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Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: Hervé Niquet e i solisti dell’Opéra Royal de Versailles

gbopera - Lun, 09/12/2024 - 10:00

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Hervé Niquet
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Soprano Sarah Charles*
Mezzosoprano Flore Royer*
Tenori Léo Guillou Keredan, Attila Varga-Tóth*
Baritono Halidou Nombre*
Solisti dell’Opéra Royal de Versailles*
Antoine Dauvergne:Persée”: ouverture e danze; Étienne Nicolas Méhul Sinfonia n.1 in sol minore; Marc-Antoine Charpentier:Te Deum in re maggiore h.146
Venezia, 6 dicembre 2024
Una soirée interamente francese ha inaugurato la nuova stagione sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice: una stagione che si annuncia particolarmente doviziosa, all’insegna della grande musica. Il programma del concerto intendeva indagare un periodo della storia musicale di Francia estremamente interessante e – crediamo – non molto frequentato: una fase di passaggio alquanto tormentata, in cui i fasti del passato cedono gradatamente ai sempre più dilaganti fremiti rivoluzionari. Sul podio Hervé Niquet, direttore tra i più esperti nel repertorio francese tra Seicento e Settecento, oltre che clavicembalista e fondatore, nel 1987, del Concert spirituel, un ensemble di riferimento nell’interpretazione del repertorio barocco, di cui esegue opere sconosciute o poco conosciute di autori francesi, inglesi e italiani di quell’epoca. Tre i brani prescelti per la serata di cui ci occupiamo: Persée: ouverture e danze di Antoine Dauvergne, Sinfonia n.1 in sol minore di Étienne Nicolas Méhul, Te Deum in re maggiore h.146 di Marc-Antoine Charpentier. Autore di numerose tragédies lyriques, sul modello di Jean-Baptiste Lully, Antoine Dauvergne viene incaricato di revisionare, insieme ad altri compositori, il Persée dello stesso Lully, in vista della sua rappresentazione, presso la reggia di Versailles, per celebrare le nozze del Delfino, il futuro Luigi XVI, con Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena: Dauvergne riscrisse l’Ouverture, ritoccò l’atto primo, il quarto e le danze. Ma rapidamente questo rifacimento – dopo due sole rappresentazioni nel maggio del 1770: il 17, giorno delle nozze, e il 26 – cadde nell’oblio. A Hervé Niquet va il merito della riscoperta di questi brani rimaneggiati da Dauvergne, già incisi in un disco e proposti a inizio di serata. La cifra distintiva dell’interpretazione offerta da Hervé Niquet può essere l’esuberante dinamismo, la concitata tensione con cui ha guidato, con mano sicura ed enfatica gestualità, l’orchestra, sempre partecipe e scattante: assolutamente coinvolgente l’Ouverture (Fièrement, sans lenteur, puis Allegro) nella tonalità luminosa di do maggiore, al pari delle pompose danze che chiudono il quarto atto: la Chaconne in mi minore e la successiva Chaconne a 2 tems nel relativo maggiore. Anche Étienne Nicolas Méhul – considerato il padre francese della Sinfonia – è un autore pressoché dimenticato, per quanto abbia composto un gran numero di opere, balletti, pagine vocali – spesso dal forte carattere rivoluzionario, ispirate da Napoleone – e quattro sinfonie più una quinta incompiuta. Tali partiture, che guardano alla formidabile triade Haydn-Mozart-Beethoven, rappresentarono un modello per i compositori romantici francesi. Composta tra il 1808 e il 1809, la Sinfonia n.1 in sol minore – la stessa tonalità della Sinfonia KV 550 di Mozart – rivela altri insigni apparentamenti. Al dinamismo e all’estroversione, già notati nell’esecuzione del primo brano, si è unita in quella del secondo un tocco leggero e talora garbatamente ironico: nel primo movimento, Allegro, che con la sua forma-sonata elegante e rigorosa guarda ad Haydn; nel secondo, Andante, dove l’influenza haydniana assume un sapore parigino, come testimonia il disegno di brevi figurazioni dal tono galante, che dà origine ad eleganti variazioni affidate ora ai fiati e ora agli archi, con un progressivo crescendo di virtuosité; nel terzo, Allegro moderato, uno Scherzo caratterizzato dall’uso originale dei pizzicati, che si richiama a Beethoven; nell’Allegro agitato conclusivo in cui, come a suo tempo notò Schumann, è evidente la somiglianza tra la cellula che lo attraversa e il famoso motto del destino che bussa alla porta, nella beethoveniana Quinta sinfonia, pressoché contemporanea alla Prima di Méhul, avendo debuttato a Vienna nel dicembre 1808. Alla scuola di Giacomo Carissimi, il maestro della controriforma, si formò Marc-Antoine Charpentier. ‘Musicien italianisant’ lo definivano con sufficienza i colleghi, che mai avrebbero immaginato la straordinaria fortuna del suo Te Deum h. 146 – tra l’altro, noto a molti in quanto il refrain del Rondeau iniziale fu assunto come sigla dell’Eurovisione – nel quale a brani sontuosi, eseguiti dal coro e dall’orchestra, si alternano episodi più raccolti, in cui intervengono i solisti e pochi altri strumenti. Qui si sono segnalati, in generale, positivamente il Coro, istruito dal maestro Caiani, e i solisti dell’Opéra Royal de Versailles: il soprano Sarah Charles, il mezzosoprano Flore Royer, i tenori Léo Guillou Keredent e Attila Varga-Tóth, il baritono Halidou Nombre. Dopo il trionfale preludio, dove si è apprezzato il suono lussureggiante dell’orchestra e delle trombe barocche, è intervenuto – forse con qualche sfocatura nell’intonazione, poi superata – il baritono (“Te Deum laudamus”) in uno stile prevalentemente declamatorio. Gli ha risposto il coro, solenne nel “Te aeternum Patrem omnis terra veneratur”, marziale in “Pleni sunt coeli”. Poi tenore, contralto e baritono (“Te per orbem terrarum sancta confitetur Ecclesia”) hanno introdotto un tono più raccolto, prima che il coro innalzasse la sua struggente invocazione per la salvezza dei credenti (“Tu devicto mortis aculeo”) seguita dall’inno “Tu ad dexteram Dei”, che è sfociato nello “Judex crederis” con l’intervento ancora declamatorio del baritono. Un’atmosfera di intensa tenerezza e di supplica ha evocato, con “Te ergo quaesumus”, il soprano accompagnato da due flauti, cui ha risposto il coro con una solenne invocazione (“Aeterna fac”). Un tono supplichevole ha caratterizzato anche il successivo “Dignare Domine”, dove i solisti hanno implorato la pietà e la grazia di Dio. Nella conclusione, affidata alla magniloquenza di “In Te, Domine, speravi”, coro e solisti si sono validamente alternati in una pagina, anche contrappuntistica, dal tono maestoso, affermazione conclusiva della grandezza e potenza di Dio, costruendo insieme all’orchestra una fastosa conclusione. Successo pieno e caloroso.

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Roma, Nuovo Teatro Ateneo: ” The body in revolt. A Glimpse in the creative work of Emio Greco” unica data 19 dicembre 2024

gbopera - Dom, 08/12/2024 - 22:17

Roma, Nuovo Teatro Ateneo
“THE BODY IN REVOLT.
A GLIMPSE IN THE CREATIVE WORK OF EMIO GRECO”
Giovedì 19 dicembre alle ore 21 al Nuovo Teatro Ateneo si terrà una lezione aperta con Emio Greco e Pieter C. Scholten, i direttori artistici di ICK Dans Amsterdam, una piattaforma per la danza contemporanea che si avvale del contributo dei migliori coreografi internazionali e di promettenti nuovi creatori. Durante l’evento a cura del Professore Ordinario di Storia della Danza dell’Università La Sapienza Vito Di Bernardi, i due artisti condurranno un’esplorazione del corpo attraverso il sistema Double Skin/Double Mind e l’analisi di alcune voci dei Pre-Choreographic Elements, che porteranno a rivisitare il loro repertorio.  Da oltre 25 anni Greco e Scholten lavorano su un nuovo linguaggio di danza e un nuovo approccio al corpo, i cui principi guida sono il “corpo in rivolta” e la triade “spettacolo, corpo e miracolo”. Nel 2021 hanno ricevuto il Golden Swan, conferito dal ministro van Engelshoven, in riconoscimento del loro grande contributo alla danza olandese. In realtà, tuttavia, ICK è nato da uno scontro. Nel 1995, i due si sono incontrati in uno studio di danza ad Amsterdam. C’erano grandi differenze tra l’italiano e l’olandese, il ballerino e il direttore, il protestante e il comunista. Anche differenze di opinione su cosa sia e cosa potrebbe essere la danza. Ma c’era anche un forte sentimento comune. Entrambi stavano sperimentato una lacuna nel panorama della danza dell’epoca. Oltre al corpo virtuoso da una parte e al corpo concettuale dall’altra, mancava il corpo intuitivo, ovvero un corpo naturalmente capace di generare significati dall’interno. Greco e Scholten hanno sentito la necessità di sviluppare un nuovo vocabolario di danza in cui ci fosse spazio per la vulnerabilità e gli impulsi del corpo. Nel 1996 Greco e Scholten hanno dunque scritto il loro manifesto artistico, gettando le basi per un vocabolario di danza che risalisse alle necessità interiori del corpo danzante. Esso deriva da una consapevolezza del tempo e dello spazio, immagazzinata nella memoria del corpo. Tale manifesto è diventato la base per la fondazione di ICK nel 2009. La compagnia è tuttora in continua evoluzione ed a volte controcorrente. Con un dipartimento di ricerca e formazione, l’International Choreographic Arts Centre, ICK è molto più di un semplice collettivo danzante.  Qui ci si interroga su di un corpo innovativo e sociale, sensibile ai cambiamenti sociali come la globalizzazione, la digitalizzazione e la frammentazione. ICK usa il corpo come una finestra sul mondo. Attraverso il tema del Corpo in Rivolta, i coreografi, i danzatori e i ricercatori collegati a ICK creano nuove connessioni tra loro, con se stessi (il proprio corpo) e con la società (altri corpi). Greco e Scholten hanno chiarito i tre fattori sono necessari per ICK in una performance. Il primo è lo Spettacolo, ovvero il tumulto e il disturbo. È la crepa nella tela, l’inclinazione alla performance, la ribellione, lo stimolo per il cervello. Il secondo è il Corpo, ovvero il quadro di riferimento per dare un senso alla danza. È il termine generico per un’indagine artistica su tutti i possibili significati che un corpo può avere. Infine il Miracolo, ovvero ciò che non può essere afferrato, la rivelazione, il mistico, la bellezza pura. Double Skin/Double Mind (DS/DM) è il metodo di danza utilizzato da Emio Greco e Pieter C. Scholten per scoprire la logica e il linguaggio del corpo attraverso i principi di base di Respirazione, Salto, Espansione e Riduzione. Tale metodo è adoperato dai due artisti sia per preparare il corpo alla danza alimentandolo grazie al pensiero e all’immaginazione, sia per modellare il materiale coreografico con cui realizzano tutte le loro performances. Esso costituisce dunque la base dell’improvvisazione coreografica e si situa in un campo aperto di intervento e manipolazione, dove non si inseguono regole fisse. Attraverso il metodo Double Skin/Double Mind la consapevolezza fisica si unisce alla consapevolezza mentale, l’intenzione alla forma. Esso è stato creato nel 1997, quando a Greco e Scholten è stato chiesto di tenere un workshop durante l’International Tanzwochen di Vienna. La richiesta ha sollevato domande cruciali. Qual era l’essenza del loro lavoro coreografico? Cos’era un workshop? E come si trasferiva un linguaggio di danza basato sull’intuizione ad altri? Adesso Double Skin/Double Mind è insegnato in tutto il mondo, ed è utile non solo per studenti di danza e ballerini amatoriali ma anche per bambini in età scolare, così come per manager e dipendenti nel mondo degli affari. Esso è stato inoltre una fonte per importanti progetti di ricerca con partner nazionali e internazionali, come Capturing Intention (2009), Inside Movement Knowledge (2010) e Choreographic Coding Labs (2017). Al pubblico romano i due coreografi presenteranno inoltre il loro lavoro sugli “elementi pre-coreografici”, riguardanti appunto la fase preliminare del loro processo. Si tratta di idee, metafore e immagini che guidano le intenzioni dietro il movimento. Gli “elementi pre-coreografici” sono anche il punto di partenza nella formazione degli insegnanti DS/DM. Il lavoro su di essi è stato coordinato fino al 2014 dalla ricercatrice di danza Bertha Bermúdez, postasi l’intento di catturare e trasferire il suono interiore del movimento nelle parole. Lo ha fatto in linea con precedenti progetti di ricerca sulla notazione della danza, la documentazione e il trasferimento di conoscenze. L’obiettivo era sviluppare un glossario online interattivo che fungesse da fonte di ispirazione per nuovi movimenti. Durante la ricerca, sono stati esaminati insieme a vari partner la terminologia, le forme di rappresentazione e l’uso di media interattivi.

