Milano, si sa, è una piazza teatrale “ultrasatura”, a causa della presenza di teatri più o meno importanti, ma soprattutto di realtà teatrali piccole, quasi improvvisate, off-off, che prendono vita, a volte per il tempo di un paio di stagioni, presso scantinati, attici, proprietà parrocchiali, centri sociali, zone industriali dismesse eccetera eccetera. Nonostante sia vero, questo non si dimostra necessariamente un impedimento affinché queste piccole realtà possano fiorire e, talvolta, distinguersi; ci vuole senz’altro una certa dose di fortuna perché questo avvenga, ma non può mancare nemmeno una generosa dose di talento imprenditoriale ed artistico, di intuizioni comunicative e, senz’altro, di coraggiosa irresponsabilità. Tutte queste doti le abbiamo ritrovate in Valentina Pescetto, giovane attrice e danzatrice genovese formatasi oltreoceano, che nel 2018 riesce ad aggiudicarsi un vecchio deposito di tappeti fra il Naviglio e San Cristoforo, per trasformarlo, nel giro di circa un anno, in fACTORy32, un piccolo polo che si sta dimostrando tra i più vivaci e interessanti dell’intera proposta teatrale meneghina (qui la recensione alla sua ultima produzione). La incontro un pomeriggio: è bella ed emozionata, desiderosa di mostrarmi e narrarmi il suo teatro.
Perché il tuo spazio si chiama fACTORy32?
Perché volevo un nome che richiamasse direttamente il lavoro dell’attore (che è proprio nel cuore di questa parola), ma anche che mantenesse un contatto col suo passato industriale; inoltre mi piaceva anche fare un omaggio alla Factory di Andy Warhol… E 32 è il numero civico di via Watt in cui ci troviamo, oltre che la mia età nell’anno in cui abbiamo inaugurato lo spazio.
Avete aperto a fine 2018 e praticamente dopo un anno è arrivato il Covid, con tutto quello che ne è seguito: come hai fatto a non arrenderti?
È stata una sfida davvero rischiosa: anche quando ci era stato concesso di riaprire, le condizioni erano praticamente proibitive. In una settimana ho ideato una rassegna estiva nel cortile del teatro (solitamente adibito a parcheggio) con un piccolo gruppo di artisti di richiamo. La risposta del pubblico fu entusiasmante, con sold out continui e persone che ci ringraziavano per il coraggio. Contemporaneamente abbiamo attivato corsi online che hanno avuto un buon successo, con un numero impressionante di allievi. Questo, ci ha dato davvero la forza di non mollare, e sul lungo termine ha pagato.
Questo spazio è molto a contatto con la realtà teatrale americana ed è evidente che tu tenga all’internazionalità della proposta: come hai sviluppato questo legame?
Cerco di tenermi più informata possibile, in primo luogo; senza dubbio, poi, l’essermi formata con Larry Moss e Micheal Rodgers – che insegna anche presso i nostri corsi – ha avuto il suo peso: lui mi ha aperto il mondo del teatro americano, sia dei classici (come Williams) sia dei più contemporanei. In questa stagione, ad esempio, abbiamo proposto “Casa di bambola 2” di Lucas Hnath, un testo del 2018, e ha avuto così tanto successo che lo abbiamo riproposto per più date e ne siamo diventati coproduttori.
Come hai imparato a coniugare l’aspetto dirigenziale con quello artistico?
Non è stato semplice: nonostante siamo una realtà piccola, la parte burocratica, contabile e amministrativa è molto pesante, soprattutto per una tendenzialmente negata in matematica come me! Ma un teatro in realtà è come un’azienda, e per farlo funzionare ho dovuto imparare la parte gestionale, che curo in genere la mattina. Poi, dalle 14, mi dedico invece al mio lato preferito di questo lavoro, cioè quello umano: vengo in teatro, seguo i corsi che facciamo, accolgo gli allievi, e coltivo l’identità dello spazio e le relazioni con chi viene a trovarci.
Nell’ascoltarti traspare una grande dedizione al progetto…
È la cosa più vera e importante per me: la passione sfrenata che mi ha portato ad aprire fACTORy32 non viene mai meno, anzi, cresce sempre più, man mano che vedo che le persone si affezionano, ritornano, portano altri, dimostrando di apprezzare ciò che proponiamo.
Tu dici sempre, quando introduci gli spettacoli, che hai realizzato il tuo sogno – aprire il tuo teatro… quale altro sogno hai ancora da realizzare?
Suonerà banale, ma stiamo creando una vera e propria famiglia artistica, che vorrei diventasse un punto di riferimento non solo per la zona, ma per l’intera città. So che è un progetto ambizioso e che si può realizzare solo a lungo termine, ed è per questo che punto tanto sull’internazionalità delle nostre stagioni e collaborazioni: per poter ampliare sempre più il bacino di utenza del nostro spazio e contribuire col nostro servizio alla crescita culturale della città.
Torino, Teatro Piccolo Regio: La Scuola all’Opera e In Famiglia 2024 – 2025
“THE BEAR“ (L’orso)
Extravaganza in un atto. Libretto di Paul Dehn e William Walton dall’omonima commedia di Anton Čechov.
Musica di William Walton
Elena Ivanovna Popova SIPHOKAZI MOLTENO*
Grigorij Stepanovič Smirnov YIORGO IOANNOU
Luka TYLER ZIMMERMAN*
La Cameriera ALESSIA CODA ZABETTA
Il cuoco GABRIELE BOCCHIO
Orchestra del Teatro Regio di Torino
Direttore Marco Alibrando
Regia Paolo Vettori
Costumi Laura Viglione
Scene Claudia Boasso
Luci Andrea Rizzitelli
Nuovo Allestimento del Teatro Regio di Torino *artisti del Regio Ensemble
Torino, 29 maggio 2025
Così come al ristorante, dopo il gran pranzo d’occasione, sovraccarico di grassi e calorie, si propone il sorbetto o sgroppino, al Teatro Regio, dopo un massiccio ed ipertrofico Hamlet, sussurrando a bassa voce senza far rumore e senza pubblicizzarlo a dovere, si serve l’effervescente The Bear di William Walton. Operina che è come sorbirsi uno sgroppino di panna inglese, rinforzato con gin e vivacizzato da scorzette di limone dell’isola di Ischia. Non nella sala grande, ma nella ormai desueta cantina, nata per imitazione della Piccola Scala, che solo l’attivismo di Paolo Vettori, il regista in cartellone per la serata, riesce, semel in anno, a risuscitare. Il barocco e i concerti di canto, per cui il luogo era stato voluto, da decenni ormai sono stati esclusi dal Teatro. Tre operine anglofone, in tre anni, è quanto si è potuto vedere. Ora tocca a questo Orso, terza fatica che ancora Paolo Vettori è riuscito ad allestirvi utilizzando le ottime forze “della casa”: la scenografa Claudia Boasso, la costumista Laura Viglione e le luci di Andrea Rizzitelli. La sobrietà e l’economicità dell’allestimento ne fanno peraltro ancor più apprezzare l’ottimo risultato ottenuto. Se mai qualcuno si togliesse la voglia di comparare quanto succede nell’interrato con le sproporzionate spese affrontate per alcuni spettacoli del piano superiore, forse si sorprenderebbe di come, con il budget di un Hamlet, si caverebbero fuori almeno 100 Orsi. William Walton, inglese trapiantato ad Ischia, sempre restio nell’affrontare l’opera, invasa stabilmente oltremanica dall’ottima e invasiva produzione di Britten. Gli pesava poi il relativo successo attribuito a Troilus and Cressida, suo primo lavoro teatrale del 1954, accettò comunque l’invito di Peter Pears, il tenore compagno di Britten, di portare un suo lavoro al Festival di Aldeburgh. La scelta cadde su una pièce teatrale di Čechov da cui, lui stesso con la collaborazione dello sceneggiatore cinematografico Paul Dehn, ricavarono il libretto dell’atto unico. Storia banale: giovane bellezza che, perso il marito debosciato e traditore, si incaponisce a rimanere in gramaglie e a non sostituirlo; le entra in casa, a riscuotere debiti non saldati dallo scomparso, un nerboruto, aitante e danaroso campagnolo; qualche schermaglia a cui seguono qualche equivoco maneggiamento di una pistola e un rimando della cavalcata … nel parco. 50 minuti e poco più di un inglese vaudeville brillante, brioso, sapido per esilarante humor. La musica è strettamente legata alle situazioni, da esse nasce senza esserne né la causa né l’anticipazione. C’è un gatto in casa e il racconto viene pausato dai suoi stiracchiamenti e dai frullii di ali degli uccelletti che cerca di ghermire. Del cavallo, Toby, nella scuderia si intuisce il pestar di paglia e lo sgranocchiar d’avena. L’orchestra del Teatro Regio, con la guida sagace e indefessa di Marco Alibrando, conta pochi archi e fiati ma un gran dispiegamento di percussioni, arpe e pianoforte compresi. Il racconto non potrebbe così essere stato sostenuto con più vivacità e fantasia. Walton conosceva a perfezione il mondo musicale del suo tempo e vi si rifa costantemente. Non si coglie la dodecafonia, che forse c’è, distinti sono però i riferimenti allo Stravinskij delle Noces, agli americani di New York e non solo. Due lunghe litanie, di Grigorij che elenca i debitori, di Elena con le malefatte e le infedeltà del marito si riallacciano alle geremiadi di Falstaff, non per nulla Walton ha elaborato innumerevoli colonne sonore di film shakespeariani. La litania dei debitori sembra ad una processione ortodossa, con ostensione delle sacre icone, vedi Mussorgskij, le malefatte del marito si snodano invece su motivetti da rive gauche e da broadway. Tre i protagonisti vocali, due “della casa” membri dell’Ensemble del Regio, e un ospite: il baritono Yiorgo Ioannou formidabile e rude campagnolo dalla borsa piena e dal cuore tenero. Canta e recita con appropriatezza e vigore, sempre convincente nella parte. L’ambiente piccolo si colma per una voce ben educata e dal piacevole timbro ombreggiato. Siphokazi Molteno è la coprotagonista che veste i panni della vedova Elena. Voce sfogata, di gran temperamento, affronta validamente sia la partitura musicale che il grande impegno scenico. Il regista Vettori ha sicuramente molto curato la recitazione e il maestro Alibrando, oltre all’insieme strumentale, ha meticolosamente seguito il canto fornendone una linea sempre convincente. Figura di contorno Luka, maggiordomo tuttofare, il basso Tyler Zimmerman che ottimamente sostiene recitativi e battibeccanti duetti con i due protagonisti. Figure mute sono la Cameriera Alessia Coda Zabetta e il cuoco Gabriele Bocchio che, ben diretti, mimano azioni e vivacizzano il palcoscenico. Le note di regia giustificano il gigantesco quadrante, parete di fondo della scena, e le numerose grandi clessidre che a noi, nel contesto, paiono più adatti a rappresentare un tempo riacciuffato da parte dei due protagonisti che non al rimpianto per lo spreco di quello passato. Forse per giustificarne la programmazione si è sottolineato il fatto che la produzione fosse nell’ambito dei due cicli La Scuola all’Opera e In Famiglia, con orari alle 16, alle 11 e alle 20. A noi pare che questi giustificativi siano inutili ed impropri: lo spettacolo è bello ed interessante, ben degno di stare in una programmazione principale, pur se accoppiato, per completezza di serata, con un altro atto-unico. L’inglese del testo e il livello “artistico e culturale” della proposta musicale sono tali da pretendere e poi soddisfare anche il pubblico più “scafato”. Nella recita del 29 maggio, causa la mancata informazione, il pubblico era assai scarso.
