sbagliato – che il nostro giardino è sinonimo di nostro teatro. Ed avendo avuto il progetto Čechov una validità politica dal suo principio, dal rientro post pandemico con Gabbiano per interrogarci sul come ripartire nell’incontro con il pubblico, mi sembra stimolante chiudere il cerchio con questo testo così profondo nelle sue domande. Un testo, l’ultimo di Čechov, che presenta a tratti monologhi più concettuali e smaccatamente filosofici rispetto ai precedenti, ma che continua a sballottarci da un personaggio all’altro, spostando la “ragione” su più punti e facendoci letteralmente girare la testa. Termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte. Ecco, forse, cosa vuol dire drammaturgia. Ecco perché Čechov, sopravvissuto al tempo, dovrebbe essere il maestro di riferimento del teatro del domani: un simpatico individuo che prendendosi un po’ in giro immette generosamente una riflessione nell’altro. Con la cura verso l’altro e la noncuranza del proprio io. In un teatro dove bisogna autodefinirsi pedagoghi e maestri per salvarsi dalla mediocrità, Čechov ci rassicura nel dubbio, citando Amleto attraverso le mani troppo in movimento di Lopachin e ci ricorda che il dubbio fa parte del nostro mestiere e che senza di quello non potremmo sopravvivere, che senza il dubbio la creatività perde appetito. In un Italia che cerca sempre di più sintetiche risposte sbertucciando la complessità, il progetto Čechov rischia di non sapere. Si potrebbe scomodare il paradosso socratico del “allora capii che veramente io ero il più sapiente perché ero l’unico che non sa né pensa di sapere” ma sono certo di poter esprimere lo stesso concetto con qualche canzoncina da Festivalbar nella prossima messa inscena. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
FRANCISCUS
Il folle che parlava agli uccelli
in collaborazione con Corvino Produzioni
presentano
Simone Cristicchi
di Simone Cristicchi
scritto con Simona Orlando
canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara
musiche e sonorizzazioni Tony Canto
scenografia Giacomo Andrico
luci Cesare Agoni
costumi Rossella Zucchi
aiuto regia Ariele Vincenti
regia Simone Cristicchi
Centro Teatrale Bresciano
Accademia Perduta Romagna Teatri
Franciscus, il rivoluzionario, Franciscus, l’estremista, Franciscus, l’innamorato della vita, Franciscus, che visse per un sogno, Franciscus, il folle che parlava agli uccelli, Franciscus, che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni volto di persona ma anche di animale, e non solo in essi ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri, In cosa risiede l’attualità, del suo messaggio, Cosa può dirci la filosofia del “ricchissimo” di Assisi, nella confusione della modernità affamata di senso, nelle promesse tradite del progresso, Dopo il grande successo di Happy Next, Simone Cristicchi continua a stupire il pubblico teatrale con un nuovo progetto in solo che realizza con il Centro Teatrale Bresciano, dedicato questa volta a San Francesco, Tra riflessioni, domande e canzoni inedite – che portano la firma dello stesso Cristicchi e della cantautrice Amara – l’artista romano indaga e racconta il “Santo di tutti”, che è stato innanzitutto un uomo in crisi, consumato dai dubbi, un laico che imparava facendo, si perfezionava incontrando, e il cui esempio riuscì ad attrarre una comunità, ma non senza destare sospetti di alcuni del popolo, Uno in particolare, Cencio, stracciaiolo girovago, inventore di una lingua solo sua, osservatore critico del viaggio di Francesco, interpretato dallo stesso Cristicchi, Al centro di questo spettacolo, il labile confine tra follia e santità, tema cardine della vita personale e spirituale di Francesco, Ma anche la povertà, la ricerca della perfetta letizia, la spiritualità universale, l’utopia necessaria di una nuova umanità che riesca a vivere in armonia con il creato, Temi che nel frastuono della società in cui viviamo diventano ancora più urgenti e vividi, Uno spettacolo ad alta intensità emotiva, che fa risuonare potenti in noi le domande più profonde e ci spinge a ricercarne una possibile risposta. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Sala Umberto
L’ERBA DEL VICINO È SEMPRE PIÙ VERDE!
scritto e diretto da Carlo Buccirosso
con Carlo Buccirosso, Fabrizio Miano, Donatella De Felice, Peppe Miale, Elvira Zingone, Maria Bolignano, Fiorella Zullo
scene Gilda Cerullo e Renato Lori
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Luigi Della Monica
musiche Cosimo Lombardi
aiuto regia Fabrizio Miano
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro • A.G. Spettacoli
Un irreprensibile funzionario di banca, da tempo in crisi matrimoniale, vive un momento di profonda insoddisfazione. In continua spasmodica ricerca di libertà e di nuove esperienze di vita, si ritroverà presto soggiogato dalla sindrome dell’erba del vicino. E se quel senso di attrazione verso colui che è diverso da te e che riesce in tutto più di te si trasformasse in un’irrefrenabile follia omicida? Uno spettacolo travolgente, carico di mistero e ironia, che ci terrà con il fiato sospeso! Mario Martusciello, funzionario benestante di banca, da tempo in aperta burrascosa crisi matrimoniale con sua moglie, si è rifugiato da alcuni mesi in un moderno monolocale, vivendo un momento di profonda depressione, insoddisfatto del proprio tenore di vita, delle proprie ambizioni, delle proprie scelte, delle proprie amicizie, e non di meno di sua sorella, rea di preoccuparsi eccessivamente del suo inaspettato isolamento. In continua spasmodica ricerca di libertà, di cambiamenti, di nuove esperienze di vita e di un’apertura mentale che gli è sempre stata ostacolata dai sensi di inferiorità e dalla mancanza di spregiudicatezza, Mario guarda il mondo e le persone che lo circondano alla stessa stregua di un fanciullo smanioso di cimentarsi con le attrazioni più insidiose di un immenso parco giochi, cui non ha mai avuto l’opportunità di poter accedere… Ed è così che pervaso dall’adrenalina della novità, dall’eccitazione del rischio, nonché dalla paura dell’ignoto, si ritroverà presto soggiogato dalla sindrome dell’”Erba del vicino”, ovverosia dalla sopravvalutazione di tutto quanto non gli appartenga, di ogni essere umano diverso da sé stesso, di qualsiasi tipo di emozione possa procurargli una donna che non sia uguale a sua moglie, come “una giovane avvenente influencer” conosciuta solo per caso… il tutto accompagnato da un senso di autocommiserazione, ed da un’ammirazione spropositata verso chi nella vita ha saputo guadagnarsi, con grande fortuna, soldi e successo a sbafo, a discapito suo che mai ha avuto il fegato di osare, né di cambiare modo di essere pur di raggiungere qualcosa d’importante… È allora che quel senso di attrazione verso chi è diverso da te, che riesce in tutto più di te, e che sa essere quello che giocoforza non sei mai stato tu, potrebbe anche trasformarsi in un’irrefrenabile follia omicida, e a quel punto… sotto a chi tocca! In un simile spiazzante panorama, chiunque avesse la malaugurata idea di suonare alla porta di casa Martusciello per qualsivoglia motivo, come per la consegna della ordinazione del giapponese o di un pacco postale o, peggio ancora, per uno sventurato errore domiciliare, si troverebbe invischiato in una situazione non facilmente gestibile, con l’arduo compito poi di tentare di uscire dall’appartamento in tempi brevi, e possibilmente nelle migliori condizioni di salute!… In definitiva, “l’erba del vicino” sarà pure più verde di quella dell’altro, ma ciò che conta è che non si macchi di rosso “sangue”… E se invece fosse proprio il vicino di casa in carne ed ossa, a sfidare la sorte suonando alla porta dell’appartamento di Mario, magari solo per chiedere la cortesia di qualche foglia di prezzemolo, cambierebbe qualcosa al finale della nostra vicenda?… Carlo Buccirosso Qui per dettagli ed informazioni. phGildaValenza
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica “Autunno 2024”
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry CAROLINA LÓPEZ MORENO
Alfredo Germont GIOVANNI SALA
Giorgio Germont LODOVICO FILIPPO RAVIZZA
