Roma, Teatro Parioli Costanzo
NOI GIUDA
con Massimo Ghini
scritto e diretto da Angelo Longoni
Musiche originali composte da Paolo Vivaldi in collaborazione con Aldina Vitelli
aiuto regia di Lorenzo Rossi
video di Gianni Del Popolo
produzione Il Parioli
produttore esecutivo Enzo Gentile
Roma, 14 maggio 2025
Non ci sono colpe. O, se ci sono, sono troppo umane per essere condannate. “Noi Giuda”, scritto e diretto da Angelo Longoni, con un Massimo Ghini solo in scena ma mai solo nell’intenzione, è una lezione teatrale che scava, provoca, disorienta. Non è un monologo: è un interrogatorio senza tempo, un confronto impossibile tra memoria e presente, tra giustizia e necessità, tra condanna e compassione. Un attore, un testo, una voce che si fa carne: non per difendere, ma per farci ascoltare ciò che da secoli ignoriamo. Ghini non interpreta semplicemente Giuda. Glielo lascia dire. Lo accoglie, lo assorbe, lo restituisce. E in questo dialogo impossibile tra il tempo del Vangelo e il nostro presente secolarizzato e incerto, la figura più vilipesa della tradizione cristiana torna in scena con tutta la sua complessità. Non più solo il traditore, ma l’umano in frantumi, l’uomo che porta addosso il peso di un gesto che è al contempo necessario e inaccettabile. Si può essere colpevoli eseguendo un disegno divino? È la domanda che attraversa lo spettacolo come un fiume carsico, mai espressa davvero, ma continuamente evocata. Il testo, costruito come una lunga deposizione postuma, lavora sulle crepe della narrazione evangelica con il rispetto inquieto del dubbio. Longoni, drammaturgo fine e regista accorto, non cerca lo scandalo, ma lo slittamento di prospettiva. Non contesta il Vangelo, lo mette in tensione con l’esperienza umana. Giuda parla con ironia, a volte con dolcezza, più spesso con un dolore trattenuto che non cerca compassione ma verità. I trenta denari, il bacio, il suicidio: ogni dettaglio è interrogato, smontato, riletto come indizio di una versione alternativa. La conferenza diventa via via più confessione, più richiesta, più sfida. L’espediente registico della “conferenza” funziona perché non vincola, ma apre. Ghini ha il ritmo, il respiro, l’ascolto. Sa rallentare e poi colpire. La sua recitazione è tutta nei dettagli: nel peso dato a una parola, nella variazione di tono, nel silenzio che improvvisamente si allunga. Non c’è nessuna compiacenza, nessuna volontà istrionica. Ghini costruisce un personaggio che non ha bisogno di trasformismi ma di onestà. E la sua forza è proprio lì: nel non chiedere nulla allo spettatore, se non attenzione. In certi momenti, un sorriso appena accennato può ferire più di mille grida. In altri, una pausa prolungata dice più di qualsiasi lamento. Ghini domina il tempo della scena come un musicista che conosce il valore del silenzio. I video di Gianni Del Popolo, proiettati alle spalle dell’attore, non invadono, ma suggeriscono. Non illustrano, ma come giusto che sia disturbano. Si insinuano nella parola e la sporcano. Paesaggi biblici, deserti, volti moderni, brandelli di guerra: è come se il mondo attorno a Giuda si disgregasse e poi si ricomponesse in nuove forme. La musica di Paolo Vivaldi, con Aldina Vitelli, è sommessa, a tratti quasi impercettibile. Ma c’è. Accompagna, non commenta. Le luci di Desideria Angeloni creano un’atmosfera ovattata, intima, quasi domestica. Un altare spoglio dove il peccatore è anche sacerdote. La regia è minimalista, ma non arida. La scena è nuda, come il personaggio. Ogni elemento è funzionale a far emergere il testo e l’attore. Non ci sono effetti, ma affetti. La parola è regina. E la voce di Ghini la rende precisa, mai enfatica. Il suo Giuda è stanco, disilluso, ma non rassegnato. Vuole parlare, ancora una volta, prima di scomparire. Non chiede perdono, chiede di essere ascoltato. Longoni costruisce uno spettacolo che è più di una provocazione. È una carezza ruvida sul volto del dogma. Una riflessione sulla responsabilità, sulla colpa, sulla libertà. Ma anche sul potere della narrazione. Perché, ci suggerisce Giuda, chi racconta la storia ha sempre ragione. E allora, forse, vale la pena ascoltare anche chi la storia l’ha subita. “Noi Giuda” è teatro civile nel senso più alto. Non perché faccia prediche, ma perché prende sul serio lo spettatore. Gli affida domande, non slogan. Lo invita a pensare, non a reagire. E se alla fine usciamo dalla sala con un moto di simpatia per questo personaggio così odiato, allora qualcosa è successo davvero. Qualcosa che il teatro, quando è necessario, sa ancora fare: restituirci all’umano, anche quello più imperdonabile. Photocredit Massimiliano Fusco
Carmen di Georges Bizet, il penultimo appuntamento con la stagione lirica dell’Opera Carlo Felice 2024-25, è in programma da venerdì 16 fino a domenica 25 maggio 2025.
Maestro concertatore e direttore Donato Renzetti, regia di Emilio Sagi ripresa da Nuria Castejón, scene di Daniel Bianco, costumi di Renata Schussheim, coreografie di Nuria Castejón, luci di Eduardo Bravo.
Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini. Allestimento della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma.
A dare vita ai protagonisti: Francesco Meli, Amadi Lagha (17, 24) (Don José), Luca Tittoto, Abramo Rosalen (17, 24) (Escamillo), Armando Gabba (Le Dancaire), Saverio Fiore (Le Remendado), Paolo Ingrasciotta (Morales), Luca Dall’Amico (Zuniga), Annalisa Stroppa, Caterina Piva (17,24) (Carmen), Giuliana Gianfaldoni, Angela Nisi (17,24) (Micaela), Vittoriana De Amicis (Frasquita), Alessandra Della Croce (Mercédes).
Basilica San Zeno Maggiore, Verona – 23 Maggio 2025, ore 20.45
Il Concorso Elsa Respighi Verona APS, nell’ambito delle iniziative della competizione internazionale giunta alla decima edizione, riserva un posto speciale ai progetti di studio ed esecuzione dell’opera musicale edita ed inedita della compositrice romana cui essa è intestata e dedicata. Dopo la morte nel 1936 del marito Ottorino Respighi, la compositrice romana si dedica alla diffusione delle opere del suo celebre Maestro per affermarle a livello internazionale; riprende però la propria attività compositiva e lo studio dei testi sacri, forte del diploma all’Istituto Pontificio, realizzando composizioni ispirate a salmodie gregoriane in stile polifonico. L’Associazione quest’anno presenterà, presso la Basilica di San Zeno Maggiore, due manoscritti inediti di Elsa Olivieri Sangiacomo in prima esecuzione, da noi trascritti con autorizzazione esecutiva dell’Archivio Ottorino Respighi, Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Sono brani impegnativi per compagine corale e strumentale complessa: la Lauda spirituale per Coro misto a Cappella Vergine Santa! (1942) su testo del Poliziano e la Lauda drammatica Pianto de la Madonna (1938) su testo di Jacopone da Todi, per voci soliste, Coro polifonico a voci miste ed Ensemble strumentale (due pianoforti, due arpe, celesta, percussioni, timpani, xilofono, tamburi, grancassa e piatti); la celebre “Donna del Paradiso” è un dialogo struggente tra il dolore della Madre (soprano) e del Figlio (tenore) che si contrappone all’incalzare interlocutorio del popolo, creando uno stato emotivo di grande impatto sonoro. A precedere l’esecuzione delle Laudi di Elsa, sarà eseguita una parte della Lauda per la Natività del Signore di Ottorino Respighi su testo dello stesso Jacopone da Todi: il Canto di Maria con il Bambin Gesù, ruolo interpretato proprio da Elsa Respighi il 22 novembre del 1930 presso Palazzo Chigi Saracini a Siena; avvicineremo così anche i coniugi Respighi in una ideale e perfetta simbiosi stilistica e spirituale. Introducono le opere musicali alcuni testi recitati da “Oltre la soglia” e “La Passione secondo Maria” tratti dal volume AGNUS DEI di Carla Collesei Billi, che dà voce tutta umana alla dolcezza della Madre con il Figlio appena nato e al dolore straziante della stessa Madre che assiste alla Morte del Figlio crocifisso. L’esecuzione si avvarrà dell’apporto del “Alter Athestis Choir” di Padova, diretto dal M° Gianluca Zoccatelli, da Solisti vincitori del Concorso Elsa Respighi uniti ad un Ensemble strumentale, formato tra i migliori studenti del Conservatorio dall’Abaco di Verona, diretto dal M° Antonio Segafreddo.