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Roma, Teatro Vascello: “Il giardino dei ciliegi”

gbopera - Dom, 08/12/2024 - 12:02

Roma, Teatro Vascello
IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o.a.): Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Roma, 03 dicembre 2024
Ultima opera di Anton Čechov, Il Giardino dei Ciliegi, definita dall’autore una commedia, nonostante affronti temi drammatici. La vicenda ruota attorno alla famiglia Ranevskij, costretta a vendere la storica proprietà di famiglia, inclusi i celebri ciliegi, per evitare la rovina economica. Simbolo di un mondo in declino, il giardino rappresenta l’incapacità di adattarsi ai cambiamenti e il conflitto tra tradizione e modernità, in una Russia alle soglie di grandi trasformazioni sociali. I personaggi, sospesi tra nostalgia e speranze, incarnano il dramma di chi vive una svolta storica ed esistenziale. Leonardo Lidi firma una regia che, pur rispettando la struttura drammaturgica e il tono farsesco indicato da Čechov, propone una lettura moderna e audace. Il giardino diventa una metafora del teatro stesso: uno spazio fragile, magico e incerto, che invita a riflettere sulle tensioni tra presente e futuro. Gli attori, in particolare, rivolgono spesso lo sguardo verso il pubblico quando si parla del giardino, come a includerlo nell’essenza stessa della scena. Lidi sposta l’attenzione dalla nostalgia per la perdita alla tensione verso un futuro sconosciuto, ponendo lo spettatore davanti a più domande che risposte. La scelta di accelerare i ritmi e accentuare i tratti caricaturali sottolinea l’assurdità dei personaggi, ma rischia talvolta di sacrificare la delicatezza poetica dell’opera originale. La regia accentua l’umorismo intrinseco del testo, richiamando l’ironia pirandelliana, dove il comico non è mai fine a sé stesso ma svela il paradosso della condizione umana, strappando un sorriso che si accompagna a una riflessione malinconica. L’adattamento introduce modifiche significative, come la trasformazione del personaggio di Gaiev, fratello di Ljuba, in una sorella, e l’interpretazione della governante Charlotta affidata a un attore in abiti femminili. Quest’ultimo, grazie a un uso sapiente dell’espressività facciale, dona leggerezza e comicità, pur rimanendo coerente con l’atmosfera malinconica dell’opera. La scenografia di Nicolas Bovey trasforma il palcoscenico in uno spazio simbolico. Un soffitto mobile domina la scena, mutandone costantemente il significato: inclinato, evoca un cielo opprimente; sollevato, diventa una riva scoscesa; abbassato, invita alla riflessione o all’abbandono. Al di sotto, sedie in plastica bianca rovesciate e teli trasparenti creano un ambiente sospeso tra realtà e incubo, dove il giardino non è mai rappresentato direttamente, diventa un luogo della memoria. Questa matericità amplifica il senso di declino e disorientamento, talvolta orienta la percezione dello spettatore, lasciando meno spazio alla suggestione. I costumi, di Aurora Damanti, oscillano tra grottesco, contemporaneo, vintage. La nuova borghesia veste “vintage”. Alcuni abiti volutamente esagerati enfatizzano la decadenza della famiglia Ranevskij, mentre altri, con richiami a epoche più recenti, creano un cortocircuito temporale che sottolinea l’attualità delle tematiche cechoviane. La fusione con elementi della pop culture contribuisce a un’atmosfera di spaesamento, in perfetta sintonia con l’incertezza che permea lo spettacolo. Le musiche di Franco Visioli, efficaci nel creare un’atmosfera contemporanea, anche se non sempre ho percepito una integrazione con la narrazione. Particolarmente suggestiva l’apertura, con Ritornerai di Bruno Lauzi, un brano che introduce un senso di nostalgia e malinconia, legando passato e presente in modo sottile, che lega pubblico e scena in modo incisivo. Il cast offre interpretazioni solide. Francesca Mazza e Orietta Notari si distinguono per la capacità di alternare leggerezza e profondità, mentre Mario Pirrello, nel ruolo di Lopachin, restituisce con intensità il conflitto di un uomo che cerca di emanciparsi dal proprio passato senza mai liberarsene del tutto. Christian La Rosa porta freschezza e ironia al personaggio di Trofimov, senza sminuirne la portata filosofica. Molti sono i cambi di tono degli attori, rapidi; anche questo spesso fa sì che repentinamente si cambia registro emozionale, immersi in un continuo gioco tra il riso e la riflessione. Il Giardino dei Ciliegi, diretto da Leonardo Lidi, si distingue per una lettura audace e ricca di spunti, capace di mescolare ironia e malinconia in un equilibrio che talvolta sfiora l’eccesso. L’opera invita a riflettere sul presente, filtrato attraverso la lente della classicità, esplorando con coraggio l’umorismo e l’assurdità della condizione umana. Uno spettacolo ambizioso e denso, che pone la stessa domanda che risuona in scena: Ieri a teatro ho riso tanto. Hai riso o forse dovevi riflettere? Photocredit @Gianluca Pantaleo

 

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Giovanni Battista Casali: “Sacred Music from Eigteenth Century Rome”

gbopera - Dom, 08/12/2024 - 10:58

Giovanni Battista Casali: Confitebor tibi, Domine; Comedetis carnes; Adiuva nos, Deus; Improperium expectavit*; Tantum ergo; Christum regem adoremus; Ad te levavi; Ave Maria a4; Exaltabo te; Hodie nobis de caelo; Quem vidistis pastores; Constitues eos; Ave Maria a8; Justus ut palma; Scapulis suis; Caro mea, vere est cibus; Haec dies; Memoriam fecit (Confitebor in D); Gloria Patri (Confitebor in D). Costanzi Consort. Peter Leech (direttore). Registrazione: 17-18 e 24-25 settembre 2022 presso All Saints’ Church, Weston-super-Mare, Somerset. T. Time:  54′ 30″  1CD TOCC 0429

Sono piuttosto scarse le notizie  riguardanti la vita di Giovanni Battista Casali di cui si sa che nacque a Roma intorno al 1715 e che, secondo quanto affermato da Howard Brofsky, avrebbe studiato con Giovanni Battista Martini, dal momento che il compositore aveva superato l’esame di ammissione presso la prestigiosa Accademia Filarmonica di Bologna nel 1740. Divenuto nello stesso anno  coadiutore di Girolamo Chiti in San Giovanni in Laterano, Casali, per decenni, lavorò come clavicembalista, organista e direttore musicale in più di 20 chiese. A Roma fu sicuramente membro dell’Accademia di Santa Cecilia, qualifica indispensabile per chiunque volesse svolgere la professione del musicista nella città dei Papi, come del resto stabilito da un decreto del 1716 di Papa Clemente XI,  ma dovette subire una cocente delusione quando nel 1749 i canonici di San Pietro, dovendo nominare un coadiutore per il vecchio e malato Bencini, gli preferirono Jommelliì, noto autore di opere, in polemica con i cardinali Annibale Albani e Domenico Passionei che avevano bocciato la loro prima scelta che era ricaduta su Casali.

Non ebbe miglior sorte, quando nel 1754 si candidò per sostituire Jommelli che aveva comunicato ai canonici la sua intenzione di lasciare la Cappella Giulia, in quanto gli fu preferito Costanzi, nonostante il parere a lui favorevole del cardinale Neri Corsini, arciprete in San Giovanni in Laterano. Casali riuscì, allora, a conquistare, grazie anche a una lettera di sostegno di Papa Benedetto XIV, il posto lasciato libero da Costanzi alla Chiesa Nuova e nel frattempo, alla morte di Chiti, avvenuta nel 1759, gli successe nella stessa carica in San Giovanni in Laterano. Mantenne questi due incarichi, insieme a un terzo, sempre di maestro di Cappella presso la Chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi ottenuto nel 1778, fino alla morte che lo colse il 6 luglio 1792. Si sa anche che fu autore di opere teatrali delle quali si conoscono i titoli (La ZoeCandaspeLa costanza vincitrice), ma non le partiture che non ci sono state tramandate. La sua produzione più importante resta, quindi, quella sacra, della quale, in questa proposta discografica della Toccata Classics, è proposta una ricca e varia antologia sia dal punto di vista stilistico sia dal quello delle formazioni musicali, in quanto si va, infatti, da brani per coro a cappella, ad altri per voce solista, come il Tantum ergo, e organo. Nei brani corali si nota la grande perizia contrappuntistica di Casali, che, comunque, in tutti questi lavori mostra una grande capacità nello scrivere una musica che descriva perfettamente i sentimenti espressi nel testo. Si va, quindi, dal solare Confitebor tibi, Domine al carattere scuro di pagine come il Comedetis carnes. Ottima l’esecuzione da parte del Costanzi Consort, diretto da Peter Leech. Gli artisti  mostrano, infatti, una solida professionalità e un grande senso dello stile dando vita ad un’incisione di un certo interesse che ha il merito di tirare fuori dall’oblio una produzione che, altrimenti, sarebbe rimasta negli archivi.

 

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Napoli, Teatro Bellini: “Cose che so essere vere”

