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Musica corale

Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Sanghenapule. Vita Straordinaria di San Gennaro”

gbopera - Ven, 25/10/2024 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
regia Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Roma, 25 Ottobre 2024
Roberto Saviano e Mimmo Borrelli presentano “Sanghenapule. Vita straordinaria di San Gennaro”, un’opera densa di pathos che disvela la Napoli più profonda, quella delle periferie marginali e dei segreti sepolti sotto la sua superficie. Il testo, scaturito dalla collaborazione tra Saviano e Borrelli, esplora la città nelle sue intrinseche contraddizioni: un locus di brutalità e speranza, che si dipana sul palcoscenico attraverso una drammaturgia pervasa di tensione e di poesia oscura. Napoli è una città che vive in un equilibrio precario tra il sacro e il profano, un luogo in cui la bellezza coesiste con la tragedia, e la storia si intreccia con il mito. È una polis di fuoco e sangue, ove il Vesuvio si erge come un guardiano silente e minaccioso, emblema della forza primordiale che la contraddistingue. Napoli è un mosaico di storie ataviche, di personaggi che si muovono nei vicoli angusti, di preghiere sussurrate e di grida disperate. La sua anima si alimenta di contrasti: la devozione religiosa si interseca con la violenza della strada, l’opulenza barocca dei suoi edifici storici con la povertà che serpeggia nei suoi quartieri popolari. È un luogo in cui ogni pietra reca il racconto di resistenza e sopravvivenza, in cui il folklore diventa atto di sfida alla sofferenza quotidiana. In questo spettacolo, che intreccia narrazione e poesia, Borrelli e Saviano conducono lo spettatore nel cuore incandescente di Napoli, dove convivono mistero e contraddizione. Attraverso un linguaggio denso di forza espressiva, i due attori ripercorrono le tappe di una storia che si snoda in equilibrio fra il sacro e il profano, tra il mondo celeste e quello sotterraneo. Il tema del sangue diviene il filo conduttore che lega la narrazione, dalle antiche storie di martiri sino al presente, evocando la sofferenza e la resistenza di una città che lotta incessantemente contro l’oppressione. È il sangue che si scioglie ogni anno in segno di speranza; è il sangue dei martiri della fede e dei “martiri laici” della Repubblica Partenopea, che nel tardo Settecento tentò di contrapporsi all’oppressione borbonica; è l’emorragia dei migranti che lasciarono Napoli nei primi decenni del Novecento, in cerca di un futuro migliore; è il sangue degli innocenti falciati dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale e delle vittime della camorra. La regia di Mimmo Borrelli è rigorosa ed essenziale, volta a cogliere la forza primordiale del testo senza concessioni al superfluo. Borrelli modella la scena come un’incudine su cui forgiare l’anima di Napoli, scandendo il ritmo con cambi repentini e pause che divengono respiri profondi, indispensabili per immergersi nell’abisso della città. Ogni dettaglio della regia mira a scuotere lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con la crudezza della realtà napoletana, in un percorso che lo conduce nei vicoli bui e senza tregua di una città che ride e sanguina, vive e muore. La trama si dipana attraverso narrazioni intime e confessioni, esplorando una Napoli percorsa da contrasti e popolata da un’umanità dolente. Saviano e Borrelli danno voce a personaggi che si dibattono tra miseria e speranza, con una presenza scenica carismatica e densa di pathos. Saviano, con la sua parola acuminata e tagliente, si fa testimone delle storie di dolore e resistenza; Borrelli, con la sua voce potente e una gestualità evocativa, dà corpo al dolore e alla rabbia di Napoli, in una performance che rasenta il rituale, carica di autenticità e di una forza ancestrale. La scenografia di Luigi Ferrigno è ridotta all’essenziale: pochi elementi suggeriscono una Napoli oscura, fatta di vicoli angusti e di interni modesti, con il Vesuvio che incombe sullo sfondo come un monito perenne. I costumi di Enzo Pirozzi rievocano l’iconografia tradizionale in modo sobrio ed efficace, mentre le luci di Salvatore Palladino creano atmosfere crude e drammatiche, evidenziando la precarietà di una città sospesa fra speranza e dannazione. Le luci fredde, particolarmente nei momenti di violenza, acuiscono il senso di smarrimento e l’urgenza di sopravvivere. La musica, curata ed eseguita da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione, accompagna la narrazione con un tessuto sonoro che coniuga sonorità elettroniche e ritmi tradizionali napoletani. La colonna sonora si intreccia alla recitazione, creando un dialogo costante tra le voci degli attori e la musica, amplificando la tensione emotiva e rendendo la narrazione ancora più viscerale. Il sound design di Alessio Foglia avvolge lo spettatore in un ambiente sonoro che lo trascina in una Napoli sospesa tra mito e realtà. “Sanghenapule” è uno spettacolo che non può lasciare indifferenti, che invita alla riflessione sulla realtà di Napoli e, per estensione, sull’Italia intera. Saviano e Borrelli, con una onestà disarmante, portano sul palco una città fatta di vicoli oscuri, di esistenze spezzate, e di una speranza che non smette di resistere. Il teatro diviene luogo di denuncia e riflessione, ma anche di possibile rinascita: un altare su cui sacrificare l’indifferenza e accendere una fiamma di consapevolezza. Un’opera di intensa potenza, che si imprime nell’animo come un marchio indelebile, un grido disperato che non può essere ignorato. Il pubblico ha applaudito con entusiasmo e grande partecipazione, dimostrando di aver colto e apprezzato l’intensità e la profondità dello spettacolo. Napoli, con la sua storia di oppressioni e lotte, diviene un simbolo universale di resistenza e di umanità, invitando ciascuno di noi a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà e a cercare una redenzione collettiva attraverso la solidarietà e la consapevolezza. Photocredit©LorenzoCevaVall

Categorie: Musica corale

Pompei, Parco Archeologico: ” Nuove scoperte: una raffinata abitazione senza atrio riccamente decorata”

gbopera - Ven, 25/10/2024 - 13:35

Pompei, Parco Archeologico
DAGLI SCAVI IN CORSO NELL’INSULA DEI CASTI AMANTI UN NUOVO ESEMPIO DI CASA SENZA ATRIO RICCAMENTE DECORATA
Gli inglesi le chiamerebbero “Tiny House”: piccole case autonome, dalle dimensioni ridotte ma in questo caso, dalle decorazioni estremamente raffinate. È il caso di una tra le più recenti unità abitative emerse nel corso delle indagini in atto nel cantiere dell’Insula dei casti Amanti, nel quartiere centrale della città antica di Pompei, lungo Via dell’Abbondanza. Una casa dallo spazio ristretto, senza il tradizionale atrio. Una particolarità considerato che, nonostante le ridotte dimensioni della dimora, non sarebbe stato impossibile l’inserimento di un piccolo atrio con la classica vasca (impluvio) per la raccolta dell’acqua piovana, tipico nell’architettura delle ricche dimore pompeiane, e che invece in questo caso è assente.  Una scelta probabilmente da mettere in relazione con i mutamenti che stavano attraversando la società romana, e pompeiana nello specifico, nel corso del I secolo d.C.  e che questo rinvenimento consente di studiare e approfondire. Un primo inquadramento scientifico è riportato nell’ultimo articolo della rivista scientifica digitale del Parco https://pompeiisites.org/e-journal-degli-scavi-di-pompei/. L’abitazione colpisce per l’alto livello delle decorazioni parietali, che non ha nulla da invidiare alla più grande e ricca casa dei Pittori al Lavoro, con la quale confina. Grazie al ritrovamento di un affresco ben conservato, rappresentante il mito di Ippolito e Fedra, la si è denominata provvisoriamente Casa di Fedra. I due ambienti attualmente oggetto di indagini si trovano nella parte retrostante dell’abitazione. Nel primo, oltre al quadretto mitologico con Ippolito e Fedra, le pareti splendidamente decorate in IV stile mostrano altre scene tratte dal repertorio dei miti classici: una rappresentazione di un symplegma (amplesso) tra satiro e ninfa, un quadretto con coppia divina, forse Venere e Adone, nonché una scena, purtroppo danneggiata dalle esplorazioni borboniche, in cui probabilmente si può riconoscere un Giudizio di Paride. Una finestra, a fianco al quadretto con Ippolito e Fedra, si apre su un piccolo cortile, dove al momento dell’eruzione    erano in corso lavori edilizi, caratterizzato all’ingresso dalla presenza di un piccolo larario (altare domestico) con una ricca decorazione dipinta a motivi vegetali e animali su fondo bianco. Il cortile è dotato di una zona coperta che precede una grande vasca con le pareti dipinte di rosso. Intorno correva una canaletta, che consentiva di convogliare l’acqua piovana verso l’imbocco di un pozzo collegato con una cisterna sottostante. Nella decorazione del larario campeggia nella parte alta un rapace in volo, probabilmente un’aquila, che regge fra gli artigli un ramo di palma, e nella parte inferiore la scena principale composta da due serpenti affrontati, che incorniciano un altare con fusto circolare e scanalato su cui si dispongono le offerte. Si riconoscono da sinistra: la pigna, un elemento sopraelevato che sostiene un uovo, quelli che sembrerebbero essere un fico e un dattero. A riempire il fondo della scena due arbusti con foglie lanceolate e bacche gialle e rosse su cui si muovono tre passeri. All’interno della nicchia sono statti rinvenuti gli oggetti rituali, lasciati con l’ultima offerta prima dell’eruzione del 79 d.C che distrusse Pompei: un bruciaprofumi in ceramica acroma con lacune antiche e una lucerna, entrambi con evidenti tracce di bruciato. Le analisi di laboratorio hanno consentito di individuare resti di rametti di essenze odorose, mentre due parti di un fico essiccato sono state recuperate alle spalle dei due oggetti. Sul piano dell’altare sono stati ritrovati, inoltre, due listelli in marmi colorati e un terzo elemento, presumibilmente in marmo rosso, con una raffigurazione di un volto riconducibile alla sfera dionisiaca, probabilmente un sileno. Infine, nella parte anteriore dell’altare si sono individuati una base quadrangolare e modanata in marmo, con un alloggio centrale e sulla sinistra un coltello in ferro il cui manico termina con gancio ad occhiello per la sospensione. Il cantiere in corso presso l’Insula dei casti amanti è oggetto di un complesso progetto- diviso in due lotti differenti – che ha previsto diverse fasi, di cui alcune già conclusesi e che hanno permesso di rendere possibile la fruizione al pubblico del complesso, attraverso un sistema di passerelle sopraelevate. Le diverse fasi hanno interessato: la verifica, progettazione e realizzazione della nuova copertura; gli scavi archeologici; la riprofilatura dei fronti di scavo; la messa in sicurezza degli elevati murari; il restauro delle superfici e degli elementi archeologici. Attualmente, gli archeologi del Parco stanno operando nel settore nord-est dell’isolato, all’interno di una serie di ambienti con accesso dal vicolo orientale. L’apporto delle indagini in corso sta permettendo di definire sempre più precisamente la sistemazione planimetrica dell’Insula, tanto da consentire di individuare questa nuova unità abitativa. È un esempio di archeologia pubblica o, come preferisco chiamarla, archeologia circolare: conservazione, ricerca, gestione, accessibilità e fruizione formano un circuito virtuoso – dichiara il Direttore del Parco, Gabriel Zuchtriegel – Scavare e restaurare sotto gli occhi dei visitatori, ma anche pubblicare i dati online sul nostro e-journal e sulla piattaforma open.pompeiisites.org significa restituire alla società che finanzia le nostre attività tramite biglietti, tasse e sponsorizzazioni la piena trasparenza di ciò che facciamo, non per il bene di una ristretta cerchia di studiosi, ma per tutti. L’archeologia deve essere di tutti perché solo così creeremo comprensione verso gli archeologi che lavorano in tutta Italia sui cantieri nell’ambito della cosiddetta archeologia preventiva. Se il cantiere della metro o di una strada ritarda a causa di rinvenimenti archeologici, visitare Pompei e osservare il lavoro di archeologi e restauratori può aiutarci a capire perché vale la pena documentare e salvaguardare le tracce delle generazioni che hanno vissuto prima di noi.” Poche settimane fa anche Alberto Angela e’ tornato nell’Insula dei Casti Amanti per realizzare un servizio su questi nuovi ambienti. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il servizio andrà in onda in versione integrale su Raiuno sabato 26 ottobre alle 15,05 circa nella trasmissione Passaggio a Nord Ovest.