Parma, Teatro Regio, Stagione 2025
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier GREGORY KUNDE
Carlo Gérard LUCA SALSI
Maddaleina di Coigny SAIOA HERNÁNDEZ
La mulatta Bersi ARLENE MIATTO ALBELDAS*
La Contessa di Coigny NATALIA GAVRILAN
Madelon MANUELA CUSTER
Roucher ANDREA PELLEGRINI
Pietro Fléville/Fouquier Tinville LORENZO BARBIERI
Mathieu MATTEO MANCINI
Un incredibile ENRICO CASARI
L’Abate ANZOR PILIA*
Schmidt/Il maestro di casa/Dumas EUGENIO MARIA DEGIACOMI
*Già allievi dell’Accademia Verdiana
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Nicola Berloffa ripresa da Florence Bas
Scene Justin Arienti
Costumi Edoardo Russo
Luci Valerio Tiberi riprese da Simone Bovis
Allestimento Teatro Regio di Parma, Teatro Comunale di Modena, Teatri di Piacenza, I Teatri di Reggio Emilia, Ravenna Manifestazioni, Opéra de Toulon
Parma, 11 maggio 2025
In un bel dì di maggio del 2025 ancora si può godere, a Parma, di un’esperienza operistica ch’è un tuffo nel passato: in cui il pubblico, a forza di ovazioni, costringe al bis ciascuno dei tre protagonisti, fra petroliniani gridolini di «bravo!», prima, e «grazie!», dopo. E in cui il cantante della casa (Salsi) lancia baci personalizzati, dispone dell’orchestra cui chiede di alzarsi a prendere l’applauso, e soccorre la collega con un bicchier d’acqua che la rinfranchi prima d’affrontare, a sua volta, il bis. È un’eredità, questa, da preservare nella sua ingenua autenticità: guai se dovesse diventare una forzatura a favore di turismo. D’altra parte, ci vogliono almeno due condizioni fondamentali, e qui c’erano. La prima, una regia latitante (nel senso di regia), ovvero una messa in scena secca: con l’ottima ragione che il «dramma di ambiente storico» non può essere traslocato nel tempo (come se regia questo significasse). Niente contro la messa in scena senza regia (anzi, al contrario!); ma quanto danneggiano il partito della «tradizione» allestimenti sciapi e scialbi come questo, firmato da Nicola Berloffa (e qui ripreso da Florence Bas), che passa per tradizionale solo perché si vede una ghigliottina e non un carro armato: fosse tutta qui la «tradizione» avrebbe ragione chi la butta alle ortiche. L’altra condizione è avere una terna di assi canori; posto che lo Chénier è e resta, come si è già ricordato, «dramma di ambiente storico», e in quell’ambiente ribolle una ciurma di personaggi cosiddetti minori da non sottovalutare. Come tutti sanno, Gregory Kunde è un fenomeno vocale, un caso portentoso, unico, epocale. La parte, massacrante per un giovane tenore nel pieno delle forze, consta di quattro momenti di esposizione solistica e due duettoni di prim’ordine. Con una scrittura che suggerisce sì la naturalezza del declamato, ma che pretende un canto sempre pieno, insistente sulla robustezza del registro centrale, ma che non risparmia anche acuti cui non debbono mancare virile solidità e sfolgorante turgore. Sembrerà strano, ma la voce del settantunenne Kunde aderisce bene a questo ritratto. Se volessimo proprio essere obiettivi dovremmo riconoscere che fisiologici segni di stanchezza comincino a far capolino, specie nel sostegno del fiato: che non manca mai, beninteso, solo se ne percepisce la fatica. Ma vogliamo davvero essere obiettivi? Ne varrebbe la pena? Gli acuti svettanti e di invidiata sicurezza autorizzano all’entusiasmo cieco (e sordo). La “primissima donna” è Saioa Hernández, formidabile allieva e plausibile erede di quella Montserrat citando la quale un loggionista indigeno «mi devo inginocchiare» , dice, e veramente si inginocchia, così, sul posto, sulle scale del Regio. Colpevolmente troppo poco presente nei cartelloni italiani, è una delle voci più importanti del nostro tempo. Il timbro è brunito ma resta carezzevole e femminile anche negli accenti più volitivi. Il controllo del fiato, impressionante, è assoluto. È la voce, voluminosa e tersa, di quello che si dice un autentico soprano drammatico: e non d’un lirico astuto. Tante e tali doti vocali che forse la Maddalena del primo quadro ne risulta fin troppo consistente: un po’ come la Cio Cio-San della Tebaldi. Luca Salsi, in un ruolo a lui congeniale almeno quanto quello di Scarpia, ricorda a tutti quale cosa meravigliosa possa diventare il teatro musicale quando il cantante si prenda la briga di leggere anche quelle sillabette che stanno sotto il pentagramma, di coglierne il senso e di restituirlo tramite il proprio, ch’è il più espressivo degli strumenti, la voce umana. Dalla marea parigina che affolla la locandina spiccano le voci robusta e piena ancorché assai slava per emissione della Coigny madre, Natalia Gavrilan; pastosa e morbida del premuroso Roucher, Andrea Pellegrini. Piuttosto pacata Manuela Custer nel cameo strappalacrime della vecchia Madelon, e ottima la vispa Bersi di Arlene Miatto Albeldas. Il Mathieu di Matteo Mancini vorrebbe forse un poco più di spregiudicatezza espressiva. Enrico Casari è un incredibile ma ben comprensibile in grazia di un’ottima dizione. Completano il cast Lorenzo Barbieri nei panni doppî di Fléville e Tinville; Eugenio Maria Degiacomi in quelli triplici di Schmidt, Maestro di casa e Dumas; e, ancora, l’abate di Anzor Pilia. Meriti altissimi vanno infine riconosciuti a Francesco Lanzillotta. È uno di quei rarissimi casi in cui le note di direzione pubblicate sul programma di sala rispecchiano bene la realtà che si ascolta. La sua direzione, pragmatica ma non di prammatica, si cura di contenere la generosità sonora dell’Orchestra Filarmonica Italiana in favore delle voci, lavorando piuttosto sulle qualità timbriche interne al suono. Per farlo, abbandona talvolta la bacchetta, ma sempre resta espressiva e sollecita la sua mano sinistra. Al solito affidabile il Coro del Regio di Martino Faggiani. Uno Chénier, insomma, che si potrebbe tradurre in immagini con qualcuna di quelle grisaglie che adornano il foyer del Regio: in cui i tre protagonisti soltanto sono scolpiti a tutto tondo, mentre gli altri restano appiattiti in uno stiacciato donatelliano, ma tutti sono circonfusi dall’eleganza neoclassica di una concertazione cameristica. Foto Roberto Ricci
Roma, Teatro Vascello
LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA
di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
assistente regia Alba Maria Porto
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennesee.
Martedì 29 aprile 2025 alle ore 19.30 ha debuttato in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino La gatta sul tetto che scotta, opera composta nel 1955 dal grande drammaturgo statunitense Tennessee Williams (1911-1983), che con questo testo vinse il suo secondo Premio Pulitzer. Questo allestimento, nella nuova traduzione di Monica Capuani, è diretto da Leonardo Lidi, regista residente del Teatro Stabile di Torino e direttore della Scuola per Attori. Saranno in scena Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini. Le scene e le luci sono di Nicolas Bovey, i costumi di Aurora Damanti, il suono di Claudio Tortorici. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, resterà in scena a Torino fino a domenica 11 maggio 2025 e successivamente sarà in tournée al Teatro Mercadante di Napoli (13 – 18 maggio 2025) e al Teatro Vascello di Roma (20 – 25 maggio 2025). La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennessee. La gatta sul tetto che scotta racconta la storia della famiglia Pollitt, una ricca famiglia del Sud degli Stati Uniti che vive una profonda crisi di fronte all’imminente morte del padre, Big Daddy. La famiglia si è riunita nell’immensa proprietà terriera di Big Daddy per festeggiare il suo compleanno: l’uomo non sa che questa sarà la sua ultima festa, essendo lui ammalato, senza saperlo, di cancro al colon. In questo contesto vengono in luce l’avidità e la debolezza dei figli, Gooper e Brick, e in particolare la situazione di quest’ultimo e di sua moglie Margaret. I due vivono un matrimonio senza intimità: Maggie è profondamente innamorata, ma Brick è distante, è da tempo un alcolizzato, e non la degna di considerazione. Gooper e Mae, interessati all’eredità di Big Daddy, cercano di approfittare della situazione. Durante un conflitto con Brick, Maggie dice di sentirsi come “una gatta su un tetto che scotta”, decisa a non cadere giù: ha, infatti, conquistato con fatica una posizione sociale e non vuole tornare nelle sofferenze della povertà. Accusa il marito di essere un alcolista per la perdita di Skipper, il suo più caro amico, morto suicida per l’amore inconfessato tra i due. Brick rifiuta di affrontare la verità sulla sua sessualità e sul suo dolore. Alla fine, Maggie fa credere a Big Daddy di essere incinta, continuando a sperare di riuscire a trasformare questa sua bugia in realtà. Il dramma si chiude con lei che invita Brick a consumare il loro amore. QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.
Ildebrando Pizzetti (1880 – 1968): Messa di Requiem per coro misto. Corrado Margutti (1974) da Missa Lorca: Kyrie op. 60, Sanctus op. 54. Lorenzo Donati (1972): Sicut cervus. Erato Choir. Dario Ribechi (direttore). Registrazione: 4-7 luglio 2023 presso l’Abbazia di Fruttuaria, San Benigno Canavese (Torino). T. Time: 51′ 52″. 1 CD Dynamic CDS8017
Protagonista di questa proposta discografica dell’etichetta Dynamic è la Messa di Requiem composta da Ildebrando Pizzetti nel 1922 in occasione dell’anniversario della nascita di Umberto I (14 marzo 1844), che era stato assassinato nel 1900 a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Iniziato il 1° novembre 1922, qualche mese dopo aver ultimato la Dèbora e Jaéle, e completato il 2 gennaio 1923, il Requiem, che costituisce la testimonianza della sincera fede di Pizzetti il quale, da autentico cristiano, considera la morte non come il momento più drammatico dell’esistenza umana giunta al suo epilogo, bensì come l’inizio di una nuova vita nella dimensione trascendente dell’eternità, è formato da cinque parti: il Requiem con il Kyrie a cinque voci; il maestoso Dies irae, che inizia a quattro voci e si conclude ad otto parti e nel quale i melismi dei soprani secondi e dei tenori dissolvono in purissimo canto le ombre di paura che sembrano aleggiare nelle parti dei contralti e dei bassi; il grandioso Sanctus; il breve Agnus Dei e, infine, il Libera me, Domine, nel quale i soprani si producono in un mistico lirismo accompagnati dalle altre voci a cui sono affidate delle indeterminate quinte vuote. Completano il programma del CD il Kyrie e il Sanctus dalla Missa Lorca di Corrado Margutti, composta dal 2002 al 2006, nel quale il solenne testo liturgico e la poesia di Lorca trovano una sintesi originale grazie a una scrittura che ricorda la polifonia monteverdiana, e il Sicut Cervus di Lorenzo Donati, nel quale il compositore si è ispirato a Palestrina. Questi lavori sono magistralmente eseguiti dall’Erato Choir, diretto da Dario Ribechi, che riesce a ben evidenziare l’intreccio polifonico e a far emergere i valori espressivi dei testi. Si tratta di un’esecuzione particolarmente intensa e suggestiva che valorizza un lavoro, un po’ dimenticato, di Pizzetti e due interessanti composizioni di autori contemporanei che, però, affondano le loro radici nella polifonia rinascimentale e barocca.
