Castell’Arquato (PC), Piazza del Municipio, Festival Illica 2023
“NOZZE ISTRIANE”
Dramma lirico in tre atti di Luigi Illica.
Musica di Antonio Smareglia
Marussa SARAH TISBA
Menico GRAZIANO DALLAVALLE
Lorenzo GIUSEPPE INFANTINO
Biagio FILIPPO POLINELLI
Nicola FRANCESCO SAMUELE VENUTI
Luze GIOVANNA LANZA
Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Festival Illica
Direttore Jacopo Brusa
Maestro del Coro Riccardo Bianchi
Regia Davide Marranchelli
Scene e Costumi Anna Bonomelli
Nuova Produzione del Festival Illica
Castell’Arquato (PC), 07 luglio 2023
“Nozze istriane” è ad oggi considerato il capolavoro di Antonio Smareglia (1854-1929), compositore che godette di grande apprezzamento in vita, compresa la stima di Richard Strauss, ma venne nei suoi ultimi anni emarginato dal suo stesso ambiente per ragioni politiche (non aveva accolto le posizioni irredentiste in voga a cavallo della Grande Guerra) e le sue opere estromesse dal repertorio. “Smareglia traditore”, “Smareglia menagramo”, queste erano le più gentili parole che gli venivano riservate e cui, incredibilmente, ancora oggi alcuni credono. In realtà, la produzione di Smareglia è tra le più originali del suo tempo, in grado di spaziare con facilità tra il dramma storico postromantico, il verismo più appassionato e un certo simbolismo di matrice maeterlinckiana, a lui giunto attraverso i libretti di Silvio Benco. “Nozze istriane” riesce a stagliarsi come un sapiente mix di questi ultimi due elementi: se la vicenda ha le tinte forti dei sentimenti assoluti e un ambientazione rurale, come nel Verismo, il personaggio della “perduta” Luze sembra uscire dai versi dei poeti crepuscolari e sottolinea la tragedia delle passioni proprio per la sua natura dolente e trasognata. Non possiamo, alla luce di queste poche riflessioni, che complimentarci con il Festival Illica per aver scelto di riproporre questa gemma dell’opera italiana, troppo spesso liquidata come “la Cavalleria Rusticana del Nord”, quando invece, sul piano drammaturgico e della costruzione dei personaggi, è chiaramente più profonda e complessa dell’atto unico mascagnano. Si può sentire il favore che il maestro Jacopo Brusa accorda all’opera nella sua concertazione coesa e trascinante: i molti colori della partitura emergono con chiarezza, pur emergendo chiaramente gli archi, cui sono affidati i suggelli più struggenti o più intimisti dell’opera. Purtroppo la scena e l’orchestra non sono sempre perfettamente a tempo, soprattutto se si tratta del Coro, la cui performance avrebbe probabilmente avuto bisogno di più prove. Fra i solisti spiace constatare che proprio i due protagonisti non ci sono sembrati all’altezza dei loro ruoli: sia Sarah Tisba (Marussa) che Giuseppe Infantino (Lorenzo). La Tisba, scenicamente coinvolta e attenta, non ha tuttavia il corpo vocale adatto a una parte lirico-spinta, centri esangui e negli acuti non sempre a fuoco e sovente forzati; anche Infantino, che già abbiamo avuto modo di apprezzare, ha una qualità vocale evidentemente più adatta a parti da tenore lirico: il suono piacevolmente tondo, in questo ruolo appare forzato e poco gradevole. A parte questo, però, la prova vocale di Infantino non presenta problemi di sonorità o intonazione, quanto un fraseggio monocorde, che accompagna una prova scenica piuttosto impacciata. Il resto del cast, fortunatamente, si distingue tutto positivamente, a partire dalla struggente Luze di Giovanna Lanza, la cui attenzione espressiva si incarna nell’arioso “Luze un amante aveva” del Primo Atto; molto convincente nel controllo vocale e nell’impegno scenico anche Filippo Polinelli, il “cattivo” Biagio, in grado di reggere una tessitura ardua sia verso l’alto che nei gravi; voce dai bei colori smaltati e ricca di armonici sfodera anche Francesco Samuele Venuti (Nicola), purtroppo penalizzato dalla resa scenica; infine, pure Graziano Dallavalle si mostra ben padrone del ruolo di Menico, tanto sul piano vocale che su quello attoriale. Come spesso ultimamente ci capita di testimoniare, è la regia l’aspetto meno riuscito di questa produzione: Davide Marranchelli e Anna Bonomelli ha infatti creduto appropriato costruire una scena attuale, non realistica, in cui i personaggi si mostrano in palette di fucsia, dal rosa fino al viola, in barba a qualsivoglia superstizione teatrale. Tuttavia questi colori così forti non solo rischiano di non legare bene con il resto della scena, ma sono anche difficili da illuminare – e infatti sono le luci un’altra causa di perplessità, poiché paiono gestite in modo francamente imperscrutabile. Ne risulta una scena scura, dominata da una statua mariana, ma animata da figure dai colori sgargianti – fino al kitsch del completo rosa di Nicola nel Terzo Atto, disorientante e grottesco. Inoltre il libretto di Illica, proprio al Festival Illica viene più volte ignorato: gli apici di questa “autonomia scenica” si raggiungono nella scena d’amore segreto di Marussa e Lorenzo del Primo Atto, che si svolge inspiegabilmente in presenza del coro, e del Terzo Atto, con Marussia perfettamente vestita da sposa e Nicola che per tre volte la rimprovera di non essere ancora vestita per il matrimonio. La sensazione è quella di una regia poco consapevole di tutto il contesto dell’opera, con alcuni slanci poco riusciti (come una sposa che lancia – peraltro senza successo – il suo velo dalla Torre Viscontea: chi è? perché?) alla ricerca di un’autoralità forse ancora acerba.
Castell’Arquato (PC), Piazza del Municipio, Festival Illica 2023
“IL 3001” (concerto)
Opera comica in tre atti su libretto di Luigi Illica e Lisa Capaccioli
Musica di Voris Sarris
Reginotta, soprano MARTA LEUNG
Figlio (poi, 2), tenore RAFFAELE FEO
Americano, baritono LORENZO LIBERALI
9, basso GIACOMO PIERACCI
Madama 9, mezzosoprano ALESSANDRA PALOMBA
Prima Cifra Suprema, soprano BRONISLAWA KATARZYNA SOBIERAJSKA
Seconda Cifra Suprema, mezzosoprano MARIANNA PETRECCA
Terza Cifra Suprema, contralto RUMIANA PETROVA
La Cifretta, soprano VIRGINIA AURORA BARCHI
Il reclamante 91, tenore YIYING GUO
La reclamante 91, soprano GIOVANNA FALCO
Orchestra Filarmonica “Arturo Toscanini”
Coro del Festival Illica
Direttore Riccardo Bianchi
Castell’Arquato (PC), 6 luglio 2023
Sotto la direzione artistica di Jacopo Brusa il Festival Illica di Castell’Arquato sta vivendo una rinascita soprattutto per quanto riguarda la qualità divulgativa delle scelte operate: l’anno passato il revival de “Le Maschere” di Mascagni, quest’anno addirittura due progetti, di cui il primo decisamente coraggioso – mettere in musica il più originale libretto (incompiuto, peraltro) di Luigi Illica, “Il 3001”, che si può a ben diritto considerare il primo e unico tentativo di opera fantascientifica (composto attorno al 1908). Il soggetto di questo bislacco libretto tuttavia tanto bislacco non è, anzi, prefigura i futuri distopici di Zamjatin (Noi, 1920) e Orwell (Millenovecentottantaquattro, 1948), inserendosi nell’allora originalissimo solco di Butler (Erehwon, 1870) e Morris (Notizie da nessun luogo, 1890). L’assoluta modernità del soggetto ne decretò, probabilmente, l’abbandono e la mai avvenuta messa in musica: oggi, invece, un concorso internazionale ha prescelto il giovane compositore cipriota Voris Sarris per completarla e la dramaturg Lisa Capaccioli, incaricata di riordinare in un soggetto coerente ed efficace il molto materiale illichiano. Diciamo subito che se l’intervento di Capaccioli sembra aver colpito pienamente nel segno, con la costruzione di un libretto godibile, ricco d’azione e di dialoghi ben costruiti, la composizione di Sarris ci pare riuscita a metà: se alcuni momenti presentano un’orchestrazione illuminante, che lascia affiorare ironia o sentimento, in altri percepiamo un sinfonismo un po’ troppo accentuato, a discapito del ritmo determinato dal libretto. Per il resto, tuttavia, l’opera presenta un alto livello di fruibilità, una concertazione ricca ed espressiva, che miscela momenti ispirati alle radici mediterranee del compositore a soluzioni armoniche più tipiche delle grandi opere scritte da Illica – un certo afflato postromantico e verista. La vicenda, come anticipato, è quella di un’umanita distopica ed “eguagliata” da un collegio di giudici (Le Cifre Supreme), incaricati di far rispettare l’attività del Regolatore, un aggeggio che a ognuno viene posto sul petto una volta raggiunta l’età adulta e che impedisce di contravvenire alle regole della società “giusta”. In questo contesto l’amore di 2 (i nomi infatti si sostituiscono con i numeri al momento dell’applicazione del Regolatore) per Reginotta è sbagliato, perché lei non è quello che i coniugi 9 (genitori di 2) hanno scelto per il figlio. Posti sotto processo, i due giovani preferiranno uccidersi reciprocamente piuttosto che vedere azzerati i ricordi l’uno dell’altra e viceversa. Purtroppo, però, questo non produrrà un effetto rivoluzionario à la “Romeo e Giulietta”: le Cifre Supreme, vedendo nascere una sommossa, decidono di azzerare tutta l’umanità, che quindi dimentica tutto e finisce per tessere le lodi del Regolatore, come all’inizio. I non pochi ruoli vocali previsti sono caratterizzati da una scrittura ardua e a tratti postmoderna – battute aleatorie, o segnate direttamente a spartito. Raffaele Feo, nella parte di 2, non mostra difficoltà tecnico-vocali, quanto a volte nel seguire esattamente l’andamento della partitura; il colore della voce di tenore leggero è comunque quello fresco e naturale che già conosciamo, con una certa attenzione anche per il fraseggio, nelle parti più sentimentali; corrisponde quasi perfettamente a questa definizione anche Marta Leung (Reginotta), sebbene a centri tondi e fascinosi non sempre corrispondano acuti altrettanto sicuri – suo, peraltro, uno dei pochi ariosi dell’opera “E disse l’usignol” di pregevole melodiosità e interpretato con bel fraseggio emozionato. Il coro, terzo protagonista dell’opera, purtroppo ha riscontrato alcune difficoltà nell’apprendere la parte e si vede: gli attacchi sono spesso incerti, a volte giustificati da alea compositoria, altre chiaramente fuori tempo. È peraltro evidente che l’esiguo numero degli artisti del Coro del Festival Illica (una ventina) non sappia perfettamente adattarsi alle intenzioni del compositore, che sembra aver chiaramente scritto per una compagine maggiore. Tra i non pochi ruoli di lato spiccano le tre Cifre Supreme (Bronislawa Katarzyna Sobierajska, Marianna Petrecca, Rumiana Petrova) per chiarezza della dizione e buone capacità di armonizzazione, e l’Americano di Lorenzo Liberali, l’antagonista della storia, il cittadino libero (poiché straniero) che sogna di avere un Regolatore, e per dimostrare la sua affezione alla causa tradisce 2 e Reginotta. Liberali mostra bei colori intensi nella tessitura pienamente baritonale, che timbra con attenzione espressiva (sembra quello cui la forma di concerto stia un po’ più stretta). Anche Virginia Aurora Barchi, nel ruolo della Cifretta, sa catturare l’attenzione del pubblico grazie al nitore della vocalità sopranile che sfodera nel suo “Lamento”, altro momento più lirico dell’opera. Non indimenticabili le performance dei Signori 9 (Giacomo Pieracci e Alessandra Palomba) e dei Reclamanti 91 (Yiying Guo e Giovanna Falco). La direzione del Maestro Riccardo Bianchi è evidentemente tutta votata a tenere in primis insieme l’orchestra e poi solisti e coro. Per quanto in un paio di casi la discrasia si faccia sentire, non possiamo che apprezzare i risultati che il Maestro ottiene, cioè quello di un suono multisfaccettato e al contempo un chiarissimo senso di coesione, un desiderio di proporre un unicum complesso e non una disamina di strumenti e voci – come sovente accade nel caso delle opere contemporanee. Senz’altro varrebbe la pena di vedere messa in scena questa originalissima opera fantascientifica, così da poter permettere anche agli interpreti di esercitarvisi di più e al pubblico di recepirla meglio: per ora, comunque, non possiamo che applaudire ancora il Festival Illica per questa coraggiosa operazione che è sia di riscoperta sia d’innovazione – due processi ahinoi ancora troppo distanti dai cartelloni dei teatri italiani.