Allegati
Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Cornelius Meister
Mezzosoprano Monica Bacelli
Carl Maria von Weber: “Der Freischütz”, Ouverture; Luciano Berio: Folk Songs; Robert Schumann: Sinfonia n. 4 in re minore op. 120
Firenze, 30 maggio 2025
Prosegue l’interessante programmazione dell’87° Festival e l’altra sera si è assistito alla direzione dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, di Cornelius Meister, apprezzato direttore tedesco insieme a Monica Bacelli, mezzosoprano dal grande carattere interpretativo. Ad aprire il concerto l’Ouverture del Der Freischütz di Carl Maria von Weber, ritenuta da molti studiosi la prima opera romantica tedesca. Dalla prima esecuzione (18 giugno 1821) la celeberrima partitura diventa tra le più amate dai direttori d’orchestra e Wagner la dirige il 4 aprile 1885 a Londra. A chiudere il programma il monumento sinfonico della Sinfonia n. 4 in re minore di Robert Schumann, altra opera studiata e prediletta da molti compositori tra cui Brahms. Incastonati al centro, con un’immersione nel Novecento, i Folk Songs di Luciano Berio nella versione del 1973 per voce e orchestra da camera, ricordo e omaggio al compositore nel centenario della sua nascita. Con il levare della bacchetta di Meister, in un pp (archi insieme al gruppo dei legni, flauti esclusi), in un’alternanza tutti-soli tra le due sezioni e con suggestivi crescendo al f, è stato introdotto il solo dei quattro corni dell’Ouverture e del mondo evocativo di Weber, intuendo altresì il percorso concertante intrapreso dal direttore. Il suo approccio, sempre edificante e collaborativo con il complesso strumentale, è apparso più intento alla valorizzazione del ‘canto’ degli strumenti. Se i vari crescendo e diminuendo dei tremoli degli archi hanno preparato, per esempio, il suono perfetto per il ‘solo’ del clarinetto con molta passione, il successivo passaggio all’arco, l’inserimento e raddoppio dei primi violini ha creato una bellissima fusione di colore volta alla dolcezza, convogliando in un medesimo afflato flauto e fagotto. Il prosieguo, prendendo spunto dal guizzo dei primi violini in crescendo, ha portato verso forti sonorità, similmente alla successiva imitazione dei legni, in un rapporto dialogico e contrastante tra le varie sezioni insieme al Molto vivace nella bellissima progressione in fortissimo realizzata in 4 battute. Meister ha così diretto sostanzialmente la struttura ritmica lasciando all’orchestra il compito di condurre l’ascoltatore verso la fine, in una caleidoscopica varietà di scrittura in cui si è dato spazio al melos e all’ascolto del rapporto più imitativo e/o contrastante tra le varie sezioni in una sintesi di gioia e di stupore. Il capolavoro di questa partitura – condividendo l’idea di molti studiosi nel riuscire ad esprimere il compendio dell’intero lavoro – è espressione di un’edificante dialettica di quell’architettura formale tanto cara ai romantici tedeschi e, più in particolare, al mondo sinfonico di Weber. Con il ciclo dei Folk Songs si scorge l’attrazione di Berio per la musica popolare anche «solo nell’intenzioni», come egli scrive riferendosi a La donna ideale e Ballo, attraverso un microcosmo di varia provenienza geografica. Inoltre i brani rivelano anche l’attenzione per la voce umana tout court qui espressa ed utilizzata nelle diverse forme da Monica Bacelli, autentica domina della scena che ha saputo tradurre l’essenza poetica della musica del compositore. Al direttore, posata la bacchetta, il compito di invitare l’orchestra in un canto collettivo offrendo una lettura cameristica dell’opera, e lasciando all’ispirato mezzosoprano la ‘traduzione’ sonora, citando Berio, nel «suggerire e commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone».
Con la Sinfonia n. 4 in re minore di Schumann – il cui organico consta di: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi – si è ritornati allo stesso dell’Ouverture. La successione dei quattro movimenti, oltre ad offrire la fluidità senza interruzione, mostra in itinere un’opera costruita su due idee tematiche percepibili fin dall’introduzione. La sinfonia dal punto di vista dell’architettura musicale presenta la Romanze: Ziemlich langsam ed uno Scherzo: Lebhaft-Trio incorniciati da due movimenti esterni concepiti nella forma sonata (Introduzione: Ziemlich langsam e Finale: Langsam. Lebhaft.Schneller). La composizione è un’autentica varietà degli stati d’animo dell’autore, talmente pregnanti da coinvolgere, per merito di un’ottima interpretazione, anche l’ascoltatore distratto. Già nelle battute iniziali, dopo l’attacco sulla nota la con quasi tutto l’organico (escluse trombe e tromboni), i due fagotti, viole e violini secondi, nell’unirsi al processo di combinazione coloristica, si fondono con un tale equilibrio da produrre un nuovo ed unico colore con un effetto di grande sfumatura. Molto apprezzata inoltre l’espressività del melos ove, portandosi alla conclusione con un diminuendo, ha favorito il nuovo inserimento, valorizzando il colore di ogni strumento e/o di una sezione. In realtà l’orchestra, per tutta la serata e vista la qualità estetica e piacevolezza del programma, è stata coinvolta anche dal punto di vista emozionale, emergendo inoltre un fraseggio chiaro ed efficace. Il direttore, d’altro canto, percepita l’edificante partecipazione della compagine strumentale e l’eccellente livello, ha lasciato esprimere i musicisti con bella cantabilità ed espressione. Ogni suo gesto ha definito con grande nitidezza i molteplici aspetti come cambi di tempo o dinamiche, facendo confluire il tutto nello stile romantico di Schumann grazie ad una significativa concertazione. Non potendo citare i molti ‘soli’ e tutte le prime parti delle varie sezioni che si sono espressi con grande intensità ricordo almeno Fatlinda Thaci, in questa occasione egregia spalla dell’orchestra. Successo meritato per tutti i musicisti e per le interessanti idee musicali di Meister il quale, con una rinvigorita lettura delle tre partiture, è riuscito a coinvolgere tutta l’orchestra in un fiume di emozioni lasciando al pubblico sicuramente il ricordo di un concerto colmo di atmosfere, sensazioni, a tratti anche struggenti e ricche di pathos.
