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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Venere Nemica” dal 13 al 24 novembre 2024

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 14:57

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
VENERE NEMICA
con Drusilla Foer
scritto da Drusilla Foer e Giancarlo Marinelli
Regia Dimitri Milopulos
con la partecipazione di Elena Talenti
Produzione artistica di Franco Godi per Best Sound
Produzione esecutiva e distribuzione Savà Produzioni Creative
Venere, Dea della bellezza e dell’amore esiste ancora. Creatura immortale, l’antica Dea vive oggi lontano dall’Olimpo e dai suoi parenti, immaturi, vendicativi, capricciosi, prigionieri come la Dea stessa nell’eterna bolla di tempo che è l’immortalità. Ha trovato casa a Parigi, fra gli uomini, di cui teneramente invidia la mortalità, che li costringe all’urgenza di vivere emozioni, esperienze sentimenti. Venere può permettersi di essere imperfetta tra gli umani. Si sa: in tempi duri per tutti – in particolare per gli Dei in deficit crescente di fede e consenso – potersi permettere finalmente di vivere nell’imperfezione dell’umano esistere, godendo delle debolezze umane come la moda e il lusso, non è cosa da poco per la nostra Immortale Eroina. “Immaginate la mia gioia. Una dea, condannata a vivere nell’eterna umidità del mare, scoprire l’esistenza della messa in piega!”. Grazie al rapporto con la sua misteriosa e inseparabile cameriera, bellissima, Venere, quasi per gioco, nel momento in cui gli uomini non credono più agli dei ma agli eroi, ripiomba nel passato: nella storia di Amore, il figlio ingrato e disobbediente, e Psiche, sulla quale Venere- da suocera nemica- riversa tutto il suo rancore di Dea frustrata e di Madre tradita. “Contro la straordinaria mortale, creduta Venere in terra”, la vendetta sarà inesorabile e terribile. Ma nel paradosso feroce e dolcissimo della vita che non risparmia nessuno, nemmeno gli Dei, Venere insieme all’odio scoprirà anche l’amore (… Io che sono sempre stata la mia sola priorità); un amore infinito e incondizionato per quel figlio ferito che, in fuga dall’amata, torna da sua madre per curare le ferite del corpo e dell’anima. Ispirato alla favola di Apuleio “Amore e Psiche”, Venere Nemica rilegge il Mito in modo divertente e commovente a un tempo, in bilico tra tragedia e commedia, declinando i grandi temi del Classico nella contemporaneità: la competizione suocera/nuora, la bellezza che sfiorisce, la possessività materna nei confronti dei figli, il conflitto secolare fra uomini e Dei. “Se c’è una cosa che un Dio detesta è non essere creduto”. Ma dinnanzi a Venere, a questa Venere – lieve, ironica, tagliente, spietata – e al suo incredibile colpo di teatro, come si fa a resistere? Come si fa a non credere? Venere Nemica è una pièce teatrale supportata dalla musica con un repertorio inaspettato, intenso crudele, a tratti musical, interpretato da Drusilla Foer e Elena Talenti Durata: 70 minuti, senza intervallo

Categorie: Musica corale

Roma, AlbumArte: “WHEN IN ROME. Al di là della periferia della pelle” dal 18 novembre 2024 al 04 Gennaio 2025

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 14:48

Roma, AlbumArte
WHEN IN ROMA. AL DI LA’ DELLA PERIFERIA DELLA PELLE
a cura di Adriana Polveroni
Lunedì 18 novembre 2024,
alle ore 18.30, AlbumArte, centro di produzione artistica indipendente di Roma, inaugura la mostra WHEN IN ROME. Al di là della periferia della pelle, a cura di Adriana Polveroni, con le opere inedite e site specific di Verdiana Bove, Guglielmo Maggini, Pietro Moretti, Caterina Sammartino, Adelisa Selimbašic, in programma fino al 4 gennaio 2025. La mostra è la prima tappa del progetto itinerante When in Rome, curato da Adriana Polveroni, prodotto da AlbumArte, con la direzione di Cristina Cobianchi e finanziato dalla Regione Lazio nell’ambito dell’avviso pubblico Lazio Contemporaneo 2022. Il progetto sarà realizzato in sette città italiane in collaborazione con Adiacenze Bologna e Accademia di Belle Arti di Venezia, Accademia di Belle Arti di Frosinone, RUFA – Rome University of Fine Arts, Casa degli Artisti Milano, Mucho Mas! Torino, Toast Project Space Firenze, Quartiere Intelligente – Zona Rosa Napoli, CONDOTTO48 Roma. Presentato in anteprima all’Accademia di Belle Arti di Venezia il 10 giugno 2024, When in Rome prevede oltre la mostra a Roma dal 18 novembre 2024 al 4 gennaio 2025, una serie di dibattiti e confronti con il pubblico a Casa degli Artisti di Milano, Quartiere Intelligente – Zona Rosa a Napoli, Toast Project Space a Firenze, Mucho Mas! a Torino, per concludersi a Bologna, con la seconda tappa della mostra presso Adiacenze, spazio per la ricerca e sperimentazione delle arti visive contemporanee, dal 9 al 23 gennaio 2025. When in Rome, titolo abbreviato da When in Rome do as Romans do, vuole fare il verso a quell’attitudine degli stranieri che, arrivati a Roma, imparano a “fare alla romana” sedotti dal fascino della città e dalle sue abitudini ed è un omaggio anche a un celebre concerto dei Genesis del 2007. Al centro del progetto, i risultati dell’indagine condotta da Cristina Cobianchi e Adriana Polveroni sui giovani talenti under 35 che operano a Roma, soprattutto in spazi di lavoro fondati e gestiti anche con curatori altrettanto giovani in zone periferiche, in fabbriche dismesse, ex officine o vecchie autorimesse, laboratori artigianali in disuso, e che stanno modificando il tessuto e il fermento artistico della Capitale con la loro ricerca aperta sul presente e sul dialogo a più voci. La mostra di Verdiana Bove, Guglielmo Maggini, Pietro Moretti, Caterina Sammartino e Adelisa Selimbašic si declina secondo la loro comune riflessione Al di là della periferia della pelle e presenta opere inedite e site-specific che indagano il tema della marginalità, intesa come “confine che separa”, esattamente come la pelle che delimita il corpo dall’esterno e che, al contempo, costituisce il primo contatto con l’ambiente circostante, la prima possibilità di conoscenza. Anche oggi, nel momento in cui il corpo ha subito una radicale trasformazione, posto al centro di varie tensioni sociali e culturali, la pelle è ciò che delimita, e quindi definisce, primariamente il corpo. Ogni artista coinvolto nel progetto ha la sua originale interpretazione dell’idea della “pelle” e della spinta ad andare “al di là della periferia della pelle”. Al di là, quindi, dei confini dati. Non necessariamente per superarli in una sorta di tensione titanica, ma forse per esplorarli nella loro marginalità, nel loro essere periferia di un grande corpo decentrato quale è la stessa profonda articolazione, l’inesauribile alfabeto delle pratiche artistiche. “Al di là della periferia della pelle” indica la necessità di porsi nel proprio tempo, nella contingenza del proprio essere nel mondo, avviando un confronto a più voci. Applicando questo concetto a Roma, spesso additata come una Grande Madre alternativamente santa e dannata, la città è vista come un grande organismo, non privo di confini, il luogo prediletto per osservare, indagare, con inedite possibilità di lavoro e inediti percorsi interpretativi.

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo delle Esposizioni : “Francesco Clemente. Anima Nobile” dal 23 novembre 2024 al 30 marzo 2025

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 12:45

Roma, Palazzo delle Esposizioni
ANIMA NOMADE: Francesco Clemente
a cura di Bartolomeo Pietromarchi
promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo
Dal 23 novembre 2024 al 30 marzo 2025 Palazzo Esposizioni Roma presenta la mostra personale di Francesco Clemente intitolata ANIMA NOMADE. A cura di Bartolomeo Pietromarchi, l’esposizione è promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo. Una grande mostra personale di Francesco Clemente mai realizzata in Italia, concepita come un’installazione unica che si snoda in tutte le sale del piano nobile di Palazzo Esposizioni, con una serie di opere ambientali per restituire l’importanza di uno dei grandi artisti italiani riconosciuti a livello mondiale. Il percorso di mostra si concentra sull’idea di immersione nella tradizione indiana e orientale, che da sempre è per Clemente fonte di ispirazione per lo sviluppo di una materia densa di riferimenti iconografici e per la sensibilità privata e diaristica delle sue opere. Napoletano di nascita ma nomade per vocazione, fortemente influenzato dalla letteratura e dalla poesia, Clemente è un poeta a pieno titolo, con un vasto lessico di immagini simboliche e metaforiche. Le sue opere si delineano in un paesaggio estetico totalizzante, denso di riferimenti metafisici, misticismo e natura del sé, spesso intrecciati a riferimenti erotici, sempre con un approccio lirico ed emotivo espresso dal senso unico del colore. A partire dalle straordinarie Tents realizzate nel 2013 e mai più esposte da allora, la mostra presenta anche una serie di grandi wall drawing, creati per l’esposizione romana intorno all’idea di anima nomade dell’artista e delle sue influenze orientali, per approfondire le fonti filosofiche e spirituali che hanno formato l’arte di Clemente lungo il corso di tutta la sua produzione.