Nel programma del Festival più ricco di sempre, in un’ideale antologia degli spettacoli più amati degli ultimi trent’anni, Fondazione Arena presenta il classico allestimento che Gianfranco de Bosio ideò nel 1991 e che da subito ebbe grande fortuna e molte riprese. L’approccio al teatro musicale dello scomparso maestro de Bosio, di cui l’anno prossimo ricorrerà il centenario, è quello tradizionale ma sempre documentatissimo ovunque siano disponibili fonti storiche, come testimonia la sua ormai classica lettura di Aida (che applicò per le ricostruite scene del 1913 le disposizioni sceniche dello stesso Verdi). In questo solco si muove Nabucco, in cui solisti e masse sono movimentati con rigore e parsimonia tra le scene spettacolari di Rinaldo Olivieri, dal Tempio di Gerusalemme alla celebre Torre di Babele, utilizzando l’ampio spazio e le gradinate del palcoscenico areniano. L’allestimento torna in Arena dopo l’ultima ripresa del 2015 curata dal regista e offre terreno ideale per gli interpreti, tutti di massimo rilievo internazionale, per le quattro recite: protagonista eponimo per le prime due è Amartuvshin Enkhbat, cui succederanno Roman Burdenko (3/8) e Luca Salsi (17/8). Maria José Siri dà voce e corpo ad Abigaille, che per una data sarà interpretata da Anna Pirozzi (28/7). Come Zaccaria troviamo i bassi Alexander Vinogradov (15 e 28/7) e Rafał Siwek (3 e 17/8). Molto impegnativi sono anche i ruoli di Ismaele, affidato a Matteo Mezzaro (al debutto nel ruolo) e di Fenena, con cui Josè Maria Lo Monaco esordisce in Arena, seguita da Vasilisa Berzhanskaya. Nei ruoli di fianco si segnalano apprezzati interpreti come Riccardo Rados (Abdallo per le prime due recite, dopo le quali avverrà il passaggio ad Ismaele) Carlo Bosi, quindi Gianfranco Montresor come Gran Sacerdote di Belo e i soprani Elisabetta Zizzo ed Elena Borin ad alternarsi come Anna. Anche alla guida dell’Orchestra di Fondazione Arena e del Coro preparato da Roberto Gabbiani, vi sarà un avvicendamento: dopo la prima affidata a Daniel Oren, di assoluto riferimento nel titolo, le tre recite successive saranno dirette da Alvise Casellati, già applaudito sul podio anche nell’ultimo Nabucco risorgimentale secondo Bernard.
Dopo la prima di sabato 15 luglio, repliche il 28 luglio, 3 e 17 agosto.
100° Arena di Verona Opera Festival 2023
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry GILDA FIUME
Alfredo Germont FRANCESCO MELI
Giorgio Germont LUCA SALSI
Flora Bervoix SOFIA KOBERIDZE
Annina FRANCESCA MAIONCHI
Gastone, Visconte di Letorières CARLO BOSI
Il Barone Douphol NICOLÒ CERIANI
Il Dottor Grenvil GIORGI MANOSHVILI
Il Marchese d’Obigny ROBERTO ACCURSO
Giuseppe FRANCESCO CUCCIA
Un Domestico di Flora STEFANO RINALDI MILIANI
Un Commissionario STEFANO RINALDI MILIANI
Primi ballerini NICOLETTA MANNI, TIMOFEJ ANDRIJASHENKO
Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia e Scene Franco Zeffirelli
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Paolo Mazzon
Coreografia Giuseppe Picone
Verona, 8 luglio 2023
Torna all’Arena di Verona la Traviata di Franco Zeffirelli, allestimento postumo già debuttante nel 2019 e da noi già ripetutamente recensito. Non ci soffermeremo dunque sul lato visivo se non per confermare ancora una volta la prima impressione ricevuta: uno spettacolo tutto sommato abbastanza prevedibile e scontato, a cui non basta la sontuosità della festa nel secondo atto a casa di Flora e la pioggia di lustrini a dare slancio e quel ritmo già impresso nella musica di Verdi. Per dirla con Julian Budden, il dramma di Violetta è una corsa verso la morte, inesorabile, che la protagonista tenta invano di rallentare grazie all’amore di Alfredo ma che di fatto incombe sulla sventurata. Dunque uno spettacolo senza un filo conduttore e con poche idee efficaci, forse perché la mano del grande regista è venuta a mancare proprio nel momento topico della messa in scena, lasciata incompiuta ed affidata ai suoi assistenti. Il tratto del maestro fiorentino è evidente nella complessità delle scene che vanno a gravare sulle operazioni di montaggio e di cambio che spesso va a sforare i tempi. Detto questo, non possiamo esimerci dal citare i costumi di Maurizio Millenotti, le luci di Paolo Mazzon e la coreografia di Giuseppe Picone, di particolare efficacia nella festa del secondo atto con l’ingresso delle Zingarelle e dei Mattadori. Nel ruolo della protagonista, a sostituire l’indisposta Nina Minasyan (che pure aveva saltato la prima del Rigoletto), vi era Gilda Fiume che già avevamo ascoltata lo scorso anno nel concerto di presentazione del festival; se allora aveva suscitato qualche perplessità si può dire che la sua prova è stata ottima, certo il ruolo richiede una maturità vocale e psicologica non indifferente e questo non toglie che nel tempo possa cucirselo addosso con risultati lusinghieri. Per dirla con lo stesso Verdi, il tempo giudicherà. Di Francesco Meli vi è ben poco da dire, in Arena è ormai Alfredo per antonomasia e si distingue per il bel fraseggio unito al solido controllo dello strumento anche se gli acuti iniziano a risentire di una certa opacità che comunque non va ad inficiare una grande prova anche attoriale. Luca Salsi delinea un Germont padre abbastanza generico e qualunquista; pur potendo contare su una voce ragguardevole risolve il suo impegno cantando sempre allo stesso modo: non si è ravvisata differenza alcuna tra l’uomo pedante, ottuso e perbenista e il suo ravvedimento finale che tra l’altro Verdi sottolinea con un cantabile stupendo al cospetto della morente Violetta. Un vero peccato dal momento che il compositore ha scolpito, perfino cesellato il personaggio modellandone il canto su ogni sfumatura psicologica e caratteriale. Il resto della compagnia di canto non presentava particolarità degne di nota, tutti gli interpreti sono apparsi vocalmente e scenicamente corretti a partire da Sofia Koberidze (Flora), Francesca Maionchi (Annina), Carlo Bosi (Gastone di Letorières), Nicolò Ceriani (Douphol), Roberto Accurso (Marchese d’Obigny), Giorgi Manoshvili (Grenvil), Francesco Cuccia (Giuseppe) e Stefano Rinaldi Miliani (Domestico e Commissionario). Maestro concertatore era Andrea Battistoni il quale sembra finalmente aver trovato, con l’età, un proprio stile musicale autonomo ed avulso da pedestri imitazioni; abbandonati certi vezzi come salti sul podio, sguardi stralunati e partecipazione visceralmente sonora riconducibili ad un collega decano dell’Arena, ha compreso che si può ottenere dall’orchestra della Fondazione Arena il medesimo risultato anche con una direzione appassionata seppur lineare e garbata. La sua lettura è stata perciò passionale, vissuta ed intrisa di tutta la tavolozza timbrica ed emotiva contenute nella partitura; in buona sostanza ci ha restituito il capolavoro verdiano ripulito di ogni forzatura stilistica, regalandoci anche qualche cedimento agogico di assoluta godibilità. Bene il coro, sul quale nulla vi è da eccepire, efficace nel suo ruolo di contorno al dramma come espressione gaudente dell’aristocrazia parigina ottusa e perbenista. Resta da fare un’ultima considerazione: noi facciamo cronaca e, per dovere della medesima, ci sembra doveroso tornare su due aspetti dolenti già enucleati nelle precedenti recensioni: il primo, legato ad una certa precarietà degli spettacoli proposti, dovuta a molteplici cause quali la scarsità di prove e i ritmi incalzanti imposti ai cantanti i quali giungono in recita già stanchi. Un tempo ci si fermava due o tre settimane a preparare uno spettacolo, oggi si arriva a fare Rigoletto tra una recita di Don Carlo a Vienna e una Tosca a Barcellona, un Trovatore a Sidney e una Butterly a Berlino; la stanchezza vocale è la peggior nemica di uno spettacolo vivo e drammaturgicamente pregnante. Il secondo aspetto è, ahinoi, legato ad un pubblico ormai sempre più estraniato dalla liturgia teatrale, un pubblico che sembra aver perso ogni inibizione e le più elementari regole di buona educazione. Ecco dunque battere le mani su Toreador en guarde, canticchiare sopra Amami Alfredo o sul celebre Brindisi, esternare il proprio consenso con urla da stadio, riprendere la scena con il telefonino in barba ai divieti, alzarsi a piacimento durante lo spettacolo per andarsene in bagno o chissà dove. Siamo al minimo storico del buonsenso e delle più elementari regole di convivenza civile ancor prima che di buona cultura musicale. Ai posteri l’ardua sentenza. Repliche il 14 e 27 luglio, il 19 e 26 agosto e il 9 settembre, recita che vedrà Anna Netrebko dare l’addio al ruolo di Violetta. Foto Ennevi per Fondazione Arena.
L’amore contrastato dei giovani, gli equivoci, i travestimenti, le beffe. E le donne, libere di pensare a agire. Debutta, in prima nazionale, al Teatro Romano di Verona, Le allegre comari di Windsor diretto da Andrea Chiodi. L’opera e i personaggi di William Shakespeare vengono evocati in un country club dal sapore inglese, fatto di tartan e kilt, in un vivace gioco di farse, danze e violenze. Giovedì 13 e venerdì 14 luglio, alle ore 21.15, al Teatro Romano torna una delle commedie più amate e rappresentate del Bardo. Lo spettacolo, prodotto da Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, debutta all’Estate Teatrale Veronese, Festival organizzato dal Comune di Verona in collaborazione con Arteven e il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Veneto. Un esordio che proseguirà a Padova.
Dal 17 al 29 luglio, Le allegre comari di Windsor debutterà sul palco del Teatro Verdi nell’ambito della rassegna estiva “Aperitivo con Shakespeare”. Nell’adattamento curato da Angela Demattè, che gioca sulla fedeltà del linguaggio, Andrea Chiodi conferma il suo talento registico, creando un mondo immaginario abitato da un cast d’eccezione. L’iconica Eva Robin’s vestirà i panni di Miss Quickly, sempre pronta a tessere quel filo che unisce tutti gli inganni. Assieme a lei, sul palcoscenico, Angelo Di Genio, Francesca Porrini, Nicola Ciaffoni, Davide Falbo, Riccardo Gamba, Sofia Pauly, Ottavia Sanfilippo e Pierdomenico Simone. Ad arricchire la produzione le scene di Guido Buganza, i costumi di Ilaria Ariemme e la cura dei movimenti di scena di Marta Ciappina, oltre alle musiche di Daniele D’angelo.
Ulteriori informazioni sul sito www.spettacoloverona.it.
Luciano Ganci, uno dei tenori più richiesti della sua generazione, ha iniziato la sua carriera musicale nel Coro della Cappella Musicale Pontificia Sistina sotto la direzione del Maestro Domenico Bartolucci. Non solo ha studiato canto, ma anche pianoforte e organo, combinando gli studi musicali con quelli tecnici, conseguendo la laurea in Urbanistica e pianificazione territoriale. Nel 2006, Ganci ha intrapreso lo studio del canto lirico, perfezionandosi principalmente sotto la guida di Otello Felici. Ha vinto e ricevuto premi in vari concorsi, tra cui l’Ottavio Ziino di Roma, il Rolando Nicolosi di Roma, l’Iris Adami Corradetti di Padova, il premio internazionale Giuseppe Verdi come giovane promessa della lirica e l’International Opera Award per la new generation. Dal 2009 si è distinto per la sua voce ampia e luminosa, debuttando nei ruoli di Nozze di Figaro, Gianni Schicchi, Alfredo ne La Traviata, Rodolfo ne La Bohéme, Pinkerton ne la Madama Butterfly, Oronte ne I Lombardi alla prima crociata e Turiddu nella Cavalleria rusticana. Nel 2012 ha fatto il suo debutto internazionale con La Traviata a Salisburgo. Da allora, ha accumulato una serie di debutti di successo in opere come Il Corsaro, Nabucco, Attila, Tosca, Macbeth, la Luisa Miller di Verdi, la Norma, Giovanna d’Arco, Un ballo in maschera, Stiffelio di Verdi, Carmen, Francesca da Rimini, Lucia di Lammermoor, La forza del destino, Andrea Chénier, Aida e Adriana Lecouvreur. Nel 2023 ha debuttato come Canio in Pagliacci al Teatro dell’Opera di Roma, dopo aver inciso l’opera. Inoltre, ha debuttato nel ruolo di Ildemaro nella prima mondiale dell’opera Dalinda di Donizetti a Berlino. Ha cantato anche per la prima volta al Bayerische Staatsoper in Aida. I suoi prossimi impegni includono le opere Madama Butterfly, Pagliacci, Aida, Fedora, Simon Boccanegra e Un ballo in maschera.
Si definisca con tre aggettivi…
Simpatico, severo, studioso
Qual è il suo segno zodiacale? Si riconosce nei suoi tratti salienti?
Sono del segno dell’acquario e mi riconosco totalmente nelle caratteristiche del segno e ne vado anche abbastanza orgoglioso, ma non vorrei rispondere anche alla domanda che fai più in avanti, altrimenti brucio l’intervista.
È superstizioso? E se si, riguardo a cosa? Segue qualche particolare rituale a riguardo?
Non mi reputo superstizioso, a meno che non incontri un gatto nero che mi attraversa la strada o che debba necessariamente passare sotto una scala. Diciamo che la vivo come tinta allegra di una tradizione, ma non ho rituali di nessun genere. Di natura sono un dissacratore, ho dissacrato anche questi, incrociando le dita ovviamente e toccando ferro.
È una persona spirituale? E se si, in che modo?
Si lo sono. Credo che chi fa arte deve avere una forte componente spirituale: deve poter credere in qualcosa che sta al di sopra di noi perché ogni qual volta facciamo arte evochiamo in noi qualcosa di divino.
Ha mai invidiato qualcuno? E se si, chi?
