Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Stefano Francioni Produzioni
presenta
Cristiana Capotondi
LA VITTORIA È LA BALIA DEI VINTI
di Marco Bonini
musiche Jonis Bascir
regia Marco Bonini
Una mamma di oggi mette al letto la sua bambina di 6 anni che le chiede, come storia della buonanotte, di raccontarle qualcosa di quando lei, la sua mamma, era bambina. La mamma pesca nella memoria e le viene in mente l’avventura della bis-nonna Vittoria e di come il 25 settembre 1943, giorno del bombardamento a Firenze, aveva aiutato due gemelli. In un racconto tra l’evocazione fiabesca e la ricostruzione storica, la mamma rievoca la notte di Firenze sotto il fuoco “alleato” quando uno stormo di 36 aerei Wellington inglesi, mirando all’importante nodo ferroviario della stazione di Campo di Marte, manca inesorabilmente l’obiettivo ferroviario causando così la morte di centinaia di civili e pesanti devastazioni nelle zone adiacenti la ferrovia. Quella notte Nonna Vittoria è nascosta nel rifugio improvvisato nelle cantine di Palazzo Pitti, dove risiede in quanto moglie del sovraintendente ai beni culturali di Firenze. Quella notte Nonna Vittoria non si trova ad affrontare solo l’incubo della guerra, ma anche la vertigine di tabù sociale, allattare i due gemelli della sua balia che per lo shock aveva perso il latte. La guerra è uguale per tutti e sotto le bombe non ci sono più corti e signorie, piani alti e piani bassi, scale da scendere o da salire. Quando cadono le bombe dal cielo siamo tutti allo stesso piano, tutti nascosti in cantina. Lì sotto una madre vale una madre, un bambino un bambino, una balia un seno pieno di latte. Quando siamo tutti sotto le bombe non ci sono più vincitori né vinti. Sotto le bombe la Signora può servire la serva. Sotto le bombe la Vittoria è la balia dei vinti. Qui per tutte le informazioni.
Melodramma eroico in due parti su libretto di Domenico Gilardoni. Nicola Alaimo (Murena), Albina Shagimuratova (Argelia), Sergey Romanovsky (Settimio), Lluís Calvet i Prey (Publio), Kezia Bienek (Leontina), André Henriques (Lucio, Fulvio). Opera Rara Chorus, Stephen Harris (maestro del coro), Britten Sinfonia, Carlo Rizzi (direttore). Registrazione: Fairfield Halls, Croydon, maggio 2023. 2 CD OPERA RARA ORC64.
Gaetano Donizetti vantava nel 1828 già un buon numero di titoli ma nessun autentico successo e soprattutto sembrava ancora cercare una propria, autentica strada. La lezione di Rossini era ancora dominante così come la necessità di andare oltre al pur illustre modello. Una nuova commissione per il San Carlo era occasione prestigiosa per l’ancor giovane compositore ma il libretto de “L’esule di Roma” che Domenico Gilardoni aveva liberamente tratto dal dramma “Androclès ou le Lion reconnaissant” di Louis-Charles Caigniez (1804) ispirato all’apologo di Androclo e il leone presente in Eliano e Aulo Gellio non sembrava fornire l’opportunità ideale per far brillare il giovane compositore. Testo datato, ancora legato a un’estetica neoclassica che stava rapidamente declinando il libretto fornì invece a Donizetti inattese occasioni di sperimentazione. Come sarà più tardi con “Belisario” proprio questi testi più convenzionali sembrano spingere il compositore alla ricerca di nuovi equilibri formali in cui la tradizione si apre verso inattesi sperimentalismi. Si veda sul piano strettamente formale la chiusura del I atto dove il classico finale è sostituito da un intenso e drammatico terzetto con una soluzione che Bellini riprenderà per il finale primo di “Norma”. L’opera è però soprattutto l’occasione per il primo incontro di Donizetti con un tema che sarà centrale della sua poetica: quello della follia. Follia che qui però non è quella gorgheggiante e astratta delle future eroine sopranili ma quella declamatoria e baritonale del senatore Murena, schiacciato dai sensi di colpa per le ingiuste accuse verso Settimio – innamorato della figlia Argelia e rivale politico dello stesso Murena – nonché per essersi abbassato a esecutore delle perfide trame di Seiano contro un innocente. Una follia virile – tema che in Donizetti tornerà solo nel “Torquato Tasso” del 1833 e in forme indefinite tra realtà e simulazione nel “Furioso all’isola di San Domingo” dello stesso 1833 – in cui l’evidente modello dell’Assur rossiniano viene calato in una dimensione più umana e dolorosa, in cui l’eroismo oscuro del tiranno babilonese cede alla pietà paterna e al senso di colpa civile del senatore romano.
La presente edizione Opera Rara – registrata in occasione di alcune recite in forma di concerto – presenta per la prima volta la nuova edizione critica a cura di Roger Parker e si arricchisce del solito ricco apparato testuale che caratterizza le produzioni dell’etichetta inglese.
Carlo Rizzi è un collaboratore abituale di Opera Rara ma con quest’opera trova una particolare sintonia riuscendo a rendere alla perfezione il clima sospeso tra rigore neoclassico e accensioni romantiche che la caratterizza. Vantaggio non trascurabile il disporre di una compagine strumentale della qualità della Britten Sinfonia che esalta una scrittura orchestrale a tratti particolarmente ispirata. Si ascolti il magnifico andate “Vagiva Emilia ancora” il cui l’arpa e i fiati accompagnano il canto del baritono in una melodia non dimentica del finale del “Mosè in Egitto” rossiniano ma che riporta l’abbandono mistico di questi in un dolore vivo e prettamente umano. Molto positiva anche la prova del coro discretamente impegnato e con una scrittura di sapore quasi oratoriale.
Nel cast spicca Nicola Alaimo autore di una prestazione esemplare tanto sul piano vocale quanto su quello interpretativo. La morbidezza del canto, l’eleganza del fraseggio e la facilità degli acuti – tutti i da capo sono variati secondo la prassi esecutiva d’epoca – si uniscono infatti a una dizione di esemplare chiarezza, quanto mai importante in un ruolo tanto caratterizzato da ampi declamati e un canto di esemplare compostezza, mai plateale ma sempre raccolto e raffinato e proprio per questo ancor più incisivo del tratteggiare la dolente umanità del personaggio. La scena della follia è – anche al solo ascolto – un momento di autentico teatro grazie alle qualità di Alaimo. Il resto del cast rientra nell’ambito della correttezza. Sergey Romanovsky viene dall’Accademia Rossiniana di Pesaro e quindi ha il gusto aplomb stilistico per la parte di Settimio di cui coglie soprattutto il lato più lirico. Il canto è facile, gli acuti sicuri, la quadratura musicale estremamente corretta. Resta però un sentore d’incompiuto, come se tutto fosse fatto si bene ma in modo molto artificioso, priva di quella naturalezza che si vorrebbe. Vale per la dizione – pulita ma che sa un po’ d’inamidato. Nulla fuori posto ma non riesce a entusiasmare a lasciare il segno. Mancano – e non sarebbe dispiaciuto averle in appendice – le arie aggiunte per Donzelli nel 1840.
Albina Shagimuratova è notevole soprano di coloratura ma alle prese con una parte non ideale per la sua vocalità. Certo non manca di qualità e con acuti facilissimi, ottimo controllo del fiato e coloratura sgranate con abbagliante facilità a facile gioco a trionfare nel rondò finale. Questi pregi sono anche il suo limite perchè abbiamo una visione monodimensionale del personaggio, privo di una più autentica intensità drammatica che la parte sembra in più punti richiedere ma che facciamo fatica a trovare. Lluis Calvet i Prey fa buona impressione nei panni di Publio e molto valide tutte le parti di fianco. Resta comunque un’ottima occasione per conoscere un’opera poco documentata – in precedenza una sola edizione discografica – e ancor meno rappresentata ma non per questo priva d’interesse.
Roma, Pantheon
OCULUS SPEI
di Annalaura di Luggo
L’installazione multimediale interattiva “Oculus-Spei” di Annalaura di Luggo, ospitata nel Pantheon di Roma, rappresenta un esempio emblematico di come l’arte contemporanea possa interagire con spazi storici, simbolici e spirituali per veicolare messaggi di inclusione e riflessione universale. Quest’opera, concepita in stretta relazione con il tema della speranza, trova la sua matrice concettuale nell’incipit della bolla papale del Giubileo 2025, dove si afferma che “Spes non confundit” (“La speranza non delude”). La scelta del Pantheon come sede dell’intervento appare particolarmente significativa: luogo emblematico della classicità, esso è stato riconfigurato nei secoli come spazio sacro cristiano, costituendo un unicum nella stratificazione storica, culturale e simbolica della città di Roma. L’artista ha saputo cogliere e amplificare questa stratificazione, trasformando l’edificio in un laboratorio esperienziale dove arte, tecnologia e spiritualità si intrecciano per proporre una riflessione profonda sulla condizione umana. Il progetto si struttura intorno a un’interazione simbolica e fisica con il fascio di luce proveniente dall’oculus sommitale del Pantheon, elemento architettonico e simbolico di straordinaria potenza evocativa. Questo raggio luminoso diviene la guida che conduce i visitatori attraverso un percorso scandito da cinque porte, le cosiddette Porte Sante. Esse non sono semplicemente varchi materiali, ma piuttosto elementi carichi di significati simbolici, rappresentazioni di altrettante tappe di un viaggio spirituale e culturale. L’esperienza non si limita a una dimensione visiva, ma coinvolge attivamente il pubblico, chiamato a interagire con le porte, bussando concretamente a esse. Questo gesto fisico, apparentemente semplice, acquisisce una valenza metaforica profonda, rappresentando l’atto di ricerca, apertura e trasformazione interiore. Le guide in questo pellegrinaggio simbolico sono persone con disabilità, figure che, nella concezione della di Luggo, si configurano come veri e propri Virgilio moderni. La loro presenza non è puramente rappresentativa, ma parte integrante della narrazione proposta dall’artista. Essi illuminano il percorso dei visitatori, trasfigurati a loro volta dalla luce, incarnando il potenziale trasformativo della speranza e della resilienza. Questo incontro tra arte, spiritualità e inclusione sociale si traduce in uno “sguardo” inedito sulla realtà e sulla bellezza interiore, capace di superare i limiti imposti dalle convenzioni estetiche e culturali. Le quattro vele del logo del Giubileo 2025, simbolicamente associate ai quattro angoli del mondo, costituiscono il riferimento iconografico principale delle prime quattro porte. Ognuna di esse rappresenta una dimensione universale, un varco verso un altrove che invita alla scoperta, all’apertura e alla connessione. Il viaggio culmina nella quinta porta, situata idealmente presso il Carcere di Rebibbia, che Papa Francesco ha voluto simbolicamente elevare a Porta Santa aggiuntiva. In questa fase finale del percorso, il visitatore è messo di fronte a sé stesso attraverso un sistema tecnologico avanzato di gesture recognition, che permette di interagire in tempo reale con la propria immagine riflessa e con l’ambiente circostante. Questa esperienza, resa possibile dalla luce come medium principale, stimola una riflessione profonda sulla condizione umana, sul rapporto tra il sé e l’altro, e sul significato della speranza come motore di cambiamento. L’intera installazione può essere letta come una metafora della spiritualità universale, un invito a superare le barriere culturali, sociali e personali attraverso un linguaggio artistico che coniuga profondità simbolica e accessibilità esperienziale. L’opera, inoltre, si colloca nel contesto della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità nei musei, sottolineando la necessità di rendere l’arte e la cultura strumenti inclusivi, capaci di promuovere pari opportunità e dignità per tutti. La scelta della di Luggo di affidare alle persone con disabilità un ruolo centrale nel progetto non è meramente decorativa, ma rappresenta un atto politico e culturale, un richiamo alla responsabilità collettiva verso una società più equa e solidale. In termini estetici e concettuali, Oculus-Spei si pone come un esempio paradigmatico di come l’arte contemporanea possa dialogare con i grandi temi della tradizione senza cadere nella banalizzazione o nella