gbopera - Dom, 08/12/2024 - 10:44

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“COSE CHE SO ESSERE VERE”
(Things I Know to Be True)
Spettacolo di Andrew Bovell
Traduzione Micol Jalla
Fran Price GIULIANA DE SIO
Bob Price VALERIO BINASCO
Ben Price FABRIZIO COSTELLA
Mark/Mia Price GIOVANNI DRAGO
Rosie Price GIORDANA FAGGIANO
Pip Price STEFANIA MEDRI
Regia Valerio Binasco
Scene e Luci Nicolas Bovey
Costumi Alessio Rosati
Suono Filippo Conti
Video e Pittura Simone Rosset
Assistenti Regia Fiammetta Bellone, Eleonora Bentivoglio 
Assistente Scene Francesca Sgariboldi 
Assistente Costumi Rosa Mariotti 
Tirocinante dell’Università di Torino/D.A.M.S. Beatrice Petrella 
Tirocinante dell’Accademia Teatro alla Scala Marina Basso
Produzione Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
Napoli, 5 dicembre 2024
Cose che so essere vere è un dramma familiare che le donne e gli uomini cominciarono tanto tempo fa. Un dramma inafferrabile, perché fatalmente destinato a terminare mai. Non è il dramma d’una famiglia, ma IL dramma della Famiglia. Napoletane, americane, australiane… le famiglie sono tutte «uguali», da sempre. Forse, una volta per tutte, dovremmo fare i conti con l’irrimediabile disgregazione di ciò che ci ostiniamo ancora infantilmente a definire «famiglia», ancora osservata come un corpo strutturalmente «unitario» e non come un idealistico e astratto «agglomerato» di fatti, persone e di storie dal carattere inevitabilmente «individualistico». La frantumazione o, meglio, la «frammentazione» familiare può anche assumere contorni estremamente drammatici, fatalmente «irrisolvibili» e dunque accettabili, paradossalmente, soltanto assumendo un inconscio atteggiamento nichilistico – evitando così, anche soltanto momentaneamente, uno scontro traumatico con l’effettiva realtà. La pièce drammatica di Andrew Bovell, nell’efficace traduzione di Micol Jalla, appare come un’indagine sociologica su un nucleo familiare australiano; un’analisi dal tono stilisticamente narrativo e «naturalistico»; una scrittura vivace e brillante, organizzata entro una struttura formalmente «ciclica», che si apre con una scena che sarà, poi, quella finale. Il carattere «illustrativo» emerge prepotentemente, tanto da poter definire quest’opera come «summa» definitiva, un’operazione «riassuntiva» della «storia teatrale» della disgregazione familiare, la cui cristallizzazione in termini teatrali è avvenuta, nel corso del tempo, attraverso tòpoi e leitmotiv narrativi – attraverso, dunque, una reiterazione di elementi tematici e letterari: come la traumatica frattura nel rapporto padre-figlio o come il tema del padre costretto dall’invivibilità del nucleo familiare in una condizione regressiva drammaticamente infantile. Motivi strutturali e narrativi che, per esempio, troviamo in varie tragicommedie di Eduardo De Filippo – come Natale in casa Cupiello (1931) o Gennareniello (1932), determinate contenutisticamente proprio dall’elemento ricorrente della disgregazione e della frammentazione familiare. Se Luca Cupiello trova nella costruzione del presepe una via di fuga dalla realtà, Bob Price, nell’opera di Bovell, riesce a trovarla nel giardinaggio. Il giardino, entro cui accadono i fatti familiari, rappresenta un mondo «altro», uno spazio dall’impostazione potentemente realistica, ma caratterizzato da un’atmosfera onirica e sognante, determinata dai fondali-video di Simone Rosset e dalle suggestioni sonore di Filippo Conti. Il carattere frammentario della pedana roteante, un po’ cucina e un po’ giardino, ideata e nitidamente illuminata da Nicolas Bovey, rinvia e allude, sia pure in modo estremamente poetico, alla drammatica frammentazione delle personalità dei personaggi. Un’impostazione notevolmente variegata determina anche la regia, a cura di Valerio Binasco – che, attraverso un racconto scenico estremamente lucido ed essenziale, espone analiticamente le vicende della famiglia Price, e ciò accade anche attraverso il linguaggio gestuale, concreto e realistico, dei personaggi: un padre, frammentato in momenti di grazia e in momenti di traumatica disperazione; una madre, colei che regge effettivamente l’intero gruppo familiare, vittima di sogni erotici tragicamente soffocati, ma risolti attraverso scatti d’ira; i figli, figure dal carattere «rivoluzionario», che riescono a introdurre, nel quadro sociale e familiare, le loro «diversità» – integrate dunque al «dato maggioritario», per dirla col filosofo Gilles Deleuze. Estremamente notevole, dunque, la prova interpretativa degli attori: Giuliana De Sio (Fran Price) offre un ritratto intimistico della moglie-madre – fortunatamente scevro, anche nei momenti d’ira, di effettistici elementi interpretativi; adopera, dunque, la voce come uno strumento, governando e utilizzando teatralmente non soltanto le pause e la ricchezza acustica e linguistica del testo, ma anche la variegata «tavolozza timbrica» che consente all’attrice di donare al personaggio una personalità estremamente complessa. Valerio Binasco (Bob Price), invece, garantisce al padre-marito un atteggiamento sognante, commovente, intriso d’una carica affettiva che determina la freschezza realistica del linguaggio, scisso in: stabilità espressiva, quando il personaggio è costretto a fare i conti con l’effettiva realtà; disperazione emotiva, nei vari scontri col figlio «ribelle», Ben; amara introspezione sentimentale, quando Bob tenta di scappare, attraverso l’escamotage del giardinaggio, dall’invivibile realtà. Stefania Medri (Pip Price), Giovanni Drago (Mark/Mia Price), Fabrizio Costella (Ben Price), Giordana Faggiano (Rosie Price) danno voce e corpo, invece, alle figlie e ai figli della coppia. Medri risolve scenicamente la parte conferendo a Pip un temperamento degno d’una figlia costretta in un irrisolvibile stato di disperazione, determinato dall’ira materna; Drago, invece, garantisce spessore psicologico al personaggio, che porta con sé il tema dell’identità di genere, appropriatamente affrontato, tra tormenti e sentimenti di speranza; Costella offre un ritratto del suo Ben intriso di sentimenti contrastanti, risolti con infuocata interpretazione di figlio «ribelle», scisso in amore inespresso per la figura paterna e in amore ossessivo per la figura materna; Faggiano, invece, offre al suo personaggio, Rosie, un nostalgico sentimentalismo di viaggiatrice, carico di una malinconica amarezza, che emerge quando deve allontanarsi dal nucleo familiare. Attori, peraltro, tutti avvolti in costumi realisticamente appropriati, ideati da Alessio Rosati. L’opera termina tra gli applausi calorosi d’un pubblico particolarmente attento. © Photo Virginia Mingolla

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“Carlo Bini. Il mio canto per il cielo”

gbopera - Dom, 08/12/2024 - 10:33

Di Nina Ferrari
Editore: Fede & Cultura – Collana Narrativa 76
Pagine: 144
ISBN 9791254781753
Prezzo: € 18
Il tenore Carlo Bini (1937-2021) si è esibito sui principali palcoscenici della lirica mondiale e, nonostante una carriera importante e il suo contributo alla diffusione della cultura italiana, oggi è inspiegabilmente poco conosciuto. Dal  6 dicembre un’agile ma profonda intervista biografica permette di riscoprire il suo nome e la sua bellissima storia di emancipazione.
Carlo Bini. Il mio canto per il cielo racconta la vita straordinaria del tenore Carlo Bini, un talento italiano nato dal nulla, destinato alla strada, che contro ogni previsione ha finito per conquistare i palcoscenici più prestigiosi del mondo e l’ammirazione del pubblico internazionale. Il libro, edito da
Fede & Cultura, è il frutto di un dialogo profondo tra Bini e la biografa Nina Ferrari e tocca temi universali come la fede, l’amore, la morte e la ricerca della bellezza.
Il libro rivela una pagina finora poco nota della storia culturale italiana, ma che merita di essere conosciuta e assaporata. Racconta anche un incredibile esempio di emancipazione: figlio di un umile pescivendolo campano, Bini intraprende un percorso di studi non convenzionale trovando un maestro
privato grazie a cui debutta nell’operetta. Passa poi alla lirica divenendo un fenomeno internazionale quando sostituisce all’ultimo minuto Pavarotti, che nel 1971 è già famosissimo. Il successo planetario lo porta a cantare al fianco di artiste come Montserrat Caballé, Gwyneth Jones e Ghena Dimitrova e  diretto da Maestri del calibro di Carlos Kleiber, Claudio Abbado e Riccardo Muti. Tra gli anni Settanta e Novanta Bini si esibisce nei maggiori teatri d’opera internazionali, dalla Scala di Milano, il Metropolitan di New York, l’Opéra di Parigi, il Covent Garden di Londra, ecc.  in un vasto repertorio operistico (La Bohème, Madama Butterfly, Manon Lescaut, Carmen, Wozzek, I Lombardi alla prima crociata,  ecc.).
Fondamentale nel suo percorso l’incontro con Padre Pio, che lo segna profondamente. “Vattene, tu vivi come una bestia!” sono le dure parole del Santo che spingono Bini a cambiare vita e a intraprendere un percorso di conversione. La fede che ritrova gli sarà di sostegno per tutta la vita, ma diventa fondamentale nella malattia, che nel 2005 interrompe la sua carriera. Trovare la luce anche nell’oscurità anche nei momenti più difficili, anche nelle cose più minute, diventa per lui una missione personale ma anche una testimonianza che desidera condividere con gli altri. Il libro è corredato da un inserto fotografico di sedici pagine che illustra alcuni momenti salienti della vita privata e professionale di Carlo Bini.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: seconda domenica di Avvento

gbopera - Dom, 08/12/2024 - 00:29

Avevamo accennato in precedenza che il tempo d’Avvento è un tempo di penitenza, i regolamenti liturgici ne vietavano le celebrazione solenne. Unica eccezione,  è data dalla prima domenica di Avvento con la quale si inaugura l’anno liturgico, per questo fatto meritava una sua specifica solennizzazione. Per le  tre domeniche successive invece, la musica solenne,  quella che ai tempi di Bach era chiamata “Musica figuralis” cioè a più voci, o meglio “concertante” non era praticata.
Questo a Lipsia, città tra le più ligia alle norme comportamentali per le celebrazioni liturgiche. Al contrario a Weimar, anche se governata da un Duca  bigotto ed esigente sulle questioni di Chiesa, l’esecuzione di Cantate era prevista anche nelle domeniche seconda, terza e quarta.
Per la seconda domenica Bach scrisse Cantata che ora porta il numero di catalogo BWV 70, “Wachet! betet! betet! wachet!”. Il testo estratto da una raccolta del bibliotecario di corte Solomo  Franck, apprezzato autore di testi per il culto. Eseguita il 6 dicembre 1716, a noi è arrivata non nella sua forma originale, costituita da 6 numeri: un coro iniziale, 4 arie e un Corale conclusivo, bensì  in una  versione predisposta per Lipsia, in occasione della XXVI.ma domenica dopo la Trinità, il 21 novembre 1723. Una versione più ampia, di undici numeri.  Sono stato inseriti 4 recitativi che nella nuova versione procedono le arie. Il passaggio della musica da una cantata all’altra è stato operato con grande cura, con una particolare attenzione alle affinità esistenti tra le letture evangeliche prescritte per operare con metodo analogico e non perdere  il senso del tema centrale della predica che di quelle letture è il corollario. Talvolta, aldi là delle affinità degli argomenti, vi è anche una precisa corrispondenza di parole. Così se il Vangelo della seconda domenica di Avvento  al quale si riferisce la cantante BWV70a “E allora vedremo il Figlio dell’Uomo venire sopra le nuvole con potenza e Gloria” (Luca cap.22 vers.27) quello della XXVIa domenica dopo la Trinità afferma: “Quando il Figlio dell’Uomo sarà venuto nella sua gloria, avendo seco tutti gli angeli, allora siederà sul trono della sua gloria” (Matteo cap.25 vers. 31). Un riflesso di questi due passi si trova nell’aria del Soprano. Il testo dice “...dovrà avvenire che noi vedremo Gesù sulle nubi, nelle altezze celesti”. Le due occasioni liturgiche sembrano voler mettere a confronto il logico accostamento sulla venuta di Cristo (Avvento) e il Giudizio Universale (domenica dopo la Trinità). Il passo evangelico cui si aspira la Cantata e dunque quello di Matteo (cap.25 vers.31- 46) che tratta il Giudizio finale pronunciato dal Figlio dell’Uomo. In base al giudizio gli uomini saranno condannati alla pena eterna se non avranno avuto misericordia per il prossimo, ai giusti invece sarà riservato il premio della vita eterna. La Cantata, divisa in 2 parti, propone nel coro d’apertura, una esortazione ai fedeli  tenersi pronti alla fine del mondo. Le 4 arie celebrano invece la beatitudine della pace nel Signore mentre nei 4 vigorosi e drammatici recitativi (che non sono di Franck) vengono condensati i principi del timore, del giudizio di Dio e della fuga dal peccato.
Prima parte
1- Coro BWV 70a e 70
(Tromba, Oboe, Violino I/II, Viola, Fagotto e Continuo)
Vegliate! Pregate! Pregate! Vegliate!
Siate pronti
in ogni momento,
fino a quando il Signore della gloria
metterà fine a questo mondo.
2 – Recitativo  BWV 70 ( Basso)
Temete, peccatori impenitenti!
Arriva un giorno
da cui nessuno può scampare:
si affretta per voi il severo giudizio,
o razza di peccatori,
per l’eterna tribolazione.
Ma per voi, prescelti figli di Dio,
è l’inizio della vera gioia.
Mentre tutto crolla e si distrugge,
il Salvatore vi convoca alla sua presenza;
perciò non abbiate paura!
3 – Aria BWV 70a e 70 (Contralto)
Quando verrà il giorno in cui partiremo
dall’Egitto di questo mondo?
Ah! Fuggiamo da Sodoma,
prima che il fuoco ci sommerga!
Svegliatevi, anime, dal vostro compiacimento
e credete, è l’ultima ora!
4 – Recitativo BWV 70 (Tenore)
Anche se aspiriamo al cielo
il nostro corpo tiene prigioniero lo spirito;
con i suoi inganni il mondo
tende trappole e insidie ai giusti.
Lo spirito è pronto ma la carne è debole
e ci estorce un pietoso lamento!
5 – Aria BWV 70a e 70 (soprano)
Lasciate che le lingue dei blasfemi ci
disprezzino, comunque dovrà avvenire
che noi vedremo Gesù
sulle nubi, nelle altezze celesti.
La terra e il cielo passeranno,
ma la parola di Cristo resterà per sempre.
Lasciate che le lingue dei blasfemi ci
disprezzino, comunque dovrà avvenire!
6 – Recitativo  BWV 70 (Tenore)
In mezzo a tale generazione deviata
Dio si preoccuperà dei suoi servi,
in modo che questa stirpe malvagia
non li affligga ancora,
e li custodirà nelle sue mani
riservando un posto per loro nell’Eden celeste.
7 – Corale BWV 70
Gioisci, mia anima,
dimentica dolore e tristezza
poiché ora Cristo, tuo Signore,
ti raccoglie da questa valle di lacrime!
Potrai contemplare per l’eternità
la sua gioia e il suo splendore,
per rallegrarti con gli angeli
ed esultare per l’eternità.
Parte seconda
8 – Aria BWV 70a e 70 (Tenore)
Alzate la testa
ed abbiate fiducia, giusti,
le vostre anime fioriranno!
Crescerete come fiori nell’Eden
per servire Dio in eterno.
9 – Recitativo BWV 70 (Basso)
Ah, questo grande giorno,
la fine del mondo
e lo squillo della tromba,
l’inaudito colpo finale,
le parole proclamate dal Giudice,
le porte spalancate dell’inferno
risveglieranno nella mia anima
più dubbi, paura e terrore
in quanto figlio
del peccato?
Eppure dalla mia anima si eleva
un raggio di felicità, una luce di consolazione.
Il Salvatore non può celare il suo cuore
che trabocca di grazia,
il suo braccio misericordioso non mi abbandona.
Allora concludo il mio viaggio con gioia.
10 – Aria BWV 70a e 70 (Basso)
Giorno benedetto di rinascita,
conducimi nelle tue dimore!
Risuona, batti, ultimo colpo,
crollino il cielo e la terra!
Gesù mi condurrà alla pace,
al luogo in cui abbonda la gioia.
11 Corale BWV 70a e 70
Non è alla terra, non è al cielo
che la mia anima aspira.
Io desidero Gesù e la sua luce,
egli mi ha riconciliato con Dio,
mi ha liberato dal giudizio,
non abbandonerò il mio Gesù.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wachet! betet! betet! wachet!” BWV 70