No, al massimo ho ammirato molto ma mai invidiato perché invidiare senza conoscere cosa c’é dietro l’oggetto dell’invidia lo trovo molto superficiale. Quando qualcuno mi dice “io ti invidio” gli propongo come cura di fare tutto quello che faccio io per un mese, al fine di fargli capire che gli applausi dopo un’aria sono la conclusione di cinque minuti di luce preparati in anni passati al buio.
Che lavoro avrebbe fatto, se non fosse diventato un cantante lirico?
Avrei continuato il mio lavoro da ingegnere nell’azienda dove ho lavorato fino al 2013, la Terna, ed ora avrei avuto certamente un buon inquadramento. Non mi dispiaceva quel lavoro, ma quando finivo un progetto od una pratica nessuno applaudiva.
La sua famiglia ha influenzato le sue scelte?
La mia famiglia di origine fortunatamente no, sono stato lasciato libero di fare tutti gli errori che mi hanno permesso di arrivare fino a questa intervista.
Qual è il suo ricordo più caro?
La nascita dei miei figli, assolutamente. La mia non me la ricordo ma deve essere stato un momento bello anche quello.
Qual è il profumo che associa alla sua infanzia?
L’odore del pane. Le rosette messe nella busta di cartone che emanavano quel profumo che riempiva la cucina.
Qual è il momento in cui si è sentito più orgoglioso?
Quando il mio primo figlio ha detto papà come prima parola e mi ci sento sempre quando mi chiamano papà. Ora sai come farmi sentire orgoglioso, chiamami anche tu papà.
Qual è la sua più grande delusione?
Ne ho avute tante, ma tutte simili, e cioè quando ti spendi per una persona e questa non apprezza anzi disprezza l’aiuto ricevuto.
C’è qualcosa che manca nella sua vita attualmente? E se si, cosa?Non mi manca nulla, e quello che manca o non serve o me lo vado a prendere subito.
Si emoziona facilmente?
No, non sono una persona che si emoziona facilmente e questo perché uso spesso, forse anche troppo, la maschera del dissacratore per schermirmi.
Che cosa le fa più paura?
Vedere le persone che amo soffrire e non poter far nulla per loro.
Che cosa considera noioso?
Chi si prende troppo sul serio. Lo trovo noiosissimo come atteggiamento.
Che cosa la fa ridere di cuore?
A me la vita fa ridere di cuore, la quotidianità, le cose più semplici sono le più comiche. Mi fa ridere di cuore anche vedere le persone cadere; poi magari vado anche ad aiutarle, ma ridendo come un pazzo un attimo dopo averle aiutate.
Crede di più nell’amore o nell’amicizia?
Io credo che l’amore sia il motore della vita e l’amicizia sia comunque una forma nobilissima di amore, per quanto rara.
Ha un sogno ricorrente?
Tempo fa sognavo i terremoti che distruggevano tutto lasciando in piedi soltanto me ed i miei cari. Ogni tanto sogno di dover andare in palcoscenico e non sapere la parte oppure sogno di non trovare la via del palcoscenico o del teatro o di non essermi scaldato abbastanza per cantare. Ma dormendo poco fortunatamente sogno anche poco.Quanto conta per lei il denaro?
Essendo residente in Italia direi che da scapolo il denaro per me contava il 35% del guadagno, adesso da padre di famiglia rispondo che il denaro conta solo il 2% del fatturato totale.
In che cosa è più spendaccione?
In tasse e pannolini in questo momento.
Colleziona qualcosa? E se si, come ha iniziato questa collezione?Una volta collezionavo figuracce, adesso ho smesso. Non ho mai avuto pulsioni da collezionista. Devo aggiungere “banale” agli aggettivi della prima domanda.
Quali sono le sue letture preferite?
Adoro i romanzi di ambientazione storica ed i triller. Mi piacciono molto i libri di Ildefonso Falcones o Gleen Cooper, ma anche autori italiani come Marcello Simoni.
Quale o quali città sente più vicine al suo modo di essere?
Mi sento romano fino al midollo, e nessuna altra città rispecchia meglio il mio modo di vivere e di essere.
Qual è il suo colore preferito?
Il blu.
E il suo fiore preferito?
Il fiore di zucchina pastellato e fritto.
Cantante/i preferito/i?
Non so eleggere il mio preferito, vado da Vasco Rossi a Claudio Baglioni passando per Daniele Silvestri per quanto riguarda il pop. Nella lirica adoro Di Stefano e Carreras.
Qual è il primo disco che ha comprato?
Elisir d’amore con Pavarotti e Sutherland. Visto il repertorio che faccio diciamo che non é stato il miglior investimento che abbia fatto.
Il film che ha amato di più?
La vita é bella di Benigni e la Finestra di Fronte di Ozpetek da adulto, da bambino direi tutta la cinematografia anni 80 che definiscono trash.
La sua stagione preferita e perché?
Direi l’autunno perché ci sono le ottobrate romane, le allergie sono lontane così come il caldo e ci si avvia al Natale ed ai propositi per il nuovo anno.
Com’è il suo rapporto con la tecnologia e qual è il gadget elettronico di cui non può fare a meno?
Non posso fare a meno del mio portatile. Ho un discreto rapporto con la tecnologia ma non sono fissato sui marchi o sui modelli. Ad esempio il mio ultimo cellulare é il penultimo di mia moglie.
Qual è il suo atteggiamento verso la televisione?
Non ho un buon rapporto con la televisione, a meno che non ci siano programmi di approfondimento storico o politico. Per il resto é uno specchio nero.
Com’è il suo rapporto con la politica?
Seguo attentamente gli avvenimenti e mi tengo informato, ma non posso considerarlo un aspetto positivo, poiché credo che il declino culturale della nostra società sia iniziato proprio da quel contesto. Ammiravo e apprezzavo i discorsi dei politici fino agli anni ’90, caratterizzati da un linguaggio e da un’eleganza che oggi mi mancano enormemente.Ha delle cause che le stanno particolarmente a cuore?
I bambini e gli anziani sono da difendere sempre e comunque. I primi perché sono il nostro futuro, i secondi perché sono la nostra saggezza.
Giorno o notte?
Giorno anche perché dormendo pochissimo le mie giornate sono sempre belle lunghe ed intense.
Qual è la situazione che considera più rilassante?
Stare con mia moglie da soli da qualche parte, non importa dove ma con lei mi basta.
Ci racconti la sua giornata ideale.
La giornata ideale per me é quando la passo a casa con la mia famiglia a fare tutto quel che é possibile fare con loro, studiare con mia moglie con calma un paio d’ore, mangiare in terrazzo e giocare con i bambini ed i cagnolini.Qual è la colonna sonora della sua vita di tutti i giorni?
Life is beautiful di Nicola Piovani. Una melodia semplicissima capace di entrare gentilmente nell’anima ed accarezzare il cuore.
La vacanza o il viaggio che vorrebbe fare?
Per me la vacanza é stare in famiglia, avere i parenti a casa e fare un bel barbecue con tutti seduti allo stesso tavolo. Di viaggi, da solo, ne faccio fin troppi. Il viaggio che vorrei fare adesso é dal tavolo al barbecue e ritorno.
Come definirebbe il suo rapporto col cibo?
Ci amiamo vicendevolmente. Non sono affatto un buon cuoco ma sono un ottimo consumatore.
Dieta mediterranea, cucina macrobiotica o fast food?Dieta mediterranea senza dubbio.
Il suo piatto preferito?
Amo i piatti semplici, tipo le linguine aglio, olio e peperoncino e la gricia (molto meno semplice).
Sa cucinare? Qual è la sua specialità? E qual è il piatto che cucina più spesso?
So cucinare ma deficito di fantasia e di voglia. Stando molto tempo da solo non ho il rituale del pasto, cosa che invece ho quando sono a casa e reputo davvero quello un momento sacro della famiglia.
Vino rosso o bianco?
Dipende cosa si mangia. Ma generalmente preferisco il rosso pur non bevendo di solito.
Qual è il posto in cui la cucina è la peggiore in assoluto?
Fuori dall’Italia la battaglia é dura, in molti si contendono il primato.
La musica è stata una vocazione?
Direi proprio di sì, più la musica che il canto. Ho fatto di tutto per non fare della musica il mio mestiere, ma ha vinto lei e mi ha addirittura punito facendomi diventare cantante. Uno smacco!
Cosa vorrebbe che una persona che non conosce la sua voce ascoltasse?
Forse Tosca, ma tutta e non soltanto le romanze.
Come tiene sotto controllo l’evoluzione della sua voce?
Per me il segreto della tecnica e del canto sta nel fatto che bisogna conoscere profondamente il proprio strumento ed assecondarlo nel tempo perché il corpo muta e con esso la voce. Non possiamo usare per tutta la vita la stessa tecnica ma bisogna assestarla quasi quotidianamente. L’evoluzione la tengo quindi sotto controllo studiando molto ed ascoltando ed assecondando lo strumento.
Se le fosse concesso di scegliere un ruolo da cantare, quale sarebbe?
Non ho particolari desideri, piano piano li farò tutti. Sono più ferrato sui ruoli che non vorrei cantare almeno per ora, e che puntualmente rifiuto da anni ma che prima o poi farò.
Le piace il successo? Fino a che punto?
Il successo è il riflesso che abbiamo negli altri, non posso dire che mi dia fastidio, ma non è una cosa che cerco o per cui mi batto. Il successo è come un’arma, bisogna saperlo usare perché è estremamente pericoloso.
Che cosa fa un’ora prima di salire sul palco?
Sono in camerino o al trucco generalmente. Scaldo la voce, vivo i momenti con i colleghi e mi concentro serenamente per dare del mio meglio in palcoscenico, con grande gioia.
Che cosa non manca mai nel suo camerino?
L’acqua ed un asciugacapelli.Che cosa pensa quando si guarda nello specchio?
Che non vorrei essere diverso da come sono, mi vado bene così.
Il suo umore al momento?
Ottimo direi. Sto bene, faccio un lavoro che amo, sento un senso di gratitudine alla vita e mi sacrifico con grande gioia.
Qual è il suo motto?
“La vita é un brivido che vola via, é tutto un equilibrio sopra la follia.” È un passaggio della canzone Sally di Vasco Rossi, canzone che adoro.
Una domanda che nessuno le ha mai rivolto a cui vorrebbe anche dare risposta…
Ma sei dimagrito?Si, ho perso 15Kg ma appena posso li cerco, ma grazie per averlo notato.
