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Milano, Teatro alla Scala: “Giuseppe Verdi: “Falstaff”

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 15:10

Milano, Teatro alla Scala, stagione lirica 2024/25
“FALSTAFF
Commedia lirica in tre atti su libretto di Arrigo Boito da Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Sir John Falstaff AMBROGIO MAESTRI
Ford LUCA MICHELETTI
Fenton JUAN FRANCISCO GATELL
Dott. Cajus ANTONINO SIRAGUSA
Bardolfo CHRISTIAN COLLIA
Pistola MARCO SPOTTI
Mrs Alice Ford ROSA FEOLA
Nannetta ROSALIA CID
Mrs Quickly MARIANNA PIZZOLATO
Mrs Meg Page MARTINA BELLI
L’Oste della Giarrettiera MAURO BARBIERO
Robin LORENZO FORTE
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Giorgio Strehler
Ripresa da Marina Bianchi
Scene e costumi Ezio Frigerio
Luci Marco Filibeck
Coreografia Anna Maria Prina
Milano,  26 gennaio 2025
La Scala prosigue l’attività di ripresa dei propri allestimenti storici, dopo i titoli mozartiani delle scorse stagioni l’ideale omaggio a Strehler riporta in scena il “Falstaff” nato nel 1980 e ripreso per l’ultima volta nel 2004. Lo spettacolo – ripreso con intelligenza e rispetto da Marina Bianchi – resta un incanto poetico che affascina gli occhi e commuovo l’anima. La vicenda trasposta in un Cinquecento padano tra cascine avvolte nella nebbia, notti lattiginose e architetture laterizie popolate da figure direttamente uscite dai pennelli di un Campi o di un Savoldo suscita ancora intatta la sua meraviglia. E’ un “Falstaff” avvolto di atmosfere melanconiche, di un calore autunnale che esprime perfettamente lo spirito di quest’opera sospesa tra melanconia e bonaria ironia e quando alla fine le luci della Scala si accendo di colpo a far tutti partecipi di quel “Tutti gabbati” che in fondo è la cifra le destino ultimo di ciascuno di noi l’emozione lascia ancora stupiti dopo tanto tempo così come immutato è il senso di umana fratellanza che in quel momento si sprigiona. La direzione di Daniele Gatti è in perfetta sintonia con lo spettacolo. Tempi ampi, distesi e colori orchestrali caldi e autunnali sono la cifra stilistica dominante nella lettura di Gatti. Una direzione dal sapore elegiaco, di atmosfere quasi gozzaniane nell’esaltare gli aspetti più malinconici dell’opera e dove il sorriso si vela di bonaria ironia. Curatissimi le dinamiche e i dettagli timbrici e cromatici, esplode negli archi tesi al parossismo nella caccia infernale di Ford e si dipana in trine argentee e quasi impalpabili nella scena delle fate. Inutile dire che i momenti più lirici – dall’abbandono carica di sensualità dei duetti degli innamorati alle sonorità misteriose e magiche del preludio alla scena seconda del terzo atto – trovano la loro piena esaltazione ma non manca d’ironia e di leggerezza quando richiesta anche se resta sempre un tocco più delicato come se un’ombra sfiorasse anche il riso più sincero. Una concertazione “personale” ma che abbiamo particolarmente apprezzato non solo per aver proposto una visione diversa dell’opera ma soprattutto per una perfetta sintonia con lo spettacolo di cui condivide perfettamente colori e atmosfera. Ambrogio Maestri di Falstaff possiede ogni fibra, forse nessuno nei nostri tempi è giunto a una così completa identificazione con il personaggio. Sul piano vocale la prestazione ha lasciato adito a qualche dubbio. La voce è sempre solida e robusta, capace di dominare i vasti spazi della sala del Piermarini di contro nei falsetti, nelle mezzevoci si è notata qualche durezza, qualche segno di fatica che sembrava tradire una condizione di salute forse non ottimale. Difetti che la pienezza della cavata e soprattutto l’irresistibile personalità scenica e interpretativa compensano ampiamente ma che vanno ugualmente rilevati. Nulla da eccepire invece sul resto della compagnia. Rosa Feola ha forse una voce un po’ leggera per Alice cui manca anche un po’ di maturità timbrica ma canta in modo semplicemente squisito e l’ottima proiezione fa correre la voce con sicurezza nei vasti spazi scaligeri, la sua lettura molto seria e contenuta del personaggio si sposa alla perfezione con regia e direzione. Luca Micheletti è un Ford di lusso. Voce bella, potente, ricca di armonici e non comuni qualità interpretative e attoriali. La coppia dei giovani innamorati ha tutta l’incantevole freschezza richiesta. Voci chiare e luminose quelle di Rosalia Cid e Juan Francisco Gatell che si adattano alla perfezione ai rispettivi ruoli di cui possiedono anche ideale fisicità. In particolare la Cid, neppure trentenne, mostra già qualità non trascurabile e merita di essere seguita con attenzione. Antonino Siragusa è un dottor Cajus magistrale. Semplicemente perfetto sia sul piano vocale – un vero lusso una voce di questa qualità per la parte – sia interpretativo. Marianna Pizzolato è una Quickly splendidamente cantata, la voce è molto bella e l’emissione morbida e rotonda. La linea di canto è elegante senza cadute di stile e si riconosce la tempra da autentica belcantista e scenicamente il personaggio è di grande comunicativa. Martina Belli è una Meg dalla voce scura e profonda oltre che dall’innegabile presenza scenica che ben giustifica gli interessi di Falstaff. Marco Spotti (Pistola) e Christian Collia (Bardolfo) funzionano molto bene nell’economia complessiva. Una nota particolare per il piccolo Lorenzo Forte nei panni di Robin. Simpatico e spigliato nel tratteggiare un piccolo Falstaff che del padrone imita vestiti, pose e vezzi come gli Eroti che nella pittura romana – e poi rinascimentale – imitavano con la simpatica goffaggine dell’infanzia in modi degli eroi e degli Dei. Con un simile erede il vecchio John può stare tranquillo, qualcuno continuerà a far trillare il mondo dopo il lui.  Foto Brescia & Amisano

Categorie: Musica corale

Saverio Mercadante (1795 -1870): “Il proscritto” (1842)

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 14:06

Dramma lirico in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano. Ramón Vagas (Giorgio Argyil), Iván Ayón-Rivas (Arturo Murray), Irene Roberts (Malvina Douglas), Elizabeth DeShong (Odoardo Douglas), Sally Matthews (Anna Ruthven), Goderdzi Janelidze (Guglielmo Ruthven), Susana Gaspar (Clara), Alessandro Fischer (Osvaldo), Niall Anderson (un ufficiale di Cromwell). Opera Rara Chorus, Stephen Harris (maestro del coro), Britten Sinfonia, Carlo Rizzi (direttore). Registrazione: Londra, Barbarican Center, giugno 2022, 2 CD Opera Rara ORC62
Saverio Mercandante è sempre stata figura difficile da classificare nella storia del melodramma italiano. Forse il maggior operista della generazione compresa tra i Dioscuri e Verdi ma al contempo sempre un passo indietro, sempre un po’ al traino della situazione. Questo è il caso anche de “Il proscritto” andato in scena a Napoli nel 1842 con tiepida accoglienza e in seguito dimenticato.
Recuperato il manoscritto il titolo ha rivisto la luce a Londra nel 2022 – esecuzione in forma di concerto a Barbarican Center – e trova ora la via del disco – grazie ad Opera Rara – sempre sotto la guida di Carlo Rizzi.
L’opera tratta da un dramma di Frédéric Souilé e Timothée Dehay s’ispirava a un racconto popolare che si diceva avvenuto nel Delfinato durante le guerre napoleoniche. Cammarano per evitare problemi di censura – l’ambientazione rivoluzionaria era sempre guardata con sospetto dai censori italiani – sposta il tutto nella Scozia del XVII secolo al tempo della Rivoluzione inglese resa di moda da “I puritani” di Bellini. Purtroppo il libretto di Cammarano – qui privo di quel controllo che sarà fondamentale per la riuscita dei testi verdiani – appare uno degli elementi più deboli, molto dispersivo e superficiale nella caratterizzazione dei personaggi.
La musica di Mercadante si muove tra tradizione e innovazione. I riferimenti alla grande stagione – ormai tramontante – del Belcanto italiano sono palesi ma si riconosce anche una volontà di superare un sistema formale troppo rigido. Un superamento che avviene attraverso lo studio dell’opera francese e in particolar modo di Meyerbeer da cui derivano sia l’uso di blocchi formali più ampi sia la maggior attenzione alla scrittura orchestrale.
Quest’ultima trova interprete attento e sensibile in Rizzi che fornisce una prestazione decisamente convincente. Grande cura è data al colore orchestrale ricco ma mai sovraccarico così come attende e curate sono le dinamiche con una ritmica serrata e molto teatrale ma attenta alle ragioni del canto e non eccessivamente forzata. Fortuna non da poco il poter disporre di un complesso della qualità della Britten Sinfonia che suona in modo magnifico e risponde con naturalezza assoluta alle richieste direttoriali. L’Opera Rara Chorus forse non brilla per chiarezza di dizione ma si fa apprezzare per una ricchezza di suono e per una compattezza veramente non comuni.
La compagnia di canto vede protagonisti i due tenori. I due sposi di Malvina, Giorgio già creduto morto e ora ricomparso e il giovane Arturo, sposato per necessità politiche ma al quale la donna si è ormai affezionata sono, infatti, entrambi scritti per voce di tenore. Più scura e baritonale quella di Giorgio, che si esprime con ampi e intensi declamati più acuta e squillante quella del giovane Arturo. La contrapposizione è quella che ritroviamo in tante opere serie rossiniane anche se l’uso drammaturgico è nel complesso originale.

Ritornando a un repertorio a lui più congeniale Ramón Vargas ritrova una freschezza vocale che negli ultimi anni sembrava essersi appannata a causa di un repertorio fin troppo impegnativo. La voce qui appare bella e sicura, l’emissione nel compresso ben controllata e la maturità interpretativa gli permette di dare il giusto risalto ai declamati drammatici che caratterizzano la parte. Gli anni non sono passati senza lasciare traccia e seppur ancor notevole la voce presenta qualche smagliatura, qualche suono più roco e indurito che però non guasta in un personaggio così provato e sofferto.
Al suo fianco è tutta la baldanza giovanile di Iván Ayón-Rivas. Timbro luminoso e squillante, acuti facilissimi e accento di aulica nobiltà. Le due voci tenorili risultano quindi ben differenziate così da poter dare il giusto contrasto nel grande duetto della sfida, ancora palesemente modellato su quello dell’”Otello” rossiniano.
Un gradino più sotto la Malvina di Irene Robets non tanto per la voce abbastanza prosaica anche se corretta nel canto quanto per un’interpretazione troppo compassata in cui si fatica a trovare traccia delle lacerazioni che straziano l’animo dell’eroina fino a spingerla al suicidio.
Il fratello di Malvina Odoardo ha un ruolo drammaturgico marginale ma Mercandante gli da grande rilevanza musicale quasi a farne il proprio Maffio Orsini e bravissima è Elizabeth DeShong, mezzosoprano dalla voce davvero bella, morbida e ricchissima di armonici unita a un canto elegante e molto musicale.
Anna, la perfida madre di Malvina, è cantata da Sally Matthews che purtroppo soffre di una pronuncia precaria e interpretativamente è anonima quanto la figlia; meglio Goderdzi Janelidze nell’implacabile fermezza di Guglielmo. Buone le parti di fianco e come sempre impeccabile nei prodotti Opera Rara la qualità della registrazione.