retorica. L’affermazione di Gerhard Richter secondo cui “L’arte è una forma di speranza” trova in quest’opera una realizzazione tangibile. La di Luggo declina questa speranza in una molteplicità di forme: dall’invito alla riflessione personale alla proposta di una visione collettiva e universale, passando per l’interazione tecnologica che amplia le possibilità percettive ed emotive del pubblico. Le porte stesse, con la loro presenza imponente e il loro significato simbolico, diventano elementi enigmatici e affascinanti, capaci di suscitare l’immaginazione e di stimolare una riflessione sul rapporto tra il visibile e l’invisibile. Esse si configurano come totem arcaici che, attraverso il loro disvelamento progressivo, conducono a una rivelazione epifanica. In questo contesto, la luce gioca un ruolo fondamentale, non solo come elemento fisico e tecnologico, ma anche come simbolo della conoscenza, della speranza e della trasformazione interiore. L’artista utilizza la luce per “attivare” gli spazi, rendendoli vivi e capaci di interagire con il pubblico in modi profondamente significativi. L’intero progetto si inserisce nel percorso artistico di Annalaura di Luggo, caratterizzato da una costante attenzione ai temi della sostenibilità, dell’inclusione e della trasformazione sociale. Le sue opere precedenti, come “Blind Vision” e “Napoli Eden”, testimoniano un impegno costante nel coniugare arte e responsabilità etica. In “Oculus-Spei”, questo impegno si traduce in una proposta che non solo celebra il valore dell’arte come strumento di conoscenza e riflessione, ma la rende anche un mezzo per promuovere un cambiamento reale nella percezione e nella comprensione del mondo. L’opera, infine, rappresenta un esempio emblematico di come l’arte possa essere un ponte tra tradizione e innovazione, tra spiritualità e laicità, tra dimensione individuale e collettiva. Oculus-Spei non è solo un’installazione artistica, ma un’esperienza trasformativa che invita a ripensare il ruolo dell’arte nella società contemporanea e a riscoprire il valore della speranza come forza generatrice e rigeneratrice. Essa ci ricorda che l’arte, quando autentica e profondamente radicata nei valori umani universali, può davvero rappresentare una forma di resistenza all’omologazione e un faro luminoso in un mondo sempre più frammentato e complesso.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
FRANCISCUS
Il folle che parlava agli uccelli
di e con Simone Cristicchi
scritto con Simona Orlando
canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara
musiche e sonorizzazioni Tony Canto
scenografia Giacomo Andrico
luci Cesare Agoni
costumi Rossella Zucchi
aiuto regia Ariele Vincenti
regia Simone Cristicchi
Centro Teatrale Bresciano
Accademia Perduta Romagna Teatri
Roma, 03 dicembre 2024
C’è un momento nel teatro in cui la scena smette di essere un luogo fisico e diventa un altrove. In Franciscus – Il folle che parlava agli uccelli di Simone Cristicchi, questo momento si manifesta in un silenzio carico di significato, quando la narrazione si arresta, la musica si espande e la luce scolpisce spazi di sacralità. È qui che l’arte performativa compie il suo miracolo: quello di trasformare una storia antica in un’esperienza contemporanea, capace di interrogare chi siamo e dove stiamo andando. Simone Cristicchi, con una sensibilità che ricorda i menestrelli medievali, costruisce un’opera polifonica in cui teatro, musica e poesia si intrecciano con un rigore quasi liturgico. Il punto di partenza non è semplicemente la figura di San Francesco, ma il concetto di “santità” come ribellione all’ordine costituito. Francesco, nel racconto di Cristicchi, non è solo il poverello di Assisi, ma il folle che parla agli uccelli per sfidare il linguaggio umano, ormai corrotto dalla logica del potere e del possesso. La struttura drammaturgica si basa su un equilibrio instabile, ma calcolato, tra narrazione e rappresentazione simbolica. Il personaggio di Cencio, lo stracciaiolo marginale, non è una semplice invenzione narrativa: è una figura metateatrale, un demiurgo inconsapevole che guida lo spettatore in un viaggio di decostruzione della realtà. Con il suo dialetto impastato di umbro, latino e francese antico, Cencio non solo osserva Francesco, ma lo traduce per noi, rendendolo comprensibile e, al tempo stesso, misterioso. La scelta di frammentare il linguaggio si rifà a un’idea ben precisa: quella di ricreare la Babelica incomprensione che precede ogni vera rivelazione. La scenografia, curata da Giacomo Andrico, è un esempio perfetto di come l’essenzialità possa diventare il veicolo di un’estetica complessa. Le gigantesche colonne che dominano il palcoscenico non si limitano a evocare una cattedrale incompiuta, ma suggeriscono anche la tensione tra il cielo e la terra, tra la grandezza divina e la fragilità umana. È un linguaggio visivo che richiama le geometrie simboliche di Piero della Francesca: ogni elemento è disposto con precisione, ogni vuoto è carico di significato. L’albero della vita che compare nel finale non è solo un’epifania scenografica, ma una metafora del continuo rigenerarsi della fede, un memento della ciclicità che caratterizza la relazione tra uomo e natura. Dal punto di vista musicale, Franciscus si presenta come una partitura che alterna momenti lirici e corali a episodi di pura introspezione. Le canzoni, scritte dallo stesso Cristicchi in collaborazione con la cantautrice Amara, non sono semplici intermezzi: esse fungono da controcanto emotivo alla narrazione. La musica si muove su un registro minimalista, con arrangiamenti che privilegiano la trasparenza timbrica e la purezza delle linee melodiche. Gli strumenti – chitarre, archi e percussioni leggere – dialogano con la voce di Cristicchi in un continuo gioco di richiami e pause, creando un tessuto sonoro che avvolge lo spettatore senza mai sovrastarlo. Un esempio emblematico è il brano che accompagna il momento in cui Francesco abbandona le ricchezze del padre. Qui, la musica si spoglia progressivamente, passando da un arrangiamento orchestrale a un semplice pizzicato di chitarra, come a suggerire la nudità dell’anima di fronte a Dio. È un procedimento che richiama le tecniche della musica sacra barocca, ma con una sensibilità contemporanea che rende ogni nota vibrante di modernità. Dal punto di vista tecnico, è interessante notare come Cristicchi utilizzi la sua voce non solo come strumento narrativo, ma anche come elemento drammaturgico. La sua interpretazione si muove tra il parlato e il cantato, con una fluidità che ricorda il teatro di narrazione di Dario Fo, ma con un’intimità che lo avvicina al Lied romantico. Ogni parola è calibrata, ogni pausa è un invito al raccoglimento. È un’arte della misura che rivela una profonda consapevolezza dei tempi teatrali e musicali. Il disegno luci di Cesare Agoni, fondamentale per la costruzione dell’atmosfera, alterna chiaroscuri caravaggeschi a improvvise esplosioni di colore, come nel momento in cui Francesco si rivolge al sole e alla luna. La luce, in questo caso, diventa essa stessa protagonista, modellando lo spazio scenico e amplificando la dimensione simbolica dell’azione. Un aspetto particolarmente interessante dello spettacolo è il suo rapporto con il pubblico. Franciscus non si limita a raccontare una storia, ma interpella direttamente lo spettatore, lo sfida a diventare parte attiva del processo interpretativo. Non ci sono risposte preconfezionate, né facili soluzioni: tutto è lasciato aperto, come a suggerire che la vera comprensione non è un punto di arrivo, ma un cammino continuo. In questo senso, lo spettacolo si configura anche come un atto politico, nel senso più alto del termine. Parlando di Francesco, Cristicchi ci invita a riflettere su temi universali come la povertà, l’amore per il Creato, la necessità di un’etica che trascenda il materialismo. Ma lo fa senza mai scadere nella retorica, lasciando che siano le immagini, i suoni e i silenzi a parlare. È impossibile uscire da Franciscus senza sentirsi trasformati. Non si tratta solo di uno spettacolo, ma di un’esperienza totalizzante che coinvolge i sensi e lo spirito. In un’epoca in cui il teatro rischia di essere relegato a mero intrattenimento, Cristicchi ci ricorda che esso può – e deve – essere anche un luogo di interrogazione, di ricerca, di speranza. Franciscus – Il folle che parlava agli uccelli non è semplicemente un omaggio a San Francesco: è una celebrazione del potere dell’arte di aprire nuove prospettive, di farci volare al di là delle nostre gabbie quotidiane. Come Francesco parlava agli uccelli, Cristicchi parla a noi, con una voce che è al tempo stesso antica e nuova, capace di risvegliare in noi il desiderio di guardare il mondo con occhi diversi. E, forse, di viverlo con un cuore più aperto. @photocredit Edoardo Scremin
Roma, Casa Balla
CASA BALLA RIAPRE LE SUE PORTE
in occasione dell’apertura della mostra “Il Tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea da giovedì 5 dicembre riprendono le visite alla straordinaria casa futurista di Giacomo Balla, vera e propria opera d’arte totale nel cuore di Roma
Progetto a cura del MAXXI
in collaborazione con la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma
In occasione dell’apertura della mostra Il Tempo del Futurismo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la straordinaria casa futurista di Giacomo Balla riapre le sue porte al pubblico da giovedì 5 dicembre 2024 (info e biglietti casaballa.maxxi.art). Nell’ambito di questa iniziativa, il quadro Espansione Fiore n.17 (1929 circa), di recente entrato a far parte della collezione permanente del MAXXI, verrà esposto nella casa di Via Oslavia, segnando così il ritorno dell’opera nel suo spazio originario, lì dove Balla si trasferì nel 1929 con tutta la famiglia. Da quel momento ebbe inizio la trasformazione della casa stessa in un’opera d’arte “totale” in cui oggetti, strutture e arredi sono frutto del suo estro creativo e della sua capacità trasformativa applicata al quotidiano domestico. A seguito di un intervento conservativo realizzato grazie al sostegno di IGT, Espansione Fiore n.17, l’unica tra le originali disperse in tutto il mondo, viene così restituita alla serie di tele poste nella parte superiore delle pareti del corridoio della Casa. Giacomo Balla (Torino 1871- Roma 1958) visse e lavorò nella casa di via Oslavia a partire dal 1929. Un appartamento che per Balla, la moglie Elisa Marcucci e le due figlie Luce ed Elica, anch’esse pittrici, diverrà la casa di tutta la vita, il luogo eletto trasformato dalla famiglia in opera d’arte. Casa Balla è un laboratorio di sperimentazione fatto di pareti e porte dipinte, mobili e arredi decorati, utensili autocostruiti, quadri e sculture, abiti disegnati e cuciti in casa e tanti altri oggetti che, insieme, hanno creato un unico e caleidoscopico progetto totale. La Casa è un’officina, un universo costellato di forme e colori nel quale tutt’oggi si respira un’atmosfera che riflette le idee espresse nel manifesto sulla Ricostruzione futurista dell’universo, firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel 1915. Nell’universo balliano convivono funzionalità ed estetica creando un connubio nuovo e vitale: l’Arte investe tutto e gli oggetti ideati e costruiti per l’uso quotidiano, tavolini, sedie, scaffali, cavalletti, posacenere, piatti, piastrelle, seppur poveri nei materiali, sono ricchissimi nella vena creativa e rendono l’appartamento un luogo magico di metamorfosi. Salotto intellettuale per molte personalità dell’arte e della cultura, Casa Balla ha chiuso le sue porte negli anni novanta con la scomparsa delle figlie. È stata aperta a giugno 2021 per la prima volta dopo 30 anni, in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita del maestro (Torino 1871- Roma 1958), grazie alla collaborazione interistituzionale del MAXXI con la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma e il contributo di Banca d’Italia. La sua apertura al pubblico ha aggiunto un tassello fondamentale nella cultura e nella storia dell’arte italiana e mondiale e la casa è finalmente tornata a essere fonte di ispirazione e punto di riferimento per le giovani generazioni di artisti.