Roma, Musei Capitolini
NUOVA LUCE DA POMPEI A ROMA
A cura di Ruth Bielfeldt e Johannes Eber
Dal 05 Luglio al 08 Ottobre 2023
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
In collaborazione con Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera
Organizzazione Zètema Progetto Cultura
Roma, 10 Luglio 2023
Nell’antica Roma, l’illuminazione nelle città era un lusso piuttosto che una norma. Di notte, i cittadini si avventuravano con facies e torce, con l’unica altra fonte di luce proveniente da taverne e bordelli aperti fino a notte fonda. Infatti, il poeta Giovenale avvertiva che era temerario uscire di notte senza aver redatto un testamento, visto l’abitudine nelle zone più degradate di gettare orinali per strada. Contrastando questa realtà, le lussuose domus erano illuminate fino a tarda notte, spesso a causa dei sontuosi banchetti che richiedevano l’uso di lucerne sia all’interno che all’esterno della casa, compresi i pittoreschi giardini. L’illuminazione che filtrava dalle finestre era limitata, poiché i giardini erano di solito situati al centro delle case, lasciando pochissima luce per filtrare all’esterno. In pochi davvero potevano permettersi i lussuosi lampadari bronzei che Plinio il Vecchio definiva “simili ad alberi carichi di mele”. Per le strade, i viandanti si facevano accompagnare da schiavi muniti di torce, e le carrozze erano dotate di torce per navigare nelle strade buie. Queste torce erano fatte di grasso o pece. Nelle case e nei luoghi pubblici, la luce era fornita dalla luce naturale che entrava dal compluvium, un’apertura nel soffitto dell’atrio, che illuminava di riflesso le stanze circostanti. Nonostante la presenza di finestre, queste erano solitamente alte per prevenire l’ingresso dei ladri. Quando il sole tramontava, si faceva uso di torce e candele, fatte di sego o di cera, a seconda della ricchezza della casa. Ovviamente, c’erano applique murali e lampadari portacandele, realizzati in bronzo o terracotta. I bracieri, usati per riscaldare la casa, diffondevano una luce tenue e venivano realizzati in una varietà di forme e dimensioni, e in bronzo o terracotta. Le domus ricche, ovviamente, avevano il meglio, comprese lastre trasparenti di talco, mica o vetro – quest’ultimo il più costoso – alle finestre. Anche gli edifici pubblici, comprese le terme, avevano queste lastre. I meno abbienti non potevano permettersi tali lussi e utilizzavano tende di pelle sottile che lasciavano filtrare un po’ di luce. La mostra “Nuova Luce da Pompei a Roma” ai Musei Capitolini è un affascinante viaggio attraverso la storia dell’illuminazione artificiale nella Roma antica. Questa innovativa esposizione, organizzata da Roma Capitale e la Soprintendenza Capitolina per il Patrimonio Culturale, in collaborazione con l’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, offre una visione unica e dettagliata della tecnologia, dell’estetica e dell’atmosfera della luce artificiale. Con 150 autentici manufatti in bronzo, tra cui lampade a olio, candelabri e torce, la mostra è un tesoro di artefatti storici. Oltre a questi pezzi, la mostra presenta anche statue, sculture e altri artefatti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e del Parco Archeologico di Pompei ed alcuni provenienti da vari Musei Romani, offrendo un’ampia visione della vita quotidiana dell’epoca. La mostra è suddivisa in nove stanze, ognuna dedicata a un aspetto diverso dell’illuminazione nell’antica Roma. Le stanze esplorano il ruolo della luce in vari aspetti della vita romana, tra cui celebrazioni, religione, magia e sogni. L’esposizione non si limita al passato, ma cerca di stabilire un legame con il presente attraverso riproduzioni fedeli prodotte in cooperazione con la Fonderia d’Arte San Gallo AG, nonché da simulazioni digitali su modelli tridimensionali e per conferire maggiore dinamismo sono state inserite all’interno del progetto espositivo le lampade realizzate dal light designer Ingo Maurer (1932–2019). Il Triclinio Virtuale, visibile attraverso occhiali 3D, offre una ricostruzione della luce notturna del 79 d.C. I visitatori, con una “torcia virtuale”, possono controllare la luce e quindi la loro percezione.Il contributo della mostra alla comprensione della storia dell’illuminazione è assai esaustivo. Il suo approccio organico alla tematica, combinato con l’uso di repliche e simulazioni digitali, crea un’esperienza immersiva che illumina il passato in un modo completamente nuovo. L’allestimento, come sempre, si presenta elegante e meticolosamente strutturato nelle affascinanti sale espositive di Villa Caffarelli. Le didascalie sono complete e i pannelli introduttivi, sebbene dettagliati con precisione quasi maniacale, offrono un inquadramento storico puntuale e approfondito. In una mostra dove il titolo stesso suggerisce il tema della luce, l’accento è ovviamente posto sull’impianto illumino-tecnico. Questo, con la sua magistrale ingegneria, esalta le forme e le ombre delle opere esposte, intensificando la percezione del loro utilizzo durante l’epoca antica. Il colore “giallo pompeiano”, utilizzato come tonalità di sfondo dominante, intensifica in modo straordinario i colori dei bronzi e delle terracotte. Vibrando su frequenze calde, esso sembra quasi riportare in vita i tempi antichi, dando vita a un dialogo muto ma eloquente tra passato e presente. Certamente, per un appassionato di mostre archeologiche, è possibile che alcuni reperti emergano con una certa frequenza attraverso diverse esposizioni (Per esempio la Statua di Apollo lampadoforo proveniente dalla Casa di Giulio Polibio proposto almeno in tre mostre diverse a Roma). Tuttavia, la meraviglia intrinseca dell’oggetto d’arte non viene minimamente scalfita dalla sua presenza costante. Al contrario, il suo fascino e la sua bellezza non fanno che aumentare, specialmente quando l’oggetto mantiene la sua coerenza e significato, nonostante le varie presentazioni. D’altro canto, nel quadro di equilibrio, numerosi reperti vengono esposti per la prima volta, grazie a significativi interventi di restauro e, in alcuni casi, di ricomposizione. L’esposizione, caratterizzata da una ricerca scrupolosa e una presentazione meticolosa attraverso una gamma di supporti, richiede senza dubbio una documentazione più fruibile. Un catalogo, capace di evidenziare la ricchezza e la profondità di ciascun reperto, sembra un obiettivo ad oggi irraggiungibile, pur essendo la mostra degna di una maggiore diffusione anche cartacea e non solamente digitale. Questa mancanza di risorse editoriali, purtroppo, riduce la visibilità che la mostra potrebbe raggiungere, lasciando inespresso il suo pieno potenziale. Il personale del museo, come sempre, si distingue per la sua disponibilità e attenzione alle esigenze di ogni visitatore, arricchendo l’esperienza con una cordialità e un ascolto che danno un valore aggiunto. La mostra, che auspichiamo possa raggiungere una larga diffusione, merita di essere “illuminata” e maggiormente frequentata. Questa luce, sia in senso letterale che metaforico, che possa far risplendere il passato, rendendolo tangibile e vibrante nel qui ed ora. Qui per tutte le informazioni.
Sassari, Piazza d’Italia – Stagione Lirica 2023
“PAGLIACCI”
Dramma in un prologo e due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda ANGELA NISI
Canio LUCIANO GANCI
Tonio MARCO CARIA
Peppe MURAT CAN GUVEM
Silvio GABRIELE NANI
Primo contadino FABRIZIO MANGATIA
Secondo contadino CLAUDIO DELEDDA
Orchestra e Corco dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”
Coro delle Voci Bianche dell’Associazione Corale “Luigi Canepa”
Direttore Sergio Oliva
Maestro del coro Antonio Costa
Maestro del coro delle voci bianche Salvatore Rizzu
Regia Alberto Gazale
Scene Antonella Conte
Costumi Luisella Pintus
Disegno luci Tony Grandi
Fonica Alberto Erre
Nuovo allestimento dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”
Sassari, 7 luglio 2023
Con Pagliacci, seconda parte del “dittico verista” dopo la Cavalleria rusticana del mese scorso, si chiude la breve stagione lirica estiva organizzata dall’Ente Concerti de Carolis, gradito anticipo della consueta stagione autunnale prevista a partire dal prossimo settembre. Gradito sia per la proposta più ampia rispetto alle scorse stagioni, sia per la novità rappresentata dall’allestimento dell’opera di Leoncavallo all’aperto, gratuitamente, nella centralissima piazza d’Italia, un ettaro lastricato che ne fa uno degli spazi pubblici del genere più ampio del Paese: un luogo con dimensioni da concerti pop, che rappresenta una sfida organizzativa e artistica notevole in tempi di crisi per lo spettacolo dal vivo. Va detto subito che tale sfida è stata vinta, con piena e legittima soddisfazione per una produzione diventata un vero e proprio evento, grazie a un progetto ben condotto e applaudito da un pubblico sicuramente fuori dall’ordinario, per numero e tipologia.
Consuetudine collaudata per varie stagioni liriche, specialmente nel sud Italia, anche nella nostra città e nel territorio l’allestimento all’aperto non è una novità assoluta: produzioni più agili sono state realizzate in passato in spazi acusticamente più idonei, senza contare che proprio la prima stagione lirica a Sassari del dopoguerra fu organizzata all’aperto nel 1947 con una media, secondo le cronache, di tremila spettatori a sera. Ma indubbiamente l’ambizione stavolta è stata maggiore, proprio nell’idea di portare l’opera al di fuori del teatro per spostarla tra la gente, i giovani, quel pubblico in maggioranza estraneo alla grande musica lirica, ora diventata “colta” ma un tempo assai più popolare. Oltre lo spettacolo in sé, seguito non solo dal folto pubblico sistemato nelle poltroncine riservate agli abbonati ma anche da tanti spettatori in piedi, non vanno sottovalutati i giorni precedenti riservati in piazza alle prove, vero laboratorio che ha mostrato pubblicamente l’affascinante percorso del montaggio di uno spettacolo, normalmente inaccessibile ai non addetti ai lavori. Detto ciò è evidente che ci sia un dazio da pagare: un’opera amplificata con sistemi elettroacustici, per quanto ottimamente, sarà sempre l’artefatto di un qualcosa scritto e orchestrato con criteri completamente diversi: l’effetto evidente da “base” dell’orchestra per voci in un rilievo innaturale e appiattite nelle dinamiche, è quasi la regola in operazioni del genere, senza contare l’adattamento alle normali difficoltà date dalle esecuzioni “en plein air”. Quindi se è innegabile il valore mediatico e promozionale di queste tipologie di produzione, quello artistico passa in secondo piano, evidentemente sacrificato alle ragioni della situazione, cosa che rende difficile valutare obiettivamente l’esecuzione. Ciò in attesa che, finalmente, anche in Italia si commissionino e realizzino opere fatte per utilizzare nativamente le nuove tecnologie, senza riciclare all’infinito la solita ventina di titoli storici da ricucinare in tutte le salse. Comunque l’operazione ha mostrato prima di tutto un trio protagonista assolutamente ben centrato nei ruoli, vocalmente sontuoso ed espressivo nella recitazione: Angela Nisi, Marco Caria e Luciano Ganci (applauditissimo nell’iconica Vesti la giubba) hanno mostrato solidità e disinvoltura che hanno ben travalicato le obiettive difficoltà della situazione. Alcune defaillance, impietosamente amplificate, sono state avvertibili in qualche ruolo secondario, ma in generale il palcoscenico ha funzionato egregiamente. L’altro punto di forza dello spettacolo è stato un allestimento essenziale che nella situazione ha evitato le solite scenografie didascaliche per rivestire direttamente con l’azione uno spazio teatrale/metateatrale segnalato da pochi elementi indicativi, ben realizzati da Antonella Conte e colorato dai vivaci e tradizionali costumi di Luisella Pintus e dalle luci di Tony Grandi. La regia di Alberto Gazale ha quindi saputo ben riempire coi giusti movimenti e le necessarie geometrie uno spazio difficile, senza bisogno di orpelli superflui, per realizzare correttamente la narrazione scenica e svolgere in maniera convincente i meccanismi drammaturgici. Il tutto è stato diretto con buon mestiere da Sergio Oliva e l’affidabile partecipazione dell’orchestra e del coro dell’Ente, preparato da Antonio Costa. In conclusione l’opera spogliata dai suoi luoghi e meccanismi deputati sicuramente perde qualcosa, e non può diventare la regola per uno spettacolo di qualità; però “l’evento” acquisisce indubbiamente un grande pubblico, sperando che almeno una parte possa passare dalla cultura dell’abitudine all’abitudine alla cultura, vero scopo per chiunque si occupi di spettacolo artistico e in particolare di teatro musicale.
Roma, Caracalla Festival 2023
SINFONIA N.9
Di Ludwig van Beethoven
Musica in re min. per soli, coro, orchestra, op. 125
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Ciro Visco
Soprano OLGA BEZSMERTNA
Mezzosoprano SARA MINGARDO
Tenore GIOVANNI SALA
Basso ROBERTO TAGLIAVINI
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 09 Luglio 2023
In una serena notte estiva, l’antico scenario delle Terme di Caracalla ha fatto da sfondo a un evento di grande rilevanza: la Nona Sinfonia di Beethoven, magistralmente diretta dal rinomato direttore Myung-Whun Chung, nell’ambito del Caracalla Festival al suo debutto a Roma. Quest’ultima, tra le più celebri della produzione del compositore tedesco, ha offerto al pubblico un’esperienza sonora indimenticabile, grazie all’interpretazione intensa e appassionata di Chung e alla potente carica emotiva intrinseca nell’opera di Beethoven. L’idea di musicare l’Ode alla Gioia di Schiller, che costituisce il nucleo della Nona Sinfonia, affonda le sue radici nell’adolescenza di Beethoven. Questo intento, accennato in una lettera del 1793 del consigliere di stato B. Fischenich indirizzata alla figlia di Schiller, si è manifestato in una melodia del 1795, che Beethoven ha successivamente evoluto e inserito nel movimento finale della Nona Sinfonia. Da quando questa melodia è emersa fino al 1815, Beethoven ha annotato diverse idee musicali, tra cui la volontà di mettere in musica alcune strofe dell’Ode di Schiller. Dopo aver composto la Settima e l’Ottava Sinfonia, Beethoven iniziò a concepire un nuovo lavoro sinfonico nel 1811. Nonostante ciò, il progetto rimase in sospeso per un decennio. Nel 1822, aveva in mente due opere sinfoniche distinte: una in re minore dedicata alla Società Filarmonica di Londra e una con un intervento corale basato su un testo tedesco non ancora definito. Nel 1823, queste due visioni si fusero in un unico progetto che, con l’inserimento dell’Ode di Schiller nel febbraio del 1824, portò alla conclusione della Sinfonia. La Nona Sinfonia di Beethoven fu eseguita per la prima volta a Vienna il 7 maggio 1824, sotto la direzione dello stesso compositore, e fu accolta con entusiasmo dal pubblico. Quest’opera rappresenta un punto di svolta nella storia della musica, poiché integra la tradizione sinfonica con la musica vocale veicolando un messaggio di gioia e fratellanza universale. Ogni movimento della Nona Sinfonia possiede una propria peculiarità, che va dalla struttura espansiva del primo movimento, alla figura ritmica di tre note ed energica intensità dello Scherzo, fino alla struttura a incastro e il tema quasi liturgico del terzo movimento, Adagio molto e cantabile. La maestria di Chung nel dirigere l’Orchestra dell’Opera di Roma ha dato vita a un’interpretazione ricca e vivida di uno dei capolavori più grandiosi di Beethoven. La profondità dell’espressione musicale ha raggiunto nuovi livelli mentre l’orchestra ha navigato attraverso i quattro movimenti della sinfonia, ciascuno con le sue caratteristiche distintive. Il primo movimento, Allegro ma non troppo, un poco maestoso, ha mostrato l’abilità dell’orchestra di bilanciare la potenza e la delicatezza, creando un senso di attesa e suspense. Seguendo il secondo movimento, Molto vivace, l’orchestra ha brillantemente espresso il vigore e la joie de vivre con una precisione ritmica impeccabile. Il terzo movimento, Adagio molto e cantabile, ha esposto il lato più tenero dell’orchestra, con una delicatezza d’esecuzione che ha trasportato l’ascoltatore in un viaggio emotivo profondo. Infine, l’ultimo movimento, Presto – Allegro ma non troppo, ha visto l’aggiunta del coro che ha portato la performance a un climax emozionante, esaltando il fervente messaggio di gioia e fratellanza di Beethoven. L’inconfondibile stile del rinomato maestro coreano si manifesta immediatamente: la musica la domina, indipendentemente dalla necessità di un riferimento scritto, e da questa profonda connessione emerge un gesto che l’orchestra accoglie con maestria quasi sempre impeccabile. La gestualità del Maestro Chung è ben riconosciuta: misurata, spesso ridotta all’essenziale, talvolta quasi invisibile; non si concede a movimenti esagerati, non si disperde, non salta, non si lascia trascinare in danze frenetiche, non si perde in espressioni languide. Ogni tanto, fa ricorso alle gambe: quando la forza delle braccia non basta per evocare quei tuoni che fanno tremare, di cui non si pensava l’orchestra fosse capace, o quando l’intensità della musica è così travolgente da scomporre la sua figura snella ed elegante. Non è sempre chiaro se sia lui a dirigere la musica o se sia la musica a dirigere lui, supponendo che tale distinzione abbia un senso. Il pubblico viene catturato e al termine dello spettacolo richiede a gran voce un bis e lo circonda di applausi e richiami sul palco. Un vero trionfo. Le performance soliste di Olga Bezsmertna, Sara Mingardo, Giovanni Sala e Roberto Tagliavini hanno comunque apportato un valore aggiunto all’evento, nonostante il suono, dal punto di vista acustico, avesse tendenza a risultare leggermente soffocato e privo di adeguata proiezione. Ogni solista ha contribuito con la propria brillantezza, armonizzando splendidamente per creare un affascinante tessuto sonoro tanto potente quanto commovente sicuramente dal punto di vista emotivo. Olga Bezsmertna, con la sua voce di soprano luminosa e squillante, ha fornito un tono vibrante, mentre la voce da contralto di Sara Mingardo ha aggiunto una profondità emotiva. Giovanni Sala, ha dimostrato una notevole padronanza tecnica, bilanciando virtuosismo e sensibilità. Roberto Tagliavini, con la sua voce da basso profonda e risonante, ha conferito un’autorevolezza maestosa alla performance. Il quartetto di solisti quindi ha preso parte attivamente in un dialogo intenso e coinvolgente con l’orchestra e il coro, arricchendo la tessitura musicale con sfumature personali e attimi di brillante espressività. La loro interpretazione ha incarnato la forza rivoluzionaria e l’audacia innovativa della Nona Sinfonia di Beethoven, contribuendo a creare un’interpretazione profondamente commovente di questo capolavoro sinfonico. La performance del Coro dell’Opera di Roma è stata eccezionale e la direzione del Maestro Ciro Visco ha giocato un ruolo fondamentale in questo successo. La precisione tecnica, l’interpretazione emotiva e l’intensità dinamica raggiunte sotto la sua guida hanno elevato l’esperienza dell’ascolto. Durante una serata di incantevole bellezza, l’imponente Sinfonia n. 9 di Beethoven ha permeato l’aria, riecheggiando tra le storiche rovine delle Terme di Caracalla. Questi antichi ruderi hanno svolto il ruolo di silenziosi custodi della passata grandiosità, mentre i grilli intrecciavano la loro melodia tra le pietre. Il ruggito sporadico di un aereo in transito ha introdotto un elemento di modernità al panorama sonoro, suggerendo l’idea di viaggi e scoperte. In questo brevissimo lasso di tempo, è stata offerta l’opportunità di sondare l’immenso spettro dell’umanità e le sue illimitate potenzialità. Questo scenario unico di vita e storia, incorniciato dal cielo di Roma, ha reso l’esibizione di Beethoven ancora più straordinaria.