Allegati
Alberto Franchetti (1860–1942): “Symphony in E minor” – Ermanno Wolf-Ferrari (1876–1948): “Sinfonia da camera, Op. 8“. Orchestra Sinfonica di Roma. Francesco La Vecchia (direttore). Registrazione: 1-2, 8-9 luglio 2011 presso OSR Studios, Roma, Italia (Sinfonia in mi minore) – 12-17 ottobre 1995 presso la Alter Pfarrsaal di Nöttingen (Sinfonia da camera n. 8). T. Time: 73′ 14″. 1 CD Naxos 8.574271
Le influenze del sinfonismo tedesco accomunano questi due lavori di compositori apparentemente diversi, Alberto Franchetti ed Ermanno Wolf-Ferrari che sono i protagonisti di questa proposta discografica dell’etichetta Naxos. Del primo è presentata la Sinfonia in mi minore “Nella foresta nera” che costituisce il primo lavoro ed anche ultimo sinfonico di grande respiro di Franchetti che in seguito avrebbe dedicato la sua attenzione prevalentemente al teatro musicale. Composta nel 1885 per l’esame conclusivo del corso di composizione che aveva frequentato presso il Conservatorio di Dresda sotto la guida di Felix Draeseke, questa sinfonia, rimasta, come già detto, figlia unica nel catalogo di Franchetti, si segnala per la perizia acquisita dal venticinquenne compositore, che qui si confronta con una grande massa orchestrale tipica dei lavori sinfonici del tardo Ottocento, e anche per la padronanza della forma-sonata, evidente nel primo (Allegro un poco agitato) e nel quarto movimento (Allegro vivace), che si a apre con un motivo di ascendenza mendelssohniana Il secondo movimento, Larghetto, è una pagina d’intenso lirismo composta nella forma della canzone, mentre il terzo, chiamato Intermezzo da Franchetti, è in realtà un piacevolissimo scherzo con un trio.
Ancora più marcata è in Wolf-Ferrari l’anima tedesca ereditata dal padre originario della Baviera, del quale è qui presentata la Sinfonia da camera, op. 8, composta nel 1901, mentre si trovava a Monaco di Baviera, che mostra dal punto di vista della struttura l’attenzione per una grande forma, come quella sinfonica, qui calata in un contesto da camera, con il pianoforte subito protagonista già nel primo movimento, Allegro moderato, con una formula d’accompagnamento sulla quale si staglia la bella melodia del clarinetto. Splendido è anche il lirico secondo movimento, Adagio, aperto da un tema del fagotto sempre su un accompagnamento accordale del pianoforte, mentre il terzo (Vivace con spirito) è un vivacissimo scherzo. Di grande respiro è infine l’ultimo movimento. Curata l’esecuzione da parte dell’Orchestra Sinfonica di Roma sotto la direzione di Francesco La Vecchia particolarmente esperto nel repertorio sinfonico italiano di questo periodo. Ben curate sono le sonorità sia quando il direttore si confronta con grandi masse orchestrali sia in contesti più intimistici come quelli della Sinfonia da camera di Wolf-Ferrari.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Martin Rajna
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60; Antonín Dvořák: Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88
Venezia, 30 maggio 2025
Due capolavori del grande repertorio sinfonico ottocentesco costituivano il programma del recente concerto, che vedeva per la prima volta sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice Martin Rajna, tra i più notevoli giovani direttori ungheresi degli ultimi tempi, nominato nel 2023, appena ventisettenne, direttore principale dell’Hungarian Opera di Budapest. Due sinfonie – la Quarta di Ludwig van Beethoven e l’Ottava di Antonín Dvořák –, che, peraltro, non sono abbastanza conosciute dal grande pubblico, in quanto di fatto eclissate da analoghe composizioni ben più famose, presenti nel catalogo dei rispettivi autori. Dopo aver terminato all’inizio del 1804 l’Eroica, Beethoven si dedicò a una nuova partitura sinfonica in do minore – la futura Quinta –, che sarebbe stata completata solamente all’inizio del 1808: un impegno gravoso, durato quattro anni, che peraltro non impedì al compositore di portare a termine il Quarto concerto per pianoforte, il Concerto per violino, le prime due versioni di Fidelio, né di scrivere interamente un’altra sinfonia, la Quarta, appunto. Quasi un’oasi di serenità fra le monumentali Terza e Quinta, la Sinfonia n. 4 op. 60 è scevra da ambizioni titaniche, percorsa com’è ancora da una grazia settecentesca. Gradita a Schubert – che nelle sue prime Sinfonie seguiva l’esempio haydniano –, fu definita da Schumann “una slanciata ragazza greca fra due giganti nordici”. In effetti, essa rispecchia la leggiadria e gli schemi consacrati della tradizione classica, articolandosi in quattro tempi, di cui il primo preceduto da un’introduzione lenta. Una consuetudine che l’Eroica – aperta quasi immediatamente dal primo tema – pareva aver accantonato per sempre. La Quarta, dunque, rappresenta per certi versi un ritorno al passato – ovviamente come può realizzarlo un genio assoluto –, inserendosi nel solco segnato da Haydn. Il che si ripeterà qualche anno dopo con l’Ottava.
Intensamente espressiva ma senza alcuna affettazione, scevra da ogni compiacimento esteriore, attenta a valorizzare il parametro timbrico nella frequente contrapposizione archi-fiati, particolarmente energica nella scansione ritmica è risultata la lettura proposta dal direttore ungherese, impeccabilmente supportato da un’orchestra di ‘solisti’. Un misterioso clima di attesa ha caratterizzato l’Adagio introduttivo fino alle brusche strappate orchestrali, che hanno preceduto l’Allegro vivace, dove sono emersi subito i tratti caratteristici – anche dal sapore ironico – che appartengono a tutta la partitura: l’energia delle cellule ritmiche (sincope ritmica nel primo tema), la contrapposizione fra gruppi strumentali, il rilievo dolcemente espressivo dei legni, la raffinatezza cameristica dei giochi timbrici. Nell’Adagio si è apprezzata la cantabilità delle idee musicali, sostenute da un principio ritmico giambico, che ha conferito unità al movimento. Ancora un principio ritmico, spesso sincopato, è risaltato nel Menuetto – un ritmo binario calato in una misura ternaria, in apertura del terzo movimento, Allegro vivace –, a cui successivamente si è contrapposto il Trio con la cantilena dei fiati. Ha chiuso la Sinfonia un Allegro ma non troppo estremamente brillante, simile nell’impostazione a certi Finali di Haydn, ma con una ruvidezza ritmica e dei contrasti dinamici decisamente accentuati; una conclusione ad effetto ha riaffermato con decisione i contenuti giocosi della partitura. Un’analoga impronta di serenità, di levità, ma anche di teatralità si è colta nella Sinfonia n. 8 in sol maggiore di Dvořák, dove si rispecchia la calma interiore raggiunta dall’autore nella sua fase matura, ormai conscio di essersi conquistato un posto di rilievo nell’ambito del sinfonismo romantico mitteleuropeo. Sebbene seguita, a quattro anni di distanza, dalla celeberrima sinfonia “Dal nuovo mondo” – Nona del catalogo definitivo – questa Ottava in sol maggiore, del 1889, costituisce il vero culmine dell’arte sinfonica dell’autore, e al tempo stesso il punto più avanzato nel processo di sviluppo di una musica nazionale ceca: un punto rispetto al quale la Nona rappresenterà un vero e proprio passo all’indietro. Se Brahms era il suo riferimento più vicino, Dvořák nell’Ottava Sinfonia si riallaccia con naturalezza a Schubert: lo attestano la vena melodica ricca e pregnante, gli squarci evocativi spesso oscillanti fra maggiore e minore, il ritorno ciclico di sezioni tematiche senza sviluppo. Tutti elementi che Rajna ha saputo far apprezzare con la sua straordinaria interpretazione, guidando l’orchestra, sempre encomiabile in tutte le sue sezioni, con gesto stringato quanto incisivo. Ispirato al romanticismo nazionalista slavo, il primo movimento, Allegro con brio, ha affascinato nell’evocare suoni e colori della natura, oltre che di qualche festa paesana: nel tema iniziale, un appassionato cantabile in sol minore, si sono messi in luce i violoncelli, degnamente accompagnati da clarinetti, fagotti e corni; è stata poi la volta del flauto intonando il successivo un motivo gorgheggiante, enunciato dapprima come un’eco lontana della natura e poi dilatato fino a diventare una solenne fanfara, dai colori accesi e squillanti. Nel secondo movimento, Adagio, il paesaggio spirituale si è trasfigurato sconfinando verso l’intimità più raccolta e meditativa, in un alternarsi di stati d’animo: malinconico, fiero, nostalgico, elegiaco. Altamente suggestivo il terzo tempo, Allegretto grazioso, contenente uno degli episodi più memorabili di tutta la produzione di Dvořák: un leggiadro, sognante tema di valzer in minore, che ha preso vigore sul cullante ritmo di 3/8 per divenire a poco a poco, dopo l’affermazione in maggiore del Trio, quasi un’apoteosi della danza. Mirabolante il movimento finale, Allegro ma non troppo, concepito in forma di tema con variazioni: una fanfara di trombe ha richiamato l’attenzione; più oltre un tema di danza ha visto come protagonista il violoncello con contrappunto del fagotto, prima che il tema stesso fosse rielaborato in quattro variazioni; seguivano un motivo di marcia in tre parti e, successivamente, una nuova serie di variazioni più meditative; improvvisa la breve coda conclusiva con l’orchestra in fortissimo. Pubblico entusiasta per il direttore e gli strumentisti.