Categorie: Musica corale

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni: “Giulio Cesare”

gbopera - Mar, 28/01/2025 - 14:25

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2024-2025
GIULIO CESARE
Dramma musicale in tre atti su libretto di Nicola Francesco Haym da Giulio Cesare in Egitto di Giacomo Francesco Bussani
Musica di Georg Friedrich Händel
Giulio Cesare RAFFAELE PE
Cleopatra MARIE LYS
Achilla DAVIDE GIANGREGORIO
Cornelia DELPHINE GALOU
Tolomeo FILIPPO MINECCIA
Sesto FEDERICO FIORIO
Nireno ANDREA GAVAGNIN
Curio CLEMENTE ANTONIO DAILOTTI
Accademia Bizantina
Direttore al clavicembalo Ottavio Dantone
Regia Chiara Muti
Scene Alessandro Camera
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Vincent Longuemare
Nuovo allestimento in Coproduzione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Teatro del Giglio di Lucca, Fondazione Haydn di Bolzano e Trento
Modena, 26 gennaio 2025
Come suonavano le voci di quei mitici castrati che facevano impazzire il Settecento? Bisognerebbe averli sentiti. Ma la verità, è noto, abbonda nelle tasche del melomane, sempre pronto a sfoderare la propria su ogni questione. Controtenori, falsettisti, sopranisti, contraltisti: volano termini diversi per indicare gli uomini che cantano nei registri più acuti. Dalla loro, parecchi punti a favore ne giustificano il grande successo degli ultimi anni: sono giovani, spesso belli, talvolta prestanti, credibili in scena (più di una donna en travesti) e musicisti preparatissimi, colti e raffinati. Per forza, perché hanno a che fare sempre con rarità e riscoperte. Rarità e riscoperte che non hanno quella palla al piede della tradizione: interpreti e pubblico sono vergini e, spesso e volentieri, anche giovani. E, si sa, quel disinvolto gioco di generi e sessi solletica le moderne sensibilità facendo precipitare l’appeal dei bacchettoni romantici. Limiti? La voce maschile a quelle altezze resta un po’ bianchiccia, il timbro come slavato, il volume non poderoso. Anche nei casi migliori, come qui. Raffaele Pe, il protagonista, fa i miracoli per garantire omogeneità su tutta l’estensione e con grande abilità dà spessore e slancio all’emissione. Filippo Mineccia, il co-protagonista (Cesare dà il nome all’opera, ma Tolomeo non è meno centrale nell’azione), non può certo contare sulla stessa omogeneità, anzi ci gioca espressivamente, e compensa con esuberante scioltezza scenica. Dei tre, Federico Fiorio (Sesto), ha forse il timbro più corposo e bello; e insieme il più delicato, però. Girandole di note, fuochi d’artificio, ghirigori e infiorettature: niente li spaventa, naturalmente. Ma accenti di un’espressività più, se vogliamo, sentimentale, non mancano: per esempio, nel bel duetto di Sesto e Cornelia. Delphine Galou (Cornelia) è, come si dice, una specialista, che usa la duttile voce come uno strumento, rifuggendo a qualunque costo il vibrato e asciugando quanto più possibile il suono. Se così canta la romana, l’egiziana invece, Marie Lys (Cleopatra), non disdegna nessun elemento di seduzione vocale, e si cura di riempire, tondeggiare, ammorbidire, sfoggiando senza tanti imbarazzi il bel timbro corposo (ma anche le gambe). Davide Giangregorio (Achilla) alleggerisce garbatamente la sua voce di basso per salvaguardare l’unità stilistica col resto del cast, canta benissimo, e alla fine dà anche una significativa prova attoriale con la sua morte: dove la recitazione è al suo posto, ovvero nel canto e non sulla scena. Completano ineccepibili il cast il Nireno di Andrea Gavagnin e il Curio di Clemente Antonio Daliotti. Ottavio Dantone con la sua Accademia Bizantina è un punto di riferimento per questo repertorio: organico asciuttissimo, sonorità leggere, svolazzanti e taglienti. Nessuno vuol “wagnerizzare”, per carità, ma le barbare stelle non vogliano che l’esecuzione storicamente informata si rivolga ad un pubblico stoicamente formato: che sa già di dover battere i denti su un suono ridotto all’osso. Chiara Muti firma questo bello spettacolone, one perché tanto lungo quanto ricco. Con l’impianto scenico di Alessandro Camera, sobrio e deliberatamente passatista, fra il pvc molto Strehler-Frigerio e il dorato faccione di Cesare, gigantesco à la De Ana, e affettato come quelli di Abu Simbel durante il trasloco. Dentro ci mette di tutto, dalle gags più classiche (per esempio il calice avvelenato fumante, come quello, per chi se lo ricorda, del paggio ghignante nel Boccanegra di Strehler) fino al farfallone un po’ Oberon, ma lo fa sempre con un certo gusto. Tanto che perfino la torta in faccia a Tolomeo riesce a non essere fuori luogo. Così Cesare conquistò le romantiche province dell’Emilia. Ma il melomane-Tantalo che, in questo fine settimana di tentazioni, attratto anche dai Capuleti e Montecchi a Reggio Emilia, dalla Fanciulla del West a Bologna e dalla Giovanna d’Arco a Parma, se lo fosse perso, questo Giulio Cesare lo può ancora recuperare su YouTube nella diretta ravennate curata da Opera Streaming.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Torlonia: “Elena” dal 30 gennaio al 02 febbraio 2025

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 18:13

Roma, Teatro Torlonia
ELENA
di Ghiannis Ritsos
traduzione Nicola Crocetti
diretto e interpretato da Elena Arvigo
e con la partecipazione di Monica Santoro – flauto traverso e canto
Elena è un poemetto scritto da Ritsos, ispirato al personaggio mitico di Elena, regina di Sparta, icona dell’eterno femminino e fa parte della raccolta Quarta dimensione, il capolavoro  del poeta greco Ghianni Ritsos, scritto durante i lunghi anni di detenzione nei campi di  concentramento del regime militare dei colonnelli, che con un colpo di Stato prese il potere in Grecia  dal 1967 al 1974. Attraverso la metafora della mitologia, Ritsos denunciò la tragica realtà di un Paese schiacciato dalla morsa dei colonnelli per ben 7 anni, e riuscì a eludere la censura. Quarta dimensione è un testo sulla guerra e sulla solitudine. La forma scelta da Ritsos è quella del monologo in versi rivolto ad un personaggio che resta una muta presenza sulla scena. Elena vecchissima, dall’età indefinibile, immersa nei ricordi, che si confessa tra memoria e disincanto a un visitatore silenzioso (forse «figura» dello stesso poeta),  riflette sul passare del tempo che tutto travolge; rievoca disingannata e lucidissima l’antico splendore. Ritsos attraverso il suo teatro-poesia che reincarna i miti, libera Elena dal suo stesso mito e concede alla propria amata attrice la possibilità di essere finalmente un diverso personaggio: una donna. Chi è Elena? La regina di Sparta? Perché ci fu la guerra di Troia? La guerra è forse sempre per un inganno? Chi sono gli eroi? E dopo la guerra, cosa rimane? In questo viaggio ogni nuovo pensiero mette in discussione il precedente. Elena è il racconto di un viaggio nel tempo che solo il mito ci concede di fare e rifare per rinnovare il senso e la coscienza di ciò che fu. Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Brancaccio: “Mare Fuori: il musical” dal 31 gennaio al 02 febbraio 2025

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 18:04

Roma, Teatro Brancaccio
MARE FUORI: IL MUSICAL
scritto da Cristiana Farina, Maurizio Careddu, Alessandro Siani
regia di Alessandro Siani
con Andrea Sannino, Maria Esposito, Antonio Orefice, Mattia Zenzola, Giuseppe Pirozzi, Enrico Tijani, Antonio D’Aquino, Giulia Luzi, Carmen Pommella, Emanuele Palumbo, Leandro Amato, Antonio Rocco, Christian Roberto, Giulia Molino, Bianca Moccia, Angelo Caianiello, Pasquale Brunetti, Yuri Pascale Langer, Sveva Petruzzellis, Anna Capasso, Fabio Alterio, Benedetta Vari
direzione musicale Adriano Pennino
coreografie Marcello e Mommo Sacchetta
aiuto regia Pino L’Abbate
scenografo Roberto Crea
light design Carlo Pastore
costumi Eleonora Rella e Lisa Casillo
actor coach Gennaro Silvestro
vocal and song director Mauro Spenillo
casting director Marita D’Elia
L’istituto di detenzione minorile è una bolla in cui “ragazzi interrotti” hanno la possibilità di capire chi sono e cosa vogliono al di là di cosa sono stati fuori da quelle mura. è una parentesi di sospensione in cui hanno la possibilità di navigare nel loro mare interiore, fare nuove scoperte e conoscere nuovi mondi. luoghi che sinora non hanno mai esplorato. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Novara, Teatro Carlo Coccia: “Otello”

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 16:30

Novara, Teatro Carlo Coccia, Stagione lirica 2025
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti di Arrigo Boito dall’omonima tragedia di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Otello ROBERTO ARONICA
Jago ANGELO VECCIA
Casso ORONZO D’URSO
Roderigo ANDREA GALLI
Lodovico SHI ZONG
Montano LORENZO LIBERALI
Un araldo LORENZO MARIA DEGIACOMI
Desdemona IWONA SOBOTKA
Emilia NIKOLINA JANEVSKA
Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Christopher Franklin
Coro del Teatro Municipale Piacenza
Maestro del coro Corrado Casati
Coro Voci Bianche Piacenza
Maestro del coro Giorgio Ubaldi
Regia Italo Nunziata
Scene Domenico Franchi
Costumi Artemio Cabassi
Luci Fiammetta Baldiserri
Novara, 24 gennaio 2025
Otello” è opera da far tremare i polsi. Punto di arrivo della drammaturgia tragica verdiana e paradigma di un mito verdiano che suscita timore anche solo ad avvicinarsi. Allestire “Otello” specie fuori dai grandi circuiti è impresa che richiede coraggio e una certa dose di follia. Entrambe non sono mancate al Teatro Coccia che proprio con quest’opera ha deciso di inaugurare la stagione 2025. Un azzardo ma nel complesso la scommessa è stata vinta.
Lo spettacolo conta sulla mano sicura ed esperta di Christopher Franklin che guida il tutto con solido rigore. Il direttore punta a una lettura essenziale ma nel complesso efficacie. Garantisce un’ottima tenuta tra buca e palcoscenico e gestisce con bravura il problema dei pesi sonori tra un’orchestra di grandi dimensioni – è stato necessario disporre anche dei palchi di proscenio – e un teatro piccolo e dall’ottima acustica. L’Orchestra Filarmonica Italiana – presenza ormai abituale a Novara – e il Coro del Teatro Municipale di Piacenza forniscono il loro contributo di solida professionalità alla riuscita complessiva.
Roberto Aronica arriva a capo del cimento rappresentato dal protagonista. Il tenore sfoggia una voce sicura e robusta, molto sonora e ottimamente proiettata. Al netto di qualche nota “sporca” nel II atto – quasi inevitabile in certi passaggi – padroneggia la parte con sicurezza e forte senso drammatico con risultati particolarmente convincenti nel IV atto dove trova accenti di sincera e accorata commozione. Il timbro non è bellissimo e nel corso egli anni si è in parte indurito per un repertorio forse troppo pesante per un materiale di natura più lirico ma presenza vocale e facilità di canto restano una sicurezza.
Vera rivelazione della serata la polacca Iwona Sobotka, cantante attiva quasi esclusivamente in patria – in Occidente conta come presenza di rilievo solo un “Requiem” verdiano diretto da Muti in Francia – ma in possesso di un materiale di prim’ordine. La sua è una Desdemona di vecchia scuola, lontana da letture più intime e liriche e impostata su una vocalità doviziosa e possente, con uno spessore quasi da soprano drammatico. Una Desdemona guarda ai lontani modelli della Caniglia e della Tebaldi nel tipo di vocalità e nel gusto interpretativo. La voce è non solo grande e sonora ma molto bella come timbro e colore e facilissima negli acuti, potenti e ricchissimi di suono. Questo “Otello” novarese potrebbe essere un meritato trampolino di lancio. Cantante ben noto al pubblico novarese Angelo Veccia mostra come Jago di aver raggiunto una piena maturità artistica. Baritono dalla voce robusta anche se un po’ grezza ha nella nitidezza della dizione e nelle doti attoriali le sue armi migliori. Il suo è uno Jago deciso e di forte personalità che trova il momento più riuscito in un Credo reso con grande autorevolezza di accenti, feroce e granitico nella sua malvagità senza cedimenti. Dove manca qualcosa è nel canto alato del Sogno, nelle trine del terzetto della “Ragna” dove servirebbe una vocalità più raffinata.
Bel timbro e squillo sicuro per il Cassio di Oronz D’Urso. Perfettamente funzionali Andrea Galli (Roderigo), Lorenzo Liberali (Montano) e Nikolina Janewska (Emilia). Coretto anche se timbricamente un po’ anonimo il Lodovico di Shi Zang.
La regia di Italo Nunziata (con scene di Dmenico Franchi e costumi di Artemio Cabassi) si concentra sui rapporti tra i personaggi, sacrificando le componenti eroiche per focalizzarsi sulle emozioni più intime. La sua è una visione da dramma borghese enfatizzata anche dai costumi che traportano la vicenda in ambientazione tardo-ottocentesca, più o meno coeva alla composizione dell’opera. L’impianto scenico è antinaturalistico, dominato di quindi scure e rugose che tendono a chiudersi in modo sempre più opprimente man mano che il delirio serra tra i suoi artigli la mente di Otello. Pochi e stilizzati elementi simbolici arricchiscono l’impianto scenico così come essenziali sono gli arredi. Belli i costumi, di un’eleganza sobria e raffinata con una precisa volontà di connotare con i dettagli ciascun personaggio. L’ambientazione più intima aiuta un lavoro di recitazione attento e molto curato. La stagione novarese si apre con il miglior viatico possibile arricchito da una sala gremita e da un calorosissimo successo per tutti gli interpreti.