Milano, Teatro Carcano, Stagione 2024/25
“IMPROVVISAMENTE L’ESTATE SCORSA”
di Tennessee Williams – traduzione di Monica Capuani
Violet Venable LAURA MARINONI
Catherine Holly LEDA KREIDER
Dottor Cuckrowicz EDOARDO RIBATTO
Grace Holly ELENA CALLEGARI
George Holly ION DONÀ
Regia Stefano Cordella
Scene Guido Buganza
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Marzio Picchetti
Suono Gianluca Agostini
Produzione LAC Lugano Arte Cultura in coproduzione con Teatro Carcano e Gruppo Ospedaliero Moncucco
Milano, 11 maggio 2025
Sebbene la pellicola del ‘59 con Elizabeth Taylor e Katherine Hepburn l’abbia sdoganato a livello mondiale, “Improvvisamente l’estate scorsa” è un testo più fragile e insidioso di quanto si pensi: la sceneggiatura cinematografica, d’altronde, deve a Gore Vidal la maggior parte delle sue pagine, come lui stesso afferma nella sua autobiografia – e infatti tutti quelli che l’hanno portato in scena hanno sempre interpolato stralci più o meno ampi della sceneggiatura nel testo teatrale; il dramma originale è paradossalmente (visto il Codice Hayes in vigore a Hollywood) più reticente, meno grandguignolesco, più sottile della sua riduzione cinematografica, ma, nello stesso tempo, se si legge sotto la superficie, più inquietante e meno facilmente “digeribile”.La riproposizione di Stefano Cordella non fa eccezione: anche qui si sente l’influenza dello script, soprattutto nel personaggio di Violet, più giovane, trasognata e autonoma rispetto alla decrepita e mefistofelica ex-seduttrice in sedia a rotelle dell’originale; tuttavia, i problemi più evidenti di questa regia riguardano le dinamiche tra i personaggi: l’eliminazione di due ruoli secondari come Miss Foxhill e soprattutto Suor Felicity fanno sì che il personaggio di Catherine non viva un completo rifiuto della famiglia, rifugiandosi talvolta nelle braccia della madre, addirittura in quello del perfido fratello George, travisando del tutto la narrazione williamsiana di una famiglia disfunzionale pronta a vendere la figlia per centomila dollari; pure il rapporto fra Cathy e Violet è gestito in maniera troppo impari: le due donne, infatti sono specchio l’una dell’altra, due adescatrici, entrambe al servizio del perverso Sebastian, ma per ragioni diverse – Cathy poiché si invaghisce del cugino in un momento di profonda fragilità psichica, Violet poiché è quasi morbosamente innamorata del figlio, che sostituisce al marito, sia nelle sue fantasie che nell’effettiva routine quotidiana; qui, invece, sembrano soltanto una ricca prepotente che si impone su una povera isterica che altro non fa che strillare, correre su e giù per il palco e mangiarsi le parole di uno dei più lunghi monologhi a memoria d’uomo (decisamente non una delle migliori prove di Leda Kreider). Non c’è profondità, non c’è una chiara indagine nei rapporti, e di conseguenza viene a mancare anche l’effettiva comprensione della dinamica della tragedia (molte persone tra il pubblico, specialmente tra le più agé, dichiarano di non aver capito esattamente il perché della morte di Sebastian, e dell’astio di Violet per la nipote psicolabile). Infine, e qui la critica si fa più sottile, quello che Cordella non rispetta maggiormente è la natura del dramma williamsiano, che è molto specifica, aderente al contenuto, inevitabile se si vuole portare in scena questo autore (e al contempo giudicata da critici e storici del teatro anche il suo limite più grande): Williams non è Shakespeare o Euripide, non è ancora, come è naturale che sia, un classico, e va portato in scena e specialmente recitato con una specifica esteriorità che veicoli l’ossessiva morbosità delle sue storie, la conclamata intenzione di scompaginare lo well-to-do americano del Novecento; per fare questo, tuttavia, non si serve quasi mai di sperimentazioni o tentativi avanguardistici, ma usa esattamente quei linguaggi manieristi, a tratti stereotipati e sussiegosi, che caratterizzavano il teatro “perbene” americano della prima metà del secolo. In poche parole: non si può recitare Williams come si recita un dramma di un autore italiano contemporaneo, ma piuttosto come si reciterebbe O’Neill, Thornton Wilder, quella stessa tradizione su cui Williams si era formato. Cercare un’esasperata naturalezza nei gesti, nelle intonazioni, nelle emissioni e nelle posizioni in scena, non funziona con i testi di Tennessee Williams, ne impoverisce il portato contenutistico: ad esempio, in questa regia manca del tutto la tensione sessuale, l’incesto madre/figlio, il desiderio soffocante di corporeità che trasuda da quasi ogni battuta di ogni personaggio (con l’eccezione del dottor Cuckrowicz), riducendo tutto alla storiella di una vecchia megera che vuole che sua nipote smetta di raccontare fandonie sul suo defunto figlio – ossia una storia che non interessa a nessuno. Tra il cast, peraltro, ben pochi interpreti riescono a illuminare la scena: Laura Marinoni, com’era prevedibile, porta la sua esperienza di attenta vocalista, oltre che fascinosa interprete, al servizio di Violet Venable, sebbene anch’ella non sembri del tutto consapevole della fisicità del suo personaggio, che, paradossalmente, inizia in sedia rotelle, poi si alza aiutata da un bastone, e quando rientra in scena cammina disinvoltamente e si siede su un mobile sorseggiando un daiquiri; anche Elena Callegari, nel ruolo per nulla secondario di Grace Holly, la madre di Catherine, mostra soprattutto una vocalità pastosa e cadenzata, che richiama quegli Anni Trenta in cui Williams ha ambientato il dramma, e anche la sua fisicità avvolta di nero e minuta riesce, per quanto può, a imporsi allo spettatore. Per il resto, spiace constatare che gli interpreti maschili siano decisamente sottotono: Edoardo Ribatto è un Dottor Zucchero incolore, quasi impersonale, caratterizzato per di più da una vocalità straniantemente metallica; Ion Donà, invece, è semplicemente un George abbozzato, da prima lettura del copione, frutto del comune errore che porta gli attori a interpretare in maniera superficiale i personaggi superficiali, che spesso invece sono molto più complessi di quelli sviluppati a tutto tondo. Va detto che pure la traduzione di Monica Capuani (che non sappiamo se abbia anche curato l’adattamento del testo alla scena) risente di una serie di ingenuità e di fraintendimenti, quando non di scelte arbitrariamente brutte (è proprio necessario che nel momento più tragico, nell’acmé del dramma si sciorini l’aggettivo “spiaccicato”?). La scena di Guido Buganza vorrebbe forse suscitare un qualche scandalo, vista la macchina sportiva bianca sfasciata che domina il palco, mentre in realtà questa presenza pretestuosa, e non del tutto chiarita, viene offuscata dal lussureggiante ed efficace giardino pensile che incombe sulla scena; altrettanto funzionale è il gioco di luci ed ombre ricreato da Marzio Picchetti, così come il suono di Gianluca Agostini, che, come da didascalia originale, alterna brevi momenti musicali a lunghe sequenze di suoni ambientali legati alla giungla (cinguettii, fruscii, schiocchi, ecc); i costumi di Ilaria Ariemme sono invece de facto slegati sia all’epoca storica sia a una qualsivoglia simbologia, suonando in parte stonati – perché George indossa una giacca decorata con paillette sul suo completo da tennista? E come si potrebbe definire “Schiaparelli” l’abito che Catherine indossa, sotto l’ingombrante cappotto? Il senso di insieme che lo spettacolo comunica è di una certa lontananza dalla riuscita: alcune idee, alcune interpretazioni, sono azzeccate e affascinanti; altre, invece, sembrano voler a tutti i costi attualizzare una storia di per sé inattuale, sfiorando da molto vicino l’ordinario, quando non il grottesco involontario. Foto Luca Del Pia
Roma, Teatro Vascello
FELICISSIMA JURNATA
drammaturgia e regia Emanuele D’Errico
con Antonella Morea e Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
scene Rosita Vallefuoco
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
luci Desideria Angeloni
costumi Rosario Martone
aiuto regia Clara Bocchino
realizzazione scene Mauro Rea
macchinista Michele Lubrano Lavadera
fonico Stefano Cammarota
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations (Valeria Bonacci, Giorgia Simonetta)
produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia
in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo
e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania
Roma, 13 maggio 2025
Nel ventre pulsante di Napoli, dove i vicoli stringono le vite e il cielo è un’ipotesi fra i panni stesi, nasce un teatro che non chiede il permesso. Non chiede autorizzazioni, né concessioni. Putéca Celidònia ha imparato a sporcarsi le mani, a respirare l’umido dei bassi, a sedersi accanto ai vecchi sulle sedie di plastica, a farsi raccontare storie, più vere del vero. Questo è teatro che sorge dalla terra, non da un bando ministeriale. E Felicissima Jurnata – andato in scena al Teatro Vascello di Roma non è uno spettacolo. È una veglia laica. Una processione di fantasmi vivi. È un modo per dire che Beckett non appartiene agli scaffali dei licei, ma alle strade, ai corpi, alle donne e agli uomini che vivono una vita sepolta sotto la polvere del tempo e del silenzio. Prendono Beckett, i ragazzi e le ragazze della Putéca, lo sfogliano, lo masticano, lo portano nei bassi della Sanità e gli chiedono: ti riconosci in tutto questo?. E la risposta è sì. Perché Giorni Felici accade, ogni giorno, in ogni basso, dove il tempo non passa e il sole non entra. Dove la felicità è una parola che si dice forte solo per non sentirne l’eco. Antonella Morea, attrice dalla voce antica e coraggiosa, è Lina. In cima a un cono altissimo, non è sepolta nella sabbia, ma nel vulcano. Dentro il Vesuvio, vestita di fili azzurri come il mare che non si vede mai. Si trucca, si pettina, ripete le stesse frasi come Winnie. Ma qui non c’è nonsense, c’è sopravvivenza. E se si ride, è perché il dolore è stato attraversato. La sua voce, roca e dolce, è un canto spezzato che si rialza ad ogni battuta. Sotto di lei, nel cono, c’è Lello, il marito. Dario Rea è un corpo murato nel silenzio, che si esprime solo a gesti, a suoni spezzati. È l’uomo rimasto. L’uomo che non scappa, che si siede e aspetta. La sua assenza dice più di mille parole. Sono una coppia, Lina e Lello, incastrati nel giorno che non passa mai. Legati da fili invisibili, come quelli che lei cuce, che lui aggiusta, che si impigliano nelle parole e nei silenzi. Non c’è scenografia, c’è una condizione. Le scene di Rosita Vallefuoco sono una dichiarazione di poetica: lo spazio è metafora vivente, è una casa-vulcano, una bocca che fuma, un cratere che inghiotte e partorisce memoria. Il suono di Hubert Westkemper non accompagna, ma insegue. Registra e restituisce. È la voce delle persone incontrate nei bassi. Sono veri, reali, registrati. Ma non sono testimonianze: sono apparizioni. Perché questo spettacolo nasce da anni di vita nei quartieri. Non è un’invenzione. È frutto di uno sguardo che ha ascoltato. Un teatro che si è lasciato attraversare dalle voci di Assunta, Pasqualotto, Angela e di una donna di centonove anni che si trucca ogni mattina. Centonove! E ancora canta, ancora sente la gente, ancora dice “io ci sono”. È questa la felicità? E allora sì, Felicissima Jurnata è un titolo ironico, doloroso, ma anche vero. Perché nel dire e ridire quella frase – sempre con lo stesso sorriso, sempre con la stessa crepa nella voce – si compie un rito. Una piccola preghiera laica contro la scomparsa. Ogni giorno è uguale, ogni gesto si ripete, ma ogni parola detta resiste al nulla. È un Beckett che diventa partenopeo, sì, ma soprattutto che torna umano. La regia di Emanuele D’Errico è delicata, rispettosa, chirurgica. Tiene insieme i materiali con grazia e rigore. Non forza nulla. Lascia che siano i volti, i suoni, i corpi a raccontare. E la lingua napoletana – vibrante, morbida, aspra – si fa strumento di poesia politica. Ogni parola è un sasso levigato dalla vita. Non ci sono scene madri, non ci sono climax. C’è un’onda che avanza piano. Una nebbia calda che avvolge. Un tempo lento, ma necessario. E quando, alla fine, Lina dice ancora una volta felicissima jurnata, lo spettatore è cambiato. Ha visto qualcosa. Ha sentito il respiro di un quartiere, il battito di un’umanità che esiste ancora. Che chiede solo di non essere dimenticata. Questo è teatro che fa bene. Non perché consola, ma perché chiama. Chiama alla presenza, all’ascolto, alla responsabilità. Putéca Celidònia non costruisce storie, accoglie vite. E le trasforma in arte. In un’arte che non separa, ma unisce. Che non divide, ma intreccia. Felicissima Jurnata è il teatro che ci manca. Quello che accade dentro e fuori la scena. Che ha memoria e desiderio. Che si ricorda che il palcoscenico è fatto per accogliere il reale, anche quando fa male. Anzi: soprattutto allora. Photocredit Laila Pozzo
Fantasmi, amore, follia e vendetta animano “Hamlet” di Ambroise Thomas, un’opéra romantique dal fascino immortale che, dal 15 al 27 maggio, va in scena in una nuova produzione del Teatro Regio. Per la prima volta al mondo l’opera viene rappresentata in forma scenica nella sua versione originale con il ruolo del protagonista affidato alla voce di tenore. Sarà il grande tenore statunitense John Osborn a dare voce al tormentato principe di Danimarca; accanto a lui, nel ruolo di Ophélie, Sara Blanch, impegnata nella celebre e virtuosistica aria della follia. Sul podio graditissimo ritorno di Jérémie Rhorer alla guida di Orchestra e Coro del Teatro Regio, istruito da Ulisse Trabacchin. La regia è firmata da Jacopo Spirei, che debutta al Regio con un’intensa lettura psicologica della tragedia shakespeariana.