Categorie: Musica corale

Rai5: “Gaspare Spontini. Celeste Amore” il docufilm il 14 novembre 2024

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 12:33

“GASPARE SPONTINI. CELESTE AMORE”
film dal 14/11 su Rai5 e RaiPlay
Debutta su Rai 5, giovedì 14 novembre ore 22:48, e poi su Rai Play, il docufilm “Gaspare Spontini. Celeste amore”, con Lodo Guenzi e Simona Ripari, una produzione Subwaylab dedicata al grande compositore e filantropo di Maiolati Spontini (1774-1851) di cui si celebreranno i 250 anni dalla nascita. È la storia del musicista vista con gli occhi della moglie Celeste Erard, immaginariamente catapultata nei giorni nostri a raccontare ad una ragazzina della generazione Z l’affascinante vita di Spontini, intrecciata con i grandi del suo tempo. Il soggetto è di Marco Cercaci e Marco Spagnoli, la sceneggiatura di Claudio Centioni, la regia di Andrea Antolini, Alessandro Tarabelli, Diego Morresi. Il lungometraggio è realizzato da Subwaylab, casa di produzione indipendente marchigiana, con il sostegno di Regione Marche-assessorato alla Cultura e di Marche Film Commission – Fondazione Marche Cultura, in collaborazione con Comune di Maiolati Spontini, Comune di Jesi, Fondazione Pergolesi Spontini. Alla fiction si alternano le testimonianze dei nostri giorni. Partecipano i musicisti marchigiani Dardust, Raphael Gualazzi, Ruben Camillas, Paolo Marzocchi e Giancarlo Aquilanti, il compositore e direttore artistico della Fondazione Pergolesi Spontini Cristian Carrara, Lucia Chiatti direttore generale della Fondazione Pergolesi Spontini, il musicologo Federico Agostinelli, il critico musicale Guido Barbieri, Gabriella Cinti nipote del Podestà di Maiolati, Tiziano Consoli sindaco di Maiolati Spontini dal 2019 al 2022. Quella di Spontini fu una vita intrecciata a grandi nomi: Napoleone e Giuseppina Bonaparte, Ferdinando IV Re delle due Sicilie, Federico Guglielmo III Re di Prussia, Costanza Mozart, Richard Wagner fino ad arrivare a Papa Pio IX. Una vita piena di successi ma non priva di invidie e gelosie, che partendo dalla provincia italiana conquista l’Europa. Nel 1851 Gaspare Spontini tornò in Italia. Dopo un’eclatante carriera, il musicista sentì di tornare alle origini, e nella sua città natale crea strutture per aiutare i più poveri e bisognosi; il film mostra così anche il profondo lato filantropico dell’artista e come tra i suoi concittadini il suo nome sia ancora vivo e riecheggi nei vicoli. La vita del compositore è occasione per raccontare un territorio, quello marchigiano, apparentemente al di fuori delle rotte culturali dei grandi centri ma in cui fioriscono ancora oggi proposte vitali e di avanguardia. Regione d’Europa con la più alta percentuale di teatri, le Marche sono state fucina di veri e propri giganti dell’Opera che fra il ‘700 e l’800 hanno emozionato e continuano a strabiliare i teatri di tutto il mondo: Spontini, Rossini, Pergolesi, Vaccaj, Crescentini. Con il coinvolgimento di storici e artisti, il docufilm cerca di mettere in luce le cause di quel fermento, scoprendo infine la vivacità della scena musicale di questa poliedrica e sorprendente regione.

Categorie: Musica corale

Milano, TAM: ” Les Miserables – The Arena Musical Spectacular” dal 14 al 24 Novembre 2024

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 12:27

“LES MISÉRABLES – THE ARENA MUSICAL SPECTACULAR” PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA al TAM dal 14 al 24/11
TAM ospita l’evento teatrale dell’anno: “LES MISÉRABLES THE ARENA MUSICAL SPECTACULAR”, il fenomeno planetario che arriva per la prima volta in Italia! LES MISÉRABLES THE ARENA MUSICAL SPECTACULAR” è una straordinaria rappresentazione che porta sul palco la celebre opera di Victor Hugo, un racconto avvincente fatto di sogni, amori, passione, sacrificio e redenzione. Una storia senza tempo della sopravvivenza dello spirito umano. Lo show ha una colonna sonora composta da brani indimenticabili tra cui “I Dreamed a Dream“, “On My Own“, “Bring Him Home“, “One Day More”. Il musical LES MISÉRABLES è di fatto il musical più longevo al mondo ed è stato rappresentato in 53 paesi e 439 città in tutto il mondo. Il World Tour inizierà quando il musical entrerà nel suo 39° anno e proseguirà durante le celebrazioni del 40° anniversario del musical nel 2025. LES MISÉRABLES THE ARENA MUSICAL SPECTACULAR è una rappresentazione del musical in forma di concerto con una spettacolare produzione composta da elementi scenici, design video integrato, costumi originali e una grande orchestra. La compagnia inglese è composta da 110 fra attori, musicisti e crew. Lo show prende origine da “Les Misérables The Staged Concert”, straordinario successo andato in scena per oltre 200 repliche, un vero record nel West End. Per info e biglietti: qui

 

Categorie: Musica corale

Como, Teatro Sociale: ” Andrea Chénier ” il 15 ed il 17 novembre 2024

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 12:22

“ANDREA CHÉNIER” di Umberto Giordano al Teatro Sociale di Como il 15 e il 17/11.
Il secondo titolo della Stagione d’Opera 2024/25 del Teatro Sociale di Como è Andrea Chénier” di Umberto Giordano, in scena venerdì 15 novembre alle ore 20.00 e domenica 17 novembre alle ore 15.30. “Andrea Chénier” è, insieme a “Fedora”, la più famosa opera di Giordano. L’opera, in quattro quadri, debuttò alla Scala a Milano nel marzo del 1896 riscuotendo un grandissimo successo, grazie all’autore del libretto, Luigi Illica, che aveva saputo trasformare in una tragedia ardente la biografia del poeta francese André Chénier, vittima della Rivoluzione francese, e a Giordano che scrisse una musica ricca di straordinari brani. Nel dramma, Chénier è un idealista, impreparato ad affrontare le trame del terrore giacobino e innamorato di Maddalena, un’aristocratica in fuga dai rivoluzionari; i due, vittime di Gérard, resteranno uniti fino alla morte. Questa produzione, che vede impegnati i Teatri di OperaLombardia, insieme al Teatro Verdi di Pisa, Teatro del Giglio di Lucca e Teatro Sociale di Rovigo, affida la regia ad Andrea Cigni, di cui il pubblico di Como e del circuito di OperaLombardia ha potuto già vedere “La fanciulla del West” nella stagione 2021/22. Alla direzione dell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano tornerà il M° Francesco Pasqualetti, direttore poliedrico ed eclettico, il cui repertorio spazia da Mozart a Nino Rota, passando per gli autori meno eseguiti del Novecento storico italiano, già altre volte visto sul podio comasco. L’opera presenterà un cast d’eccezione. Tra i ruoli principali, Angelo Villari debutta nel ruolo del titolo, il baritono Angelo Veccia, già protagonista nelle scorse stagioni in “Don Carlo”, “La Gioconda”, in “Otello” al Festival Como Città della Musica, torna a Como e sarà Carlo Gérard, mentre Maria Teresa Leva interpreterà il ruolo di Maddalena di Coigny. Per info e biglietti, qui.

 

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Menotti: “I poemetti” riletti da Valter Malosti dal 19 al 24 novembre 2024

gbopera - Mer, 13/11/2024 - 12:17

“I POEMETTI” di Shakespeare riletti da Valter Malosti al Teatro Menotti di Milano, dal 19 al 24/11
Dopo aver vinto nel 2009 il Premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro (ANCT) per lo spettacolo Shakespeare. Venere e Adone e aver diretto nel 2012 Lo stupro di Lucrezia (Premio Ubu 2013 come nuova attrice under 30 ad Alice Spisa), il direttore di ERT / Teatro Nazionale Valter Malosti ha visto pubblicare nel 2022 le sue due traduzioni dei Poemetti di William Shakespeare nella prestigiosa collezione bianca di poesia di Einaudi. I Poemetti vengono presentati  di nuovo sul palco in forma di concerto al Teatro Menotti dal 19 al 24 novembre. Malosti sarà in scena accanto al compositore e musicista Gup Alcaro (Premio Ubu 2023 per il miglior disegno del suono in Lazarus) che firma ed esegue dal vivo il progetto sonoro. Una versione in cui il regista e interprete amplifica l’alta densità musicale dei due spettacoli, trasfigurando la scena in un paesaggio acustico di grande suggestione, interamente creato dalla potenza della voce e del suono e pervaso dalla ricerca sulla lingua, sul ritmo, e la musica dell’originale shakespeariano. E anche se nella versione italiana della musica shakespeariana si perde una percentuale altissima, il materiale che resta è da considerarsi un dono inestimabile. Per il grande poeta inglese Ted Hughes, autore del visionario saggio Shakespeare and The Goddess of Complete Being, i Poemetti sono la base in cui individuare idealmente tutta la strategia poetica e i fondamenti metafisici dell’intera opera shakespeariana. Durata: 120′ più intervallo. Per info e biglietti: qui

Categorie: Musica corale

“La Cenerentola” dal 17 novembre al Teatro Filarmonico di Verona

gbopera - Mar, 12/11/2024 - 23:45

A Verona La Cenerentola rossiniana torna per quattro recite sotto la direzione del maestro Francesco Lanzillotta, atteso ritorno sul podio di Orchestra di Fondazione Arena e Coro preparato da Roberto Gabbiani.
Angelina, la protagonista del titolo, è il mezzosoprano Maria Kataeva, al debutto al Filarmonico, mentre il Principe Don Ramiro è il tenore Pietro Adaini, già applaudito come esordiente proprio in questo ruolo otto anni fa. I buffi Dandini e Don Magnifico hanno voce e corpo rispettivamente del baritono Alessandro Luongo e del basso Carlo Lepore, mentre le sorellastre Clorinda e Tisbe sono interpretate dal soprano Daniela Cappiello e dal mezzosoprano Valeria Girardello,come l’Alidoro del bassoGabriele Sagona. L’opera è qui proposta nell’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino firmato da Manu Lalli,  nato per il Giardino di Boboli e ripreso con successo anche al nuovo Teatro, con scene di Roberta Lazzeri e costumi di Gianna Poli. Dopo la prima di domenica 17 novembre alle 15.30 La Cenerentola replica mercoledì 20 novembre alle 19, venerdì 22 novembre alle 20 e domenica 24 novembre alle 15.30.
Biglietti, disponibili al link https://www.arena.it/it/teatro-filarmonico, alla Biglietteria dell’Arena e, due ore prima di ogni recita, alla Biglietteria stessa del Teatro Filarmonico in via Mutilati.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “Vorrei una voce”