Categorie: Musica corale

Nikolai Myaskovsky (1881-1950): Sinfonie No. 17 e No. 20

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 14:04

Nikolai Myaskovsky (1881-1950): “Symphony No. 17 in G sharp minor, Op. 41 & Symphony No. 20 in E major, Op. 50”. Ural Youth Symphony Orchestra. Alexander Rudin (direttore), Registrazione: Luglio 2022. Grand Hall of Sverdlovsk Philharmonic,Yekaterinburg, Russia. T. Time: 75′ 1CD Fuga Libera FUG 820

Considerato da Aram Khatchatourian, che fu uno dei suoi 80 allievi, un ponte tra il classicismo e la modernità, Nikolaï Miaskovski (1881-1950) può essere a buon diritto definito il padre della sinfonia sovietica. 
La parte preponderate del catalogo di Miaskovski, nobile di origine e ufficiale dell’esercito, che servì durante la Prima Guerra Mondiale, durante la quale fu ferito, è, infatti, costituita dalle 27 sinfonie, alle quali vanno aggiunti 13 quartetti per archi, 9 sonate per pianoforte, che mostrano l’attenzione del compositore sovietico per la forma-sonata da lui sottoposta a un processo di elaborazione. Del resto, è stato lo stesso Miaskovski, in un articolo intitolato Tchaïkovski et Beethoven pubblicato nel 1912, a confessare il suo impegno a favore della delineazione di una scrittura sinfonica drammatica nella quale è possibile riscontrare due caratteristiche: la soggettività da una parte e l’oggettività dall’altra. Ciascuno di questi aspetti prevale in una parte della sua produzione piuttosto che nell’altra e, se un forte soggettivismo contraddistingue i primi lavori sinfonici, di cui massimi esempi sono, per la loro complessità, la Decima e la Tredicesima, l’oggettività, che comporta un’apertura verso l’esterno, informa le sinfonie che egli compose dal 1930 in poi, di cui un esempio è la Sinfonia n. 17 in sol diesis minore, Op. 41, risalente al 1937 che, come dichiarato dal compositore in una lettera ad Assafiev, era “molto più significativa e legata alla sua epoca”. Questa sinfonia, dedicata a Alexander Gaouk, che la diresse in occasione della prima esecuzione avvenuta a Mosca nel mese di dicembre del 1937, si distingue per il carattere drammatico ed emotivamente denso del primo e del quarto movimento, ma anche per la bellezza e il lirismo di alcuni passi del secondo. Composta nel 1940 ed eseguita per la prima volta il 28 novembre dello stesso anno a Mosca sotto la direzione di Nikolaï Golovanov, la Sinfonia n. 20 in mi maggiore, Op. 50 con i suoi tre movimenti, pur avendo aspetti in comune con la Diciassettesima, appare nettamente più compatta e si distingue per il bellissimo secondo movimento di carattere meditativo. Ottima la concertazione da parte di Alexander Rudin il quale, alla guida dell’Orchestra giovanile degli Urali, stacca dei tempi corretti e trova delle sonorità sempre adeguate e molto belle soprattutto nei momenti lirici con le varie sezioni dell’orchestra che si integrano sempre senza mai soverchiarsi l’una con l’altra. Il direttore, infine, mette ben in evidenza gli aspetti drammatici di questi lavori, ma anche i momenti più magniloquenti.

Categorie: Musica corale

Roma, Museo Ebraico: il cuore della memoria nella Giornata della Memoria

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 13:44

Roma, Museo Ebraico
ROMA E IL MUSEO EBRAICO: il cuore della memoria nella Giornata della Memoria
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”
– Primo Levi
Nel cuore del Ghetto di Roma, il Museo Ebraico rappresenta un custode essenziale della memoria storica della comunità ebraica romana, un luogo in cui le testimonianze del ventesimo secolo si intrecciano inesorabilmente con le vicende della Shoah e della propaganda che ne fu il preludio. Tra documenti, oggetti personali e materiali di propaganda, il museo permette di ricostruire il contesto di esclusione, persecuzione e resistenza che segnò gli anni più bui della storia italiana. Il percorso di questo racconto storico prende avvio dalle leggi razziali del 1938, che costituirono il fondamento legislativo della discriminazione antiebraica in Italia. Tali leggi, emanate dal regime fascista con un linguaggio freddo e burocratico, sancirono la progressiva esclusione degli ebrei dalla vita pubblica: furono espulsi dalle scuole, dalle professioni e da ogni ambito di partecipazione sociale. Conservati tra i materiali esposti, questi documenti raccontano l’inizio di un percorso di degradazione e disumanizzazione che non colpì solo gli ebrei, ma tutte le categorie considerate “inferiori” secondo una presunta gerarchia razziale. In questo contesto si inserisce anche la rivista La Difesa della Razza, uno degli strumenti propagandistici più efficaci utilizzati dal regime fascista per legittimare l’ideologia razzista. Pubblicata dal 5 agosto 1938 al 20 giugno 1943, la rivista era diretta da Telesio Interlandi e aveva come segretario di redazione Giorgio Almirante. Con il sostegno finanziario e politico del regime, il periodico raggiunse una vasta diffusione grazie a una grafica modernissima e a una campagna pubblicitaria capillare. Gli articoli, firmati da noti scienziati e intellettuali asserviti al fascismo, proponevano teorie pseudoscientifiche volte a giustificare la superiorità della razza italiana e la necessità di preservarne la purezza. Fotografie, grafici e testi contribuirono a creare un clima di diffidenza nei confronti di ebrei, rom, africani e altre categorie considerate “inferiori”. Il museo conserva alcune copie di questa rivista, dono di Denise e Simonetta Caterina Di Castro nel 2005, che rappresentano un tassello essenziale per comprendere il ruolo della propaganda nella costruzione del consenso razziale e nella diffusione dell’intolleranza. Il dramma delle leggi razziali e della propaganda culminò nel rastrellamento del 16 ottobre 1943, un evento che segna uno dei momenti più tragici della storia romana. Alle prime luci dell’alba, le SS, con il supporto di collaborazionisti fascisti, irruppero nelle case del Ghetto e di altri quartieri della città, arrestando 1.259 persone, tra cui uomini, donne, bambini e anziani. Dopo una breve detenzione nella caserma di Via Tasso, furono deportati nei campi di sterminio, principalmente ad Auschwitz. Solo 16 di loro tornarono. Nel Museo Ebraico, questo tragico evento è raccontato attraverso lettere, fotografie e oggetti personali che restituiscono volti e storie a quelle vittime spesso ridotte a numeri nei documenti ufficiali. Tra gli oggetti conservati, spiccano indumenti, libri e utensili domestici, frammenti di una quotidianità interrotta. Questi oggetti, nella loro semplicità, diventano testimoni di vite spezzate e pongono domande profonde su ciò che è stato perso. I registri e le liste di deportazione esposti nel museo fissano con spietata precisione amministrativa il destino delle persone arrestate, trasformando identità complesse in meri numeri. Ogni nome su quelle liste rappresenta una vita, un’esistenza interrotta brutalmente, e ogni documento offre una finestra su una tragedia collettiva che non può essere relegata al passato. In questo scenario di sofferenza emerge anche il racconto della resistenza ebraica, una resistenza che non fu solo armata, ma morale e solidale. Un esempio significativo è rappresentato dalla DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), un’organizzazione clandestina che operò in Italia durante l’occupazione nazista. Attraverso una rete di collaborazione che coinvolse ebrei, religiosi cattolici e cittadini comuni, la DELASEM fornì rifugio, documenti falsi e sostegno economico a migliaia di ebrei in fuga. Questo impegno, spesso rischioso per chi vi partecipava, dimostrò che anche nei momenti più bui era possibile opporsi al male con gesti di coraggio e umanità. La disposizione dei materiali nel Museo Ebraico non segue una narrazione puramente cronologica, ma mira a intrecciare le dimensioni storiche, emotive e intellettuali degli eventi. Ogni documento, ogni oggetto personale, ogni fotografia invita il visitatore a riflettere non solo su ciò che è stato, ma anche sulle dinamiche che hanno permesso il verificarsi di tali tragedie. La memoria qui non è semplice commemorazione, ma uno strumento per comprendere e prevenire. Come ammonisce Primo Levi, “non c’è nulla di più inumano dell’indifferenza.” Le testimonianze raccolte nel Museo sfidano questa indifferenza, trasformando la memoria in un atto di responsabilità. Il Museo Ebraico di Roma si pone, dunque, non solo come luogo di ricordo, ma come spazio di consapevolezza storica e di riflessione critica. Attraverso la sua narrazione, offre un monito universale, un invito a riconoscere il valore della dignità umana e a difenderla ogni giorno. La memoria, in questo contesto, non è solo un tributo alle vittime, ma un elemento essenziale per costruire un futuro in cui l’umanità non debba mai più affrontare l’orrore dell’intolleranza e dell’odio.