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Roma, Sala Umberto: “Buonasera a tutti” di e con Beppe Barra

gbopera - Gio, 24/10/2024 - 23:59

Roma, Sala Umberto
BUONASERA A TUTTI
al 24 Ottobre al 27 Ottobre 2024

al pianoforte il M° Luca Urciuolo
produzione Tradizione e turismo – centro di produzione teatrale | Teatro Sannazaro | Ag Spettacoli
Regia di Francesco Esposito
Roma, 24 Ottobre 2024
Peppe Barra, uno degli interpreti più iconici e rappresentativi del panorama teatrale italiano, incarna in maniera straordinariamente autentica e raffinata la tradizione scenica napoletana, di cui è un emblema vivente.
La sua opera è caratterizzata da un costante processo di risemantizzazione e attualizzazione di uno dei patrimoni teatrali più ricchi e complessi del nostro Paese. Nato e cresciuto tra Napoli e Procida, Barra ha dedicato la sua vita all’arte, affermandosi come uno dei massimi esponenti del teatro partenopeo, nel quale elementi popolari e colti si fondono in una sintesi polifonica, dove musica, poesia e drammaturgia si intrecciano in una tessitura drammatica densa e inestricabile. La sua carriera si è sviluppata nel solco della continuità con le radici popolari del teatro napoletano, rievocando le maschere, i miti e le narrazioni che appartengono alla tradizione della sua città, ma rinnovandoli e reinterpretandoli attraverso un approccio sempre personale e innovativo. Peppe Barra è stato una figura chiave nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, insieme alla madre Concetta Barra, e ha contribuito a portare la cultura napoletana ben oltre i confini regionali, facendosi ambasciatore di un linguaggio artistico capace di parlare al pubblico nazionale e internazionale, rendendo tangibile la potenza evocativa di una tradizione secolare. Il disordine e la follia sono caratteristiche fondanti dell’arte di Peppe Barra, ma si tratta di un disordine sapientemente orchestrato, una follia consapevole che rivela la sua maestria artistica e la capacità di trasmettere emozioni profonde e poliedriche. Nel suo teatro, la dimensione biografica si intreccia indissolubilmente con quella dell’opera: i ricordi dell’infanzia si fondono con le prime cantate, le prime adesioni a quel mondo fiabesco che rappresenta il clima ideale per Barra, tingendo ogni avvenimento di una qualità affabulatoria e mitopoietica. Dalle lezioni di dizione della maestra, ai momenti di struggente lirismo delle canzoni napoletane, Peppe Barra ha saputo navigare tra il dolore e l’allegria, dalla sofferenza più profonda alla risata più sfrenata. Questo universo artistico, appreso dalla madre Concetta Barra, con la quale ha condiviso per anni la scena, si è arricchito ulteriormente nel momento in cui è diventato l’unico responsabile della propria arte, facendone un percorso unico e inimitabile. In “Buonasera a tutti“, lo spettacolo in scena al Teatro Sala Umberto Peppe Barra si trasfigura in una pluralità di creature magiche, ciascuna caratterizzata da una cifra interpretativa unica, con costumi che spaziano tra il fulgore scintillante e l’austerità delle vesti nere, offrendo allo spettatore un’esperienza caleidoscopica di significati e sensazioni. Il canto è spesso enigmatico, rifacendosi a un napoletano arcaico, fino a giungere a Giambattista Basile, di cui Barra racconta la favola de “La scortecata. Qui, egli assume i toni del narratore fiabesco, capace di riportare lo spettatore in un’atmosfera di meraviglia e stupore continuo. La maschera di Pulcinella, a cui Barra è particolarmente legato, fa capolino con la sua voce profonda e misteriosa, evocando l’essenza stessa della Commedia dell’Arte. Con la regia di Francesco Esposito e l’accompagnamento musicale del Maestro Luca Urciuolo, il recital si presenta come una profonda meditazione sulla carriera di sessant’anni di Peppe Barra che con la sua esperienza e raffinatezza interpretativa, riesce a instaurare un rapporto di complicità e partecipazione con gli spettatori, facendosi interprete di un vissuto artistico che si intreccia intimamente con il patrimonio culturale partenopeo. Alterna momenti di esilarante comicità a passaggi di intensa introspezione, utilizzando una gamma espressiva che si estende dal grottesco al lirico, dal comico al tragico, in una policromia di registri e tonalità. L’atmosfera generata tra il palco e la platea è intenzionalmente intima e informale, eppure intrisa di una ritualità teatrale che rende il rapporto con il pubblico un elemento costitutivo dell’azione scenica. Barra dà vita a uno scambio vivace e affettuoso, un dialogo che attinge a riferimenti culturali e simbolici profondi, capace di coinvolgere e divertire grazie alla capacità di alternare, con maestria, toni leggeri e momenti di profondo lirismo. La sua voce – che spazia dai registri più gravi a quelli più acuti – diviene uno strumento duttile, un mezzo per esplorare le molteplici sfumature della cultura napoletana, in cui il colto e il popolare si fondono in una continua osmosi. L’approccio teatrale di Barra è stato spesso definito come “le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo“, per la capacità di combinare tradizione e innovazione, attraversando generi e stili diversi, dalla musica barocca alla tradizione popolare, passando per il cabaret, il varietà e la poesia di autori come Basile, Petito e Viviani. Ma è soprattutto nel condurre gli spettatori al delirio collettivo che Peppe Barra eccelle: un canto che si fa disperato e beffardo, allegro e tragico, in cui il coinvolgimento del pubblico diventa parte integrante della performance, e la risposta è sempre entusiasta. L’essenza delle sue interpretazioni non risiede tanto nel significato delle parole, quanto nel modo in cui esse vengono pronunciate: l’espressione dei sentimenti si manifesta attraverso diverse modalità vocali che, oltre al significato letterale, trasmettono un senso profondo del dire, la propria vocazione artistica, passando dal gioco infantile alla risata grottesca, dal canto romantico alla violenza di un personaggio improvvisamente evocato per scacciare quelli più lacrimevoli. Il Maestro Luca Urciuolo accompagna con sensibilità i capricci vocali e scenici di Peppe Barra, che passa agilmente da un registro all’altro, manifestando non solo la propria abilità ma anche quella del Maestro, capace di trasformare il pianoforte in un vero e proprio co- protagonista della scena. Tra i due si instaura una complicità profonda, che soddisfa il gusto dell’improvvisazione e del concertare in base alla risposta di un pubblico entusiasta. Alla fine dello spettacolo, gli spettatori si alzano in piedi in un tripudio di applausi, eliminando quella barriera tra platea e palcoscenico che si dissolve quando il successo è totale.

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Roma, Parco Archeologico del Colosseo: “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”

gbopera - Gio, 24/10/2024 - 18:51

Roma, Parco Archeologico del Colosseo
GOBEKLITEPE: L’ENIGMA DI UN LUOGO SACRO
Roma, 24 Ottobre 2024
L’installazione “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, attualmente ospitata nelle maestose arcate del Colosseo, si propone di offrire al pubblico una rappresentazione del celebre sito anatolico, uno dei più antichi e affascinanti testimoni delle origini della civiltà umana.
Malgrado l’intento dichiarato sia quello di creare un’esperienza immersiva e accessibile, l’iniziativa evidenzia alcuni limiti che, dal punto di vista tecnico e archeologico, ne attenuano la capacità di trasmettere appieno la complessità e il valore storico del luogo originario. Le riproduzioni in truciolare sagomato delle iconiche colonne monolitiche e le tre sculture, anch’esse in copia, pur risultando evocative, non riescono a restituire integralmente la potenza simbolica e la maestosità delle strutture originarie. La mancanza di una ricostruzione in scala o di una rappresentazione fedele dell’intero complesso conferisce all’allestimento un carattere frammentario, che finisce per limitare la comprensione della vera grandiosità del sito archeologico di Göbeklitepe. L’esposizione si articola attraverso una serie di pannelli didattici, fotografie ad alta risoluzione e la proiezione di un documentario realizzato da National Geographic. Questa combinazione di elementi multimediali genera un’esperienza visivamente suggestiva, ma priva di quel contatto diretto con i manufatti storici che è imprescindibile per una fruizione museale di profondo valore culturale e scientifico. Il visitatore è guidato lungo un percorso narrativo ricco di dettagli, ma che risente inevitabilmente dell’assenza della materia originaria, dell’autenticità tangibile che solo il contatto diretto con gli artefatti può garantire. La potenza evocativa delle riproduzioni non è sufficiente a trasmettere la dimensione spirituale e culturale di un sito come Göbeklitepe, la cui straordinarietà risiede non soltanto nella sua antichità, ma nella capacità di suscitare domande sul senso del sacro nelle comunità umane primordiali. Oggi, grazie alle tecnologie digitali più avanzate, è possibile esplorare virtualmente siti archeologici con un livello di dettaglio e interattività straordinario. Questo pone un interrogativo sulla reale necessità di un’installazione come questa per avvicinarsi al significato profondo di Göbeklitepe. Le esperienze immersive offerte dalla realtà virtuale e aumentata, facilmente fruibili da casa, consentono di scoprire i tesori dell’archeologia in modi che erano impensabili fino a pochi anni fa. Di fronte a tali possibilità, un allestimento che non prevede il contatto diretto con la materia originale e si basa esclusivamente su riproduzioni e materiali multimediali rischia di risultare superfluo o, per lo meno, non all’altezza delle aspettative di un pubblico più esigente e desideroso di autenticità. L’accostamento tra la monumentalità del Colosseo e l’importanza archeologica di Göbeklitepe aggiunge indubbiamente fascino all’iniziativa, creando un dialogo simbolico tra due epoche lontane ma fondamentali per la storia umana. Tuttavia, tale parallelo rischia di apparire forzato se non supportato da un’esperienza espositiva più approfondita e scientificamente rigorosa. Mentre il Colosseo offre una testimonianza tangibile e imponente della grandezza dell’Impero Romano, l’installazione di Göbeklitepe, priva di reperti originali e di una ricostruzione fedele, non riesce a trasmettere con la stessa efficacia la maestosità e il mistero del sito anatolico. Le riproduzioni, pur accuratamente realizzate, non possiedono quella patina del tempo che conferisce ai reperti archeologici una dimensione emozionale e una profondità storica uniche. Questo progetto potrebbe essere interpretato forse come un gesto di avvicinamento politico e culturale tra Italia e Turchia, volto a rafforzare i legami diplomatici attraverso la valorizzazione reciproca dei rispettivi patrimoni storici, ma non altro. L’orientamento verso il marketing culturale e la spettacolarizzazione sembra prevalere sull’approfondimento scientifico e archeologico, limitando l’efficacia dell’iniziativa nel trasmettere la vera essenza di Göbeklitepe. In un contesto così ricco di significati e suggestioni, sarebbe stato auspicabile un approccio più rispettoso della complessità e della specificità del sito, capace di valorizzarne l’unicità senza ricorrere a semplificazioni o scorciatoie scenografiche. L’iniziativa, pur animata da intenti nobili, risente della mancanza di un contatto diretto con i reperti originali e di una ricostruzione accurata del sito, limitando così la sua capacità di trasmettere la complessità e il fascino di Göbeklitepe. L’effetto complessivo è quello di un’operazione più orientata alla spettacolarizzazione che alla vera comprensione del contesto archeologico, un’occasione mancata per raccontare con rigore e profondità uno dei luoghi più enigmatici e affascinanti della storia dell’umanità.