Clémentine Margaine sarà la regina Gertrude; nei panni del re Claudius ritroviamo Riccardo Zanellato già apprezzato come Brogni ne “La Juive“. Completano il cast Julien Henric (Laërte), Alastair Miles (lo spettro del defunto re), Alexander Marev (Marcellus), Tomislav Lavoie (Horatio), Nicolò Donini (Polonius), Janusz Nosek e Maciej Kwasnikowski (i due becchini).
Hamlet di Ambroise Thomas, su libretto di Michel Carré e Jules Barbier, debuttò con grande successo all’Opéra di Parigi nel 1868, diventando una delle opere più rappresentate in Francia per oltre settant’anni. Pur ispirandosi alla tragedia shakespeariana, l’opera ne offre una rilettura in chiave romantica, riducendo il numero di personaggi e ponendo al centro il tormento interiore del protagonista. A differenza dell’originale, la madre Gertrude è qui complice del crimine, accentuando il dramma psicologico di Hamlet e il suo conflitto tra dovere e ribellione. Uno dei momenti più attesi della partitura è la spettacolare scena della follia di Ophélie nel quarto atto, tra le più celebri del repertorio operistico.
Ambroise Thomas concepì il ruolo del protagonista per la voce di tenore, salvo poi doverla adattare per il primo interprete, il baritono Jean-Baptiste Faure, determinando così la tradizione esecutiva dell’opera sino ai giorni nostri. Tuttavia, il recupero della versione originale curata dall’editore Bärenreiter restituisce al ruolo del principe di Danimarca il registro vocale tenorile, consentendo dunque di riscoprire l’idea autentica del compositore. John Osborn è stato il primo a eseguire in forma di concerto questa versione, che ora il Teatro Regio realizza per la prima volta in assoluto in una produzione scenica.
Jacopo Spirei, forte di un percorso artistico ispirato alla lezione di Graham Vick e al teatro shakespeariano come spazio di dialogo con il pubblico, affronta Hamlet di Ambroise Thomas come una lettura psicologica. Il regista italiano, attivo da oltre vent’anni in tutto il mondo e vincitore del premio per la miglior produzione della stagione 2012/13 al Landestheater di Salisburgo, si dedica anche alla formazione presso la Kunsthøgskolen di Oslo. La sua regia mette in scena il tormento interiore di un giovane incapace di sostenere il peso del potere, immerso in un mondo gotico e decadente in cui la ferocia e l’ambizione governano i destini delle persone. Nelle sue parole: «Essere o non essere? La più grande domanda della nostra vita. Cosa dobbiamo fare quando un compito più grande di noi cade sulle nostre spalle? Dobbiamo diventare i nostri genitori? Il loro spirito di rivalsa? Hamlet è pieno di domande senza risposta, responsabilità troppo grandi, una realtà traumatica che genera incubi di ogni specie. Questo Hamlet è un viaggio all’interno di noi stessi attraverso l’introspezione, la domanda, la ricerca». In questa rilettura è impossibile non scorgere un’eco della tragedia di Macbeth: quasi che la coppia maledetta avesse generato un figlio. Un’idea che sembra sottintendere la visione del regista, tanto più se si considera che, nella versione di Thomas, Gertrude non è solo una madre, ma anche la complice del nuovo re. Spirei trasforma il dramma in un viaggio interiore denso di simboli: dal fasto inquietante del salone dell’incoronazione al caos del banchetto, fino al climax finale, dove Hamlet si ritrova re di un mondo ormai in rovina.
Le scene di Gary McCann e i costumi di Giada Masi definiscono con forza l’identità dei personaggi, mentre le luci di Fiammetta Baldiserri amplificano il contrasto tra grandiosità e inquietudine.
Hamlet sarà presentata al pubblico mercoledì 14 maggio alle ore 18 nel Foyer del Toro nella conferenza-concerto condotta dalla giornalista Susanna Franchi. L’incontro prevede esibizioni live; l’ingresso è libero.
Le recite cominceranno alle ore 19:30 con esclusione di quelle domenicali del 18 e 25 maggio per cui è previsto l’inizio alle ore 15:00.
https://www.teatroregio.torino.it/opera-e-balletto-2024-2025/hamlet
Stoccolma, Teatro Reale – Stagione lirica e di balletto 2025
“LE NOZZE DI FIGARO”
Opera in quattro atti su libretto di Lorenzo da Ponte da Pierre-Augustin de Beaumarchais
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
La Contessa di Almaviva CAMILLA TILLING
Susanna JOHANNA WALLROTH
Cherubino ADRIAN ANGELICO
Il Conte di Almaviva JEREMY CARPENTER
Figaro ERIK ROSENIUS
Marcellina MIRIAM TREICHL
Bartolo KRISTIAN FLOR
Barbarina MATHYLDE HYLANDER
Basilio JONAS DEGERFELDT
Antonio YOHAN EDHOLM
Due ragazze ROMA LOUKES, JOHANNA SANNEFORS
Orchestra e Coro della Kungliga Operan
Direttore James Hendry
Maestro del Coro Ines Kaun
Regia Linus Fellbom
Scene Yulia Przedmojska
Costumi Lena Lindgren
Disegno luci Linus Fellbom
Allestimento originale dell’Opera Reale Svedese
Stoccolma, 9 maggio 2025
L’Opera Reale Svedese (Kungliga Operan) vanta una storia interessante; ne fu infatti creatore e sostenitore il re Gustavo III fin dal 1773, costruendo l’edificio originale e commissionando i primi allestimenti. Proprio nel suo teatro, nel corso di una festa mascherata, il Re fu assassinato nel 1792 e la vicenda ispirò poi direttamente Un ballo in maschera, il capolavoro che Verdi, per evitare la censura, dovette in realtà ambientare negli Stati Uniti. L’Orchestra Reale (Kungliga Hovcapellet) associata al teatro alla sua nascita, vanta inoltre cinque secoli di storia facendone uno degli ensemble strumentali più antichi del mondo ancora in attività. Le premesse di tale tradizione non hanno tradito le attese, proponendo un allestimento de Le nozze di Figaro semplice ma di rara freschezza, con un cast equilibrato e un livello esecutivo decisamente elevato. La scenografia di Yulia Przedmojska presentava infatti soltanto una casetta girevole variamente utilizzata e arredata come fattore di mutazione, sia per alcune entrate che come elemento ambientale indicativo: il tutto senza quinte o fondali, con servizi a vista e valorizzato esclusivamente dalle luci. Solo nell’ultimo atto la casetta-periatto scompare, sostituita da un ampio velario che alla fine, un po’ didascalicamente, cadrà svelando i personaggi nella loro realtà e facendo svanire l’inestricabile gioco di inganni su cui è costruita la vicenda. Da segnalare l’integrazione coi costumi di Lena Lindgren, fondamentalmente d’epoca ma abilmente caratterizzati da elementi e colori caricaturali e non realistici. La regia di Linus Fellbom dipana bene il macchinoso congegno drammaturgico esaltando soprattutto il lato buffo del libretto con un sapiente utilizzo dei tempi teatrali e delle geometrie in palcoscenico, ma tralasciando talvolta l’aspetto sottilmente malinconico con cui, in Mozart, bisognerebbe sempre fare i conti. È coerente con tale impostazione la direzione del giovane James Hendry che, dopo un’Ouverture elettrizzante (veramente incredibile, visto il tempo preso, la precisione e la perfezione degli incastri tra archi e strumentini dell’eccellente orchestra) ha complessivamente scelto dei metronomi più comodi, mostrando comunque un carattere attento soprattutto alle scene più vivaci, ma con alcune interessanti scelte agogiche ed espressive anche nei cantabili. L’equilibrio e l’omogeneità, tipico frutto del sistema teatrale nord europeo, non sono gli unici pregi della compagnia di canto che dimostra nei fatti come sia possibile costruire un’interpretazione credibile e stilisticamente ineccepibile senza divi o le solite consorterie d’agenzia. Tra le donne spicca la sontuosa vocalità di Camilla Tilling, una Contessa perfettamente centrata nel carattere, impeccabile nell’emissione, ricca di variazioni dinamiche ed espressive. Eccellente anche la Susanna di Johanna Wallroth, voce, come da tradizione, più chiara e apprezzabile soprattutto per la brillante freschezza, la sicurezza negli acuti e la vivacità nei movimenti. Ottima inoltre la postura scenica e interessante la vocalità della Marcellina di Miriam Treichl e ben centrata nel ruolo di Barbarina è apparsa la chiara vocalità di Mathylde Hylander. Non sfigura in confronto il cast maschile che presenta due bassi protagonisti con caratteristiche vocali quasi opposte; Figaro, il brillante Erik Rosenius, mostra una vocalità nei centri e nei gravi veramente notevole e ricchissima di armonici, un po’ “corta” negli acuti, mentre il Conte di Jeremy Carpenter è decisamente baritonale, con dei gravi poco sonori e una facile cantabilità nel registro superiore. In ogni caso la disinvoltura scenica, la varietà nell’espressione e il controllo tecnico di tali interpreti sono stati assolutamente encomiabili, con una menzione per le varianti che Rosenius ha aggiunto per fiorire alcuni passaggi. Nella norma del buon mestiere la prestazione di Kristian Flor e Yohan Edholm, mentre il Basilio di Jonas Degerfeldt, pur chiaramente meno dotato vocalmente e unico in difficoltà con l’italiano (veramente eccellente la pronuncia linguistica per tutti gli altri) finisce per utilizzare in maniera intelligente tali caratteristiche per definire grottescamente il suo personaggio. Un discorso a parte merita la scelta di utilizzare per la parte di Cherubino il bravo mezzosoprano Adrian Angelico, cantante di genere non binario che di fatto interpreta alla lettera l’ambiguità androgina della parte dando oltretutto un tocco inedito: il ruolo è infatti disegnato con una vocalità scura, importante, lontana dallo stereotipo efebico con cui è generalmente immaginato il motore primo di tutta l’opera. Il risultato è molto interessante e sposta la percezione del personaggio su un piano più maturo, un aspetto che avrebbe meritato un approfondimento registico dedicato. Disinvolto scenicamente, infine, ma con qualche distrazione ritmica, gli interventi del coro preparato da Ines Kaun. Teatro pieno, alla sedicesima replica, e meritato successo.