Roma, Caracalla Festival 2023
ROBERTO BOLLE & FRIENDS”
Roberto Bolle
Teatro alla Scala, Milano
Bakhtiyar Adamzhan
Astana Opera, Astana
António Casalinho
Bayerisches Staatsballett, Monaco di Baviera
Travis Clausen-Knight
International Guest Artist
Valentine Colasante
Opéra National de Paris, Parigi
Melissa Hamilton
The Royal Ballet, Londra
Maria Khoreva
Mariinsky Ballet, San Pietroburgo
Paul Marque
Opéra National de Paris, Parigi
Tatiana Melnik
Hungarian National Ballet, Budapest
Casia Vengoechea
International Guest Artist
e con la partecipazione del Maestro Alessandro Quarta
Light Designer Valerio Tiberi
“Roberto Bolle and Friends” rappresenta una vera e propria esplorazione nella bellezza e nell’incantesimo dell’arte coreografica. Roberto Bolle, figura di spicco nel mondo della danza, è non solo l’interprete principale di questi Gala, ma ne è anche il Direttore Artistico. Al suo fianco, i ballerini più eminenti a livello globale collaborano per creare un programma straordinario che affascina un pubblico sempre più ampio e diversificato. Questi Gala sono divenuti un potente veicolo per diffondere l’eccellenza della danza ad un pubblico vasto e variegato, attirando sia gli appassionati che i non addetti ai lavori. Bolle sfida continuamente i pregiudizi che relegano il balletto a mera espressione di nicchia, presentando sullo stesso palco opere classiche e innovative, interpretate dai massimi esponenti della danza mondiale. Si tratta di un’opportunità culturale di rara prestigio, un viaggio imperdibile attraverso stili e scuole di danza diversi che evocano emozioni sempre nuove. Divertimento e dramma, ironia ed eleganza, innovazione e tradizione si fondono sullo stesso palco, creando un’esperienza indimenticabile. Qui per tutte le informazioni.
Con la quinta domenica dopo la festa della Trinità, si chiude un breve ciclo di 5 festività nelle quali le letture evangeliche sono tratte dal Vangelo di Luca. Per questa domenica la “Lectio Lucana” è data dai primi 11 versetti del capitolo V°:”Or avvenne che essendogli la moltitudine addosso per udir la parola di Dio, e stando egli in piè sulla riva del lago di Gennesaret, vide due barche ferme a riva, dalle quali erano smontati i pescatori e lavavano le reti. E montato in una di quelle barche che era di Simone, lo pregò di scostarsi un po’ da terra; poi, sedutosi, d’in sulla barca ammaestrava le turbe.
E com’ebbe cessato di parlare, disse a Simone: Prendi il largo, e calate le reti per pescare. E Simone, rispondendo, disse: Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiam preso nulla; però, alla tua parola, calerò le reti. E fatto così, presero una tal quantità di pesci, che le reti si rompevano. E fecero segno a’ loro compagni dell’altra barca, di venire ad aiutarli. E quelli vennero, e riempirono ambedue le barche, talché affondavano. Simon Pietro, veduto ciò, si gettò a’ ginocchi di Gesù, dicendo: Signore, dipàrtiti da me, perché son uomo peccatore. Poiché spavento avea preso lui e tutti quelli ch’eran con lui, per la presa di pesci che avean fatta; e così pure Giacomo e Giovanni, figliuoli di Zebedeo, ch’eran socî di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere: da ora innanzi sarai pescator d’uomini. Ed essi, tratte le barche a terra, lasciarono ogni cosa e lo seguirono.
Non è questa, come si sa, l’unica narrazione di una pesca miracolosa che si incontra nei Vangeli. Un’altra pesca è in Giovanni al capitolo XXI, ma quest’ultimo si colloca al momento delle apparizioni in Galilea di Gesù risorto. Quella di cui parla Luca invece, si situa all’inizio della predicazione di Gesù, quando si ha la vocazione dei discepoli che da semplici pescatori si fanno pescatori di uomini, subito seguendo il Maestro. Sono solamente due le cantate bachiane superstiti per la quinta domenica dopo la Trinità. La più vecchia fra le due è la numero 93 Wer nur den lieben Gott läßt walten (Se lasci agire il tuo Dio e speri in lui) , eseguita il 9 luglio 1724 ma a noi nota attraverso un materiale di esecuzione che si riferisce ad una ripresa dell’Opera del 1733. Alla base della Cantata sta l’omonimo Corale di Georg Neumark (1621-1681) del 1641 di cui vengono messe in musica 3 strofe i nr.1, 3 e 7 della partitura. mentre nei numeri 2 e 5, recitativi, il testo viene assoggettato ad interpolazioni e nei nr.3 e 6. arie, viene parafrasato, rispettando l’impianto originale in 7 strofe, la disposizione musicale risulta uniformata a una rigorosa simmetria , accentuata da tutta una serie di fattori. Così nella pagina di apertura il Corale viene presentato in stile imitativo, sia nello stile omfono della armonizzazione di fine cantata. Il brano centrale (nr.4), trascritto per organo e inserito nella raccolta dei Schübler Chorales BWV 647, combina la melodia allo stato puro, affidata agli archi all’unisono, con una elaborazione imitativa per 2 voci. La prima aria, il nr.3 affidata al tenore, contraddistinta da un tempo di minuetto, è nella forma del “lied”, mentre la seconda, la nr.6 cantata dal soprano ricorre alla forma bipartita. I 2 recitativi (nr.2 e 5) alternano lo stile arioso, ispirato alla melodia del Corale al recitativo. Tutti i brani mostrano in modo evidente il legame alla melodia originale, al punto che l’intera partitura sembra assumere la veste di libera “Partita” su Corale, vincolata alla struttura del “Lied” solo in certi settori, ma comunque sempre informata all’andamento melodico del Cantico.
Nr.1 – Coro
Se lasci agire il tuo Dio
e speri in lui in ogni momento,
egli miracolosamente ti proteggerà
in ogni croce e in ogni dolore.
Chi crede in Dio, l’Altissimo,
non costruisce sulla sabbia.
Nr.2 – Corale e recitativo (Basso)
A cosa serve il peso delle preoccupazioni?
Grava sui nostri cuori con indicibile pena,
con innumerevoli dolori e tormenti.
A cosa servono i nostri lamenti?
Ci portano solo amare privazioni.
A cosa serve alzarsi ogni mattina
dai nostri letti sospirando e poi coricarci
la notte con le lacrime sul volto?
Rendiamo dolore e afflizione
ancora maggiori con la nostra ansia.
Ma il cristiano può fare di più,
può portare la sua croce a immagine di Cristo.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Se restiamo più sereni
quando l’ora della croce si avvicina,
allora la volontà misericordiosa di Dio
non ci negherà la sua protezione.
Dio, che conosce gli eletti,
Dio, che si fa chiamare Padre,
alla fine allontanerà ogni sofferenza
e soccorrerà i suoi figli.
Nr.4 – Aria-Duetto (Soprano, Contralto)
Egli sa il momento opportuno per la gioia,
egli sa bene quando è necessario;
se solo ci facciamo trovare
saldi nella fede e privi di ipocrisia,
allora Dio verrà, prima che ce ne
accorgiamo, per colmarci dei suoi beni.
Nr.5 – Corale e recitativo (Tenore)
Non pensare, nel mezzo della prova,
quando cadono tuoni e fulmini
e il tempo avverso ti rende ansioso,
che Dio ti abbia abbandonato.
Dio c’è anche nel momento del bisogno,
sì, persino nella morte
mostra misericordia ai suoi figli.
Non credere che Dio
possa restare a braccia conserte,
come l’uomo ricco
che vive ogni giorno in allegri piaceri.
Chi beneficia di costante fortuna,
con una buona giornata dietro l’altra,
molto spesso alla fine,
dopo essersi riempito di vani piaceri,
dice: “Nella pentola c’è la morte”.
Il futuro porta cambiamenti!
Pietro per un’intera notte
ha lavorato invano
senza pescare nulla: ma con la parola di
Gesù può raggiungere il suo scopo. 3
Nella povertà, nella croce, nel dolore
credi solo nella bontà di Gesù
con spirito pieno di fede;
dopo la pioggia porterà il sole
compiendo per ognuno il suo destino.
Nr.6 – Aria (Soprano)
Volgerò lo sguardo al Signore
e riporrò in Dio la mia fiducia.
Egli è colui che opera i veri miracoli.
Può spogliare il ricco rendendolo povero
ed il povero rendere grande e ricco
secondo la sua volontà.
Nr.7 Corale-Coro
Prega e cammina lungo la via di Dio,
compiendo fedelmente il tuo dovere e
confida nella ricca benedizione celeste,
allora sarà rinnovata la sua presenza in te;
chi ripone la sua fiducia in Dio
non sarà mai abbandonato.