Flora Bervoix ALEKSANDRA METELEVA
Annina OLHA SMOKOLINA
Gastone ORONZO D’URSO
Barone Douphol YURII STRAKHOV
Dottore Grenvil HUIGANG LIU
Marchese d’Obigny GONZALO GODOY SEPÚLVEDA
Giuseppe ALESSANDRO LANZI
Un domestico di Flora NICOLÒ AYROLDI
Un commissionario LISANDRO GUINIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Stefania Grazioli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Veronica Pattuelli
Luci Valerio Tiberi
Movimenti coreografici Elena Barsotti
Firenze, 24 novembre 2024
Con le sue oltre 130 rappresentazioni al Maggio Musicale Fiorentino, “La traviata” di Giuseppe Verdi torna a fare il tutto esaurito. Uno spettacolo interamente prodotto con le risorse interne del teatro, che impressiona soprattutto per le scene di Roberta Lazzeri e i costumi di Veronica Pattuelli. A onor del vero, qua e là si ritrovano vecchie conoscenze da precedenti allestimenti (tra cui la recente “Cenerentola”), ma l’impianto d’insieme funziona e restituisce con prontezza sia la sontuosa magnificenza dei quadri dispari, che il più raccolto intimismo di quelli pari. In questa cornice, il demi-monde parigino coniato da Alexandre Dumas trova espressione nei pregevoli e variegati costumi ottocenteschi, i cui cangiantismi ben alludono all’ambivalenza del sostrato borghese del tempo. Anche la regia di Stefania Grazioli gioca la sua parte, collocando un paio d’idee originali. La prima sta nel mostrare fin dal preludio la vendita degli averi di Violetta (o forse sarebbe più opportuno dire… di Marguerite), di richiamo al dramma di Dumas. La seconda, invece, nel voler identificare quella “pudica vergine” a cui il soprano sembra voler affidare Alfredo con Violetta stessa, in nome di un simbolo d’amore innocente, la camelia, destinato a non sfiorire. Nel proseguo, lo spettacolo non si discosta da soluzioni già collaudate nell’odierna tradizione rappresentativa, comprensive delle coreografie del divertissement francese (curate da Elena Barsotti) e dei fasci di luce a rimarco dell’isolamento psicologico di Violetta (realizzati da Valerio Tiberi), demandando molto del dettaglio dell’azione all’inventiva dei singoli interpreti. Curiosa e imprevedibile l’appassionata conduzione di Renato Palumbo, tanto didascalica quanto attenta al dinamismo, che culmina in autentici crescendo, all’unisono con l’abile orchestra a sua disposizione. Da una parte la sua bacchetta tende a non sovrastare le voci, dall’altra disorienta per un’anticonvenzionale scelta dei tempi, ora larghi (sin troppo su preludio e concertato di fine atto secondo), ora rapidi (esageratamente sul primo cantabile di Violetta), prendendo più volte in contropiede i cantanti stessi, ma non l’esuberante performance del coro di Lorenzo Fratini. Quanto a contrasti, il direttore non si smentisce neanche sulle scelte in partitura, prevedendo l’esecuzione integrale di entrambe le arie di Violetta, ma optando per il classico taglio nel duetto “Parigi, o cara”. In un ruolo dei più complessi, il cui inflazionamento ha generato una media esecutiva piuttosto bassa, la Violetta di Carolina López Moreno riesce solamente a metà. È indiscusso che il soprano boliviano-albanese sia dotato di un’emissione estremamente limpida, dalla proiezione vellutata sui centri e di singolare morbidezza sui piano e che la giovane interprete vanti qualità attoriali di tutto rispetto, ma la cantante non sembra ad oggi totalmente a suo agio nel tradurre in voce la forza combattivo-drammatica della protagonista. Con questa premessa, se gli accenti della cortigiana affermata del primo atto riescono con efficacia e l’insinuarsi del dubbio d’amor viene espresso con un cantabile di buona levigatura cromatica, il subitaneo sfogo nel “Sempre libera” soffre di un registro acuto un po’ ristretto, che non passa indenne nonostante le oculate semplificazioni. La tempra lirica accorre in suo aiuto dal secondo atto, dove il soprano staglia messe di voce squillanti e intere frasi incisivamente sostenute da una consona gestione dei fiati, ma ancora si rifugia in piano discutibili quando si tratta di approcciare acuti più esposti o laddove le scene d’insieme richiederebbero maggiore spinta. Anche nel terzo atto non si può dire che non ci sia stato un grande impegno interpretativo, ma si augura che con l’esperienza la seconda strofa dell’“Addio, del passato” non venga più eseguita con la stessa cromìa della prima e che il pathos di questa grande protagonista possa passare in voce con maggiore pregnanza. La capeggiava il Germont padre di Lodovico Filippo Ravizza, baritono dall’emissione sempre più rotonda al salire di registro, intenzionato a risolvere il personaggio con la calma ieratica di chi, per gerarchia d’estrazione, sa di vincere. La dialettica dell’autoritaria figura paterna conta già su un fraseggio a tratti personalizzato e su alcuni smorzamenti d’effetto, sebbene ci sia margine per ampliare il ventaglio cromatico e di accenti del ruolo e per variegare gli effetti coloristici dell’infida aria di Provenza. Più di sfondo l’Alfredo di Giovanni Sala, il cui timbro poco compatto e la tendenza a prendere gli acuti dal basso dà la costante sensazione di suoni calanti e tende a rendere meno produttive le intenzioni drammaturgiche e di fraseggio. Tra i secondari dominava il timbro cordiale dell’Annina di Olha Smokolina e quello brunito della voluttuosa Flora di Aleksandra Meteleva, la quale teneva testa con facilità all’impacciato marchese di Gonzalo Godoy Sepúlveda. Convincenti anche gli interventi di Alessandro Lanzi (Giuseppe particolarmente a fuoco), Lisandro Guinis (serio commissionario) e Oronzo D’Urso (ilare Gastone), mentre un po’ avventato è parso il barone di Yurii Strakhov. Chiudevano il cast il chiaro dottor Grenvil di Huigang Liu e il puntuale domestico di Flora di Nicolò Ayroldi. A conclusione, il pubblico riserva il suo massimo entusiasmo per la protagonista, pur mantenendosi generoso nell’apprezzamento verso tutti gli altri. Foto Michele Monasta
William Byrd (1540–1623): Voluntary [C]; Fantasia [a]; Miserere [I]; Miserere [II]; 5. Fantasia [C]; Verse; Fantasia [G2]; Gloria tibi Trinitas; Fantasia [G1]; 10. Ut re mi fa sol la [G]; Voluntary [a/C]; O quam gloriosum est regnum; Prima pars – Secunda pars. Stephen Farr (organo). Registrazione: Sidney Sussex College chapel, Cambridge on 4 e 5 Luglio 2023. T. time: 66′ 06″ 1 CD Resonus Classic RES10326
Considerato il più grande compositore inglese del XVII sec., William Byrd visse uno dei periodi più gravidi di tensioni e tormentati della storia inglese coinciso con la riforma anglicana che aveva spaccato il mondo religioso dell’isola britannica. Rimasto fedele al cattolicesimo, Byrd non nascose mai di sentirsi un esiliato nella sua stessa patria, nonostante abbia goduto dei favori della regina Elisabetta I, che ne apprezzava la sua musica, e continuasse a suonare l’organo nella cattedrale di Lincoln e nella Cappella Reale. Questa sua condizione di “esiliato” si riflette nella sua produzione per strumenti a tastiera e soprattutto in quella che sembra maggiormente destinata all’organo, dove il suo essere cattolico si esprime attraverso la sua musica che trae ispirazione dai riti e dai dogmi della Chiesa di Roma. In questo CD è proposto l’ascolto di alcuni suoi brani, di cui alcuni molto impegnativi, come le Fantasie e la famosa Ut re mi fa sol la, nella quale, a proposito della matrice cattolica della sua ispirazione, è evidente il riferimento all’inno liturgico, Ut queant laxis, dei Vespri della solennità della natività di San Giovanni Battista, altri meno, come i Miserere, ma nei quali è innegabile la matrice cattolica del sentire religioso di Byrd. Ad eseguirli, sull’organo della cappella del Sidney Sussex College di Cambridge, Stephen Farr che, attraverso una scelta dei registri molto accurata, riesce a esprimere bene il mondo musicale di Byrd sia nella sua forma più intima sia in quella più enfatica e solenne. Nella sua interpretazione emerge, molto bene, anche la polifonia costitutiva di questi brani che appaiono come dei veri e propri gioielli di quel periodo così controverso della storia inglese.