 

 

 

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Sistina: “West Side Story”

gbopera - Sab, 07/12/2024 - 23:59

Roma, Teatro Sistina
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
Tony LUCA GAUDIANO
Maria NATALIA SCARPOLINI
Anita ROSITA DENTI
Bernardo ANTONIO CATALANO
Riff  ROBERTO TORRI
originariamente diretto e coreografato da Jerome Robbins
Coreografie Billy Mitchell
Direzione Musicale Emanuele Friello
Regia e adattamento italiano di Massimo Romeo Piparo
Roma, 07 dicembre 2024
West Side Story al Teatro Sistina, nella versione adattata da Massimo Romeo Piparo, si presenta come un tentativo ambizioso di riportare in scena uno dei musical più iconici della storia, adattandolo per il pubblico italiano. L’operazione, tuttavia, risulta disomogenea: mentre alcuni elementi si distinguono, altri rimangono poco sviluppati, compromettendo la coesione di uno spettacolo che, per intensità drammatica e ricchezza musicale, avrebbe potuto esprimere maggior potenziale. Luca Gaudiano, nel ruolo di Tony, rappresenta senza dubbio il punto di forza della produzione. Il giovane interprete sfoggia una solidità tecnica invidiabile e una versatilità vocale che gli consentono di affrontare la complessa partitura di Leonard Bernstein con naturalezza. La sua estensione vocale, sostenuta da un controllo del fiato impeccabile, gli permette di passare dai registri più lirici a quelli drammatici senza difficoltà. I suoi acuti, centrati e privi di tensioni, sono eseguiti con una padronanza che mette in evidenza la maturità della sua tecnica. Particolarmente incisivo il momento di “Maria”, dove Gaudiano riesce a restituire la bellezza e l’intensità del brano, arricchendolo di dinamiche emozionali e sensibilità interpretativa. Se da un lato la vocalità di Gaudiano spicca, dall’altro la sua interpretazione recitativa lascia intravedere qualche margine di crescita. Il suo Tony, per quanto emozionante, appare ancora un po’ acerbo, con una caratterizzazione che a volte risulta fanciullesca e non sempre pienamente tridimensionale. Tuttavia, queste lievi mancanze non tolgono nulla alla sua capacità di dominare la scena, rendendolo il protagonista indiscusso dello spettacolo. Natalia Scarpolini, nei panni di Maria, non riesce a eguagliare la presenza scenica e vocale del suo partner. La sua voce mostra una tecnica non sempre precisa e spesso risulta appesantita da vibrati sovraccarichi, che pur tecnicamente corretti, finiscono per deviare dall’intento espressivo del personaggio. Maria, un ruolo che richiede complessità interpretativa e una gamma timbrica ampia, appare qui priva della profondità necessaria per tradurre appieno il dramma e l’intensità del suo arco narrativo. Inoltre, nonostante l’uso dei microfoni, la proiezione vocale di Scarpolini risulta insufficiente, tanto che nei momenti corali e nei duetti la sua voce viene sovrastata dagli altri interpreti, penalizzando ulteriormente l’impatto del personaggio. Il resto del cast cerca di gestire al meglio la sfida, offrendo interpretazioni vocali e recitative di massima funzionali. Tra questi spiccano Antonio Catalano, che regala un Bernardo convincente e carismatico, e una spumeggiante Rosita Denti che brilla nel ruolo di Anita. La sua espressività vocale, insieme alla versatilità interpretativa, le permette di alternare con naturalezza momenti di leggerezza e intensità, rendendo il suo personaggio convincente e ben delineato. A lei il pubblico regala forse gli applausi più convinti. Roberto Torri, nel ruolo di Riff, si distingue per una solida interpretazione recitativa che valorizza il personaggio, risultando più a suo agio nella dimensione attoriale rispetto a quella vocale, meno incisiva ma comunque funzionale al ruolo. Uno degli aspetti più discussi è l’adattamento in italiano dei testi. Pur nato con l’intento di rendere l’opera più vicina al pubblico, il risultato non sempre convince. La musicalità intrinseca dei testi originali di Stephen Sondheim si perde in traduzioni che, spesso, appaiono forzate e prive della stessa forza emotiva. In un’epoca in cui il linguaggio è arricchito da contaminazioni culturali e linguistiche globali, lasciare i testi in inglese avrebbe probabilmente conferito maggiore autenticità e impatto alla messa in scena. La regia di Massimo Romeo Piparo si limita a un movimento funzionale delle scene, permettendo al pubblico di intuire le dinamiche narrative senza approfondirle. Non emerge una visione unitaria capace di valorizzare i temi universali di amore e conflitto che costituiscono il cuore pulsante di West Side Story. Ci si sarebbe aspettati una regia più incisiva, che non solo collegasse le diverse componenti dello spettacolo, ma le elevasse in un’interpretazione drammaturgica più coesa e significativa. Anche l’aspetto musicale lascia spazio a critiche. L’orchestra dal vivo, sotto la direzione del Maestro Emanuele Friello, ha mostrato limiti significativi nel rendere la complessità e la profondità richieste dalla partitura di Leonard Bernstein. L’esecuzione è apparsa priva della pienezza sonora necessaria per valorizzare i momenti di maggiore intensità musicale, con una tessitura che raramente è riuscita a trasmettere l’emozione e la drammaticità dell’opera. Il bilanciamento tra il suono orchestrale e le voci degli interpreti è risultato spesso sbilanciato, con un volume che ha finito per prevalere sui cantanti in scena. Questo squilibrio, accompagnato da un mancato allineamento ritmico, ha generato una sensazione di disconnessione tra l’accompagnamento musicale e l’azione drammatica. In alcune sezioni, l’orchestra sembrava non dialogare con il palco, seguendo tempi non pienamente coerenti con l’interpretazione vocale e scenica. Inoltre, in più di un’occasione, il suono ha assunto una qualità quasi bandistica, mancando di quel carattere raffinato e della profondità che sono essenziali per una partitura così sfaccettata. Le coreografie di Billy Mitchell cercano di portare energia e dinamismo alla produzione, ma non sempre riescono a raggiungere l’efficacia desiderata. I movimenti risultano in alcuni momenti approssimativi e privi della precisione necessaria per valorizzare appieno la tensione drammatica dell’opera. L’esecuzione da parte del cast, numeroso e certamente impegnato, manca talvolta di compattezza e coordinazione, generando un effetto visivo di affollamento che risulta privo di armonia. Applausi generosi hanno comunque scandito la serata, quasi a voler premiare l’impegno più che il risultato. Una dimostrazione, forse, che il teatro riesce ancora a far breccia nei cuori, anche quando si presenta con più ombre che luci. E, tutto sommato, fa piacere vedere che il pubblico abbia trovato qualcosa da applaudire: dopotutto, se l’arte performativa riesce a creare un legame, anche se un po’ traballante, si può dire che abbia fatto il suo dovere. Photocredit @Gianluca Sarago’

Categorie: Musica corale

Firenze, Teatro del Maggio Musicale: “La Traviata” (cast alternativo)

gbopera - Ven, 06/12/2024 - 18:26

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Settembre-Dicembre 2024
LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti; libretto di Francesco Maria Piave da “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry JULIA MUZYCHENKO
Alfredo Germont MATHEUS POMPEU
Giorgio Germont MIN KIM
Flora Bervoix ALEKSANDRA METELEVA
Annina OLHA SMOKOLINA
Gastone ORONZO D’URSO
Il barone Douphol YURII STRAKHOV
Il dottor Grenvil HUIGANG LIU
Il Marchese d’Obigny GONZALO GODOY SEPÚLVEDA
Giuseppe ALESSANDRO LANZI
Un servo NICOLÒ AYROLDI
Un commissionario LISANDRO GUINIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Stefania Grazioli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Veronica Pattuelli
Luci Valerio Tiberi
Movimenti coreografici Elena Barsotti
Firenze, 1 dicembre 2024
Si potrebbe ipotizzare che il libretto di Piave e la musica di Verdi erano forieri di ‘tanti palpiti’. In realtà tale binomio non è stato sempre vincente tanto che alla prima (Venezia, Fenice 6 marzo 1853) Verdi sulla «Gazzetta musicale di Milano», ammettendo il fiasco ed interrogandosi sull’insuccesso, lasciava al tempo e al destino le sorti del suo melodramma. Il tempo ha decretato una tale notorietà da annoverare l’opera nella cosiddetta “trilogia popolare”. Riassumendo le motivazioni del successo di Traviata al Maggio si sottolinea l’adesione di ogni componente dello spettacolo ottemperando al verdiano: «Torniamo all’antico e sarà un progresso»: pur con una lettura teatrale ‘moderna’ in cui sono rielaborate le convenzioni, era possibile individuare inequivocabilmente le fonti e la tradizione. La regia di Stefania Grazioli ha proposto una versione ‘ripulita’ da intellettualismi moderni in virtù di una ricerca psicologica ed autentica del personaggio, così come l’efficace direzione di Renato Palumbo che, oltre a dimostrare grande e sicura padronanza del testo musicale, ha posto enorme attenzione verso aspetti interpretativi ormai consolidati dalla tradizione. A rendere il tutto più interessante l’ottima Orchestra, duttile ed efficace, sempre capace di restituire la multiforme partitura come nell’Andantino (Atto III: “È strano!… – Che! – Cessarono gli spasmi del dolore”) per percepire nel solo canto dei violini (due Imi soli), insieme al tremolo degli altri archi (pppp), la sensazione della rinascita di Violetta (“rinasce… m’agita insolito vigor! …) ma anche la sua eccitazione (agitatissimo) (“ma io ritorno a viver!! O gioia!”). In tale contesto è il crescendo dell’orchestra, unitamente all’ispessimento della scrittura, a sfociare nel ff dell’Allegro ad organico completo, che porta alla morte di Violetta e al calare del sipario sotto la scure degli ultimi pesanti accordi. Riguardo al Coro è bastato ascoltare “Si ridesta in ciel l’aurora” (Stretta dell’Introduzione Atto I-Allegro vivo) per rendersi conto delle qualità e potenzialità della compagine: il pp che diventa il più piano possibile, realizzato con una tale leggerezza fino ad un autentico sottovoce, tanto che l’accurata concertazione del direttore Lorenzo Fratini, pur di ripulire certe ‘incrostazioni’ del tempo, lasciava immaginare un ‘restauro di tipo conservativo’. Allargando il focus vi era la figura femminile incarnata da Violetta, eroina perseguitata che, da cortigiana, sceglie di cambiare per amore di Alfredo; percepisce che si sta innamorando ma, consapevole della propria condizione, decide di rimanere ‘sempre libera’. Nello spettacolo la visione era ancor più “moderna” e autenticamente femminile cosicché, a parte la funzionale scelta delle luci di Valerio Tiberi, sembrava non casuale l’affidamento di Scene, Costumi e Movimenti coreografici a donne: Roberta Lazzeri, Veronica Pattuelli e Elena Barsotti cui va il plauso di aver contribuito a ‘dipingere’ una narrazione che faceva percepire l’ ‘eterno femminino’ (leitmotiv) nelle parole di Violetta ad Alfredo: “di questo core non puoi comprendere tutto l’amore”. Segnalo Julia Muzychenko nel ruolo della protagonista: ha colpito per la bella presenza scenica e relativa recitazione quanto per le doti, musicali affrontando con una certa naturalezza un ruolo non facile ove necessita un soprano triadico (lirico leggero, intenso e spinto) coadiuvata da un vibrante e appassionato Alfredo (Matheus Pompeu). Traviata non è solo festa, sfarzo e gioia in cui, visto che l’amore “è un fior che nasce e muore”, si invita a vivere “il gaudio dell’amor”. L’ascolto del N. 1. Preludio (Adagio), con i soli violini in ppp, sintetizzava e offriva una lettura a ritroso dell’opera (non è casuale che il primo tema presenti somiglianze con quello del III atto con ovvie implicazioni e corrispondenze con Violetta ormai moribonda). Ciò catturava l’attenzione del pubblico ma offriva un’autentica interpretazione figurale. Attingendo alla memoria si potevano cogliere richiami, echi e quant’altro (compresa la protagonista che si riflette in uno specchio e si rivede piccola) come la celeberrima melodia, ora anticipata rispetto all’Atto II, ove, nel congedarsi dall’amato, intona “Amami, Alfredo!”. Una certa tradizione interpretativa, di cui Palumbo ha dimostrato di esserne fedele interprete, è stata percepita anche negli stacchi dei tempi, nei passaggi (da 4 a 2) così come negli effetti d’eco (primo Preludio) con la reiterazione di figure di semicrome dei violini Imi con acciaccatura e trillo. Del direttore ha colpito anche la sua efficace mano sinistra sempre molto funzionale nel far andare insieme (suddivisioni dei soli dei cantanti come in “Fra cari amici qui sei soltanto”) così come il giusto equilibrio nell’inserimento di uno strumento in rapporto alla voce del solista, ecc. A proposito dei due protagonisti ecco un altro momento interessante: la disperata urgenza d’amore di Violetta (II Atto: “Amami, Alfredo”), grazie al (con passione e forza) di Violetta e il ff culminato da tutta l’orchestra fino al diminuendo (“t’amo”) in cui ritorna una certa calma, diventava un altro momento perfetto dello spettacolo in cui partitura e drammaturgia sapevano cogliere l’essenziale. Molto convincente anche l’intervento di Giorgio Germont, padre di Alfredo (Atto II: “Di Provenza il mar, il suol”) in cui la forte sensibilità interpretativa di Min Kim sembrava voler ricordare il luogo natìo come unico nido ed isola felice nei momenti difficili. Questa Traviata è stata una bella versione, classica e spettacolare al tempo stesso e, nonostante l’epilogo della storia, sono riaffiorate le vibranti emozioni dell’amore, l’unico sentimento che “move il sole e l’altre stelle”. Foto Michele Monasta