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Venezia, Teatro Malibran: Alpesh Chauhan sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 10:15

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2024-2025 della Fondazione Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Alpesh Chauhan
Felix Mendelssohn Bartholdy: Meeresstille und glückliche Fahrt op. 27; Darius Milhaud: “Le bœuf sur le toit” op. 58; Louise Farrenc: Ouverture n. 2 in mi bemolle maggiore op. 24; Robert Schumann: Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 97 “Renana”
Venezia, 24 gennaio 2025
Dopo aver diretto, nel febbraio del 2024 l’Ottava di Bruckner, Alpesh Chauhan è tornato a Venezia, in occasione del quinto appuntamento della nuova Stagione Sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice. Davvero intrigante il programma del concerto – svoltosi al Teatro Malibran –, che coniugava arditamente il pathos romantico – diversamente declinato nell’evocativa Ouverture da concerto Meeresstille und glückliche Fahrt, frutto della creatività di un Mendelssohn appena diciottenne; nella struggente Ouverture n. 2 op. 24 di Louise Farrenc, autorevole rappresentante del genio femminile in un contesto ottocentesco pervicacemente maschilista; infine nella Sinfonia “Renana”, affettuoso omaggio di Robert Schumann alla patria tedesca – con la scanzonata gaiezza che percorre Le bœuf sur le toit, un divertissement costruito dall’“antiromantico” Darius Milhaud, esponente del francese Gruppo dei Sei, utilizzando ritmi e melodie popolari del Brasile. Diffusamente brillante, energica, autorevole – come nella sua precedente esibizione alla Fenice – la prova offerta dal direttore britannico – nato a Birmingham da una famiglia di origine indiana – che, nonostante la giovane età si è già affermato nel panorama internazionale, grazie alle sue eccezionali doti musicali. La finezza interpretativa di Chauhan si è pienamente apprezzata in Meeresstille und glückliche Fahrt, ispirata da una coppia di poesie di Goethe, dalle quali Mendelssobn trasse l’intonazione lirica e il sentimento della natura, oltre alla struttura stessa dell’Ouverture, formata da una lenta introduzione (Adagio), seguita da un esteso Molto allegro e vivace. Duttile, l’Orchestra ha assecondato l’esplicito gesto direttoriale: dall’ampia e serena frase melodica d’apertura – che nel fraseggio e nell’atmosfera armonica prelude a Wagner – alla scintillante fanfara dei fiati, al tema vero e proprio dell’ouverture – appassionato, nonché disseminato di spunti e riecheggiamenti beethoveniani –, il cui ampio sviluppo è culminato nella squillante fanfara delle trombe, interrotta da una brevissima ripresa conclusiva della distensione melodica iniziale. L’Orchestra ha brillato di luce propria, in ogni sua sezione, nel successivo Le bœuf sur le toit, variopinto rondò orchestrale su temi e ritmi popolari soprattutto brasiliani, scritto da Milhaud nel 1919 al suo rientro in Francia dopo i due anni passati a Rio de Janeiro come funzionario d’ambasciata, accanto a Paul Claudel. Va comunque precisato che il tema ricorrente nel pezzo come il refrain di un rondò è stato composto ex novo dallo stesso Milhaud, cui appartengono anche le armonie politonali, i sapienti intrecci del materiale musicale, i nitidi colori dell’orchestra, tipici del suo stile, che nasconde spesso un intento provocatorio. Un acceso pathos romantico ha percorso l’esecuzione della breve Ouverture in mi bemolle maggiore op. 24 di Louise Farrenc – allieva di Antonin Reicha –, che ha la struttura tradizionale della forma-sonata e nella quale – dopo la lenta introduzione – si è colta la tipica contrapposizione tra la concitazione del primo tema e la scorrevole cantabilità del secondo. Veramente straordinaria è risultata l’esecuzione della Sinfonia “Renana”, a conferma della perfetta simbiosi tra l’Orchestra e il Direttore, che hanno saputo rendere, in particolare, la ricchezza di colori e di atmosfere emotive racchiusa nell’ultima partitura sinfonica di Robert Schumann, composta nel 1850 (quella pubblicata, nel 1851, come Quarta era già stata portata a termine dieci anni prima). Questa sinfonia risente della felicità provata da Schumann nei primi mesi trascorsi a Düsseldorf – dove si era trasferito nel 1850 per assumere la carica di Direttore dei concerti – e rappresenta la trasfigurazione musicale del paesaggio renano, che valse alla sinfonia la denominazione che la distingue. In effetti la Stimmung, il carattere della Terza Sinfonia si lega al germanesimo di Schumann, al culto romantico della patria tedesca, il cui simbolo per eccellenza è il Reno, che ne rappresenta la memoria storica, l’arte, la natura sentita misticamente e poeticamente. La lettura di Chauhan ha esaltato la gioia e la commozione con cui Schumann esprime il proprio attaccamento alle radici nazionali così come l’originalità del linguaggio musicale della partitura, improntato a maggiore trasparenza e chiarezza rispetto a quello delle sinfonie vicine. Intensissimo era lo slancio del tema che apre la sinfonia senza alcuna introduzione, legato a un originale profilo ritmico (combinazione di tempi binario e ternario), cui si è contrapposto il lirismo del secondo tema, più breve, che ha assunto maggiore rilievo nel corso del vasto sviluppo, fondato in gran parte sulla elaborazione dei motivi del tema iniziale. Archi e legni hanno brillato nello Scherzo dal ritmo di Ländler, privo del Trio, e nel terzo movimento, Nicht schnell, un breve Intermezzo, che aveva l’intonazione intima di certe pagine pianistiche di Schumann, mentre nel movimento successivo, Feierlich, ha primeggiato, per nitore di suono e intonazione, la sezione degli ottoni, che in una sorta di Corale – basato su un motivo non troppo lontano da quello della “Todesverkündigung”, l’annuncio di morte del secondo atto della Walküre – hanno solennemente evocato la maestà del Duomo di Colonia, emblema di una Germania gotico-cavalleresca. Lo slancio del primo tempo, insieme ad alcuni suoi spunti tematici, è tornato nel movimento finale, che si è chiuso in un tono grandioso e affermativo. Scroscianti applausi hanno festeggiato il Direttore e l’Orchestra a fine serata.

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Bologna, Teatro Comunale Nouveau: “La fanciulla del West”

gbopera - Dom, 26/01/2025 - 20:33

Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
LA FANCIULLA DEL WEST
Opera in tre atti su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Minnie CARMEN GIANNATTASIO
Dick Johnson ANGELO VILLARI
Jack Rance CLAUDIO SGURA
Nick PAOLO ANTOGNETTI
Ashby NICOLÒ DONINI
Sonora FRANCESCO SALVADORI
Trin CRISTIANO OLIVIERI
Sid DARIO GIORGELÈ
Bello PAOLO INGRASCIOTTA
Harry ORLANDO POLIDORO
Joe CRISTOBAL CAMPOS MARIN
Happy PAOLO MARIA ORECCHIA
Larkens YURI GUERRA
Billy Jackrabbit ZHIBIN ZHANG
Wowkle ELEONORA FILIPPONI
Jake Wallace FRANCESCO LEONE
José Castro KWANGISK PARK
Un postiglione ENRICO PICCINNI LEOPARDI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Paul 28, 29 e 30 gennaio
Scene e Costumi Gary McCann
Luci Daniele Naldi
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 24 gennaio 2025
Eccola, la più americana delle opere mitteleuropee: La fanciulla dei West. Che sono almeno tre: c’è quello polveroso e arroventato della Polka; poi quello delle cime innevate su cui si accucuzzola la capannuccia di Minnie; infine quello della foresta di sequoie, trasfigurata dall’alba della redenzione. Il patetismo non ha freni: fra il cane che non li ravviserà, la nonna che se ne è andata, il piedino della mamma vicino a quello del babbo, (“Ah! S’amavan tanto!”), fino al “Se studiavo di più…”, ed è solo il primo atto. Non mancano rime esilaranti: il tale mai visto sembra di San Francisco, il nascondiglio è a poco più d’un miglio, e via così. La capannuccia del secondo atto è stipata della proverbiale attrezzeria del puccinismo: tendine, lettino, tavolino, poltroncina, scalette, scarpette, biscottini e Arbasino saprebbe continuare. Eppure, eppure, l’orchestra di Puccini sfavilla con le sue tinte sgargianti, sature, sagaci. Il materiale melodico riemerge in improvvisi e laceranti squarci dal ribollire della partitura, e l’effetto vuol assecondato: come fa, benissimo, Riccardo Frizza che, all’occorrenza, dilata leggermente i tempi per godere dell’espansione lirica. Opera mitteleuropea di orizzonti, sì, ma di italianissimo compositore: questa sensibilità nell’esecuzione, oggi ormai rara, i complessi felsinei la custodiscono. La scrittura vocale è al limite del sadismo, soprattutto per la povera fanciulla, con quelle improvvise fiammate acute che si devono alzare da un registro centrale volitivo e maschio ma fascinoso e seducente. Carmen Giannattasio si difende molto bene, tramutando le fiammate in lampi e sfoggiando una timbratissima risonanza di petto. Questi personaggi pucciniani soffrono sempre di sbalzi d’umore, che per i cantanti sono sbalzi di tessitura, colori ed accenti: anche il bandito di Angelo Villari ne è soggetto. La vita ancor bella gli appar, ma non proprio bellissima; poi, nel monologo del second’atto, si lascia andare al trasporto drammatico e convince; l’inno del terzo (“Ch’ella mi creda” non è altro) vorrebbe un tempo sconsideratamente largo, che dia alla scena un’aurata solennità capace di bonificarne il patetismo. Ultimamente, nell’emissione di Claudio Sgura pare abbia fatto capolino una sorta di oscillazione, che però l’artista maschera abilmente aiutato dalla scrittura del ruolo, ma anche dall’espressione di cui è capace, nonché dal timbro piuttosto pastoso e morbido che conserva. Intorno al triangolo, una costellazione di ruoli di fianco: fra tutti spicca Paolo Antognetti per infallibile precisione, squillo e volume, nei panni del fedele Nick. Sonoro il Sonora di Francesco Salvadori (questa era scontata, ma irresistibile), più dell’Ashby minacciosamente nerovestito di Nicolò Donini. Omogeneo e di buon livello in generale il gruppo dei ragazzi, e ottimo, come al solito, il coro del Comunale, diretto da Gea Garatti Ansini, compatto e vivace. Dopo quella bella Ariadne (2022) popolata di una organizzatissima “ammuina” scenica, le aspettative per la regia di Paul Curran erano piuttosto alte. La gestione delle masse, o meglio dei gruppi, ha un che di brillantemente improvvisato: e, ancorché brillantemente, resta improvvisato. Wallace (il bravo Francesco Leone) entra nella Polka da quella che si supporrebbe essere la porta che dà sulla sala da ballo, mentre la proprietaria Minnie entra in scena dalla porta sul fondo che sembra dare sull’esterno, e il coro deve affrettarsi a farle largo, o non la si noterebbe nemmeno: potrebbero sembrare sciocchezze, ma in un’opera così meticolosamente congegnata le sciocchezze sono tutto. La scena di Gary McCann punta su un’insolita astrazione grafica: lo stile dello scenografo scozzese è notoriamente tutt’altro che asciutto, e lo si vede bene negli splendidi figurini dei costumi pubblicati sul programma di sala. Lo spazio del Nouveau sarà ingrato, ma di spettacoli belli, e davvero belli, ne abbiamo visti. Ma, forse, per molti basteranno le assi di legno in luogo delle navicelle spaziali a garantire rispettata la tradizione, qualunque cosa voglia dire. Il pubblico di questa Prima delle Prime, allegramente abbigliato (mica come quei noiosi della Scala, tutti in nero), ha mal sopportato il lungo primo atto con tutto quel color locale; si è scaldato con il serrato piglio drammatico del secondo e ha salutato con favore tutti i protagonisti alla fine del terzo. Quand’è che fanno la Bohème? Repliche 28, 29 e 30 gennaio. Foto Andrea Ranzi

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Premio Piccinni 2025: nominati i nuovi Ambasciatori piccinniani e formato il Comité d’Honneur.