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Pavia, Teatro “Fraschini”: “La Bohème”

gbopera - Gio, 24/10/2024 - 10:44

Pavia, Teatro Fraschini, Stagione 2024/25
“LA BOHÈME”
Opera lirica in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Mimì MARIA NOVELLA MALFATTI
Musetta FAN ZHOU
Rodolfo VINCENZO SPINELLI
Marcello JUNHYEOK PARK
Schaunard DAVIDE PERONI
Colline GABRIELE VALSECCHI
Benoît/Alcindoro ALFONSO CIULLA
Parpignol ERMES NIZZARDO
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro di OperaLombardia
Coro delle Voci Bianche del Teatro Sociale di Como
Direttore Riccardo Bisatti
Maestro del Coro e del Coro delle Voci Bianche Massimo Fiocchi Malaspina
Regia e costumi Marialuisa Bafunno
Scene Eleonora Peronetti
Coreografie Emanuele Rosa
Luci Gianni Bertoli
Nuovo allestimento in coproduzione Teatri di OperaLombardia, Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Pavia, 20 ottobre 2024
La stagione di OperaLombardia 2024/25 non poteva aprirsi che con un’opera di Puccini, visto il centenario in corso: la scelta è caduta su un grande classico, “La Bohème“, per la messa in scena del quale si è ricorsi a una selezione tra progetti under 35, e probabilmente qui risiede l’origine dei limiti di questa stessa produzione. È chiaro, infatti, che questa “Bohème“ presenti alcuni problemi strutturali; il primo di essi è proprio quel tipo di regia che siamo soliti definire “delle trovate“, cioè una sequela di situazioni e siparietti di per sé non legati a un chiaro progetto generale, né necessari a una migliore ricezione dell’opera. Si è voluta mettere in scena una “Bohème“ contemporanea, e per questo si è pensato di trasformare Colline in un militante ambientalista, Schaunard in un performer omosessuale, Marcello in un creatore di urban stencil, e Rodolfo? Non si capisce, giacché i fogli del dramma iniziale che brucerà piovono dal cielo, e quando all’inizio del quarto quadro dovrebbe scrivere, in realtà raccoglie spazzatura, così noi non vediamo mai il giovane scrittore, ma solo uno che vivacchia in una soffitta con i suoi amici; questa scelta sarebbe interessante qualora la regia avesse voluto indagare i simboli del contemporaneo portando in scena i loro significati, invece Marialuisa Bafunno preferisce lasciare tutto in superficie, un po’ come la scelta di porre all’inizio e durante tutto il dramma il personaggio del vecchio Rodolfo che ricorda la vicenda (perché, se poi non interviene, non scrive, non apporta nulla all’opera?), o quella di trasformare il momento del Tamburo maggiore in una coreografia di gruppo stile TikTok, senza una ragione, senza un legame col resto, solo per perseguire un’estetica – che, peraltro, nemmeno appaga lo sguardo, poiché se le scene di Eleonora Peronetti sono perlomeno interessanti nella costruzione degli spazi, i costumi della stessa Bafunno sono alquanto banali, un po’ anni 90, un po’ anni 70, con un abuso evidente di paillettes e, anch’essi, senza alcuna visione d’insieme. Eppure, la parte peggiore di questa produzione non è la regia in quanto tale, che presenta perlomeno nel lavoro sui personaggi e i cantanti alcune scenette anche godibili (soprattutto grazie alle coreografie di Emanuele Rosa nel secondo atto), ma il disegno delle luci, a cura di Gianni Bertoli: alla ricerca di effetti arditi, suggestioni interiori e forse innovazioni, le luci sono perlopiù date a caso, lasciando spesso i cantanti in piena ombra nel cantare i loro pezzi iconici, mentre inquadrano angoli vuoti, parti del coro inattive in quel momento, altri interpreti che stanno in silenzio (ci riferiamo perlomeno alla romanza di Mimì del primo quadro, al valzer di Musetta del secondo, al duetto del terzo): questa “sperimentazione“ ci è parsa incomprensibile, oltre che irrispettosa sia del pubblico che dell’artista in scena. Per fortuna, l’apparato musicale ci ha regalato performance complessivamente positive, a cominciare dalla direzione di Riccardo Bisatti che ha saputo in tutti i momenti dell’opera, anche i più complessi, mantenere una bella armonia tra cavea e scena, oltreché mettere in luce con prudenza tutti i leitmotiv presenti, rendendo giustizia alla partitura con una concertazione partecipe sul piano espressivo. Vincenzo Spinelli è un Rodolfo corretto, forse un po’  leggero, ma almeno ci è parso sicuro nell’intonazione e nel registro acuto e con un fraseggio particolarmente efficace nei passi più squisitamente sentimentali; accanto a lui brilla  Maria Novella Malfatti, soprano lirico pieno, dalla vocalità ben proiettata, con suoni tondi e piacevolmente pastosi; unico aspetto non del tutto convincente della sua prova, la cantante ci è parsa un po’ troppo “vigorosa”, faticando a cesellare un fraseggio adeguato al momento drammatico. Spicca anche la bella vocalità autenticamente baritonale del giovane Junhyeok Park, dal suono caldo, avvolgente, omogeneo nell’emissione rendendo così il suo Marcello un vero secondo protagonista (come in effetti era nelle “Scènes de la Vie de Bohème” di Henry Murger). Corretta, ma davvero “leggera” nel registro, e piuttosto generica nel fraseggio, la prova di Fan Zhou (Musetta); rutilante, sonoro e molto coinvolto scenicamente lo Schaunard di Davide Peroni, mentre forse ancora acerbo il Colline di Gabriele Valsecchi, che compensa con buona propensione scenica un’interpretazione tutto sommato bidimensionale, anche nell’arioso della “vecchia zimarra“. Infine, inaspettatamente piacevole, ben scandito e fraseggiato il Benoît di Alfonso Ciulla. Certamente soddisfacente la performance del Coro di OperaLombardia, coeso e presente alla scena, e anche le Voci Bianche del Teatro Sociale di Como si sono distinte per chiarezza dell’eloquio e omogeneità del suono (un plauso al maestro Massimo Fiocchi Malaspina, istruttore di entrambe le compagini). Crediamo tuttavia che un simile giovane cast, che ha fornito una prova complessiva tanto buona, avrebbe meritato una messa in scena che partecipasse della grande bellezza di questa musica, e non tentasse di sabotarla nel nome di una ridicola pretesa di modernità. Foto Andrea Butti

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Torino, Teatro Regio: “Manon”

gbopera - Gio, 24/10/2024 - 08:10

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
MANON
Opera in cinque atti e sei quadri. Libretto di Henry Meilhac e Philippe Gille dal romanzo Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine François Prévost
Musica di Jules Massenet
Manon Lescaut EKATERINA BAKANOVA
Lescaut BJŐRN BŰRGER
Il Cavaliere Des Grieux ATALLA AYAN
Il Conte Des Grieux ROBERTO SCANDIUZZI
Guillot de Morfontaine THOMAS MORRIS
Monsieur de Brétigny ALLEN BOXER
L’Oste YOANN DUBRUQUE
Poussette OLIVIA DORAY Javotte MARIE KALININE
Rosette LILIA ISTRATII Il Locandiere YOANN DUBRUQUE Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Evelino Pidò
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard 
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Assistente di Regia Stephen Taylor
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 20 ottobre 2024
Il trittico Manon, messo in scena in quest’Ottobre 2024 dal Teatro Regio di Torino, si esalta e, forse, pure si danna nel bianco-grigio-nero delle scene e dei costumi, rispettivamente di Alessandro Camera e di Carla Ricotti e nelle inserzioni di pellicole d’antan, volute dal Regista Arnaud Bernard. Questa volta è a una pellicola con la bellissima, impudica e non proprio signorile Bardot, BiBi per il volgo, ad essere intercalata, con relativi dialoghi francesi, all’opera. Bianca-bianca la chioma della diva, bionda-bionda la fluente ed esagerata parrucca imposta all’incolpevole, come si dice per il portiere che si becca un gol, Ekaterina Bakanova. Fortunatamente le calcolatissime inserzioni degli spezzoni di pellicola non giungono fino al deprecabile annullamento della musica che abbiamo dovuto subire nel finale della Lescaut di Puccini. Inutili sempre, ma esenti da killeraggio. Le luci di Fiammetta Baldisseri sono eccellenti nel dar corpo alla bella scenografia, bipartita in orizzontale, che campeggia in tutta la recita. Si coglie poi l’indubbio pregio della scena che, chiudendo verso il fondo, riflette verso la platea le voci che possono così godere dell’apprezzabile positivo sostegno purtroppo mancato nell’opera di Puccini. I primi tre atti, fino al duetto di Saint Sulpice, scorrono meravigliosamente. Il Coro del Teatro Regio, guidato da Ulisse Tabacchin, a tratti, nella confusione della scena, risulta vociante, forse per tema che, per gli scalpiccii dell’andirivieni, non venga ben sentito. La festa e il passeggio di Cours la Reine, a confermare l’ambientazione anni’60-70 della Bardot, sono stati metamorfizzati, assai positivamente, in un defilé di toilettes Balenciaga. Begli abiti, bellissime indossatrici per l’entusiasmo del pubblico, non solo femminile. Massenet mantiene nel quarto atto, in cui l’afflato poetico ha una parentesi, una sua specificità descrittiva che il regista realizza ambientandolo in un bar di stazione tra convenuti forse eccezionalmente eleganti per il luogo e l’occasione. Atto finale, in ospedale, trespolo da fleboclisi, lettino e suora infermiera. È il logico seguito della scena del film in cui BB, in carcere, coi polsi sanguinati, muore dissanguata. Massenet sopperisce a una certa stanchezza musicale con l’aiuto di “temi conduttori” alla Wagner. Ci risentiamo tutte le melodie strappalacrime dell’opera e la malanconia e il rimpianto si prendono gradatamente e poeticamente il sopravvento. Con una lettura consapevole e mai smancerosa, controllata ed efficace, attenta alle esigenze del canto e della scena, il Maestro Evelino Pidò sigla il successo della produzione. Ekaterina Bakanova, la protagonista, sopperisce a qualche limite negli acuti e nella coloratura, con un timbro che ben rispecchia il carattere anche umbratile del personaggio, come nell’iniziale “Je suis encor tuot étourdie…” che testimonia lo sgomento del primo viaggio. Anche la Petite table si fa apprezzare per il perfetto taglio da parigine feuilles mortes. Non forza ed è assai elegante nella Gavotte dell’atto 3°. Altrettanto efficace nella seduzione della mano nel duetto di Saint Sulpice. Il tenore brasiliano Atalla Ayan ha voce che forse più si adatterebbe al Des Grieux di Puccini che a questo, poco eroico, di Massenet. I centri son robusti e ben timbrati, non pervenute le mezze-voci e velocemente sfiorati gli acuti. Il Sogno, forse perché l’artista vi ha messo molto studio e moltissimo impegno è risultato apprezzabile ed esente da gravi mancanze. Certo i colori sono pochi e così il fascino scarseggia. Björn Bürger disbriga con buona professionalità la parte di Lescaut; formidabile per capacità attoriali e querulo al giusto con la voce il Guillot de Morfontaine di Thomas Morris, freddato dal colpo di pistola da una Manon esasperata e vendicativa. Con esiti vocalmente alterni sia il Monsieur de Brétigny di Allen Boxer che il Conte Des Grieux di Roberto Scandiuzzi, ambedue con formidabili doti attoriali e di tenuta della scena. Yoann Dubruque, l’Oste e Locandiere e le meravigliose Poussette Olivia Doray, Javotte Marie Kalinine e Rosette Lilia Istratii completano felicemente la locandina. Come per tutte le altre recite di questo “Trittico Manon” a cui abbiamo assistito, il pubblico, pur intervenuto con molta moderazione, ha sonoramente apprezzato la recita e gli interpreti. Grandissimi gli applausi poi, per la Signora Bakanova e per il Maestro Pidò.

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Parma, Festival Verdi 2024: “La battaglia di Legnano”