È stata presentata la Stagione 2025/26 del Teatro di San Carlo. La Stagione operistica verrà inaugurata, il 6 dicembre 2025, con Medea di Luigi Cherubini. Sul podio, Riccardo Frizza. La regia, invece, verrà affidata a Mario Martone. Nel ruolo eponimo, Sondra Radvanovsky. A interpretare Giasone sarà, invece, Francesco Meli; e nel ruolo di Creonte, Giorgi Manoshvili. La tragedia in tre atti sarà in scena fino al 16 dicembre, e la Prima sarà preceduta da un’Anteprima dedicata ai giovani under 30 (3 dicembre). Le date delle altre repliche sono le seguenti: 10 dicembre, 13 dicembre 2025.
La Stagione operistica del Teatro lirico napoletano proseguirà con la prima esecuzione assoluta di Partenope: opera in un atto di Ennio Morricone, in scena il 12 e il 14 dicembre 2025. Alla guida dell’Orchestra del San Carlo: Riccardo Frizza; la regia sarà di Vanessa Beecroft.
Gli altri appuntamenti operistici sono i seguenti: Nabucco di Giuseppe Verdi, in scena dal 18 al 31 gennaio 2026; Falstaff di Giuseppe Verdi, in scena dal 15 al 24 febbraio 2026; Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, in scena dallʼ11 al 24 marzo 2026; La bohème di Giacomo Puccini, in scena dallʼ8 al 14 aprile 2026; Werther di Jules Massenet, in scena dal 20 al 26 maggio 2026; Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, in scena dal 14 al 20 giugno 2026; Turandot di Giacomo Puccini, in scena dal 5 al 15 luglio 2026; Aida, opera di Giuseppe Verdi – che, il 6 settembre 2026, verrà eseguita in forma di concerto. Nel ruolo eponimo, Anna Netrebko. Radamès verrà, invece, interpretato da Jonas Kaufmann. Nel ruolo di Amneris, Elizabeth DeShong, e nel ruolo di Amonasro, Luca Salsi. Sul podio, Riccardo Frizza.
La Stagione operistica proseguirà con due importanti appuntamenti, due drammi che verranno rappresentati per la prima volta al San Carlo: Mitridate, re di Ponto di Wolfgang Amadeus Mozart, in scena dal 24 settembre al 1 ottobre 2026; e Alcina di Georg Friedrich Händel – dramma musicale che, dal 9 allʼ11 ottobre 2026, verrà eseguito in forma di concerto. Nel ruolo eponimo, Lisette Oropesa; nel ruolo di Ruggiero, Franco Fagioli, e nel ruolo di Bradamante, Varduhi Abrahamyan.
L’ultimo appuntamento operistico, della Stagione 2025/26, sarà La Cenerentola: dramma giocoso in due atti di Gioachino Rossini, in scena dal 20 al 27 ottobre 2026.
Gli appuntamenti della Stagione Danza del Teatro di San Carlo sono: Lo schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij, dal 20 dicembre 2025 al 4 gennaio 2026; Lo schiaccianoci for families: versione ridotta del balletto con esecuzione su musica registrata, dal 23 dicembre 2025 al 3 gennaio 2026; Soirée Balanchine: Serenade di Pëtr Il’ič Čajkovskij, Le fils prodigue di Sergej Prokofʼev – dal 28 aprile al 3 maggio 2026; Coppélia di Léo Delibes, dal 25 al 31 luglio 2026; Boléro: Nuova Creazione, coreografia: Garrett Smith; Maurice Ravel: Boléro, coreografia: Maurice Béjart; Sergej Rachmaninov: Three preludes, coreografia: Ben Stevenson – dal 5 al 10 novembre 2026.
La Stagione di Concerti del San Carlo verrà inaugurata, il 18 novembre 2025, con Dan Ettinger / Asmik Grigorian: il soprano Asmik Grigorian eseguirà celebri brani operistici. Il programma del Concerto: Richard Wagner: Die Meistersinger von Nürnberg, Ouverture; Giacomo Puccini: Madama Butterfly, “Un bel di vedremo”, Manon Lescaut, “Sola, perduta, abbandonata”; Giuseppe Verdi: Macbeth, “Vieni, t’affretta”; Richard Strauss: Salome, Scena finale “Ah! du wolltest mich nicht deinen Mund küssen lasse”. Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Dan Ettinger.
Gli altri appuntamenti concertistici sono: Concerto di Natale / Coro del Teatro di San Carlo (4 e 17 dicembre 2025); Riccardo Frizza (24 gennaio 2026, 23 maggio 2026, 27 settembre 2026); Ingo Metzmacher (1 febbraio 2026); Karel Mark Chichon (21 febbraio 2026), Fabio Luisi (14 marzo 2026, 22 marzo 2026); Aigul Akhmetshina (7 aprile 2026); Michele Mariotti (31 maggio 2026); Sondra Radvanovsky / Freddie De Tommaso (21 giugno 2026); Jonas Kaufmann / Ludovic Tézier (17 luglio 2026); Dan Ettinger (11 settembre 2026); Anita Rachvelishvili (2 ottobre 2026).
Segnaliamo, inoltre: la Messa da Requiem per soli, coro e orchestra di Giuseppe Verdi, che verrà eseguita il 27 e il 28 febbraio 2026. Concerto in memoria di Roberto De Simone; Gustavo Dudamel / Marina Abramović, 18 e 19 aprile 2026: Igor Stravinskij: Histoire du soldat, Storia da leggere, suonare e danzare in due parti; la cui Concezione Artistica è di Marina Abramović: Manuel de Falla: El amor brujo, un’opera zingaresca in un atto e due quadri, la cui regia è sempre a firma dell’artista; Fabrizio Cassi / Il giovane Verdi (revisione critica a cura di Dino Rizzo), 24 ottobre 2026. Alla guida dell’Orchestra e del Coro del Teatro di San Carlo, Fabrizio Cassi.
Qui, per consultare il programma completo (Calendario generale) della Stagione 2025/26 del Teatro di San Carlo e per tutte le altre informazioni.
Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“LES INDES GALANTES”
Opéra-ballet in un prologo e quattro quadri su libretto di Louis Fuzelier
Musica de Jean-Philippe Rameau
Amour / Phani / Fatime / Zima JULIE ROSET
Hébé / Émilie / Zaïre / Atalide ANA QUINTANS
Valère / Don Carlos / Tacmas / Damon MATHIAS VIDAL
Bellone / Osman / Huascar / Ali / Don Alvar ANDREAS WOLF
Cappella Mediterranea
Choeur de Chambre de Namur
Structure Rualité
Direttore Leonardo García-Alarcón
Maestro del Coro Thibaut Lenaerts
Regia e coreografia Bintou Dembélé
Costumi Anaïs Durand Munyankindi
Luci Benjamin Nesme
Drammaturgia Simon Attab
Prima rappresentazione al Teatro Real di Madrid
Versione in forma semiscenica e coreografica
Madrid, 29 maggio 2025
L’anello luminoso è il sole, il mondo, il circolo attorno al quale si muove l’intera comunità umana; nel suo movimento, che si sprigiona dal centro, è l’essenza del concerto coreografico con cui Bintou Dembélé traduce Les Indes galantes di Rameau. Giunge a Madrid lo spettacolo che nel 2019 entusiasmò l’Opéra Bastille di Parigi, segnando l’inizio di una collaborazione internazionale tra la coreografa francese e il direttore e clavicembalista svizzero-argentino Leonardo García-Alarcón. È anche la prima volta che quest’opera barocca si esegue al Teatro Real, il che aggiunge un tassello al mosaico sempre più composito del suo repertorio. Le esigenze tecniche dell’allestimento sperimentale di Parigi impediscono la sua esportazione altrove in versione integrale; o meglio, questa è la ragione ufficiale che serve di avvertenza a proposito della selezione dell’opéra-ballet originale che dà corpo alla tournée. Un filologo direbbe che l’obbiettivo è l’eterodossia: non si tratta di un’esecuzione completa, alcuni numeri sono trasposti, non ci sono scene, il coro, gli strumentisti e i solisti occupano tutti gli angoli possibili del teatro e della sala, tranne dove ci si attende che dovrebbero essere (un cronista spagnolo rileva, con stupore malcelato, che la prima voce che si ascolta dopo la sinfonia proviene dal palco centrale, riservato alla famiglia reale!). Eppure, se i suoni si originano dai palchi, dalle gallerie, dai corridoi, è ancora una volta per contribuire all’effetto avvolgente del movimento circolare, questa volta trasformato in musica. Le Turc généreux, Les Incas du Pérou, Les Fleurs e Les Sauvages sono i sottotitoli delle quattro vicende ambientate in un contesto culturale distinto (l’Impero Ottomano, il Perù precolombiano, un giardino orientale di ispirazione persiana e i territori delle popolazioni indigene del Nord America), dove l’amore galante supera ostacoli di gelosia, potere o diversità, per risolversi sempre in modo armonioso. Il tono è colto, elaborato, ma non elitario; anzi, questa specie di fantasia esotica intonata da Rameau è specchio di ciò che l’Europa voleva ritrovare nelle popolazioni degli altri continenti, secondo l’inconfessata illusione di trasportarvi e applicarvi i propri paradigmi sociali ed etici. L’operazione ideata da Dembélé non è eterodossia, bensì volontà quasi disperata di fare della musica di Rameau un corpo vivo e vigile di danzatori, che incarnano la folla urbana di una metropoli occidentale. L’ottimismo del libretto di Louis Fuzelier, con cui si idealizza l’imperialismo illuminato del secolo XVIII, diventa nello spettacolo della Structure Rualité ottimismo della convivenza, afflato di fratellanza che nella musica ritrova un rito di riconoscimento collettivo. Per questo, durante l’ouverture – staccata da García-Alarcón con tempi assai più rapidi del dovuto – i danzatori giungono sul palcoscenico, si salutano, si abbracciano, gestiscono in maniera ritualizzata, appunto perché si preparano alla celebrazione di una liturgia sociale; che non è altro se non la vitalità della musica stessa di Rameau. In tal senso, l’estetica dell’hip hop che riguarda l’abbigliamento e le acconciature non è che l’elemento superficiale di un messaggio coreografico e musicale molto più complesso. Non si può neppure dire, infatti, che Dembélé abbia tramutato Les Indes galantes in un balletto contemporaneo, perché in più momenti i tersicorei non sono sulla scena e in altri si siedono sul palco per ascoltare i cantanti, come per ponderare la distanza che separa il loro vissuto da quello dell’opera di Rameau. Molto più impositivo è il coté tecnico dello spettacolo, con la ruota mobile che sovrasta il centro del palcoscenico e che con i suoi dodici fari illumina ogni spazio del teatro (investendo più volte di luce fredda anche il pubblico), costruendo geometrie luminose e delimitando grandi blocchi di ombra. Sul palcoscenico il direttore si sposta, per avvicinarsi ora all’uno ora all’altro dei tre settori sopraelevati in cui è stata distribuita l’orchestra; ora si siede al clavicembalo ora si rivolge verso la sala, per dare l’attacco agli elementi ubicati nella platea o nei palchi; anche questo, naturalmente, è parte della rappresentazione. Il pubblico di Madrid apprezza il quartetto di solisti che disimpegnano le parti vocali: Julie Roset è il soprano di coloratura che dà voce ad Amour nel Prologo e ad altre tre protagoniste dei quadri successivi; Ana Quintans è il secondo soprano; Mathias Vidal è il tenore a cui spettano i brani maschili più lirici e Andreas Wolf è il basso-baritono dalla voce più ragguardevole di tutto il gruppo. La qualità dell’esecuzione è certamente buona, ma nessuno di loro sfugge del tutto incolume o alle difficoltà del registro acuto (tenore e basso) o alle conseguenze di certa fissità nell’emissione (i due soprani). Magnifica la prova del Choeur de Chambre de Namur preparato da Thibaut Lenaerts, non soltanto per le qualità musicali, ma anche per la destrezza con cui si muove e si confonde con i danzatori della compagnia Structure Rualité. L’intensità e la pulsazione (ma non il conflitto o la violenza esasperata) sono la dimensione principale in cui si svolgono i numeri musicali, tutto sommato rispettosi della narrazione, di cui i figuranti determinano l’impatto visivo; ogni variazione coreografica, comunque, deriva dalla ricchezza della musica e delle sue suggestioni, senza bisogno di alcuna superfetazione. Anche l’apoteosi finale, dopo la celebre chaconne (che persino William Christie si dilettava ad accompagnare con il movimento della propria persona), è interamente affidata all’orchestra, sul palco vuoto di altri elementi, come per riaffermare che la conclusione è nel suono strumentale, armonico e pacificatore. Ottimismo, si diceva all’inizio, o forse, più semplicemente, sincero e incondizionato amore per l’umanità. Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid
AllegatiRoma, Teatro dell’Opera, stagione 2024/2025
“DAWSON / LEÓN-LIGHTFOOT / EKMAN”
Direttore Thomas Herzog
“CACTI”
Musica Joseph Haydn, Ludwig van Beethoven, Franz Schubert (arrangiata e orchestrata da Andy Stein)
eseguita da Quartetto Sincronie
Coreografia Alexander Ekman
ripresa da Ève-Marie Dalcourt
Scene e costumi Alexander Ekman
Luci Tom Visser
Testi Spenser Theberge
“SUBJECT TO CHANGE”
Musica Franz Schubert (Der Tod und das Mädchen, Quartetto per archi n. 14 in Re minore D 810 del 1824, secondo movimento Andante con moto, arrangiamento di Gustav Mahler del 1894)
Coreografia Sol León e Paul Lightfoot
Coreografi assistenti Roger Van der Poel, Chloé Albaret
Scene Sol León e Paul Lightfoot con la supervisione di Eric Blom
Costumi Sol León e Paul Lightfoot con la supervisione di Susanne Stehle
Luci Tom Bevoort
“FOUR LAST SONGS”
Musica Richard Strauss
Coreografia David Dawson
Ripetitori Christiane Marchant, Rebecca Gladstone
Scene Eno Henze
Costumi Yumiko Takeshima
Luci Bert Dalhuysen
Soprano Madeleine Pierard
Artista ospite Alice Mariani
Interpreti Principali Rebecca Bianchi, Susanna Salvi, Federica Maine, Marianna Suriano, Alessio Rezza, Michele Satriano, Jacopo Giarda
Roma, Teatro Costanzi, 23 maggio 2025
Avevamo già assistito a Cacti, l’irriverente creazione di Alexander Ekman, nel 2017, sul palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma. Ora, nel contesto del progetto di apertura alla danza contemporanea voluto e promosso da Eleonora Abbagnato, il lavoro ritorna in scena come tassello significativo di un percorso che intende interrogare – non senza ironia e provocazione – le forme, i codici e le aspettative che circondano l’arte coreutica. Realizzato originariamente per il Nederlands Dans Theater 2 nel 2010, Cacti si propone come una raffinata operazione di smontaggio: la danza viene esaminata, sezionata, messa sotto vetro. E il primo elemento a finire sotto processo è proprio il suo impianto narrativo, il desiderio – forse ingenuo – di raccontare una storia attraverso il corpo. Una voce fuori campo suggerisce allo spettatore questioni apparentemente insolubili sulla modalità di esistenza di una forma artistica derivante dal rito in una civiltà contemporanea orientata quasi totalmente sulla dimensione tecnologica. Una danzatrice attraversa orizzontalmente il palcoscenico in una posa di profilo che sembra rievocare l’antico Egitto, mentre in un’atmosfera sfoglia risuona scenicamente l’astrattismo di quadrati bianchi che si compongono in una mutevole scacchiera. Dopo lo spazio e il tempo ad essere indagato è il fondamentale rapporto con la musica, che da accompagnamento – in scena il Quartetto Sincronie su cimenta in musiche di Haydn, Beethoven e Schubert – si trasforma in puro ritmo tribale, imposto dai danzatori con il battito delle mani sul pavimento di quadrati bianchi. E dunque, si passa al movimento, al linguaggio del corpo, che si indirizza verso una emblematica semplicità. I danzatori non sono né più né meno che degli sportivi, e in alcuni loro atteggiamenti nonché nelle loro aderenti tutine il richiamo diventa del tutto esplicito. Certo, anche in una prospettiva storica c’è stato chi come Meyerchold agli inizi del Novecento ha insistito sull’aspetto biomeccanico dell’interpretazione attoriale. E le luci che scendono dall’alto, lo spazio scenico che alle volte si restringe, sembrano condurci sempre più in una dimensione laboratoriale. Qui però prevale un’ironia postmoderna che toglie enfasi a qualsiasi incanto per la modernità. Ecco che mentre i danzatori sembrano volerci ipnotizzare con i loro movimenti, si sente il loro ansimare, il gioco verbalizzato di un’infatuazione per una qualche spettatrice, di un duo si avverte tutto il progressivo comporsi nella fatica e nel reciproco affidarsi dei danzatori, mentre un gatto cade improvvisamente dal soffitto. E per ultimi fanno la loro comparsa i cactus, che talvolta assumono delle connotazioni erotiche, talaltra si associano alle asperità della vita. Difficile è la stessa composizione artistica, che assume una precisa identità solo dopo la messa in scena e il rapporto col pubblico, presentandosi invece nel suo aspetto misterioso al coreografo e agli interpreti che non sanno mai quale sia la giusta fine di un pezzo. Meno intellettualoide e decisamente più emozionante il pezzo Subject to Change di Sol León e Paul Lightfoot, che attraverso l’impiego di una coppia principale formata da Rebecca Bianchi e Jacopo Giarda, quattro danzatori in nero e un tappetto rosso ci vogliono ricordare l’oscura imprevedibilità della vita e i suoi dispiaceri, che ci possono avvolgere e travolgere da un momento all’altro. L’indagine principale avviene qui a livello coreografico. I movimenti sono estremi, tesi come lame, ricchi di sospensioni e fuori asse e nella loro angolosa espressività risuonano dell’energia conferita loro dalla musica del quartetto per archi n. 14 in Re minore Der Tod und das Mädchen di Schubert nell’arrangiamento di Gustav Mahler. Chiude la serata il pezzo Four Last Songs, composto dal coreografo inglese David Dawson su un ciclo di lieder di Richard Strauss, il cui canto sulle stagioni della vita è interpretato in scena dal soprano Madeleine Pierard. Dei passi a due scultorei che vedono unirsi al corpo di ballo del teatro capitolino la prima ballerina del Teatro alla Scala Alice Mariani vogliono portarci in un modo di purezza angelica di ispirazione diremmo neoclassica lifariana. Ma forse il riferimento più adatto è il non finito michelangiolesco, qui trasmessoci dalla tensione verso un’ideale che pare assolutamente irraggiungibile, ma che può essere vagheggiato in scena grazie alle belle forme derivate dalla tradizione. Foto Fabrizio Sansoni – Opera di Roma
Domenica 1 giugno / Sabato 7 giugno
Ore 10.00 / 09.52
“IL TURCO IN ITALIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Diego Fasolis
Regia Roberto Andò
Interpreti: Rosa Feola, Laura Verrecchia, Erwin Schrott, Giulio Mastrototaro, Antonino Siragusa….