Roma, Teatro Argentina
RE LEAR
di William Shakespeare
traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari
regia e interpretato da Gabriele Lavia
e conGiovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Jacopo Carta, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Jacopo Venturiero, Lorenzo Volpe
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura
Roma, 26 novembre 2024
King Lear messo in scena al Teatro Argentina, si configura come una profonda esplorazione dell’inconscio collettivo, intrisa delle sue ombre più fosche e delle immagini archetipiche che emergono nel dramma dell’esistenza umana. Il testo shakespeariano diventa, in questo allestimento, una sorta di viaggio eroico nelle profondità dell’essere, guidato dalla mano esperta di Lavia che ne dischiude i significati psicologici e i risvolti filosofici, conferendo una lettura profondamente junghiana al tragico percorso di Lear. La traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari, in tutta la sua ricchezza e creatività, consente al dramma di articolarsi attraverso un linguaggio simbolico che riecheggia la profondità dei miti fondativi dell’umanità. Lear è la rappresentazione della discesa nell’abisso dell’inconscio, in cui il re anziano, archetipo del Vecchio Saggio degenerato, compie l’errore fatale di dividere il suo regno tra le figlie, rinunciando così a una parte fondamentale del suo Sé. Lear abdica il potere esterno, ma soprattutto abdica la sua posizione di equilibrio interiore, entrando in una dinamica di scissione che porta il Sé a frammentarsi e a cedere alla potenza distruttiva dell’Ombra. Nel rifiuto dell’amore autentico di Cordelia e nell’accoglimento delle adulazioni manipolatrici di Goneril e Regan, Lear compie il passo verso la dissoluzione, lasciando emergere il caos primordiale. Lear è però anche una storia di “perdite”. Perdita della ragione, perdita del Regno, perdita della fraternità. Non resta che vivere in una tempesta, ma questa tempesta è simbolica della mente umana. La tempesta di Lear rappresenta il caos interiore, la dissoluzione dell’ordine mentale e spirituale dell’uomo, una tempesta che coinvolge l’umanità intera, la morte dell’uomo che ha abbandonato il proprio Essere per vivere nel non-Essere. Lear, travolto dal tumulto della sua mente, incarna la sofferenza universale e la possibilità di un percorso di conoscenza e riscoperta di sé attraverso il dolore. Il mondo di Lear è profondamente malato: “it smells of mortality” (IV.vi.129). È un mondo che puzza nella sua stessa carne, in cui le relazioni più intime, come quella tra padre e figlio, sono corrotte e malate. Ogni “patto” è violato, ogni legame, ogni connessione fondamentale tra gli elementi è spezzata, la philia che li univa è ormai perduta. A regnare sono l’anomia e l’apoleia, in una crisi di ogni ordine che assume un tono apocalittico, ma di un’apocalisse radicalmente desacralizzata. La Terra ha ceduto sotto il peso della sua stessa corruzione e il Cielo non interviene a salvarla; al contrario, esso riflette la tempesta che infuria sulla terra, nella carne, nella mente e nei cuori degli uomini. Il cielo è solo un fulminare senza significato, un sabba di demoni, una tempesta che non promette alcuna redenzione, alcuna Parousia. Edgar stesso, fingendosi pazzo, dipinge la presenza di questi demoni che infestano il mondo. Il tempo in Lear è contratto in uno spasmo violento che non conduce a nulla, un tempo apocalittico disperato privo di senso ultimo. La crisi di ogni ordine si trasforma in una maschera di apocalisse, un’incontrollabile farsa carnevalesca rappresentata dal Fool, che diviene il simbolo della transizione dall’ordine tragico al grottesco assoluto . Ogni gesto, ogni azione nella straordinarietà del pathos che esprimono, assume un carattere grottesco, perché la sofferenza prodotta è senza ragione e impossibile da significare. Il grottesco diviene così l’essenza stessa di ogni atto umano quando la sofferenza non ha alcun significato: il tentativo di leggere il proprio destino nelle stelle, mentre l’universo è in balia di una tempesta senza scopo, ne è l’esempio più lampante. L’esilio di Lear e la tempesta che infuria nella brughiera sono potenti immagini archetipiche che rappresentano la dissoluzione del Vecchio Io. Questa tempesta, simbolo dell’Ombra, manifesta il caos interiore di Lear e la sua caduta nel non-Essere. Lear è l’uomo contemporaneo, svuotato del senso dell’Essere, trascinato da pulsioni inconsce e incapace di trovare un centro di gravità o affrontare le proprie profondità. Attraverso questa sofferenza è costretto a confrontarsi con una realtà più autentica. In questo processo, Lear vive la sua condizione di non-Essere, una sorta di morte simbolica che lo trascina in un confronto drammatico con il Nulla. Gabriele Lavia guida il pubblico in un viaggio teatrale che intreccia pathos e ironia, facendo vibrare la tragedia con accenti che sfiorano il grottesco e il sarcastico. La sua interpretazione, tanto possente quanto raffinata, non si limita a rappresentare il dramma dell’uomo, ma lo decompone, lasciandone emergere sfumature inaspettate. Il suo Lear è sì un re devastato, ma anche un’ombra capace di lampi quasi buffoneschi, un uomo che, nell’abisso della propria rovina, trova momenti di crudele ironia, sfidando il destino con il sorriso amaro di chi ha perso tutto. Il cast che circonda Lavia non si limita a seguire il suo carisma, ma contribuisce con una coralità densa e vibrante. Ogni interprete, con un impegno fisico ed emotivo straordinario, si fa eco e contrappunto del protagonista, dando vita a una comunità scenica che non rappresenta tanto individui, quanto archetipi, riverberi di un’umanità perduta e frammentaria. Le scene di Alessandro Camera, spoglie e ridotte a frammenti, evocano reliquie di coscienza, retaggi di un ordine mentale ormai perduto, mentre le bellissime luci di Giuseppe Filipponio orchestrano un linguaggio visivo complesso e tagliente e sempre privo di retorica. Alternando chiaroscuri penetranti e dissolvenze delicate, l’illuminazione diviene lo strumento primario di narrazione, suggerendo lo smarrimento, il caos, e infine il tentativo disperato di ritrovare un barlume di coerenza. Ogni taglio luminoso scolpisce volti e gesti, amplificando il senso di disintegrazione e ricomposizione, mentre le ombre che si espandono sembrano risucchiare il residuo di certezza rimasto. Da non perdere.
Roma, Teatro India
MENO DI DUE
scritto e diretto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena
Roma, 26 novembre 2024
Alcune migliaia di anni fa, mani ignote tracciavano segni sulle pareti di una grotta, non semplicemente per raffigurare il mondo circostante, ma per lasciarne un’eco, un’immagine trasfigurata dall’umanità che vi si specchiava. Disegni di animali, insetti, mammiferi, e poi un fuoco. Attorno a quel fuoco due figure umane: non statiche, ma in movimento, sospese in una danza o forse immerse in un dialogo gestuale. Due esseri che cercavano di comprendersi, di oltrepassare la solitudine primitiva e costruire un ponte tra sé e l’altro. Quelle due sagome, cariche di tensione e possibilità, sembrano dirci che il rito dell’incontro, quel tentativo incerto e straordinario di colmare la distanza, è un’eredità che attraversa i millenni. È da questa suggestione che Meno di due, l’ultimo lavoro scritto e diretto da Francesco Lagi, prende forma. Uno spettacolo che è insieme indagine, celebrazione e riflessione sul cuore pulsante dell’umano: il desiderio di connessione. Nel microcosmo teatrale concepito da Lagi e messo in scena dalla compagnia Teatrodilina, la narrazione non è solo rappresentazione, ma un atto di evocazione. Sul palco, Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena incarnano personaggi che potrebbero essere chiunque: archetipi universali immersi in una storia specifica, eppure capace di trascendere il contesto per raggiungere corde profonde e condivise. La trama è essenziale e lineare, come un disegno sulla roccia, ma nelle sue pieghe risiedono complessità emotive che si svelano lentamente. Lui, interpretato da Francesco Colella, è un uomo calabrese che ha percorso un lungo viaggio per incontrare Lei, interpretata da Anna Bellato, una donna che vive al Nord. La loro conoscenza è iniziata nella virtualità, tra messaggi, foto, vocali: un universo di dati scambiati che ha costruito una vicinanza immateriale, ma densa di aspettative. Ora, in un bar anonimo ma carico di simbolismo, si trovano per la prima volta faccia a faccia. Le foglie a terra, gli ombrelli gocciolanti e il freddo dell’autunno fanno da sfondo al loro incontro, amplificando l’atmosfera di sospensione e fragilità. Entrambi sono attraversati da una trepidazione sottile, quella di chi si appresta a misurare il divario tra l’immagine idealizzata e la realtà tangibile. Lagi riesce a catturare con estrema sensibilità questo momento sospeso, in cui ogni parola, ogni gesto si carica di significati ulteriori. Lui e Lei si muovono nello spazio con esitazione e tenerezza, costruendo un dialogo che si snoda tra ciò che viene detto e ciò che rimane taciuto. Ballano, in una scena che sembra condensare tutto il non detto: un ballo in ciabatte, intimo e disarmante, che svela la goffaggine e la bellezza di chi si espone all’altro senza difese. Ma l’equilibrio che stanno costruendo viene spezzato dall’arrivo di un terzo personaggio, interpretato da Leonardo Maddalena, che irrompe sulla scena con le chiavi di casa in mano e una presenza che non può essere ignorata. È l’altro, il passato o forse il presente di Lei, e con lui si apre una nuova tensione, un nuovo interrogativo. Chi è veramente Lei? Chi è Lui, in rapporto a questa nuova figura che reclama spazio? Il testo di Lagi si muove con eleganza tra la delicatezza e la crudezza, tra la poesia e l’ironia, restituendo una profondità che va oltre le parole. Come in una partitura musicale, il dialogo si intreccia con i silenzi, i gesti, gli sguardi, creando un ritmo che tiene il pubblico in costante tensione emotiva. La scenografia curata da Salvo Ingala è minimale, quasi ascetica, ma ricca di suggestioni. Gli oggetti sulla scena sembrano portatori di memorie, frammenti di storie non dette che si riverberano nel presente. Le luci di Martin Palma disegnano atmosfere che oscillano tra il chiaroscuro della grotta primitiva e la luminosità intermittente di una realtà moderna. Il suono, curato da Giuseppe D’Amato, accompagna con discrezione e precisione, amplificando i momenti di maggiore intensità senza mai risultare invasivo. Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena sono straordinari nella loro capacità di incarnare personaggi che vibrano di autenticità. I loro corpi, le loro voci, i loro silenzi costruiscono un linguaggio che va oltre le parole, un linguaggio universale che parla direttamente al cuore dello spettatore. In loro riconosciamo non solo i personaggi, ma noi stessi, con le nostre esitazioni, i nostri dubbi, i nostri tentativi di costruire un legame che resista al peso della solitudine. Meno di due è un’opera che non si limita a raccontare una storia: è un rito moderno, un’esperienza che ci invita a riflettere su ciò che significa incontrarsi, conoscersi, amarsi. Lagi intreccia passato e presente con una maestria che lascia spazio alla contemplazione. Quelle figure dipinte sulle grotte, che danzavano o parlavano attorno al fuoco, sono gli stessi archetipi che vediamo oggi sul palco. Cambiano i contesti, cambiano i mezzi, ma il desiderio di connessione, la tensione verso l’altro, rimangono invariati. E così, Meno di due diventa una ricorrenza necessaria, un momento di introspezione e di condivisione che si rinnova ogni volta che si alza il sipario. Preferibilmente d’inverno, quando il freddo esterno amplifica il bisogno di calore. Lagi e Teatrodilina ci regalano uno spettacolo che non è solo arte, ma un riflesso della vita stessa: fragile, imperfetta, ma infinitamente bella nel suo continuo tentativo di colmare il vuoto. Anche quando, come le linee parallele del titolo, siamo meno di due.