Dal 13 giugno al 6 settembre, all’Arena di Verona 51 serate di spettacolo: 5 titoli d’opera, 5 gala fra concerti e balletti. In scena e sul podio, le stelle internazionali dell’opera.
Inaugurazione il 13 e 14 giugno con la nuova produzione firmata da Stefano Poda: un Nabucco ‘atomico’ che racconta il potente dramma di Verdi con effetti scenici inediti e nuove tecnologie applicate al costume. Un viaggio senza tempo dal conflitto alla riconciliazione, dalla superbia alla speranza, tra umanesimo e tecnologia, tra richiami alla pittura barocca e visioni futuristiche: è l’umanità, individuale e corale, secondo Stefano Poda, che firma regia, scene, costumi, luci e coreografie del nuovo Nabucco verdiano, pronto a conquistare l’immenso palcoscenico dell’Arena di Verona dal 13 giugno. Una produzione che è anche una grandissima sfida tecnica per le maestranze areniane e per i numerosi laboratori coinvolti, con inedite soluzioni per costumi ed effetti scenici. In luglio si celebrano i 150 anni di Carmen e della scomparsa di Georges Bizet, oltre ai 30 anni dell’allestimento areniano di Zeffirelli. L’Arena Opera Festival 2025 propone ben 51 serate di spettacolo, dal 13 giugno al 6 settembre, con 5 titoli d’opera (oltre ai già citati Nabucco e Aida, l’ Aida nell’edizione “di cristallo” che ha celebrato il 100° Festival, La Traviata nella Parigi belle époque di Hugo De Ana, il Rigoletto autentico tributo alla tradizione areniana delle tele dipinte) e 5 fra concerti e balletti, dai 300 anni delle Quattro stagioni celebrati da Viva Vivaldi ai Carmina Burana e al gala di Jonas Kaufmann, da Roberto Bolle and Friends a Zorba il greco per i 100 anni di Theodorakis. In allegato i cast della stagione
Allegati
Napoli, Teatro di San Carlo
“LA FILLE DU RÉGIMENT”
Dal 18 al 27 maggio 2025, al Teatro di San Carlo, va in scena La fille du régiment: opéra-comique in due atti di Gaetano Donizetti su libretto di Jean-François Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges. La Prima è il 18 maggio 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 21 maggio, 23 maggio, 25 maggio, 27 maggio 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Riccardo Bisatti; Maestro del Coro: Fabrizio Cassi. La regia è affidata a Damiano Michieletto, con drammaturgia di Mattia Palma, scene di Paolo Fantin, luci di Alessandro Carletti e costumi di Agostino Cavalca. La coreografia è curata da Thomas Wilhelm.
Nel ruolo di Marie, Pretty Yende; Ruzil Gatin interpreta Tonio; Sulpice è, invece, interpretato da Sergio Vitale. Completano il cast: Sonia Ganassi (Marquise de Berkenfield), Eugenio Di Lieto (Hortensius), Marisa Laurito (Duchesse Krakenthorp), Salvatore De Crescenzo (Un caporal), Ivan Lualdi (Un paysan). Una Coproduzione Teatro di San Carlo e Bayerische Staatsoper. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Palazzo delle Esposizioni
DAL CUORE ALLE MANI: DOLCE&GABBANA
a cura di Florence Müller
scene della’ Agence Galuchat
Roma, 13 maggio 2025
In un tempo in cui la moda rischia di affondare nel digitale e nell’effimero, Domenico Dolce e Stefano Gabbana riaffermano con vibrante ostinazione la nobiltà della manualità, la potenza del gesto, l’aristocrazia del dettaglio. Dal Cuore alle Mani: Dolce&Gabbana, dal 14 maggio al 13 agosto 2025 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, è più di una mostra: è una dichiarazione d’intenti, un manifesto estetico, una sinfonia visiva che celebra l’Italia come archetipo, ispirazione, materia e mito. Pensata dalla curatrice Florence Müller e orchestrata con le scenografie dell’Agence Galuchat, l’esposizione – dopo il successo folgorante di Milano e Parigi – approda negli spazi neoclassici di Pio Piacentini con un nuovo allestimento che non si limita a un riallestimento, ma si plasma nella monumentalità del luogo, stabilendo un dialogo teatrale e simbolico tra architettura e moda, tra marmo e mikado, tra stucchi e crinoline. La mostra si articola in quattordici sezioni tematiche, vere e proprie “stazioni” di un pellegrinaggio laico nell’immaginario di Dolce&Gabbana. Sin dall’ingresso si comprende la natura quasi liturgica del percorso: qui la moda è intesa come atto sacro, il corpo come reliquiario e l’abito come ex-voto. Le prime sale celebrano il “fatto a mano”, con un Grand Tour attraverso le maestranze italiane: pizzi di Grottaglie, intrecci sardi, sete veneziane, motivi barocchi che rivivono nei drappeggi di una nuova classicità. Ma è l’elemento teatrale a dominare l’allestimento: l’opera lirica, il cinema, la devozione, le icone religiose e la scultura vivono negli abiti come figure animate. Ogni creazione diventa così personaggio, e l’esposizione assume le sembianze di una Wunderkammer postmoderna dove il sacro e il profano, la sensualità e l’estasi convivono in un equilibrio sontuoso e trasgressivo. L’abito come architettura prende forma nella sala dedicata a “Vestire la pittura”, in cui la sartoria dialoga con gli affreschi di Carracci e la geometria rinascimentale, ricreando la sinergia tra costruzione e ornamento. La sala dedicata al “Barocco bianco” è forse l’esempio più eloquente di questa traslazione plastica dell’arte: gli stilisti riprendono la lezione di Giacomo Serpotta, maestro degli stucchi palermitani, scolpendo il tessuto come fosse gesso lucidato, giocando con crine di cavallo, mikado e duchesse in un’estasi luminosa e senza colore, che afferma una sensualità rarefatta e assoluta. Ogni abito è un atlante visivo. Nei corsetti della sezione “Anatomia sartoriale” si legge il desiderio di una nuova anatomia estetica: il corpo è scolpito, rimodellato, esaltato. È un’operazione artistica e semiotica che, partendo dal Rinascimento e passando per la sensualità di Helmut Newton, si traduce in capi che celebrano l’architettura dell’umano, democratizzando l’ideale estetico con una sartoria inclusiva. Accanto, la sala “Cinema” è una celebrazione emozionale del sodalizio con Giuseppe Tornatore, autore di Devotion, il film che fa da contrappunto lirico alla mostra. Le immagini scorrono tra crocifissi e tessuti, Madonne e abiti liturgici, raccontando un’Italiana bellezza che è famiglia, fede, fatica, festa. L’occhio di Tornatore coglie la sacralità dei gesti quotidiani e la trasforma in rito cinematografico. La mostra culmina nella sala dedicata a Milano, città natale dell’Alta Moda del brand. Un abito aureo in pizzo macramè rende omaggio alla Madonnina e alla Galleria Vittorio Emanuele II, evocando un’identità urbana fatta di luce e altitudine spirituale. Questo è il cuore vibrante della maison, dove ogni creazione è ancora disegnata, tagliata, cucita a mano, come se fosse l’unica. Emblematico il titolo della mostra: Dal cuore alle mani. È la sintesi di una visione etica ed estetica. Il cuore è l’atto d’amore, la pulsione creativa, la nostalgia, la memoria. Le mani sono la tecnica, la dedizione, l’errore trasformato in merletto. Ogni pezzo è un unicum, ogni ricamo è un’epifania. L’eccellenza diventa narrazione, il lusso si fa cultura. Il percorso si chiude con un omaggio all’“Arte Sarda”, tra ricami di pibiones, gioielli in filigrana e suggestioni nuragiche. Il genius loci della Sardegna entra nella moda attraverso un’antropologia del tessuto, in cui la processione di Sant’Efisio si trasforma in passerella, e il canto a tenore si fa colonna sonora della bellezza arcaica. Non è una mostra per chi cerca il sensazionalismo, ma per chi sa leggere le trame della storia nelle trame del broccato. È glamour, sì, ma mai effimera: è una mise en scène della memoria italiana, un palcoscenico che restituisce dignità alla tradizione e incanto alla modernità. In un mondo che corre verso l’intelligenza artificiale, Dolce&Gabbana tornano all’intelligenza sensibile delle mani. E in questo gesto antico, profondamente italiano, c’è tutto: il tempo, la forma, l’anima. Photo Michael Adair
Roma, Casa Museo Andersen
VINCENZO SCOLAMIERO: “COME SOGNI PERDUTI”
a cura di Maria Giuseppina Di Monte e Roberto Gramiccia
Roma, 12 maggio 2025
C’è un filo sottile e resistente che lega l’intera vicenda pittorica di Vincenzo Scolamiero: la volontà, tenace e introflessa, di trasformare l’arte in un respiro profondo, in un gesto che non urla ma sussurra, che non ostenta ma invoca. Dall’esordio nella Roma inquieta di fine anni Ottanta – quando le gallerie ancora custodivano l’incanto del rito – fino alla maturità recente, Scolamiero ha sempre scelto la via dell’essenzialità, del non-detto, della materia che si fa eco. Una pittura meditativa, dove il tempo non è solo traccia ma sostanza, e la superficie non è mai sfondo, ma spazio del destino. Docente di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Roma, artista appartato e profondo, ha attraversato stagioni, mode, fiere e biennali senza mai piegare la sua cifra lirica a logiche di consumo. Le sue opere sono mappe interiori, orografie dell’anima, paesaggi mentali che sprofondano nella memoria e riaffiorano come sedimenti della coscienza. Per lui, dipingere non è esibire ma scavare, non è decorare ma custodire. Ora, in questa nuova personale dal titolo Come sogni perduti, pensata appositamente per la Casa Museo Hendrik Christian Andersen – e curata con sensibilità da Maria Giuseppina Di Monte e Roberto Gramiccia – Scolamiero trova un luogo che è specchio perfetto della sua poetica: un tempio dell’utopia rimasta in sospeso, un laboratorio mai concluso, uno spazio abitato da visioni interrotte. La casa di Andersen, scultore visionario che sognava una città ideale in cui arte, filosofia e spiritualità convivessero armonicamente, diventa la scena dove la pittura di Scolamiero si muove come un’ombra gentile, un respiro trattenuto, una domanda muta lanciata nel vuoto