gbopera - Mar, 12/11/2024 - 23:06

Roma, Teatro Sala Umberto
VORREI UNA VOCE
con le canzoni di Mina
ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto Il Teatro per Sognare di D’aRteventi
diretto da Daniela Ursino
disegno luci Luigi Biondi
costumi Aurora Damanti
regista assistente Alessandro Bandini
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione con Proxima Res
partner di produzione Gruppo Ospedaliero Moncucco
di e con Tindaro Granata
Roma, 12 novembre 2024
“E improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto.” MINA
“Vorrei una voce”, scritto e interpretato da Tindaro Granata, si configura come un’esperienza scenica di intensa delicatezza, dove la teatralità si fonde con il racconto umano per dare voce a chi vive ai margini. Lo spettacolo nasce dall’incontro dell’autore con le detenute-attrici del Teatro Piccolo Shakespeare, attivo nella Casa Circondariale di Messina, nell’ambito del progetto “Il Teatro per Sognare”, promosso da D’aRteventi sotto la direzione artistica di Daniela Ursino. In questo contesto, le canzoni di Mina si ergono a simbolo di un linguaggio universale capace di tradurre l’indicibile e di restituire frammenti di un’identità altrimenti sepolta. La produzione, affidata alla cura del LAC Lugano Arte e Cultura, in collaborazione con Proxima Res e sostenuta dal Gruppo Ospedaliero Moncucco, si avvale di un impianto scenico sobrio ma altamente evocativo. I costumi di Aurora Damanti delineano, con grazia sottile, un’umanità ricca di sfumature, mentre il disegno luci di Luigi Biondi modula spazi e stati d’animo, accompagnando lo spettatore in un viaggio emotivo che dal buio dell’isolamento conduce verso una tenue luminosità di speranza. Il lavoro di regia garantisce equilibrio tra la dimensione narrativa e quella visiva, permettendo al testo di fiorire in tutta la sua potenza comunicativa. La scelta drammaturgica di Granata, che utilizza il playback delle canzoni di Mina, si rivela una soluzione di rara forza espressiva. Le labbra che si muovono senza produrre suono amplificano il senso di una voce negata, spezzata dall’assenza di libertà. Ma al contempo, il canto che affiora da questa evocazione genera un cortocircuito emotivo, dove la musica diventa veicolo di resistenza, riscatto e trasformazione. Ogni nota sembra cucire, nel tessuto drammatico, le storie delle detenute, che emergono come tessere di un mosaico fatto di perdite, ricordi e sogni infranti. L’atmosfera scenica è un intreccio sapiente di malinconia e lirismo. Il palco spoglio, quasi ascetico, si trasforma in uno spazio immaginifico dove le luci e i movimenti di Granata costruiscono mondi invisibili, sospesi tra la memoria e il desiderio di un altrove. L’eco dell’ultimo concerto di Mina alla Bussola nel 1978, evocato nello spettacolo, non si limita a una rievocazione nostalgica, ma diventa simbolo di una femminilità perduta e ritrovata, un filo rosso che unisce le protagoniste delle storie al pubblico in un patto di comprensione e complicità. Granata, con un’interpretazione misurata e intensissima, si pone al centro di un rito collettivo di riconciliazione con l’umanità ferita. Non è solo narratore, ma diviene essenza incarnata di quelle voci, prestando loro il proprio corpo e la propria anima, restituendone la dignità con una sensibilità che sfiora il sublime poetico. Ogni gesto è ponderato, ogni pausa si carica di una tensione che sa sfidare il silenzio, ogni melodia s’insinua negli anfratti più profondi dell’animo dello spettatore, trasformando l’ascolto in un’esperienza viscerale. Con rara audacia, l’attore si spoglia delle convenzioni per raccontare di sé, delle proprie prigioni interiori. Granata non teme di rivelarsi carcerato e carcerata, un’identità molteplice e stratificata che si intreccia a quella delle vite narrate, trovando accoglienza e amore in un microcosmo parallelo, dove diviene, a sua volta, una donna tra le donne. È proprio in questa fusione che si compie la magia del teatro, quel luogo che consente di tradurre il dolore individuale in un canto universale, in cui il pubblico è chiamato a rispecchiarsi e a farsi partecipe. “Vorrei una voce” non è semplicemente un’opera teatrale, ma una vera e propria liturgia dell’umano, uno spettacolo che abbraccia chi assiste, trasportandolo in una dimensione altra, dove l’empatia si erge come strumento per scardinare le barriere del pregiudizio. E così che il suo protagonista, nel suo atto performativo, rinnova il senso più alto del teatro, rivelandone il potere catartico e sociale. È un canto sospeso nel tempo e nello spazio, un invito a volgere lo sguardo oltre le sbarre dell’esclusione, là dove, contro ogni aspettativa, si cela un frammento di bellezza inesprimibile.

 

Categorie: Musica corale

Bergamo:”Decima edizione del Donizetti Opera Festival” dal 14 novembre al 01 dicembre 2024

gbopera - Mar, 12/11/2024 - 22:15

Bergamo, Teatro Donizetti
FESTIVAL DONIZETTI OPERA
Toccano quota dieci le edizioni del festival Donizetti Opera – manifestazione di rilievo internazionale dedicata al compositore bergamasco e organizzata dalla Fondazione Teatro Donizetti presieduta da Giorgio Berta con la direzione generale di Massimo Boffelli, la direzione artistica di Francesco Micheli e quella musicale di Riccardo Frizza – che si svolgerà a Bergamo “Città di Gaetano Donizetti” dal 14 novembre al 1° dicembre 2024.
«È la decima edizione del Donizetti Opera – sottolinea il direttore artistico Francesco Micheli – il decimo anno in cui si lavora alla costruzione del monumento a questo artista la cui grandezza è ancora tutta da esplorare, un monumento di cui siamo fieri, e grati, di aver potuto costruire il primo tassello. Abbiamo cercato, da un lato, di risalire alla fonte dell’uomo e dell’artista, proponendo le sue opere, sia quelle più note che quelle che lo sono meno, in edizioni filologicamente ineccepibili e coerenti con la prassi esecutiva dell’epoca. Dall’altro, abbiamo voluto coniugare al presente la rivoluzionaria teatralità di Donizetti, convinti che nessun teatro sia contemporaneo, vitale e necessario come il suo. L’obiettivo è sempre lo stesso, oggi come dieci anni fa: divulgare l’opera di Donizetti, e diffondere il benefico contagio del nostro amore per lui a Bergamo, in Italia e nel mondo intero».
L’edizione 2024 del festival Donizetti Opera sarà quindi speciale e celebrativa, con i weekend che “cominciano” il giovedì. Sarà riproposta LU OpeRave (giovedì 14, giovedì 21 e venerdì 29 novembre  https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/lu-operave-2/2024-11-14/), la nuova creazione 2023 ispirata alla più celebre delle opere donizettiane; per questa ripresa “con variazioni”, LU OpeRave sarà riallestita in un luogo diverso da quello del 2023, non specificatamente teatrale, aperto sempre alla convivialità e con uno sguardo verso la contemporaneità e l’innovazione. Al Teatro Donizetti andranno in scena due celebri capolavori di Gaetano Donizetti: “Roberto Devereux (venerdì 15, sabato 23 e giovedì 28 novembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/roberto-devereux/2024-11-15/) con l’atteso debutto di Jessica Pratt nel Ruolo di Elisabetta I affiancata da John Osborn, Raffaella Lupinacci e Simone Piazzolla direzione di Riccardo Frizza e regia di Stephen Langridge e “Don Pasquale (domenica 17, venerdì 22 e sabato 30 novembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/don-pasquale/2024-11-17/) con il ritorno a Bergamo di Javier Camarena al fianco di Roberto De Candia e dei giovani artisti della Bottega Donizetti, la direzione è affidata a Iván López Reynoso e la regia a Amélie Niemeyer. Andrà in scena al Teatro Sociale la versione “Roma 1824” di “Zoraida di Granata(sabato 16 novembre, domenica 24 novembre, domenica 1° dicembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/zoraida-di-granata/2024-11-16/) per il ciclo #donizetti200 con le voci di Konu Kim, Zuzana Marková e Cecilia Molinari dirige l’orchestra Gli Originali – impegnata su strumenti d’epoca – Alberto Zanardi mentre la regia è di Bruno Ravella. Lo spettacolo è in coproduzione con il Wexford Festival Opera. Si tratta della prima ripresa moderna della versione del 1834 essendo andata in scena in Irlanda la precedente versione del 1822. E’ stata sottoscritta la firma di un accordo editoriale con la LIM – Libreria Musicale Italiana, una delle maggiori case editrici specializzate italiane, incentrato sulla valorizzazione delle iniziative di ricerca della sezione scientifica del festival. https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti/donizetti-opera-2024/

 

Categorie: Musica corale

“Difettosa” di Nagla Augelli: Il cuore che batte (e ride) anche quando il mondo inciampa