Traduzione Emanuele Antonacci
Verona, Teatro Romano, 75 estate teatrale veronese
“LETTI D’AMORE”
Di Fausto Costantini e Raffaello Fusaro
Lettura scenica con: Giuliana De Sio, Laura Morante, Francesco Montanari, Filippo Dini, Andrea Bellacicco
ResExtensa Dance Company
Messa in scena di Raffaello Fusaro
Verona, 6 luglio 202
Prologo in musica per la serata d’apertura dell’estate teatrale nr.75. I pregevoli musicisti della Banda Nazionale dell’Esercito Italiano hanno dato il giusto tocco di brillante istituzionalità alla nuova stagione teatrale. Dalle note marziali della “Cymbeline March” di Henry Warner, a quelle più struggenti di Nino Rota (con il celebre tema d’amore tratto dalla colonna sonora del film “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli) e di Ennio Morricone che il direttore del complesso, il Magg. Filippo Cangiamila ha presentato come “Suite 6 luglio”, in ricordo del compositore deceduto proprio il 6 luglio del 2020. Un’esecuzione musicale precisa e puntuale che ha saputo catturare l’attenzione del pubblico e che ci ha portati alla seconda parte della serata con la consegna del 65° Premio Renato Simoni all’attore Franco Branciaroli per la “Fedeltà al Teatro di Prosa” e del premio straordinario “Una vita per il teatro” a Gianpaolo Savorelli che per 45 anni è stato direttore artistico dell’Estate Teatrale Veronese e che proprio con Branciaroli ha portato in scena numerosi spettacoli. Si è arrivati alla parte spettacolo, ossia alla prima nazionale di “Letti d’amore” diFausto Costantini e Raffaello Fusaro, quest’ultimo anche curatore della messa in scena. “Quattro grandi attori interpretano un medley dei versi di Shakespeare interrogando il nostro presente. Archetipi che sono frammenti delle nostre vite accompagnano e scandiscono i temi narrati. Un meccanismo in cui gli interpreti cambiano ruolo come in un sogno notturno… Tra dialoghi e monologhi, giochi di botta e risposta, emozioni, eros, ironia e mirabolante poesia, la serata teatrale racconta particelle delle nostre esistenze. Gli attori si immergono in un piccolo album di versi del Bardo …I quattro interpreti, alternandosi in ruoli che cambiano di continuo, accompagnati da un disincantato narratore un po’ filosofo, ricordano alcuni memorabili personaggi, tra dialoghi, monologhi e persino didascalie tratte da Shakespeare….”. Ottimi propositi ma che, in sede di realizzazione ci sono sembrati poco riusciti. Alla resa dei conti ci siamo trovati ad assistere a uno spettacolo che appare alquanto zoppicante. Ha influenzato il forfait del previsto Adriano Giannini?…Forse, non ci è dato saperlo, in ogni caso l’insieme drammaturgico ci ha dato un senso di incompiuto, non del tutto realizzato. Il susseguirsi di videoproiezioni, tra il naturale e il richiamo alla storia delle interpretazioni shakesperiane, con la recitazione-lettura vera e propria degli ottimi attori forse però non pienamente valorizzati dalle pagine in programma (tratte da “Amleto”, “Romeo e Giulietta”, “Macbeth”, “Otello, “Giulio Cesare” e “Misura per Misura”). Non basta poi far indossare degli abiti che evocano il ‘500 ai pur bravi danzatori-acrobati e apprezzati dal pubblico, della ResExtensa Dance Company per integrarli in un contesto che comunque li vede sostanzialmente estranei. Certo, la locandina ha sfoggiato attori noti al pubblico, ma orientare pressochè tutto il cartellone a una sola produzione integrale (quest’anno “Le allegre comari di Windsor”) per chi, come lo scrivente, ha visto su questo palcoscenico molti lavori del Bardo nella forma tradizionale, ossia tragedie, commedie, nella loro interezza. Forse questo stanca il pubblico attuale che preferisce uno Shakespeare in versione “Bignami”, così poi si può godere il resto della serata?…Forse è questa la nuova visione dell’andare a teatro.
Tivoli, Villa Adriana e Villa d’Este
EXTRAVILLÆ
metamorfosi in bellezza
un evento extraordinario sul tema della bellezza.
cinema, proiezioni, incontri, performance
16 – 29 luglio 2023
Nasce EXTRAVILLÆ Metamorfosi in bellezza, un nuovo evento cinematografico che traccia un percorso suggestivo e trasversale sul grande e variopinto tema della bellezza, attraverso proiezioni, incontri, performance ed eventi speciali, dal 16 al 29 luglio 2023 presso Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. Ne hanno parlato a Cannes, presso l’Italian Pavilion, il direttore artistico Andrea Bruciati, storico dell’arte e direttore delle VILLÆ, il presidente dell’Anica Francesco Rutelli, ideatore del festival Videocittà, la direttrice di Roma Lazio Film Commission Cristina Priarone ed il gm Remigio Truocchio della società Cineventi, organizzatrice dell’evento. Con un ricco programma di proiezioni di film nazionali, internazionali e di titoli restaurati, incontri con autori di cinema e non solo, performance ed eventi all’insegna dell’arte, EXTRAVILLÆ accende i riflettori sul grande tema della metamorfosi in bellezza, permettendo al pubblico la fruizione inedita notturna di un patrimonio culturale e artistico di valore immenso. Durante la presentazione il direttore Bruciati ha illustrato i contenuti e le particolarità di un evento unico nel suo genere, che ha l’obiettivo di arricchire l’offerta culturale estiva all’interno degli spazi di Villa Adriana, le cui strutture costituiscono uno dei più importanti e mirabili esempi della cultura romana, e Villa d’Este, uno dei simboli del Rinascimento Italiano, entrambi gioielli architettonici e dalla scenografia unica al mondo, dichiarati dall’UNESCO “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”. Un evento che guarda oltre il concetto di Festival rimettendo in discussione il canone stesso della bellezza, grazie ad un cartellone variegato di appuntamenti serali che spaziano dal cinema, alla musica, alle arti visive, luoghi fuori dall’ordinario e matrici di valori estetici assoluti, ora declinati secondo una sensibilità contemporanea. La direttrice Priarone si è poi soffermata sull’importanza della valorizzazione di location d’eccezione attraverso eventi straordinari di grande qualità, attrattori di un pubblico nuovo, alla ricerca di spazi alternativi e di contenuti che guardano al futuro. Nel dettaglio Roma Lazio Film Commission organizzerà nel corso delle serate una serie di incontri targati, come da tradizione al Festival di Roma, CineCampus Off, con autori e attori di film sostenuti dalla Regione Lazio per una visione e celebrazione della bellezza delle location del territorio. Inoltre ha introdotto uno dei temi che accompagnerà questa edizione di ExtraVillae: la riscoperta degli alberi secolari che arricchiscono e valorizzano il parco di Villa Adriana e i giardini di Villa D’este, introducendo l’intervento di Sergio Guidi, Presidente dell’Associazione dei Patriarchi della Natura, che ha descritto, con l’ausilio di documenti fotografici, il delicato lavoro svolto per la mappatura nel Lazio degli alberi secolari, tra cui quelli residenti a Tivoli e la loro rinascita attraverso la creazione di “gemelli”. Ed è proprio a questi alberi e alla loro metamorfosi che sarà dedicata la serata inaugurale in partnership con Videocittà, il festival della visione e della cultura digitale, annunciata in anteprima dal suo ideatore Francesco Rutelli. Una live performance tra natura, acqua, musica ed immagini, sul tema dei contrasti dell’ecosistema,con sfondo gli alberi secolari presenti nelle Villae, realizzata da un artista di fama internazionale che sarà presentata nel corso della conferenza stampa di Videocittà, a Roma, lunedì 29 maggio. Inoltre, Rutelli ha rimarcato la centralità delle Villae tra i monumenti più richiesti dal turismo internazionale e la necessità di coniugare sempre più momenti culturali e di grande spettacolarità all’interno di spazi museali unici, per una fruizione straordinaria notturna dei siti, tra cinema, arte e bellezza. “Villa Adriana e Villa d’Este – ha poi concluso Andrea Bruciati – si propongono come spazi di nuove socialità, per inedite narrazioni e sperimentazioni sempre attive. Straordinari luoghi d’elezione si fanno racconto e palinsesto visivo per una esperienza immersiva totalizzante. Il nuovo progetto EXTRAVILLÆ intende così tracciare un percorso tra le meraviglie UNESCO, alla ricerca dell’originaria polisemia del concetto di bellezza, declinato secondo le diverse sensibilità proprie dell’Arte, offrendo così percorsi di un passato proteso al futuro, attraverso territori anche della mente che incarnano e sostanziano l’evento”. ExtraVillae è prodotto dall’Istituto autonomo Villa Adriana e Villa d’Este VILLÆ, sostenuto dal Ministero della Cultura Direzione Cinema e dalla Regione Lazio, in collaborazione con Roma Lazio Film Commission e organizzato dalla società Cineventi. Partner di ExtraVillae la Roma Lazio Film Commission ed il festival Videocittà. Qui per tutte le informazioni.
Un’arte antica, ma non troppo, verrebbe da dire, quella del cembalaro che da materiali inerti crea delle opere d’Arte al servizio di un’altra Arte, la musica. Antica, si diceva, perché risale ai sec. XVI-XVIII, ma anche contemporanea in virtù del ritorno d’interesse, verificatosi nella seconda metà del Novecento, nei confronti di questi strumenti e del repertorio composto per essi. Oggi non sono pochi, infatti, i cembalari che costruiscono strumenti su commissione imitando gli esemplari storici che, fortunatamente, sono sopravvissuti agli attacchi del tempo, dell’indifferenza e dell’incuria, determinate quest’ultime anche dall’affermazione del pianoforte, come strumento principe, tra quelli a tastiera. Ma come quest’arte è praticata oggi? Ad illustrarci questo lavoro è oggi un cembalaro italiano, Sebastiano Calì, la cui bottega si trova a Giarre, un comune alle falde dell’Etna, da dove esporta in tutta Europa gli strumenti da lui realizzati.
Puoi raccontarci come è nata la tua passione per la costruzione di strumenti storici a tastiera?
La mia passione per gli strumenti a tastiera nasce nel lontano 1985 in seguito alla visione del film Amadeus di Miloš Forman. Pur provenendo da una famiglia di musicisti dal momento che mia sorella studiava pianoforte e mio fratello sia pianoforte che composizione, non avevo alcuna familiarità con la musica antica. In quel film vi erano, infatti, strumenti antichi a tastiera, quasi tutti fortepiani e qualche clavicembalo, dai quali rimasi letteralmente folgorato. Avevo 12 anni e mezzo e quel film cambiò letteralmente la mia vita, in quanto, oltre a far nascere in me una grande passione per il repertorio composto per tali strumenti, parallelamente sviluppò il mio interesse anche per gli aspetti organologici. All’epoca era estremamente difficile reperire del materiale su questi strumenti, in quanto non c’era internet; riuscii a comprare allora due libri costosissimi (la Germania era ancora divisa in due) sulla collezione Grassi di Lipsia che erano in tedesco, che non conoscevo, ma che contenevano molte immagini sia di clavicordi sia di clavicembali. Desideravo ardentemente avere un clavicembalo, ma comprarne uno era proibitivo per la mia famiglia che aveva da poco acquistato un pianoforte a coda (un quarto di coda) con sacrifici. Nel 1992 mi si presentò la possibilità di acquistare un kit di costruzione di un clavicembalo fiammingo a due tastiere che ho dovuto montare. L’operazione di montaggio fu per me una bella esperienza perché mi permise di imparare come era fatto un clavicembalo dall’interno anche se a livello di costruzione non conoscevo nulla. Nello stesso anno seguii ad Erice un corso di organologia e manutenzione degli strumenti antichi da penna con il noto cembalaro siciliano Ugo Casiglia. In quell’occasione, essendo anche l’unico allievo, acquisii l’80% di importanti competenze sulla manutenzione di questi strumenti che mi sono utili anche oggi. Da allora ho coltivato questo mio sogno di realizzare gli strumenti, avvalendomi anche del talento, donatomi dalla natura, nel disegnare, nell’intagliare e nel modellare, oltreché nel suonare, cose che faccio fin da bambino e, in questo lavoro, che è anche un’Arte, ho potuto mettere insieme tutti questi talenti. Essendo, inoltre, un perfezionista, cerco di trasmettere questo mio modo di essere negli strumenti che costruisco.
Nella tua ormai ventennale attività, quanti strumenti hai costruito?
In questo momento sto lavorando all’ Op. XXX
Dal momento che un clavicembalo o uno strumento a tastiera storico è sempre un pezzo unico come un’opera d’Arte, quali emozioni si provano nel costruirlo?
Per me è un’emozione incredibile, in quanto provo un’attrazione quasi “feticista” per questi strumenti. Per me realizzare dall’inizio la cassa e la struttura è un piacere immenso perché devo fare in modo che tutto combaci alla perfezione: gli incastri devono essere perfetti, gli incollaggi impeccabili. Ai molti che mi ammirano dicendomi che io lavoro con una precisione al millimetro, io rispondo che il decimo di millimetro è quello scarto che consente di ottenere o un incastro perfetto e, quindi, alle strutture di tenere, o di avere un incastro che si aprirà in brevissimo tempo. Lavorare al decimo di millimetro non è un’iperbole, ma è realmente così. Ritornando al punto di partenza, posso dire di provare una grandissima emozione perché vedo che lo strumento cresce nei mesi. Ad essa si associa un piacere indescrivibile, soprattutto in considerazione del fatto che io realizzo a mano ogni minima parte del cembalo. Comunque il piacere più grande di tutti arriva alla fine, quando lo strumento è pronto e si può suonare. Quello è il momento culminante di un lavoro che dura dai sei mesi a un anno in base al tipo di strumento.
E quali, una volta realizzato, nel privarsene?
Si può dire che l’emozione è duplice e contrastante. Da una parte non si può negare che c’è il dolore del distacco, in quanto non si può non provare una forma di affetto per uno strumento che hai creato e visto crescere lavorando ad esso a volte anche per più di un anno. Se penso a questo, non nego che è veramente dura privarsene. Dall’altra, però, provo una grande gioia quando consegno lo strumento a un musicista perché so che sarà visto, suonato e, quindi, produrrà emozioni anche in chi lo ascolterà. Diverso è il caso in cui lo strumento va a finire in un salotto ed è trattato come un oggetto bello, ma inerte e quasi senza vita. In questo caso provo un po’ di tristezza. In realtà provo un’altra sensazione che può apparire un po’ strana e che mi assale subito dopo aver consegnato il cembalo. È una sensazione di angoscia che mi prende nel momento in cui entro nel laboratorio vuoto perché ho appena consegnato il cembalo. Per spiegarmi meglio, devo dire che io ho un laboratorio molto piccolo, all’interno del quale posso costruire un cembalo alla volta che, dunque, lo occupa nella sua interezza per tutto il periodo della sua costruzione. Vedere, quindi, il laboratorio vuoto mi dà un senso di angoscia perché mi sento quasi come una mamma che ha appena partorito e ha la pancia vuota. Mi scuso per la metafora che può apparire inopportuna in quanto la nascita è certamente uno dei misteri più belli e straordinari dell’uomo, ma non riesco a spiegare diversamente tale sensazione che però viene superata da un’altra emozione, questa volta, di gioia, perché data dal fatto che sto per imbarcarmi in una nuova avventura e una nuova sfida che è quella di costruire uno strumento nuovo.