Categorie: Musica corale

Torino, Tempio Valdese: “Gioseffo che interpreta i sogni” di Antonio Caldara

gbopera - Ven, 06/12/2024 - 15:45

Torino, Tempio Valdese
“GIOSEFFO CHE INTERPRETA I SOGNI”
Oratorio in due parti su libretto di Giovan Battista Neri. Prima esecuzione moderna con trascrizione dal manoscritto di Elena Camoletto.
Musica Antonio Caldara
Gioseffo  MARIA MARGHERITA SALA
Faraone LUIGI DE DONATO
Sedecía  ARIANNA VENDITTELLI
Coppiere  ELEONORA BELLOCCI
Panatiere LORRIE GARCIA
Testo (baritono) MAURO BORGIONI
Ensemble vocale e strumentale Consort Maghini
Direttore  Alessandro de Marchi
Maestro del coro Claudio Chiavazza
Torino, 29 novembre 2024
A Torino si festeggiano i 200 anni del prestigioso Museo Egizio, vanto e lustro della città. In questo ambito, l’Associazione Sistema Musica, promossa, tra gli altri, dall’Assessorato alla Cultura cittadino, ha organizzato Incanto Egizio, una serie di 13 appuntamenti musicali molto vagamente riferibili all’antico Egitto. Le sedi dei concerti sono sparse per la città e gli esecutori fanno parte, pure loro, del mondo musicale e artistico cittadino. Per il sesto appuntamento, la metà del percorso, ci si ritrova con Antonio Caldara al Tempio Valdese, luogo d’elezione, in città, per le esecuzioni di Musica Barocca a cui auditori e teatri si ostinano a tener porte ben serrate. Eppur gli spazi del tempio sono limitati, i banchi duri e scomodi, il riscaldamento centellinato, forse si ritiene ancora che il Barocco debba essere prevalentemente sacro e penitenziale. È promotrice e protagonista dell’evento l’Accademia Maghini che tanta parte ha nelle iniziative e nei programmi di due festival cittadini: Turin Baroque Music festival e Back to Bach. Alla ricerca di un’opera che soddisfacesse l’occasione, Elena Camoletto, compositrice e membro chiave nelle attività del coro Maghini, si imbatte nel manoscritto dell’oratorio di Caldara Gioseffo che interpreta i sogni, giacente presso la Biblioteca Nazione di Vienna. Antonio Caldara, come Vivaldi, trascorse a Vienna gli ultimi 25 anni di vita, stimato vicemaestro di cappella alla corte imperiale. L’oratorio vi fu composto ed eseguito nel 1726, per giacere poi come manoscritto, non mai stampato, negli scaffali della biblioteca e mai più presentato in esecuzioni pubbliche. L’Accademia Maghini decide quindi di fare dell’opera il centro di un progetto che prevede: trascrizione, pubblicazione, esecuzione e registrazione per la diffusione discografica. La serata del 29 novembre è quindi sia prima esecuzione pubblica dal 1726 e, con microfoni diffusi in ogni dove, seduta d’incisione. L’oratorio ha due parti frazionate in una quarantina di numeri musicali e narra la vicenda di Gioseffo che, imprigionato nelle carceri egizie, disvela ai suoi due compagni di cella, il Coppiere e il Panatiere, il significato dei loro sogni; il Coppiere, a sua volta, lo promuove presso il Faraone, anch’egli angosciato dall’incubo delle sette vacche magre che annientano le sette grasse. Si inizia con una tipica Sinfonia tripartita all’italiana che, oltre agli archi, conta sull’intervento di fiati e ottoni. Seguono una quarantina di numeri: recitativi secchi ed arie con basso continuo e con strumento obbligato, tre duetti e due cori a quattro voci a chiudere ciascuna delle due sezioni. Se i recitativi sono secchissimi, col solo basso continuo di sfondo, le arie, alcune delle quali con fantastici accompagnamenti obbligati, costituiscono il preziosissimo tesoro di un’opera coeva a quelle di Vivaldi, di Scarlatti e assimilabile, con qualche azzardo, agli stupefacenti cieli di Gianbattista Tiepolo, anch’egli contemporaneo cittadino veneziano. L’opera è forse carente della continuità drammatica che altri, Bach ed Handel, hanno saputo dare con interventi decisivi di un narratore; qui il Testo, pur con magnifico lirismo, dà un flebile contributo alla teatralità della narrazione. Le stesse magnifiche arie riescono a stento a descrivere e a rendere univoci i personaggi: sono comunque di splendida fattura e di isolata affettuosità. Si fanno citare per l’eccezionalità dell’intervento dell’obbligato: l’aria di pianto di Gioseffo “E quando mai potrò cessar di piangere?” che una fantastica Maria Margherita Sala, esegue, con spericolate variazioni del “da capo” col chalumeau, sorta di clarinetto ante-litteram, di Luca Lucchetta; ancora di Gioseffo “Libertà cara e gradita” che l’ultraterreno suono del salterio di Margit Űbellacker colloca immediatamente tra le soffici nubi e gli svolazzanti angioletti del Tiepolo. Festanti trombe naturali esaltano il duetto del Coppiere Eleonora Bellocci e del Faraone Luigi De Donato. Il tonitruante ed imperioso Mauro Borgioni, il Testo, esibisce la sua grande esperienza barocca, con una manciata di recitativi e soprattutto con due arie, portali d’avvio delle due parti dell’opera. Ciascuna delle due sezioni conta un personaggio che vi si esaurisce, nella prima lo sventurato Panatiere dalla sorte avversa, nella seconda Sedacía l’indovino che nulla disvela. Panatiere è la brillante Lorrie Garcia, contralto di splendida voce e di tecnica formidabile; Sedacía, Arianna Vendittelli, che in una ripresa del da capo variata al fulmicotone ti “inchioda” alla … panca. Il Coro del Maghini, che Claudio Chiavazza validissimamente regge ed istruisce, come gli è consueto, se la cava ottimamente nei due non stratosferici interventi di chiusura. La ventina di strumentisti dell’Orchestra del Consort Maghini meritano tutti gli applausi che il non strabocchevole pubblico gli ha ampiamente tributato. Gli archi hanno corde di budello, gli strumentini sono di legno e gli ottoni sono naturali senza tasti e coulisse, il continuo consta di organo e clavicembalo il diapason a cui sono tutti accordati è filologicamente fissato a 415Hrz. Alessandro De Marchi, su un altro clavicembalo, associa ad un’entusiasmante e puntuale direzione, fantasiosi ed efficaci accompagnamenti del canto. Grande serata e grande successo artistico. Un rammarico per la scarsità di pubblico, per il gran lavoro che viene esaurito in un’unica occasione e per la trascuratezza che le “grandi” istituzioni musicali hanno verso questo repertorio tipicamente italiano che ha, per almeno due secoli, determinato e fecondato tutte le correnti della musica europea.

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Tarquinia, Museo Nazionale Archeologico: ” La Madonna di Tarquinia di Filippo Lippi”

gbopera - Ven, 06/12/2024 - 13:08

Roma, Museo Nazionale Archeologico di Traquinia
Palazzo Vitelleschi
LA MADONNA DI TARQUINIA: IL RITORNO TEMPORANEO
Tarquinia, 05 dicembre 2024
Il ritorno temporaneo de La Madonna di Tarquinia di Filippo Lippi nella sua collocazione originaria, Palazzo Vitelleschi, oggi sede del Museo Nazionale Archeologico di Tarquinia, si configura come un evento di rara eleganza e potenza evocativa. Dal 5 dicembre al 4 marzo 2025, questa preziosa tavola quattrocentesca, capolavoro dell’artista fiorentino, sarà esposta nell’abside della cappella del secondo piano del palazzo, dove il cardinale mecenate Giovanni Vitelleschi l’aveva idealmente immaginata e commissionata. La mostra, intitolata 1437. La Madonna di Filippo Lippi, Tarquinia e il cardinale Vitelleschi, chiude le celebrazioni per il centenario del museo e offre una rara occasione di contemplare il capolavoro nel contesto per cui fu pensato. Promossa dal Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia (PACT), in collaborazione con il Comune di Tarquinia e la Diocesi di Civitavecchia-Tarquinia, l’esposizione si pone come un viaggio nel tempo, riproponendo con rigore scientifico e raffinatezza narrativa il legame profondo fra arte, religione e potere nella Tarquinia del Quattrocento. L’allestimento coinvolge, oltre a Palazzo Vitelleschi, altri luoghi simbolo del centro storico: il Duomo, la chiesa di Santa Maria in Castello, il palazzetto di Santo Spirito, sede dell’archivio comunale, e la Sala degli Affreschi del Palazzo Comunale, in un percorso che invita il visitatore a riscoprire la complessità storica e culturale della città. Il progetto scientifico, diretto dal professor Vincenzo Bellelli, intreccia la storia del museo con quella del palazzo, gioiello del Rinascimento italiano. Bellelli sottolinea come Palazzo Vitelleschi, dalla sua fondazione alla sua trasformazione in museo statale nel 1924, rappresenti un esempio virtuoso di gestione del patrimonio culturale e di servizio alla comunità. La presenza della Madonna di Lippi, custodita abitualmente a Palazzo Barberini, restituisce al palazzo un pezzo del suo cuore originario, offrendo al pubblico un’esperienza estetica e spirituale di straordinaria intensità. Il dipinto, una delle più raffinate composizioni sacre del Quattrocento, rappresenta la Vergine col Bambino immersa in un’atmosfera di solenne intimità. Lo stile di Filippo Lippi, con la sua capacità di unire un rigoroso equilibrio compositivo a un’emozione pittorica vibrante, emerge con forza in quest’opera, che riflette non solo l’influenza della scuola fiorentina ma anche l’attenzione dell’artista per il contesto spirituale e culturale del committente. Il cardinale Vitelleschi, figura emblematica del mecenatismo rinascimentale, volle quest’opera per celebrare la propria città e la propria fede, e il ritorno temporaneo della tavola nella sua destinazione originaria suggella idealmente questa intenzione. Le parole del sindaco Francesco Sposetti e del vescovo Gianrico Ruzza evidenziano il valore simbolico e culturale della mostra. Per il sindaco, l’evento non solo rafforza l’identità di Tarquinia, ma consente di esplorare un capitolo della sua storia spesso oscurato dal primato della civiltà etrusca. Il vescovo, dal canto suo, celebra l’arte come veicolo di pace e spiritualità, sottolineando la coincidenza della mostra con l’inizio del Giubileo, un’occasione unica per vivere l’esperienza della bellezza come riflesso della Luce divina. Questo ritorno, seppur temporaneo, si configura non solo come un gesto di restituzione culturale, ma come un invito a riflettere sul significato profondo dell’arte come ponte fra epoche, comunità e spiritualità. La Madonna di Tarquinia non è solo un capolavoro pittorico, ma il simbolo vivo di un dialogo incessante fra passato e presente, fra arte e fede, fra un luogo e la sua memoria più intima.