gbopera - Mar, 12/11/2024 - 15:13

“Difettosa” di Nagla Augelli
Un’autobiografia che parla di cicatrici, autonomia e tabù con l’ironia di chi non si prende mai troppo sul serio.
Il cuore che ride, anche quando il mondo inciampa. “Difettosa” di Nagla Augelli è il diario di una vita che si ribella al pietismo, un’autobiografia che trasforma ogni cicatrice in una risata sorniona e ogni ostacolo in un invito a ballare su un palcoscenico un po’ traballante. La copertina è già un manifesto di intenti: un cuore stilizzato, spezzato e ricucito. Senza promesse di redenzione epica o drammatismi hollywoodiani; un cuore che esiste, punto e basta, e ti guarda con l’aria di chi è passato attraverso l’inferno solo per scoprire che non era poi così caldo. Con lo stesso spirito, l’autrice racconta la sua vita con capitoli chirurgicamente precisi (ventuno operazioni, per chi ama la precisione) e avventure che sembrano uscite dalla penna di un regista con un debole per l’assurdo. “Difettosa” è ironico, diretto e a tratti spietato come quell’amico sincero che non ha paura di farti notare quando stai dicendo delle scemenze. Augelli narra senza veli e senza sconti: genitori che se ne vanno come comparse svogliate e un corpo che si diverte a demolire il concetto di “normalità“. Ma niente lacrime facili qui, per favore. L’abbandono genitoriale è trattato quasi come un favore inatteso (“Meno adulti inutili intorno, meglio si sta”) e le cicatrici diventano pezzi di un puzzle più interessante di qualsiasi figura patinata. Non c’è vittimismo, solo una cronaca di battaglie vinte o perse senza troppe cerimonie. La sessualità – il grande tabù della disabilità – è affrontata con la schiettezza di chi apre la porta e ti invita ad accomodarti, dicendoti però di lasciare fuori dalla soglia ogni tabù. Il desiderio, l’intimità, il bisogno di contatto: non sono mica spariti per magia, semplicemente sono ignorati dagli altri, il che è tutta un’altra faccenda. Augelli ne parla con la naturalezza che imbarazza chi è abituato a girare la testa dall’altra parte: è proprio questo imbarazzo che, nelle sue pagine, viene schernito con una risata liberatoria. L’autonomia non è la ricerca della perfezione, ma piuttosto una lotta grottesca contro un mondo pensato per tutti, tranne che per chiunque sia realmente diverso. Porte strette, leggi contorte scritte da burocrati in stato d’ebbrezza, e quegli sguardi pieni di una compassione paternalistica che ti fanno venire voglia di ridere. Qui non si cerca indulgenza, men che meno approvazione: si cerca la libertà, quella autentica, quella che si trova nel riuscire a ridere degli ostacoli quotidiani. Quanto al pietismo, è lasciato fuori scena. “Difettosa” è un atto di resistenza contro il vittimismo e contro quel paternalismo soffocante che vorrebbe farla diventare un’eroina a tutti i costi. L’autrice smonta pezzo per pezzo ogni tentativo di idealizzarla, e lo fa con un sarcasmo raffinato, mai gratuito, che colpisce dritto al bersaglio: non vuole essere speciale, vuole essere libera, e ogni battuta è un invito a smettere di costruire altari per le differenze invece di imparare a comprenderle davvero. C’è una forza intrinseca in ogni pagina di “Difettosa”, una forza che deriva dalla capacità dell’autrice di affrontare con coraggio e umorismo anche i momenti più difficili. Il libro è popolato da personaggi secondari che, pur restando sullo sfondo, contribuiscono a delineare il contesto in cui la protagonista vive e cresce. Ci sono amici fedeli, compagni di viaggio e figure che, con le loro contraddizioni, rappresentano un mondo spesso troppo impreparato ad accogliere la diversità. Ma più di tutto, c’è una protagonista che non si lascia definire dagli altri, che non accetta etichette preconfezionate e che, con una risata, manda all’aria ogni tentativo di incasellarla. Un altro aspetto affascinante di “Difettosa” è il modo in cui Augelli descrive la sua relazione con il corpo. Un corpo che non è mai stato docile, mai stato “normale” secondo i canoni imposti, ma che ha comunque imparato ad amare. La narrazione diventa qui quasi poetica, un inno all’accettazione di sé stessi al di là di qualsiasi limite imposto dalla società.  C’è una bellezza in questa libertà, una bellezza che va oltre l’apparenza, che si radica nella verità di chi ha imparato a convivere con le proprie imperfezioni e a farne una forza.  La sua scrittura è potente proprio perché non cerca di addolcire la realtà: ci sono momenti di sconforto, momenti in cui la sofferenza sembra prendere il sopravvento, ma c’è sempre, sullo sfondo, una luce, una speranza che non viene mai meno. Questo equilibrio tra la crudezza della realtà e la leggerezza dell’ironia è uno degli aspetti che rendono “Difettosa” un libro unico.  Le barriere architettoniche diventano metafora di quelle mentali, e la lotta per l’accessibilità diventa una lotta per il riconoscimento del diritto di esistere e di partecipare. Ogni ostacolo fisico è un simbolo delle barriere invisibili che le persone con disabilità devono affrontare ogni giorno, e ogni superamento di questi ostacoli è un atto di resistenza contro una società che spesso preferisce ignorare ciò che non riesce a comprendere. Ma “Difettosa” non è un libro amaro: è un libro che, pur denunciando le ingiustizie, lo fa con un sorriso, con la consapevolezza che la risata è una delle armi più potenti contro l’assurdità del mondo. “Difettosa” è un invito a guardare oltre le apparenze, a capire che la diversità non è qualcosa da temere, ma una fonte di ricchezza. È un libro che ci insegna che la vera forza non sta nella perfezione, ma nella capacità di affrontare le proprie fragilità con coraggio e con un pizzico di ironia. Come quel cuore cucito sulla copertina, “Difettosa” non chiede di essere perfetto, chiede di essere vero. Ed è proprio questa autenticità a renderlo un libro bellissimo. Un libro che, una volta chiuso, lascia un segno, una traccia indelebile nel cuore di chi l’ha letto. La bellezza sta nell’imperfezione, che la forza sta nella vulnerabilità, e che, alla fine, quello che conta davvero è avere il coraggio di essere se stessi, senza vergogna. E questo è un messaggio di cui tutti , in fondo, abbiamo bisogno.

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Città del Messico: Salvatore Dell’Atti nel Concerto per il centenario della morte di Giacomo Puccini

gbopera - Mar, 12/11/2024 - 10:05

Giovedì 7 novembre, in occasione dei tre giorni dedicati ad un’importante personalità del Rinascimento italiano dal titolo «Redescubriendo a un genio: Luca Pacioli», si è tenuto un concerto memorabile per ricordare Giacomo Puccini nella ricorrenza dei cento anni dalla sua morte. Il grande evento, alla presenza di una delegazione ufficiale (sindaco, assessore alla cultura e bibliotecaria) della città natale di Pacioli, Sansepolcro (Ar) – organizzato dal Grupo Salinas, eccellenza nel campo imprenditoriale del Messico – per l’alto valore scientifico, culturale ed artistico (6-8 novembre: https://www.geniuspacioli.com/) è stato un’autentica celebrazione del genio italiano. Protagonista del concerto l’Orquesta Sinfónica del Instituto Superior de Música Esperanza Azteca sostenuta dal Grupo Salinas e concepita secondo il celeberrimo modello di El Sistema promosso da José Antonio Abreu, molto apprezzato e sostenuto in tutto il mondo, in primis da Claudio Abbado. Ascoltare quest’orchestra è stato un autentico caleidoscopio di emozioni e non poteva essere diversamente considerando i vari input ricevuti dalle significative collaborazioni con direttori e star internazionali come Valery Gergiev, Placido Domingo o Yo-Yo Ma, senza dimenticare che «Far parte dell’orchestra e Coro Esperanza Azteca permette ai bambini e ai giovani di immaginare un futuro migliore» (Ricardo B. Salinas Pliego). Il concerto sinfonico è stato diretto dal maestro italiano Salvatore Dell’Atti, presente anche in veste di musicologo con la relazione «Speculazioni artistico-musicali al tempo di Luca Pacioli». La sua lettura esegetica del programma musicale è stata definita dai media «interpretación magistral». Già dall’esecuzione dell’inno nazionale italiano (quello messicano diretto dal primo violino m. Julio Saldaña) si poteva percepire sia il solenne spirito di unità nazionale, coinvolgendo tutti gli italiani presenti nel canto, quanto lo spirito di amicizia che unisce i due popoli. Il programma, dalla significativa correspondence libretto – musica lasciava trapelare l’intenzione del direttore a non tradire la dimensione lirica delle composizioni con realismo drammaturgico tanto da poter ascoltare agevolmente le struggenti melodie di A sera e Crisantemi, i cui temi vengono in seguito utilizzati rispettivamente nel Preludio dell’Atto III di Wally e nell’ultimo atto di Manon Lescaut. Si è trattato di una full immersion di sentimenti, valori e passioni di un’umanità sempre più desiderosa di incanto che, in questo contesto ‘matematico’ e di proporzioni, come ha sottolineato il maestro Dell’Atti, i giovani dell’orchestra rappresentavano i tanti numeri capaci di generare armonia e bellezza. Il programma lasciava subito intendere il fil rouge che gravitava intorno alla figura di Puccini e i tre intermezzi in programma, secondo il direttore italiano, «più che brani sinfonici posti tra atti diversi di un’opera, vanno percepiti non disgiunti per il loro descrittivismo verista e per un’ispirazione melodica tipicamente italiana». Alla dolcezza, unitamente al carattere energico e struggente, del primo brano di Mascagni (si segnala l’incisivo ’canto dell’oboe’ e la dolcezza dell’arpa) è seguito l’Andante mesto di Catalani A sera con il suono smorzato (in sordina) dei soli archi e nell’interpretazione del maestro italiano hanno restituito un’autentica pace interiore. L’Andante cantabile di Giordano è stato un avvicinarsi allo stile più pucciniano in cui tutta l’orchestra, nella divisione dei compiti tra archi e fiati, ha saputo restituire il giusto lirismo e i caldi colori della partitura. A concludere il programma due celeberrime composizioni di Puccini. Con Crisantemi (Andante mesto), composto in una notte del 1890 «Alla memoria di Amedeo di Savoia Duca d’Aosta», si è percepita l’inquieta ricerca del mistero della morte nella stessa spasmodica interpretazione delle reiterate indicazioni dell’ampio ventaglio di variazioni agogiche. L’orchestra è riuscita ad offrire allo stesso tempo un’intensa fusione del colore unitamente ad una vivida chiarezza nel fraseggio. Con il celeberrimo intermezzo tratto da Manon è stato un crescendo di emozioni: se all’inizio i soli del violoncello, viola e violino (con chiara e bella espressività) sembravano ricercare il doloroso ‘canto’ di Des Grieux nel disperato tentativo di ottenere la libertà della donna amata, le melodie struggenti – così come i contrasti di colore provenienti dalle diverse sezioni dell’orchestra – hanno reso un risultato di grande pathos in cui il suono ed il fraseggio impeccabile dell’orchestra erano sempre in simbiosi con quelli del direttore, un musicista che, nel servizio incondizionato alla partitura, ha sempre valorizzato il respiro della melodia, la ricchezza del colore ed il talento dei musicisti messicani. Grande successo per tutti conclusosi con molti applausi ed un graditissimo omaggio al maestro Dell’Atti (autentico dono agli italiani presenti e al nostro Paese) con Danzón n. 2, brano del compositore messicano Arturo Márquez (1950-) diretto dal maestro Saldaña. Ancora una volta si è voluto così sottolineare l’apprezzamento della cultura italiana, per molti aspetti unica nel panorama mondiale.