Milano, 2021
Ore 18.22
“RUSALKA”
Musica Antonin Dvorak
Direttore Dan Ettinger
Regia Dmitri Tcherniakov
Interpreti: Asmik Grigorian, Adam Smith, Ekaterina Gubanova, Anita Rachvelishvili,
Gabor Bretz
Napoli, 2024
Lunedì 2 giugno
Ore 17.24
“CARMEN”
Diretore Daniel Barenboim
Regia Emma Dante
Interpreti: Anita Rachvelishvili, Adriana Damato, Jonas Kaufmann, Erwin Schrott…
Milano, 2009
Mercoledì 4 giugno
Ore 17.40
“CARMEN”
Balletto dall’opera omonima di Georges Bizet
Coreografia di Jiri Bubenicek.
Direttore Louis Lohraseb.
Solisti: Rebecca Bianchi, Amar Ramasar, Alessio Rezza…
Roma, 2019
Venerdì 6 giugno
Ore 17.57
“TOSCA”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Riccardo Chailly
Regia Davide Livermore
Interpreti: Anna Netrebko, Francesco Meli, Luca Salsi…
Milano, 2019
Domenica 8 giugno
Ore 10.00
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Bruno Campanella
Regia Joan Font
Interpreti: Marianna Pizzolato, Pietro Spagnoli, Marko Mimica, Boyd Owen, Omar Montanari, Sergio Vitale…
Ore 18.20
“AIDA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti: Violeta Urmana, Ildiko Komlosi, Roberto Alagna, Carlo Guelfi…
Milano, 2006
Martedì 10 giugno
Ore 17.20
“EDGAR”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Massimo Zanetti
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Vassilii Solodkyy, Lidia Fridman, Ketevan Kemoklidze…
Torre del Lago, 2024
Mercoledì 11 giugno
Ore 17.35
“LE WILLIS”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Massimo Zanetti
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Vincenzo Costanzo, Lidia Fridman, Giuseppe De Luca
Torre del Lago, 2024
Giovedì 12 giugno
Ore 17.40
“RAYMONDA”
Musica Aleksandr Glazunov
Coreografia di Marius Petipa, ricostruita da Sergej Vikharev
Direttore Michail Jurowski
Interpreti: Olesia Novikova, Friedemann Vogel
Milano, 2014
Ore 21.15
“SUOR ANGELICA” / “IL PRIGIONIERO”
Musica Giacomo Puccini, Luigi Dallapiccola
Direttore Michele Mariotti
Regia Calixto Bieito
Interpreti: Corinne Winters, Marie-Nicole Lemieux, Ángeles Blancas,John Daszak…
Roma, 2025
Urbino, Palazzo Ducale
Galleria Nazionale delle Marche
Il ritorno dello Studiolo del Duca: un capolavoro restaurato alla sua unità iconografica e architettonica
Urbino, 30 maggio 2025
C’è un tipo di restauro che non aggiunge nulla. Non reinventa, non abbellisce, non interpola. Si limita a togliere l’inutile, a disfare l’artificio, a rimettere in ordine le cose così come erano nate: secondo un’idea e una volontà. È questo il caso dello Studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino, che il 30 maggio 2025 ha riaperto al pubblico dopo un intervento radicale, ma discreto, che ha restituito coerenza, coesione e misura a uno degli ambienti più emblematici della cultura umanistica italiana. L’intervento è stato diretto da Luigi Gallo, direttore della Galleria Nazionale delle Marche e della Direzione Regionale Musei Marche, con un’azione concertata tra il Ministero della Cultura, un’equipe di restauratori esperti e una squadra multidisciplinare che ha saputo coniugare rigore filologico e prassi conservativa contemporanea. Lo smontaggio completo delle tarsie lignee ha consentito trattamenti in anossia per debellare parassiti e valutare lo stato interno del legno, mentre l’intera architettura dello Studiolo è stata ripensata secondo criteri di veridicità percettiva: è stata adottata una nuova illuminotecnica ispirata alla luce naturale e rimosso ogni residuo di superfetazione ottocentesca. Il cuore dell’intervento è stato però la ricomposizione, per quanto possibile, del progetto iconografico originario. Delle 28 tavole raffiguranti gli Uomini Illustri voluti da Federico, quattordici sono conservate a Urbino; le altre quattordici, da secoli al Louvre, sono state riprodotte in alta definizione e reinserite grazie a un accordo tra i due musei. Si tratta di una delle rarissime operazioni museografiche in cui la riproduzione non è surrogato, ma strumento di lettura autentica. Ne scaturisce un insieme che torna a essere leggibile secondo l’originaria intenzione: un pantheon di sapienti e santi, di filosofi e teologi, collocati in due registri iconologici secondo una logica tanto eterodossa quanto armonica. Lo Studiolo stesso, con le sue dimensioni anomale (3,60×3,35 m), si inserisce in un dispositivo simbolico più ampio, che lega le tre logge del palazzo – corpo, mente e spirito – in un percorso verticale di ascesi e introspezione. Le tarsie, opera di Benedetto e Giuliano da Maiano e di Baccio Pontelli, si sviluppano su tre registri: strumenti scientifici e musicali, armi, libri, emblemi, “imprese” araldiche, il tutto intarsiato con essenze preziose in una costruzione illusionistica che dilata lo spazio e lo riempie di memoria. Nel soffitto a cassettoni, araldi e simboli privati; nella fascia superiore, le tavole dipinte da Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Lo Studiolo era, ed è, il luogo dove il Duca si spogliava dell’armatura e si vestiva di sapere. Tutto in esso parla di una visione del mondo in cui l’intelletto non è mai disgiunto dalla volontà di potere, e la contemplazione è esercizio di dominio interiore. Ma il restauro ha restituito anche altri spazi fino ad ora trascurati: è stata ripristinata la latrina del Duca, ambiente igienico dalle straordinarie soluzioni architettoniche, e è stato finalmente riassemblato nella sua forma e posizione originaria il lavabo monumentale, collocato nella camera da letto del Duca, smontato nell’Ottocento e poi ricomposto secondo criteri documentari, grazie alle vedute di Romolo Liverani e ai rilievi ottocenteschi. La complessità del progetto ha reso necessario l’allestimento di un laboratorio temporaneo all’interno del palazzo, dove sono stati eseguiti tutti gli interventi di manutenzione, concludendosi con il trattamento in atmosfera modificata che ha garantito una disinfestazione completa dei legni. L’intera operazione ha preso ispirazione dai restauri storici documentati da Otello Caprara (1969-72) e dalle procedure d’emergenza guidate durante la Seconda guerra mondiale da Pasquale Rotondi, all’epoca direttore del museo. A completare la restituzione dell’Appartamento del Duca, ora interamente visitabile, il riposizionamento delle opere più emblematiche della collezione: dalla Città Ideale al Doppio Ritratto di Federico e Guidobaldo, dal Miracolo dell’Ostia profanata di Paolo Uccello alla Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand. Opere che tornano a vivere nel luogo per il quale furono pensate o al quale sono legate per necessità storica e iconografica. L’operazione compiuta a Urbino non è solo restauro, ma atto critico. Un ritorno non al passato, ma alla verità originaria delle forme. Un’opera d’arte, per esistere, ha bisogno d’essere capita. Ma prima ancora, ha bisogno di essere restituita al suo silenzio eloquente. Ed è proprio questo che lo Studiolo oggi ritrovato offre: non una narrazione, ma una presenza. Non una vetrina, ma una visione.