A tale proposito tra gli strumenti che hai costruito ce n’è uno di cui non avresti voluto privarti?
Sì… c’è. Si tratta di un “Colmar” Ruckers del 1624 (foto), realizzato nel 2013, che oggi si trova a Fontainebleau e che ha comportato un lavoro immenso dal punto di vista della manifattura. È, inoltre, uno strumento che ha un suono meraviglioso, dal quale mi sono separato con grande fatica. Non è andato a un clavicembalista professionista, ma a un critico musicale e in particolare al responsabile delle recensioni della musica barocca del mensile «Diapason», noto perché assegna il Diapason d’or ai CD.
Immagino che, quando si vende un clavicembalo, sia come cedere un proprio figlio. In genere riesci a seguirne le tracce?
A volte è possibile riuscire a seguire la “vita” dei miei strumenti. Di alcuni di essi che si trovano a Vienna o in zone vicine, ho notizie costanti da parte dei committenti, mentre di altri non ho più saputo nulla. Ci sono cinque o sei strumenti dei quali ho perso completamente le tracce. Uno di questi è quello su cui il Maestro Carchiolo ha inciso un CD che credo, oggi, sia in Albania, ma non ne sono sicuro.
Costruire un clavicembalo è un lavoro di estrema precisione oggi aiutato da dei macchinari. Qual è, se ce n’è una, la parte di un clavicembalo più difficile da costruire?
Non c’è una parte veramente difficile. Parlerei, più in generale, di operazioni estremamente complesse e delicate. Credo che l’operazione più complessa che io affronti nel costruire un clavicembalo sia costituita dagli incastri a coda di rondine nei clavicembali francesi settecenteschi perché sono realizzati a mano su angoli veramente irregolari. Devono essere fatti con estrema precisione perché l’incastro o può aprirsi da una parte o non chiudersi proprio dall’altra. Un’altra operazione estremamente delicata è costituita dalla realizzazione dei ponticelli sempre nei clavicembali franco-fiamminghi. Sono pezzi che io non curvo, ma che intaglio a mano senza alcun aiuto di macchinari. Sono io a segarli, poi, a piallarli a mano con dei pialletti particolari un po’ come si faceva 300 anni fa. È questo un lavoro molto delicato e lungo che, però, dà una soddisfazione quando, poi, vedi che le curve sono perfette e non ci sono parti in cui si formano gomiti. Essendo parti dello strumento a vista, inoltre, non si può descrivere la gioia nel vedere la bellezza del legno.
Preferisci costruire da solo tutte le parti del clavicembalo o inserire elementi della meccanica fabbricati da altri?
A parte le corde e i feltri io, in diversi casi, ho realizzato ogni parte del cembalo. Generalmente realizzo quasi tutto. Ad esempio tendo a comprare le caviglie e le punte dei ponticelli. Tutto il resto, lo realizzo a mano. Non compro per esempio salterelli o tastiere o ponticelli o altre parti. Preferisco fare quasi tutto da me. Anzi, aggiungo, che in alcuni strumenti ho realizzato anche caviglie e punte dei ponticelli. In questi strumenti, di cui un esempio è il Chouchet che ho costruito per la clavicembalista Chiara Massini, ogni parte è stata realizzata a mano a partire dai tondini di ferro, che ho tagliato ad uno ad uno per finire alle caviglie e alle punte dei ponticelli.
Tra i modelli di clavicembalo che hai imitato nella tua produzione ce n’è uno che ti ha creato particolari difficoltà?
Forse le due copie dei Michael Mietke (1700 ca), che ho realizzato rispettivamente nel 2008 (foto) e nel 2015. Sono strumenti con il doppio lato curvo e, in generale, quando c’è da realizzare una curva, si richiede sempre un lavoro complicato. Inoltre, il basamento è relizzato con un particolare intaglio e gambe squadrate, veramente complessi da costruire. Alla fine, però, è uno strumento che dà una grande gioia quando lo suoni. Oltre ai Mietke sono abbastanza complessi anche i francesi del Settecento.
e uno che ti ha maggiormente appassionato?
In realtà non c’è uno strumento che mi ha appassionato di più. Tutti mi hanno regalato emozioni nel momento in cui li ho realizzati. Bisogna dire che io non costruisco clavicembali da studio, ma strumenti che aspirano ad essere delle opere d’Arte. Ad ognuno di essi mi sono dedicato con intensa passione. Uno degli strumenti che mi hanno particolarmente entusiasmato è la copia del Guarracino del Royal College of Music perché è un clavicembalo poco copiato e, pur essendo lungo un metro e 83 centimetri, ha un suono meraviglioso.
e quello che ritieni più bello per quanto riguarda il suono?
Direi sempre il Ruckers che si trova a Fontainebleau
I clavicembali, costruiti oggi, sono moderne imitazioni di quelli antichi. Ma si può dire che li riproducano fedelmente? Per esempio i Ruckers erano dei clavicembali a due tastiere traspositori. Oggi, in generale, vengono riprodotti utilizzando modelli ravalé, opera dei Francesi, in cui i due manuali avevano funzione espressiva.
Per quanto riguarda i doppi traspositori Ruckers è vero. Si può dire che quasi tutti gli strumenti sono stati allineati con meccanica cambiata e tastiere nuove. In realtà si potrebbero realizzare delle copie di questi strumenti che erano meravigliosi, sebbene ancora non si sappia con precisione quale fosse la loro destinazione. Mi sembra poco plausibile la tesi secondo cui questi doppi traspositori Ruckers sarebbero stati realizzati per facilitare la lettura quando si accompagnavano strumenti che erano accordati una quarta sotto, in quanto i musicisti che potevano permetterseli, sapevano sicuramente suonare senza alcun problema trasponendo all’istante. Io credo, in realtà, che i doppi traspositori fossero degli strumenti di punta all’interno del ricco catalogo dei Ruckers dove c’erano clavicembali da 4 piedi, da 4 piedi e mezzo, da 5, da 8 ecc, oltreché virginali e strumenti combinati. Credo che il doppio traspositore fosse una “ammiraglia” che ne racchiudeva in sé quattro, quello di 4 piedi, quello di 8, quello di 6 e quello di 12. Questa, però, è solo una mia ipotesi che non ha alcun fondamento o riscontro certo su documenti.
Tra le storiche “scuole” costruttive (italiana, fiamminga, francese, tedesca) ce n’è una che preferisci e per quale motivo?
Basandomi sulla mia esperienza ventennale, preferisco sicuramente gli strumenti italiani, soprattutto quelli grandi che, se ben costruiti, sono veramente meravigliosi e danno una soddisfazione immensa. Per carità anche gli altri (i fiamminghi, i franco-fiamminghi, i francesi seicenteschi e i tedeschi) sono stupendi, ma, se dovessi sceglierne uno che soddisfi anche i miei gusti di musicista, andrei sicuramente su un italiano.
Hai mai costruito un strumento totalmente fedele all’originale senza che il committente abbia chiesto delle modifiche?
Il Ruckers-Couchet realizzato per Chiara Massini che non mi ha chiesto alcun cambiamento. Io l’ho realizzato senza trasposizione, ricopiandone tantissimi particolari originali. (descrizione al presente link).
Quali sono i materiali che preferisci utilizzare?
I materiali che preferisco utilizzare sono le essenze più idonee alle singole parti dello strumento. Inoltre cerco di attenermi a quelli originali. Per esempio in un cembalo italiano realizzo un somiere interamente di noce. Utilizzo per le casse il pioppo che ha una stupenda risonanza, anche se non è molto bello da vedere e per questo è ricoperto con decorazioni. Per la tavola armonica utilizzo l’abete rosso, anche se molti si servono dell’abete bianco, anch’esso superbo. Nel complesso evito di utilizzare materiali plastici. Mi servo di colla a caldo, di tipo animale, che, poi, era quella utilizzata anticamente per gli incollaggi all’interno del cembalo e che è sicuramente migliore di quelle moderne. Basti pensare a strumenti che hanno 400 anni di vita e sono ancora oggi perfettamente incollati.
Oggi si parla tanto di plettri in penne naturali o in delrin. Quale soluzione ti sentiresti di consigliare a un clavicembalista?
Se un clavicembalista ha la passione e la pazienza per modellarsi le penne naturali, sicuramente potrei consigliare quest’ultime. In realtà un clavicembalista, nella maggior parte dei casi, vorrebbe sedersi e suonare senza nemmeno accordare lo strumento. Se una persona suona tanto e sfrutta molto lo strumento, consiglierei un’impennatura in delrin, perché quelle naturali richiedono una maggiore manutenzione.
C’è un clavicembalo che hai sempre sognato di imitare?
Il Muselar fiammingo (madre e figlo) e, poi, anche un francese seicentesco perché sono strumenti meravigliosi per un particolare repertorio francese dell’epoca, come i lavori di Chambonnières, De la Guerre, Louis Couperin e molti altri.
Grazie per la disponibilità e per averci introdotto in questo mondo così affascinante perché ha un sapore di antico.
Roma, Palazzo del Quirinale
GLI DEI RITORNANO. I BRONZI DI SAN CASCIANO.
23 giugno – 25 luglio e 2 settembre – 29 ottobre 2023
Giorni di apertura: martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica
Durata visita: 1 ora
Costo: 1.50 euro
Roma, 07 Luglio 2023
Da alcune settimane, il Palazzo del Quirinale ha solennemente aperto le sue porte per accogliere la straordinaria mostra “Gli Dei ritornano. I bronzi di San Casciano“, un evento di rara bellezza e fascino destinato a rimanere aperto al pubblico fino alla fine di ottobre. Questa affascinante esposizione rivela per la prima volta una serie di incredibili scoperte archeologiche emerse nell’estate del 2022 dal santuario termale etrusco e romano del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni. Per oltre sette secoli, dal III secolo a.C. al V d.C., questo antico santuario ha svolto un ruolo di primaria importanza come luogo sacro di pellegrinaggio e guarigione, dove etruschi e romani convivevano in armonia, trovando rifugio per il proprio corpo e nutrimento per lo spirito. La vasca sacra del santuario ha restituito al mondo oltre 200 manufatti in bronzo e più di 5000 monete, offrendo un’immagine vivida di un passato che ancora parla di benessere, ospitalità e fede.Le statue oranti, le parti anatomiche, i piccoli fasciati, i ritratti e le sacre figure in bronzo si stagliano come protagonisti di un racconto millenario. Questi reperti archeologici, testimoni di un’era lontana, svelano una storia che va oltre l’individuale importanza di ciascun oggetto, estendendosi a temi di spiritualità, cura e convivenza sociale. La stupefacente preservazione delle statue ritrovate nelle acque termali aggiunge un ulteriore livello di meraviglia a questa scoperta. Questa condizione eccezionale ha permesso la decifrazione di lunghe iscrizioni in etrusco e latino, fornendo un prezioso sguardo sulle vite di coloro che hanno frequentato questo sacro sito, le divinità a cui si appellavano, e la serena convivenza tra Etruschi e Romani, uniti dalla comune venerazione delle acque curative. La scoperta di statue in bronzo di tale antichità è un avvenimento raro e straordinario. Spesso, queste opere venivano rifuse per la creazione di nuovi artefatti di minore importanza, specialmente durante le fasi successive dell’antichità e nel periodo medievale. Questo rende il loro ritrovamento un prezioso affresco dell’epoca, un tesoro inestimabile che ci permette di viaggiare indietro nel tempo e di comprendere meglio le pratiche e le credenze di queste antiche civiltà. Pertanto, la scoperta di San Casciano riveste un’importanza senza pari, soprattutto considerando lo straordinario stato di conservazione delle opere. Tuttavia, è essenziale sottolineare che, sebbene la scoperta di San Casciano abbia avuto un impatto significativo, non sarebbe corretto commettere l’errore di confrontare direttamente queste opere con altri rinvenimenti celebri, come ad esempio i famosi Bronzi di Riace. Nonostante entrambe le scoperte siano di notevole importanza, appartengono a contesti culturali e cronologici estremamente diversi, e pertanto non possono essere paragonate tra loro. L’allestimento è stato curato con maestria dai direttori Eugenio Farioli Vecchioli e Brigida Gullo, i quali hanno documentato in modo esclusivo i suggestivi momenti del ritrovamento delle statue in bronzo nel loro eccezionale lavoro intitolato “Come un fulmine nell’acqua. I bronzi di San Casciano dei Bagni“, realizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura. Tra le diverse sale espositive, le Sale 5 e 7 meritano una menzione particolare. Nella Sala 5, accanto alle imponenti figure divine, le raffigurazioni degli offerenti svolgono un ruolo di fondamentale importanza all’interno del santuario, rappresentando sia coloro che offrivano che l’oggetto dell’offerta stessa. Per ben sette secoli, le dediche prevalentemente realizzate in bronzo legate alle acque termali conferivano alle figure umane e divine non solo un valore simbolico, ma anche un valore materiale. Il metallo utilizzato per realizzare le statue, leghe di rame, costituiva infatti il dono più prezioso offerto alla Fonte sacra del santuario. Tra le opere d’arte esposte in questa straordinaria sala, spicca un giovane togato che indossa una tunica e un mantello che avvolgono elegantemente il suo corpo, mentre le sue scarpe chiuse con corrigiae, simili a fasce di cuoio, richiamano alla mente il celebre bronzo dell’Arringatore custodito presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Questo meraviglioso esemplare del Bagno Grande di San Casciano risale ai primi anni del I secolo a.C. e, insieme ad una trentina di altre opere, rappresenta quella che Plinio descrive come la “misura onorata” delle statue votive. Nell’elegante Sala 7 del Palazzo invece si svela l’intricato regime delle offerte, un sistema di deposizioni che si susseguirono nei secoli all’interno della sacra vasca. Un variegato assortimento di offerte anatomiche – dai piedi e braccia, al seno, all’utero, al pene; dalle orecchie alle maschere, ai volti – costituiscono una vibrante testimonianza delle preghiere offerte alle divinità per la guarigione. Allo stesso tempo, queste offerte riflettono le pratiche mediche che avvenivano presso il santuario, dimostrando un intricato sistema di cura e devozione. L’essenza del bronzo e dell’acqua calda permea l’intero percorso espositivo, a partire dai reperti provenienti da altri siti etruschi e risalenti all’età del bronzo. Tuttavia, è l’acqua calda stessa, magnificamente riprodotta nella mostra attraverso fondali blu suggestivi, che ha svolto un ruolo fondamentale nel garantire lo straordinario stato di conservazione dei bronzi giunti fino a noi. Come ha spiegato il Direttore Generale dei Musei Nazionali Osanna, “Un fulmine caduto sul santuario durante l’età di Tiberio fu interpretato come segnale divino che parlava agli umani, e per purificare l’area profanata, le statue dei malati, degli dei e gli ex voto furono deposti all’interno della vasca, sigillati nel fango e chiusi da uno strato di tegole. Sopra, fu apposta la riproduzione di un fulmine in bronzo, e questo ha fatto sì che le statue fossero lasciate in quell’area sacra, nascoste per sempre agli occhi degli uomini”. Nel corso dei secoli, quel luogo è rimasto sacro e il legame intrinseco tra l’acqua calda e il bronzo è rimasto intatto, anche se ha assunto una forma diversa: non più statue votive, ma monete. Migliaia infatti ne sono state recuperate dal fango, un risultato notevole ottenuto grazie all’insuperabile lavoro di un team multidisciplinare formato da archeologi, geologi, architetti e ingegneri. Le monete scoperte nella vasca del Bagno Grande non sono poche: 2.511 sono state rinvenute durante la campagna di scavo del 2021, mentre circa 2.700 sono emerse nel 2022. Sono principalmente in bronzo, con alcune eccezioni in argento e una rara presenza di pezzi in oro. Secondo l’esperto numismatico Giacomo Pardini, è probabile che queste monete non siano mai state in circolazione prima di essere offerte come doni. Nell’ antica vasca termale, sono state ritrovate anche offerte rituali in legno. Questo suggestivo ritrovamento sembra indicare la pratica sacrale di gettare rami d’albero nelle acque. Non sono mancate nemmeno scoperte di pigne provenienti dal pino domestico. Un aspetto che merita una particolare nota è la meticolosità, la dedizione e la passione con cui lo scavo è stato condotto. Questo approccio scrupoloso ha permesso il recupero di una serie di informazioni estremamente preziose. Questi dati offrono un’opportunità unica per tentare di ricostruire la vita quotidiana di un’area sacra dove, per secoli, uomini e donne hanno testimoniato la loro fede, affidando le loro speranze all’acqua sacra. Questa scoperta archeologica non fa che sottolineare l’importanza di un approccio accurato e consapevole alla ricerca archeologica. È attraverso queste straordinarie scoperte che possiamo gettare uno sguardo nel passato, in una dimensione mistica e terapeutica, in cui il tempo sembra aver sospeso il proprio corso per custodire gelosamente tali tesori. La mostra “Gli Dei ritornano. I bronzi di San Casciano” si presenta dunque come una testimonianza vivida e affascinante del connubio tra il sacro e il materiale, tra l’acqua calda che cura e il bronzo che rappresenta le offerte votive. È un’occasione straordinaria per immergersi in un’epoca lontana, per riflettere sul nostro rapporto con il divino e con il passato, e per apprezzare l’immenso valore storico e artistico dei reperti che ci sono stati donati dal tempo stesso. È possibile acquistare online le pubblicazioni relative alla mostra ai seguenti link: emporium.treccani.it e sillabe.it. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Domus Aurea
Viale Serapide nel Parco del Colle Oppio
“L’AMATO DI ISIDE. NERONE, LA DOMUS AUREA E L’EGITTO.”