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
L’ALBA DELL’AUTOSTRADA DEL SOLE
realizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura e l’Archivio Storico Luce Cinecittà
con il contributo visivo delle fotografie di Luca Campigotto, Silvia Camporesi e Barbara Cannizzaro
Roma, 03 dicembre 2024
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea celebra una delle imprese più straordinarie del Novecento italiano con una mostra che racconta la storia e l’anima dell’Autostrada del Sole, simbolo dell’unità nazionale e trionfo dell’ingegneria moderna. Un viaggio espositivo che unisce arte, memoria storica e riflessione sociale, realizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura e l’Archivio Storico Luce Cinecittà, con il contributo visivo delle fotografie di Luca Campigotto, Silvia Camporesi e Barbara Cannizzaro. L’Autostrada del Sole non è soltanto una via di comunicazione: è una narrazione epica che ha segnato un’epoca e ha ridefinito i confini culturali e infrastrutturali del Paese. Inaugurata il 4 ottobre 1964, questa arteria che collega il Nord e il Sud Italia ha rappresentato un ambizioso progetto ingegneristico, realizzato in soli otto anni, dall’avvio dei lavori nel maggio del 1956 a San Donato Milanese fino al completamento dell’opera. Con 113 ponti e 38 gallerie, essa ha richiesto soluzioni progettuali innovative firmate da grandi nomi dell’ingegneria e dell’architettura, come Riccardo Morandi e Giorgio Macchi, diventando uno dei simboli del boom economico e della modernizzazione dell’Italia. La mostra, aperta al pubblico dal 4 dicembre 2024 al 28 febbraio 2025, guida i visitatori in un percorso che intreccia le immagini contemporanee di Campigotto, Camporesi e Cannizzaro con materiali d’epoca provenienti dall’Archivio Luce. Questo dialogo visivo mette in luce il ruolo dell’Autostrada del Sole non solo come infrastruttura, ma come un segno indelebile nella memoria collettiva, espressione di una volontà di progresso che ha unito territori e persone. La collaborazione tra pubblico e privato, tra operai, ingegneri e dirigenti, è raccontata attraverso documenti, filmati e immagini che testimoniano lo straordinario impegno di aziende come Agip, Fiat, Italcementi e Pirelli, protagoniste nel sostenere questa opera titanica. L’esposizione non si limita a narrare le imprese ingegneristiche: essa si sofferma anche sulle trasformazioni culturali e sociali che hanno accompagnato la nascita dell’Autostrada del Sole. La visione poetica dei fotografi contemporanei si unisce a documentari e film storici, come Viadotto sull’Aglio di Carlo Nebiolo, per restituire l’impatto di questa arteria sulla società italiana, così come raccontato anche da opere cinematografiche iconiche come Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica, premiato con l’Oscar. Tra le curiosità della mostra, spicca l’evoluzione architettonica ispirata dall’Autostrada, rappresentata dalla celebre Chiesa dell’Autostrada di Giovanni Michelucci, capolavoro che interpreta la mobilità come metafora di incontro, e dalla prima stazione di ristoro “a ponte”, progettata da Angelo Bianchetti. Questi elementi non solo segnano un’epoca, ma illustrano il dialogo tra funzionalità e estetica che caratterizza le grandi opere infrastrutturali. Le parole di Lucia Borgonzoni, sottosegretario di Stato alla Cultura con delega alla Fotografia, sottolineano l’importanza di questo progetto: “Celebriamo un’impresa leggendaria che ha cambiato la vita degli italiani, rappresentando un effetto volano per l’economia nonché un tassello fondamentale delle eccellenze italiane all’estero. La volontà di unire persone e territori, infatti, fu più forte di tutti gli ostacoli che si incontrarono durante la costruzione dell’opera. Il lavoro del Ministero della Cultura, dell’Archivio Storico Luce Cinecittà e dei fotografi e artisti coinvolti vuole celebrare il ricordo dell’intera narrazione storica che precede e rende quest’opera un eterno simbolo dell’unità nazionale”. Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà e curatrice della mostra, aggiunge: “L’Autostrada del Sole è l’arteria principale del Paese, un luogo che non abbiamo mai smesso di attraversare, ognuno con la propria sensibilità e il proprio sguardo. La mostra ripercorre quel viaggio dalla posa della prima pietra fino ad oggi, attraverso i volti dei passeggeri e conducenti, i paesaggi poetici e i monumenti che costeggiano la grande infrastruttura che ha unito l’Italia. Ogni immagine vuole essere immaginata, è un appello rivolto agli spettatori, e questa mostra fotografica vuole ricordare e celebrare il sessantesimo compleanno della regina delle nostre strade moderne”. Questa mostra non si limita a celebrare un’infrastruttura: racconta il passaggio cruciale dell’Italia verso la modernità, unendo memoria e innovazione in un percorso visivo che riflette sul significato profondo dell’Autostrada del Sole come simbolo di progresso e di unione nazionale. Photocredit Agnese-Sbaffi-©-Ministero-della-Cultura
Firenze, Teatro della Pergola, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2024/25
Pianoforte Sir András Schiff
Johann Sebastian Bach: Die Kunst Der Fuge, BWV 1080
Firenze, 30 novembre 2024
Avvicinarsi a Bach è sempre un’esperienza significativa. Compositore molto fecondo tanto che l’opera omnia, superando un migliaio di lavori fa convivere, in una fitta rete di rimandi, dottrina musicale, teologia, matematica, cabala, retorica, ecc. Ascoltarlo e studiarlo è come immaginare il più complesso ‘contrappunto alla mente e allo spirito’ che si possa concepire in una musica che, pur generatrice di armonia e bellezza, per nostra imperfezione non si è in grado di ‘comprendere’ attraverso la percezione uditiva come accade similmente con la musica humana di boeziana memoria. Pensando alla sua produzione sacra, egli si serve del binomio predicazione/insegnamento tanto da non stupire l’influenza di Athanasius Kircher e, più in particolare, della sua Musurgia universalis. Pur di nutrirsi del ‘verbo bachiano’, attingendo alla metafora, basterebbe l’accettazione al suo invito (Quaerendo invenietis) consapevoli di quanto egli, pur saldamente radicato al passato, costituisca ancora oggi la radice principale da cui far nascere qualsiasi tipo di pianta. Entrando in medias res il concerto che ha visto interprete al pianoforte Sir András Schiff nell’Arte della fuga (Die Kunst Der Fuge), la celeberrima raccolta di composizioni strumentali, senza una specifica destinazione, che insieme all’Offerta musicale (Musicalisches Opfer) BWV 1079 costituisce la summa mai raggiunta nell’arte del contrappunto, è stato un evento indimenticabile. L’espressione del pianista («uno dei più importanti interpreti di Bach del nostro tempo» e Medaglia Bach della città di Lipsia nel 2022): «Bach il più grande della musica», non solo ricorda la communis opinio, ma richiama alla mente il debito che tutti hanno nei confronti degli antichi. La dottrina del compositore (indiscussa auctoritas) dona il privilegio di vedere e intuire lontano solo per il fatto di essere “seduti sulle spalle dei giganti”. Lo stesso cognome, come ricordato da Schiff (riferendosi al sistema tedesco di notazione), è musica (B = Sib; A = La; C = Do; H = si naturale) e oltre ad essere scritto in alcune sue opere, si è ascoltato nel terzo soggetto dell’ultima fuga. L’efficacia della natura del soggetto è talmente forte che molti grandi del passato lo hanno preso in prestito per comporre. Pregevole l’iniziativa del musicista nel presentare e far ascoltare al pianoforte ogni elemento costitutivo ed aspetto trasformativo dell’opera, a partire dalla prima esposizione del soggetto in re minore (Re-La-Fa-Re- Do#-Re-Mi-Fa-Sol-Fa-Mi-Re). Sinceramente però non si può stabilire quanto il pubblico avrà percepito dalla lectio magistralis del visionario maestro ungherese. Di fatto tutta la narrazione, già ardua per gli sprovvisti di competenze compositivo-musicologiche, era ancora più difficile in assenza della partitura e di una consapevolezza di un linguaggio così denso di tecnicismi e rimandi al ragionare con i suoni. Tuttavia, si può affermare che l’operazione di Schiff è stata lodevole in quanto, grazie al suo carisma, è riuscito a far percepire quel ‘profumo paradisiaco’ che si può ammirare attraverso una visione scientifica della musica (Ars Musica) con lo stupore di cui ogni essere umano è dotato. A comprendere l’interpretazione del pianista, nel suo aspirare al logos, era richiesto silenzio onde entrare in contatto con il verbo bachiano. Ascoltare Schiff nello scolpire michelangiolescamente ogni elemento della fuga rimandava alla concezione goethiana dell’architettura come «musica pietrificata», per la sublime ricerca dei colori sul pianoforte, a tratti sembrava ascoltare la significativa varietà e sfumature di alcuni strumenti a tastiera (clavicordo, clavicembalo, organo, fortepiano e pianoforte). Al pubblico, oltre a restituire ogni parte essenziale dei contrapuncta, grazie ad una timbrica molto ricercata, era proposto quanto presentato nell’esposizione della fuga e, pur nell’attraversamento delle tonalità e di alcune mutazioni, si poteva comunque rintracciare ogni elemento della scrittura bachiana. Chissà, quasi avvicinandosi a certi Salomoni, se per comprendere questa musica occorre recuperare la retorica di Quintiliano o le ‘purgatissime orecchie dei principi’, conoscere il pensiero sulla musica di Leibniz, l’opera omnia di Bach oppure guardare agli obiettivi scientifico-musicali rintracciabili in quella Società musicologica tedesca (Die Correspondierende Societät der musicalischen Wissenschaften), quasi ripartenza dalle Arti liberali (in particolare del Quadrivium), eretta nel 1738 dal suo allievo Lorenz Christoph Mizler? O ancora guardare alla musica del ‘600, in particolare a Frescobaldi di cui sappiamo che Bach conosceva ed aveva copiato per studio i Fiori musicali? Di fatto la musica del Kantor è il respiro che mette in contatto con un universo che ancora attende di essere conosciuto del tutto e che, citando il frescobaldiano «Non senza fatiga si giunge al fine», allude al Quaerendo bachiano. Grazie all’eloquenza musicale di Schiff si potevano percepire esempi significativi come il Contrapunctus 6 [per Diminutionem] in Stylo Francese (il ritmo puntato restituisce la sua stessa maestosità) in cui il soggetto è presentato all’inizio dal basso, per diminuzione e per moto contrario nel soprano e ancora, per diminuzione e moto retto, nell’ alto così come la risposta per diminuzione e per moto contrario nel tenore, ecc.Al grande successo del concerto, presenti anche alcuni musicisti (qualcuno seguiva con la partitura) si deve aggiungere il fuori programma con il Tema delle Variazioni Goldberg (BWV 988). Durante l’esecuzione le mutevoli espressioni facciali del maestro di volta in volta sembravano alludere all’attesa del ‘già e non ancora’: in particolare si sono colte nel silenzio del gremitissimo teatro di fronte alla brusca interruzione della Die Kunst Der Fuge la quale ricorda l’incompiutezza dell’opera che si ferma alla battuta 239, ma anche il suo incantevole enigma.
Roma, Teatro di Documenti
GLI ESCLUSI: Insane Situation Procedure
Un esperimento psico‐teatrale
Di Roberta Calandra
Adattamento e Regia Valentina Ghetti
Con Caterina Gramaglia, Camilla Ferranti, Alessio De Persio, Dario Masciello, Luca Di Giovanni, Leonardo Zarra
Fotografie Beniamino Finocchiaro
in collaborazione con Centro Culturale Mobilità delle Arti, Roberto D’Alessandro e Obiettivo Roma
Roma, 01 dicembre 2024
Un’esperienza teatrale di rara intensità emotiva, capace di scuotere e commuovere, GLI ESCLUSI è molto più di una rappresentazione scenica: è un viaggio dentro l’animo umano e la memoria storica. Ideato da Roberta Calandra, con l’adattamento e la regia di Valentina Ghetti, lo spettacolo ci accompagna in un esperimento psico-teatrale che esplora il delicato equilibrio tra follia e normalità, tra esclusione e riconoscimento. In un misterioso stanzone di una clinica psichiatrica, sei personaggi – figli dimenticati di famiglie illustri – si incontrano e si confrontano. Einstein, Joyce, Togliatti, Agnelli, Kennedy, Mussolini. Chi non conosce questi cognomi? Eppure, se cambiamo i nomi di battesimo, emergono figure inaspettate: figli e parenti protagonisti di storie incredibili, spesso celate nell’ombra della fama altrui. Questi personaggi, il lato nascosto e fragile di famiglie potenti, rappresentano un universo sommerso che il pubblico è chiamato a scoprire. Sono storie che non conosciamo, ma che è necessario conoscere, perché danno voce a ciò che spesso viene escluso, taciuto, ignorato. Questo confronto tra le sei anime – abbandonate o dimenticate, – trasforma la follia in un terreno fertile per la solidarietà e l’amore. Lo spettatore non è solo un osservatore, ma diventa parte integrante di un viaggio che riflette sulla fragilità umana e sull’importanza di accogliere le nostre zone d’ombra. Ogni scena è curata nei minimi dettagli, creando un equilibrio tra spaesamento e intimità. Il ritmo narrativo alterna momenti di tensione a esplosioni emotive che toccano nel profondo, immergendo il pubblico in una dimensione intensa. L’intelligenza della regia si rivela anche nella gestione delle pause, dei silenzi e dei movimenti scenici, che diventano essi stessi veicoli di significato. Il cast offre interpretazioni straordinarie, ognuno con tratti distintivi che rendono i personaggi vivi e indimenticabili. Caterina Gramaglia, nel ruolo di Rosemary Kennedy, è semplicemente magnetica. La sua voce pacata, quasi infantile, amplifica il senso di fragilità del personaggio, mentre il suo corpo sembra continuamente in bilico tra l’obbedienza e il desiderio di ribellione. Anche nei cambi scena, la Gramaglia rimane sempre presente, mai banale, regalando un ritratto che si insinua nell’animo dello spettatore. Camilla Ferranti dà vita a una Lucia Joyce esplosiva e poetica. Lei c’è, la sua presenza scenica è viva, con movimenti fluidi e imprevedibili che riflettono la creatività irrequieta del personaggio. La sua voce, con tonalità che oscillano, trasmette un’anima tormentata e piena di bellezza. Leonardo Zarra, nel ruolo di Benito Albino Mussolini, colpisce per l’intensità del suo sguardo. Assente e al contempo presente, il suo corpo comunica un’inquietudine costante, un senso di attesa irrisolta. Il contrasto tra la rigidità fisica e la vulnerabilità emotiva lo rende vero. Luca Di Giovanni interpreta Aldo Togliatti con una precisa fisicità. Il suo corpo trasmette con forza il peso della storia del personaggio, e ogni gesto, per quanto piccolo, sembra carico di significato. La sua voce, misurata, aggiunge ulteriore profondità, mentre l’uso degli oggetti – la sigaretta, gli scacchi, la settimana enigmistica – è delicato, intimo. Dario Masciello entra in scena nel ruolo di Giorgio Agnelli. La sua eleganza e il suo distacco