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Roma, Teatro Brancaccio: “Aggiungi un posto a tavola”

gbopera - Gio, 05/12/2024 - 23:59

Roma, Teatro Brancaccio
AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA
una commedia musicale di Garinei e Giovannini
scritta con Jaja Fiastri
liberamente ispirata a “After Me The Deluge” di David Forrest
musiche di Armando Trovajoli
regia originale di Pietro Garinei Sandro Giovannini
ripresa teatrale di Marco Simeoli
Un classico immortale del teatro musicale italiano.
Presentato da Alessandro Longobardi – Una produzione di Viola Produzioni Srl.
DON SILVESTRO Giovanni Scifoni
CONSOLAZIONE Special Guest Lorella Cuccarini
SINDACO CRISPINO Marco Simeoli
CLEMENTINA Sofia Panizzi
TOTO Francesco Zaccaro
ORTENSIA Francesca Nunzi
LA VOCE DI LASSÙ Enzo Garinei
Roma, 5 novembre 2024
Aggiungi un posto a tavola, capolavoro senza tempo di Garinei e Giovannini, torna al Teatro Brancaccio di Roma per celebrare cinquant’anni dal suo debutto. La commedia musicale, scritta con Jaja Fiastri e musicata dall’inarrivabile Armando Trovajoli, non è solo uno spettacolo, ma un’esperienza collettiva che attraversa le generazioni, capace di trasformare un intreccio apparentemente semplice in un racconto universale sull’umanità, la fede e la comunità. Il cuore narrativo dell’opera ruota attorno a Don Silvestro, parroco di un villaggio montano che riceve un incarico divino: costruire un’arca per salvare la comunità da un secondo diluvio universale. Tuttavia, l’arca non è solo un elemento funzionale alla trama, ma un simbolo che evolve insieme alla narrazione, rappresentando la possibilità di un’unità che supera le divisioni. La parabola, apparentemente ingenua, si fa metafora di una condizione esistenziale condivisa: l’essere umano, fragile e contraddittorio, che cerca salvezza in un progetto collettivo. Giovanni Scifoni interpreta Don Silvestro con rara profondità, conferendo al personaggio un’umanità palpabile. La sua presenza scenica e la vocalità calda lo trasformano in una figura vicina allo spettatore, un uomo di fede ma anche di dubbi, la cui resilienza si nutre di empatia. Accanto a lui, Francesco Zaccaro, nel ruolo di Toto, si distingue per una recitazione fresca e spontanea che dona al personaggio una vivacità popolare e autentica. La sua capacità di muoversi tra comicità e intensità arricchisce il tessuto narrativo con un’energia che cattura. Lorella Cuccarini, nel ruolo di Consolazione, illumina il palcoscenico con una grazia che unisce ironia e profondità. Il suo personaggio, donna di facili costumi ma dal cuore grande, rompe con leggerezza ogni stereotipo, dimostrando che la redenzione passa dall’amore e non dai rigidi dettami sociali. Sofia Panizzi, nei panni di Clementina, porta in scena l’archetipo dell’amore puro con una dolcezza mai ingenua, mentre Marco Simeoli, nel doppio ruolo di regista e interprete del sindaco Crispino, riesce a bilanciare comicità e umanità con grande sapienza teatrale. La dimensione visiva dello spettacolo è altrettanto straordinaria. Le scenografie non si limitano a rappresentare il villaggio, ma lo animano, lo trasformano in un microcosmo che pulsa al ritmo della storia. L’arca stessa, al centro della scena, è più di un elemento scenico: diventa un organismo simbolico che cresce, evolve, si trasforma. I movimenti scenici, calibrati con precisione, si intrecciano ai dettagli scenografici in una coreografia invisibile che amplifica la coralità del racconto. Le luci, con toni che oscillano tra il calore intimo e l’intensità drammatica, sottolineano i passaggi emotivi con una maestria che sfiora il pittorico. Momenti come la costruzione dell’arca o la colomba che si posa sulla sedia vuota si trasformano in veri e propri quadri viventi. La musica di Armando Trovajoli rimane il cuore pulsante dello spettacolo. Brani iconici come Aggiungi un posto a tavola e Peccato che sia peccato non solo accompagnano la narrazione, ma la amplificano, dialogando con i personaggi e il pubblico. Ogni nota è carica di significato, ogni orchestrazione unisce tradizione popolare e complessità drammaturgica, creando un universo sonoro che abbraccia lo spettatore. In scena, ogni elemento è al servizio di una narrazione che non si limita a divertire ma cerca di parlare all’animo umano, intrecciando leggerezza e profondità con la maestria di un grande classico. E mentre il pubblico ride, si commuove e applaude, emerge con forza il messaggio centrale: non c’è sfida che non si possa affrontare, né diluvio che non si possa superare, se si è disposti ad aggiungere un posto a tavola.

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo Barberini: “Carlo Maratti e il ritratto. Papi e Principi del Barocco romano”

gbopera - Gio, 05/12/2024 - 15:00

Roma, Palazzo Barberini
CARLO MARATTI E IL RITRATTO. PAPI E PRINCIPI DEL BAROCCO ROMANO
curata da Simonetta Prosperi Valenti Rodinò e Yuri Primarosa
La mostra Carlo Maratti e il ritratto. Papi e Principi del Barocco romano, allestita a Palazzo Barberini, rappresenta un’indagine raffinata sulla ritrattistica di Carlo Maratti, un maestro capace di fondere la monumentalità del Barocco con un’intimità che trascende i confini del genere. L’esposizione, curata da Simonetta Prosperi Valenti Rodinò e Yuri Primarosa, offre un’occasione unica per esplorare non solo le opere, ma anche le intricate relazioni umane e professionali che hanno definito la carriera dell’artista. Maratti, celebrato in vita come uno dei maggiori pittori d’Europa, emerge in questa mostra in una veste più personale, dove il ritratto diventa non solo un mezzo di rappresentazione, ma un teatro dell’anima. Nato a Camerano, nelle Marche, nel 1625, Maratti giunge a Roma all’età di undici anni, inserendosi in un ambiente artistico ricco di tensioni tra il naturalismo caravaggesco e il Classicismo idealizzato. La sua formazione e il suo sviluppo artistico lo portano a incarnare l’essenza del Classicismo, ma con una versatilità che lo distingue dai suoi contemporanei. Se le sue opere a soggetto sacro o mitologico riflettono la ricerca della bellezza ideale, i suoi ritratti rivelano un’attenzione più sottile ai legami personali, ai dettagli psicologici e alle dinamiche sociali dei suoi soggetti. Tra i ritratti in mostra spicca quello di Giovan Pietro Bellori, storico dell’arte e intellettuale che fu tra i maggiori sostenitori di Maratti. Dipinto nel 1672-73, questo ritratto non è solo un omaggio a un amico, ma una dichiarazione di intenti: Bellori, con la mano, indica il volume delle sue Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, un’opera ispirata a Vasari, ma volta a celebrare il primato del Classicismo. Per Bellori, Maratti rappresentava l’incarnazione pittorica dell’idea platonica di bellezza: un ideale universale, purificato dalle imperfezioni della natura e sublimato in una forma astratta di grazia. Questo ritratto non si limita a raffigurare Bellori, ma lo inserisce in un discorso più ampio sull’arte come veicolo di verità superiore. Un’altra opera emblematica è il Ritratto di Clemente IX Rospigliosi, un lavoro che testimonia la stretta relazione tra Maratti e il pontefice. Secondo Bellori, Maratti ottenne il privilegio di dipingere il papa seduto, una concessione straordinaria che sottolinea il rapporto di fiducia e complicità tra i due. La narrazione che circonda la creazione di questo ritratto, con le sue lunghe sedute presso il convento di Santa Sabina, aggiunge un ulteriore strato di intimità e autenticità a un’opera che altrimenti avrebbe potuto limitarsi a un’esibizione di status. La dimensione familiare e personale di Maratti emerge in modo particolarmente toccante nel Ritratto della figlia Faustina come Allegoria della Pittura (1698). Faustina, con un’espressione sognante, incarna non solo l’amore paterno, ma anche un ideale artistico che trascende il genere. Questo dipinto, legato agli ideali letterari dell’Accademia dell’Arcadia, riflette la fusione tra vita privata e produzione artistica, un tema che attraversa molte delle opere di Maratti. La madre di Faustina, Francesca Gommi, appare in un altro ritratto allegorico, dove la figura femminile è legata al simbolismo dell’amore e della creazione, rafforzando l’idea di un’arte che attinge continuamente alle dinamiche affettive dell’artista. Accanto ai ritratti di amici e familiari, la mostra include una serie di opere che testimoniano l’abilità di Maratti nel rappresentare figure della società aristocratica e ecclesiastica. Tra queste spiccano i ritratti della famiglia Barberini, come quello di Maffeo Barberini e del cardinale Carlo Barberini, che riflettono la capacità del pittore di unire precisione tecnica e profondità psicologica. Questi ritratti, con la loro attenzione ai dettagli dei costumi e degli attributi, non sono solo documenti visivi, ma anche dichiarazioni di identità sociale e culturale. Di particolare interesse sono anche i ritratti di figure meno note, come quello del teologo irlandese Luke Wedding e del giurista Ercole Ronconi. In questi dipinti, Maratti dimostra la sua maestria nel rappresentare non solo i volti, ma anche il contesto intellettuale e spirituale dei suoi soggetti. Il virtuosismo tecnico del pittore emerge nei dettagli dei tessuti, nelle texture delle superfici e nella vividezza dei gesti, che conferiscono a ogni ritratto una presenza quasi palpabile. Il rapporto di Maratti con la nobiltà italiana ed europea è ulteriormente evidenziato dal ritratto di Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana, dipinto nel 1700. Questo ritratto, creato quando Maratti era ormai anziano, testimonia non solo la sua abilità artistica, ma anche il suo ruolo di mediatore culturale e figura di spicco nel panorama artistico romano. Come Soprintendente delle fabbriche vaticane, Maratti non era solo un pittore, ma un attore chiave nella gestione e nella promozione dell’arte nella Roma barocca. La mostra di Palazzo Barberini si distingue non solo per la qualità delle opere esposte, ma anche per la sua capacità di contestualizzare il lavoro di Maratti all’interno di una rete di relazioni personali, intellettuali e professionali. Ogni ritratto diventa una finestra su un mondo in cui l’arte non è mai isolata, ma intimamente connessa alla vita e alle aspirazioni dei suoi protagonisti. Maratti, con il suo pennello, non si limita a rappresentare; crea ponti tra passato e presente, tra l’individuale e l’universale. Questa esposizione rivela un artista che, pur radicato nella tradizione del Classicismo, ha saputo innovare e adattarsi alle esigenze del suo tempo. Carlo Maratti emerge non solo come un pittore di straordinario talento, ma come un interprete sensibile delle dinamiche umane, capace di trasformare ogni ritratto in un dialogo tra il visibile e l’invisibile.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “L’erba del vicino è sempre più verde!”