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 17:16

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Opera in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano da La Bataille de Toulouse di Joseph Méry
Musica di Giuseppe Verdi
Federico Barbarossa RICCARDO FASSI
Lida MARINA REBEKA
Arrigo ANTONIO POLI
Rolando VLADIMIR STOYANOV
Marcovaldo ALESSIO VERNA
Il Podestà di Como / I Console di Milano  EMIL ABDULLAIEV*
II Console BO YANG*
Imelda ARLENE MIATTO ALBELDAS*
Uno Scudiero di Arrigo/ Un Araldo ANZOR PILIA*
*Allievi e già allievi dell’Accademia Verdiana
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Diego Ceretta
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Valentina Carrasco
Scene Margherita Palli
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Parma, 20 ottobre 2024
“…sprona il suo possente cavallo fiammingo, il quale nitrendo, lacerato nei fianchi si rizza sulle coscie e batte colle ferrate zampe del davanti sul tavolato del Carroccio”: il soggetto è Federico, il Barbarossa, e l’autore è Felice Govean, patriota torinese ideatore della fortunata raccolta “Libri per il popolo”, che come forse si può dedurre dal frammento citato consiste di narrazioni piuttosto melodrammatiche e, ovviamente, in chiave propagandistica risorgimentale di gloriosi episodî dalla storia patria. E magari, chi sa?, proprio da qui è guizzata l’intuizione di Valentina Carrasco che ha voluto centrare la sua Battaglia di Legnano sul cavallo, da sempre simbolo e vittima di ogni battaglia che si rispetti. L’onesto patriota piemontese non rientra tuttavia fra le letture del grande Cammarano. Che riesce, da Napoli, a convincere un Verdi tutto ubriacato dell’aria di Parigi e ormai quasi seccato dalla storia del contratto col San Carlo, ad accettare un intreccio tratto della pièce di Méry (sì, uno dei futuri librettisti del Don Carlos) La bataille de Toulouse, ou Un amour espagnol; intreccio che già gli era servito per il donizettiano Poliuto (ma che ai napoletani era nuovo, essendo stato il Poliuto affondato dalla censura borbonica). Quindi siamo alla consueta ricetta: l’intreccio sentimentale, da condirsi poi con uno sfondo storico. Ma Verdi ha in mente uno spettacolo di parigine proporzioni, a lui pare che “se non vi è qualche cosa di grandioso, di spettacoloso manchi sempre qualche cosa” e poi, per carità, senza l’amore: “perché sempre far l’amore come perno di tutti i drammi?”. Cammarano ci resta male: “ed io credeva che l’introduzione, il giuramento dei cavalieri della morte, e tutto l’intiero ultimo atto, da me aggiunto, potessero essere a quelle passioni ciò ch’è un bel fondo alle figure d’un quadro”. Illuso: Verdi vuole le figure sullo sfondo e lo sfondo in primo piano. Quindi piuttosto parigina e sperimentale come opera di propaganda risorgimentale italiana. E tutto questo per arrivare a dire: ma perché questo titolo così ricco, così carico d’idee non ci piace, né è piaciuto granché dopo le primissime esecuzioni (in cui l’entusiasmo era tale che il quarto atto veniva replicato per intero)? Difficile trovare una risposta razionale. Soprattutto se si esce dal Teatro Regio dopo averlo ascoltato nella splendida, consapevole, cesellata (aggettivo normalmente rifuggito, ma qui è il caso di farvi ricorso) direzione di Diego Ceretta. Tanto per citare un momento solo: che cosa vien su dalla buca, dove a sedere è l’ottima orchestra del Teatro Comunale di Bologna, mentre Arrigo si appresta a scrivere alla madre! E come non pensare, di poi, alla Luisa, alla Violetta, alle loro lettere? Protagonista assoluto è il Coro, il sempre sia lodato Coro del Comunale di Bologna diretto da Gea Garatti Ansini che stupisce ogni volta per compattezza, volume, rotondità, bellezza del suono. E poi l’ovazionata Marina Rebeka, con quello strumento avvolgente, brillante, sensuale, carnoso, voce che corre: corre, raggiunge e conquista. Bizzarramente orbato dell’applauso alla sua prima aria, invece, ma ben ricompensato dopo, l’Arrigo di Antonio Poli: vocalmente centrato, saldo e sicuro, dalla voce robusta e piena, tratteggia un eroe sensibile e umano. Vladimir Stoyanov è una vecchia certezza che con Parma e con il Festival ha una consuetudine particolarmente affettuosa, e sembra prendere molto sul serio la pacata raffinatezza di Ceretta che nel suo cantabile vede il germe del Di Provenza: sicché di gran trasporti guerrieri non se ne sentono. In generale, la recita non è attraversata da un gran turbine d’energia, di vitalità. Come invece ce ne mette Riccardo Fassi nel suo ahinoi troppo breve intervento come Barbarossa: voce più unica che rara di autentico basso, e gloriosa per volume, timbro, morbidezza, vigoria, una delizia che lascia appagati. A completare dignitosamente il cast l’affidabile Alessio Verna nel ruolo del delatore Marcovaldo e la squillante Imelda di Arlene Miatto Albeldas. Ancora, nei ruoli di fianco, i bravi Allievi e già dell’Accademia Verdiana. Dell’allestimento si accennava all’inizio. È sicuramente condivisibile l’idea del cavallo: se non altro perché serve su un piatto d’argento materiale di prima teatralità a Margherita Palli, che difatti riesce, complici anche le luci di Marco Filibeck, a trarne un intero spettacolo. Del resto il cavallo, e una ronconiana come lei lo sa meglio di chiunque altro, è sempre portentoso a teatro. Poi però, andando oltre il cavallo, la regia sembra abbandonare i cantanti ai tipici tic attoriali da cantante lirico. E, forse, anche la povera Silvia Aymonino, che per le divise militari in particolare è imbattibile, è stata lasciata nella difficoltà di non poter sciogliere l’imbarazzo temporale voluto dalla regia. Foto Roberto Ricci

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Savona, Teatro Chiabrera: “Madama Butterfly”

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 13:37

Savona, Teatro Chiabrera – Opera Giocosa, Stagione Lirica 2024
“MADAMA BUTTERFLY”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San CLARISSA COSTANZO
Pinkerton DAVID ESTEBAN
Sharpless PAOLO INGRASCIOTTA
Goro RAFFAELE FEO
Suzuki CARLOTTA VICHI
Lo zio Bonzo YONGHENG DONG
Il principe Yamadori WOOSEOK CHOI
Kate Pinkerton VALENTINA DELL’AVERSANA
Il Commissario Imperiale RZA KHOSROVZADE
L’Ufficiale del Registro RICCARDO MONTEMEZZI
Orchestra Sinfonica di Savona
Coro del Teatro dell’Opera Giocosa
Direttore Cesare Della Sciucca
Maestro del coro Gianluca Ascheri
Regia Renata Scotto ripresa da Renato Bonajuto
Scene Laura Marocchino
Costumi Artemio Cabassi
Luci Andrea Tocchio
Coproduzione con la Fondazione Teatro delle Muse di Ancona e con la Fondazione Rete Lirica delle Marche
Savona, 18 ottobre 2024
Molto saggiamente l’Opera Giocosa di Savona ripropone nel centenario pucciniano la messa in scena che Renata Scotto aveva realizzato nel 2017, con l’assistenza di Renato Bonajuto: si tratta infatti di una produzione piuttosto tradizionale, ma che nelle sue linee pulite, nella sua semplicità funziona sempre e non sembra avvertire i segni del tempo. Le scene di Laura Marocchino ricreano davvero una casa dalle pareti di carta di riso, ove pochi mobili semplicissimi rimangono ai margini di uno spazio vuoto, in cui la dimensione decorativa è più importante di quella d’uso; i costumi di Artemio Cabassi, per quanto tradizionali, non soggiacciono al peso di una ricostruzione filologica, ma trovano le linee sinuose e tinte unite di un oriente forse immaginario, trasognato; le luci sono saggiamente governate da Andrea Tocchio, che gioca con elementi interni (la luna, la luce del cielo, la cornice decorata che inquadra il boccascena) e illuminazione esterna, ricreando atmosfere rarefatte spesso cariche di sentimento. La regia in quanto tale è molto rispettosa del libretto, e si prende solo qualche piccola, innocente libertà: nessun dramaturg vi ha messo mano, ed è così tranquillizzante sapere che nessuna trovata dell’ultimo minuto interferirà nella parabola di amore, abbandono e morte di Cho-Cho-San; una regia che è evidentemente frutto della mente di una cantante, ma che non per questo si rivela noiosa, anzi: è quasi consolatorio riscoprire il leggero brivido di sapere già cosa avverrà e come. Sul piano musicale, invece, le sorprese non mancano, a partire dalla direzione del giovane Cesare della Sciucca: dotato di un gesto morigerato e di una singolare visione d’insieme, mette in luce soprattutto i momenti più patetici, senza per questo sottrarre energia e slanci epici all’orchestra. Altra piacevole sorpresa è David Esteban (Pinkerton): sebbene forse più adatto a ruoli meno drammatici, il tenore ha sfoggiato acuti efficaci e buona tecnica anche nel sostegno dei centri; belli anche il fraseggio, ben cesellato, e la padronanza della linea di canto. Decisamente riuscito anche il Goro di Raffaele Feo, che sorprende per la naturalezza del suo canto ma anche la resa scenica è attenta e partecipe, distante da certi Goro macchiettistici. Carlotta Vichi è una navigata Suzuki, e fa proprio della consapevolezza del ruolo la sua cifra interpretativa, ponderata, ben sonora senza essere esagerata: una prova, la sua, ricca di dignità e nobiltà nel porgere. Complimenti anche a Paolo Ingrasciotta, che debutta qui uno Sharpless elegantissimo, intenso, in cui sfoggia tutte le mezzetinte del suo importante mezzo vocale – sua, senza dubbio, la performance migliore. Abbiamo lasciato per ultima la protagonista perchè ci ha lasciati un po’ perplessi. Clarissa Costanzo, una Cio-Cio-San per lo meno opinabile: il primo atto è del tutto frainteso nell’emissione e nel fraseggio, e talvolta anche nell’intonazione; dal secondo si profila una Butterfly certamente pregevole, ma spesso più voluminosa che piacevole; “Un bel dì” è interpretato con qualche impaccio, molto meglio “Tu piccolo iddio” e il duetto con Suzuki, ove il fraseggio si plasma sulla linea di canto con l’abilità che la Costanzo ha saputo mostrare in altri ruoli; la sensazione è che il soprano napoletano sia un po’ troppo “spinto” per questo ruolo, considerata anche la natura spiccatamente “Falcon” del suo registro vocale. Infine non possiamo non citare la puntuale prova del coro del Teatro dell’Opera Giocosa, diretto da Gianluca Ascheri, che sia dalla scena (nel primo atto), che dalle quinte (nel celebre “A bocca chiusa” fra secondo e terzo) ha saputo creare una sensibile cornice alla vicenda, contribuendo in modo determinante alla riuscita della serata. Foto Luigi Cerati

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Ancona, Teatro delle Muse “Franco Corelli”: “Nabucco” 25 e 27 ottobre 2024

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 12:47

Ancona, Teatro delle Muse “Franco Corelli”
NABUCCO
La Stagione Lirica di Ancona 2024 al Teatro delle Muse “Franco Corelli” si apre venerdì 25 ottobre alle ore 20.30 con replica domenica 27 ottobre alle ore 16.30 con Nabucco dramma lirico in quattro parti di Temistocle Solera, musica di Giuseppe Verdi, direttore György Győriványi Ráth, regia Mariano Bauduin, scene e luci Lucio Diana, costumi Stefania Cempini. Il cast include alcuni tra gli artisti più interessanti della nuova generazione di cantanti verdiani: protagonista è il baritono Ernesto Petti che interpreta Nabucco – appena reduce dal successo di Macbeth al Festival Verdi al Regio Parma -, Abigaille è interpretata da Rebeka Lokar, Zaccaria Nicola Ulivieri, Ismaele Alessandro Scotto Di Luzio, Fenena Irene Savignano, Gran Sacerdote è Andrea Tabili, Antonella Granata è Anna, Abdallo è Luigi Morassi. Sul podio della FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana sarà il maestro György Győriványi Ráth – già Sovrintendente e Direttore musicale dell’Opera di Stato Ungherese di Budapest – uno dei più autorevoli interpreti dell’opera italiana nei teatri internazionali. Il Coro Lirico “Vincenzo Bellini” di Ancona è diretto dal Maestro Francesco Calzolaro. Presente in palcoscenico l’Orchestra di Fiati di Ancona. La produzione è un nuovo allestimento della Fondazione Teatro delle Muse. Una serie di incontri con il pubblico e con le scuole farà da introduzione ai titoli in programma. Per Nabucco è prevista l’anteprima giovani mercoledì 23 ottobre alle ore 18.00 per le scuole secondarie e gli studenti dell’Università Politecnica delle Marche preceduta venerdì 18 ottobre da un incontro con il direttore artistico della Stagione Lirica Vincenzo De Vivo alle ore 15.00 al Ridotto del Teatro delle Muse seguito da una visione delle prove. Le anteprime giovani sono nate in collaborazione con L’Ufficio Regionale Scolastico e l’Università Politecnica delle Marche. Come di consueto la domenica precedente il debutto, quindi domenica 20 ottobre alle ore 11.00 al Ridotto del Teatro ci sarà la guida all’opera, gratuita, aperta alla città, a cura del critico musicale Fabio Brisighelli. Info: biglietteria Teatro delle Muse 071 52525 biglietteria@teatrodellemuse.org Vendita on line su www.vivaticket.com La Fondazione Teatro delle Muse è sostenuta da: Socio Fondatore: Comune di Ancona / Con il contributo di: Ministero della Cultura, Regione Marche, Fondazione Cariverona / Con il sostegno di: Associazione Palchettisti del Teatro delle Muse, Gli Amici del Teatro delle Muse / In collaborazione con Marche Teatro. Art Bonus: Luciana Mosconi / Con il patrocinio di Rai Marche.