Roma, 07 Luglio 2023
Nel 27 a.C., il vasto dominio del Mediterraneo, noto come “Mare Nostrum” per i Romani, aveva raggiunto il culmine della sua espansione, abbracciando l’Egitto dei Tolomei , una terra di abbondanti granai e inestimabili tesori , conquistata nel 30 a.C. dopo la trionfante battaglia di Azio contro Antonio e Cleopatra. Questo glorioso evento segnò una svolta epocale nella carriera di Ottaviano, poiché il giovane generale aveva dimostrato la sua straordinaria abilità nel conseguire vittorie e portare ricchezza a Roma. Svetonio, il celebre storico romano, ha riportato un momento significativo durante la permanenza di Ottaviano ad Alessandria, dove il futuro imperatore visitò il sarcofago e il corpo di Alessandro Magno, rendendo omaggio al grande conquistatore del passato e, al contempo, sottolineando un parallelo tra sé stesso e l’immensa portata dell’impero di Alessandro. Questo gesto simbolico non solo rivelò l’ammirazione di Ottaviano per il passato glorioso dell’Egitto, ma sottolineò anche le ambizioni e la grandezza del futuro impero romano. La moneta d’oro coniata nel 27 a.C. da una zecca dell’Est, in onore della vittoria di Azio, raffigurava un giovane Ottaviano sul dritto e un coccodrillo del Nilo sul rovescio, simboleggiante la recente acquisizione dell’Egitto. L’iscrizione “Aegypto capta” proclamava il trionfo della conquista egizia, aprendo così nuovi scenari di gloria per il suo ambizioso conquistatore. Ottaviano fu anche il primo imperatore romano ad essere affascinato dall’estetica egiziana, una tendenza che influenzò molti dei suoi successori, incluso l’imperatore Nerone, noto per adottare l’emblema estetico egiziano nella sua sontuosa Domus Aurea, situata sul Colle Oppio. Questa magnifica residenza reale non solo era un maestoso esempio di architettura, ma racchiudeva anche preziose decorazioni originali. Oggi, grazie ai continui lavori di restauro, la Domus Aurea continua a svelare nuovi aspetti della cultura e della visione dinastica di Nerone, come dimostra l’affascinante mostra intitolata “L’amato di Iside. Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto”, aperta fino al 14 gennaio 2024. La mostra prende il via con i ritratti di Nerone e del suo circolo familiare, e prosegue nella Sala Ottagona, una sala da pranzo rotante descritta da Svetonio. Qui, si esplora il legame profondo tra Nerone e l’Egitto, un interesse che il giovane imperatore aveva sviluppato fin dalla sua educazione. I suoi insegnanti principali, Seneca e Cheramone, avevano instillato in lui una passione per la terra del Nilo. In particolare, Cheramone, filosofo e sacerdote nonché direttore della Biblioteca di Alessandria, aveva nutrito la sua curiosità per la ricca storia e cultura dell’Egitto. Non si può trascurare il ruolo della seconda moglie di Nerone, Poppea, nella sua affinità per i culti egizi. Nei rinvenimenti degli affreschi nelle dimore pompeiane dei suoi parenti sono state ritrovate raffigurazioni che fanno eco al culto di Iside. Inoltre, il ricordo del bisnonno di Nerone, Marco Antonio, che aveva raggiunto lo status di divinità regale accanto a Cleopatra, e l’aura di mistero e magnificenza che avvolgeva l’Egitto, esercitarono un’indiscutibile influenza su di lui. Quando salì al trono, Nerone veniva spesso rappresentato come un faraone in Egitto, che nel frattempo era divenuto una provincia romana. Tuttavia, sembra che Nerone abbia osato farsi ritrarre come un sovrano egizio a Roma, come testimonia una statua esposta nella mostra, con caratteristiche faraoniche ed erculee. La mostra presenta anche ritratti e riferimenti alla celebre spedizione organizzata per scoprire le sorgenti del Nilo, attraverso la presenza di opere d’arte in oro, sculture raffiguranti coccodrilli e leoni, un mosaico di ispirazione nilotica e affascinanti ricostruzioni 3D di antica Alessandria e dei templi di File e Dendera. Negli ultimi anni del suo regno, Nerone si indirizzò sempre di più verso un potere assoluto di ispirazione ellenistica, e la Domus Aurea, con le sue audaci soluzioni tecnologiche e le luminose decorazioni dorate, era l’emblema perfetto di questo desiderio di grandezza. La narrazione coinvolgente dell’esposizione è arricchita da statue imponenti e reperti di natura religiosa, che raggiungono l’apice nel Grande Criptoportico e nelle stanze adiacenti. Tuttavia, il fulcro di tutta la mostra è rappresentato dalla figura di Iside, la “dea dai mille volti”, che emerge in tutta la sua vibrante bellezza dagli affreschi recuperati. Iside, con i suoi molteplici ruoli come dea guaritrice, protettrice dei naviganti, divinità della fertilità e tenera madre che allatta il figlio Horus, incarna un’energia affascinante e misteriosa. Una vetrina appositamente dedicata espone una vasta collezione di amuleti egizi e romani, sottolineando l’aspetto magico e popolare associato alla dea. Questi preziosi reperti dimostrano che, quando si trattava di superstizioni e credenze, nemmeno le grandi città come Roma, Pompei e Alessandria erano da meno. Ciascuna di queste città aveva le sue peculiari credenze e riti, testimonianza di un fervore religioso e culturale che rifletteva la complessità e la ricchezza della società antica. Gli elementi esposti alla mostra sono presentati con una marcata enfasi sulla loro ieraticità, mostrando un’attenzione particolare all’elevazione, soprattutto nel caso della statuaria . La varietà di tonalità dei marmi introduce un elemento di diversità cromatica che, abbinato a un’illuminazione mirata, non solo mette in risalto le linee dei pezzi, ma conferisce anche un volume straordinario alle opere . Questo, in un contesto già di per sé molto evocativo, crea un’esperienza visiva davvero unica e affascinante . Non sono stati trascurati nemmeno i più piccoli pezzi esposti nelle bacheche. Ogni oggetto è posizionato con una strategia che mira a creare il massimo impatto visivo, dimostrando che anche il più piccolo dettaglio può avere un grande effetto . Questi oggetti, sebbene di piccole dimensioni, svolgono un ruolo fondamentale nel raccontare la storia complessiva dell’esposizione e nel creare un’esperienza immersiva per il visitatore. Photo Credit: Simona Murrone. Qui per tutte le informazioni.
Museo Carlo Bilotti , Aranciera di Villa Borghese
Viale Fiorello la Guardia, 6
Dal 13/07/2023 al 10/09/2023
RITRATTE. DONNE DI ARTE E SCIENZA
Dal 13 luglio, presso il Museo Carlo Bilotti di Roma, apre al pubblico “Ritratte. Donne di arte e di scienza”, una mostra fotografica dedicata ai volti, alle carriere e al merito di donne italiane che hanno conquistato ruoli di primo piano nell’ambito della scienza e dei beni culturali. L’esposizione, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è curata e realizzata dalla Fondazione Bracco in collaborazione con Arthemisia e Servizi museali Zetema Progetto Cultura. La mostra, attraverso gli scatti del fotografo di fama internazionale Gerald Bruneau, mette in luce non solo la figura ma anche e soprattutto le capacità professionali di 40 donne che hanno raggiunto posizioni apicali nel loro settore. Un itinerario eclettico di immagini e parole, che si snoda in luoghi spesso nascosti, tra vaste sale rivestite di marmi di palazzi d’epoca e laboratori di ricerca inaccessibili, per raccontare la guida sapiente di queste professioniste che non di rado propongono – attraverso la loro stessa biografia – un modello di governo inclusivo e ispirante. La mostra propone due percorsi espositivi distinti ma complementari, oggi riuniti per la prima volta in un’unica esposizione, fortemente voluta da Fondazione Bracco nell’ambito del proprio intervento di contrasto agli stereotipi di genere e di promozione delle competenze, concepiti rispettivamente come asse prioritario di intervento per raggiungere la parità e unico discrimine per qualsiasi sviluppo personale e collettivo. “Ritratte. Donne di arte e di scienza” alterna dunque storie di donne alla guida di primarie istituzioni culturali del nostro Paese e di alcune tra le più importanti scienziate italiane, in un ideale unione di saperi tra arte e scienza, un viaggio esemplare tra luoghi d’arte e laboratori scientifici. Qui per tutte le informazioni.
Sabato 8 luglio, a coronamento della I edizione del Festival una tradizione immancabile del Fondo Niccolò Piccinni: il Piccinni Gala (ore 20.30) che si apre con il conferimento a Leo Nucci del ° Premio Piccinni, attribuito fin dal 1967 a un’eccellenza nel campo della cultura e delle arti. Il grande baritono sarà premiato da Sandra Milo, madrina della serata.
Segue al Ristorante Il Pirlàr la charity dinner, cena di gala il cui ricavato andrà a sostenere la mission del Fondo Niccolò Piccinni.
La serata conclusiva del Festival Riflessi del Garda sarà preceduta dalla terrazza letteraria di un’artista d’eccezione: Sandra Milo official, che ci regalerà al Golf Club Paradiso del Garda (ore 19.00)uno sguardo sul suo personalissimo universo di sentimenti, desideri, dolori e rimpianti, in conversazione con il Direttore Artistico Maximilien Seren-Piccinni. Con Sandra Milo, una dolce vita in poesia, l’attrice attraverso le 18 poesie di “Il corpo e l’anima”, raccolta edita da Morelliniapre una speciale finestra sulla sua vita, tra l’eterno amore per Federico Fellini, un omaggio al Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e alla sua Sicilia, e una lunga e fulgida carriera tra cinema, televisione e musica.
In allegato il programma del Piccinni Gala