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 23:59

Roma, Sala Umberto
L’ERBA DEL VICINO È SEMPRE PIÙ VERDE!
scritto e diretto da Carlo Buccirosso
con Carlo Buccirosso, Fabrizio Miano, Donatella De Felice, Peppe Miale, Elvira Zingone, Maria Bolignano, Fiorella Zullo
scene Gilda Cerullo e Renato Lori
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Luigi Della Monica
musiche Cosimo Lombardi
aiuto regia Fabrizio Miano
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro • A.G. Spettacoli
Roma, 04 Novembre 2024
Alla Sala Umberto di Roma, L’erba del vicino è sempre più verde, scritto, diretto e interpretato da Carlo Buccirosso, si afferma come uno spettacolo in grado di fondere con maestria ironia, tensione e riflessione, rispettando la tradizione della commedia teatrale italiana, ma arricchendola di elementi noir e grotteschi. Una narrazione ricca di colpi di scena che intrappola lo spettatore in un vortice di equivoci e risate amare, spingendolo a interrogarsi sul senso del cambiamento, sul desiderio di una vita migliore e sul peso delle illusioni. La vicenda ruota intorno a Mario Martusciello, funzionario bancario cinquantenne, timido e insicuro, che si trova in un momento di profonda crisi personale. L’insoddisfazione per una carriera mai decollata e il logorio di un matrimonio ormai al capolinea lo portano a compiere un gesto simbolico: abbandona la vita coniugale e si trasferisce in una mansarda carica di ricordi giovanili, un tempo luogo di incontri con la moglie Margherita. Mario spera di ritrovare se stesso e, forse, di vivere quella vita avventurosa che aveva sempre sognato, ma che gli era sfuggita. La mansarda diventa il palcoscenico di una serie di eventi esilaranti e drammatici. Qui entra in scena Lorenzo, il vicino del piano sottostante, un uomo affascinante e carismatico, apparentemente vincente, che incarna il mito di una vita scintillante e desiderabile. Lorenzo, con il suo fare mellifluo, conquista la fiducia di Mario, proponendosi come mentore per il suo riscatto personale. La sua introduzione nella vita di Mario è l’esca per un cambiamento che si rivelerà presto illusorio. A completare il quadro arriva Carlotta, giovane e determinata influencer, emblema della modernità e delle sue contraddizioni, che si presenta come una possibile via di fuga per Mario, ma che finisce per complicare ulteriormente la situazione. L’equilibrio precario costruito da Mario viene completamente ribaltato dall’irruzione di Margherita, la moglie furiosa, e della sorella avvocato Teresa, due presenze ingombranti che non intendono lasciare la vita del protagonista. Seguono scene di litigi, accuse e situazioni paradossali che sfiorano l’assurdo, culminando in uno scambio di oggetti ambiguo e simbolico: una bustina di prezzemolo viene confusa con una contenente cicuta, elemento che porta la tensione narrativa a un livello più alto, sfiorando il noir. Ma è nel secondo atto che la commedia svela tutta la sua potenza. La narrazione si ribalta attraverso un sapiente utilizzo del flashback, riportando lo spettatore a un antefatto inquietante: un cadavere avvolto in un tappeto con i piedi che sporgono, mentre Mario, tremante e confuso, tenta di nasconderlo sotto il letto. Questo momento segna il passaggio dalla commedia all’indagine psicologica e svela la vera anima noir dello spettacolo. La figura di Lorenzo, simbolo dell’erba del vicino apparentemente più verde, si sgretola sotto il peso della realtà, mostrando che ciò che sembra desiderabile spesso nasconde lati oscuri e problematici. Carlo Buccirosso, mattatore indiscusso, dà vita a un Mario Martusciello ricco di sfumature, un personaggio in bilico tra il tragico e il comico. La sua interpretazione, che richiama alla memoria la tradizione partenopea di attori come Troisi e Peppino De Filippo, è un inno alla versatilità: battute fulminanti, momenti di riflessione intensa e persino incursioni nel ballo rendono il suo Mario indimenticabile. Accanto a lui, il cast si dimostra altrettanto solido e affiatato. Maria Bolignano, nel ruolo di Margherita, brilla per ironia e intensità, mentre Elvira Zingone, nei panni di Carlotta, dona al personaggio una sofisticata ambiguità. Peppe Miale, che interpreta Lorenzo, incarna perfettamente il ruolo del seduttore manipolatore, mentre Donatella De Felice e Fiorella Zullo, rispettivamente Teresa e la sorella di Margherita, si ritagliano momenti memorabili con interpretazioni precise e cariche di umorismo. Il cast è completato da Fabrizio Miano, che oltre a essere aiuto regista, si distingue anche sul palcoscenico, e da Zaira De Vincentiis, responsabile dei costumi, che arricchisce la messinscena con abiti che riflettono perfettamente i caratteri dei personaggi. La forza dello spettacolo risiede anche negli elementi tecnici. Le scene, firmate da Gilda Cerullo e Renato Lori, offrono un’ambientazione versatile che si trasforma con rapidità grazie al magistrale disegno luci di Luigi Della Monica. Le musiche di Cosimo Lombardi, sempre puntuali, sottolineano con discrezione e efficacia i momenti più drammatici o surreali, contribuendo a creare un’atmosfera in cui il confine tra realtà e immaginazione si fa labile. La regia, curata dallo stesso Buccirosso con la collaborazione di Miano, si dimostra generosa e intelligente. Ogni personaggio ha il suo momento di luce, e l’intera compagnia lavora in perfetta sintonia, offrendo uno spettacolo dal ritmo incalzante che non conosce pause. Anche la scenografia, capace di creare suggestioni cinematografiche con un semplice cambio di prospettiva, contribuisce a rendere lo spettacolo un’esperienza visiva oltre che emotiva. Prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro e A.G. Spettacoli, L’erba del vicino è sempre più verde! si presenta come un’opera che travalica i confini del genere, mescolando commedia dell’equivoco, tradizione partenopea e incursioni nel noir. Il pubblico della Sala Umberto di Roma ha risposto con entusiasmo, tributando applausi calorosi anche a scena aperta e confermando il successo di una pièce che sa divertire, sorprendere e lasciare una traccia profonda nella memoria degli spettatori. Alla fine, come suggerisce il titolo stesso, l’erba del vicino non è mai realmente più verde: ciò che si desidera può rivelarsi un’illusione, e il vero cambiamento parte da una riflessione sincera sulla propria condizione. Questo messaggio, sapientemente intrecciato alla narrazione, rende lo spettacolo non solo un intrattenimento di qualità, ma anche un’occasione per riflettere con leggerezza su temi universali come l’insoddisfazione, il desiderio e l’inganno delle apparenze. @ph GildaValenza

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Divagazioni e delizie” dal 11 al 22 dicembre 2024

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 19:00

Roma, Teatro Parioli Costanzo
DIVAGAZIONI E DELIZIE
di John Gay
traduzione e regia Daniele Pecci
con Daniele Pecci
regista assistente Raffaele Latagliata
costumi Alessandro Lai
musiche originali Patrizio Maria D’Artista
foto di scena Tommaso Le Pera
“Divagazioni e Delizie” è il testo teatrale di John Gay, autore statunitense recentemente scomparso. E’ formato totalmente da scritti di Oscar Wilde, siano essi romanzi, brevi racconti, commedie, saggi, lettere o semplicemente aforismi.
La bravura dell’autore èstata quella di inventare il presupposto per cui Wilde, nell’ultimo anno della sua vita (1899), uscito dal carcere ed esule in Francia, stanco, grasso, malato e completamente in bancarotta, per cercare di tirare avanti, affitti piccole sale teatrali per dar spettacolo di sé, presentandosi al pubblico parigino come il ‘mostro’, ‘lo scandalo vivente’. Una sorta di conferenza autobiografica, a tratti interrotta da piccoli colpi di scena, happenings, e contrasti con i due inservienti/macchinisti del teatro. Seppur velata da una costante malinconia e da un sarcasmo feroce, la prima parte del testo scivola via fra vecchi ricordi, aneddoti, e racconti spesso molto divertenti. La seconda parte invece, attinge a piene mani dal quel doloroso e terribile atto d’accusa che è il De Profundis. Il fatale amore per Lord Alfred Douglas, il processo il carcere, gli ultimi anni esule tra la Francia e Napoli, la malattia e il presagio della morte ormai imminente. Scritto negli anni ’70 e interpretato con enorme successo a Broadway e poi in tutto il mondo da Vincent Price, in Italia è famoso per una fortunata edizione di Romolo Valli del 1978 per la regia di Giorgio De Lullo. Daniele Pecci ne fa, oggi, uno spettacolo straordinario, poetico, ironico, pieno di bellezza e malinconia, una prova d’attore indimenticabile. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Faust” dal 10 al 22 dicembre 2024

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 18:50

Roma, Teatro Vascello
FAUST

tratto da Faust I e II di Johann Wolfgang von Goethe
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, 
Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
costumi Rossana Gea Cavallo
light design Marco D’Amelio
Music and Sound Franco Visioli
fonico Filippo Lilli
direzione tecnica e datore luci David Ghollasi
macchinista Giuseppe Russo
assistente scenografo Caterina Rossi
aiuto regia Virginia Sisti
collaborazione organizzativa Elisa Pavolini
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione Teatro della Toscana Teatro Nazionale
si ringrazia per la collaborazione l’associazione Cadmo
Atteso debutto al Teatro Vascello in prima Nazionale per Leonardo Manzan, giovane regista che si è già distinto per l’originalità dei suoi lavori e che – a partire dai riconoscimenti ricevuti alla Biennale di Venezia con Cirano deve morire e Glory Wall – ha negli ultimi anni riscosso importanti apprezzamenti in Italia e all’estero. “C’era una volta un uomo che fece un patto col diavolo”. La storia è semplice. Eppure, si dice che il Faust di Goethe sia un testo irrappresentabile.  Un’opera monumentale che rispecchia la modernità a partire dalla figura del protagonista, eroe perennemente insoddisfatto incapace di essere felice, che vuole possedere l’assoluto e l’eternità. L’ormai affiatata coppia Leonardo Manzan & Rocco Placidi firma l’originale adattamento che, con un linguaggio contemporanea, riesce ad avvicinare anche i più giovani grazie alla musica che mette in risalto tutta la potenza e la modernità del testo. Una vera e propria opera musicale. Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Sala Umberto: “Little Boy: storia incredibile e vera della bomba atomica” unica data 09 dicembre 2024

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 18:35

Roma, Sala Umberto
LITTLE BOY: storia incredibile e vera della bomba atomica
con Roberto Mercadini
musiche dal vivo di Dario Giovannini
prodotto da Sillaba
distribuzione Terry Chegia
scritto e diretto da Roberto Mercadini
“Little boy”, alla lettera “ragazzino”: questo è il nome in codice della bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Con un sarcasmo atroce, si è dato un nomignolo affettuoso all’ordigno che provocherà la più grande strage di tutti i tempi: 160 000 vittime. Questa storia è tutta così, dall’inizio alla fine: cioè dai primi risultati della fisica quantistica all’esplosione. Così: ossia piena di estremi che si toccano: piena di ironia e di orrore, di calcoli perfetti e di casualità assurde, genio e idiozia, domande che hanno troppe risposte o che non ne hanno nessuna. Ed è piena anche di “little boys”, di “ragazzini”: Niels Bohr che, ancora studente, sbalordisce il suo insegnante di fisica con una risposta apparentemente sconclusionata; Werner Heisenberg che a soli 21 anni sarà già collaboratore di Bohr e che vincerà il premio Nobel a 31; Enrico Fermi che a 14 anni darà già segno di una intelligenza quasi inquietante divorando un libro apparentemente illeggibile: un testo di fisica del 1800, scritto in latino e lungo 900 pagine. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “La vittoria é la balia dei vinti” dal 10 al 15 dicembre 2024

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 18:10

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Stefano Francioni Produzioni

presenta
Cristiana Capotondi
LA VITTORIA È LA BALIA DEI VINTI
di Marco Bonini
musiche Jonis Bascir
regia Marco Bonini
Una mamma di oggi mette al letto la sua bambina di 6 anni che le chiede, come storia della buonanotte, di raccontarle qualcosa di quando lei, la sua mamma, era bambina. La mamma pesca nella memoria e le viene in mente l’avventura della bis-nonna Vittoria e di come il 25 settembre 1943, giorno del bombardamento a Firenze, aveva aiutato due gemelli. In un racconto tra l’evocazione fiabesca e la ricostruzione storica, la mamma rievoca la notte di Firenze sotto il fuoco “alleato” quando uno stormo di 36 aerei Wellington inglesi, mirando all’importante nodo ferroviario della stazione di Campo di Marte, manca inesorabilmente l’obiettivo ferroviario causando così la morte di centinaia di civili e pesanti devastazioni nelle zone adiacenti la ferrovia. Quella notte Nonna Vittoria è nascosta nel rifugio improvvisato nelle cantine di Palazzo Pitti, dove risiede in quanto moglie del sovraintendente ai beni culturali di Firenze. Quella notte Nonna Vittoria non si trova ad affrontare solo l’incubo della guerra, ma anche la vertigine di tabù sociale, allattare i due gemelli della sua balia che per lo shock aveva perso il latte. La guerra è uguale per tutti e sotto le bombe non ci sono più corti e signorie, piani alti e piani bassi, scale da scendere o da salire. Quando cadono le bombe dal cielo siamo tutti allo stesso piano, tutti nascosti in cantina. Lì sotto una madre vale una madre, un bambino un bambino, una balia un seno pieno di latte. Quando siamo tutti sotto le bombe non ci sono più vincitori né vinti. Sotto le bombe la Signora può servire la serva. Sotto le bombe la Vittoria è la balia dei vinti. Qui per tutte le informazioni.