del tempo. Le sei grandi tele che compongono il cuore della mostra non sono quadri nel senso tradizionale, ma finestre su una realtà traslata, in cui ogni segno ha il peso di un ricordo, ogni colore il suono di una voce sommersa. I bruni e i verdi, i rossi che affiorano come ferite gentili, raccontano di una pittura che nasce dalla terra, dalla materia, dal corpo stesso del mondo. La gestualità è controllata, ma mai fredda: è come se l’artista misurasse il battito del tempo con il pennello, dando forma a una scrittura del silenzio. Ma è nell’allestimento, concepito come un viaggio emotivo e quasi liturgico, che l’opera si fa teatro. All’ingresso, due tele verticali si ergono come colonne leggere, dorate, fragili. Sembrano accogliere il visitatore in un tempio orientale, eppure custodiscono già l’ambiguità dell’incanto: quell’oro, segnato da vibrazioni verdi e rosse, non è trionfale, ma sospeso, in bilico. Più avanti, quattro grandi tele poggiate su blocchi di travertino serrano lo spazio in un circuito denso e materico. Qui, lo sguardo non vola: si piega, si curva, si addentra nella materia, come in una cripta. È una mostra che non si consuma in un colpo d’occhio. Chiede rispetto, tempo, presenza. Ogni tela è un paesaggio mentale da attraversare in silenzio, ogni installazione una domanda aperta sul senso stesso dell’arte. Non ci sono risposte, né soluzioni: c’è solo il gesto pittorico che si fa traccia, e il sogno che, pur se perduto, continua a brillare tra le fenditure del reale. Il riferimento a Büchner e alla sua Lenz – figura emblematica dell’artista in bilico tra ispirazione e follia – è dichiarato, ma non è semplice citazione. È una chiave interpretativa. Come Lenz, Scolamiero si muove in una natura che non è paesaggio ma stato d’animo, non è scenario ma struttura emotiva. La sua pittura è il tentativo, commovente e necessario, di dar forma a quel viaggio interiore che ogni artista compie nella notte dell’invisibile. In fondo, questa mostra è una preghiera laica. Un dialogo silenzioso tra due uomini – Andersen e Scolamiero – separati da un secolo ma uniti da un’urgenza comune: quella di credere, nonostante tutto, nel potere dell’arte di dare senso all’informe. Dove l’uno sognava monumenti e città ideali, l’altro offre immagini spezzate, inquiete, ma vere. Dove l’uno costruiva cattedrali, l’altro scava pozzi. E allora, Come sogni perduti non è un titolo malinconico, ma un atto di resistenza poetica. Non si piange ciò che è stato: si celebra ciò che ancora vibra. In quelle tele, in quei frammenti, in quelle installazioni che trasformano la casa di Andersen in un luogo della memoria e della speranza, Scolamiero ci ricorda che l’arte – quando è sincera – non è mai perduta. È solo nascosta, in attesa.
Roma, Teatro Nazionale
IL RE PASTORE
Il re pastore è il melodramma in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Pietro Metastasio, che l’Opera di Roma mette in scena dal 14 maggio al Teatro Nazionale per celebrare i 250 anni dell’opera, sotto la direzione del Maestro Manlio Benzi, con la regia di Cecilia Ligorio. Quest’opera, scritta nel 1775 da un Mozart diciannovenne su incarico dall’arcivescovo di Salisburgo in occasione del passaggio dell’arciduca Massimiliano – figlio ultimogenito dell’imperatrice Maria Teresa – venne presentata in prima assoluta nello stesso anno a Salisburgo. La prima esecuzione avvenne proprio di fronte all’arciduca, al Palazzo Arcivescovile, e fu diretta dall’autore. La definizione di ”serenata”, attribuita alla composizione dallo stesso Mozart, è dovuta probabilmente all’assenza di allestimento scenico con cui fu programmata la prima rappresentazione. La trama narra la storia di Aminta, il pastore destinato a diventare re, che si trova diviso tra il dovere e l’amore; questo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma mette in luce le sfumature emotive della musica di Mozart, che, sebbene composta in età giovanile, rivela già la profondità espressiva e la grazia tipiche del grande compositore salisburghese. La regia di Ligorio sottolinea la trasformazione di Aminta da pastore a sovrano, in una messa in scena che fa riemergere l’intreccio di sentimenti e ideali propri della classicità, con un equilibrio tra romanticismo e tensioni dei doveri regali. Personaggi e interpreti: Alessandro, Re di Macedonia, Juan Francisco Gatel; Aminta, Miriam Albano; Elisa, Francesca Pia; Vitale, Tamiri, Benedetta Torre; Agenore, Krystian Adam; Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Qui per tutte le informazioni.
Opéra de Saint-Etienne, saison 2024/2025
“SAMSON ET DALILA”
Opéra en 3 actes sur un livret de Ferdinand Lemaire
Musique de Camille Saint-Saëns
Samson FLORIAN LACONI
Dalila MARIE GAUTROT
Le grand prêtre de Dagon PHILIPPE-NICOLAS MARTIN
Abimélech, satrape de Gaza ALEXANDRE BALDO
Le vieillard hébreu LOUIS MORVAN
Orchestre Symphonique Saint-Étienne Loire
Chœur Lyrique Saint-Étienne Loire
Direction musicale Guillaume Tourniaire
Chef des Chœurs Laurent Touche
Mise en scène, scénographie Immo Karaman
Costumes, chorégraphie Fabian Posca
Vidéo Frank Böttcher
Reprise lumières Pascal Noël
Saint-Etienne, le 11 mai 2025
L’Opéra de Saint-Etienne accueille la production d’Immo Karaman, qui provient du Theater Kiel. Un spectacle sans aucune autre couleur que le noir et le blanc, avec une clé de lecture des plus simples : costumes et décors noirs pour les Hébreux et du blanc pour les Philistins. L’action se déroule sur une large bande de scène centrale, qui remonte, au fond, à la verticale vers les cintres. Quelques parcimonieuses projections vidéos, des volutes d’encre dans l’eau ou des ombres de personnes agitées, agrémentent l’illustration visuelle. Mais c’est surtout la chorégraphie de Fabian Posca conçue pour dix danseurs et danseuses qui ajoute au mouvement sur le plateau. Ceux-ci, tantôt habillés de blanc ou noir suivant qu’ils accompagnent Samson ou Dalila, sont évidemment attendus dans la Bacchanale du troisième acte, où ils dansent autour de Samson placé au centre et tournent sur eux-mêmes à la manière de derviches tourneurs. Quelques éléments scénographiques apparaissent, l’entrée en scène de Dalila, placée dans l’une des cinq armoires noires à intérieur blanc et qui renferment aussi les cinq couples de danseurs. Ensuite une armoire, une table et deux chaises, ainsi que la découpe de la paroi du fond en forme de toit de maison, figurent l’habitation de Dalila au II. On retrouve pour les deux rôles-titres les principaux protagonistes de La nonne sanglante de Gounod, montée sur cette même scène stéphanoise il y a tout juste deux ans. Après de petits ajustements pour trouver la parfaite justesse d’intonation en débuts de premier et troisième actes, Florian Laconi interprète Samson avec vigueur dans l’accent, une belle assise dans le médium et un aigu d’un certain émail. Il conserve suffisamment de réserves pour délivrer avec un impact certain sa dernière intervention « Souviens-toi de ton serviteur », avant qu’un voile noir ne descende recouvrir le plateau, en guise d’effondrement du temple. La mezzo Marie Gautrot fait également preuve d’un fort engagement en Dalila, développant un timbre riche et profond, mais sans aucune outrance, pour séduire dès son « Printemps qui commence ». La partie grave se révèle moins sonore, sauf au cours des séquences d’un petit tissu orchestral, comme son grand air du II « Mon cœur s’ouvre à ta voix », délivré avec la juste dose de vibrato. En Grand prêtre de Dagon, le baryton Philippe-Nicolas Martin possède une rare noblesse de timbre, d’une égale qualité sur l’étendue et sa diction est irréprochable. Mezzo et baryton sont à leur meilleur au II, accusant curieusement une petite baisse de régime à l’acte final, au milieu des chœurs et Samson en grande forme. Côte barytons-basses, on apprécie Alexandre Baldo en Abimélech et encore davantage Louis Morvan en Vieillard hébreu, à la voix sombre et profonde. Guillaume Tourniaire se montre constamment attentif au plateau et évite de surcharger en décibels le flot sonore. Les moments de grande douceur sont ici nombreux, très bien rendus techniquement par un Orchestre Symphonique Saint-Étienne Loire solide. Le chef fait entendre de très beaux détails instrumentaux, comme le mordant des contrebasses lors des premières mesures, et par ailleurs il ne déchaîne la toute puissance de la phalange qu’à de très rares moments, par exemple à la conclusion du II. Les chœurs ont eux aussi été préparés avec excellence par Laurent Touche, les splendides passage étant nombreux, par exemple l’ensemble très délicat des vieillards hébreux « Hymne de joie, hymne de délivrance » chanté alors en une tendre mezza voce, qui vient après les accès de vaillance des premières scènes. Photos © Cyrille Cauvet
Reggio Emilia, Teatro Valli, Stagione danza 2025
“LAST WORK”
Coreografia Ohad Naharin
Musiche di Grischa Lichtenberger, Maxim Warratt
Scene Zohar Shoef
Costumi Eri Nakamura
Assistente coreografo/maître ballet Ariel Cohen, Guy Shomroni
Luci Avi Yona Bueno (Bambi)
danzatori Yuya Aoki, Jacqueline Bâby, Eleonora Campello, Katrien De Bakker, Tyler Galster, Livia Gil, Paul Gregoire, Jackson Haywood, Amanda Lana, Eline Larrory, Almudena Maldonado, Eline Malegue, Albert Nikolli, Amanda Peet, Roylan Ramos, Ryo Shimizu, Giacomo Todeschi, Kaine Ward Runner Maëlle Garnier
Reggio Emilia, 10 maggio 2025
Spettacolo forte, ipnotico, suadente ed onirico “Last Work” di Naharin, che senza soluzione di continuità rapisce lo sguardo dello spettatore per un’ora e mezza. Di certo è particolare come viene utilizzato il corpo di ballo in una variazione di coreografie totalizzante, in cui musica e gesto sono espressione di forza creativa.