sono maschere che nascondono una fragilità palpabile. La sua voce ha un tono sommesso, quasi spezzato, che rende ancora più evidente il contrasto tra la sua forza esteriore e la fragilità interiore. Alessio De Persio, nei panni di Eduard Einstein, offre una performance toccante. Il suo tratto distintivo è quel “riso-pianto” struggente, capace di evocare una gamma incredibile di emozioni. Il suo corpo, sempre teso e quasi fuori equilibrio, e la sua voce, che alterna momenti di lucidità a esplosioni emotive, trasportano il pubblico nel cuore della sua tormentata interiorità. Forti i suoi cambi di tono. Lo stanzone della clinica diventa uno spazio simbolico, dove realtà e memoria si intrecciano in un gioco di luci e ombre che amplifica la tensione emotiva. Le musiche, dosate, accompagnano ogni scena con grande forza. Dai brani classici ai suoni alienanti, ogni scelta musicale è calibrata per amplificare le emozioni degli attori e del pubblico, rendendo visibile la psiche dei protagonisti, ma anche quella del pubblico. Durante lo spettacolo, il nome di Friedrich Nietzsche è stato evocato in un momento cruciale. Questo richiamo al filosofo ha avuto un forte impatto emotivo e intellettuale. Nietzsche, con la sua esplorazione del caos interiore come forza creativa e la sua riflessione sulla fragilità dell’esistenza, incarna perfettamente le tensioni vissute dai personaggi de Gli Esclusi. Come infatti afferma “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante.” Nel testo delle “note di sala”, l’autrice Roberta Calandra e la regista Valentina Ghetti invitano il pubblico a osservare con un approccio scientifico le reazioni suscitate dai diversi stimoli proposti. Il pubblico in realtà diventa parte integrante dell’esperimento: ciò che sembra inizialmente un ruolo passivo di osservatori si rivela invece un coinvolgimento diretto, poiché l’obiettivo finale si scopre essere quello di essere osservati. Chi sono, dunque, i veri folli? Lo spazio scenico è progettato per favorire un’interazione intensa, costringendo ogni spettatore a confrontarsi inevitabilmente con le proprie fragilità, rendendo la distanza tra osservatori e osservati sempre più labile. Alla fine dello spettacolo l’applauso è lungo e commosso. Nessuno rimane indifferente. Gli attori, ancora nei loro ruoli, salutano il pubblico con una presenza che mantiene viva l’atmosfera dello spettacolo fino alla fine. GLI ESCLUSI – Insane Situation Procedure è uno spettacolo necessario. È un monito sul potere del teatro di scavare nelle pieghe più profonde dell’animo umano, restituendo dignità a figure dimenticate e invitandoci a riconoscere le nostre stesse esclusioni interiori. È un’esperienza che scuote, trasforma, lascia il pubblico con occhi nuovi e una rinnovata consapevolezza. Photocredit Beniamino Finocchiaro
Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2024
“WERTHER”
Drame lyrique in quattro atti su libretto di Édouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann dal romanzo epistolare I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe
Musica di JULES MASSENET
Werther FRANCESCO DEMURO
Le Bailli ANDREA PORTA
Charlotte EGLE WYSS
Albert DOMENICO BALZANI
Schmidt NICOLAS RESINELLI
Johann MICHAEL ZENI
Sophie ILARIA VANACORE
Brühlmann SIMONE CASU
Käthchen AURORA CARTA
Orchestra e Coro di Voci bianche dell’ Ente Concerti Marialisa De Carolis
Direttore Daniele Agiman
Maestro del coro Salvatore Rizzu
Regia Stefano Vizioli
Costumi Anna Maria Heinrich
Scene Emanuele Sinisi
Luci Vincenzo Raponi
Allestimento Teatro Sociale di Como/Aslico in coproduzione con i Teatri di OperaLombardia
Sassari, 29 novembre 2024
La coincidenza esatta col centenario dalla scomparsa di Puccini non ha portato fortuna al “Puccini francese”: tale sarebbe infatti Jules Massenet secondo un consolidato, ed errato, luogo comune. Un incidente tecnico, che ha bloccato il sipario tagliafuoco in posizione di chiusura, ha ridotto il palcoscenico del Teatro Comunale a pochi metri di proscenio, inficiando di fatto la realizzazione dell’allestimento di Stefano Vizioli, già progettato per l’Aslico nel 2020. In attesa di chiarire cause ed eventuali responsabilità del danno, si è cercato di rimediare imbastendo una regia ovviamente molto limitata dalla contingenza, con entrate dalle porte laterali, sfruttando i corridoi di platea e recuperando qualche proiezione ed elemento di arredo. Con molta buona volontà, capacità di arrangiarsi e spirito di adattamento lo spettacolo è comunque andato in porto tra gli applausi del pubblico che ha mostrato simpatia e comprensione nonostante l’evidente penalizzazione. Oltretutto le problematiche hanno ovviamente avuto la loro influenza sugli equilibri fonici e l’acustica, impedendo quindi il pieno apprezzamento di una produzione che aveva vari motivi d’interesse, a partire dalla partecipazione nel ruolo del titolo di Francesco Demuro, artista locale ora di casa in palcoscenici internazionali di assoluto prestigio. Va quindi notata la capacità di resilienza, usando un termine alla moda, di artisti e maestranze tecniche per aver messo in scena uno spettacolo complesso in una situazione difficile, tra l’altro con temperature tropicali, probabilmente dovute a un riscaldamento non regolato sull’imprevisto taglio della cubatura. Quindi è difficile, per scontate ragioni, esprimere un giudizio completo sulla produzione e soprattutto, viste le difficoltà, che non metta in rilievo solo ciò che di positivo è emerso da tale emergenza. A partire dai protagonisti: Demuro ha svettato per bellezza timbrica, fraseggio ed espressione, specialmente in mezze voci di rara intensità; l’unica aria ben conosciuta dal grande pubblico Pourquoi me reveiller è stata un gioiello di gusto e dinamiche dosate alla perfezione, ma è da sottolineare anche il bellissimo finale su ostinato, capace di coniugare controllo ed emozione in maniera superba. Ma la vera sorpresa è stata l’eccellente prestazione di Egle Wyss, veramente apprezzabile nella parte di Charlotte per vocalità, espressione, varietà dinamica, uguaglianza dell’emissione e sicurezza tecnica: il suo terzo atto è stato emozionante e, in generale, il punto più alto dello spettacolo. Gli altri interpreti, nell’opera su un secondo piano rispetto allo spazio di quelli principali, hanno nel complesso dato tutti una buona dimostrazione di professionalità e delle loro doti: sarebbe da segnalare in proposito la fresca vivacità di Ilaria Vanacore, nel ruolo di Sophie, la buona resa scenica di Domenico Balzani e Andrea Porta e la fluida intesa di Nicolas Resinelli e Michael Zeni, di cui va segnalata inoltre l’importante vocalità. Come detto l’inedita situazione ha probabilmente favorito, vista anche l’orchestrazione talvolta pesante, alcuni eccessi strumentali che hanno occasionalmente sovrastato i cantanti, penalizzando soprattutto il protagonista; a parte ciò Daniele Agiman ha diretto con una certa finezza l’insieme, grazie a una buona orchestra del De Carolis, di cui va notata la pulizia ed espressione nei numerosi soli degli archi. Una menzione doverosa va inoltre alle voci bianche del coro De Carolis, ben preparate da Salvatore Rizzu, precise e duttili nonostante la scena modificata. Dell’allestimento abbiamo quindi potuto ammirare solo la pulizia di certi movimenti, i bei costumi di Anna Maria Heinrich e l’idea interessante del finale tra una Charlotte anziana e limitata da una carrozzina che, nell’ambiguità tra memoria, sogno e realtà, neanche davanti alla morte prossima del suo amore irrisolto riesce a stargli fisicamente vicina, pur contraddicendo il testo: difficile poter esprimere un giudizio senza vedere la regia realizzata integralmente, ma sarebbe probabilmente molto interessante se tale principio di distanza fisica/costrizione morale fosse allora coerentemente espresso in tutte le scene tra i protagonisti. Che dire infine di quest’opera, mai entrata veramente nel cuore dei melomani nostrani? È un bel lavoro: si sentono in Massenet tutti i pregi della scuola francese, a partire dalla solida costruzione armonica fino all’originale orchestrazione, con soluzioni come l’utilizzo del sassofono o dei suoni bouchés allora quasi sconosciuti alla nostra tradizione; ma d’altra parte sentire, a fine ottocento, certi recitativi fuori tempo massimo e varie lentezze nel ritmo teatrale, testimonia qualche ritardo storico. Probabilmente, proprio nell’anniversario dalla scomparsa dell’ultimo grande genio del melodramma italiano, con una data in cartellone e tutto il mondo che lo ricordava, sarebbe stato opportuno un altro titolo o comunque un grande evento che il “Puccini vero” avrebbe meritato.
Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea
IL TEMPO DEL FUTURISMO
A cura di Gabriele Simongini
Roma, 02 dicembre 2024
La mostra “Il Tempo del Futurismo”, ospitata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, rappresenta un ritorno coraggioso e necessario su un movimento che non ha mai smesso di dividere, provocare e ispirare. Non è una semplice retrospettiva, ma un tentativo di riconfigurare il Futurismo come una forza viva, capace di interrogare il nostro presente con la stessa veemenza con cui, oltre un secolo fa, rifiutava il passato. Questo approccio, che unisce analisi storica e sociologia culturale, colloca l’esposizione in una posizione di dialogo tra l’estetica, la tecnologia e l’evoluzione antropologica, evitando la trappola della celebrazione sterile. La rassegna si distingue da altre celebri mostre dedicate al movimento, come Futurismo & Futurismi curata da Pontus Hultén a Palazzo Grassi nel 1986, o le retrospettive firmate da Enrico Crispolti a Torino e Roma. Le difficoltà logistiche e finanziarie di oggi – come il costo proibitivo dei prestiti internazionali – rendono impossibile riproporre quelle operazioni imponenti, ma la GNAM ha trasformato queste limitazioni in un punto di forza. Attribuendo grande rilievo alle sue straordinarie collezioni e alle connessioni interdisciplinari, la mostra si configura come un atto di resistenza intellettuale contro l’immobilismo. Il cuore pulsante di questa esposizione risiede nella capacità di rimettere il pensiero al centro. Il Futurismo, prima ancora che arte, è stato una filosofia: un’idea radicale che ha scardinato le certezze della modernità per proiettare il mondo verso un futuro mai visto. Ogni pennellata, ogni scultura, ogni manifestazione artistica non è altro che la concretizzazione di una visione che abbraccia il dinamismo, la velocità, il progresso. La mostra sottolinea come l’arte futurista sia il veicolo di una rivoluzione mentale e culturale, in cui la tecnologia e l’innovazione scientifica diventano protagonisti tanto quanto gli artisti stessi. In questo contesto, l’esposizione non si limita a un percorso cronologico. Attraverso le sue 26 sale e le circa 400 opere esposte, tra dipinti, sculture e oggetti, invita il visitatore a immergersi in un’esperienza totale. Eppure, la densità del materiale esposto non è priva di rischi: l’abbondanza di capolavori, talvolta affastellati, e il percorso obbligato possono generare una certa dispersione visiva. Tuttavia, questa sovrabbondanza, quasi caotica, sembra in linea con lo spirito del Futurismo stesso, un movimento che non ha mai cercato di essere rassicurante o ordinato. Tra i momenti più significativi della mostra emerge il dialogo tra Il Sole di Giuseppe Pellizza da Volpedo e Lampada ad arco di Giacomo Balla. Questo accostamento, tra il simbolo di un’Italia rurale e quello di un paese proiettato verso l’industrializzazione, incarna il cambiamento epocale che i futuristi hanno esaltato con entusiasmo quasi fanatico. L’elettrificazione, definita da Boccioni come “Modernolatria”, non è solo un tema visivo, ma una rivoluzione sensoriale e concettuale che permea gran parte della produzione futurista. Accanto ai dipinti, la mostra integra una selezione di oggetti e strumenti tecnologici che testimoniano l’evoluzione del pensiero e della percezione umana. La Fiat Record Chiribiri del 1913, la Maserati di Tazio Nuvolari e l’idrovolante Macchi Castoldi Mc 72 rappresentano la celebrazione futurista della velocità, della potenza e del dinamismo. Questi oggetti, che un tempo erano simboli del progresso tecnologico, dialogano con opere come le Velocità d’automobile di Balla, rivelando la straordinaria capacità dei futuristi di trasformare l’innovazione tecnica in mito estetico. La mostra approfondisce anche l’impatto delle nuove scoperte scientifiche sull’immaginario futurista. Dall’elettricità alle onde radio, dal cinema alla teoria della relatività di Einstein, il Futurismo non ha solo osservato i cambiamenti del mondo, ma li ha assorbiti, anticipandone le implicazioni culturali. In questo senso, gli aeroplani e le motociclette non sono semplici strumenti, ma estensioni dell’idea di un mondo senza confini, in cui la velocità diventa una nuova dimensione esistenziale. L’aeropittura, a lungo sottovalutata, trova qui una rivalutazione che la collega alle odierne visioni satellitari e ai droni, mostrando come la prospettiva verticale immaginata dai futuristi sia diventata parte integrante della nostra quotidianità. L’esposizione dedica particolare attenzione ai fondatori del movimento – Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini – ma non trascura figure come Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, la cui importanza cresce sempre più grazie a recenti studi. Le sezioni tematiche, che spaziano dal dinamismo plastico all’aeropittura, dall’arte meccanica al cinema futurista, sono arricchite da manifesti, libri e film che offrono un’immersione totale nel pensiero e nella pratica del Futurismo. Eppure, questa non è solo un’operazione estetica. Al di là delle polemiche, delle inevitabili critiche e degli scandali che da sempre accompagnano il Futurismo, “Il Tempo del Futurismo” si impone come un atto di coraggio. Riportare il Futurismo sotto i riflettori significa confrontarsi con le sue contraddizioni, le sue tensioni irrisolte e il suo potenziale provocatorio. Non è un omaggio elegante e pacificato, ma un campo di battaglia intellettuale che invita a riflettere sul ruolo dell’arte nella società contemporanea. Come scriveva Marinetti: “Bisogna distruggere la sintassi! Bisogna mettere il sostantivo in libertà!” Questa mostra sembra seguire lo stesso principio, abbandonando la rigidità dei canoni museali per offrire un’esperienza che sfida le convenzioni e mette in discussione la nostra percezione del Futurismo. “Il Tempo del Futurismo” non è solo una mostra, ma un manifesto. È un richiamo a guardare oltre, a considerare l’arte come un veicolo per immaginare il futuro, un futuro che non è mai lineare, ma sempre in movimento. In un’epoca di incertezze, questa esposizione ci ricorda che il cambiamento, anche quando è tumultuoso, è il motore della creatività e del progresso. Un messaggio che, oggi più che mai, vale la pena ascoltare.
Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2024-2025
“COSÌ FAN TUTTE”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Fiordiligi MARIA MUDRYAK
Dorabella LILLY JØRSTAD
Guglielmo JIRI RAJNIS
Ferrando ANTONIO MANDRILLO
Despina FRANCESCA CUCUZZA
Don Alfonso EMANUELE CORDARO
Orchestra Filarmonica del Teatro Comunale di Modena
Coro Lirico di Modena
Direttore Aldo Sisillo
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Stefano Vizioli
Scene e costumi Milo Manara
Luci Nevio Cavina
Nuovo allestimento in Coproduzione Fondazione Pergolesi Spontini, Teatro Verdi di Pisa, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Teatro Sociale di Rovigo e Opéra-Théâtre Eurométropole de Metz
Modena, 30 novembre 2024
Così fan tutte o, per gli amici, “il Così”, ovvero il trionfo della forma: compendio inarrivabile, esemplare e definitivo di quanto delizioso, svagato, raffinato e saggio abbia saputo essere il Settecento europeo, musicale e non. Ottimamente gli si addicono le tinte pastellate degli acquerelli di Milo Manara, le cui leggere linee vanno svincolandosi fra nuvolette olimpiche, tenere ninfe e turgidi dèi. Il ciclo, di cui a Modena si possono ammirare gli originali, esposti in una bella e pratica mostra al Museo della Figurina, a due passi due dal Comunale, si attiene ad un programma iconografico rigorosamente classico: gli amori dell’infaticabile Giove campeggiano in tondi medaglioni sospesi fra i gorgoglianti riccioli del siparietto, putti giocherelloni aleggiano sulla trasparenza di un tulle, mentre sul fondale le onde si rincorrono azzurrissime e le nuvole si gonfiano voluttuose. La quintatura all’italiana è invece decorata con scene di ninfe, satiri, centauri e, sull’arlecchino di boccascena, dagli dèi al completo, che si sporgono curiosi dalle loro nuvolette per spiare lo spettacolo. In uno stile grafico e contemporaneo che tuttavia dialoga affabilmente con le più stravaganti assurdità decorative del rococò. Graziosissimo, insomma, e, quel che più conta, pertinente. Dentro questa scatola di eterea astrazione si muove, senza agitarsi, una regia, quella di Stefano Vizioli, dalla narrazione piana e garbata. Più d’un omaggio rende ai mitologici Hampe, Ponnelle, e Strehler (postumo): ma, d’altra parte, come sarebbe possibile discostarsi da spettacoli davanti ai quali non si può far altro che esclamare convinti “è così!”? Quando un’idea è giusta, riprenderla non è delitto: è dovere. Accanto al Coro Lirico di Modena diretto da Giovanni Farina, relegato nei palchi di barcaccia, a farla da protagonista con la sua brillantissima prova è la Filarmonica di Modena, ora del Teatro Comunale di Modena, qui diretta da Aldo Sisillo. Che concerta con nitido rigore, prediligendo tempi sapidi e mossi, cui garantisce sempre quell’elasticità ch’è vitale, e optando per tinte belle vivaci e sgargianti. Sollecito, generoso, fin quasi apprensivo, con i suoi cantanti. Che sono sei, disposti in un gioco combinatorio di tre coppie, di cui due invertibili. Nella coppia stabile, dei burattinai, sta la corposa Despina di Francesca Cucuzza, dalla voce piena e fresca, e dal temperamento pepato ma sempre posato, e il Don Alfonso di Emanuele Cordaro, encomiabile fraseggiatore e sottile interprete. Nelle altre due coppie, quelle da intrecciare, è il tradimento a combinare gli abbinamenti (almeno musicalmente) migliori: è così che al soprano (Maria Mudryak, una Fiordiligi dalla bella figura slanciata e dai centri ben timbrati, che sa trovare sonorità dolcissime nella sua aria del second’atto) s’accoppia il tenore (Antonio Mandrillo, che traccia un Ferrando tenero e luminoso), mentre al mezzosoprano (Lilly Jørstad, Dorabella energica e brillante sulla scena, vocalmente ben voluminosa e morbida) s’accoppia il baritono (Jiri Rajnis, Guglielmo dal timbro morbidissimo e caldo, pieno e pastoso). Leggerezza e gravità s’insegnano insieme in questa scuola degli amanti in cui il godimento dell’ascoltatore è continuo. Così è il Così.
Como, Teatro Sociale, Stagione d’Opera 2024/25
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova PARIDE CATALDO
Rigoletto GIUSEPPE ALTOMARE
Gilda BIANCA TOGNOCCHI
Sparafucile MATTIA DENTI
Maddalena VICTÓRIA PITTS
Giovanna/ La contessa di Ceprano LARA ROTILI
Il conte di Monterone BAOPENG WANG
Marullo LORENZO LIBERALI
Matteo Borsa RAFFAELE FEO
Il conte di Ceprano GRAZIANO DALLAVALLE
Un usciere MARCO TOMASONI
Un paggio FEDERICA CASSETTI
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Direttore Alessandro D’Agostini
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Regia e luci Matteo Marziano Graziano
Scene Francesca Sgariboldi
Costumi Laurent Pellissier
Nuovo Allestimento in coproduzione dei teatri di OperaLombardia
Como, 28 novembre 2024
Ci sarebbero tanti modi per iniziare una recensione del “Rigoletto” di OperaLombardia: si potrebbe cominciare con una lunga digressione sulla differenza tra regia “all’italiana” e “alla tedesca” (dato che il regista è un connazionale trapiantato a Berlino); si potrebbe partire da un assunto canoro: “non tutti i baritoni sono Rigoletto”; oppure si potrebbe puntare il dito sulla produzione, che ha tanti di quei difetti, forse, da non starci nemmeno in queste mille parole. Preferiamo, tuttavia, iniziare con una citazione delle streghe di “Macbeth”: “Bello è brutto, brutto è bello”. È un paradosso che serve a indicare il carattere spiccatamente “alla rovescia” del mondo demoniaco, secondo una ben collaudata tradizione cristiana – e infatti a chiosarlo sono le sacerdotesse infernali, le streghe. Ed essendo il teatro senz’altro anche un luogo dello spirito, ci sembra, questa citazione, aderirvi perfettamente: a teatro, infatti, la regola è questa, non vale la formula matematica “meno per meno fa più” – a teatro se si imbrocca una certa via, non c’è modo di tornare indietro, l’intera produzione rischia di capitolare. E, detto proprio chiaramente, è quanto abbiamo visto nel “Rigoletto” comasco: si comincia con un muro che taglia inspiegabilmente orizzontalmente in due il palco, estromettendone metà dall’azione; a questa scena (curata da Francesca Sgariboldi) a ridosso del proscenio si aggiunge un numero esagerato di figuranti e artisti per quello spazio esiguo, ognuno con dei gesti molto precisi, per carità, ma d’intralcio al prossimo; a questi si aggiungano delle coreografie fra l’amatoriale e il delirante, un disegno luci arbitrario che sovente lascia i cantanti al buio (su “Ella mi fu rapita”, su “Tutte le feste al tempio”, persino su “Bella figlia dell’amore”) e, last but not least, il progetto costumistico di Laurent Pellissier che dovrebbe rivelare la natura postmoderna/distopica dell’intera regia, e invece la caratterizza pesantemente sulla via dell’arbitrarietà e del cattivo gusto – trasformando Rigoletto in una specie di Charlot pastore sardo e il Duca in un malavitoso pronto per lo Studio 54. Tutte le rimanenti trovate della regia di Matteo Marziano Graziano sono “orpelli” all’insegna del politicamente corretto: niente gobba a Rigoletto, ma Ceprano è su una sedia a rotelle e Giovanna ha un tutore a una gamba; poi abbiamo nell’ordine: una figurante trans mtf e uno ipostaturico, una ballerina sovrappeso e una calva, una Madonna in drag vestita di tricot bianco e una sfilata di corpi quasi nudi che celebri la diversità – in realtà, trattandosi di trovate estemporanee e senza una ragione forte per esserci, più che celebrazione diventa una citazione di “Freaks” di Todd Browning, ma forse era proprio questa l’intenzione del regista. Di certo possiamo constatare come questa assai discutibile messa in scena abbia posto in imbarazzo il cast, almeno nel primo atto, nel quale i protagonisti non hanno brillato – meglio, invece, Lorenzo Liberali (Marullo) e Baopeng Wang (Monterone), forse più disinvolti, e che hanno fatto sfoggio di vocalità sonore ed interessanti. Dal secondo atto in poi, vuoi per l’abitudine, vuoi per la voglia per lo meno di onorare Verdi, Paride Cataldo sfodera la sua bella vocalità, aderentissima alla linea di canto e dall’acuto d’acciaio, e Bianca Tognocchi aggiusta il tiro, rispetto a un “Caro nome” decisamente sottotono; la voce continua a presentare qualche limite sul piano della proiezione, ma duetto e stretta danno l’occasione al soprano autoctono di sfoderare una tecnica solida e un fraseggio certamente corretto. Permangono invece fino alla fine i dubbi su Giuseppe Altomare come Rigoletto: manca qualcosa alla sua interpretazione, che non è solamente corpo vocale o coinvolgimento scenico, ma si può semplicemente definire personalità. Non riesce ad essere persuasivo:non è tagliente con Ceprano e Monterone, non è rancoroso in “Cortigiani, vil razza dannata”, non è impetuoso nella stretta del secondo atto, né spezzato sul duetto finale. La linea vocale è corretta, ma senza un guizzo di fraseggio e con delle tensioni in zona acuta. È un Rigoletto riverso su stesso, che non si accende nemmeno di fronte alla figlia morente. Fra gli altri ruoli, a parte i già citati, senza dubbio Raffaele Feo ci regala un buon Borsa, grazie al colore piacevole della sua emissione naturalissima; tuttavia è lo Sparafucile di Mattia Denti che, sul piano musicale, si distingue: i facili gravi di Denti, il colore brunito al punto giusto, il fraseggio efficace, fanno delVictoria suo Sparafucile probabilmente la performance migliore della serata; peccato, invece, per la Maddalena di Victória Pitts: fascinosa e sicura, purtroppo annaspa per la scarsa proiezione nei centri nei momenti di insieme (nel quartetto del “Bella figlia dell’amor”, ad esempio). Il direttore Alessandro D’Agostini, dal canto suo, non ci ha regalato una concertazione particolarmente memorabile o personale, dirigendo con molta prudenza l’orchestra dei Pomeriggi Musicali, forse anch’egli influenzato dalle dinamiche sceniche spesso incomprensibili; il coro, invece, non si è fatto scoraggiare e il suo intervento non ha mancato di vis scaenica né di correttezza musicale – bravo il suo storico direttore, Diego Maccagnola. Insomma, se sul piano musicale la recita in fondo si è salvata, rimaniamo francamente perplessi dell’esito scenico, un po’ troppo “alla tedesca”, anche per un pubblico esperto e avvezzo a molte regie ardite, e decisamente poco rispettosa della bellissima partitura verdiana. Ma qui, è evidente, “Bello è brutto, brutto è bello”, proprio come in “Macbeth”.