gbopera - Dom, 26/01/2025 - 10:44

Il Premio Piccinni – For excellence in the performing arts, giunto quest’anno alla sua 43° edizione, rappresenta uno dei riconoscimenti più prestigiosi nel panorama delle arti performative. Nato per celebrare l’eredità di Niccolò Piccinni, figura centrale dell’opera italiana del Settecento e ponte culturale tra Italia e Francia, il premio è assegnato annualmente dal Comité d’Honneur a personalità che incarnano l’eccellenza nel campo della musica d’arte, del teatro lirico o della danza ed esprimono la capacità di ispirare le nuove generazioni. Nel corso della sua lunga storia, il Premio Piccinni ha celebrato leggende della musica e delle arti performative come il regista Franco Zeffirelli, il direttore d’orchestra Georges Prêtre, il violinista Uto Ughi e cantanti del calibro di Leyla Gencer, Joan Sutherland, Carlo Bergonzi, Christa Ludwig, Franco Corelli, Dietrich Fischer-Dieskau.
La cerimonia dello scorso 16 gennaio ha visto la consegna delle targhe ai nuovi membri del Comité d’Honneur: oltre a Maximilien Seren-Piccinni, Presidente del Fondo Niccolò Piccinni, regista e direttore artistico del Garda Festival, a Simone Di Crescenzo, Coordinatore del comitato, pianista e musicologo, a membri del Fondo e della stessa famiglia Piccinni, a selezionare il vincitore del Premio Piccinni 2025 saranno: Rossella Vanna Ardielli, fondatrice Garda Festival; Stefania Bonfadelli, cantante lirica e regista; Michele Calella, musicologo Universität Wien; Andrea Cigni, Sovrintendente e direttore artistico Teatro Ponchielli Cremona, Monteverdi Festival; Elena D’Ambrogio Navone, giornalista e scrittrice; Andrea Estero, presidente Associazione Nazionale Critici Musicali, direttore responsabile «Classic Voice»; Giampaolo Fogliardi, fondatore Garda Festival e Onorevole della Repubblica Italiana; Federico Freni, Sottosegretario di Stato per l’Economia e le Finanze; Giuseppe Gerbino, musicologo Columbia University New York; Vito Lentini, giornalista, critico di danza e balletto, caporedattore «Sipario»; Dominique Meyer, Sovrintendente Teatro alla Scala Milano; Filippo Michelangeli, giornalista, direttore responsabile «Amadeus» e «Suonare News»; Kate van Orden, musicologa Harvard University e presidente IMS; Roger Parker, musicologo King’s College London; Elisabetta Perucci, giornalista e scrittrice; Mario Resca, presidente Mondadori Retail e Confimprese, già direttore generale Ministero della Cultura; Susan Rutherford, musicologa University of Cambridge; Augusto Techera, Direttore di produzione artistica Teatro de la Maestranza Sevilla; Alberto Triola, docente Università di Bologna, già Sovrintendente e direttore artistico.
Durante la cerimonia è stata assegnata a Maria Alberta Viviani Corradi-Cervi, già direttrice dei programmi Radio RAI, la prestigiosa “Targa Piccinni”, l’onorificenza che il Fondo consegna a una personalità di spicco nel panorama culturale per aver apportato un contributo concreto e significativo al Fondo Piccinni negli ultimi anni.
Il Premio Piccinni viene annualmente assegnato durante il Garda Festival – Festival Internazionale di Musica e Danza del Lago di Garda, manifestazione volta all’arricchimento dell’offerta artistica, musicale e culturale del territorio.

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: terza Domenica dopo l’Epifania

gbopera - Dom, 26/01/2025 - 00:17

“Was mein Gott will, das g’scheh allzeit” BWV 111 è la terza Cantata bachiana in programma la terza Domenica dopo l’Epifania. Eseguita per la prima volta a Lipsia il 21 gennaio 1725, questa partitura ha alla base un testi di Albrecht Margravio di Brandenburg-Ansbach (1490-1568) la cui prima strofa era presente come brano finale della Cantata BWV 72 che abbiamo già trattato. Nella Cantata BWV 111 delle 4 stanze di 8 versi ciascuna di consta il carme, sono mantenute integre solo la prima e l’ultima, in apertura e chiusura della partitura, mentre la seconda concorre ad ispirare i nr. 2 e 3, la terza strofa i nr.4 e 5. È da notare che echi variati della melodia del Corale, che fra l’altro è tratto da una “Chanson” di  Claudin de Sermisy (circa 1495-1562) si trovano anche nell’aria del basso (nr.2), nella ricorre anche una citazione di un verso del Lied. Il Coro introduttivo (Nr.1) ha un carattere relativamente semplice, si tratta di un brano concertante su “cantus firmus” ai soprani, a note lunghe e con interventi in imitazione ai valori perlopiù dimezzati da parte delle altre voci omofonicamente disposte. Un brano strumentale di 16 battute funge da preludio e da postludio al tempo stesso essendo riproposto il “da capo” subito dopo l’enunciazione dell’ottavo e ultimo versetto. Altri brevissimi episodi strumentali si hanno tra un versetto e l’altro e con maggiore ampiezza al termine di ogni strofa.  Una pagina di grande intensità che l’aria del basso che segue (Nr.2)  forse non riesce a mantenere, ma è piena di salti nel continuo, per cui l’atmosfera si mantiene tesa fino al recitativo del Contralto (Nr.3). Segue un eccellente duetto tra contralto e tenore (Nr.4), che cantano in canone per gran parte del movimento e sono guidati da un bell’accompagnamento orchestrale. Poiché le parole si riferiscono al seguire Dio con passi coraggiosi, l’uso del canone sembra appropriato. Un recitativo per soprano (Nr.5) conduce al Corale finale (Nr.6).
Nr.1 – Coro
Ciò che il mio Dio vuole, sempre si compie,
la sua volontà è per il meglio,
egli è pronto ad aiutare
coloro che credono fermamente in lui.
Soccorre nel bisogno, questo Dio giusto,
e punisce con moderazione.
Chi confida in Dio e conta su di lui
non sarà mai abbandonato.
Nr.2 – Aria (Basso)
Non temere, mio cuore,
Dio è tua forza e speranza
e la vita della tua anima.
Si, a ciò che la sua saggezza decide
il potere dell’uomo e del mondo
non può opporsi.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Folle, chi si allontana da Dio
e come Giona
fugge lontano dalla sua presenza; 
persino i vostri pensieri sono a lui noti
e i capelli del vostro capo
sono tutti contati. 
Beati coloro che si rimettono alla sua
protezione nella fiducia della fede,
rivolgendosi alla sua parola e promessa
con pazienza e speranza.
Nr.4 – Aria/Duetto (Contralto, Tenore)
Procedo dunque con passo sicuro
anche se Dio mi conduce alla tomba.
Dio ha scritto i miei giorni 
e così, quando la sua mano mi toccherà,
farà svanire l’amarezza della morte.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
E quando infine la morte estirperà
con violenza l’anima dal suo corpo,
accoglila, Dio, nelle tue fedeli mani di padre!
Quando male, morte e peccato lottano
Contro di me ed il mio letto di morte
diventa un campo di battaglia, allora aiutami,
affinchè trionfi la mia fede in te!
O fine beata e a lungo desiderata!
Nr.6 – Corale
Una cosa ancora, Signore, ti chiedo,
non puoi negarmela:
quando sarò tentato dallo spirito maligno,
non farmi soccombere.
Aiutami, guidami, proteggimi, o Dio,
mio Signore, per l’onore del tuo nome.
Chiunque desidera ciò, sarà esaudito;
perciò dico con gioia: Amen.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Was mein Gott will, das g’scheh allzeit” BWV 111

 

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Roma, Teatro Vascello: “Il rito”

gbopera - Sab, 25/01/2025 - 18:46

Roma, Teatro Vascello
IL RITO
l’arte è vita, è purificazione
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
con
Alice Arcuri (Thea Winkelmann)
Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Alfonso Postiglione (Giudice Ernst Abrahmsson)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
adattamento e regia Alfonso Postiglione
scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto regia Serena Marziale
Roma, 23 gennaio 2025
Alfonso Postiglione ce lo dice chiaramente: “L’unica sacralità possibile è contenuta, prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico.” Ed è proprio questo il cuore pulsante dello spettacolo ”Il Rito”, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman.  Qui, l’arte è il centro del conflitto, la scintilla che accende tensioni, mette a nudo fragilità e, soprattutto, destabilizza.  Tre artisti, Hans, Thea e Sebastian, interpretati magistralmente da Antonio Zavatteri, Alice Arcuri e Giampiero Judica, che si trovano a difendere il loro controverso spettacolo davanti al giudice Ernst Abrahmsson, portato in scena dallo stesso Alfonso Postiglione, che cerca di discernere tra oscenità e arte.  Ma, come ben presto ci accorgiamo, il vero scandalo non è lo spettacolo: è la vita stessa, con le sue relazioni ambigue, le sue pulsioni sfacciate e i suoi desideri irrisolti. Qui sta il ribaltamento: non sono gli artisti sotto processo, ma il giudice, la morale e, forse, anche il pubblico. La scena è un colpo d’occhio: uno spazio bianco, quasi ipnotico, avvolge tutto come una tela non ancora dipinta. Ma al centro, ecco il giudice: innalzato su una piattaforma cubica, quasi fosse un piccolo Olimpo burocratico. “Rintanato lassù, rifugiato dal mondo,” dice Postiglione, e in effetti questa scelta visiva suggerisce un personaggio che si crede al di sopra delle bassezze umane, ma che presto viene contaminato dai “germi della libertà artistica”. Il contrasto tra il bianco immacolato e il nero è potente, simbolico: da una parte, il caos emotivo degli artisti, un bianco che si riempie di significati; dall’altra, l’ordine preteso dal giudice, che cerca di delimitare, contenere. Gli interpreti sono eccellenti. Ma ciò che colpisce di più non sono le parole, bensì i loro corpi. Ogni movimento sembra un atto comunicativo, quasi a voler dire che l’arte vera non si può spiegare, solo vivere. Thea è bellissima e nevrotica, fragile e seducente. “Il loro è un assedio volontario, un contagio artaudiano,” ci suggerisce Postiglione. E ha ragione: gli artisti invadono lo spazio con la loro fisicità, portando sulla scena relazioni tanto malate quanto irresistibili.  Anche i costumi parlano, con toni di bianco e nero, a tratti quasi nudi, avvolti da lenzuola che sembrano partecipare alla danza del vedo e non vedo; in sintonia con il loro linguaggio corporeo, curato da Sara Lupoli.  All’inizio, il giudice appare come un cerimoniere imparziale, una figura istituzionale che osserva e giudica dall’alto. Ma lentamente, scena dopo scena, si rivela per quello che è: un uomo fragile, tormentato dalla solitudine e, infine, preda dei tre artisti. Il climax arriva con la performance finale, il rito; il cui simbolismo si fa totale, il no-sense esplode e tutto si rivela: L’arte scardina le certezze morali e sociali,” scrive Postiglione, e non potremmo essere più d’accordo.  Il tema della censura emerge come un moloch che ingoia tutto, ma lo spettacolo ci suggerisce che censurare l’arte significa censurare la vita stessa. Il Rito ci ricorda che l’arte non può essere contenuta: è un atto sacro, necessario, e il tentativo di “normalizzare” è destinato al fallimento. Alla fine l’applauso è un atto catartico, un piccolo rito collettivo, quasi a liberarci del peso di ciò che abbiamo visto. Perché si va incontro ad un’esperienza che scuote, sfida e, infine, purifica. Finché c’è arte, c’è sacralità. E finché c’è sacralità, c’è speranza. foto e trailer Il rito • Ente Teatro Cronaca

 