Il palco è vuoto e scuoro, ovvero solo una danzatrice corre su un tapis roulant e vi correrà, senza mai fermarsi, per tutto lo spettacolo a significare lo scorrere del tempo, poi a poco a poco si paleseranno i danzatori in movimenti sempre piuttosto lenti e ricorsivi, poi veloci e repentini. Non c’è un preordinato disegno coreografico ma un loquace esempio di come la danza contemporanea sia capace di percorrere sentieri senza meta, con il solo obiettivo di riempire spazi e dare forma al sentimento. Infatti il linguaggio corporeo mostrato dai ballerini, 18 per la precisione, è incentrato sull’emotività che si palesa con movimenti virtuosi.
Sul palco ora si muovono in gruppo, poi si abbracciano e danzano a coppie, infine si isolano per finire uniti da un nastro adesivo che un danzatore passa tra loro per ordire una ragnatela. Tutto è magico e sottolineato dal substrato sonoro che evidenzia il tempo che scorre e lo pone al centro della rappresentazione. Interessante sapere che questa coreografia nasce dalla tecnica Gaga di Ohad Naharin per cui i danzatori improvvisano dando sfogo alle proprie emozioni e sensazioni, Tutto sembra però magistralmente architettato, ossia deciso e voluto e la presenza di conflitti nella partitura sembra non porre l’attenzione sul posto dell’individuo nel gruppo. “I danzatori sono incoraggiati a non riprodurre una forma, ma piuttosto delle intenzioni di movimento. Penso che sia esaltante avere questo tipo di libertà in un lavoro di repertorio” (Cédric Andrieux, direttore del Ballet de l’Opéra de Lyon). In conclusione esce una bandiera bianca che presa dal runner è inseguita dal corpo di ballo, un’immagine che richiama gli ignavi danteschi e il loro incedere funesto dietro un vessillo per l’eternità. La bandiera però qui è segno di pace, un desiderio e richiamo sincero al conflitto Israele palestinese essendo Naharin israeliano, già direttore artistico di Batsheva Dance Company e fondatore della divisione giovanile della compagnia, “the Young Ensemble”.
La cosa che più ha affascinato della rappresentazione è stato l’aver assistito per la prima volta come ad una lezione di dove può spingersi la danza contemporanea, al di là della tecnica e della forma.
Torino, Auditorium Agnelli, I Concerti del Lingotto, Lingotto Musica 2025
Camerata Salzburg
Violino concertatore e direttore Giovanni Guzzo
Pianoforte e direttore Alexander Lonquich
Ludvig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n.4 in Sol Maggiore op.58; Johannes Brahms: Serenata n.1 in Re Maggiore op.11.
Torino, 7 maggio 2025.
L’indisposizione improvvisa di Hélène Grimaud ha costretto Lingotto Musica ad una sua rapida sostituzione, da qui la chiamata di Alexander Lonquich con conseguente cambio di programma, dal Concerto n.1 di Brahms al n.4 di Beethoven. Lonquich è ormai, nel panorama pianistico odierno, un imprescindibile riferimento per Mozart, Schumann, Schubert e Beethoven. I cinque concerti per pianoforte di quest’ultimo lo vedono primeggiare, quasi sempre nella doppia posizione di direttore e di solista. I pezzi gli sono molto più che consueti e li domina quindi con la sicurezza che gli danno una conoscenza assoluta e un estremo approfondimento sia testuale che contenutistico. La libertà di fraseggio e di colori, che riesce ad esprimere, lo vede inevitabilmente sia alla tastiera che al comando della formazione orchestrale. Al Lingotto, la fantastica Camerata Salzburg, si è ben adattata alle variazioni di colore, di intensità fonica e di velocità che le venivano richieste. Beethoven dissemina tutta la partitura di pp pianissimo, ben raro il f forte e ancor più il fortissimo, per cui il dialogo tra solo e tutti sta sempre in bilico su un confronto concorde e assonante che richiede il massimo di coordinazione e d’intesa tra le parti. Il pianista, dopo una breve arpeggio preludiante, attacca, con un impalpabile pianissimo, le cinque battute solistiche del tema che, a detta di molti esecutori, si ergono a scoglio e pietra angolare dell’intera opera. L’orchestra replica anch’essa in pianissimo, confermando così il clima d’intesa e non di opposizione, come almeno pare intenderlo Lonquich, che anima il primo movimento. La lunga cadenza è affrontata con virtuosismo strepitoso, ancor più impressionante perché celato da una discreta ed avvolgente colloquialità. Il breve Andante con moto, caratterizzato dalla costante richiesta al pianoforte di un pianissimo, screziato con sempre cantabile e sempre espressivo, commuove ed affascina. Lo Steinway di Lonquich quasi sospira e riempie l’enorme sala con un nitidissimo filo di suono, sempre ben articolato e sgranato. L’orchestra, che dovrebbe replicargli in forte, lo fa con la discrezione che si addice ad amici che amabilmente si sorreggono. Il lungo Rondò finale completa, quasi in allegria, il gioco delle parti. La sensibilità e la maestria di Lonquich parrebbero collocare il concerto non tra le tempeste umorali romantiche, ma nella ragionevolezza solidale e tollerante del Beethoven illuminista dell’Inno alla Gioia. Il numerosissimo pubblico del Lingotto sancisce un gran successo. Dal pianista gli vengono quindi offerti due fuori programma; sempre in ambito ‘800 Classico: la Novelletta n2 di Schumann e la Bagatella op.126 n.6 di Beethoven. Ancora un virtuosismo digitale e di tocco folgorante, non esibito, ma volontariamente celato forse anche per un’innata vena di timidezza. Seguono intensi e convinti applausi.Dopo l’intervallo, i cinquanta elementi della Camerata Salzburg riprendono la scena per la Serenata n.1 di Brahms. Sono in piedi, senza sedie, e li guida Giovanni Guzzo, il violino concertante. Brahms con le due Serenate del biennio 1858 – ‘59, si rifà alla tradizione delle analoghe composizioni di Mozart, di Haydn e della scuola di Mannheim, arricchite, sia tecnicamente che contenutisticamente, da quanto ha ricavato da Beethoven e da Schumann. Ha 25 anni e si sta qui esercitando per raggiungere il suo massimo obiettivo: scrivere Sinfonie come unico e vero erede di Beethoven. Ci vorranno però ancora circa vent’anni prima che la sua Sinfonia n.1 sia stampata. Lo strumentale della Serenata è già comunque del tutto paragonabile a quello di una grande composizione sinfonica. Le indicazioni di colori, gli impasti strumentali e gli andamenti ritmici si presentano pure di una tale complessità da richiedere sicuramente la presenza di una direzione che li coordini. La Camerata Salzburg, che invece si affida al violinista concertante, deve aver fatto sicuramente un gigantesco lavoro di preparazione, visto che l’esecuzione procede senza esitazioni, con assoluta pulizia e ammirabile sicurezza. Giovanni Guzzo, quasi defilato, con l’archetto del violino, regola gli attacchi con il concorso degli altri elementi del concertino, perfettamente coordinati con lui. Uno stupefacente ed efficacissimo lavoro di squadra che certifica lo sforzo di una gran quantità di ore di prova. A fuoco le sezioni degli archi, ma pure sorprendenti le prestazioni di legni e ottoni. Un’eccellente flautista, con i suoi numerosissimi e impeccabili interventi solistici, ha brillato tra gli strumentini. Lo scoppiettante esito complessivo, che pur non prescinde da risvolti più ombrosi e patetici, incanta l’uditorio e ne suscita incondizionati apprezzamenti e festose approvazioni.