Novara,Teatro C. Coccia, Stagione lirica 2024
“IL TURCO IN ITALIA”
Melodramma buffo in due atti su libretto di Felice Romani
Musica di Gioachino Rossini
Selim SIMONE ALBERGHINI
Fiorilla ELENA GALITSKAYA
Don Geronio GIULIO MASTROTOTARO
Don Narciso FRANCISCO BRITO
Prosdocino DANIELE TERENZI
Zaida PAOLA GARDINA
Albazar ANTONIO GARÉS
Orchestra Luigi Cherubini
Coro Lirico Veneto
Direttore Hossein Pishkar
Maestro del coro Alberto Pelosin
Regia Roberto Catalano
Scene Guido Buganza
Costumi Ilaria Ariemme
Coreografie Marco Caudera
Luci Oscar Frosio
Novara, Teatro Coccia, 24 novembre 2024
Ultima tappa di un progetto che ha coinvolto anche i teatri di Rovigo, Ravenna, Jesi, Rimini e Pisa la nuova produzione de “Il turco in Italia” firmata da Roberto Catalano arriva sul palcoscenico del Teatro Coccia di Novara ottenendo grande successo nonostante l’ormai abituale carenza di pubblico che affligge il teatro novarese nonostante l’interesse di molte proposte.
Le cose qui funzionano benissimo sul piano musicale dove assistiamo a una delle prove migliori della stagione. Molto interessante la direzione di Hossein Pishkar, giovanissimo direttore iraniano di formazione tedesca che si mostra molto attento e sensibile alle necessità di questo repertorio. Si apprezzano un gesto limpido e pulito che si traduce in una direzione brillante ma mai forzata, con begli squarci melodici e notevole cura dei timbri e dei colori orchestrali. Davvero bello il pianissimo del quintetto del secondo atto così come le sonorità calde e morbide con cui accompagna il duetto della pacificazione tra Geronio e Fiorilla. Altro merito è di eseguire l’opera in forma praticamente integrale e secondo i dettami dell’edizione critica della Fondazione Rossini.
La sensibilità direttoriale è valorizzata dall’alto livello dell’Orchestra Cherubini, forse la migliore tra le compagini strumentali ascoltate in questa stagione a Novara e dalla prova nel complesso positiva del Coro Lirico Veneto.
Compagnia di canto di sicuro prestigio capace di dare un’ottima prova complessiva nonostante qualche variazione dovuta a subentrati problemi di salute. Nel ruolo di Selim l’atteso Nahuel de Pierro ha infatti dovuto abbandonare la produzione sostituite in extremis da Simone Alberghini. La voce del basso bolognese può aver perso qualcosa in brillantezza nel corso degli anni pur restando sempre notevole per sonorità ed espansione ma si tratta di poca cosa di fronte alla statura dell’artista. Alberghini conosce ogni piega di questo repertorio, sa sfruttare al meglio le proprie caratteristiche vocali e soprattutto e un cantante attore di strepitosa comunicativa sempre capace di conquistare il pubblico. Altra entrata in corsa quella di Paola Gardina nel ruolo per lei fin troppo breve di Zaida cui offre una lettura impeccabile sia sul piano vocale sia su quello interpretativo.
Fiorilla è Elena Galitskaya soprano russo dalla voce piccola ma elegante e ben controllata. L’ottima acustica del Coccia sicuramente l’aiuta sul terreno del volume – anche se in “Squallida veste e bruna” si sente la mancanza di un corpo vocale più robusto. La linea di canto è però molto musicale e l’interprete – aiutata anche da un’ottima pronuncia – molto sensibile alle ragioni del personaggio tanto da farsi perdonare qualche forzatura in acuto. Il fisico minuto è perfetto per la figura alla Twiggy pensata dalla regia per il personaggio. I “buffi” sugli scudi, vengono infatti da Geronio e Prosdocimo le migliori prestazioni vocali. Impeccabile Giulio Mastrototaro nei panni del primo. Voce bella, ampia, ricca di armonici, facile nell’emissione. Ottima la qualità di canto che non solo si esalta in sillabati rapidissimi e nitidi ma anche soprattutto in un’espressività intensa che valorizza gli aspetti più umani e patetici del ruolo, tolto da ogni caratterizzazione macchiettistica. Daniele Terenzi ha del Poeta la dizione chiarissima e l’aplomb retorico unite a una voce interessante per robustezza e colore. Una promessa sicuramente da seguire. Francisco Brito affronta l’ingrata parte di Don Narciso – pur sempre scritta per David – con grande sicurezza, timbro piacevole, acuti sicuri e agilità pulite e precise. L’impegnativa “Tu seconda il mio disegno” è risolta con grande sicurezza e in modo pienamente sufficiente. Il volume non è enorme ma il contesto lo agevola al riguardo. Scenicamente riuscitissima la caratterizzazione di un damerino vanesio e superficiale.Timbro piacevole ma tecnica perfettibile specie sugli acuti non così precisi Antonio Garés (Albazar) che si vede riaperta l’aria di sorbetto “Ah! Sarebbe troppo dolce”. Particolare la regia Roberto Catalano che ambienta il tutto in una sorta di programma televisivo anni Sessanta tra Carosello e i varietà di Antonello Falqui con tanto di ballerine in stile Kessler che accompagnano come ombre Fiorilla. Centrale è il tema del consumismo, della società del boom che trova nell’abbondanza di oggetti una ragione di vita – Fiorilla colleziona amanti con lo stesso approccio vanamente consolatorio. In questa vita trasformata in spot pubblicitario tra riviste patinate e onnipresenti inviti all’acquisto – specie del profumo “Vero amore” che accompagna il tutto come sponsor principale – tutto si prosciuga e si mercifica a cominciare dai sentimenti. L’impianto scenico è essenziale e si basa sulla violenta contrapposizione tra il mondo borghese – giallo – degli acquirenti e quello proletario in blu – Coro, Zaida – degli sfruttati dalla macchina del mercato. Solo gli abiti scuri di Selim, l’elemento esotico ed estraneo a entrambi i mondi rompe la contrapposta bicromia. Un’ambientazione quindi sostanzialmente astratta ma che nell’onnipresenza di caffettiera acquistate o restituite occhieggia all’ambientazione napoletana del libretto. Una lettura certo “estrema” ma realizzata con cura e rigore. L’attenzione quasi maniacale per la recitazione, la perfezione dei tempi comici, il senso millimetrico del ritmo rendono lo spettacolo divertente e pienamente godibile. Perfetta nel contesto la caratterizzazione dei personaggi da Fiorilla e Narciso, perfette vittime del sistema a Prosdocimo pubblicitario cinico e disincantato, pronto a tutto per raggiungere i propri scopi. Il finale non manca di far riflettere quando le illusioni del possesso collassano e Fiorilla abbandonate parrucche e vestiti sgargianti ritrova la sua più intima umanità.