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Valletta (Malta), Valletta Early Opera Festival 2024: “Il re pastore” di Mozart

gbopera - Mar, 12/11/2024 - 08:20

Valletta (Malta), Valletta Early Opera Festival 2024
IL RE PASTORE”
Dramma per musica in due atti di Pietro Metastasio.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Aminta FEDERICO FIORIO
Elisa CATHERINE TROTTMAN
Alessandro NICO DARMANIN
Agenore RAFFAELE GIORDANI
Tamiri CLAIRE DEBONO
Orchestra Arianna Art Ensemble
Direttore Giulio Prandi
Regia Tommaso Franchin
Scene Fabio Carpene
Costumi Giovanna Fiorentini
Nuova produzione Festivals Malta in collaborazione col Teatro Manoel
Valletta, 8 novembre 2024
Da anni Valletta si propone come la capitale europea della musica barocca, proponendo un festival musicale e produzioni d’opera di alto livello – grazie al lavoro instancabile di un team organizzativo giovane guidato dall’esperto direttore artistico Kenneth Zammit Tabona. Questo novembre ha visto un’anticipazione del Festival 2025 con la produzione de “Il re pastore” di Mozart, ideale prosecuzione di una trilogia sul giovane salisburghese, iniziata l’anno passato con “Apollo et Hyacinthus” e che si concluderà l’anno prossimo con un titolo ancora non reso noto. La scelta è molto felice, poiché la breve opera si adatta perfettamente sia all’atmosfera del Teatro Manoel (un gioiellino barocco, una bomboniera in toni di verde nel cuore di Valletta), sia alla misura ridotta del suo golfo mistico. Inoltre la compagnia cantante è di livello decisamente alto, guidata dai talenti adamantini dei due protagonisti: Federico Fiorio (Aminta) è un apprezzato controtenore sopranista grazie al  suo colore nitidissimo, il fraseggio ben cesellato sulla linea di canto, la presenza bella e morigerata; la misura è senz’altro la sua cifra, e infatti troviamo che gli si addicano i momenti più patetici, come “L’amerò, sarò costante”, sebbene anche nelle prove di coloratura sappia destreggiarsi con maestria; accanto a lui la francese Catherine Trottman risplende come Elisa: il timbro è tondo, il colore smaltato, le agilità perfettamente integrate alla sicura linea di canto; la sua “Barbaro! O Dio mi vedi” è giustamente a lungo applaudita, soprattutto per la capacità della Trottman di conferire calore ed espressività anche ai momenti più virtuosistici. Accanto a questi due troviamo due apprezzatissimi talenti locali: il tenore Nico Darmanin è un Alessandro padrone sia della scena (forse anche un filo sopra le righe) che della tessitura, con una certa facilità all’acuto e piacevoli portamenti – la sua impostazione sembra trasportarci già in atmosfere belcantistiche, che, trattandosi di Mozart, potrebbero non essere del tutto fuori luogo; la soprano Claire Debono è una Tamiri molto coinvolta scenicamente e dal colore caldo e vellutato – peccato per una certa debolezza nei centri. Conclude questo novero Raffaele Giordani (Agenore), cantore esperto in canto rinascimentale e primo barocco, dall’emissione naturalissima (praticamente mai immascherata), il suono ricco, la timbratura efficace: rimaniamo scettici sull’aderenza al repertorio mozartiano, ma comunque la sua si profila come una performance innegabilmente apprezzabile, per quanto tecnicamente differente da quelle dei suoi colleghi. La direzione d’orchestra di Giulio Prandi si mantiene nell’alveo di un’aurea mediocritas: tempi, agogiche e dinamiche sono corrette, la coesione con la scena costante. È l’apparato creativo di questa produzione a destare le maggiori perplessità: la scena di Fabio Carpene è minimale, ma presenta una bella fusione tra algore contemporaneo (il fondo bianco illuminato dal basso, le pecore trasformate in mazzi di palloncini bianchi, le sfere bianche usate come punti d’appoggio) e tradizione, usando alcuni antichi fondali dipinti presenti nel tesoro del teatro; parimenti, il progetto luci è senz’altro ben pensato nel valorizzare gli stati d’animo dei personaggi. I tasti dolenti sono la regia e i costumi, operanti verso una diminutio francamente disorientante: la regia di Tommaso Franchin ignora totalmente il libretto e il suo portato politico e socio-culturale, facendo di Aminta ed Elisa due bon sauvage tristemente vicini agli idiot savant, di Alessandro una specie di bullo buono, poco savant e molto idiot, di Agenore e Tamiri non si occupa neppure (e per fortuna che gli interpreti sono in grado di dare delle caratterizzazioni convincenti per quanto convenzionali). I costumi di Giovanna Fiorentini seguono a ruota: Aminta sembra un clown, con una vistosa parrucca ricciuta e e una salopette multicolore, Elisa una sorta di elfo punk, Alessandro un teddy boy in pelle nera e ciuffo selvaggio, Agenore un nerd in tuta da operaio, Tamiri ancora non abbiamo capito cosa (letteralmente vestita a caso con una parrucca di dreadlocks). In generale tutti si comportano come affetti da qualche forma di ritardo cognitivo o della crescita, imitando i bambini e gli adolescenti, giocando e baciandosi tutto il tempo, anche senza un’apparente ragione, e in generale cercando un effetto grottesco o buffonesco (come la carriola guidata da Aminta o i pantaloni troppi corti di Agenore) che non riesce mai autenticamente divertente, quanto semplicemente degradante. Pensiamo che Mozart, specialmente cantato da un simile cast, meritasse di meglio – sebbene il (non molto) pubblico abbia mostrato di gradire, per la soddisfazione di tutti, o quasi. Foto Elisa Von Brockdorff

Categorie: Musica corale

Oper Frankfurt: “Lulu” di Alban Berg

gbopera - Lun, 11/11/2024 - 22:47
Oper Frankfurt, Stagione 2024/25 “LULU”
Opera in un prologo, tre atti e sette scene libretto proprio, da Erdgeist Die Büchse der Pandora di Frank Wedekind
Musica di Alban Berg Orchestrazione dell’ Atto III completata da  Friedrich Cerha (1979) Lulu BRENDA RAE Gräfin Geschwitz CLAUDIA MAHNKE Eine Theatergarderobiere Ein Gymnasiast Ein Groom BIANCA ANDREW Der Maler Freier THEO LEBOW Dr Schön Jack SIMON NEAL Alwa AJ GLUECKERT Der Tierbändiger Ein Athlet KIHWAN SIM Schigolch ALFRED REITER Der Prinz Der Kammerdiener Der Marquis MICHAEL PORTER Der Theaterdirektor Ein Diener BOZIDAR SMILJANIC Medizinalrat / Bankier / Professor ERIK VAN HEYNINGEN Eine Fünfzehnjährige ANNA NEKHAMES Ihre Mutter KATHARINA MAGIERA Die Kunstgewerblerin CECELIA HALL Der Journalist/ Ein Clown LEON TCHAKACHOW Anima EVIE POAROS Frankfurter Opern- und Museumsorchester Direttore Thomas Guggeis Regia Nadja Loschky Scene Katharina Schlipf Costumi Irina Spreckelmeyer Luci Jan Hartmann Drammaturgia Mareike Wink Frankfurt, 9 novembre 2024
L’Oper Frankfurt ha ottenuto per l’ottava volta il titolo di Theater des Jahres attribuito annualmente dalla rivista Opernwelt, considerato come il più significativo tra i riconoscimenti critici attribuiti nel mondo teatrale tedesco dalla stampa specializzata. Un premio sicuramente meritatissimo per un teatro che da anni si segnala come una tra le istituzioni culturali di punta in Germania, per la qualità e l’ originalità dei suoi programmi oltre che per il livello artistico sempre elevato delle esecuzioni costantemente mantenuto in questi ultimi anni dall’ Intendant Bernd Loebe. Il primo spettacolo importante del cartellone 2022/23 era il nuovo allestimento della Lulu di Alban Berg, un avvenimento culturale di primissimo piano, e io ho deciso di mettermi in viaggio per fare una delle mie periodiche visite al teatro della città assiana, un bell’ edificio moderno costruito ai primi degli anni Sessanta, con una sala comoda e acusticamente molto buona situata dietro un foyer chiuso al primo piano da una parete a vetri che costituisce la facciata. L’ultima opera di Alban Berg rimase incompiuta per la morte dell’ autore e per questo motivo la sua diffusione fu sporadica sino agli anni Settanta, quando Fredrich Cerha ottenne l’ accesso agli appunti lasciati dal musicista per completare l’ orchestrazione del terzo atto. Da allora le rappresentazioni si sono fatte più frequenti anche se limitate dall’ estrema difficoltà di un’ opera assai impegnativa da allestire. L’Oper Frankfurt ha affidato la messinscena a Nadja Loschky, quarantunenne regista nativa del Rheinland-Pfalz, attuale direttrice artistica del Teatro di Bielefield e sovrintendente designata a partire dalla prossima stagione. Visivamente si trattava di un allestimento basato su scene essenziali e una recitazione molto curata, in cui l’unica innovazione era costituita da una figurante muta che doppiava la protagonista nei momenti salienti dell’ azione scenica. Nell’ insieme si trattava di  una raffigurazione scenica molto gradevole, con una sua logica e un suo stile, molto efficace nel mettere in risalto i caratteri dell’ azione scenica. Di altissimo livello era la parte musicale guidata da Thomas Guggeis, che anche in questa occasione ha confermato le sue doti musicali e interpretative da vero direttore di classe internazionale, uno tra i massimi talenti emergenti nella nuova generazione di bacchette. In questa esecuzione assolutamente memorabile, il giovane Generalmusikdirektor del teatro assiano ha mostrato tutta la sua profonda penetrazione espressiva del mondo sonoro immaginato da Alban Berg. Tinte orchestrali lucide e taglienti, decisa sottolineatura delle lacerazioni armoniche squassanti che punteggiano il tessuto compositivo e una ritmica curata con grande attenzione ai dettagli erano le caratteristiche di una lettura che ha toccato punti di tensione teatrale letteralmente incandescente, anche per merito della prova superlativa di un’ orchestra letteralmente in stato di grazia. Brenda Rae, quarantaduenne soprano nativa del Wisconsin che da anni è una tra le cantanti favorite del pubblico di Frankfurt, conosce il ruolo di Lulu come poche altre artiste della nostra epoca e ne ha fatto una delle sue interpretazioni più famose per la perfetta immedesimazione e il carisma assoluto, da vera artista totale. Nel Koloraturlied la cantante americana ha sottolineato con una splendida, avvincente intensità di fraseggio tutte le sfumature del testo. Il tono disperato, lacerante trovato dalla Rae nella frase “Ich habe nie in der Welt etwas anderes scheinen wollen, als wofür man

mich genommen hat. Und man hat mich nie in der Welt für etwas anderes genommen als was ich bin” era davvero uno di quei dettagli interpretativi che si ricorderanno a lungo. Eccellenti erano anche la raffigurazioni sceniche e vocali di Claudia Mahnke, che ha interpretato la Contessa Geschwitz con una bella intensità di fraseggio e una notevole flessibilità nel seguire una scrittura vocale assai impegnativa, del baritono inglese Simon Neal che nel doppio ruolo del Dr.Schon e di Jack the Ripper ha messo in mostra una voce di timbro chiaro e buona proiezione, del tenore americano AJ Glueckert, che ha interpretato un appassionato e ardente Alwa, e di Alfred Reiter come Schigolch. Successo vibrante per tutti gli interpreti di una rappresentazione che sicuramente si colloca fra i migliori spettacoli della stagione in corso e che conferma il ruolo di punta raggiunto dall’ Oper Frankfurt, attualmente senza dubbio il migliore tra i teatri lirici tedeschi. Foto: Barbara Aumüller