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Roma, Scuderie del Quirinale: “Guercino e l’Era Ludovisi” dal 31 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 11:06

Roma, Scuderie del Quirinale
GUERCINO. L’ERA LUDOVISI A ROMA
Guercino torna a Roma in una celebrazione trionfale dell’arte del Seicento, con la mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma”, alle Scuderie del Quirinale dal 31 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025. Un appuntamento imperdibile che vede protagonisti due giganti della storia dell’arte e del potere romano: Giovanni Francesco Barbieri, meglio noto come Guercino, e la dinastia Ludovisi, personificata dal cardinal Ludovico e dal suo influente zio Alessandro Ludovisi, Papa Gregorio XV. Il percorso espositivo si sviluppa come un racconto avvincente del breve ma significativo papato Ludovisi (1621-1623), una parentesi luminosa tra le grandi dinastie dei Borghese e dei Barberini, spesso trascurata dagli studiosi ma cruciale per la storia dell’arte romana. Proprio in questi anni, il giovane Guercino trovò a Roma un’opportunità unica per affermarsi, accendendo la sua ispirazione grazie alla raffinata committenza di Papa Gregorio XV. In mostra emergono i segni distintivi di un’epoca che ha gettato le basi per i successivi sviluppi artistici del Barocco. L’esposizione offre una visione d’insieme di un periodo storico in cui l’arte e la politica erano profondamente intrecciate. I Ludovisi, sulla scia delle altre potenti famiglie romane, crearono la loro villa emblematica, Villa Ludovisi, e collezionarono opere che spaziavano dall’antichità all’arte contemporanea del Cinquecento, arricchendo Roma con pezzi straordinari e con una visione artistica innovativa. La comunità artistica che ruotava attorno alla corte Ludovisi comprendeva nomi come Guido Reni, Domenichino, Lanfranco, i Carracci, Pietro da Cortona, Van Dyck, Poussin e persino Bernini. La mostra alle Scuderie mette in luce queste interazioni, presentando capolavori che dialogano tra loro, evocando le rivalità e le influenze reciproche. Il cuore dell’esposizione resta Guercino, il preferito del Papa, con la sua ricerca cromatica e il suo tratto inconfondibile che divennero simbolo dell’ascesa dei Ludovisi. Il suo stile, sensibile e vibrante, emerge come punto di equilibrio perfetto tra l’eredità classica e la sperimentazione barocca, rappresentando la cultura raffinata e la potenza politica della famiglia Ludovisi. Organizzata in collaborazione con prestigiose istituzioni come le Gallerie degli Uffizi, il Museo Nazionale Romano e i Musei Capitolini, la mostra conta 121 opere, provenienti da 68 musei e collezioni di rilievo. Un’occasione unica per immergersi in un periodo affascinante della storia romana, che, per la prima volta, offre anche l’opportunità esclusiva di visitare alcune sale del Casino di Villa Ludovisi, tra cui la Sala dell’Aurora, dove campeggia il celebre affresco del Guercino. Le visite, disponibili dal 9 novembre, saranno aperte soltanto nel weekend e previa prenotazione. La mostra non è soltanto un’esposizione di capolavori, ma un viaggio nell’essenza stessa dell’arte del Seicento: una celebrazione della bellezza e della potenza di un’epoca irripetibile, un’occasione per scoprire il breve, ma intensissimo, splendore della Roma Ludovisi, il cui riverbero risuona ancora oggi nelle sale delle Scuderie del Quirinale. Qui per tutte le informazioni.

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Johann Sebastian Bach (1685-1750): “The Harpsichord Concertos, Vol. 1”

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 08:36

Johann Sebastian Bach (1685-1750): Harpsichord Concerto in A major BWV 1055; Harpsichord Concerto in E major BWV 1053; Violin Concerto in A minor BWV 1041; Concerto for 2 Harpsichords in C minor BWV 1062. Mario Sarrechia (clavicembalo). Bart Naessens (clavicembalo, 1° nel BWV 1062). Sara Kuijken (violino). La Petite Bande. Sigiswald Kuijken (direttore). Registrazione: 2-5 Ottobre 2021, Paterskerk, Tielt (Belgio). T. Time: 61′ 02″. 1 CD Accent ACC24385

La produzione di concerti per clavicembalo di Johann Sebastian Bach si concentra nel decennio che va dal 1725 al 1735, quando i figli del compositore, diventati ormai dei virtuosi di questo strumento, avevano bisogno di nuove composizioni per potersi esibire nel «Collegium Musicum» della città di Lipsia, dove il padre ricopriva la carica di Thomaskantor e Direktor musices. Molti di questi concerti sono rielaborazioni di precedenti, andati perduti, per altri strumenti. In questo CD pubblicato dell’etichetta Accent che corrisponde al primo di tre volumi con cui sarà proposto l’integrale della produzione di concerti di Bach, comprendente non solo quelli per clavicembalo e per due clavicembali, ma anche quelli per violino e per due violini, è possibile ascoltare: il Concerto in la maggiore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1055, che, corrispondente alla trascrizione di un suo concerto per oboe d’amore, composto nel periodo di Köthen, si inserisce nella solida tradizione italiana di Vivaldi e Corelli; il Concerto in mi maggiore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1053, anch’esso una trascrizione per clavicembalo di un precedente lavoro di Bach per oboe o oboe d’amore e orchestra in fa maggiore; il Concerto in la minore per violino BWV 1041, risalente al felice periodo che va dal 1717 al 1723, trascorso da Bach a Köthen alle dipendenze del principe Leopold di Anhalt-Köthen dal quale era stato nominato Kappelmeister, nel cui primo movimento, che  si snoda nella classica alternanza, qui resa in modo estremamente simmetrico, fra il tutti e il solista, il compositore anticipò alcuni principi della forma-sonata, e il Concerto in do minore per due clavicembali, archi e basso continuo BWV 1062, che è, infine, la trascrizione realizzata nel 1736 del Concerto BVW 1043 per due violini, le cui parti vengono riprodotte nel rigo della mano destra di ogni strumento solista. Di ottimo livello e storicamente informata è l’esecuzione di questi lavori da parte della Petite Bande, diretta da Sigiswald Kuijken, che mette ben in evidenza il carattere cameristico di queste pagine e lascia il giusto spazio agli ottimi solisti, i clavicembalisti Mario Sarrechia Bart Naessens (al quale è affidata la parte del 1° nel BWV 1062) e la violinista Sara Kuijken, che esibisce un’espressiva cavata nel secondo movimento del Concerto per violino. Ascoltando questo primo album, non si può non auspicare la pubblicazione in tempi brevissimi degli altri due. 

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“Stiffelio di Verdi, per la prima volta al Filarmonico di Verona dal 27 ottobre al 3 novembre

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 07:59

“Stiffelio”, Il tesoro nascosto fra i titoli di Verdi,  debutta finalmente al Teatro Filarmonico di Verona. Domenica 27 ottobre, alle ore 15.30, a 174 anni dalla prima triestina del 1850. Dramma intimista avvincente e attualissimo, fu innovativo e coraggioso per la sua epoca. Considerato da molti la prova generale della Traviata, tratta di tradimento e perdono, introducendo il tema del divorzio nell’opera italiana, con originale profondità nella struttura e nella psicologia dei personaggi principali. L’Orchestra e Coro di Fondazione Arena diretti da Leonardo Sini, la regia e luci di Guy Montavon e scene e costumi di Francesco Calcagnini. Come Stiffelio troviamo in scena Luciano Ganci (27 e 31/10) e Stefano Secco (29/10 e 3/11) accanto ai soprani Caterina Marchesini (27 e 31/10) e Daniela Schillaci(29/10 e 3/11) che vestiranno i panni di Lina. Stankar  sarà il baritono  Vladimir Stoyanov, l’anziano confratello Jorg al basso Gabriele Sagona. I cugini di Lina saranno Francesco Pittari (Federico) e Sara Rossini (Dorotea) mentre  Raffaele il tenore Carlo Raffaelli. Il Coro della Fondazione Arena sarà preparato da Roberto Gabbiani.
Repliche martedì 29 ottobre alle ore 19, giovedì 31 ottobre alle ore 20 e domenica 3 novembre alle ore 15.30.

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Napoli, Teatro Bellini: “La Grande Magia”

gbopera - Mer, 23/10/2024 - 00:04

Napoli, Teatro Bellini, Inaugurazione Stagione 2024/2025
“LA GRANDE MAGIA”
Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo
Calogero Di Spelta NATALINO BALASSO
Otto Marvuglia MICHELE DI MAURO
Amelia Recchia VERONICA D’ELIA
Mariano D’Albino e Brigadiere di P. S. GENNARO DI BIASE
Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta CHRISTIAN DI DOMENICO
Signora Marino e Rosa Di Spelta MARIA LAILA FERNANDEZ
Gervasio e Oreste Intrugli ALESSIO PIAZZA
Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia MANUEL SEVERINO
Zaira, moglie di Marvuglia SABRINA SCUCCIMARRA
Marta Di Spelta e Roberto Magliano ALICE SPISA
Signora Zampa e Matilde, madre di Di Spelta ANNA RITA VITOLO
Regia Gabriele Russo
Scene Roberto Crea
Luci Pasquale Mari
Costumi Giuseppe Avallone
Musiche e Progetto Sonoro Antonio Della Ragione
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT/ Teatro Nazionale
Napoli, 18 ottobre 2024
Eduardo De Filippo, nel 1948, scandalizza il mondo teatrale, proponendo un testo dal carattere vistosamente «rivoluzionario»: La grande magia – attraverso cui sconvolge le convenzioni stilistiche e formali della consueta letteratura drammatica, ponendo così se stesso «al di là» anche della sua produzione drammaturgica. Un testo, dunque, che potremmo definire come «poeticamente realistico»: una definizione, almeno nominalmente, inafferrabile e «contraddittoria» – ma, per dirla con Pasolini, le «contraddizioni» sono necessarie, soprattutto se «strutturali»: La grande magia è una macchina narrativa inarrestabile, una commedia strutturalmente frammentaria, un sistema di simbolistiche «contraddizioni», regolamentate – però – attraverso una scrittura netta e poetica, schematicamente espressiva: Eduardo, dunque, innesta in un quadro fortemente realistico – «neorealistico», se vogliamo – e popolare la tematica del «soprannaturale», rappresentata dalla figura del mago Otto Marvuglia. Un’operazione che potremmo definire «shakespeariana», non nuova per Eduardo (già nel ’46, con Questi fantasmi!, il drammaturgo confonde uomini e spettri, frammenti di vita effettiva e fatti favolistici), ma questa volta conduce l’escamotage a estreme conseguenze: il mago Marvuglia consegna all’affranto e dispotico marito, Calogero Di Spelta (moralistico portavoce del mitizzato, ma feroce, decoro borghese), una scatola entro cui afferma d’aver sigillato la moglie, Marta, scappata invece con l’amante. Un trucco di magia parossisticamente comico, a cui l’uomo è «costretto» fermamente a credere, rifiutando aprioristicamente l’eventuale esistenza d’una realtà «altra da sé» o l’eventuale elemento scandaloso (il tradimento, in questo caso) che andrebbe a «rivoluzionare» la perfezione formale della «norma» borghese. L’evento magico, al Bellini, viene inquadrato entro un progetto registico potentemente «espressivo», curato da Gabriele Russo; una «vivacità» narrativa che conduce a conseguenze estreme gli elementi narrativi e i dati, prevalentemente pirandelliani, che determinano contenutisticamente non soltanto questa commedia, ma tutta la produzione drammaturgica eduardiana: la frantumazione dell’istituzione della famiglia, l’alienante mediocrità borghese e la frustrante repressione d’impulsi e inclinazioni. La messinscena, almeno esteriormente, presenta una forma narrativa preminentemente unitaria e continua – nonostante la presenza d’inevitabili transizioni da un atto all’altro, perfettamente innestate entro la cornice narrativa, perché investite d’una funzione altamente «poetica»: assumono la forma di brevi momenti d’irrazionalistica e tragica sospensione; brevi incisi dal carattere fortemente onirico e sognante – determinati dalle suggestive atmosfere sonore di Antonio Della Ragione. Ma la forma unitaria esteriore pone se stessa in netta «contraddizione» con la struttura interna potentemente frammentaria: scene di vita realistica interrotte da momenti surrealistici, caratterizzati da parossistiche connotazioni linguistiche. Ciò riguarda, però, soprattutto i personaggi «secondari», perché i due protagonisti Otto Marvuglia e Calogero Di Spelta (interpretati, rispettivamente, da Michele Di Mauro e Natalino Balasso) incarnano metaforicamente la drammaticità della vita. La povertà è il dato in cui risiede la disperazione, sia pure coscientemente comica, del mago Marvuglia, interpretato da Di Mauro in un modo graziosamente «vignettistico» e «fumettistico». Attraverso un tono scherzoso (soprattutto nelle frasi in lingua napoletana), un’astuta galanteria e un atteggiamento graziosamente «vanitoso», l’attore garantisce al mago una balenante allegria e una concreta inventiva linguistica, determinata da stabilità espressiva e da immediate, ma realistiche, variazioni tonali. Natalino Balasso, invece, offre un ritratto del suo Calogero Di Spelta drammaticamente «veristico»: improvvise variazioni d’intonazione e un linguaggio infantilmente «esitante» rappresentano i sintomi di una condizione emotiva autopunitiva e amara, in cui l’affranto marito è costretto; uno stato irrimediabilmente nevrotico, determinato da un degradante sentimento d’impotenza e da un nostalgico sentimentalismo. I personaggi «secondari» (la definizione è puramente convenzionale) assumono coralmente un linguaggio umoristicamente «artefatto»; un linguaggio che procede speditamente, accompagnato e sostenuto da un altro linguaggio, quello gestuale, determinato da un’espressività estrema, ritmicamente irrealistica: paiono figure provenienti da un mondo «altro», impalpabile e irrisolto: il mondo interiore dei due protagonisti. Ottimi, dunque, tutti gli attori – avvolti, peraltro, negli appropriati costumi di Giuseppe Avallone: Veronica D’Elia (Amelia Recchia), Gennaro Di Biase (Mariano D’Albino e Brigadiere), Christian di Domenico (Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta), Maria Laila Fernandez (Signora Marino e Rosa Di Spelta), Alessio Piazza (Gervasio e Oreste Intrugli), Manuel Severino (Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia), Sabrina Scuccimarra (Zaira, moglie di Marvuglia), Alice Spisa (Marta Di Spelta e Roberto Magliano), Anna Rita Vitolo (Signora Zampa e Matilde, madre di Di Spelta). Anche la struttura scenica, progettata da Roberto Crea, esprime – attraverso la potenza comunicativa delle cose e degli oggetti – la tragica e comica vitalità tipica della scrittura eduardiana: riproduce, in modo poeticamente «stilizzato» e colorato, gli spazi entro cui accadono i fatti, romanticamente illuminati da Pasquale Mari: un giardino (quello dell’albergo Metropole), le stanze dell’estrosa casa del mago Marvuglia e del freddo appartamento di Di Spelta. Un pubblico, particolarmente numeroso ed entusiasta, ha positivamente accolto l’opera che, forse, stava – e sta – più a cuore al suo grande ed eterno papà, Eduardo De Filippo. Foto Flavia Tartaglia