Deutsche Oper Berlin, season 2024/2025
“MACBETH”
Opera in four acts by Giuseppe Verdi
Libretto by Francesco Maria Piave and Andrea Maffei, based on a tragedy by William Shakespeare
Macbeth ROMAN BURDENKO
Banquo MARKO MIMICA
Lady Macbeth FELICIA MOORE
Chambermaid of Lady Macbeth NINA SOLODOVNIKOVA
Macduff ATTILIO GLASER
Malcolm THOMAS CILLUFFO
Macbeth’s servant/A Messenger DEAN MURPHY
A doctor/An assassin GERARD FARRERAS
Senior with/call girl/Lady Macduff DANA MARIE ESCH
Deer man PIERRE EMÖ
Chor & Orchester der Deutschen Oper Berlin
Conductor Enrique Mazzola
Chorus master Jeremy Bines
Director Marie-Ève Signeyrole
Stage design Fabien Teigné
Costume design Yashi
Light design Sascha Zauner
Video Artis Dzerve
Berlin, 23rd November 2024
William Shakespeare was one of Giuseppe Verdi’s favourite poets and Macbeth became the first out of three great operas based on a play by the English bard. Premiered in Florence in 1847, Verdi revised it for a production at the Théâtre Lyrique in Paris in 1865 by essentially adding Lady Macbeth’s famous aria “La luce langue” in act 2 and the inevitable ballet music in act 3. He also dropped Macbeth’s final aria to replace it by the triumphal chorus Vittoria! There was a celebrated production of Verdi’s gloom-and-doom opera without a love story at the Deutsche Oper Berlin in the 1980s with Renato Bruson, Mara Zampieri and Giuseppe Sinopoli conducting, which led to a recording by Deutsche Grammophon. I still saw it around 2000, followed by a more modern one in 2011 that was running for few years only. On 23rd November 2024, the curtain rose to a new production by the French director Marie-Ève Signeyrole. She announced the action would take place today: Scotland becomes independent of the UK under the new king Duncan who nationalizes the oilfields in the Northern Sea, leading to an economic war between Scotland and Norway. The witches are lobbyists of a secret but powerful investment company that can make money only by privatized oilfieds. They want to dethrone the king to install Macbeth as a president they can manipulate… Unfortunately, there is not much left of that approach in the production but its text projected on a big screen where videos by Artis Dzerve are shown or close-ups of a live camera on stage. All that is distracting rather than helpful to understand symbols such as the head of a stag as part of Fabien Teigné’s stage design and the so-called deer man performed by Pierre Emö who wears the mask of a stag or hart. Does he refer to the Christian saint Hubert of Liège or is the stag a symbol of fertility or death? He already appears during the prelude along with Macbeth and Banquo who are wielding their swords on the battlefield in traditional kilts costume design by Yashi. Lady Macbeth disposes of baby clothes in her opening scene Ambizioso spirto, obviously after an abortion. Later she gets pregnant again by artificial insemination with Macbeth’s sperm to lose the baby again. Banquo is killed after a birthday party of children who die from poisoned cake, only Banquo’s son survives to re-appear with the stag’s mask. One idea after the other, a hotchpotch of symbols mulitplied by different media: stage, live camera, videos etc. All that seems to oppose rather than illustrate the music. Verdi made a point of the witches who are a main character along with Macbeth and the Lady. Signeyrole reduces them to a black-and-white uniformed mass of female programmers behind laptops, supervised by a senior witch played by Dana Marie Esch who appears in two video clips opening the two parts of the opera night before the music sets in. She praises the new era of AI as if she were an artificial intelligence herself. Signeyrole’s intention to bring the plot up-to-date ends up in a superficial, nearly ridiculous attempt to modernize it at any price. Too bad that her staging affects the musical performance as well. Italian and French opera specialist Enrique Mazzola starts to conduct the Orchester der Deutschen Oper Berlin in a loud, slow and little dynamic manner, which does not get better so that the performance takes nearly four hours, the more so as he plays the complete score of 1865, including the Parisian ballet music in act 3 and Macbeth’s aria Mal per me che m’affidai from 1847 in act 4. Chorus master Jeremy Bines did sterling work: the Chor der Deutschen Oper Berlin sings magnificently. There are big voices for the two leads:Roman Burdenko as Macbeth gives a vocal performance of amazing power, opulence and dramatic intensity, his baritone sounds warm and at times crystalline. Felicia Moore as Lady Macbeth follows suit. Her sumptuous, warm-timbered dramatic soprano climbs up to an effortlessly floating top at the end of Una macchia. Banquo is handsomely sung by Marko Mimica. Attilio Glaser is a moving Macduff: he sings O figli miei with refinement, despite live broadcast on big screen. Along with Thomas Cilluffo in strong form as Malcolm and the chorus, he makes a musical high light out of the concluding La patria tradita. To my mind, opera does function in a different way to film or theatre. I wonder why the director of the Deutsche Oper does not have the final say in what Marie-Ève Signeyrole was doing: lousing up Verdi’s masterpiece!Photos by Eike Walkenhorst
Nella precedente Cantata dedicata alla prima domenica di Avvento (Cantata BWV 62) si menzionava un personaggio simbolico, quello della “Figlia di Sion” che figura anche nelle due grandi Passioni di Bach (Giovanni e Matteo), ma il nome di Sion compare anche in altri luoghi del repertorio bachiano, ad esempio nelle Cantate BWV 119 e 120, scritte in occasione dei servizio liturgico che si celebrava all’atto dell’Investitura del Consiglio Municipale di Lipsia, cerimonia che aveva luogo sempre nel lunedì successivo al giorno di San Bartolomeo (il 24 agosto). Il fatto è comprensibile se si tiene presente il rapporto ideale che la cultura dell’epoca vuole cogliere tra la città di Lipsia e quella di Gerusalemme. Sion è in origine il nome della cittadella dei Gebusei, conquistata da Davide e poi identificata con la città del Profeta, ma Sion è soprattutto il nome del monte che negli scritti profetici è la sede del Signore, il quale da quella sede governerà le nazioni e giudicherà gli uomini. È appunto a questo significato che si richiama il testo iniziale della terza e, a nostra conoscenza, ultima Cantata scritta da Bach per la prima Domenica di Avvento Schwingt freudig euch empor BWV 36 . Il primo verso recita: “Elevatevi con gioia alle stelle supreme, voi lingue che ora esultate in Sion!”. La partitura è frutto di un laborioso processo lavorativo, frutto di cinque stesure, 3 profane e 2 sacre, cosa che non ha riscontro nella produzione bachiana. La matrice originale è una Cantata di auguri del 1725 poi ripresa nel 1726 e nel 1735 in differenti circostanze e su altri testi, per trovare la destinazione sacra nella prima domenica di Avvento, della quale esistono 2 differenti versioni, entrambe prive di recitativi, la prima delle quali risalente agli anni tra il 1726 e il 1730, la seconda al 1731 (eseguita a Lipsia il 2 dicembre 1731). Quest’ultima è composta di 8 numeri, 3 in più della precedente versione ed è divisa, cosa abbastanza rara, in 2 parti concepite come pannelli simmetrici di un dittico. I 3 brani nuovi utilizzano 3 strofe dell’Inno di Lutero “Nun kom der Heiden Heiland” che già abbiamo trattato. L’innesto di queste strofe può essere interpretato come il frutto di un ripensamento nei confronti del testo che era stato proposto al canto, probabilmente da Christian Friedrich Henrici che è l’autore dei testi delle 3 cantate profane utilizzanti la medesima musica e il ricorso di un unico Inno potrebbe provare che dovette trattarsi di un espediente per evitare di dover scrivere i recitativi mancanti nella prima versione della partitura. Non a caso i brani inseriti sono l’espressione di una sensibilità diversa rispetto a quella ravvisabile nelle pagine della prima stesura, chiaramente gioiose, proprie di una Cantata di Auguri e colgono il momento mistico e più intensamente devozionale.
Parte prima
Nr.1 – Coro
Elevatevi con gioia alle stelle supreme,
voi lingue che ora esultate in Sion!
Attente! Il vostro suono non vada lontano,
il Signore della gloria si avvicina.
Nr.2 – Corale / Duetto (Soprano, Contralto)
Vieni ora, salvatore dei pagani,
conosciuto come figlio della Vergine,
per il quale tutto il mondo si stupisce
che Dio gli abbia destinato tale nascita.
Nr.3 – Aria (Tenore)
L’amore attira a sé dolcemente
e gradualmente il suo amato.
Come una sposa è incantata
alla vista del suo sposo,
così il cuore segue Gesù.
Nr.4 – Corale
Suonate le corde a Cytera
e fate risuonare la dolce
musica ricca di gioia,
affinchè io possa camminare con amore
fedele affianco al piccolo Gesù,
il mio meraviglioso sposo!
Cantate,
danzate,
gioite, esultate, ringraziate il Signore!
Grande è il re della gloria.
Seconda parte
Nr.5 – Aria (Basso)
Benvenuto, tesoro prezioso!
Amore e fede preparano un posto
per te nel mio cuore puro,
vieni ad abitare in me!
Nr.6 – Corale (Tenore)
Tu che sei come il Padre,
conducici alla vittoria sulla carne,
la tua eterna forza divina
allontani le debolezze della carne.
Nr.7 – Aria (Soprano)
Anche con debole, flebile voce
la maestà di Dio sia onorata.
Poiché un solo suono dello spirito
diventa per lui un potente grido
che può ascoltare anche in cielo.
Nr.8 – Corale
Sia lode a Dio, il Padre,
sia lode a Dio, il suo unico figlio,
sia lode a Dio, lo Spirito Santo,
sempre e per l’eternità!
Traduzione Emanuele Antonacci
Domenica 1 Dicembre /Sabato 7 dicembre
Ore 10.00 / 10.15
“IL MONDO DELLA LUNA”
Musica Giovanni Paisiello
Direttore Massimo Pradella
Regia Mario Ferrero
Interpreti: Paolo Pedani, Edda Vincenzi, Lajos Kozma, Adriana Martino, Mario Boriello…
Napoli, 1966
Lunedì 2 dicembre
Ore 10.00
“IL MATRIMONIO SEGRETO”
Musica Domenico Cimarosa
Direttore Franco Caracciolo
Regia di Franco Enriquez.
Interpreti: Sesto Bruscantini, Franco Calabrese, Edda Vincenzi e Giuseppina Salvi…
RAI, 1956
Martedì 3 dicembre
Ore 10.00
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Nino Sanzogno
Regia Franco Enriquez
Interpreti: Aldo Protti, Virginia Zeani, Carlo Zampighi, Nicola Zaccaria, Luisa Ribacchi…
RAI, 1955
Mercoledì 4 dicembre
Ore 10.00
“LA TRAVIATA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Nino Sanzogno
Regia Franco Enriquez
Interpreti: Rosanna Carteri, Nicola Filacuridi, Carlo Tagliabue…
RAI, 1955
Giovedì 5 dicembre
Ore 10.00
“FEDORA“
Musica Umberto Giordano
Direttore Bruno Bartoletti
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Renata Heredia Capnist, Davide Poleri, Mafalda Micheluzzi e Mario Borriello
RAI, 1956
Ore 11.40
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Alberto Zedda
Regia Sandro Bolchi
Interpreti: Sesto Bruscantini, Italo Tajo, Valeria Mariconda, Ugo Benelli, Carlo Badioli.
RAI, 1965
Venerdì 6 dicembre
Ore 10.00
“MADAMA BUTTERFLY”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Oliviero De Fabritiis.
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Anna Moffo, Renato Cioni, Mitì Truccato Pace, Afro Poli.
RAI, 1956
Ore 21.15
“DON CARLO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Lluis Pasqual
Interpreti: Francesco Meli, Anna Netrebko, Elina Garanca, Luca Salsi, Michele Pertusi…
Milano, 2023
Sabato 7 dicembre
Ore 18.00 – RAI 1
“LA FORZA DEL DESTINO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Leo Muscato
Interpreti: Anna Netrebko, Brian Jadge, Ludovic Tezier, Alexander Vinogradov, Vasilisa Berzhanskaya, Marco Filippo Romano…
Domenica 8 dicembre
Ore 10.02
“FRANCESCA DA RIMINI”
Musica Riccardo Zandonai
Direttore Arturo Basile
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Marcella Pobbe, Nicoletta Panni, Ugo Novelli, Fernando Lidonni, Giuseppe Campora, Sergio Tedesco…
RAI, 1958
Lunedì 9 dicembre
Ore 10.00
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Claudio Scimone
Regia Tobias Richter
Interpreti: Leo Nucci, Cecilia Gasdia, Ramon Vargas, Enzo Dara, Ruggero Raimondi, Andrea Snarski, Daniella Streiff
Verona, 1996
Martedì 10 dicembre
Ore 10.00
“CARMEN”
Musica Georges Bizet
Direttore Zubin Mehta
Regia Daniele Finzi Pasca
Interpreti: Maria José Montiel, Brian Jugde, Eleonora Buratto, Aris Argiris…
Napoli, 2015
Mercoledì 11 dicembre
Ore 10.00
“IDOMENEO, RE DI CRETA”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Daniel Harding
Regia Luc Bondy
Interpreti: Steve Davislim, Monica Bacelli, Camilla Tilling, Emma Bell, Francesco Meli
Giovedì 12 dicembre
Ore 10.00
“SALOME”
Musica Richard Strauss
Direttore Daniel Harding
Regia Luc Bondy
Interpreti: Peter Bronder, Iris Vermillion, Nadja Michael, Falk Struckmann, Matthias Klink, Natela Nicoli….
Venerdì 13 dicembre
Ore 10.00
“FALSTAFF”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Tullio Serafin
Regia Herbert Graf
Interpreti: Giuseppe Taddei, Scipio Colombo, Luigi Alva, Rosanna Carteri, Anna Moffo, Fedora Barbieri, Anna Maria Canali, Renato Ercolani, Franco Calabrese, Mario Carlin.