Allegati
Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“MORTE ACCIDENTALE DI UN ANARCHICO”
Commedia di Dario Fo e Franca Rame
Matto DANIELE RUSSO
La giornalista CATERINA CARPIO
Questore ANNIBALE PAVONE
Primo Commissario (Commissario Bertozzo) / Secondo Agente EDOARDO SORGENTE
Secondo Commissario (Commissario Sportivo) / Primo Agente EMANUELE TURETTA
Regia Antonio Latella
Dramaturg Federico Bellini
Scene Giuseppe Stellato
Costumi Graziella Pepe
Musiche e Suono Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Movimenti Isacco Venturini
Assistente alla Regia Mariasilvia Greco
Realizzazione Scene Alovisi Attrezzeria
Costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Napoli, 28 maggio 2025
Il caso della Morte accidentale di Giuseppe Pinelli, anarchico e ferroviere, arriva al Bellini. La «farsesca» tragicità della Morte accidentale di un anarchico, commedia di Dario Fo e Franca Rame, riesce a sconvolgere anche la fisionomia della sala teatrale: essa assume, vagamente, la forma di un atipico «anfiteatro»: la platea viene occupata da uno spazio scenico in legno – progettato da Giuseppe Stellato e accuratamente illuminato da Simone De Angelis –, i cui contorni rimandano alla forma stilizzata del corpo dell’anarchico – piombato al suolo, nel 1969, da una finestra della questura di Milano. Un corpo che reca in sé la tragicità di un caso analogo, quello dell’italiano che – a New York, nel 1921 – precipita dall’edificio della polizia: un avvenimento che Dario Fo e Franca Rame, nel 1970, adottano come soggetto del lavoro teatrale – intendendo, però, fare riferimento alla «morte accidentale» del Pinelli. L’azione, al Bellini, viene trasferita al centro della sala – e, nell’ormai «ex» spazio scenico, sul palco, viene collocato un gruppetto di posti a sedere. Questo «sovvertimento», estetico e formale, reca in sé una forza espressiva estrema – non soltanto perché l’azione si svolge «sul» corpo legnoso dell’uomo, ma anche perché la nuova fisionomia del teatro consente agli attori di confondere, in modo irrimediabile, realtà «vera» e realtà «teatrale». Gli spettatori di teatro di prosa, oggi, sono un po’ avvezzi allo sfondamento, vagamente pirandelliano e no, della «quarta parete»: effettistica soluzione scenica, ricorrente in tante regie contemporanee. Però, questo elemento può ancora «sorprendere», soprattutto quando viene estremizzato o risolto drasticamente: ciò accade non soltanto sottraendo al palcoscenico la sua funzione originaria, ma anche integrando, sia pure parzialmente, gli spettatori nella rappresentazione; per esempio: a un certo punto della «conversazione» del Matto con il Questore, il Secondo Commissario e il Secondo Agente – gli spettatori, seduti nell’ex spazio scenico, vengono invitati a indossare dei berretti durante una momentanea chiusura di sipario, ritrovandosi innestati, dopo la riapertura del sipario, come «figuranti» nell’intreccio del lavoro teatrale e nei fatti raccontati. Quello di Fo e Rame è un linguaggio teatrale rivoluzionario – come afferma il dramaturg, Federico Bellini, in uno scritto inserito nel magazine del teatro (The Belliner, n. 43); e l’elemento artisticamente «rivoluzionario» della rappresentazione non è soltanto ravvisabile nel testo letterario in sé – determinato da momenti di «caustico» umorismo, da «notizie» oggettive riguardanti la «morte accidentale» dell’anarchico e da espressioni di carattere politico –, ma risiede anche nelle «modalità» attraverso cui avviene l’esposizione verbale del testo. Il regista Antonio Latella e il dramaturg Federico Bellini riescono, dunque, a dare evidenza al carattere «rivoluzionario» del lavoro teatrale, sottolineando la latente «drammaticità» di soluzioni apparentemente «farsesche» – come un’esasperata reiterazione di movimenti, coordinati da Isacco Venturini, e come una declamazione «vigorosa» e, a tratti, parossistica, sostenuta dai suoni cupi di Franco Visioli; elementi che, per esempio, hanno caratterizzato le notevoli prove attoriali di Edoardo Sorgente (Primo Commissario – Commissario Bertozzo / Secondo Agente) ed Emanuele Turetta (Secondo Commissario – Commissario Sportivo / Primo Agente). Soluzioni interessanti, dunque, perché utili all’estremo «rinvigorimento» del materiale letterario; soluzioni che, inoltre, consentono una definizione «drammatica» dei personaggi – il cui carattere «farsesco», però, appare costantemente percepibile, perché teatralmente animato dalla presenza di «pupazzi»: alter ego «inquietanti», che gli attori portano con sé. Emerge, inoltre, con estremo nitore, la figura del Matto – interpretato da Daniele Russo. L’attore realizza una costruzione scenica estremamente «realistica», e paradossalmente razionale, della figura: viene, pertanto, sottratta al clima generale, acutamente «farsesco», del lavoro teatrale. Un matto «razionale», dunque, che – grazie alle abilità, sceniche e vocali, dell’attore – riesce a fare sfoggio di un’elegante nonchalance, attraverso cui avviene la restituzione dei «personaggi», dal giudice al capitano della scientifica, al vescovo – che il Matto, assecondando le sue istrioniche manie, riesce a «interpretare»: «Ho la mania dei personaggi. Si chiama istriomania…», confessa candidamente al Primo Commissario, che lo sta interrogando. Notevoli sono, inoltre, le capacità dell’attore di alternare momenti di imperturbabilità a momenti di foga e veemenza. Parimenti ottimo l’attore Annibale Pavone, che dona agli spettatori un’interpretazione scenicamente efficace del Questore, anch’egli «avvinghiato» al suo alter ego inanimato. Nel ruolo di Maria Feletti, Caterina Carpio: l’attrice riesce a ritrarre validamente la giornalista – conferendo al tenace personaggio una fermezza emotiva, percepibile nell’incisività del linguaggio, e un comportamento scenico estremamente dinamico. Un personaggio interessante – l’unico a entrare in scena, e a «cantare» per un breve momento, sostenuto da un accompagnamento pianistico, sempre di Visioli; l’unico, inoltre, a indossare un costume colorato – in evidente e «metaforico» contrasto con il nero degli altri costumi, ideati tutti da Graziella Pepe. Il pubblico napoletano, composto anche da ragazze e ragazzi, accoglie positivamente il lavoro teatrale, tributando entusiastici applausi agli artisti. Foto Flavia Tartaglia
Vincenzo Bellini: “Oh! S’io potessi dissipar le nubi…Col sorriso d’innocenza…Oh, Sole! ti vela di tenebre oscure” (“Il pirata); Gaetano Donizetti: “Piangete voi?… Al dolce guidami…Qual mesto suon?… Cielo, a’ miei lunghi spasimi…Chi mi sveglia?… Coppia iniqua” (“Anna Bolena”), “M’odi, ah m’odi…Figlio! È spento!… Era desso il figlio mio” (“Lucrezia Borgia”); Giuseppe Verdi: “No…mi lasciate…Tu al cui sguardo onnipossente…Che mi rechi?… La clemenza?… s’aggiunge lo scherno!” (“I due Foscari), “Oh, cielo! Dove son’io!… Ah dagli scanni eterei…Mina!…Voi qui!… Ah dal sen di quella tomba” (“Aroldo”). Eleonora Buratto (soprano), Didier Pieri (tenore), Irene Savignano (mezzosoprano), Giovanni Batista Parodi (basso). Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice di Genova, Claudio Marino Moretti (maestro del coro), Sesto Quatrini (direttore). Registrazione: Genova, Teatro Carlo Felice luglio 2024. 1 CD Pentatone PTC: 5187409.
Eleonora Buratto vanta ormai una carriera solida e affermata e sorprende che solo ora arrivi il primo recital discografico. L’etichetta è Pentatone, la casa discografica californiana che si sta distinguendo per una particolare sensibilità nei confronti dei cantanti di oggi e anche per la proposta di recital non prevedibili. In questo contesto rientra anche questo neppure questo della Buratto – accompagnata per l’occasione dai complessi del Teatro Carlo Felice di Genova diretti da Sesto Quatrini – dedicato alle eroine dell’ultima stagione del Belcanto italiano compreso tra Bellini e il primo Verdi. Si tratta di un repertorio da cui la Buratto negli ultimi anni sembrava essersi allontanata ma che qui recupera non solo come un ritorno alle origini ma anche come indicazione di una nuova frequentazione in futuro. Ipotesi non trascurabile avendo la Buratto dichiarato dio voler affrontare integralmente la trilogia Tudor – per ora ha cantato Anna Bolena e Maria Stuarda – a testimonianza di un interesse sempre presente per il belcanto Al momento della pubblicazione di questa recensione la Buratto ha annunciato che nel prossimo mese di giugno debutterà il Roberto Devereux a Valencia.