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “1984”

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
1984
di George Orwell
adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan
traduzione Giancarlo Nicoletti
con Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri
e con Silvio LavianoBrunella PlataniaSalvatore Rancatore,
Tommaso PaolucciGianluigi RodriguesChiara Sacco
scene Alessandro Chiti
musiche Oragravity
costumi Paola Marchesin
disegno video Alessandro Papa
disegno luci Giuseppe Filipponio
regia Giancarlo Nicoletti
Roma, 22 Ottobre 2024
La nuova versione teatrale di “1984” diretta da Giancarlo Nicoletti rappresenta uno degli adattamenti più ambiziosi dell’ultimo decennio. L’opera di Orwell, pilastro della letteratura distopica, viene trasposta in una produzione che riesce a mantenere viva la cupezza e la potenza narrativa del romanzo originale, riuscendo al contempo a offrire una riflessione attuale e provocatoria sulla nostra società contemporanea. Il romanzo di George Orwell, pubblicato nel 1949, è uno dei più potenti racconti distopici del ventesimo secolo. Racconta la storia di Winston Smith, un uomo comune intrappolato in un regime totalitario dove ogni pensiero e azione vengono sorvegliati. Orwell esplora la perdita dell’individualità e l’annullamento della verità, rappresentando la paura di un futuro totalitario. Nicoletti ha mantenuto intatto il messaggio dell’autore, riuscendo a farlo risuonare con il pubblico moderno, costretto a confrontarsi con temi come la sorveglianza di massa e la manipolazione delle informazioni. L’adattamento di Nicoletti non si limita a replicare fedelmente la trama, ma arricchisce l’esperienza visiva e sensoriale attraverso un uso sapiente di videoproiezioni ed elementi multimediali. Flussi di dati e immagini di telecamere di sorveglianza amplificano la sensazione di essere costantemente sotto controllo, suggerendo una connessione profonda tra la distopia immaginata da Orwell e la nostra realtà attuale. Questa scelta stilistica rende ancora più evidente l’attualità del messaggio di Orwell, ponendo l’accento sull’invasività delle moderne tecnologie di sorveglianza e sul crescente potere delle istituzioni nel controllo della vita privata. La regia  crea una messa in scena tesa e coinvolgente, mantenendo l’intensità e la cupezza dell’opera originale. L’interpretazione del controllo totalitario si concretizza in un allestimento scenico essenziale ma fortemente evocativo, fatto di ambienti claustrofobici e luci oppressive. La scenografia volutamente minimalista, insieme alla scelta di luci e ombre, contribuisce a ricreare un’atmosfera asfissiante, in cui i personaggi sembrano imprigionati non solo fisicamente, ma anche mentalmente. La narrazione visiva alterna momenti di tensione palpabile a passaggi di profondo silenzio, volutamente angoscianti, che suggeriscono un’assenza di speranza e un senso di impotenza. Tuttavia, queste pause, sebbene drammaticamente efficaci, possono talvolta spezzare il ritmo della rappresentazione, risultando in un andamento frammentario che ha il potere di attenuare l’intensità emotiva dell’opera. Questa scelta stilistica, pur coerente con l’intento di evocare un’atmosfera di desolazione e controllo, può risultare divisiva, poiché non tutti gli spettatori apprezzano un ritmo così volutamente rallentato. La scenografia di Alessandro Chiti è stata studiata con particolare attenzione per accentuare il senso di oppressione e isolamento vissuto dal protagonista. Non c’è via di fuga nella stanza 101, e questo viene trasmesso al pubblico attraverso uno spazio volutamente limitato, che diventa una vera e propria trappola mentale. La scelta di ambientazioni ristrette, con pareti che sembrano chiudersi sempre di più intorno ai personaggi, dà vita a un ambiente che simboleggia il controllo inesorabile del Partito. Le luci di Giuseppe Filipponio, con cambi repentini dal buio soffocante a esplosioni di luce accecante, simboleggiano l’alternanza tra la sorveglianza totalitaria e i momenti di oppressione invisibile. Questa alternanza contribuisce a rendere l’esperienza teatrale ancora più coinvolgente, trasportando lo spettatore nel mondo angoscioso di Winston. Uno degli aspetti più evidenti dell’allestimento è stata senza dubbio l’interpretazione degli attori. Woody Neri, nel ruolo di Winston Smith, ha restituito con grande intensità la fragilità e la sofferenza del personaggio, mostrando il suo progressivo annientamento psicologico sotto il peso del sistema totalitario. L’attore è riuscito a incarnare le paure più profonde dell’essere umano: la perdita dell’identità e dell’umanità di fronte al potere. La sua performance è stata caratterizzata da una vulnerabilità autentica, che ha permesso al pubblico di empatizzare profondamente con Winston e con la sua lotta disperata contro un nemico invisibile. Violante Placido, nel ruolo di Julia, ha saputo trasmettere con efficacia sia la speranza sia la disperazione del suo personaggio, donando alla scena una carica emotiva vibrante e carismatica. Placido è riuscita a dare vita a una Julia complessa, combattuta tra il desiderio di libertà e la consapevolezza dell’inevitabilità del fallimento. Ninni Bruschetta ha dato corpo con maestria al ruolo del traditore, un personaggio che si muove con disinvoltura tra l’inganno e la spietatezza. Inizialmente, accoglie i due protagonisti nella “Fratellanza” clandestina, solo per svelare, con fredda determinazione, la sua vera identità di funzionario del regime. La sua interpretazione di O’Brien si distingue per una crudeltà calcolata, priva di empatia e di ogni briciolo di umanità: il suo obiettivo, ancor prima della condanna a morte dei dissidenti, è quello di spezzarli, di condizionarli fino a svuotarne lo spirito ribelle, anche nel momento estremo della loro esecuzione. Accanto a lui, il cast si è distinto per una resa coesa ed efficace, con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues e Chiara Sacco a incarnare inquisitori e aguzzini, aggiungendo al tutto un’aura di minaccia costante e ineluttabile. “1984” di Giancarlo Nicoletti è un adattamento teatrale che riesce a catturare l’essenza del romanzo di Orwell senza rinunciare a scelte stilistiche audaci. La potenza della regia, l’uso intelligente della scenografia e delle luci, e le interpretazioni intense degli attori fanno di questo spettacolo un’esperienza immersiva e disturbante, capace di scuotere le coscienze del pubblico. Un’opera che conferma come il teatro possa ancora essere uno strumento potente di critica e riflessione sul presente, in grado di attualizzare i grandi temi della letteratura e renderli significativi per il nostro tempo. Con tutte le sue sfumature e ambivalenze, l’adattamento di Nicoletti è un invito a confrontarsi con le nostre paure più profonde e a riflettere sul prezzo della libertà in una società sempre più monitorata e controllata. Il pubblico ha applaudito convintamente, in particolare per le interpretazioni degli attori, riconoscendo l’impegno e la profondità delle loro performance.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La Vegetariana” dal 29 Ottobre al 03 novembre 2024

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 23:00

Roma, Teatro Vascello
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
una co-creazione con Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
regia Daria Deflorian
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
una produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
Torna al Romaeuropa Festival in veste di regista e attrice per portare in scena insieme a Monica Piseddu, Paolo Musio e Gabriele Portoghese il gesto misterioso, potente, irrazionale quanto politico di Yeong-hye, protagonista de “La vegetariana”, romanzo della scrittrice sudcoreana Han Kang. Un testo sensuale, provocatorio, ricco di immagini potenti, colori sorprendenti e domande inquietanti: il rifiuto radicale, categorico quanto violento di una donna che sceglie di non mangiare più carne dà il via ad un graduale processo di metamorfosi. Mentre Yeong-hye cambia, cercando di diventare essa stessa vegetazione, ecco che è l’intero mondo che la circonda a vivere l’impatto della sua trasformazione: dall’irritazione sconcertata del marito, all’esaltazione artistica del cognato fino alla consapevolezza addolorata della sorella. L’umanità è dannosa, furiosa, assassina, violenta, tutte cose che Yeong-hye non vuole essere. Lei non vuole smettere di vivere. Vuole smettere di vivere come noi. Daria Deflorian Attrice, autrice e regista, tra i nomi di spicco della scena teatrale contemporanea. Come attrice lavora tra gli altri con Nanni Moretti, Stephane Braunschweig, Massimiliano Civica, Lotte Van Den Berg, Lucia Calamaro, Martha Clarke, Fabrizio Arcuri, Mario Martone, Remondi e Caporossi. Vince il Premio Ubu 2012 come miglior attrice e il Premio Hystrio2013. Dal 2008 al 2021 condivide i progetti con Antonio Tagliarini. I loro spettacoli girano l’Europa e vincono molti premi: Premio Ubu 2014 come miglior testo, miglior spettacolo straniero in Canada nel 2015, Premio Riccione 2019 e Premio Hystrio 2021. I loro testi sono pubblicati da Titivillus, Cue Press e Luca Sossella. Nel 2022 firma la drammaturgia e la regia di En finir dai testi di Edouard Louis per La Manufacture/Alta scuola di formazione di Losanna e poi per l’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Nel 2023 firma drammaturgia e regia di Elogio della vita a rovescio, prima tappa del progetto biennale attorno a La vegetariana. Dal 2021 cura la direzione artistica di INDEX (index-productions.com) insieme alla compagnia Muta Imago.