RAI, 1956
Roma, Musei Capitolini
AGRIPPA IULIUS CAESAR, L’EREDE RIPUDIATO
Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto
Nella prestigiosa cornice della Sala degli Arazzi dei Musei Capitolini, dal 29 novembre 2024 al 27 aprile 2025, si svolge un’esposizione straordinaria che riunisce per la prima volta tre ritratti marmorei di Agrippa Postumo, ultimo erede della gens giulio-claudia, figlio di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia, figlia di Augusto. Questa mostra, che segna un momento di rilievo nella valorizzazione del patrimonio storico-artistico romano, è il frutto di una collaborazione tra istituzioni pubbliche e private, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura e Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il supporto della Fondazione Sorgente Group. Il fulcro dell’esposizione è rappresentato dal ritratto marmoreo della Fondazione Sorgente Group, recentemente identificato dal professor Eugenio La Rocca come raffigurazione di Agrippa Postumo. L’opera, mai esposta al pubblico prima d’ora, dialoga idealmente con altre due sculture: una proveniente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze e l’altra dalle Collezioni Capitoline. Le tre opere, databili tra il 4 e il 7 d.C., testimoniano il momento in cui Agrippa Postumo era designato erede al trono imperiale, offrendo un ritratto della sua immagine pubblica, costruita attraverso un linguaggio iconografico che univa autorità e introspezione. In occasione della presentazione della mostra, Valter Mainetti, Presidente della Fondazione Sorgente Group, ha dichiarato: “Ci riempie di orgoglio l’aver promosso questa mostra monografica dedicata alla presentazione, per la prima volta al pubblico, del volto del giovane principe giulio-claudio, identificato dal professor Eugenio La Rocca con Agrippa Postumo. L’esposizione dei tre ritratti, riuniti per la prima volta, rappresenta un’importante occasione di conoscenza e studio, e soprattutto un’opportunità per la nostra Fondazione di collaborare con una sede prestigiosa come i Musei Capitolini. Questo rapporto di stima reciproca ha permesso la realizzazione di numerosi progetti culturali, contribuendo alla valorizzazione del nostro patrimonio storico-artistico.” La Vicepresidente della Fondazione, Paola Mainetti, ha aggiunto: “Una parte importante della collezione archeologica della nostra Fondazione riguarda proprio la ritrattistica della gens giulio-claudia, con particolare attenzione agli eredi designati da Augusto. Attraverso questa mostra, vogliamo proseguire nella nostra missione di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale, mettendo in luce la complessità storica e artistica di figure come Agrippa Postumo. Il confronto tra i tre ritratti esposti rappresenta un’occasione unica per approfondire la conoscenza di un’epoca cruciale della storia romana e delle dinamiche politiche che l’hanno segnata.” Il ritratto della Fondazione Sorgente Group si distingue per la sua intensa espressività. I tratti marcati della fronte accigliata, gli occhi profondamente infossati e lo sguardo torvo conferiscono al giovane principe un’aura di introspezione e gravitas, elementi che incarnano la costruzione simbolica dell’erede imperiale. La torsione della testa, un elemento comune ai tre ritratti, aggiunge un senso di dinamismo e tensione, riflettendo il contesto storico-politico in cui queste opere furono realizzate. Le vicende di Agrippa Postumo, figlio postumo di Marco Vipsanio Agrippa e adottato da Augusto nel 4 d.C., si intrecciano con le complesse dinamiche della successione imperiale. Il giovane, ribattezzato Agrippa Iulius Caesar, sembrava destinato a succedere al princeps insieme a Tiberio. Tuttavia, solo tre anni dopo, venne ripudiato ed esiliato prima a Sorrento e successivamente sull’isola di Pianosa, dove visse fino alla sua misteriosa morte, avvenuta poco dopo l’ascesa al trono di Tiberio. Le fonti antiche, tra cui Tacito e Svetonio, attribuiscono l’esclusione di Agrippa Postumo a un carattere difficile, ma le recenti analisi storiche e archeologiche suggeriscono che le lotte di potere all’interno della corte augustea, influenzate da Livia Drusilla, madre di Tiberio, abbiano avuto un ruolo determinante nella sua caduta in disgrazia. L’esposizione ai Musei Capitolini invita a riflettere sul ruolo della propaganda visiva nell’età augustea. I tre ritratti, realizzati in occasione della sua adozione e successiva designazione come erede, rappresentano un esempio emblematico di come l’immagine pubblica di un individuo fosse costruita per rispondere a precise esigenze politiche e dinastiche. Il linguaggio artistico dell’epoca, caratterizzato da un realismo idealizzato, si riflette nei tratti fisionomici di Agrippa Postumo, che trasmettono autorità, determinazione e introspezione. La mostra è curata da Laura Buccino, Eugenio La Rocca e Valentina Nicolucci, ed è un esempio virtuoso di collaborazione tra istituzioni pubbliche e private. Come sottolineato da Claudio Parisi Presicce, Sovrintendente Capitolino, “Questa esposizione rappresenta un modello di sinergia tra enti che condividono l’obiettivo comune di promuovere la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale. Attraverso il dialogo tra i tre ritratti, offriamo al pubblico un’occasione unica per esplorare un periodo cruciale della storia di Roma.” L’iniziativa si inserisce in un percorso più ampio volto a promuovere lo studio della ritrattistica imperiale e delle sue implicazioni storiche. La Fondazione Sorgente Group, in particolare, ha dedicato grande attenzione alla collezione e valorizzazione di opere legate alla gens giulio-claudia, come i ritratti di Lucio e Gaio Cesare, fratelli maggiori di Agrippa Postumo, e quello di Germanico, figlio di Druso e Antonia Minore. Questa esposizione non è solo un viaggio nella storia e nell’arte dell’età augustea, ma anche un’opportunità per interrogarsi sulle complesse dinamiche politiche e culturali che hanno definito la transizione dalla Repubblica all’Impero. Il volto di Agrippa Postumo, con la sua intensa espressività, riaffiora come un simbolo delle ambizioni e delle tragedie che hanno segnato una delle epoche più affascinanti e tormentate della storia romana. Un’occasione imperdibile per riscoprire, attraverso l’arte, le vicende umane e politiche che hanno plasmato il corso della storia.
Bohuslav Martinů: “Nipponari” H68: “Modrá hodina”, “Stáří”, “Vzpomínka”, “Prosněný život”, “Stopy ve sněhu”, “Pohled nazpět”, U posvátného jezera; “Songs on One Page” H. 294: “Rosička”, “Otevření slovečkem”, “Cesta k milé”, “Chodníček”, “U maměnky”, “Sen Panny Marie”, “Rozmarýn”; Antonín Dvořák: “Evening Songs” Op. 3: “Když jsem se díval do nebe!”, “Umlklo stromů šumění”, “Mně zdálo se”, “Já jsem ten rytíř”, “Když Bůh byl nejvíc rozkochán”; “Songs” Op. 2: “Ó byl to krásný zlatý sen”, “Mé srdce často v bolesti”; Hans Krása: “Four Orchestral Songs” Op. 1: “Geiß und Schleiche”, “Nein!”, “Der Seufzer”, “Galgenbruders Lied an Sophie, die Henkersmaid”; Gideon Klein: “Lullaby”. Magdalena Kožená (mezzoprano), Czech Philharmonic, Simon Rattle (Direttore). Registrazione: Dvořák Hall of the Rudolfinum, Praga, Novembre 2022. 1 Cd Pentatone PTC 5187 077
Magdalena Kožená torna – dopo la registrazione DG del 2000 – a offrire una selezione di composizioni liederistiche ceche. In questo caso la scelta è andata su composizione per canto e orchestra – alcune così pensate originariamente, altre appositamente orchestrate da Jiří Gemrot e Jiří Teml – dove a sostenere il canto è il sempre meraviglioso velluto della Filarmonica Ceca diretta con raffinata sensibilità da Simon Rattle.
Il programma è alquanto interessante e fa conoscere una serie di piccole gemme praticamente sconosciute. È il caso di “Nipponari” op. 68 di Bohuslav Martinů. Composta nel 1912 ma eseguita solo dopo la morte del compositore si presenta come una piccola cantata su poesie tradizionali giapponesi – tradotte in ceco – giocate sull’alternanza di temi primaverili e invernali. E’ palese la suggestione di “Das Lied von der Erde” palesemente ricercata dalla direzione particolarmente mahleriana di Rattle che della composizione ricerca soprattutto il carattere tardo-romantico andando un po’ a scapito di un colore più folklorico e orientaleggiante che la raffinatissima orchestrazione di Martinů rivela in più di un passaggio. Il primo ciclo mostra pienamente anche il taglio vocale della Kozena. Il mezzosoprano boemo presenta ancora una voce di grande fascino, morbida e carezzevole che nel corso degli anni si è fatta più brunita – perfetta per i toni arcani e misteriosi di “Modrá hodina”. La musicalità della linea e la naturale predisposizione per un canto intriso di malinconia compensano ampiamente qualche durezza che gli anni hanno lasciato sul settore acuto.
Sempre di Martinů ma originariamente pensata per canto e pianoforte è “Canti di un paggio” H.294 una serie di brevi schizzi musicali – il più lungo “Sen Panny Marie” non arriva a due minuti – caratterizzati da una irresistibile freschezza espressiva che dà vita a piccoli quadretti di gusto popolaresco perfettamente riusciti. Pur più convenzionale rispetto ai brani autografi di Martinů l’orchestrazione di Teml è comunque godibilissima.
Il programma prosiegue con le “Canzoni della sera” op. 3 di Antonín Dvořák stranamente presentate senza seguire l’ordine originale di numerazione. In questo caso si alternano brani orchestrati dall’autore e nuove orchestrazioni di Jiří Gemrot e se queste ultime non mancano di piacevolezza è palese come gli originali, intrisi di una sensibilità di sapore brahmsiano, si pongano su ben altro livello. La scrittura di Dvořák alterna momenti di esplicita teatralità come “Já jsem ten rytíř” dal taglio operistico ad altri in cui prevale un raccoglimento autenticamente cameristico come “Mně zdálo se” che nell’impeccabile gioco di cesello rappresenta uno dei punti più altri dell’interpretazione della Kožená. Particolarmente interessante la linea melodico in cui fa capolino il celeberrimo tema della “Canzone della luna” di “Rusalka” in “Mé srdce často v bolesti”.
Si passa alla Vienna delle avanguardie con “Quattro lieder per orchestra” di Hans Krása composti nel 1920 quando il giovane compositore boemo era allievo di Alexander von Zemlinsky. Le composizioni tradiscono lo spirito avanguardista del circolo dei giovani compositori viennesi con caratteri decisamente espressionisti sia nella vocalità che nell’orchestrazione pur senza arrivare all’autentica atonalità. Per quanto giovanile la composizione mostra già una notevole maturità compositiva. I testi in tedesco tradiscono l’origine viennese della composizione. Chiude il programma “Lullaby” di Gideon Klein – qui l’orchestrazione è di Jiří Gemrot – ninna nanna ebraica composta da un internato nel campo di concentramento di Terezin in cui la Kožená è magistrale nel far percepire le lugubri ombre che avvolgono una melodia apparentemente così serena.