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Roma, Museo della Fanteria: “Salvador Dalì, tra arte e mito” dal 25 gennaio al 27 luglio 2025

gbopera - Sab, 25/01/2025 - 11:00

Roma, Museo Storico della Fanteria
SALVATOR DALI’. TRA ARTE E MITO
Roma, 25 gennaio 2025
Il Surrealismo non è solo una corrente artistica, è un atto rivoluzionario contro la tirannia della realtà“, scriveva André Breton nel suo Manifesto del Surrealismo. Questa affermazione trova piena realizzazione nell’opera di Salvador Dalí, figura monumentale del movimento e artefice di un immaginario capace di piegare la realtà ai meccanismi del sogno. In questo spirito si inserisce la mostra “Salvador Dalí, tra arte e mito”, inaugurata il 25 gennaio 2025 presso il Museo Storico della Fanteria dell’Esercito Italiano a Roma, un evento destinato a lasciare il segno nella scena culturale romana e internazionale. Fino al 27 luglio, il pubblico è invitato a un viaggio straordinario che restituisce, in tutta la sua complessità, il genio di un artista capace di trasformare l’inconscio in visione e la visione in materia. Patrocinata dalla Regione Lazio, da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura Italia e dall’Oficina Cultural de la Embajada de España, la mostra si configura come un’occasione unica per avvicinarsi all’universo di Dalí, un mondo dove ogni dettaglio racchiude una profonda riflessione sul tempo, lo spazio e la natura stessa dell’esistenza. La conferenza inaugurale ha visto la partecipazione di Vincenzo Sanfo, curatore dell’esposizione, che ha presentato il progetto con una visione critica e articolata, guidando i presenti attraverso le trame concettuali del percorso espositivo. Salvatore Lacagnina, Responsabile di Navigare, ha sottolineato il potere evocativo dell’arte daliniana nel coinvolgere il pubblico non solo come osservatore, ma come parte attiva di un dialogo universale. A suggellare l’evento, l’intervento dell’Ambasciatore del Regno di Spagna in Italia, Miguel Fernández-Palacios M., ha enfatizzato il significato diplomatico e culturale della mostra, quale simbolo di una collaborazione artistica tra due Paesi uniti dalla comune eredità mediterranea. Il percorso espositivo si snoda attraverso circa 80 opere provenienti da collezioni private di Belgio e Italia, offrendo una prospettiva complessiva sul linguaggio multiforme dell’artista. Le opere esposte non si limitano a una sequenza cronologica, ma costruiscono un dialogo serrato che intreccia le molteplici declinazioni della sua produzione: dipinti, sculture, ceramiche, incisioni, litografie e oggetti peculiari come boccette di profumo si alternano in un crescendo emotivo e visivo. Ciascun lavoro è pensato come una finestra aperta sull’immaginario di Dalí, un invito a perdersi nei labirinti della sua psiche, dove il confine tra realtà e sogno si dissolve per lasciare spazio a un territorio fatto di simboli e suggestioni. La mostra va oltre la celebrazione della figura di Dalí come genio isolato , ma lo colloca nel contesto più ampio del surrealismo europeo, attraverso la presenza di opere di altri protagonisti del movimento, tra cui René Magritte, Max Ernst, Man Ray, Leonor Fini e Giorgio de Chirico. Questa coralità restituisce l’idea di un’avanguardia collettiva, un laboratorio di idee che ha ridefinito i confini dell’arte del Novecento. I rimandi e le influenze reciproche tra gli artisti in mostra emergono come una trama intellettuale, sottolineando il ruolo del surrealismo non solo come movimento estetico, ma come vero e proprio paradigma filosofico. Particolare rilevanza è attribuita agli storici sodalizi di Dalí con figure come Federico García Lorca e Luis Buñuel, i cui lavori sono evocati attraverso disegni, documenti e frammenti cinematografici che completano l’allestimento. Le litografie ispirate alla Divina Commedia e gli schizzi inediti legati alle collaborazioni con Lorca offrono uno spaccato della fervida creatività dell’artista, che ha saputo attraversare con disinvoltura il confine tra le arti visive e letterarie. Questo approccio interdisciplinare conferisce alla mostra una profondità narrativa che arricchisce l’esperienza del visitatore. Le opere di Dalí non si limitano a essere oggetti d’arte, ma diventano strumenti di riflessione e scoperta, capaci di stimolare emozioni e pensieri in chiunque si avvicini al loro fascino. L’evento si pone come un momento cardine nel panorama culturale del Giubileo 2025, offrendo una prospettiva unica sull’arte come veicolo di trasformazione e dialogo universale. La mostra non è solo un omaggio al genio di Dalí, ma un invito a riflettere sul potere dell’immaginazione e sulla capacità dell’arte di trascendere i limiti del tempo e dello spazio. Ogni opera è una testimonianza della sua inesauribile sperimentazione e del suo desiderio di sondare le profondità dell’inconscio umano. Dalí non è mai stato un semplice creatore di immagini, ma un alchimista dell’immaginario, capace di trasmutare il visibile in una dimensione dove il reale si piega ai dettami del sogno. La mostra restituisce al pubblico non solo l’opera di un artista, ma la visione di un uomo che ha fatto dell’arte una porta aperta sull’infinito.

 

 

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Il Caso Jekill”

gbopera - Ven, 24/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL CASO JEKYLL
tratto da Robert Louis Stevenson
adattamento Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
con Sergio Rubini, Daniele Russo
e con
Geno DianaRoberto SalemiAngelo ZampieriAlessia Santalucia
scene Gregorio Botta
scenografa Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
foto di scena Flavia Tart
Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini
Marche Teatro
Teatro Stabile di Bolzano
Roma, 24 gennaio 2025
“Io porto in me stesso la garanzia del mio destino, il fardello di questo potere inestinguibile che si chiama il male.
” – Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde
Il 1885 vide l’irrompere sulla scena letteraria di un’opera in grado di svelare le pieghe più oscure della psiche umana: Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson. Non si tratta di una semplice storia gotica, ma di una vera e propria esegesi sulla natura umana e sul conflitto tra le pulsioni contrapposte che albergano nell’animo di ciascun individuo. Stevenson scava nel profondo, dipingendo una dicotomia universale: il bene e il male, il razionale e l’irrazionale, il conformismo sociale e il desiderio di abbandono al primordiale. Henry Jekyll, luminare della scienza e uomo di riconosciuta rispettabilità, si fa alchimista delle sue stesse tenebre, sperimentando sulla propria carne il dualismo che governa l’esistenza. Edward Hyde, il frutto mostruoso di questa discesa negli abissi, non è altro che la manifestazione tangibile di un inconscio liberato dai lacci della morale vittoriana. In questa lotta interiore, Stevenson anticipa il pensiero psicoanalitico che, pochi anni dopo, avrebbe rivoluzionato la comprensione della mente umana. L’ombra di Sigmund Freud sembra aleggiare tra le pagine del romanzo, laddove il “male” non è più un elemento esterno, ma una parte intrinseca e ineliminabile dell’Io. Non è un caso che l’opera sia stata ripresa innumerevoli volte, adattata a contesti e sensibilità diverse, come nel caso dello spettacolo teatrale Il Caso Jekyll, prodotto da Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Marche Teatro e Teatro Stabile di Bolzano. Questo adattamento, firmato da Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini, trasforma la narrazione di Stevenson in un rito scenico che dialoga con la contemporaneità. Rubini, demiurgo e interprete, costruisce un allestimento che fonde tensione narrativa, riflessione filosofica e suggestioni visive. La figura di Jekyll non è più soltanto un medico in cerca della verità, ma un simbolo universale di un’umanità divisa tra aspirazioni di purezza e abissi di corruzione. Come spiega lo stesso regista: “Henry Jekyll è uno studioso della mente, simbolo di un’epoca che scopriva l’Inconscio, e Hyde diventa la proiezione di quell’ombra che tutti portiamo dentro. Il nostro racconto non si limita a rievocare il romanzo, ma lo rilegge attraverso le inquietudini del presente.La scenografia di Gregorio Botta contribuisce a questa visione, creando uno spazio di confine, un palazzo di vetro smerigliato che si presta a infinite interpretazioni: una prigione mentale, un laboratorio dell’anima, una metropoli vittoriana intrappolata nella nebbia del tempo. Le luci orchestrate da Salvatore Palladino trasformano ogni angolo del palcoscenico in un quadro vivente, oscillando tra penombra e bagliore improvviso, tra sogno e incubo. I costumi di Chiara Aversano, fedeli all’epoca storica, aggiungono un ulteriore strato di narrazione visiva, sottolineando il dualismo dei personaggi. Il cuore pulsante dello spettacolo è la performance di Daniele Russo, che si sdoppia nei ruoli di Jekyll e Hyde con una potenza interpretativa che lascia senza fiato. Jekyll è rappresentato come un uomo fragile, dilaniato dal desiderio di trascendere i limiti umani, mentre Hyde emerge come una forza primitiva, una belva luciferina che non conosce freni. Russo modula la voce e il corpo in un gioco di contrasti continui, incarnando con rara maestria l’eterna lotta tra luce e ombra. Sergio Rubini, oltre a dirigere, si ritaglia il ruolo del narratore e del dottor Lanyon. La sua presenza scenica è discreta ma fondamentale, un filo conduttore che guida lo spettatore attraverso i meandri della storia. La narrazione è arricchita dal progetto sonoro di Alessio Foglia, una sinfonia di suoni che non si limita ad accompagnare l’azione, ma ne diventa parte integrante. Ogni rumore – lo scroscio dell’acqua, il passo sul selciato, il fischio sinistro di Hyde – amplifica la tensione e immerge lo spettatore in un universo sensoriale totale. Il Caso Jekyll si distingue per la sua capacità di mantenere alta la tensione narrativa, senza cedimenti, fino al climax finale. La metamorfosi di Jekyll in Hyde non è solo fisica, ma profondamente esistenziale, una parabola sulla condizione umana e sui limiti della civiltà. La regia di Rubini non si accontenta di una lettura superficiale del testo, ma lo sviscera, interrogando lo spettatore con domande scomode: quanto sottile è la patina di moralità che ci separa dal caos? Fino a che punto possiamo controllare l’ombra che ci abita? L’esperienza teatrale offerta da questo spettacolo è totalizzante. Ogni elemento – dalla scenografia ai dettagli scenici, dalla recitazione alla colonna sonora – concorre a creare un’opera corale di straordinaria complessità. Non è solo un tributo al romanzo di Stevenson, ma una sua rigenerazione, una sfida che invita il pubblico a riflettere sul proprio rapporto con l’oscurità interiore. In scena al Teatro Quirino di Roma, Il Caso Jekyll non è semplicemente uno spettacolo, ma un viaggio nelle profondità dell’anima, un’allegoria moderna sulla fragilità della condizione umana. Dopo il calar del sipario, lo spettatore non può fare a meno di portare con sé le domande sollevate dalla rappresentazione, interrogandosi sulla propria natura e sul sottile confine che separa la ragione dalla follia, il bene dal male, l’uomo dalla sua ombra. @Photocredit Flavia Tartaglia

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Napoli, Teatro di San Carlo: ” Velluti: L’ultimo castrato” 30 gennaio 2025

gbopera - Ven, 24/01/2025 - 18:34

Napoli, Teatro di San Carlo
VELLUTI: L’ULTIMO CASTRATO
Controtenore
Franco Fagioli
Dirige
George Petrou
Il Teatro San Carlo di Napoli è lieto di presentare, giovedì 30 gennaio alle ore 20, il concerto-evento “Velluti: L’Ultimo Castrato”, un omaggio unico e coinvolgente alle sonorità che hanno segnato l’epoca d’oro del belcanto. Sul podio, il celebre direttore George Petrou, guida con maestria l’orchestra in un programma ricco di suggestioni musicali, affiancato dal controtenore di fama internazionale Franco Fagioli, la cui straordinaria vocalità ridà vita alla tradizione virtuosistica dei castrati. Il concerto esplora le sfumature emotive e tecniche di un repertorio prezioso e affascinante, con opere che spaziano dalle melodie immortali di Gioachino Rossini, come la Sinfonia di Tancredi e la struggente scena di Arsace tratta da Aureliano in Palmira, ai brani meno noti ma altrettanto ricchi di pathos e virtuosismo di compositori come Paolo Bonfichi, Giuseppe Nicolini, Nikolaos Mantzaros, Johann Simon Mayr e Saverio Mercadante. Ogni pagina musicale, accuratamente selezionata, mette in luce la bellezza e l’intensità delle arie che furono scritte per esaltare la tecnica vocale e la capacità espressiva degli interpreti di un’epoca irripetibile. Un’esperienza imperdibile, dove l’arte del passato si fonde con l’interpretazione moderna, offrendo al pubblico del San Carlo una serata di straordinaria eleganza e coinvolgimento. Per informazioni e prenotazioni, è possibile contattare la biglietteria del Teatro San Carlo  o visitare il sito ufficiale qui.