 

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Gaetano Donizetti (1797 – 1848): “L’esule di Roma” (1828)

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 12:03

Melodramma eroico in due parti su libretto di Domenico Gilardoni. Nicola Alaimo (Murena), Albina Shagimuratova (Argelia), Sergey Romanovsky (Settimio), Lluís Calvet i Prey (Publio), Kezia Bienek (Leontina), André Henriques (Lucio, Fulvio). Opera Rara Chorus, Stephen Harris (maestro del coro), Britten Sinfonia, Carlo Rizzi (direttore). Registrazione: Fairfield Halls, Croydon, maggio 2023. 2 CD OPERA RARA ORC64.
Gaetano Donizetti vantava nel 1828 già un buon numero di titoli ma nessun autentico successo e soprattutto sembrava ancora cercare una propria, autentica strada. La lezione di Rossini era ancora dominante così come la necessità di andare oltre al pur illustre modello. Una nuova commissione per il San Carlo era occasione prestigiosa per l’ancor giovane compositore ma il libretto de “L’esule di Roma” che Domenico Gilardoni aveva liberamente tratto dal dramma “Androclès ou le Lion reconnaissant” di Louis-Charles Caigniez (1804) ispirato all’apologo di Androclo e il leone presente in Eliano e Aulo Gellio non sembrava fornire l’opportunità ideale per far brillare il giovane compositore. Testo datato, ancora legato a un’estetica neoclassica che stava rapidamente declinando il libretto fornì invece a Donizetti inattese occasioni di sperimentazione. Come sarà più tardi con “Belisario” proprio questi testi più convenzionali sembrano spingere il compositore alla ricerca di nuovi equilibri formali in cui la tradizione si apre verso inattesi sperimentalismi. Si veda sul piano strettamente formale la chiusura del I atto dove il classico finale è sostituito da un intenso e drammatico terzetto con una soluzione che Bellini riprenderà per il finale primo di “Norma”. L’opera è però soprattutto l’occasione per il primo incontro di Donizetti con un tema che sarà centrale della sua poetica: quello della follia. Follia che qui però non è quella gorgheggiante e astratta delle future eroine sopranili ma quella declamatoria e baritonale del senatore Murena, schiacciato dai sensi di colpa per le ingiuste accuse verso Settimio – innamorato della figlia Argelia e rivale politico dello stesso Murena – nonché per essersi abbassato a esecutore delle perfide trame di Seiano contro un innocente. Una follia virile – tema che in Donizetti tornerà solo nel “Torquato Tasso” del 1833 e in forme indefinite tra realtà e simulazione nel “Furioso all’isola di San Domingo” dello stesso 1833 – in cui l’evidente modello dell’Assur rossiniano viene calato in una dimensione più umana e dolorosa, in cui l’eroismo oscuro del tiranno babilonese cede alla pietà paterna e al senso di colpa civile del senatore romano.
La presente edizione Opera Rara – registrata in occasione di alcune recite in forma di concerto – presenta per la prima volta la nuova edizione critica a cura di Roger Parker e si arricchisce del solito ricco apparato testuale che caratterizza le produzioni dell’etichetta inglese.
Carlo Rizzi è un collaboratore abituale di Opera Rara ma con quest’opera trova una particolare sintonia riuscendo a rendere alla perfezione il clima sospeso tra rigore neoclassico e accensioni romantiche che la caratterizza. Vantaggio non trascurabile il disporre di una compagine strumentale della qualità della Britten Sinfonia che esalta una scrittura orchestrale a tratti particolarmente ispirata. Si ascolti il magnifico andate “Vagiva Emilia ancora” il cui l’arpa e i fiati accompagnano il canto del baritono in una melodia non dimentica del finale del “Mosè in Egitto” rossiniano ma che riporta l’abbandono mistico di questi in un dolore vivo e prettamente umano. Molto positiva anche la prova del coro discretamente impegnato e con una scrittura di sapore quasi oratoriale.

Nel cast spicca Nicola Alaimo autore di una prestazione esemplare tanto sul piano vocale quanto su quello interpretativo. La morbidezza del canto, l’eleganza del fraseggio e la facilità degli acuti – tutti i da capo sono variati secondo la prassi esecutiva d’epoca – si uniscono infatti a una dizione di esemplare chiarezza, quanto mai importante in un ruolo tanto caratterizzato da ampi declamati e un canto di esemplare compostezza, mai plateale ma sempre raccolto e raffinato e proprio per questo ancor più incisivo del tratteggiare la dolente umanità del personaggio. La scena della follia è – anche al solo ascolto – un momento di autentico teatro grazie alle qualità di Alaimo. Il resto del cast rientra nell’ambito della correttezza. Sergey Romanovsky viene dall’Accademia Rossiniana di Pesaro e quindi ha il gusto aplomb stilistico per la parte di Settimio di cui coglie soprattutto il lato più lirico. Il canto è facile, gli acuti sicuri, la quadratura musicale estremamente corretta. Resta però un sentore d’incompiuto, come se tutto fosse fatto si bene ma in modo molto  artificioso, priva di quella naturalezza che si vorrebbe. Vale per la dizione – pulita ma che sa un po’ d’inamidato. Nulla fuori posto ma non riesce a entusiasmare a lasciare il segno. Mancano – e non sarebbe dispiaciuto averle in appendice – le arie aggiunte per Donzelli nel 1840.
Albina Shagimuratova è notevole soprano di coloratura ma alle prese con una parte non ideale per la sua vocalità. Certo non manca di qualità e con acuti facilissimi, ottimo controllo del fiato e coloratura sgranate con abbagliante facilità a facile gioco a trionfare nel rondò finale. Questi pregi sono anche il suo limite perchè abbiamo una visione monodimensionale del personaggio, privo di una più autentica intensità drammatica che la parte sembra in più punti richiedere ma che facciamo fatica a trovare. Lluis Calvet i Prey fa buona impressione nei panni di Publio e molto valide tutte le parti di fianco.  Resta comunque un’ottima occasione per conoscere un’opera poco documentata – in precedenza una sola edizione discografica – e ancor meno rappresentata ma non per questo priva d’interesse.

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Roma, Pantheon: “Oculus Spei” di Annalaura di Luggo

gbopera - Mer, 04/12/2024 - 11:46

Roma, Pantheon
OCULUS SPEI
di Annalaura di Luggo
L’installazione multimediale interattiva “Oculus-Spei” di Annalaura di Luggo, ospitata nel Pantheon di Roma, rappresenta un esempio emblematico di come l’arte contemporanea possa interagire con spazi storici, simbolici e spirituali per veicolare messaggi di inclusione e riflessione universale. Quest’opera, concepita in stretta relazione con il tema della speranza, trova la sua matrice concettuale nell’incipit della bolla papale del Giubileo 2025, dove si afferma che “Spes non confundit” (“La speranza non delude”). La scelta del Pantheon come sede dell’intervento appare particolarmente significativa: luogo emblematico della classicità, esso è stato riconfigurato nei secoli come spazio sacro cristiano, costituendo un unicum nella stratificazione storica, culturale e simbolica della città di Roma. L’artista ha saputo cogliere e amplificare questa stratificazione, trasformando l’edificio in un laboratorio esperienziale dove arte, tecnologia e spiritualità si intrecciano per proporre una riflessione profonda sulla condizione umana. Il progetto si struttura intorno a un’interazione simbolica e fisica con il fascio di luce proveniente dall’oculus sommitale del Pantheon, elemento architettonico e simbolico di straordinaria potenza evocativa. Questo raggio luminoso diviene la guida che conduce i visitatori attraverso un percorso scandito da cinque porte, le cosiddette Porte Sante. Esse non sono semplicemente varchi materiali, ma piuttosto elementi carichi di significati simbolici, rappresentazioni di altrettante tappe di un viaggio spirituale e culturale. L’esperienza non si limita a una dimensione visiva, ma coinvolge attivamente il pubblico, chiamato a interagire con le porte, bussando concretamente a esse. Questo gesto fisico, apparentemente semplice, acquisisce una valenza metaforica profonda, rappresentando l’atto di ricerca, apertura e trasformazione interiore. Le guide in questo pellegrinaggio simbolico sono persone con disabilità, figure che, nella concezione della di Luggo, si configurano come veri e propri Virgilio moderni. La loro presenza non è puramente rappresentativa, ma parte integrante della narrazione proposta dall’artista. Essi illuminano il percorso dei visitatori, trasfigurati a loro volta dalla luce, incarnando il potenziale trasformativo della speranza e della resilienza. Questo incontro tra arte, spiritualità e inclusione sociale si traduce in uno “sguardo” inedito sulla realtà e sulla bellezza interiore, capace di superare i limiti imposti dalle convenzioni estetiche e culturali. Le quattro vele del logo del Giubileo 2025, simbolicamente associate ai quattro angoli del mondo, costituiscono il riferimento iconografico principale delle prime quattro porte. Ognuna di esse rappresenta una dimensione universale, un varco verso un altrove che invita alla scoperta, all’apertura e alla connessione. Il viaggio culmina nella quinta porta, situata idealmente presso il Carcere di Rebibbia, che Papa Francesco ha voluto simbolicamente elevare a Porta Santa aggiuntiva. In questa fase finale del percorso, il visitatore è messo di fronte a sé stesso attraverso un sistema tecnologico avanzato di gesture recognition, che permette di interagire in tempo reale con la propria immagine riflessa e con l’ambiente circostante. Questa esperienza, resa possibile dalla luce come medium principale, stimola una riflessione profonda sulla condizione umana, sul rapporto tra il sé e l’altro, e sul significato della speranza come motore di cambiamento. L’intera installazione può essere letta come una metafora della spiritualità universale, un invito a superare le barriere culturali, sociali e personali attraverso un linguaggio artistico che coniuga profondità simbolica e accessibilità esperienziale. L’opera, inoltre, si colloca nel contesto della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità nei musei, sottolineando la necessità di rendere l’arte e la cultura strumenti inclusivi, capaci di promuovere pari opportunità e dignità per tutti. La scelta della di Luggo di affidare alle persone con disabilità un ruolo centrale nel progetto non è meramente decorativa, ma rappresenta un atto politico e culturale, un richiamo alla responsabilità collettiva verso una società più equa e solidale. In termini estetici e concettuali, Oculus-Spei si pone come un esempio paradigmatico di come l’arte contemporanea possa dialogare con i grandi temi della tradizione senza cadere nella banalizzazione o nella retorica. L’affermazione di Gerhard Richter secondo cui “L’arte è una forma di speranza” trova in quest’opera una realizzazione tangibile. La di Luggo declina questa speranza in una molteplicità di forme: dall’invito alla riflessione personale alla proposta di una visione collettiva e universale, passando per l’interazione tecnologica che amplia le possibilità percettive ed emotive del pubblico. Le porte stesse, con la loro presenza imponente e il loro significato simbolico, diventano elementi enigmatici e affascinanti, capaci di suscitare l’immaginazione e di stimolare una riflessione sul rapporto tra il visibile e l’invisibile. Esse si configurano come totem arcaici che, attraverso il loro disvelamento progressivo, conducono a una rivelazione epifanica. In questo contesto, la luce gioca un ruolo fondamentale, non solo come elemento fisico e tecnologico, ma anche come simbolo della conoscenza, della speranza e della trasformazione interiore. L’artista utilizza la luce per “attivare” gli spazi, rendendoli vivi e capaci di interagire con il pubblico in modi profondamente significativi. L’intero progetto si inserisce nel percorso artistico di Annalaura di Luggo, caratterizzato da una costante attenzione ai temi della sostenibilità, dell’inclusione e della trasformazione sociale. Le sue opere precedenti, come “Blind Vision” e “Napoli Eden”, testimoniano un impegno costante nel coniugare arte e responsabilità etica. In “Oculus-Spei”, questo impegno si traduce in una proposta che non solo celebra il valore dell’arte come strumento di conoscenza e riflessione, ma la rende anche un mezzo per promuovere un cambiamento reale nella percezione e nella comprensione del mondo. L’opera, infine, rappresenta un esempio emblematico di come l’arte possa essere un ponte tra tradizione e innovazione, tra spiritualità e laicità, tra dimensione individuale e collettiva. Oculus-Spei non è solo un’installazione artistica, ma un’esperienza trasformativa che invita a ripensare il ruolo dell’arte nella società contemporanea e a riscoprire il valore della speranza come forza generatrice e rigeneratrice. Essa ci ricorda che l’arte, quando autentica e profondamente radicata nei valori umani universali, può davvero rappresentare una forma di resistenza all’omologazione e un faro luminoso in un mondo sempre più frammentato e complesso.

Categorie: Musica corale

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