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Milano, Teatro alla Scala”: “Das Rheingold” (“Der ring des Nibelungen”)

gbopera - Lun, 11/11/2024 - 20:30

Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2023/24
“DAS RHEINGOLD
Prologo in un atto su libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
Wotan MICHAEL VOLLE
Donner ANDRÈ SCHUEN
Froh SIYABONGA MAQUNGO
Loge NORBERT ERNST
Alberich ÓLAFUR SIGURDASON
Mime WOLFGANG ABLINGER-SPERRHACKE
Fasolt JONGMIN PARK
Fafner AIN ANGER
Fricka OKKA VON DER DAMERAU
Freia OLGA BESZMERTNA
Erda CHRISTA MAYER
Woglinde ANDREA CARROLL
Wellgunde SVETLINA STOYANOVA
Flosshilde VIRGINIE VERREZ
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Alexander Soddy
Regia David McVicar
Scene David McVicar e Hannah Postethwaite
Costumi Emma Kingsbury
Luci David Finn
Coreografie Gareth Mole
Video Katy Tucker
Milano, 10 novembre 2024
Un nuovo Ring è sempre un evento e il nuovo ciclo scaligero partito con spolvero di nomi altisonanti si è subito scontrato con la perdita di quella che doveva essere l’anima del progetto ovvero Christian Thielemann, costretto a rinunciare per motivi di salute. Una perdita molto pesante cui il teatro ha però saputo rispondere con prontezza dividendo le recite tra Simone Young cui è stata affidata la prima e le recite seguenti e Alexander Soddy, direttore inglese in forte ascesa cui sono state destinate le recite successive. Abbiamo ascoltato lo spettacolo con la direzione di Soddy e ne siamo stati pienamente convinti. Il direttore inglese è ancora giovane ma possiede una solidissima formazione alle spalle comprendente prove wagneriane su palcoscenici del peso di Vienna, Londra e Berlino fornisce una lettura di grande coerenza formale. Soddy opta per un suono ricco, morbido, avvolgente, di grande suggestione che trova nei momenti più luminosi il terreno ideale ma è capace di dare giusto rilievo anche ai momenti più drammatici – nella scena dei giganti ci sono lamine sonore che entrano nella pelle. In Soddy si apprezza una cura estrema per i dettagli, una capacità di evidenziare e valorizzare i singoli leitmotiv mantenendo sempre una rigorosa costruzione unitaria. Il debutto è stato certo molto positivo, si attende con interesse il prosieguo della Tetralogia. David McVicar firma uno spettacolo molto stratificato, apparentemente trasparente ma ricco di simboli e di rimandi. Il regista scozzese rinuncia ad attualizzazioni e forzature, non cerca abissi psicanalitici e per una volta assistiamo a un Ring forse non tradizionale ma che a quell’immaginario rimanda rileggendolo con gli occhi della fiaba e del fantasy (che in fondo proprio dal Ring trae le sue prime mosse).Il racconto è lineare, le scene hanno un sapore incantato – le grandi mani lapidee avvolte da una luce azzurra e acquatica sui cui giocano le Figlie del Reno, la semplice scalinata della Valhalla che le luci trasformano quasi in un corpo vivo ma in queste strutture semplici McVicar deposita stratificazioni di simboli e di rimandi lasciando allo spettatore il gioco di coglierli. La tradizionale estetica nibelungica è qui sostituita da richiami al teatro barocco, come se l’idea stessa di opera d’arte totale riportasse alla nascita stessa dell’opera. Gli abiti delle divinità richiamano quelli della storica trilogia monteverdiana di Ponnelle e la natura sessualmente ambigua, spesso ermafroditica, delle divinità norrene porta il regista a giocare sul tema. Esemplare la figura di Loge tenore in abiti femminili, essere sfuggente a ogni classificazione anche sessuale ma al contempo richiamo ai tenori en travesti cui il teatro barocco affidava spesso ruolo di subdole consigliere. Una sorta di Loge-Arnalta in cui il gioco dell’ambiguità e i richiami meta-teatrali si fondono in modo inscindibile. Molto bello il quadro di Nibelheim. Il rifiuto dell’Amore ha creato un mondo morto e quello che Alberich può creare è solo una falsa illusione di morte vivente. L’oro ha creato un gigantesco teschio-forno che divora tutto ciò che viene prodotto e le trasformazioni di Alberich altro non sono che scheletri in cui una falsa magia evoca fittiziamente la vita. Ancora un riferimento a Ponnelle si riconosce nei servi muti che non muovono gli oggetti di scena ma ne diventano essi stessi parte come il danzatore chiamato a impersonare l’Oro, figura immateriale coperta da una maschera aurea che ricorda le linee di Brancusi che nell’ultima scena ritornerà ingigantita in una sorta di sarcofago in cui va celata la figura di Freia mentre il danzatore ricompare con il volto coperto di sangue dove la maschera è stata strappata. Spettacolo quindi molto più ricco di quanto appaia di primo acchito cui si può forse imputare solo un lavoro attoriale un po’ generico. Nel cast emerge il Wotan vocalmente e scenicamente autorevole di Michael Volle. Voce ampia, possente, ricchissima di armonici, dal colore scuro e già da subito come venato di sentori tragici. Interprete di qualità superiore scava il fraseggio in ogni piega in un gioco di accenti e inflessioni perfettamente riuscito. Vocalmente sontuoso il Donner di Andrè Schuen capace di far brillare un ruolo in fondo secondario, Siyabonga Maqungo è un Froh dal timbro radioso e dal canto morbidissimo, elegante e facile sugli acuti. Interprete sensibile ma vocalmente un po’ spento il Loge di Norbert Ernst, sono comunque parse eccessive le contestazioni di cui è stato fatto oggetto. Voce un po’ chiara ma ampia e sonora e interpretazione nobilmente misurata per la Fricka di Okka von der Damerau mentre la Freia di Olga Bezsmertna sfoggia un timbro morbido e sensuale che ben si addice alla Dea dell’amore unito a una linea di grande musicalità. L’Erda di Christa Mayer manca forse di volume sui gravi ma la voce è molto bella e il canto ha un’intensità morbida e quasi materna non scevra di una sensualità che giustifica le preoccupazioni di Fricka. Di grande rilievo l’Alberich di Ólafur Sigurdarson. Voce di notevole ampiezza, robusta e ben controllata e interprete efficacie, di una malvagità meno plateale ma più sfumata e insidiosa. Ottimo il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke voce duttile e puntuale, perfettamente piegata al ruolo. Tra i giganti bene il Fasot di Jongmin Park voce ampia e morbida, ricca di armonici e dal canto rifinito mentre Ain Anger (Fafner) è sicuramente efficacie come interprete ma è aspro e faticoso nel canto. La Figlie del Reno cantano in modo squisito e con tutta la freschezza richiesta. Foto Brescia & Amisano

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Torino, Auditorium RAI: Constantinos Carydis & Karen Gomyo in concerto

gbopera - Lun, 11/11/2024 - 18:11

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Constantinos Carydis
Violino Karen Gomyo
Periklis Koukos (1960): Adagio per orchestra d’archi (1993); Leonard Bernstein: Serenade per violino, orchestra d’archi, arpa e percussioni dal Symposium di Platone; Charles Ives Hymn: Largo cantabile. S 84/1; Robert Schumann: Sinfonia n.3 in MI bemolle Maggiore op.97. “Renana”.
Torino, 8 novembre 2024.
La locandina annunciava una serata difficile, poco noti, ad essere ottimisti, gli esecutori ed altrettanto, ad eccezione della Renana di Schumann, i pezzi. Quando poi vuol andare storta ci si mette anche lo sciopero dei mezzi pubblici e la sala semi-vuota è ineluttabile. Tutti, ma tanti, una quarantina, gli archi sul palco per l’ineffabile Adagio di Periklis Koukos. Parrebbe questi essere un autore assai prolifico, da noi comunque non praticato e quindi sconosciuto. Purtroppo, i 5 minuti dell’Adagio non si mostrano sufficienti a promuoverne la fama. Direttore greco, autore greco, forse l’incontro era inevitabile. Tutto soffuso e tutto sfumato, piacevole e in conclusione: garbata musica d’altri tempi. Con sempre in formazione la quarantina di archi addizionati di due arpe e cinque postazioni di percussioni: batteria, campane, piatti, timpani e vibrafono; è l’insolita formazione che Leonard Bernstein, nel 1954, vuole per la sua Serenade per violino. Il pezzo è sostanzialmente un concerto per violino e orchestra d’archi in cinque tempi. La fantasia di Bernstein e i suoi “marchi”, echi delle opere passate e di quelle future, sono ben individuabili, compresi gli onnipresenti temi della West Side Story che verrà. L’atmosfera è quella “radical chic”, così fu definita da Tom Wolfe, creata dall’assembramento, soprattutto gayo, che si coagulava, in estate, su un’isola di Bernstein, nel Massachusetts, di fronte all’Atlantico. Il Simposio di Platone, e che altro poteva essere, era l’oggetto degli scambi di dottissime e amorose considerazioni tra i convenuti. Bernstein ne fa l’assai forzata trama della sua Serenata. Cinque protagonisti del dialogo platonico, vengono trasferiti nei titoli dei tempi della musica. L’atmosfera che si crea è serena, tranquilla e amorevole, gli archi vi sottolineano, con tranquilla passione, la partecipazione psicologica dell’autore con l’inevitabile coinvolgimento del pubblico. Il violino, un ignoto di nome e di data Stradivari, sotto le portentose dita dell’elegantissima ed affascinante Karem Gomyo, sostiene e riassume, con inaudito virtuosismo, lo spirito dell’opera. Le percussioni, che mai si sono udite così discrete in una composizione novecentesca, rafforzano la sensazione di scambi lontani nel tempo e nello spazio. Nell’adagio Agathon, quarto movimento, c’è poi una formidabile cadenza che, con il violino solista, ha fatto ammirare il meraviglioso timbro e la stupenda cavata di Luca Magariello, primo violoncello dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. L’esecuzione ha suscitato un’unanime approvazione, intensificata all’indirizzo della solista che, per i ripetuti battimani, ha concesso come fuori programma due languidi e appassionati Tanghi di Astor Piazzolla, sua specialità e opportuna promozione di un suo recente CD.
Dopo l’intervallo, l’orchestra si ricostituisce nei suoi ranghi completi e attacca i 3 minuti, ancora per soli archi, di Hymn di Charles Ives. Il pezzo è la citazione elaborata di due canti della chiesa presbiteriana, un tocca e fuggi cui, con grande sorpresa del pubblico, Carydis fa immediatamente seguire, senza pausa, le fanfare iniziali della Renana di Schumann. Non è chiara la ragione di questa scelta direttoriale, tanto valeva quindi, in qualche modo, anticiparla al pubblico. Visto che, tra gli sprovveduti in sala, si è naturalmente portati a credere che tra Ives e Schumann le affinità stilistiche e psicologiche scarseggino. La sinfonia, nelle mani del direttore greco, appare assolutamente scombinata, istintiva e impulsiva, carica comunque di gran fascino. Timbri e ritmi dominano, esaltando così le grandissime qualità dell’OSNRAI e dei suoi solisti, in specie legni e ottoni che rifulgono in tutta la loro chiara evidenza. Carydis su questo spirito istintivo fonda la sua interpretazione, così intenzionalmente dimentica e trascura come, nelle sinfonie del romantico Schumann, la “forma”, la logica, le simmetrie e le polifonie abbiano una fondamentale consistenza costruttiva. Pare che il direttore tenga, come unica traccia del lavoro, gli intemperati disorientamenti mentali di cui l’autore era vittima. A noi, che non la riteniamo una strada del tutto errata ma innovativa, suscita comunque un grande fascino. Il giudizio su Carydis deve necessariamente essere cautelativo, una sola serata e un solo Schumann non bastano a fissare un’opinione. Ci vorrebbero, a conferma dell’immediato innegabile fascino, delle riprove. Il pubblico, che pur si è mostrato non completamente convinto dalla validità di quanto ascoltato, non si è sottratto dall’applaudire. Foto Sergio Bertani