Categorie: Musica corale

Parma, Festival Verdi 2024: “Messa da Requiem”

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 22:05

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
Filarmonica “Arturo Toscanini”
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore James Conlon
Maestro del Coro Martino Faggiani
Solisti: Roberta Mantegna, Szilvia Vörös, Fabio Sartori, Alexander Vinogradov
Giuseppe Verdi: “Messa da Requiem” per soli, coro e orchestra
Parma, 19 ottobre 2024
Tradizionale appuntamento del Festival è la Messa da Requiem: quest’anno diretta da James Conlon. La cui lettura rifugge l’enfasi, la retorica, l’effetto; alla ricerca invece di un raccoglimento, di un’intimità che sono garantiti dall’eleganza, dalla sobrietà. Benché il ventaglio delle dinamiche sia alla sua massima apertura, com’è naturale e necessario, non si avvertono forzature, contrasti violenti, in una parola: eccessi. La Filarmonica Arturo Toscanini suona davvero bene, con una mirabile trasparenza, figlia del reciproco ascolto fra le sezioni, garantendo sempre un perfetto equilibrio fra i diversi piani sonori. Anche nei pianissimi più smaterializzati i tremoli degli archi restano fittissimi e nitidi; anche nel disorientante inizio del Tuba Mirum gli ottoni assicurano esattezza ritmica e d’intonazione. Quando piccole sbavature, qui, sono cose che capitano anche nelle migliori orchestre. Anche il Coro del Teatro Regio si distingue per intelligibilità del testo latino, scansione ritmica e equilibrio fra le voci più che per corposità o colore del suono. In generale, ne risulta un Requiem tutto etereo, tutto celeste, un Requiem che è un fatto intellettuale, interiore, che trova il suo svolgimento nella coscienza dell’individuo, un Requiem autenticamente ed esclusivamente sacro. Non con questo si vuol sostenere che sia questa musica sacra e niente abbia di teatrale (inutile qui ritornare sui vasi comunicanti, sui ricicli dalla prima versione dell’incipit dell’atto del Nilo e dal compianto su Posa morto di Philippe Deux): la musica è musica, è l’interpretazione a doverle restituire il giusto carattere. Storicamente, essendo il nome di Verdi così strettamente legato al teatro, si è troppo spesso guardato al suo Requiem come una sorta di sacra rappresentazione con effetti speciali. Nel ricondurne la musica alla sua dimensione più spirituale, Conlon ne raffredda forse la materia, ma non le fa certo torto: anzi rifulge di un’inedita, spigliata, agile, leggera, vibrante modernità. Fra i solisti spicca la voce invero di rara bellezza di Roberta Mantegna: limpida e chiara, eppure piena, sostanziosa, ricca di armonici, voluminosa, è un incanto. Szilvia Vörös fa assai bene con un timbro ambrato e snello, senza inutili rigonfiamenti, e dunque la voce è ben proiettata. Fabio Sartori canta da par suo, con un serbatoio di accortezze, intenzioni, sfumature espressive che si può mettere insieme solo con una lunga esperienza; e se il volume e la solidità della voce non conoscono vacillamenti, lo smalto conosce invece qualche crepa. Alexander Vinogradov è un basso piuttosto luminoso, che canta con un’ottima pronuncia e corretta posizione nei risuonatori cerebrali (se vi piace “in maschera”, o comunque à la Christoff per capirci subito): il punto critico che sembra un po’ preoccuparlo è il volume non immenso della voce, cui però la corretta proiezione può porre rimedio. Il concerto si è concluso con trentasette secondi di religioso silenzio, tale da lasciar trasparire in lontananza gli scrosci che fuori si stavano abbattendo sulla città; silenzio finalmente interrotto dall’entusiasmo di un pubblico pago e riconoscente.

Categorie: Musica corale

Padova, Teatro Verdi: “Madama Butterfly”

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 20:58

Teatro Verdi di Padova – Stagione 2024/25
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San FRANCESCA DOTTO
F.B.Pinkerton GIORGIO BERRUGI
Suzuki FRANCESCA DI SAURO
Sharpless JORGE NELSON MARTINEZ
Goro ROBERTO COVATTA
Il principe Yamadori WILLIAM CORRÒ
Lo zio Bonzo CRISTIAN SAITTA
Kate Pinkerton ALEZANDRA METELEVA
Il commissario imperiale FRANCESCO MILANESE
L’ufficiale del registro FRANCESCO TOSO
Danzatrice ALESSIA GELMETTI
Orchestra di Padova e del Veneto Coro Lirico Veneto
Direttore Francesco Rosa
Maestro del coro Matteo Valbusa
Regia, scene e luci Filippo Tonon
Costumi Filippo Tonon e Carla Galleri
Nuovo allestimento e nuova produzione del Teatro Verdi di Padova
in coproduzione con il Teatro Sociale di Rovigo e col Teatro Comunale Mario Del Monaco
Padova, 20 ottobre 2024
La Stagione Lirica di Padova 2024 rende un doveroso omaggio al maestro Giacomo Puccini, in occasione del centenario della morte, aprendo la stagione lirica con Madame Butterfly, opera tra le più struggenti e amate del repertorio lirico, della quale ricorre il 120° anniversario della prima rappresentazione. Sin dalla scena di apertura, grazie alla scenografia di Filippo Tonon, ci si sente soavemente trasportati in un Giappone di raffinata purezza, stilizzato e poetico. La quinta è una casa in più piani, capaci di trasformare gli spazi alle esigenze rappresentative; le porte a soffietto riescono a donare al palcoscenico la profondità necessaria, trasformandolo da una collina che si affaccia sul porto ad un luogo di pura intimità. Il gioco di luci è pure molto elegante e sobrio: un chiarore, o meglio un bagliore dalle tenui sfumature, in stretta correlazione con i tempi, luoghi e vicissitudini dell’opera, insomma una perfetta aderenza tra colore e calore. La regia dello stesso Tonon viaggia sul filo della coerenza, restituendo verità allo stile e alla cultura giapponese, senza esaltarla né togliendone credibilità. Infine molto apprezzata la filologia sulla scelta dei costumi di Filippo Tonon e Carla Galleri che rende ancora più autentico ed elegante il nostro viaggio. La concertazione è affidata al direttore Francesco Rosa, esperta bacchetta del Teatro di Padova, perfettamente a suo agio con la collaudata Orchestra di Padova e del Veneto. Il maestro ha diretto l’opera con la dovuta enfasi, come richiesto dalla partitura, mettendo in risalto la bellezza delle armonie pucciniane.La rappresentazione è stata di grande impatto emotivo anche grazie a un cast molto ben selezionato. Nel primo atto un po’ tutte le voci sono state penalizzate da un volume orchestrale leggermente troppo carico, includendo purtroppo anche il momento topico della comparsa di Butterfly (dove coro, orchestra e solisti dovrebbero fondersi in un unicum sonoro), ma tutto si è successivamente ritarato e tutte le compagini hanno saputo ricalibrarsi alla perfezione. Francesca Dotto, nel ruolo della sfortunata Cio-Cio-San, ha dato vita a una performance toccante e appassionata. La sua interpretazione, ben bilanciata tra fragilità e forza, ha catturato il cuore del pubblico, grazie a una voce limpida e ben proiettata, capace di esprimere con intensità il dramma interiore della protagonista; nel “Un bel dì vedremo” ha saputo incantare per delicatezza e profondità. Molto buona la sua interpretazione scenica. Giorgio Berrugi, (F.B. Pinkerton), ha restituito con abilità la complessità del personaggio. La sua voce sicura e brillante, unita a una presenza scenica adeguata, ha delineato un Pinkerton forse meno superficiale del solito, aggiungendo un velo di rimorso alle azioni che lo rendono così tragicamente colpevole agli occhi dello spettatore. Come Suzuki Francesca Di Sauro è stata una presenza solida e affettuosa, offrendo un’interpretazione vocale ben equilibrata. Il suo rapporto con Cio-Cio-San ha evidenziato il legame di fiducia e compassione, risultando in uno dei momenti più sinceri della rappresentazione. Jorge Nelson Martínez ha convinto nei panni di Sharpless, con una voce calda e un’interpretazione empatica del console americano, che ben riflette la sua impotenza di fronte al dramma imminente. Roberto Covatta, nei panni di Goro, ha saputo esprimere la meschinità del personaggio con un’ottima interpretazione attoriale e vocale. William Corrò (Yamadori), Cristian Saitta (Zio Bonzo), Aleksandra Meteleva (Kate Pinkerton), Francesco Milanese (il commissario imperiale) e Francesco Toso (l’ufficiale del registro) hanno completato il cast con grande professionalità e capacità interpretativa. Come sempre buona la prova del Coro Lirico Veneto diretto da Matteo Valbusa. È altresì doveroso menzionare un momento di rara bellezza e per di più giunto inaspettato: il balletto durante il coro a bocca chiusa. La brava Alessia Gelmetti, incorniciata in una scenografia eterea, è stata capace di commuovere lo spettatore interpretando la funzione simbolica che la danza rappresentava vale a dire la morte che viene a prendersi la vita. In conclusione questa produzione di Madame Butterfly è stata un successo sotto ogni punto di vista. La combinazione di regia attenta, una scenografia evocativa e un cast di grande talento ha permesso al pubblico di vivere un’esperienza teatrale ed emotiva intensa. E la tragica fine di Cio-Cio-San ha lasciato tutti profondamente toccati, in un silenzio sospeso che si è trasformato poi in applausi calorosi. Un appuntamento che, sicuramente, resterà nei cuori degli spettatori padovani e non solo.

 

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Pompei, Parco Archeologico: “Colloculi” di Annalaura di Luggo

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 19:57
Parco Archeologico di Pompei
COLLOCULI
di Annalaura di Luggo
Il 22 ottobre 2024, alle ore 17.00, presso le Terme del Foro del Parco Archeologico di Pompei (Piazza Esedra, ingresso pedonale) si terrà l’opening di Collòculi @Pompeii di Annalaura di Luggo, a cura di Antonello Tolve, con il patrocinio del MiC. Collòculi è un’installazione multimediale interattiva realizzata in alluminio riciclato, materiale simbolo di sostenibilità scelto dall’artista come metafora di rinnovamento. Scrive Antonello Tolve: “Con Collòculi, l’imponente occhio nato nel 2022 e oggi nel Parco Archeologico di Pompei, le istanze sociali e i dialoghi si intensificano, si rischiarano, aprono una breccia temporale tra un momento primario (performativo-laboratoriale) e un momento secondario (più strettamente fruitivo), dove lo spettatore, reso complice, è invitato a attivare l’apparato tecnologico, ad ascoltare una storia (un brusio, un battito), una voce corposa, a sentire l’odore nostalgico dell’umanità.” Collòculi – sottolinea Gabriele Perretta – deriva dalla fusione di due lemmi – collŏquĭum, (colloquio) e ŏcŭlus (occhio) – e nel combinare significato grammaticale e artistico, diventa forma circolare, assumendo come “geometria essenziale” e come “struttura concettuale di sostenibilità” il legame tra persona, opera ed ambiente.” La presenza di nell’area delle Terme del Foro pompeiane, riattualizza il concetto di socializzazione a cui il Collòculi luogo era adibito, amplificando la connessione tra passato e presente. Guardare all’interno di Collòculi, la cui pupilla trasmette il video interattivo “We Are Art”, significa “entrare” nell’opera (attraverso un sistema di telecamere gesture recognition) e confrontarsi con i mondi di quattro giovani che hanno affrontato sfide come il bullismo, l’alcolismo e la discriminazione: tematiche attuali a cui siamo tenuti ad offrire sostegno e risposte e che vedono il Parco Archeologico – diretto da Gabriel Zuchtriegel – in prima linea, attraverso una promozione culturale particolarmente attenta alle nuove generazioni e all’inclusività. Nei lavori di Annalaura di Luggo la forma è la concretizzazione della necessità di invadere e sfondare lo spazio, per accogliere non soltanto il proprio universo immaginifico ma anche per costituire un territorio di approdo, dove sviluppare una poetica in fieri, ovvero processi concettuali formalizzati nell’impiego di nuove tecnologie, verso cui l’artista è naturalmente sedotta. La realizzazione dell’opera ha visto la partecipazione di ragazzi con diverse abilità e con difficoltà di inserimento sociale, coinvolti dalla Onlus 3xTe grazie al sostegno di Intesa San Paolo Private Banking e Luca de Magistris Private Banker Fideuram che hanno inoltre promosso la fruizione accessibile attraverso un’audioguida per i non vedenti. Così, documentazione storica e innovazione costruttiva – nelle opere di Annalaura di Luggo – diventano forma di società, stimolando, nella diversità dei punti di vista, interessanti processi di reciprocità multidisciplinari spostando l’offerta tecnologica da una fredda concettualità verso esperimenti ed esperienze che hanno la loro unica ragione di esistere nella contaminazione e nella trasversalità, offrendosi come “archeologia” del sentimento. “A Pompei abbiamo 26 secoli di arte contemporanea – commenta Gabriel Zuchtriegel, direttore del sito – una storia nella quale possiamo ritrovare diverse declinazioni del tema dello sguardo verso gli altri che è al centro dell’opera di Annalaura di Luggo. Penso, per esempio, alle numerose raffigurazioni del mito di Narciso, che girano intorno alla negazione di quello sguardo, rappresentando l’uomo rapito dal fascino della propria immagine, rispecchiata nell’acqua… un potente monito per un’epoca che rischia di perdersi nello specchio dei social media e di una produzione sfrenata di immagini e selfie, mentre Collòculi ci invita a tornare nel presente e guardare l’altro negli occhi.” L’opera, accompagnata da un catalogo edito da Artem Edizioni con testi del curatore e di Gabriele Perretta, rimarrà aperta, secondo gli orari del Parco, fino al 4 maggio 2025.
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Mantova, Teatro Sociale: “Balance of Power” 21 novembre 2024