Roma, Teatro Parioli Costanzo
IL NUOTATORE DI AUSCHWITZ
Ispirato alla vera storia di Alfred Nakache e al libro “Uno psicologo nei lager” di Viktor E. Frankl
con Raoul Bova
testo e regia di Luca De Bei
Disegno Luci – Marco Laudando
Contributi video- Marco Renda
Musiche originali – Francesco Bova
Aiuto regia – Barbara Porta
Costumi – Francesca Schiavon
Alfred Nakache era un nuotatore francese di origine ebraica, detentore di un record mondiale. Ad Auschwitz era il detenuto numero 172763. Nonostante la prigionia e le inaudite privazioni, non ha mai smesso di allenarsi tuffandosi nell’acqua gelida di un bacino idrico. La sua forza, la sua incrollabile determinazione, gli hanno permesso di attraversare l’orrore del campo e di salvarsi. Tornato poi a gareggiare, ha ottenuto un nuovo record e ha partecipato alle olimpiadi di Londra. Ad Auschwitz è stato internato anche Viktor Frankl, uno psichiatra austriaco che, subito dopo la liberazione, ha scritto un libro sull’esperienza vissuta e su coloro che, proprio come Nakache, sono riusciti a superare quella prova terribile. Lo spettacolo vuole restituire queste due figure straordinarie che comunicano a tutti noi un messaggio di speranza: vivere è certo anche sofferenza, ma cercare un senso a questa sofferenza guardando verso il futuro con uno scopo è il modo per affrontare le sfide più dure che la vita ci presenta. In questo modo è possibile arrivare, infine, a scoprire il senso stesso dell’esistenza. Nella messinscena di questa vicenda – cupa e luminosa assieme – ho costruito lo spettacolo attorno alla figura carismatica di Raoul Bova. È lui che con grande generosità si fa tramite per raccontare la storia del famoso nuotatore francese Alfred Nakache e dello psicanalista austriaco Viktor Frankl, entrambi rinchiusi ad Auschwitz. Raoul dialoga col pubblico, forte anche delle sue stesse esperienze di atleta, portando alla vicenda la propria sensibilità e il proprio vissuto. La scena attorno a lui si fa essenziale, composta principalmente da linee di luci disegnate da Marco Laudando e che diventano simbolo di corsie in piscina, di rotaie che trasportano anime cariche di dolore per assurgere infine a fughe prospettiche in una tensione verso l’ignoto, l’assoluto, la ricerca di una spiritualità quanto mai necessaria nel tentativo di sopravvivere alla brutalità del lager. La scena si arricchisce poi delle immagini filmate da Marco Renda che immergono lo spettatore in spazi astratti eppure materici e poetici, in un bianco e nero essenziale, luoghi non-luoghi che sono specchi dell’anima. Ancora, lo spettacolo si avvale delle musiche originali di Francesco Bova che costruiscono tappeti sonori ricchi di palpiti e di rimandi, che avvolgono e a volte spiazzano gli spettatori, sempre però con l’intento di coinvolgere ed emozionare. Perché, se la storia di un internato ad Auschwitz ci riporta inevitabilmente alle tante testimonianze ascoltate fino ad oggi, è vero che quella del nuotatore Nakache si distacca da queste per diventare in special modo emblema di una resistenza portata avanti e raggiunta con coraggio e caparbietà. Una figura che per emergere appieno ha però bisogno del suo “doppio” – lo studioso Frankl, – che analizza e teorizza ciò che l’istintivo Alfred pone in atto in modo istintivo. In questa visione Alfred e Viktor sono uno lo specchio dell’altro, sono le due facce di una stessa medaglia e si fondono in un’esperienza capace di dare agli spettatori il senso ultimo dell’esistenza. Luca De Bei
Roma, Teatro di Documenti
GLI ESCLUSI
Insane Situation Procedure
Un esperimento psico‐teatrale
Di Roberta Calandra
Adattamento e Regia Valentina Ghetti
Con Caterina Gramaglia, Camilla Ferranti, Alessio De Persio,
Dario Masciello, Luca Di Giovanni, Leonardo Zarra
Fotografie Beniamino Finocchiaro
in collaborazione con Centro Culturale Mobilità delle Arti, Roberto D’Alessandro e Obiettivo Roma
In un misterioso stanzone di una clinica psichiatrica, sei giovani protagonisti si incontrano per partecipare a un esperimento dai connotati inquietanti. L’obiettivo è ricostruire la propria identità, distrutta dalla Storia e dal peso delle famiglie illustri da cui provengono. Si tratta di sei figure realmente esistite, tutte vittime delle dinamiche di potere politico o culturale: Rosemary Kennedy, Lucia Joyce, Benito Albino Mussolini, Aldo Togliatti, Giorgio Agnelli ed Eduard Einstein. Questi personaggi, accomunati da un destino analogo, rappresentano il lato ombra delle rispettive famiglie. Sacrificati in nome di un ordine costituito, hanno visto le loro sensibilità e i loro straordinari talenti artistici e intellettivi soffocati. Sei fragilità, sei storie spezzate, sei anime senza pelle che ora si mettono a nudo, svelandosi agli altri e a se stessi. L’incontro tra questi personaggi dà vita a dinamiche imprevedibili: riconoscersi in vissuti simili e condividere il peso di esperienze parallele li conduce verso un nuovo senso di solidarietà, riconoscimento e perfino amore. Attraverso conflitti, scoperte e un confronto senza esclusione di colpi, i protagonisti trovano la forza per diventare pienamente se stessi. Questo processo costituisce un modello di realizzazione per tutti, invitandoci a riflettere su quelle zone intime e nascoste che spesso reprimiamo per apparire “normali”, ma che in realtà rappresentano la nostra più preziosa risorsa: l’espressione dell’anima. Il testo esplora figure reali, figli di famiglie celebri nel mondo politico, economico e culturale, spesso emarginati a causa di disturbi mentali o disagio psichico fino all’internamento. Studi come le costellazioni familiari di Bert Hellinger dimostrano che l’esclusione di un membro di un clan familiare provoca ripercussioni sui discendenti. La storia evidenzia come la forza del potere crei inevitabilmente un contraltare: l’esclusione di chi è percepito come diverso. L’idea si ispira a esperimenti psicologici, come la “Strange Situation Procedure” di Mary Ainsworth, che studia i legami di attaccamento attraverso stimolazioni e osservazioni esterne. Qui si trasforma in una “Insane Situation Procedure“, dove lo spettatore diventa un osservatore attivo di un esperimento psichiatrico. La follia, spesso temuta e respinta, si fa elemento centrale: chi osserva chi? Chi giudica chi? Lo spettatore è chiamato a riflettere sul sottile equilibrio tra normalità e follia, scoprendo che l’esclusione è meno una condizione fisica e più uno stato mentale che può appartenere a chiunque. Questo testo ha trovato il suo tempo solo dopo anni dalla sua ideazione. In passato, i volumi sui personaggi trattati erano difficilmente reperibili, quasi “esclusi” dalla memoria collettiva. Oggi, grazie a nuovi studi e opere, queste figure dimenticate tornano a essere ascoltate, e questa rappresentazione teatrale contribuisce a restituire loro dignità e memoria, dando una voce a chi è stato messo ai margini. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Palazzo delle Esposizioni
ELOGIO DELLA DIVERSITA’: VIAGGIO NEGLI ECOSISTEMI ITALIANI
Curata da Isabella Saggio e Fabrizio Rufo
Roma, 26 novembre 2024
Elogio della diversità: Viaggio negli ecosistemi italiani, in programma al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 27 novembre 2024 al 30 marzo 2025, è un progetto espositivo di straordinaria complessità e profondità. Attraverso un intreccio magistrale di arte e scienza, la mostra affronta il tema della biodiversità come patrimonio essenziale da preservare e celebrare, offrendo al pubblico un’esperienza immersiva, educativa e stimolante. Curata da Isabella Saggio e Fabrizio Rufo, con la partecipazione di istituzioni di rilievo nazionale e internazionale, l’esposizione si configura come un viaggio fisico e immaginifico nei molteplici volti della biodiversità italiana, un tesoro unico nel suo genere. Al centro della narrazione si trova il concetto di One Health, una visione integrata che sottolinea l’interconnessione profonda tra la salute degli esseri umani, degli animali e degli ecosistemi. In un’epoca segnata da una crisi ecologica senza precedenti, aggravata dall’impatto delle attività antropiche, la mostra si propone di sensibilizzare il pubblico sull’urgenza di preservare gli equilibri naturali. È un invito a riflettere non solo sul valore intrinseco della biodiversità, ma anche sul suo legame inscindibile con il benessere psicofisico dell’uomo, un bene comune da proteggere con responsabilità collettiva. Il percorso espositivo si articola in una serie di ambienti interconnessi che conducono il visitatore attraverso le diversità biologiche, culturali e genetiche del nostro Paese. Ogni sezione rappresenta un microcosmo unico, unendo la precisione scientifica a un’attenzione estetica che amplifica l’impatto emotivo dell’esperienza. Reperti rari, come il grande squalo bianco e l’orso marsicano, provenienti dai principali musei italiani, sono affiancati da opere d’arte contemporanea e installazioni site-specific, che rendono tangibile la bellezza e la fragilità del patrimonio naturale. L’allestimento, progettato con maestria da Marisa Coppiano Maison, è concepito per coinvolgere lo spettatore in una narrazione multisensoriale. Attraverso la contemplazione di reperti originali, video immersivi e apparati iconografici, il pubblico è invitato a osservare il mondo con occhi nuovi, a immergersi nelle venature di una foglia, a esplorare il Mediterraneo con il volo di un insetto o a contemplare la maestosità di un ecosistema terrestre. Ogni dettaglio contribuisce a costruire un racconto che unisce stupore e conoscenza, creando una connessione empatica tra il visitatore e il mondo naturale. La sezione dedicata alla biodiversità genetica rappresenta un momento particolarmente significativo del percorso. L’esposizione del celebre “uomo della Maiella” – una donna vissuta nel VI millennio a.C. – offre uno spunto per riflettere sulle radici profonde della nostra specie e sul valore della diversità genetica come motore dell’evoluzione. Questa riflessione si estende alla varietà culturale, linguistica e alimentare dell’Italia, celebrata attraverso modelli di frutti ottocenteschi dipinti a mano e strumenti musicali storici, testimonianze tangibili del dialogo tra natura e creatività umana. Il tema dell’Antropocene, l’era geologica dominata dall’impatto umano, è affrontato con particolare intensità. Attraverso exhibit digitali interattivi, il pubblico è chiamato a confrontarsi con le responsabilità collettive e individuali legate al degrado ambientale. È un’occasione per comprendere il ruolo dell’uomo non solo come sfruttatore delle risorse naturali, ma come possibile custode e restauratore di un equilibrio perduto. Non meno importante è la dimensione educativa della mostra. Un ricco programma di eventi collaterali – conferenze, laboratori per scuole e una rassegna cinematografica – arricchisce l’esperienza, offrendo nuovi strumenti per comprendere la crisi della biodiversità. La rassegna Chi ha paura della natura?, introdotta dalla riflessione dello psicoanalista Vittorio Lingiardi, esplora le emozioni provocate dal cambiamento ambientale, trasformando l’ansia in un’occasione per ristabilire un rapporto di simbiosi con il mondo naturale. La mostra si distingue anche per la capacità di coinvolgere un pubblico ampio e diversificato, proponendosi come un’opportunità per le nuove generazioni di acquisire consapevolezza e diventare protagoniste del cambiamento. I laboratori didattici, progettati in collaborazione con esperti museali, offrono agli studenti un’esperienza formativa che unisce apprendimento e partecipazione attiva, stimolando una riflessione profonda sul futuro del pianeta. Elogio della diversità: Viaggio negli ecosistemi italiani non è solo un’esposizione: è un invito a guardare oltre il visibile, a scoprire la straordinaria ricchezza del nostro patrimonio naturale e a farsi carico della sua tutela. Con una narrazione che mescola rigore scientifico, emozione e bellezza, la mostra si pone come un faro di speranza in un momento storico che richiede con urgenza nuove forme di responsabilità e rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni. Attraverso la scoperta della biodiversità, il visitatore non solo osserva, ma si riscopre parte integrante di un tutto, chiamato a contribuire attivamente alla salvaguardia di un pianeta che non può prosperare senza la diversità che lo anima.
Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti, Libretto di Arrigo Boito dalla tragedia “Othello” di William Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Otello FRANCESCO MELI
Jago LUCA MICHELETTI
Cassio FRANCESCO MARSIGLIA
Roderigo ENRICO CASARI
Lodovico FRANCESCO MILANESE
Montano WILLIAM CORRÒ
Un araldo ANTONIO CASAGRANDE
Desdemona KARAH SON
Emilia ANNA MALAVASI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del coro Diana D’Alessio
Regia Fabio Ceresa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Claudia Pernigotti
Light designer Fabio Barettin
Video designer Sergio Metalli
Movimenti coreografici Mattia Agatiello
Nuovo allestimento Teatro La Fenice
Venezia, 23 novembre 2024
Il sodalizio tra l’ultimo Verdi e Arrigo Boito rappresentò l’intesa prodigiosa tra due spiriti eletti – che peraltro, in passato, si erano, a dir poco, detestati –, dando origine a due capolavori assoluti, quali Otello e Falstaff. Quanto al primo titolo, il libretto di Boito è un capolavoro di stile, grazie a una raffinata ricerca metrica, volta ad assecondare le esigenze espressive del compositore – ad esempio utilizza il decasillabo, il verso tipico dei grandi cori verdiani – o a riprodurre la metrica shakespeariana, ricorrendo, nel duetto del primo atto, all’endecasillabo, a riprodurre il pentametro giambico presente nel testo inglese originale. Dunque, in Otello, l’apporto di Boito è fondamentale, senza nulla togliere, ovviamente, al ruolo precipuo del compositore. Da questa provvidenziale sinergia nasce quella meraviglia di compenetrazione tra parola e musica, quel prezioso distillato di tutta la storia artistica del genio bussetano, che è la sua penultima opera, protesa verso il moderno dramma musicale e, al tempo stesso, ancora legata alla tradizione dell’opera romantica italiana. Grande, dunque, era l’attesa, da parte del pubblico, del ritorno in laguna di quest’opera, punto d’arrivo del teatro musicale verdiano serio, presentata in un nuovo allestimento, in apertura della nuova Stagione Lirica. Un’attesa resa ancora più intrigante poiché questa ripresa segna il debutto nel ruolo di protagonista di Francesco Meli, tenore lirico dal timbro luminoso e pregnante, già apprezzato dal pubblico veneziano in precedenti stagioni. Un artista di indubbio talento e solida professionalità, che ha osato cimentarsi in un ruolo, che ha scoraggiato cantanti del calibro di Caruso, Gigli, Lauri Volpi, Corelli, confrontandosi con il gigantesco Mario Del Monaco e l’intramontabile Placido Domingo. Consapevole di non possedere un peso vocale paragonabile a quello di altri illustri predecessori, il generoso Meli ha cercato di sfruttare la propria vocalità, non eroica ma pur sempre virile, per delineare un personaggio tutto sommato credibile, lontano da certi eccessi “barbarici” o “selvaggi”, attenendosi alle indicazioni di Verdi e cercando un equilibrio tra il versante istintuale e quello raziocinante del Moro. Un’impostazione in linea con la scelta registica di non tingere di “color cioccolata” la faccia del protagonista. Se in “Esultate!”come nel finale dell’atto secondo il peso vocale non è del tutto adeguato – anche se la voce riesce in generale a “passare” –, il tenore genovese si impone per finezza interpretativa e fraseggio scolpito in “Dio! Mi potevi scagliar” e “Niun mi tema”, superando nel complesso la prova più che dignitosamente. Pienamente nella parte del perfido Jago – il cui nome doveva costituire inizialmente il titolo dell’opera – Luca Micheletti, che ha sfoggiato una voce ben timbrata, suggestiva dizione e adeguata presenza scenica, segnalandosi grazie alla sua duttilità interpretativa nel “Credo” come in “Era la notte”. Ragguardevole complessivamente la prestazione della coreana Karah Son, che ha trovato via via una cifra interpretativa sempre più consona alla dolce quanto sfortunata Desdemona, segnalandosi nei momenti più intimi e dolci: “Dio ti giocondi, o sposo”, la Canzone del salice, la struggente ‘“Ave Maria”. Tra gli altri ruoli si sono messi in luce Anna Malavasi, un’ Emilia particolarmente decisa. Adeguata professionalità hanno dimostrato Francesco Marsiglia (Cassio), Enrico Casari (Roderigo), Francesco Milanese (Lodovico), William Corrò (Montano). Elegante e musicalissima la prestazione del Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani e quella dei Piccoli Cantori Veneziani, guidati da Diana D’Alessio. Sublime la direzione di Chung – festeggiatissimo dal pubblico –, che ha saputo guidare l’orchestra – sempre in perfetta sintonia col gesto direttoriale –, in una straordinaria esecuzione, caratterizzata dall’equilibrio a livello dinamico ed agogico, dalla ricchezza di sfumature, dalla particolare cura del suono, sempre di cristallina nitidezza. Nonostante l’atto veneziano, presente nella tragedia shakespeariana, sia stato espunto da Boito, la Città dei Dogi domina nell’efficace impianto scenografico, ideato da Fabio Ceresa, che si nutre di costumi grandiosi e maestose architetture, ma che più che descrivere vuole suggerire attraverso una rappresentazione astratta, quasi onirica, cosicché ogni immagine acquisita la dignità di un simbolo. La scena immagina un palazzo astratto che emerge dall’acqua, evocando il legame tra la città e il mare, centralissimo, nella drammaturgia di Otello: dalle onde della laguna si innalza un’architettura splendente d’oro, una grande trifora che nei suoi decori si ispira alla Basilica di San Marco. Analogamente, all’opulenza dei mosaici marciani rimandano i costumi, contribuendo a quel dilagare di luce dorata – espressione del gusto bizantino –, che nell’allestimento si accompagna all’oscuro abisso del mare. Un dualismo, che si ritrova anche tra i personaggi. Da una parte, abbiamo Jago, dominato dagli istinti più bassi – odio, invidia, gelosia –, evocati sul palcoscenico da un’Idra dalle tante teste. Dalla parte opposta, vi è Desdemona, simbolo dell’umana aspirazione alle stelle, a riscattarsi dalla condizione animale e, vestendosi d’oro, rivelare la propria natura angelica, guidata dal leone alato, simbolo della città di Venezia. Otello si trova sospeso tra queste due dimensioni: si proietta verso la luce, cercando di opporsi alle tenebre che lo stanno per avvolgere. La lotta della nave contro le onde nella tempesta iniziale è una meravigliosa metafora di questa eterna sfida contro se stesso. Se nell’“Esultate” appare un redentore che dona al mondo la salvezza, nel corso della vicenda perde gradatamente tutte le sue connotazioni messianiche, rivelando nel quarto atto l’oscurità che si cela sotto l’oro splendente della sua corazza. Otto muniti di applausi hanno salutato uno spettacolo trionfale.