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Roma, Galleria Borghese: “Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione” dal 19 novmbre 2024 al 09 febbraio 2025

gbopera - Dom, 10/11/2024 - 17:43

Roma, Galleria Borghese
POESIA E PITTURA NEL SEICENTO. GIOVAN BATTISTA MARINO E LA MERAVIGLIOSA PASSIONE
Con Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione la mostra in programma dal 19 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, la Galleria Borghese esplora con un progetto inedito le connessioni tra poesia e pittura, sacro e profano, letteratura, arte e potere nel primo Seicento. Seguendo la traccia offerta dai testi di Giovan Battista Marino (1569-1625), la mostra disegna un percorso attraverso la grande arte rinascimentale e barocca, da Tiziano a Tintoretto, da Correggio ai Carracci, da Rubens a Poussin, celebrando il più grande poeta italiano del Seicento e la sua “meravigliosa” passione per la pittura. A cura di Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza, l’esposizione si concentra sulla stagione d’oro del Barocco in pittura e in letteratura, un periodo durante il quale il rapporto tra le due arti trova forse l’espressione più alta nella vita e nelle opere del poeta. Noto per il suo poema Adone (1623), incentrato sulla storia d’amore tra Adone e Venere, Giovan Battista Marino è infatti autore anche de La Galeria (1619), una raccolta di 624 componimenti poetici dedicati ad altrettante opere d’arte divise tra Pitture e ScultureFavole e Historie, realizzata con un gioco di rispecchiamenti e di continua sfida espressiva tra testi poetici e opere d’arte, reali o immaginarie. La vita e la produzione letteraria di Giovan Battista Marino sono strettamente legate ai maestri e ai capolavori dell’arte figurativa di primo Seicento, con i quali entra in contatto nei circoli intellettuali e nelle corti più importanti dell’epoca, quella di Matteo di Capua a Napoli, di papa Clemente VIII Aldobrandini a Roma, di Giovan Carlo Doria e Giovan Vincenzo Imperiali a Genova, di Carlo Emanuele I a Torino; in questi ambienti, al cospetto di ricche collezioni, il poeta stringe rapporti diretti con artisti come il Cavalier d’Arpino, Bernardo Castello, Caravaggio, Agostino Carracci, Ludovico Cigoli e Palma il Giovane. Nel 1615, perseguitato dall’Inquisizione, Giovan Battista Marino è costretto a lasciare l’Italia trovando rifugio a Parigi, alla corte di Luigi XIII e Maria de’ Medici, dove rimane fino al 1623: lì conosce Nicolas Poussin, per il quale scrive una sorta di lettera di presentazione che l’artista avrebbe portato con sé al suo arrivo a Roma. Con questo passaggio simbolico l’ultima fase della parabola del poeta si lega al decisivo approdo romano del grande pittore francese. Con la sua collezione unica di capolavori iniziata dal cardinale Scipione Borghese nei primi decenni del Seicento, la cura delle opere e l’allestimento scenografico prettamente barocco, la Galleria Borghese rappresenta il contesto ideale per rileggere la figura di Giovan Battista Marino poeta e il suo rapporto con le arti figurative, e di come nel Seicento queste ultime abbiano cominciato a influenzarsi vicendevolmente con la produzione letteraria. Con Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione la Galleria Borghese invita il pubblico a esplorare l’affascinante intreccio di parole e immagini che ammaliò Giovan Battista Marino, portando a riscoprire l’eredità seminale di un letterato che ha saputo intrecciare la bellezza della poesia e la seduzione dell’arte figurativa.

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Milano, Teatro Franco Parenti: “Lo zoo di vetro”

gbopera - Dom, 10/11/2024 - 17:10

Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2024/25
“LO ZOO DI VETRO”
di Tennessee Williams
Tom Wingfield FRANCESCO SFERRAZZA PAPA
Amanda Wingfield VALENTINA BARTOLO
Laura Wingfield ZOE SOLFERINO
Jim O’Connor LUCA CARBONE
Regia Luigi Siracusa
Scene e Costumi Francesco Esposito
Luci Pasquale Mari
Musiche Laurence Mazzoni
Produzione Teatro Franco Parenti/ Compagnia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”
Milano, 02 novembre 2024
Dall’anno passato il teatro “Franco Parenti” di Milano ha iniziato un focus sui principali testi di Tennessee Williams, e quest’anno ha deciso – dopo alcuni atti unici, in parte inediti – di produrre “Lo zoo di vetro”, uno dei più celebri testi del drammaturgo americano, oltre che quello che gli diede popolarità per la prima volta nel lontano 1944. Si tratta di un testo profondamente radicato nel suo contesto e metatesto, a causa soprattutto della conclamata radice autobiografica, e per questa ragione entriamo in sala pensando di sapere cosa aspettarci. Il primo merito di questa produzione è quello, invece, di offrirci una messa in scena davvero innovativa rispetto alla tradizione: una scena gelida e del tutto vuota, circondata da velluti blu e dominata unicamente da uno schermo in plexiglass con una citazione tratta dal testo stesso che non viene mai spostata; di primo acchito ci aspetteremmo una pièce attuale o qualcosa di sperimentale o postdrammatico, invece no – ed ecco la seconda sorpresa: tutto lo spettacolo si svolge esattamente in quello spazio con pochissimi impercettibili cambi – una tenda che si apre, una luce su una parete che simboleggia il padre fuggito – e, cosa più importante, funziona, da ogni punto di vista, estetico e drammaturgico. La scommessa di Luigi Siracusa di ridurre tutto alle dinamiche tra personaggi, azzerando il contesto del malconcio appartamento degli Wingfield, può dirsi ampiamente vinta: pur non essendoci, noi vediamo la cena, il divano, la scala, il telefono, grazie al preciso e instancabile coinvolgimento dei quattro interpreti; forse l’unico aspetto su cui si sarebbe potuto lavorare di più sono i costumi di Tom e Amanda (entrambi un po’ fuori contesto), mentre perfetti sono gli abiti di Laura, oltre che la sua postura, la sua camminata, l’espressione atona del viso, la voce sospesa tra l’infantile e il sognante – complimenti a Zoe Solferino, l’interprete senz’altro più apprezzata della recita. Anche la scelta di Valentina Bartolo come Amanda è senz’altro disorientante all’inizio, poiché siamo abituati a un’Amanda vecchia signora del Sud, coi suoi vezzi e i suoi manierismi, mentre la Bartolo è una donna bella e schietta, così disinvolta nella sua fisicità; eppure con l’andar del tempo la vediamo, Amanda Wingfield, emergere nitida e nuova, ma sempre lei, e ci accorgiamo che un grande personaggio non ha bisogno di tutto il bagaglio di mossettine e toni rétro che immaginiamo: questa Amanda è viscerale, disperata, e nasconde la tragedia di tutta la sua vita proprio dietro l’ostentata eleganza di un completo pantalone e di una audace chioma biondo fragola – non siamo più sicuri, adesso, di rivolere la petulante creatura menopausale di un tempo. Le interpretazioni maschili, ancorché molto efficaci, si muovono su un binario assolutamente più tradizionale: Luca Carbone è un Jim O’Connor da copione, stolido e di buon cuore, incapace di prevedere la tempesta in cui si sta gettando – e qui, probabilmente, si sarebbe potuto produrre una resa più a 360° del personaggio: egli davvero non sa di piacere a Laura? Davvero non sa cosa significhi il loro bacio? Mentre Francesco Sferrazza Papa è un Tom accoratissimo, di grande asciuttezza e misura – riduce al minimo l’isteria del giovane turbolento, senza per questo risultare poco credibile, anzi: incarna probabilmente il vero Tennessee Williams (il cui vero nome era proprio Thomas), che pagò il manicomio alla sorella tutta la vita senza andare a trovarla praticamente mai, incapace di gestire quel buco nero emotivo che ha risucchiato la sua sfera dei sentimenti, e per il quale si gettò a capofitto in un altro buco nero, quello della bottiglia. Sferrazza Papa è bello il giusto, bravo il giusto, non versa una lacrima per la sorella, né si abbandona a melancolie d’antan quando incarna la voce narrante. Questi quattro personaggi si muovono come fantasmi bergmaniani sulla scena algida di Francesco Esposito, ma vengono incorniciati alla perfezione soprattutto dalle luci di Pasquale Mari, il cui freddo artico inizia a scaldarsi durante il dialogo di Jim e Laura, per esplodere in un prisma multicolore proprio sul finale, a circondare una Laura ormai non più reale, ma essa stessa creatura vitrea nel ricordo del fratello (e proprio “Portrait of a young girl in glass” è il titolo del suo racconto da cui Williams trasse il dramma). Non c’è presente in cui Tom sia in grado di vivere, ma come un Leopardi della Rust Belt riesce ad emozionarsi per l’affetto della sorella solo dopo averla perduta – senza intento morale, senza catechesi sociologica, la volontà del dramma è solo portare a galla, nudo, il dolore inaffrontabile di una paralisi che sfocia nella colpa, di un abbandono che tuttavia, se trascolorato nel ricordo, potrebbe fare meno male. Condizionale d’obbligo. Foto Manuela Giusto