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Roma, Villa Farnesina: “Gianfranco Baruchello. Mondi possibili”

gbopera - Ven, 24/01/2025 - 17:15

Roma, Villa Farnesina
GIANFRANCO BARUCHELLO. MONDI POSSIBILI
a cura di Carla Subrizi
Roma, 24 gennaio 2025
Dal 25 gennaio al 3 maggio 2025 l’Accademia Nazionale dei Lincei Fondazione Baruchello presentano a Villa Farnesina a Roma la mostra “Gianfranco Baruchello. Mondi possibili”, a cura di Carla Subrizi, in concomitanza con il Convegno Internazionale di Studi sull’opera dell’artista che si terrà il 23 e 24 gennaio 2025 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei. Entrambe le iniziative fanno parte delle iniziative del centenario della nascita di Gianfranco Baruchello (Livorno 1924 – Roma 2023). La mostra, in un percorso che si snoda tra gli spazi interni ed esterni della Villa, propone, con una selezione di opere di Gianfranco Baruchello, un dialogo a distanza tra storia, iconografie e immaginari appartenenti a epoche differenti. Arte e storia si aprono a un confronto non soltanto tra passato e presente, ma anche tra ispirazione e creazione, possibilità e irreale. Nelle parole della curatrice, Carla Subrizi, presidente della Fondazione Baruchello: “I mondi possibili si configurano quindi quando il tempo perde la sua articolazione: le sequenze si interrompono, il passato arriva per sorprenderci e il presente si realizza come incursione nel già stato. L’interazione tra opere non produce soltanto incontri ma forme di interrogazione tra fasi ed epoche, tra modelli della storia e conseguenze di essi: passato e presente – e non soltanto antico e contemporaneo, termini in un certo modo chiusi in sé stessi – trovano modi di dialogare inediti ed efficaci. I mondi possibili nascono mettendo in relazione esperienze, storie, memoria, per produrre corto circuiti: premessa che è stata da sempre presente nella ricerca di Baruchello”. La storia, l’inconscio, il sogno e l’ambiente, temi tutti presenti nei cicli degli affreschi della Villa Farnesina, sono stati continuamente indagati da Baruchello e tornano in questa mostra, con otto grandi opere, attraverso una molteplicità di media differenti, tra cui la pittura, l’oggetto, l’installazione, l’immagine in movimento. Gianfranco Baruchello con il suo lavoro radicale e indipendente, che ha attraversato sette decenni tra ventesimo e ventunesimo secolo, ha spesso affermato che tutta la sua opera sia stata il tentativo di costruire “piccoli sistemi” in grado di contrastare i grandi sistemi della storia, della politica e dell’ideologia. Cosa avviene se un artista del ventesimo secolo, Gianfranco Baruchello, incontra Raffaello? Se la ninfa Galatea, opera di Raffaello presente negli affreschi della Loggia omonima, trova dinanzi a sé il tragitto di un fiume (Il Fiume, 1982-1983) pensato da un artista vissuto 500 anni dopo, come un percorso tortuoso, pieno di ostacoli? Se Raffaello pensa Galatea attraverso le Metamorfosi di Ovidio, Baruchello si autoritrae nel corso di un fiume, in un’opera lunga ben 15 metri, che nel suo articolarsi, scopre la difficoltà a fluire, a essere quel che dovrebbe, a causa di alterazioni degli equilibri sia naturali (ambientali, geografici, sociali) che dell’esperienza vissuta.   Anche le altre opere della mostra dialogano con gli ambienti della Villa Farnesina. Case nomadi  e fragili  (La casa in fil di ferro, 1975, nella Sala del Fregio); monumenti a coloro che sono stati dimenticati dalla storia (Monumento ai non eroi, 1962, nella Sala delle Nozze di Alessandro Magno e Rossane); riflessioni sulla cartografia di un territorio attraverso una geografia “sensibile” (Rilievo ideale, 1965, nella Sala 5); stratificazioni sia temporali che spaziali della complessità dei cicli pittorici di Villa Farnesina colte nella misura ridotta di uno spazio non grande (Oh, Rocky Mountains Columbine, 1966, nella Saletta pompeiana); sguardi che dalla storia continuano a guardarci e a interrogarci (La storia ci guarda, 1972-2018, Sala 4); oggetti apribili che mostrano l’inconscio, la memoria e territori delle psiche ancora da esplorare (Murmur, 2015, nella Loggia di Amore e Psiche); un giardino di piante molto belle e seducenti che si rivelano essere in grado di costituire un pericolo (Giftpflanzen, Gefahr! (Piante velenose, pericolo!), 2009, nei giardini storici della Villa). Photocredit© Alessia Calzecchi_Murmur

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Napoli, Teatro di San Carlo: “Don Carlo”

gbopera - Ven, 24/01/2025 - 16:51

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
DON CARLO
Opera in cinque atti di Giuseppe Verdi
Libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dalla tragedia “Don Karlos, Infant von Spanien” di Friedrich Schiller
Traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini
Filippo II JOHN RELYEA
Don Carlo PIERO PRETTI
Rodrigo GABRIELE VIVIANI
Il grande inquisitore ALEXANDER TSYMBALYUK
Un frate GIORGI MANOSHVILI
Elisabetta di Valois RACHEL WILLIS-SØRENSEN
La principessa Eboli VARDUHI ABRAHAMYAN
Tebaldo MARIA KNIHNYTSKA 
Il conte di Lerma IVAN LUALDI
Un araldo reale VASCO MARIA VAGNOLI
Una voce dal cielo DÉSIRÉE GIOVE
Primo deputato SEBASTIÀ SERRA
Secondo deputato YUNHO KIM
Terzo deputato MAURIZIO BOVE
Quarto deputato IGNAS MELNIKAS
Quinto deputato GIOVANNI IMPAGLIAZZO
Sesto deputato ANTIMO DELL’OMO
Il giullare (attore) FABIÁN AUGUSTO GOMEZ
Don Carlo ragazzo MICHELE CRICRI (VIDEO)
Rodrigo ragazzo LORENZO MATTIA MORESCHI (VIDEO)
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Henrik Nánási
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia Claus Guth ripresa da Marcelo Persch-Buscaino
Scene Etienne Pluss
Costumi Petra Reinhardt
Luci Olaf Freese riprese da Virginio Levrio
Video Roland Horvath
Drammaturgia Yvonne Gebauer
Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con Latvijas Nacionālā Opera un Balets
Napoli, 19 gennaio 2025
Al San Carlo di Napoli, arriva Don Carlo di Verdi nell’edizione italiana (Modena, 1886): si tratta dell’edizione in cinque atti, caratterizzata dal reinserimento del primo atto (eliminato nella versione in quattro atti; 1884) e dalla soppressione del balletto (presente, invece, nella versione francese in cinque atti, 1867). È la storia dell’amore impossibile tra Don Carlo, infante di Spagna, ed Elisabetta di Valois costretta dalla «ragion di Stato» a contrarre matrimonio col re, Filippo II. Il disegno registico, affidato a Claus Guth (ripreso da Marcelo Persch-Buscaino), rinvia a un mondo fatto di elementi architettonici e di «didascaliche» citazioni pittoriche: l’atmosfera cupa d’un salone (disegnato da Etienne Pluss e illuminato da Olaf Freese, che riprende le luci da Virginio Levrio), l’austera tribuna del coro e la riproduzione, su una tenebrosa parete, della Famiglia di Carlo IV di Francisco Goya; un dipinto che, qui, svolge la funzione di leitmotiv «figurativo», paradigmatico dell’invivibilità dello «spazio» familiare, che prescinde dal contesto storico originario (la Francia e la Spagna cinquecentesche). Il regista effettua un’operazione di «desacralizzazione» dell’aristocrazia e di neutralizzazione del potere assolutistico. Soltanto che ciò avviene attraverso movimenti danzati e convenzioni «gestuali» un po’ macchinose. Infatti, la caratterizzazione dei personaggi viene affidata al linguaggio cinematografico (determinato da proiezioni d’immagini, di Roland Horvath – come quelle ritraenti Carlo e Rodrigo da ragazzini (interpretati rispettivamente da Michele Cricri e Lorenzo Mattia Moreschi; video che fanno parte del progetto drammaturgico di Yvonne Gebauer). La caratterizzazione «teatrale» e psicologica, nel Don Carlo, interessa anche, e soprattutto (parafrasando Massimo Mila), la scrittura strumentale, affrontata da Henrik Nánási – alla testa dell’Orchestra del San Carlo – con un approccio un po’ «descrittivo» e non propriamente drammatico o «evocativo»: la costruzione dei tormenti emotivi e dei sentimenti dei personaggi viene demandata e affidata soprattutto alle voci. Le melodie orchestrali procedono un po’ «staticamente»; ciò, però, non accade quando gli strumenti possono intervenire «solisticamente», come il violoncello nel preludio orchestrale del quarto atto, che riesce a evocare la tragica, rassegnata e irrimediabile solitudine di re Filippo; o quando l’orchestra è alle prese con l’energia espressionistica dell’introduzione dell’autodafé (atto terzo). Notevole il cast dei cantanti, avvolti peraltro negli appropriati e severi costumi di Petra Reinhardt: John Relyea garantisce a Filippo II una caratterizzazione teatrale inappuntabile, non soltanto per l’appropriata «condotta vocale», ma anche per la variegata «mobilità» dei sentimenti, tra dignitosa rassegnazione e irrisolvibile disperazione. Timbro scurissimo, intimistica bellezza melodica e declamazione efficace consentono al basso di affrontare il grande monologo all’inizio del quarto atto, Ella giammai m’amò!. Il re, perdutamente innamorato di lei, Elisabetta di Valois, interpretata da Rachel Willis-Sørensen. Il soprano presta alla regina un comportamento teatrale costruito attraverso una misurata agitazione emotiva, come se un sentimento di estrema «rassegnazione» e un atteggiamento «remissivo», nei confronti della soffocante potenza delle «vanità del mondo», avessero un po’ preso il sopravvento sul temperamento estremamente complesso della sovrana. Ma, premesso ciò, resta un’interpretazione corretta – determinata soprattutto da morbidezza vocale e da una soave e ricercata purezza di stile, ravvisabili, per esempio, nel profilo melodico e nei momenti lirici dell’aria dell’ultimo atto Tu che le vanità conoscesti del mondo. Il mezzosoprano Varduhi Abrahamyan riesce ad affrontare l’ambiziosa scrittura vocale (come l’aria O don fatale, atto quarto), attraverso cui Verdi intendeva restituire un ritratto «caratteristico» della principessa Eboli, determinato da una nervosa sensualità. La cantante affronta correttamente la coloratura della Canzone del Velo (atto secondo), ma il materiale vocale non viene inserito in un disegno «teatrale» di caratterizzazione del personaggio, restando «agganciato» a un’espressività un po’ generica, sia pure formalmente corretta. Il tenore Piero Pretti garantisce, invece, al suo Carlo delle qualità vocali degne del personaggio: efficaci momenti lirici e una parola declamata determinata, all’occorrenza, anche da accenti di carattere «drammatico». Un ritratto psicologico perfetto, caratterizzato da ricchezza e pienezza vocali e anche da momenti di «agitata» passionalità, sempre però stilisticamente appropriata. Un Carlo da manuale, anche nella caratterizzazione del suo rapporto di fraterna amicizia con Rodrigo, interpretato da Gabriele Viviani: il baritono, attraverso una corretta emissione nelle zone «drammatiche» della tessitura acuta, presta al Marchese di Posa una voce elegantemente declamante, utile al cantante per dare forma al disperato amore patriottico del personaggio per la Fiandra. Completano il cast: l’ottimo Alexander Tsymbalyuk che, attraverso una voce potentemente grave, restituisce in modo appropriato la severità e l’intransigenza del Grande Inquisitore; Giorgi Manoshvili (Un frate), Maria Knihnytska (Tebaldo), Ivan Lualdi (Il conte di Lerma), Vasco Maria Vagnoli (Un araldo reale), Désirée Giove (Una voce dal cielo), Sebastià Serra (Primo deputato), Yunho Kim (Secondo deputato), Maurizio Bove (Terzo deputato), Ignas Melnikas (Quarto deputato), Giovanni Impagliazzo (Quinto deputato), Antimo Dell’Omo (Sesto deputato), Fabián Augusto Gómez (Il giullare, attore). Ottimo anche l’apporto fondamentale del Coro, preparato da Fabrizio Cassi. In definitiva, enorme successo di pubblico, nonostante qualche contestazione al progetto registico. Repliche fino al 31 gennaio. Foto Luciano Romano