Roma, Teatro Torlonia
RACCONTI ROMANI
Circolo dei cuori infranti
dai testi di Alberto Moravia
con Paolo Cresta
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 11 maggio 2025
C’è una Roma che non ha bisogno di essere mostrata, ma evocata. È la Roma dei vicoli mentali, dei pensieri inconfessati, delle malinconie sedimentate sotto l’intonaco della quotidianità. È quella che Alberto Moravia raccontava nei suoi Racconti romani, e che oggi torna a vivere grazie alla scena, al Teatro Torlonia, nel progetto Circolo dei cuori infranti, diretto da Lucia Rocco, interpretato da Paolo Cresta, e articolato in una tessitura narrativa che mette in dialogo tre tra i più celebri racconti dello scrittore romano: Non approfondire, La controfigura e Lo sciupone. Lungi dall’essere un adattamento tradizionale, Circolo dei cuori infranti è un’esperienza immersiva che coinvolge lo spettatore sin dal primo sguardo, sin dalla prima voce. Si abbattono le barriere canoniche del teatro: la platea non è più spettatrice silente, ma parte integrante di un incontro. Un incontro di storie, certo, ma anche di anime dolenti, solitudini condivise, frammenti d’identità che si specchiano nel vissuto altrui. Come suggeriscono le parole introduttive dello spettacolo, «chi parla non è un attore, ma uno di noi, che condivide la sua storia». E la storia non è mai solo quella che si narra, ma quella che si ascolta e si riconosce. L’ambientazione è scarna, volutamente sfumata: non c’è bisogno di scenografie didascaliche, perché è la lingua – e il corpo – a plasmare i luoghi. Roma appare e scompare come un miraggio urbano, come una cartolina logora degli anni Cinquanta, che ancora conserva il profumo acre di un tempo incerto. Non si cerca una ricostruzione realistica, bensì una sospensione, un habitat mentale in cui lo spettatore si muove come dentro una memoria collettiva. Lucia Rocco dirige con misura, scavando nelle pieghe del testo moraviano, rivelandone le nervature interiori più che la superficie. La scelta dei racconti è felice: ognuno mette in scena una diversa declinazione della sconfitta emotiva, della ricerca d’amore nel vuoto postbellico. I protagonisti sono uomini comuni – non eroi, non caricature – in bilico tra pulsioni e abbandoni, che si raccontano con un linguaggio semplice ma carico di sottotesti. Paolo Cresta dà corpo e voce a questi personaggi con un’intensità misurata, mai eccessiva, portando in scena non la teatralità ma la verità, non l’interpretazione ma la confessione. Moravia, del resto, con questi racconti aveva saputo innestarsi nel solco di una lunga tradizione di scrittori romani – dal Belli a Pascarella, da Trilussa fino alla narrativa più spiazzante del secondo dopoguerra – ma distanziandosi da ogni tentazione folcloristica. La sua Roma, pur popolata da figure popolari e piccolo-borghesi, è lontana dall’aneddoto: è laboratorio esistenziale. Scriveva Emilio Cecchi a proposito di Racconti romani: «Una quantità di personaggi che se ne stanno chiusi e saldati in una elementare, inarticolata realtà; in una sfera, in una categoria premorale… della nuda e crida vitalità». Ed è proprio questa “vitalità cruda” che Circolo dei cuori infranti restituisce, con pudore e precisione. Si avverte, nella costruzione registica, la volontà di non imbellettare il disagio, di non trasfigurare la frustrazione quotidiana in artefatto estetico. Tutto è concreto, eppure intimo. I personaggi si muovono su una linea invisibile che separa la confidenza dalla confessione, il parlato dalla rivelazione. C’è, in questo allestimento, una fiducia silenziosa nell’efficacia della parola. Non servono effetti, né scorciatoie emotive. La drammaturgia si regge su un equilibrio fragile e potente: la capacità di mostrare l’invisibile. In tal senso, il teatro non è più luogo dell’illusione ma della risonanza. Le sedute non sono più file di spettatori, ma un vero e proprio circolo – esistenziale prima che scenico – in cui ogni cuore infranto trova eco in quello accanto. L’interazione, sobria ma significativa, rende l’esperienza ancora più viva: un saluto, un gesto, uno scambio minimo diventano atti performativi. Il pubblico non è chiamato a recitare, ma a partecipare. La solitudine non è mai così sola, quando viene condivisa in uno spazio protetto, fatto di parole e ascolto. Questo spettacolo è anche un omaggio – sottile ma affettuoso – alla scrittura di Moravia, alla sua capacità di fotografare l’umano senza giudicarlo, di raccontare l’erosione del desiderio, la stanchezza della speranza, la fatica di vivere in una città che cambia, che si sfalda e che pure rimane la stessa. Una Roma moderna e “stralunata”, come scrisse lo stesso Moravia, alienata e vitale, dolente e piena di contraddizioni. Circolo dei cuori infranti non è solo un’operazione letteraria, ma un dispositivo teatrale che restituisce valore al tempo dell’ascolto e alla fragilità come risorsa. All’interno del più ampio progetto Racconti romani, curato da Emanuele Trevi ed Elena Stancanelli, lo spettacolo proietta il Teatro Torlonia come luogo di attraversamento culturale tra letteratura e scena, tra memoria e presente. È in questi incroci che il teatro si fa, ancora una volta, spazio di verità: lì dove il racconto di un altro si fa specchio, e ogni spettatore si scopre, se non consolato, almeno meno solo.
Castel Gandolfo, Polo Museale
BELLINI E SODOMA. PASSIONE DI CRISTO
organizzazione Direzione dei Musei e dei Beni Culturali
in collaborazione con laDirezione delle Ville Pontificie
Castel Gandolfo, 11 maggio 2025
«In ogni cadavere cristologico si cela un apologo pittorico: non la morte, ma la sua forma, e dunque l’arte stessa.»
(F. Zeri, appunti inediti dal Fondo Federico Zeri, Biblioteca di Storia dell’Arte, Bologna)
Così si potrebbe aprire una dissertazione degna del miglior esegeta delle immagini, davanti alla mostra attualmente in essere presso il Polo Museale di Castel Gandolfo: “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo”, un piccolo ma densissimo saggio visivo, curato da Fabrizio Biferali – Responsabile per l’Arte dei secoli XV e XVI – che convoca due vertici del pathos figurativo italiano per indagare la perenne tensione iconografica tra caducità e redenzione, tra sangue e gloria, tra la materia e la sua trascendenza. L’accostamento è di quelli che obbligano alla riflessione dotta, non solo sul piano della storia dell’arte ma, più sottilmente, su quello della cultura della rappresentazione sacra. Da un lato, il Compianto sul Cristo morto di Giovanni Bellini – tavola destinata in origine alla cimasa della Pala di Pesaro, eseguita attorno al 1475 per la chiesa di San Francesco nella medesima città – opera che riassume, in una compostezza estrema, la quintessenza del dolore veneziano, nutrito di pietas bizantina e di misura umanistica. Dall’altro, il Cristo morto sorretto da angeli di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, databile attorno al 1505 e proveniente dall’Arciconfraternita romana di Santa Maria dell’Orto, ove la figura di Cristo, adagiata e quasi fluttuante, appare come sospesa tra l’eco raffaellesca e il sogno nordico, riletto alla luce di una sensualità inquieta, tutta lombarda. Bellini, nella sua tavola, costruisce una scena ieratica ma non immobile, dove il corpo del Cristo disteso è trattato con la stessa attenzione meticolosa che egli riserva alle Madonne: non vi è fretta narrativa, né alcuna concessione all’enfasi. È un quadro dove il silenzio è forma pittorica, e la compostezza del dolore assume tratti quasi liturgici. Il fondo oro perduto, le velature minute, le ombre che si assottigliano sullo sfondo, tutto testimonia di una mano che, più che dipingere, scolpisce la luce. Non sorprende che, per lungo tempo, l’opera fu attribuita a Mantegna: la rigidità marmorea del Cristo, la costruzione prospettica della pietra tombale, l’impaginazione scultorea dei personaggi si legano a quella linea severa, padana, che Bellini stesso conobbe e superò, fondendo la scuola ferrarese con la nuova luce veneziana. Solo nel 1871, dopo un travagliato percorso – che la vide trafugata dalle truppe napoleoniche nel 1797 e restituita all’Italia nel 1816 – l’opera fu riconosciuta come autentico lavoro del maestro veneziano e inserita stabilmente nella Pinacoteca Vaticana. Il restauro recente, condotto con scrupolo filologico da Marco Pratelli e sostenuto dalla generosità del Capitolo dell’Illinois dei Patrons of the Arts in the Vatican Museums, ha restituito all’opera il suo equilibrio tonale originario. Le indagini diagnostiche, eseguite dal Gabinetto di Ricerche Scientifiche, hanno confermato la struttura preparatoria e il raffinato uso delle lacche, confermando l’altissimo livello tecnico raggiunto da Bellini negli anni della maturità. Diversa, e in certo senso più perturbante, è la lettura offerta dal Sodoma. Il suo Cristo morto sorretto da quattro angeli si pone su un registro visivo che non è più quello della compostezza liturgica, ma dell’estasi drammatica. Il corpo del Redentore non giace, ma è sollevato, portato, quasi offerto. Gli angeli non piangono, ma danzano attorno alla figura centrale, in un gioco di panneggi, torsioni e sguardi che ricorda più la visione di un Beato Angelico trasfigurato dalla sensibilità manierista che la compostezza rinascimentale. La derivazione dalla placchetta bronzea del Moderno, artista veronese attivo tra fine Quattrocento e primo Cinquecento, è una citazione colta, un segno della cultura figurativa e antiquariale del Sodoma, che fu artista sensibilissimo alle contaminazioni, alle migrazioni iconografiche, alla libertà di interpolazione. Il restauro condotto tra il 1933 e il 1934, nei laboratori vaticani, ha permesso la conservazione dell’opera all’interno di una preziosa cornice settecentesca, ornata dal simbolo del cipresso, elemento distintivo della Madonna dell’Orto e dell’Arciconfraternita che la commissionò. Il legame tra immagine e devozione si fa qui strettissimo, come accade spesso nell’arte romana del primo Cinquecento, dove l’interiorizzazione del sacro passa attraverso forme ardite, prossime al barocco in nuce. Accostare queste due opere non è un semplice atto curatoriale: è un’operazione intellettuale. Si pongono a confronto due idee di corpo, due modelli di pietà, due modi di intendere la morte come soglia: Bellini la contempla, Sodoma la attraversa. L’uno scolpisce il silenzio del sepolcro, l’altro invoca la voce della resurrezione. In entrambi, però, il corpo del Cristo non è morto: è pittoricamente eterno. È il corpus mysticum della pittura italiana, che nella Passione trova il proprio teatro simbolico, e nel dolore la grammatica più eloquente. Collocata negli ambienti ipogei del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo – luogo di residenza, contemplazione e oggi anche di apertura al pubblico –, la mostra diviene così non solo un evento espositivo, ma un laboratorio di visione. L’ingresso, incluso nel biglietto al complesso museale, consente al visitatore di proseguire l’itinerario nei Giardini del Moro e nel Giardino Segreto, laddove il pensiero si fa passeggio e la riflessione prende il passo lento della natura. “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo” non è mostra per turisti frettolosi, ma per osservatori lenti, per studiosi e pellegrini della bellezza. “Ogni quadro è un enigma che si risolve nella pazienza dello sguardo“: e davanti a questi due corpi martoriati e splendenti, la pazienza è una forma di devozione critica.