Stuttgart, 24 novembre 2024
Come spettacolo operistico inaugurale della nuova stagione, la Staatsoper Stuttgart ha scelto Idomeneo, uno tra i capolavori assoluti del teatro mozartiano, presentato nella versione originale del 1781 con alcuni tagli abbastanza consistenti nel terzo atto. Una partitura ricca e complessa, che costituisce uno dei primi e più impressionanti saggi della genialità teatrale di Mozart per la vastità di respiro e la maestria nel trattamento di scene corali grandiose e di arie squisite per raffinatezza di scrittura vocale e strumentale. Il nuovo allestimento dell’ opera di Mozart era ideato da Bastian Kraft, il quarantaquattrenne regista nativo di Göppingen e residente in Svizzera, che due anni fa aveva ottenuto qui a Stuttgart un grande successo con la sua regia di Rusalka, molto apprezzata per la spettacolarità degli effetti scenici. Per la sua realizzazione teatrale dell’ Idomeneo, Kraft ha invece optato per un’ atmosfera molto essenziale, basata su giochi di ombre e alcuni elementi primordiali come il fuoco e l’ acqua. La rappresentazione scenica è sembrata molto ben riuscita nell’ evidenziare le componenti drammaturgiche del testo, in maniera coerente e senza esagerazioni. In complesso positivo è anche il giudizio sulla parte musicale. Cornelius Meister ha diretto da interprete di grande livello, confermando una volta di più la sua classe di musicista. Gli impasti ricchi e fluidi che il quarantaquattrenne maestro di Hannover ha saputo ricavare dagli splendidi strumentisti dellla Staatsorchester Stuttgart, il respiro conferito ai vasti affreschi corali magnificamente evidenziati dall’ esecuzione dello Staatsopernchor, preparato da Manuel Pujol, e la raffinatezza squisita dei colori strumentali erano le caratteristiche salienti di un’ interpretazione che può essere definita davvero esemplare per coerenza e sagacia di scelte interpretative. Una prova davvero notevolissima da parte di un direttore che si conferma tra i più intelligenti e interessanti interpreti di oggi. Nell’ insieme buona era anche la prova del cast vocale, tenendo conto che Idomeneo costituisce per i cantanti uno dei banchi di prova più ardui nel repertorio mozartiano per la difficoltà della scrittura vocale. La prestazione migliore è stata senza il minimo dubbio offerta da Diana Haller, che nel ruolo di Elettra ha raggiunto quello che forse è il migliore esito di tutta la sua carriera. La cantante fiumana ha dato una prova splendida e completa delle sue possibilità sia nello stile patetico di “Idol mio”, dove ha messo in mostra un “legato” di altissima scuola, che nel virtuosismo spettacolare di arie come “Tutte nel cor vi sento” nel primo atto e la difficilissima “D’ Oreste, d’ Aiace” cantata con i passaggi di coloratura eseguiti “di forza” come Mozart prescrive ed esige. Da tempo io sono convinto delle potenzialità artistiche che questa cantante dimostra di possedere e questa splendida raffigurazione di un personaggio assai arduo e complesso conferma che Diana Haller può legittimamente ambire a una posizione di primo piano come interprete del repertorio belcantistico. Il giovane soprano toscano Lavinia Bini ha dato un ritratto di Ilia scenico e musicale abbastanza interessante per la proprietà stilistica e l’ espressività di un fraseggio molto personale, anche se la voce a volte suona come se fosse sotto sforzo e per questo motivo alcune note del medium sono a volte afflitte da un certo sgradevole vibrato. Ben riuscita mi è parsa soprattutto l’ esecuzione dell’ aria “Se il padre perdei”, nella quale la Bini ha messo in mostra alcuni pianissimi dolci e ben timbrati. Una cantante che potrebbe in futuro arrivare a far cose interessanti in questo repertorio, se riuscirà a perfezionare alcuni particolari della sua tecnica. La trentottenne cantante sassone Annett Fritsch, che impersonava il ruolo di Idamante, ha una voce che decisamente suona come di soprano e quindi nelle scene con Ilia è mancata la necessaria differenza di timbro fra le due voci. La sua interpretazione vocale e scenica è stata comunque molto corretta anche se alcune note del registro basso suonavano deboli. Insufficiente invece è apparsa la raffigurazione del protagonista. Il tenore inglese Jeremy Ovenden ha una voce che potrebbe essere adatta a ruoli tenorili mozartiani come Belmonte, Don Ottavio o Ferrando ma non a una parte come quella di Idomeneo dove si richiede un’ autorità regale nel fraseggio e una forza espressiva che questo cantante non possiede, anche se la celebre aria “Fuor dal mar” è stata cantata da lui in modo abbastanza pertinente, con una buona precisione nelle agilità. Sufficiente anche la prova del tenore Charles Sy come Arbace, anche se la sua parte era molto ridotta a causa dei tagli apportati alla partitura. Il teatro era completamente esaurito e alla fine il pubblico ha applaudito a lungo e calorosamente tutti i componenti della produzione. Foto: Matthias Baus
Roma, Teatro Vascello
SYRO SADUN SETTIMINO
Operina Monodanza in un atto di notte
Di Sylvano Bussotti
Poema di Dacia Maraini (1974 rev. 2024)
Voce recitante Manuela Kustermann
Danzatore Carlo Massari della C&C Company
Ensemble Roma Sinfonietta
Direttore M° Marcello Panni
EVO Ensemble
Filmati e proiezioni da Sylvano Bussotti, RARA (film) 1968/ 1970) nell’edizione restaurata dalla Cineteca Nazionale di Bologna
Roma, 25 Novembre 2024
C’è una notte di velluto scuro, di quelle che nascondono il mondo dietro un sipario delicato. È una notte che invita a camminare leggeri. Sul palco, una luce fioca dipinge un cerchio pallido, come il riflesso della luna sul mare. Lì, nel vuoto, prende vita il sogno di Syro, un ragazzo nato troppo presto, fragile come un filo d’erba. Vuole essere ballerino, ma il suo corpo è un campo di battaglia, la sua identità un enigma. Manuela Kustermann, con una voce che sembra affiorare dal tempo, narra la storia di questo giovane dall’identità fluttuante, sospesa tra il maschile e il femminile. La sua voce è una nenia dolce e amara, un racconto senza inizio né fine, come le onde del mare che ritornano sempre. Carlo Massari, il danzatore, si muove con la grazia di chi conosce ogni angolo della propria sofferenza. Le proiezioni di Bussotti si mescolano al corpo del danzatore, creando immagini che si sfaldano, si ricompongono, si dissolvono. Syro è in perenne trasformazione, come la luce che filtra attraverso una tenda al vento. Vuole essere ballerino, ma anche appartenere a qualcosa, definire la propria esistenza. Ma Syro non è fatto per le definizioni: è maschio e femmina, è forza e fragilità. L’ensemble Roma Sinfonietta accompagna ogni passo, ogni gesto, con note che sembrano precipitare nel vuoto, in bilico tra dolore e speranza. Marcello Panni, alla direzione, tiene le fila di questa trama evanescente con rigore e abbandono. La musica è la voce di Syro, il suo pianto soffocato, il suo grido di gioia. Le note si intrecciano alla danza, si fondono con le parole, creano un linguaggio nuovo, un codice segreto con cui Syro si racconta al mondo. Le immagini proiettate, tratte dal film “RARA” di Bussotti, restaurato dalla Cineteca Nazionale di Bologna, sembrano frammenti di un sogno o di un incubo. Corpi senza volto, mani che cercano qualcosa che non si trova mai. E in mezzo a tutto questo, Syro danza. Danza per sfuggire alla solitudine, per trovare un posto nel mondo, per dire che anche lui merita di essere visto e amato. Il poema di Dacia Maraini, scritto nel 1969 e rivisitato nel 2024, è come una ferita che non si rimargina. Le parole sono crude, raccontano il dolore di un giovane che non trova il suo posto nel mondo. La sessualità di Syro è fluida, come un fiume senza argini. In un’epoca in cui tutto doveva essere definito, la sua ambiguità era un atto di ribellione. Oggi, la fluidità è più accettata, ma la storia di Syro rimane potente. Il pubblico ascolta in silenzio, trattenendo il respiro. Ogni parola di Manuela Kustermann è una goccia che cade nel silenzio, ogni movimento di Carlo Massari è una domanda senza risposta. Syro si muove sul palco come un’ombra, un riflesso, un ricordo. La sua danza è insieme gioiosa e disperata, un canto di libertà e una supplica d’aiuto. I suoi movimenti sono fluidi, si piegano e si spezzano, come se il suo corpo fosse fatto d’acqua. Marcello Panni guida l’orchestra con delicatezza, come se avesse paura di spezzare la magia. La musica di Bussotti è complessa, piena di contrasti, come la vita di Syro. Ci sono momenti di dolcezza estrema, in cui la musica culla il giovane, e momenti di tensione, in cui le note si fanno taglienti, come per ricordargli che il mondo non è facile per chi non si adatta. La notte avvolge tutto, il buio è un abbraccio che sembra voler proteggere Syro, nasconderlo dagli sguardi giudicanti. Ma Syro non vuole essere nascosto, vuole essere visto, vuole che il mondo sappia che esiste, che anche lui ha diritto a un posto, a un sogno. E così continua a danzare, anche quando le forze lo abbandonano, anche quando il dolore è insopportabile. Danza per tutti quelli che, come lui, sono stati messi da parte, ignorati, respinti. Il coro invisibile, le voci a cappella che emergono dal buio, aggiungono una dimensione ulteriore. Sono voci da un altro mondo, un mondo in cui Syro potrebbe essere libero, un mondo senza etichette, in cui ognuno è libero di essere ciò che è. Le voci si intrecciano, si sovrappongono, formano un inno alla libertà, alla bellezza della diversità. Quando la musica si spegne, quando le luci si abbassano, rimane solo il respiro affannato di Syro, il suo corpo che trema. Ma nei suoi occhi c’è una luce, una luce che non si spegne mai, una luce che dice che, nonostante tutto, ce l’ha fatta. Ha danzato, ha raccontato la sua storia, e questo è tutto ciò che importa. Manuela Kustermann conclude il poema con un sussurro, un soffio di vento che si perde nella notte. Le ultime parole sono un invito a continuare a danzare, a non arrendersi mai. Il pubblico esplode in un applauso che è insieme liberazione e celebrazione. Syro sorride, un sorriso timido, quasi incredulo. Ha raccontato la sua storia, ha condiviso il suo dolore, la sua gioia, la sua speranza. In quel momento, su quel palco, Syro non è più solo. È un giovane che ha trovato la sua voce, la sua strada, il suo posto nel mondo. E forse, questo è il miracolo dell’arte: trasformare la solitudine in condivisione, il dolore in bellezza, la fragilità in forza. La notte continua, il sipario si chiude, ma il ricordo di Syro rimane. La sua danza, la sua storia, il suo coraggio sono una promessa, una speranza per tutti quelli che cercano il proprio posto, che lottano per essere se stessi, senza paura. E così, sotto il cielo scuro di una notte che sembra infinita, Syro continua a danzare, libero, finalmente libero.
A Cleopatra, regina d’Egitto, donna di grande potere e fascino, le cui vicende hanno ispirato importanti scrittori come William Shakespeare, Théophile Gautier e George Bernard Shaw, oltre ad artisti, musicisti e registi, i Musei Reali di Torino dedicano una mostra dossier che s’inserisce nell’ambito delle celebrazioni dei 300 anni del Museo di Antichità (1724-2024). Lo Spazio Scoperte della Galleria Sabauda ospita la rassegna dal titolo Cleopatra. La donna, la regina, il mito, curata da Annamaria Bava ed Elisa Panero, che si avventura nella vicenda storica e nella leggenda, attraverso un profilo del personaggio e del suo tempo, la nascita del mito e la fascinazione esercitata nel corso dei secoli: un viaggio di oltre 2000 anni nella storia e nel mito della regina d’Egitto.