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 19:36

Mantova, Teatro Sociale
BALANCE OF POWER
produzione di Art Works Production – Antonio Gnecchi Ruscone
in collaborazione con Alveare Produzioni
distribuzione in Italia Sava’ Produzioni Creative
organizzata da Mister Wolf per la rassegna Mantova Live Theatre
Parsons Dance si prepara a travolgere nuovamente le platee italiane con la sua danza vibrante e radiosa che è un inno alla fantasia e alla vita. Il programma del nuovo tour, dal titolo Balance of Power, presenta una tappa a Mantova, organizzata da Mister Wolf per la rassegna Mantova Live Theatre. Fondata nel 1985 dal genio creativo dell’eclettico coreografo David Parsons e del lighting designer Howell BinkleyParsons Dance è una tra le poche compagnie che, oltre a essersi affermate sulla scena internazionale con successo sempre rinnovato, è riuscita a lasciare un segno nell’immaginario contemporaneo e a creare coreografie divenute veri e propri “cult” della danza mondiale. I loro spettacoli, sempre attesissimi, sono già andati in scena in più di 445 città, in 30 paesi nei cinque continenti e nei più importanti teatri e festival del mondo, fra cui The Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, Sydney Opera House, Maison de la Danse di Lione, Teatro La Fenice di Venezia e Teatro Municipal di Rio de Janeiro. Parsons Dance incarna alla perfezione la forza dirompente di un’arte carica di energia e positività, acrobatica e comunicativa al tempo stesso. È una danza solare che diverte in quanto espressione di gioia, capace di trasmettere emozioni tali da raggiungere un vasto pubblico. L’elevata preparazione atletica dei ballerini, guidata dalla maestria di David Parsons nel dare anima alla tecnica, è stata, sin dagli esordi, tra gli elementi distintivi della compagnia.  “L’arte è un potente strumento espressivo e di comunicazione. Il mio obiettivo è fornire a più persone l’opportunità di vivere le meraviglie della danza.” (David Parsons) Balance of Power, titolo di una coreografia che caratterizza il nuovo tour 2024, sottolinea l’importanza del potere dell’equilibrio, nella vita e sul palcoscenico. Tutte le creazioni di David Parsons – prima fra tutte l’iconica Caught (coreografia che Parsons creò per sé stesso nel 1982) – portano il segno di una straordinaria teatralità e di un lavoro fisico che si trasforma in virtuosismo e leggerezza. Fondamentale nella storia della compagnia il ruolo del pluripremiato lighting designer Howell Binkley (vincitore, tra gli altri, di un Tony Award per il musical di Broadway Hamilton) che, con la semplicità e l’efficacia delle soluzioni sceniche date dalla padronanza dell’utilizzo della luce, ha sempre esaltato le creazioni coreografiche di David Parsons. Il programma di Balance of Power – tour 2024 include sei pezzi coreografici – amati classici del repertorio di Parsons Dance e due novità – in un mix che valorizza l’intera compagnia e i suoi singoli elementi. Tra le pietre miliari del loro repertorio non poteva mancare la già citata Caught, definita dalla critica “una delle più grandi coreografie degli ultimi tempi”: un assolo mozzafiato, sulle note di Let The Power Fall di Robert Fripp, nel quale il danzatore sembra sospeso in aria grazie a un gioco di luci stroboscopiche. Un altro classico del programma è Takademe (1996), assolo creato da Robert Battle quando era ballerino della compagnia, che mescola umorismo e movimento acrobatico in una decostruzione accorta dei ritmi della danza indiana Kathak; forme chiare e salti propulsivi imitano le sillabe ritmiche vocalizzate della partitura sincopata di Sheila Chandra. Al centro del programma saranno presentati, per la prima volta in Europa, due nuove produzioni del 2024: Juke e The Shape of UsJuke, commissionato a Jamar Roberts, già ballerino dell’American Dance Theatre di Alvin Ailey e coreografo residente, è un omaggio a Spanish Key, tratto dall’album Bitches Brew (1970) del leggendario jazzista Miles Davis, e agli anni ‘70, con le forme psichedeliche che creano una cornice per far risaltare il talento dei singoli danzatori. Sempre intorno alla musica ruota The Shape of Us, l’ultima creazione di David Parsons: un viaggio dall’alienazione alla connessione con la musica del gruppo elettronico sperimentale Son Lux, guidato da Ryan Lott, che ha ricevuto una nomination all’Oscar per la colonna sonora del film premio Oscar 2023 Everything Everywhere All At Once. I ballerini si esplorano scoprendo la reciproca bellezza e i loro legami comunitari. Balance of Power, che dà il titolo al tour, è un recente assolo di David Parsons di grande successo. Creato nel 2020, in periodo di pandemia, in collaborazione con il compositore/percussionista italiano Giancarlo De Trizio, Balance of Power mette in luce l’intrigante equilibrio di potere tra musicista, danzatore e coreografo. Ogni movimento ha un suo corrispettivo sonoro ed è perfettamente accordato a uno specifico suono delle percussioni, dall’inizio in sordina fino al frenetico finale. Chiude il programma un lavoro di Parsons che mette in luce la sua affascinante visione artistica: Whirlaway, commissionato nel 2014 per celebrare Allen Toussaint, il fenomeno musicale di New Orleans. Sulle note che spaziano dal rock al blues, passando per tutta la gamma del jazz, la coreografia è un continuo alternarsi di assoli, passi a due, a quattro, a sei, a otto, con coppie che si rimescolano continuamente, come se si divertissero spensieratamente in una danza giocosa. David Parsons si dice più innamorato che mai dell’Italia: “La mia prima volta fu nell’89 e fu subito amore a prima vista. L’Italia ha cambiato la mia vita, mi ha dato potere ed energia”. Parsons Dance incarna il senso più genuino di una danza che punta dritto all’emozione e al desiderio nascosto di ogni spettatore di ballare, saltare e gioire insieme ai ballerini. Difficile non lasciarsi trasportare dalla leggerezza dei corpi, dal ritmo incalzante, dalla commistione di linguaggi, e dai colori caldi, sofisticati e profondi. I biglietti per l’appuntamento del 21 novembre al Teatro Sociale sono in vendita su TicketOne e presso il botteghino del teatro.

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Milano, fACTORy 32: “Casa di Bambola, Parte 2”

gbopera - Mar, 22/10/2024 - 19:26

Milano, fACTORy 32, Stagione 2024/25
“CASA DI BAMBOLA, PARTE 2”
di Lucas Hnath
Nora ALICE MISTRONI
Torvald SIMONE LEONARDI
Anne Marie ANTONIA DI FRANCESCO
Emmy ERICA SANI
Traduzione e regia Claudio Zanelli
Nuova produzione CDM
Milano, 19 ottobre 2024
FACTORy 32, probabilmente la più interessante proposta off del teatro milanese, ha inaugurato la nuova stagione con un testo inedito in Italia, recentissimo, di produzione americana, ma, per evidenti motivi, molto legato alla grande drammaturgia europea: “Casa di bambola, parte 2“, scritto dal giovane drammaturgo statunitense Lucas Hnath, che nel 2017 è stata candidata a otto Tony Award, vincendo quello per Miglior Interpretazione di un’Attrice in un Ruolo da Protagonista. È davvero raro trovare sui palcoscenici italiani testi tanto recenti, che ci aiutano a comprendere la temperie culturale della drammaturgia globale, e ad uscire dal nostro orticello, talvolta decisamente provinciale; inoltre, l’idea di un sequel del celeberrimo dramma di Ibsen “Casa di Bambola“, è stimolante, vuoi per il valore ideologico che questo dramma ha incarnato da sempre, vuoi per il fatto che, in effetti, il suo è un finale aperto, con Nora che lascia la casa di suo marito e dei suoi figli per un futuro nebuloso, ma nel quale potrà sentirsi libera. L’idea di Hnath riparte proprio da qui: dopo quindici anni, Nora bussa di nuovo a quella porta, perché ha da chiedere un favore al suo ex marito Torvald, che, dal canto suo, non ha mai depositato i documenti del divorzio; Nora, per questo, potrebbe essere perseguita per vari capi d’accusa, ma, soprattutto, questo potrebbe minare la sua nuova credibilità di autrice femminista apertamente contro l’istituzione matrimoniale. Il testo, da un punto di vista drammaturgico, funziona alla perfezione: nell’arco di un pomeriggio, Nora dovrà confrontarsi con la sua vecchia governante, rimasta al servizio degli Elmer, con suo marito, e, inaspettatamente, con la sua figlia diciottenne, Emmy, che nemmeno la ricorda – ne seguiranno, come previsto, molte scene ad alta tensione, ma anche altre cariche di sarcasmo, che strappano più di una risata – fino al dialogo finale, che, vivaddio, trova una nuova Nora, più consapevole, meno legata a certi dogmi femministi, ma comunque pronta ad uscire di nuovo da quella porta. La produzione italiana di questo testo è affidata alla Compagnia del Musical, ossia la compagnia di attori che è uscita dalla Scuola del Musical di Milano, sebbene questo testo non possegga nemmeno una musica: questa ai nostri occhi è un’anomalia, giacché un testo simile, che si rifà a un tale capolavoro, avrebbe dovuto essere attenzionato da compagnie ben più importanti, con risorse maggiori, e, detto francamente, anche con un novero di talenti maggiormente accreditati. In ogni caso, sebbene la produzione sia davvero low budget, quasi tutto il cast ha saputo essere pienamente all’altezza: Alice Mistroni è una Nora molto convincente, dotata di una fisicità e una vocalità piacevolissime, ma soprattutto consapevole di tutti i colori che il suo personaggio deve mostrare, da quelli più cupi, rabbiosi, introspettivi, a quelli più leggeri, scherzosi, quasi frivoli; la sensazione che si ha è che Mistroni sia più a suo agio proprio con questi momenti di leggerezza che con quelli di profonda amarezza, ma in generale ci offre una performance davvero ad alto livello; anche la prova di Antonia Di Francesco nei panni della governante Anne Marie è convincente, forse soltanto un filo troppo versata sul lato buffo: a un certo punto la governante si rivolta contro il pensiero rivoluzionario di Nora, con un’imprecazione volgare molto forte, e il pubblico ride, non capendo davvero cosa implica per il personaggio una simile parolaccia rivolta a quella che era non solo la sua padrona, ma anche la sua bambina; in ogni caso anche Di Francesco è perfettamente a suo agio nel ruolo, sia sul piano vocale che su quello scenico, ed è chiaro che si tratti di un’interprete con molte esperienze scenice di estrazione molto variegata. Tuttavia, è la performance di Simone Leonardi, nei panni di Torvald, quella più impressionante: la voce baritonale, lievemente graffiata, la naturale eleganza del gesto, lo sguardo profondo dell’interprete, sanno rendere un Torvald per niente antipatico o ottuso, ma ci offrono un uomo spezzato, ancora dopo quindici anni, un marito che apparentemente non ha saputo andare avanti, un padre approssimativo, un essere umano svuotato dalla dipartita dell’adorata moglie; eppure, durante lo spettacolo, è proprio questo il personaggio che sa evolvere di più, e Leonardi ci accompagna passo passo sul percorso di redenzione, questa volta del marito, e non della moglie. L’interprete meno convincente della produzione, invece, è senza dubbio Erica Sani, nei panni della figlia Emmy, a causa in primis di una vocalità non piacevole, oltre che di un lavoro sul personaggio che si mantiene sempre superficiale: non ci convince una parola di quello che dice, capiamo da subito come si evolverà la scena con la madre; Sani forse non ha avuto modo di costruire a tutto tondo questo personaggio, che, a sua volta, gode di un’unica scena di confronto. Claudio Zanelli, regista e traduttore, ha fatto senz’altro un buon lavoro, con alcuni limiti: la regia è molto tradizionale, ma funziona bene, pur mancando di qualche guizzo più perturbante; sulla traduzione, invece, abbiamo alcuni dubbi: il linguaggio della recita è molto contemporaneo, e questo porta a una recitazione altrettanto contemporanea; non che ciò sia di per sé un male, ma, considerata la ricostruzione storica delle scene e dei costumi, e anche il precedente letterario, ci saremmo aspettati una lingua più ricercata, una recitazione giusto un filo più manierata, tradizionale, insomma, più “teatrale“ e meno da serie TV. Tuttavia, non avendo noi avuto il piacere di leggere il testo originale, può anche essere che Lucas Hnath abbia pensato a questo tipo di registro linguistico, in contrasto con la messa in scena, e che quindi Zanelli si sia giustamente limitato a rispettare l’intenzione del drammaturgo – cosa che, trattandosi di una prima nazionale, è sempre consigliabile: tanto, considerata la grande qualità di questo testo, di sicuro presto vedremo regie anche più “sperimentali” applicarsi ad esso. Foto Riccardo Italiano

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