Teatro dell’Opera di Roma
Stagiona Lirica 2024- 2025
SIMON BOCCANEGRA
Melodramma in un prologo e tre atti
libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra CLAUDIO SGURA
Maria Boccanegra (Amelia) MARIA MOTOLYGINA
Jacopo Fiesco RICCARDO ZANELLATO
Gabriele Adorno ANTHONY CIARAMITARO
Paolo Albiani GEVORG HAKOBYAN
Pietro LUCIANO LEONI
Un capitano dei balestrieri ENRICO PORCARELLI
Un’ancella di Amelia CATERINA D’ANGELO
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Richard Jones
Scene e costumi Antony McDonald
Luci Adam Silverman
Coreografia per i movimenti coreografici Sarah Fahie
Maestro d’Armi Renzo Musumeci Greco
Nuovo Allestimento del Teatro dell’Opera
Roma, 29 novembre 2024
Proseguono al Teatro dell’Opera di Roma le repliche di Simon Boccanegra di Verdi, questa volta con il debutto del cast alternativo, occasione per analizzare più a fondo la proposta scenica. Richard Jones, con il supporto del talentuoso scenografo e costumista Antony McDonald, offre un’interpretazione visiva che mette in risalto soprattutto la profonda contrapposizione politica tra popolo e aristocrazia, nucleo centrale del dramma verdiano. La Genova ideata per questo allestimento assume tratti di un universo sospeso, con rimandi alle atmosfere metafisiche e surreali dei lavori di de Chirico e Carrà. I costumi, collocati in un vago scenario novecentesco, trovano una peculiare cifra stilistica nei mantelli dorati e ornati di pelliccia, simboli del potere dei notabili, che si trasformano in elementi quasi mascherati, contribuendo a una lettura più simbolica che introspettiva. La regia adotta un’impostazione minimalista e rarefatta, optando per una narrazione visiva essenziale che però, in alcune fasi, si traduce in una scarsa esplorazione delle sfumature psicologiche dei personaggi. Questa scelta, pur coerente con il disegno generale, si rivela talvolta incapace di generare una tensione drammatica pienamente coinvolgente, specialmente nel prologo e nel primo atto, dove le dinamiche appaiono statiche e poco incisive. Nel secondo e terzo atto, tuttavia, i duetti e i terzetti soffrono dell’assenza di un maggiore approfondimento emotivo, che avrebbe potuto conferire maggiore intensità alle relazioni tra i personaggi, rafforzando il loro spessore interpretativo. Nonostante queste riserve, la regia si fa apprezzare per una costruzione narrativa chiara e funzionale, che riesce a mantenere una coerenza drammaturgica. Tuttavia, il distacco emotivo che permea l’intera rappresentazione ne riduce l’impatto, ancorandola a una dimensione prevalentemente visiva e concettuale, che, seppur esteticamente valida, risulta poco coinvolgente sul piano emozionale. Simon Boccanegra si conferma un’opera di straordinaria profondità, ricca di dettagli e di preziosità musicali che testimoniano il progresso evolutivo di Verdi verso una maturità artistica complessa e raffinata. Michele Mariotti, alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, ne coglie pienamente la logica drammaturgica, esaltandola con una solidità strutturale che si fonde con un impetuoso slancio teatrale. La sua direzione si distingue per un’attenzione meticolosa ai particolari strumentali, che la partitura verdiana offre in abbondanza, e per una visione unitaria che restituisce un’interpretazione vivida e appassionata. Sotto la sua bacchetta, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma non si limita a una resa precisa e morbida, ma diviene il cuore pulsante della narrazione musicale. La ricca tavolozza cromatica, i timbri nitidi e la capacità di scolpire ogni dettaglio con chiarezza emergono con forza, rifuggendo da una sterile lettura metronomica. Mariotti riesce a dare respiro alla musica, facendo sì che l’orchestra ‘canti’ con intensità lirica e ‘galleggi’ sulle note, trasformando l’insieme in una vera costruzione teatrale di rara efficacia. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto con sicurezza da Ciro Visco, completa l’impresa con una performance impeccabile. La coesione e l’espressività corale si fondono armoniosamente con l’orchestra, accentuando la teatralità e il pathos richiesti dall’opera. Il risultato è un’esecuzione che si distingue per equilibrio, forza drammatica e una sensibilità musicale che rende piena giustizia alla grandezza dell’opera verdiana. Nel ruolo di Simone Boccanegra, Claudio Sgura dà vita a un ritratto vibrante di un uomo del popolo divenuto sovrano, diviso tra i conflitti con il fiero antagonista Jacopo Fiesco e la struggente tenerezza verso la figlia Amelia, ritrovata dopo anni di angosciosa separazione. Sgura si rivela un artista dalla tavolozza espressiva variegata: se da un lato la partitura verdiana esige slanci drammatici e accenti potenti, dall’altro richiede una capacità di introspezione e delicatezza che l’artista padroneggia con sorprendente sensibilità. Le sue esplosioni di rabbia e disperazione sono scolpite con autorità, ma è nei momenti di amore, speranza e malinconia che il suo timbro accarezza l’anima dell’ascoltatore. In particolare, nei registri acuti, Sgura regala un fraseggio morbido e sfumato che amplifica la dimensione umana del personaggio, fondendo tecnica impeccabile e un pathos vibrante che si imprime nella memoria dello spettatore. Maria Motolygina si distingue per una voce di straordinaria potenza, sapientemente controllata e calibrata in ogni sfumatura. Il timbro, pieno e luminoso, si sposa con una tecnica impeccabile, capace di affrontare con sicurezza le dinamiche più ardite senza mai sacrificare la qualità del suono. La sua esecuzione rivela una padronanza assoluta dello strumento vocale, unita a una sensibilità interpretativa che le permette di plasmare ogni frase con espressività e precisione. Una presenza scenica e musicale che lascia il segno per solidità e intensità. Riccardo Zanellato interpreta un Fiesco di straordinaria imponenza, scolpito da un timbro profondo e da una cavata vocale di notevole ampiezza. Il suo fraseggio, nobile e misurato, esalta la tensione drammatica del personaggio, mentre la padronanza tecnica si intreccia con una sensibilità interpretativa capace di restituirne la complessità emotiva. Con fierezza e sdegno, la sua presenza scenica incarna appieno l’autentico spirito verdiano, in un equilibrio che unisce forza espressiva e raffinatezza stilistica. Anthony Ciaramitaro ha saputo conquistare il pubblico con una pasta vocale di grande fascino, caratterizzata da un colore caldo e ricco di sfumature. Il fraseggio, intriso di passione e precisione, si è rivelato particolarmente adatto a dar vita al tormento e alla nobiltà di Gabriele Adorno. La sua espansione vocale e l’intensità interpretativa hanno conferito al personaggio una dimensione drammatica di notevole impatto, rivelando una rara capacità espressiva. Ben riuscito il Paolo Albiani di Gevorg Hakobyan, il quale si distingue per un’importante ampiezza vocale. Bene tutto il resto del cast. Photocredit FabrizioSansoni
Napoli, Teatro Bellini di Napoli
COSE CHE SO ESSERE VERE
(Things I Know to Be True)
di Andrew Bovell
regia Valerio Binasco
con Giuliana De Sio, Valerio Binasco
e con (in o.a.) Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Stefania Medri
produzione Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile Bolzano, TSV Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
Valerio Binasco e Giuliana De Sio sono i due principali protagonisti di un toccante, divertente e coraggioso dramma che ruota intorno alla storia di una famiglia e di un matrimonio, nel primo allestimento italiano del potente testo di Andrew Bovell, coprodotto dal Teatro Stabile di Torino, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile del Veneto. Quando Rosie torna rocambolescamente a casa dopo un breve viaggio in giro per l’Europa è certa di far parte di una famiglia solida, inossidabile: ma all’arrivo della giovane le crepe che silenziosamente si sono insinuante nei rapporti tra i familiari ribaltano ogni certezza. Una fotografia complessa e acuta dei meccanismi domestici e matrimoniali che muta continuamente punto di vista, attraverso gli occhi di quattro fratelli che lottano per definire se stessi al di là dell’amore e delle aspettative dei genitori. Bovell (1962), scrittore e drammaturgo australiano pluripremiato, autore di numerosi testi tra cui Speaking in Tongues di cui ha curato l’adattamento cinematografico dal titolo Lantana, e di When the Rain Stops Falling, affronta in questo dramma la perdita di fiducia e il potere del passato di plasmare il futuro. Qui per tutte le informazioni.
Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025
“LE NOZZE DI FIGARO”
Dramma giocoso in quattro atti di Lorenzo da Ponte da La Folle Journée, ou le Mariage de Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Conte d’Almaviva JARRETT OTT
Contessa d’Almaviva KIRSTEN MACKINNON
Susanna MARTINA RUSSOMANNO
Figaro CHRISTIAN FEDERICI
Cherubino SIPHOKAZI MOLTENO*
Marcellina CHIARA TIROTTA
Don Bartolo GIOVANNI ROMEO
Don Basilio JUAN JOSE’ MEDINA*
Don Curzio CRISTIANO OLIVIERI
Barbarina ALBINA TONKIKH*
Antonio JANUSZ NOSEK*
Prima contadina CATERINA BORRUSO Seconda contadina IVANA CRAVERO Maestro al fortepiano CARLO CAPUTO *Artista del Regio Ensemble
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore d’orchestra Leonardo Sini
Maestro del coro Ulisse Tabacchin
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Renata Schussheim
Luci Eduardo Bravo riprese da Vladi Spigarolo
Coreografie Nuria Castejon
Allestimento Teatro Regio di Torino. Produzione originale Teatro Real de Madrid (2009) in coproduzione con Asociasiòn Bilbaìna de Amigos de la Ópera (A.B.A.O.)
Torino, 24 novembre 2024
Il Maestro Leonardo Sini, tramite l’ottima e sonora Orchestra del Teatro Regio di Torino, parte con una entusiasmante velocissima, seppur a tratti rumorosa, sinfonia che fa ben sperare in un taglio delle Nozze che esalti gioventù e passione; che si tuffi anche in quelle cascate di pulsioni fisiche che Mozart sapeva consapevolmente far scrosciare dalle pagine del suo teatro. Nulla avviene: al levar del sipario ci si distende nella più inoffensiva e sbiancata delle storie. Il dialogo orchestra palcoscenico si snoda prudente e neppure gli interventi, troppo frenati, di Carlo Caputo al fortepiano, valgono a dargli brio. Per molti versi si è tornati allo stile salisburghese degli anni ’60: cura estrema delle arie (ma le voci non son più quelle!), precisione (ma qui con troppa cautela) dei concertati, inespressività (come se Muti fosse passato invano) dei recitativi. È pur vero che tre dei cinque protagonisti sono stranieri e quindi per loro la lingua italiana potrebbe rappresentare un impervio ostacolo al raggiungimento di scorrevolezza e mobilità psicologica. Si vedrà, nelle prossime recite, se l’espressività e la scioltezza in scena ne sortiranno migliorate. Al trentasettenne baritono Jarrett Ott, fisico e portamento ideali per il Conte d’Almaviva, è carente la protervia e l’arroganza vocale di un Grande di Spagna. Volume non debordante, seppur con timbro accattivante, ma in teatro “corre poco” e l’impaccio nei recitativi lo limita nell’efficacia comunicativa. Il soprano Kirsten MacKinnon, la Contessa, ha voce generosa che, quando forza, viene penalizzata da un suono metallico accentuato da un fastidioso vibrato. Parrebbe essere una voce più adatta ai picchettati glaciali della Regina della Notte che ai languori della Contessa. Le sue due grandi arie, sono state assai applaudite, ed è sempre efficace e ben caratterizzata negli insieme. Christian Federici, come Figaro, coniuga moderatezza brillante a vivacità controllata. Non strafà mai, né vocalmente né scenicamente, rende così evidente che, nonostante gli oscuri trascorsi, non è un barbiere di strada ma un figlio di dottore. Voce dal bel colore che, pur con qualche sporadica forzatura, riesce a farsi apprezzare. Il colore della voce, più scuro di quello del Conte, promuove una buona differenziazione delle personalità nei concertati. “Non più andrai.. non memorabile ma degno del lungo applauso che l’ha accolto così come il poco veemente “Aprite un po’ quegl’occhi …”. Martina Russomanno è una Susanna apprezzabile sia nella voce che nella recitazione. Ad un mese dalla sua brillante prestazione, sempre al Regio, come Manon in una replica del capolavoro di Massenet, ritorna sul palco di Piazza Castello con una prestazione più che ragguardevole. Giunse alfin il momento … Dé vieni non tardare … se non da antologia, comunque di un gran bel livello. Canto immacolato e preciso che coglie tutte le sfumature, e sono infinite, del personaggio. È un’amorosa appassionata con vene sensuali che fanno presagire soddisfazioni e felicità, almeno momentanee, della coppia. La giovane Siphokazi Molteno, membro del Regio Ensemble, impersona, con qualche discrepanza nell’aspetto, il giovane Cherubino. Tutti ci rifacciamo, da sempre, all’immagine di un paggio scattante, sfrontato e intemperante per cui non risulta facile superare lo scoglio di una personificazione che lo contraddice. La voce, sopranile con venature, seppur forzate ed artificiose di contralto, è bella e lo stile è corretto e ben educato. Le sue due arie, idiomatiche come poche altre, hanno il falstaffiano handicap di star curve come una buona lama di Bilbao in un panierin di dama. Pur senza capriole aggiuntive, riesce ad attirarsi le simpatie di gran parte del pubblico e con esse una certa oculata dose di applausi. Efficacemente in parte e in canto la Marcellina di Chiara Tirotta che ben dipana il duettino del primo atto con Susanna. Un poco più difficoltoso, per Giovanni Romeo, il sillabato della Vendetta di Bartolo tanto che, esausto, il proseguo se lo canta per sé stesso. A fuoco ed untuoso al punto giusto il Basilio di Juan José Medina, così come sono professionali e corretti il Don Curzio di Cristiano Olivieri e l’Antonio di Janutsz Nosek che vaga disperatamente per la scena coi suoi vasi di fiori ormai malamente calpestati da Cherubino in fuga. Caterina Borruso e Ivana Cravero sono le brave e festanti contadine che si emancipano dal Coro del Teatro Regio di Torino che Ulisse Trabacchin validamente regge. Albina Tonkikh dà infine un saggio della sua bravura nell’ambigua aria della … Spilla perduta. L’allestimento, scene di Daniel Bianco, luci di Eduardo Bravo e costumi di Renata Schussheim, originariamente (2009) del madrileno Teatro Real, con la Regia di Emilio Sagi, è forse troppo lineare e pulito per l’ambientazione rococò della commedia. Qualche intemperanza la si coglie solo nel decoro del letto della Contessa e nello strafloreale giardino del quarto atto; la sostituzione della provvidenziale poltrona del primo atto con il telaio del letto dei prossimi sposi costituisce una veniale deviazione dalla consolidata tradizione. Con gran gioia del botteghino, è il “tutto esaurito” di tutte le date. L’entusiasmo, senza riserve, che fortunatamente si coglie in tutte le occasioni mozartiane, esalta ulteriormente la recita.