Il percorso espositivo è suddiviso in cinque aree tematiche e riporta al centro degli studi l’enigmatica Testa di fanciulla c.d. di Cleopatra, in marmo bianco della metà del I secolo a.C., del Museo d’Antichità, che nella capigliatura e nei tratti mostra caratteristiche che rimandano all’iconografia nota di Cleopatra VII, a cui si affiancano manufatti archeologici e sculture antiche, provenienti dal patrimonio dei Musei Reali e da collezioni pubbliche e private, messi in dialogo con opere pittoriche e grafiche e documenti cinematografici che hanno visto protagonista nel corso dei secoli la regina d’Egitto. La mostra si apre con un inquadramento storico del periodo nel quale ha vissuto e governato Cleopatra VII (51-30 a.C.), ultima regina della dinastia tolemaica in un Egitto ormai ellenizzato, in virtù dell’azione di Alessandro Magno iniziata nel IV secolo a.C. L’Egitto, paese all’avanguardia, inserito nel Mediterraneo, luogo d’incontro di diverse civiltà e tradizioni, connotato da un forte rispetto per le tradizioni dell’Egitto faraonico e nello stesso tempo dall’adesione alla Koiné culturale ellenistica.
La sezione Cleopatra: la regina che sfidò Roma si focalizza sulla figura di Cleopatra e sul suo operato politico, in relazione ai protagonisti del suo tempo rappresentati dalla Testa di Giulio Cesare da Tusculum dei Musei Reali, considerato il ritratto più veritiero del Dittatore, e con quelli di Marco Antonio e Ottaviano Augusto, in prestito dalla Soprintendenza del Molise e dai Musei Capitolini. L’analisi si concentra anche su Cleopatra come donna di potere, a capo di una nazione che vive, sotto il suo regno, un importante sviluppo economico, grazie anche alla riforma monetale voluta dalla stessa regina.
La mostra prosegue con l’origine del mito di Cleopatra, nato con la regina ancora in vita e sviluppatosi negli anni immediatamente successivi, attraverso l’assimilazione della sua figura a quella della dea Iside.
Durante il Rinascimento, l’immagine di Cleopatra inizia ad avere una certa fortuna nell’arte occidentale, come mostra una raffinata incisione di Marcantonio Raimondi della Galleria Sabauda nata dalla collaborazione dell’artista bolognese con Raffaello. Nel Seicento e nel Settecento la sovrana è protagonista di molte opere, nelle quali spesso è rappresentata nel momento della morte, è il caso dei dipinti di Giovanni Giacomo Sementi (1625-1626 ca.), proveniente dalle raccolte viennesi del principe Eugenio di Savoia Soissons e ora conservata in Galleria Sabauda, di Giovanni Lanfranco (circa 1630) delle Gallerie Nazionali di Palazzo Barberini e Galleria Corsini, e di Guido Cagnacci (1660-1662) della Pinacoteca di Brera, oppure in relazione a figure storiche quali Giulio Cesare, Marco Antonio o Ottaviano Augusto, come il bel dipinto della pittrice Elisabetta Sirani di collezione privata modenese nel quale la sovrana mostra il prezioso orecchino di perle che scioglierà in una coppa di aceto per poi consumare la costosissima bevanda, alludendo all’episodio che sarebbe avvenuto nel sontuoso banchetto al cospetto Marco Antonio raffigurato nella maestosa tela di Francesco Fontebasso (circa 1750) in prestito dal Palazzo Madama di Torino, e come il bozzetto di Claudio Francesco Beaumont raffigurante Cleopatra che si avvia verso il Palazzo di Cesare (1740), preparatorio per uno degli arazzi che costituiscono la serie con le Storie di Cesare conservata a Palazzo Reale.
Nell’Ottocento l’interpretazione del tema in chiave esoterica darà vita a composizioni di gusto orientaleggiante, ad esempio nel curioso dipinto di Anatolio Scifoni (1869), proveniente dalle raccolte di Palazzo Reale, che trasmette l’atmosfera sospesa e misteriosa dell’incontro tra Cleopatra e una maga.
L’esposizione si chiude con una sezione dedicata alla fortuna pop della regina: dischi, fumetti, giochi da tavolo e, soprattutto, le trasposizioni della vita di Cleopatra sul grande schermo, evocate attraverso locandine, fotografie e spezzoni di film, dall’epoca del cinema muto all’interpretazione di Elizabeth Taylor nella pellicola di Joseph Mankiewicz del 1963, fino a quella di Monica Bellucci nella commedia Asterix & Obelix – Missione Cleopatra del 2002.
Link e approfondimenti
https://museireali.beniculturali.it/events/cleopatra-la-donna-la-regina-il-mito/
https://museireali.beniculturali.it/events/cleopatra-la-donna-la-regina-il-mito/
Roma, Teatro Brancaccio
AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA
una commedia musicale di Garinei e Giovannini
scritta con Jaja Fiastri
liberamente ispirata a “After Me The Deluge” di David Forrest
musiche di Armando Trovajoli
regia originale di Pietro Garinei e Sandro Giovannini
ripresa teatrale di Marco Simeoli
Un classico immortale del teatro musicale italiano.
Presentato da Alessandro Longobardi – Una produzione di Viola Produzioni Srl.
DON SILVESTRO Giovanni Scifoni
CONSOLAZIONE Special Guest Lorella Cuccarini
SINDACO CRISPINO Marco Simeoli
CLEMENTINA Sofia Panizzi
TOTO Francesco Zaccaro
ORTENSIA Francesca Nunzi
LA VOCE DI LASSÙ Enzo Garinei
Aggiungi un posto a tavola ne compie Cinquanta… e non li dimostra! Nel 2024 si festeggeranno 50 anni dal mitico debutto di uno degli spettacoli più longevi e amati dagli italiani.
Alessandro Longobardi per Viola produzioni – Centro di Produzione Teatrale, presenta la nuova edizione di AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA di Pietro Garinei e Sandro Giovannini , scritta con Jaja Fiastri , con le musiche composte da Armando Trovajoli . Dopo quattro stagioni di grande successo, e dopo il debutto al Teatro Nazionale nel mese di marzo 2024 lo spettacolo partirà con il nuovo tour dal Teatro Brancaccio di Roma a novembre 2024 con un nuovo prestigioso cast che continuerà ad emozionare il pubblico di ogni generazione. In questa edizione la messa in scena della regia originale di Garinei e Giovannini è stata affidata a Marco Simeoli che dichiara: “Dopo quasi 800 repliche eseguite nei ruoli di Toto e poi del Sindaco, che manterrò in questa nuova edizione, sono davvero emozionato per questo incarico. Ringrazio la produzione e gli autori per la fiducia accordatami; una grande responsabilità che affronta con entusiasmo e impegno. Voglio fare un’edizione indimenticabile che onori gli autori che nel 1974 concepirono una delle più belle Commedie Musicali italiane dal successo inossidabile.” Nel ruolo di Don Silvestro Giovanni Scifoni , attore stimato ed amato dal pubblico. “Un desiderio che diviene realtà! È la prima volta che partecipo a una grossa produzione musicale. Mio padre mi fece vedere Aggiungi un posto a tavola in televisione che aveva 6 anni, mi ricordo ogni gesto. Sono entusiasta e terrorizzato; non vedo l’ora di dare il mangime alla colomba”. Ospite speciale Lorella Cuccarini nel ruolo di Consolazione. “Un altro sogno che si avvera; Aggiungi un posto a tavola fu la prima commedia musicale della mia infanzia. La vidi più volte con cast diversi, conoscevo a memoria tutte le canzoni e da adolescente mi immaginavo sul palco come Clementina. A distanza di 50 anni, ho il privilegio di farne parte, nel ruolo sfidante di Consolazione: un personaggio nuovo per me, divertente e ironico. Un ruolo iconico che è stato interpretato dalle stelle della commedia musicale come Bice Valori e Alida Chelli. mi impegnerò per non essere da meno.” “La voce di lassù”, interpretata da Enzo Garinei per quattro stagioni, verrà mantenuta in suo onore. Nel ruolo del Sindaco ritroveremo Marco Simeoli , nel ruolo di Clementina debutta Sofia Panizzi e Toto sarà interpretato da Francesco Zaccaro . Francesca Nunzi è confermata nel ruolo di Ortensia. Completano il cast artistico 16 performer. Il cast creativo è composto dal direttore musicale Maurizio Abeni , già assistente di Armando Trovajoli; Gabriele Moreschi , scenografo che ha adattato il progetto originale di Giulio Coltellacci della celebre e ingegnosa scenografia con il doppio girevole e la grande arca; Francesca Grossi che ha adattato i disegni originali dei raffinati costumi, anche questi di Giulio Coltellacci. Il disegno luci è di Emanuele Agliati ; il disegno fonico è di Emanuele Carlucci/Tommaso Macchi . Le coreografie originali di Gino Landi sono riprese da Cristina Arrò ; la scena è stata realizzata dalla scenografia di Mario Amodio, che fu il costruttore nella prima edizione del ’74 e da Antonio Dari per la parte meccanica; i costumi sono confezionati dalla Sartoria Brancaccio. Qui per tutte le informazioni.