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Milano, Teatro Menotti: “Crisi di nervi. Tre atti unici”

gbopera - Ven, 24/01/2025 - 16:36

Milano, Teatro Menotti, Stagione di Prosa 2024/25
“CRISI DI NERVI. TRE ATTI UNICI”
di Anton Cechov
“L’ORSO”
Elena Ivanovna Popova MADDALENA CRIPPA
Grigorij Stepanovič Smirnov ALESSANDRO SAMPAOLI
Luka SERGIO BASILE
“I DANNI DEL TABACCO”
Ivan Ivanovič Njuchin GIANLUIGI FOGACCI
“LA PROPOSTA DI MATRIMONIO”
Stepan Stepanovič Čubukov SERGIO BASILE
Natal’ja Stepanovna EMILIA SCATIGNO
Ivan Vasil’evič Lomov ALESSANDRO AVERONE
Regia Peter Stein
Scene Ferdinand Woegerbauer
Costumi Anna Maria Heinreich
Luci Andrea Violato
Produzione Tieffe Teatro e Quirino srl
Milano, 21 gennaio 2025
A volte frequentando i teatri di Milano, tendiamo a dimenticare l’interezza della realtà teatrale, assuefatti come siamo a tutte queste forme teatrali ibridate ed ibridanti così care ai palchi meneghini – teatro di narrazione, teatro-canzone, post-drammatico, teatro dell’io, teatro di figura, teatro di  e altre amenità. Tuttavia, dobbiamo ricordarci sempre che esiste ancora Peter Stein, fra gli ultimi esponenti di quella école des maîtres cui naturalmente appartenevano anche Strehler, Ronconi, de Berardinis. Brooke e non molti altri, che per tutta la vita hanno praticato il teatro nella sua forma più pura e, se vogliamo, civilizzante: il teatro di parola. Stein, infatti, è l’ultimo venerato maestro che si preoccupi ancora oggi di come i suoi attori recitino, l’ultimo grande insegnante di recitazione, non un burattinaio paradrammaturgico interessato a esprimere il proprio ego aldilà di quello che avviene in scena. E quindi, andando a vedere le sue “Crisi di nervi, Tre atti unici” di Cechov, al teatro Menotti, assistiamo al miracolo di vedere messo in scena effettivamente Cechov (detto, recitato, inscenato come Cechov) recitato da attori bravi, la cui arte specifica è proprio recitare, e non sbrodolare in scena pezzettini della propria vita, traumi esistenziali, doti canore non richieste, annessi e connessi; e noi, tra il pubblico, possiamo prenderci il paradossale lusso di vedere degli attori recitare, finalmente, RECITARE e molto bene. Magnificamente recita Maddalena Crippa, col suo tono fascinoso contraltile e quella leggerissima nenia che ricorda proprio il teatro di inizio Novecento, fisicamente altera nel ruolo arcigno della vedova Popova; recita altrettanto bene Sergio Basile, perfettamente a contatto con tutte le proprie possibilità vocali, e in grado di essere convincente sia nel ruolo grottesco – quasi marionettistico – del maggiordomo Luka, come in quello dell’apparentemente pacioso Stepan de “La proposta di matrimonio”; recita sorprendente bene – per una questione d’età, più che altro – anche Emilia Scotigno, che con la sua naturalezza e la leggerezza che conferisce al personaggio ne coglie, in verità, l’essenza più crudele e paradossale; accanto a lei Alessandro Averone costruisce Lomov a partire dal corpo: acciacchi, nevrosi, costrizioni di vestiario, coprono l’attore quasi cancellandone l’avvenenza fisica, l’intenzione vocale, ma è in questo “quasi” il punto, perché il personaggio c’è tutto, avviluppato sulle sue isteriche questioni di principio, che hanno più valore dell’amore per Natal’ja. Forse meno riuscite le interpretazioni di Alessandro Sampaoli e Gianluigi Fogacci, che incorrono, entrambi, nel problema del teatro di parola, ovvero nella ripetività delle intonazioni, delle intenzioni, delle cadenze – pur ciascuno nel suo personaggio: così Smirnov si caratterizza solo esteriormente, nella sua virulenza e nel vocione tonante, e Njuchin assume, suo malgrado, un andamento professorale, deliberativo, che non aiuta la fruizione migliore del monologo. La regia di Peter Stein, manco a dirla, è perfetta: il ritmo non conosce impasse, la prossemica dei personaggi, la loro rappresentazione non ha una smagliatura; certamente anche le scene essenziali di Ferdinand Woegerbauer e gli accuratissimi costumi di Anna Maria Heinreich non ostacolano, ma anzi esaltano questa regia, inserendola chiaramente in un contesto storico che ne giustifichi le dinamiche e le vocalità. Alla fine dello spettacolo ci sorprendiamo di essere noi, lì, e gli attori pure, non proiettati da un antico, rumoroso apparecchio d’antan; eppure questo teatro “vecchio”, sa ancora essere fresco, sa ancora intrattenere, emozionare – forse perché, riconosciamolo, vecchio non è e non sarà mai. E allora viva Peter Stein! E viva il teatro! Foto Tommaso Le Pera

 

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Genova, Teatro Carlo Felice: “La Traviata” ( Cast alternativo )

gbopera - Ven, 24/01/2025 - 16:26

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione 2024-2025
LA TRAVIATA” 
Melodramma in tre atti; libretto di Francesco Maria Piave da “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry ELENA SCHIRRU
Alfredo Germont KLODJAN KAÇANI
Giorgio Germont LEON KIM
Flora Bervoix CARLOTTA VICHI
Annina CHIARA POLESE
Gastone ROBERTO COVATTA
Il barone Douphol CLAUDIO OTTINO
Il dottor Grenvil FRANCESCO MILANESE
Il Marchese d’Obigny ANDREA PORTA
Giuseppe GIULIANO PETOUCHOFF
Domestico di Flora  LORIS PURPURA
Un commissionario FILIPPO BALESTRA
Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice di Genova
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Giorgio Gallione
Scene e Costumi Guido Fiorato
Coreografie DEOS
Luci Luciano Novelli
Genova, 18 Gennaio 2025.
Se un giorno i teatri, per abbattere costi e migliorare i profitti, si daranno ad allestir opera attraverso l’AI (l’Intelligenza Artificiale) questa rappresentazione genovese di Traviata potrebbe rivelarsi propedeutica. Dalla messa in scena, alla conduzione dell’orchestra e, inevitabilmente, alla prestazione vocale tutto è fissato con implacabile determinazione, lasciando spazi esigui alla fallacità e all’estro capriccioso dell’intelligenza naturale. A-sentimentale e meccanicistico è l’approccio che la regia di Giorgio Gallione dà alla vicenda della povera Violetta. Le scene e i costumi di Guido Fiorato e le splendide luci di Luciano Novelli, sono giocate sul bianco (poco) e nero, al più screziato di rosso sanguigno, evidente e non sempre gradevole riferimento, vedi il fazzoletto di Violetta, al male della protagonista. Pur scontando il bell’effetto visivo, la produzione avrebbe potuto essere allestita autonomamente sul plot di un computer a cui fossero state fornite le didascalie del libretto. Anomali, in siffatto contesto, e di oscuro simbolismo, il bianco albero decorticato, reso enorme candeliere, e l’invasivo tappeto di mele (sic) con frutti rotolanti fin dentro la buca orchestrale. Mele sparse in luogo del giardino tra i campi nella residenza fuori città di Violetta. Ci si è messo anche Renato Palumbo, alla testa dell’Orchestra del Carlo Felice, in ottima forma, a meccanizzare l’esposizione musicale. Non c’è segno della partitura che non venga seguito, ma con l’impegno della minor espressività possibile. La musica è quella che è, inutile gravarla eccessivamente della labile e mobile componente umana. Accenti, sforzando, note puntate e forcelle, inseriti in un contesto ritmicamente inesorabile, in cui nessun rubato trova spazio. Il colore sonoro alterna il piano e il forte e sono evitati indugi e ripensamenti sfumati. Di Violetta, fin dal preludio, si fissa la morte e la cupezza dell’introduzione al quarto atto ne è la pietra tombale. Il contesto essenzialmente cupo e freddo non facilita certamente i tre giovani protagonisti. Elena Schirru ha voce, pur con timbro non ricchissimo di armonici, educatissima che corre bene anche nel gran spazio del Carlo Felice. L’orchestra inesorabilmente le scorre parallela e, negl’insieme, la regia la costringe desolatamente all’isolamento. Nell’incontro fatale con Germont padre, del secondo atto, i due protagonisti son confinati agli estremi opposti del palco e così pure con Alfredo viene evitato ogni avvicinamento affettuoso. La lettura della lettera, su un’orchestra spettrale, è artificiosa e termina con un “E’ tardi!” così straziante da non volersi mai sentire. Il personaggio si umanizza, dopo un primo atto più da Olympia che da Valery, quando nella scrittura della sua lettera, nel secondo atto, il clarinetto solista la sostiene con nove battute che valgono le lacrime. Non è secondario che il fisico e la giovane età la caratterizzino perfettamente col personaggio. Altrettanto giovane ed aitante è l’Alfredo del tenore albanese Klodian Kaçani. Ricco e luminoso il timbro, sempre buoni e ben gestiti i centri. Un vibrato spiccato pare rendergli difficoltose le salite, in cui si coglie come, a tratti, sopra al rigo, la gola paia restringersi. Il personaggio è comunque psicologicamente centrato e convincente. Leon Kim, in nero abito talare con croce pettorale (?), dà voce sicura, ferma e forse anche un poco inespressiva al poco amabile vecchio Germont. I suoi mezzi, che forse assai poco debbono alla natura, suonano molto esaltati grazie allo studio e alla meticolosa preparazione che caratterizza la maggior parte degli interpreti orientali. Il personaggio rimane inchiodato all’enigma dei “terribili” padri verdiani; di conseguenza anche il Di Provenza, come peraltro è nelle intenzioni dell’autore, non gli fa ricuperare simpatie, rimane l’inevitabile aria, cantata correttamente senza passione, che dà giusta rilevanza alla prestagione complessiva di un baritono. L’Annina di Chiara Polese, impone la sua classe di attrice e di cantante ben reggendo il confronto con Violetta. All’attacco dell’atto quarto le due voci conducono, con sicurezza ed armonia, il confronto. Misteriosa la ragione per cui indossi, durante tutta l’opera, un elegante frac maschile, forse che si sottintenda un qualche rapporto con Flora, la brava Carlotta Vichi, anch’essa sempre in frac e marsina. Tra le parti che animano la recita si fanno positivamente notare e valutare il Gastone di Roberto Covatta, il barone e il marchese, rispettivamente interpretati da Claudio Ottino e da Andrea Porta. Francesco Milanese è il dottor Grenvil, onnipresente in sceda nell’ultimo atto. Intervengono, al bisogno, svolgendo onorevolmente il loro compito, Loris Purpura, Giuliano Petouchoff e Filippo Balestra, rispettivamente domestico, Giuseppe e commissionario. Le danze, sovrabbondanti nel primo atto, imprescindibili nel terzo, sono ottimamente agite dai numerosi danzatori presentati dall’enigmatica DEOS. L’ottimo Coro dell’Opera Carlo Felice, felicemente e sapientemente guidato dal Maestro Claudio Marino Moretti, pur abbigliato in neri scafandri che ne fanno un’orda di automi da Guerre Stellari, ha contribuito in modo determinante alla buona riuscita dello spettacolo e ad arricchirlo con quel tanto di umanità che altrimenti avrebbe eccessivamente latitato. Lo strabocchevole pubblico di un uggioso sabato pomeriggio, pur con qualche incertezza lungo la recita, ha in finale decretato, con applausi prolungatissimi, un successo incondizionato, che si è amplificato all’indirizzo dei singoli interpreti e trasformato in vera ovazione quando sul proscenio si sono presentati Elena Schirru e il maestro Palumbo.

 

 

 

Categorie: Musica corale

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