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Ventiquattresima domenica dopo la Trinità

gbopera - Dom, 10/11/2024 - 01:36

Seconda, ed ultima, Cantata per la ventiquattresima Domenica dopo la Trinità è Ach wie flüchtig, ach wie nichtig BWV 26 eseguita la prima volta a Lipsia il 19 novembre 1724. Il testo dell’Inno originale di tredici strofe, del 1652   di Michael Franck (1609-1667) risulta  qui sensibilmente condensato. Nel primo recitativo (Nr.3), ad esempio, racchiude il contenuto delle strofe dal 3 al 9. Il concetto dominante espresso nella Cantata è ancora quello della morte e della caducità delle cose umane. Bach ancora una volta si destreggia abilmente nella rappresentazione di questo pensiero mediante un “cursus” rapido e fluidissimo all’apparato vocale e strumentale già nel Coro iniziale (Nr.1) e ancor più nella prima aria tripartita (Nr.2) cantata dal tenore, con due strumenti concertanti, un flauto traverso e un violino impegnati in una autentica gara di destrezza e virtuosismo con il tenore impegnato in agili vocalizzi su parole chiave come “rapidi” e “le ore fuggono”. Troviamo poi 3 oboi (già presenti nel coro iniziale) che caratterizzano l’aria del basso (Nr.4) in tempo di “bourrée” quasi una inquietante “danza della morte” nella quale si condanna questo  mondo insensato compiuta con il concorso dell’allucinante simbologia che la cultura medievale aveva ideato per rendere più cupo e perverso il senso della morte. Capovolgendo i termini di questo dramma della morte, Bach ci consegna invece un ritratto in “stile galante”, quasi riconoscendo in essa, nella morte, i connotati della dolcezza.
Nr.1 – Coro
Ah, quanto fugace, quanto effimera
è la vita umana!
Come una nebbia che subito si alza
e altrettanto subito svanisce,
così, guardate, è la nostra vita!
Nr.2 – Aria (Tenore)
Tanto rapidi come i getti di una cascata,
così fluiscono i giorni della nostra vita.
Il tempo passa, le ore fuggono,
come gocce di pioggia che presto si disperdono
quando precipitano nell’abisso.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
La gioia si trasforma in tristezza,
la bellezza appassisce come un fiore,
la più grande forza si indebolisce,
la fortuna cambia col passare del tempo,
onore e gloria finiscono presto,
la scienza e tutte le creazioni dell’uomo
scompaiono infine nella tomba.
Nr.4 – Aria (Basso)
Attaccare il proprio cuore ai beni terreni
è una tentazione di questo mondo insensato.
Come presto si infiammano i tizzoni ardenti,
come fluiscono via le acque impetuose,
così tutte le cose si distruggono e vanno in rovina.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Alta magnificenza e splendore
sono infine oscurate dalla notte della morte.
Chi è venerato come un dio
non sfugge alla polvere e alla cenere,
e quando suona l’ultima ora
in cui viene sepolto nella terra
e crollano le fondamenta della sua grandezza,
il suo ricordo sarà completamente cancellato.
Nr.6 – Corale
Ah, quanto fugaci, quanto effimere
sono le cose umane!
Tutto, tutto ciò che vediamo
dovrà cadere e scomparire.
Ma chi teme Dio vivrà in eterno.
Traduzione di Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Ach wie flüchtig, ach wie nichtig” BWV 26

 

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La vera storia delle vittime di Pompei: nuove scoperte scientifiche smentiscono i luoghi comuni

gbopera - Sab, 09/11/2024 - 19:36

Pompei, Parco Archeologico
Il DNA svela le origini e i legami delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, ribaltando vecchie convinzioni e rivelando una Pompei multietnica e cosmopolita
L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. non ha soltanto lasciato un’impronta indelebile sulla storia del mondo antico, ma ha anche congelato un istante di vita, tragico e toccante, che le generazioni successive hanno cercato di decifrare. Grazie a studi innovativi, come quello recentemente pubblicato su Current Biology, stiamo riscoprendo non solo le vite degli abitanti di Pompei, ma anche la complessità delle loro identità e dei legami che un tempo sembravano evidenti, ma che ora si rivelano molto più sfumati e complessi. Ogni elemento della storia è un segno, un codice che richiede una nuova interpretazione alla luce dei dati scientifici più recenti. Il nuovo studio, frutto della collaborazione tra le università di Harvard, Firenze e altri istituti europei e statunitensi, ha analizzato il DNA delle ossa ritrovate all’interno dei celebri calchi delle vittime pompeiane. I calchi, a lungo intesi come simboli pietrificati di una tragedia umana, si rivelano ora essere non solo contenitori di resti fisici, ma anche scrigni di informazioni capaci di sovvertire narrazioni consolidate. Non più semplici immagini romantiche del passato, i calchi ci spingono verso una lettura più ricca e stratificata. I calchi delle vittime non sono corpi pietrificati, come spesso si crede, ma rappresentazioni ottenute versando gesso nelle cavità lasciate dai corpi nello strato di pomici e cenere. Questo processo, inventato da Giuseppe Fiorelli nel XIX secolo, ha permesso di catturare le pose finali delle vittime, congelando per sempre un attimo di fuga, di disperazione, o forse di rassegnazione. Tuttavia, è essenziale ricordare che questi calchi sono il prodotto di un’epoca in cui la metodologia archeologica era ancora in fase embrionale: molte pose sono state rielaborate per enfatizzare la drammaticità, costruendo storie più vicine al melodramma che alla verità storica. Gli studiosi ottocenteschi, più attenti a stupire il pubblico che a perseguire un rigoroso metodo scientifico, hanno creato narrazioni attorno ai calchi, conferendo a queste figure mute ruoli e relazioni che, alla luce delle nuove evidenze scientifiche, risultano essere costruzioni arbitrarie. La scienza moderna, però, ci offre un nuovo strumento per avvicinarci alla realtà storica: il DNA. Attraverso l’analisi genetica, possiamo scoprire dettagli sorprendenti che ci aiutano a rivedere radicalmente il passato. Lo studio del DNA ha portato alla luce dati che stravolgono molte delle convinzioni tramandate fino a oggi. Un esempio emblematico è il gruppo ritrovato nella cosiddetta “Casa del bracciale d’oro”. Nel 1974, quattro individui vennero trovati insieme: due adulti e due bambini, con uno dei piccoli apparentemente in braccio a uno degli adulti, che indossava un prezioso bracciale d’oro. La ricchezza dell’ornamento e la disposizione dei corpi avevano portato gli archeologi a ipotizzare che si trattasse di una famiglia. Tuttavia, l’analisi genetica ha smentito tale interpretazione: non solo non c’era alcun legame familiare tra i quattro, ma l’individuo con il bracciale – creduto essere la madre – era in realtà un uomo. Questo episodio illustra come il passato possa spesso deluderci nelle nostre aspettative. La figura del padre protettivo o della madre affettuosa si dissolve sotto il rigore della scienza, lasciandoci con un mosaico di persone unite non da legami di sangue, ma da circostanze fortuite e imprevedibili. La bellezza di questa complessità risiede proprio nell’impossibilità di ridurre le vite umane a semplici schemi predefiniti. Le evidenze archeogenetiche ci mostrano come spesso le relazioni tra gli individui siano state mal interpretate, basate su indizi visivi e stereotipi culturali piuttosto che su dati scientifici solidi. Allo stesso modo, i ritrovamenti della “Casa del criptoportico” offrono un ulteriore esempio di quanto le apparenze possano ingannare. Due individui, ritrovati abbracciati, sono stati descritti come due sorelle. Ma anche qui il DNA ha svelato una realtà diversa: uno dei due individui era un uomo, mentre l’identità biologica dell’altro non è stata determinata con certezza. Questo dato, lungi dal ridurre l’impatto emotivo della scoperta, ci ricorda come la nostra visione del passato sia sempre parziale e frammentaria, soggetta a continue revisioni. Questo abbraccio potrebbe non rappresentare un legame familiare, ma un tentativo di conforto reciproco di fronte alla catastrofe imminente, lasciandoci con una scena ancora più umana e toccante. Un aspetto particolarmente affascinante dello studio è la possibilità di ricostruire l’origine etnica di alcune delle vittime. Le analisi del DNA hanno dimostrato che gli individui della “Casa del bracciale d’oro” avevano legami genetici con le popolazioni dell’Africa settentrionale e del Mediterraneo orientale, un dato che conferma il cosmopolitismo dell’Impero Romano nel I secolo d.C. Pompei, lungi dall’essere una città isolata, era un crogiolo di culture, etnie e identità diverse, un microcosmo dell’impero stesso. Questa scoperta mette in luce l’estrema mobilità delle popolazioni romane, rendendo visibile quanto la società dell’epoca fosse interconnessa su vasta scala. L’individuo maschile col bracciale d’oro aveva tratti genetici compatibili con le popolazioni del Nordafrica, mentre l’individuo abbracciato della “Casa del criptoportico” mostrava segni di un’origine mediorientale. Questo elemento ci consente di immaginare Pompei non come un mondo cristallizzato nel tempo, ma come una realtà dinamica, pulsante di vita e scambi culturali. Gli scambi commerciali, le migrazioni, e le rotte mercantili del Mediterraneo avevano fatto sì che uomini e donne di diverse origini giungessero a Pompei, stabilendo legami, intrattenendo rapporti economici e culturali, integrandosi in un tessuto sociale variegato. Il DNA antico ci fornisce la prova tangibile di queste connessioni. Esso ci mostra come i cittadini di Pompei potessero avere ascendenze che attraversavano tutto il bacino del Mediterraneo, mettendo in crisi l’idea di una città omogenea e offrendo invece l’immagine di una comunità multietnica. Le storie di questi individui non erano isolate, ma parte di una narrazione più ampia che abbracciava le rotte del commercio e dell’espansione imperiale. Il loro sangue, mescolato con quello di popoli diversi, rappresenta una testimonianza dell’integrazione che caratterizzava la vita all’interno dell’impero. Il passato non è mai univoco e definitivo. Ogni scoperta può cambiare la configurazione dell’intero mosaico, ogni dato genetico apre nuovi orizzonti interpretativi. 

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