I brani proposti derivano da opere – con la sola eccezione della citata “Anna Bolena” – mai affrontate in teatro. I brani sono disposti in ordine cronologico di composizione, ad accompagnare lo sviluppo storico della vocalità italiana e sono eseguiti integralmente con partecipazione del coro e dei personaggi di contorno.
Bellini – evitata prudentemente “Norma” – è rappresentato dalla scena conclusiva de “Il pirata”. Per molti aspetti è il brano più lontano da quella che è oggi la vocalità della Buratto è proprio per questo ne diventa la cartina di tornasole di qualità e difetti. La voce è indubbiamente notevole per ampiezza ed emissione, capace di imporsi con sicurezza in teatro. Il cantabile “Col sorriso d’innocenza” è ben eseguito con un canto morbido e ben legato mentre gli scarti espressivi della cabaletta sono affrontati con attento gioco di colori e timbri. Di contro la dizione è perfettibile – si nota già nel recitativo introduttivo – e manca l’aplomb dell’autentica belcantista così che i passaggi di coloratura sono corretti ma sempre un po’ trattenuti, manca quella capacità di virtuosismo espressivo che è proprio di chi è più addentro a questo repertorio. Gli acuti sono ampi e ricchi di suono ma mostrano altresì un vibrato fin troppo presente.
I brani di Donizetti – oltre ad “Anna Bolena” è eseguito il finale di “Lucrezia Borgia” – si pongono in fondo sulla stessa linea. Anna è il ruolo più conosciuto tra quelli affrontati, la coloratura è meno virtuosistica e gli ampi cantabili hanno il sopravvento. Proprio per questo colpisce una certa piattezza espressiva in “Al dolce guidami” ben cantato ma poco emozionante mentre il temperamento le permette di dare il giusto vigore alla cabaletta, i cui passaggi di forza la vedono più a suo agio rispetto a quelli di grazia.
“Lucrezia Borgia” rappresenta quella vocalità donizettiana più matura che già si proietta verso tempi nuovi. Il cantabile è molto ben eseguito. La voce così ampia assume naturalmente caratteri materni, la linea di canto è sempre ben sorvegliata e ricco il gioco di colori e accenti. La cabaletta è resa con autentico coinvolgimento che fanno perdonare qualche imprecisione nelle agilità.
Due titoli verdiani chiudono il programma. Lucrezia Contarini s’inserisce naturalmente nel solco delle precedenti eroine donizettiane e anche l’esecuzione si pone su quella linea. La Buratto è perfettamente a suo agio nel forte temperamento della nobile veneziana che già emerge nel recitativo. Ben cantata la preghiera giunge a una cabaletta che risulta bifronte. In “O patrizi…tremate” la sua Lucrezia è un’autentica furia vendicatrice ma il registro acuto appare assai teso e tradiscono uno sforzo eccessivo.
La Mina di “Aroldo” non è forse “indomita” come personaggio – per citare il titolo scelto per il disco – ma nel suo trepidante lirismo è particolarmente congeniale per la Buratto che può far valere la sua musicalità e la sua eleganza. Il canto d’agilità è ben gestito così come il registro acuto appare meno esposto. Questo gioca a suo favore.
Efficacie nel complesso la direzione di Quatrini sempre attento al canto e alle sue esigente. Tra gli interpreti di contorno pienamente funzionali le prove di Irene Savignano e Didier Pieri mentre ormai troppo logora la voce di Giovanni Battista Parodi come Alfonso d’Este. Registrazione nel complesso pulita ma un po’ “inscatolata” per quanto riguarda le masse corali.
Roma, Teatro dell’Opera
L’ITALIANA IN ALGERI
Torna al Teatro dell’Opera di Roma uno dei capolavori più travolgenti di Gioachino Rossini: L’italiana in Algeri, dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli, esempio perfetto di quel “turbinio comico e musicale” che fece parlare Stendhal di Rossini come dell’inventore della felicità in musica. Con la direzione di Sesto Quatrini e la storica regia firmata da Maurizio Scaparro, ripresa oggi con raffinata sensibilità da Orlando Forioso, l’opera andrà in scena al Costanzi in un allestimento poetico e vivace, nato al Teatro Massimo di Palermo. Le celebri scenografie di Emanuele Luzzati – autentico alchimista del colore e del segno – insieme ai costumi di Santuzza Calì e alle luci di Vinicio Cheli, trasformeranno il palcoscenico in un orientaleggiante sogno teatrale, dove humour, bellezza e ritmo si fondono in un affresco irresistibile. La bacchetta di Sesto Quatrini guida l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, quest’ultimo preparato dal maestro Ciro Visco, in una partitura che alterna brio scintillante e malinconia lirica, virtuosismo vocale e spassosa ironia. Nel ruolo della brillante e astuta Isabella si alterneranno Chiara Amarù e Laura Verrecchia, affiancate dal Mustafà di Paolo Bordogna e Adolfo Corrado (6, 8, 11 giugno). Completano il cast Dave Monaco e Giorgio Misseri come Lindoro, Misha Kiria e Vincenzo Taormina nel ruolo di Taddeo, Jessica Ricci come Elvira, Maria Elena Pepi nel ruolo di Zulma, e Alejo Alvarez Castillo in quello di Haly. Grande spazio viene dato ai giovani talenti del progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, da cui provengono alcuni dei protagonisti in scena, a conferma della costante attenzione del Teatro verso la formazione e la valorizzazione delle nuove voci della lirica italiana e internazionale. Con la sua irresistibile miscela di beffa, amore e avventura, L’italiana in Algeri continua a divertire e a incantare, restituendo il Rossini più scoppiettante e teatrale, in una produzione che omaggia l’arte scenica italiana nella sua forma più alta e popolare insieme. Per informazioni, biglietti e repliche consultare il sito ufficiale del Teatro dell’Opera di Roma. www.operaroma.it
Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2024/25
“COME NEI GIORNI MIGLIORI”
di Diego Pleuteri
con ALESSANDRO BANDINI e ALFONSO DE VREESE
Regia Leonardo Lidi
Scene e Luci Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Suono Claudio Tortorici
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Milano, 28 maggio 2025
Quello che colpisce di più di “Come nei giorni migliori“ non sono tanto le molte prove positive di chi lo ha portato in scena, ma l’assoluta misura di queste prove, che con tutta probabilità provengono dalla misura di un testo estremamente consapevole di sé: la struttura è quello di un gioco al massacro, una coppia di attori, che non fanno altro che amarsi ed odiarsi per un’ora e mezza; pure, non viene pronunciata una parola di troppo, lo spettacolo non dura un minuto di troppo, il coltello che spesso ci affonda nelle carni non ci risparmia nemmeno un centimetro della sua lama. Quando si dice che un testo è scritto a regola d’arte si intende esattamente questo, cioè un testo capace di tenere l’attenzione dello spettatore sempre alta, dal primo all’ultimo momento, senza la possibilità di annoiarsi, o di speculare troppo, ma lasciandogli l’unico diritto che uno spettatore ha e che sovente, invece, gli viene negato – cioè quello di lasciarsi coinvolgere. E non stiamo parlando del coinvolgimento del pubblico valicando la quarta parete (escamotage ormai praticato anche nei teatri degli oratori di provincia), né semplicemente del coinvolgimento emotivo, che, giustamente, molto teatro del Novecento rigetta come fuorviante, ma di un coinvolgimento umano a trecentosessanta gradi, anima, corpo e mente, quello stato in cui una persona viene portata fuori da sé per seguire quello che avviene sul palco. In questo senso, tutta la nostra lode va a Diego Pleuteri, l’autore di questo testo, che nonostante la giovane età non si trova certo alle prime armi – lo capiamo dal fatto che a fargli da regia troviamo Leonardo Lidi, un po’ a sorpresa, a dirla tutta: Lidi è un regista fra i più apprezzati del nostro teatro, fresco di una trilogia cecoviana che negli ultimi cinque anni ha girato tutte le maggiori piazze italiane, e con molte successi sul proprio carnet; ci stupiamo di lui perché in “Come nei giorni migliori“ sembra aver ritrovato una freschezza che da un po’ di tempo latita nelle sue regie: un lavoro a scena vuota tutto incentrato sulle prossemiche e le relazioni aptiche degli attori, che sono essi stessi gli oggetti di scena, si tratti di una discoteca, di un campo di padel, di una cena di Natale, di un’automobile o di un matrimonio; solo a loro Lidi rimanda la creazione scenica, e lo fa certamente con maestria, ma soprattutto con godibilissima spontaneità, tanto che in alcune scene non sappiamo dove cominci la regia, intervenga il lavoro dell’attore, e finisca la drammaturgia. I due interpreti sono stati scelti con grande attenzione: non ci spingiamo a dire che i ruoli siano stati cuciti loro addosso, ma senza dubbio, sono stati in grado di calarsi in due ruoli veramente complessi, ed estremamente demanding sul piano fisico (e non solo per le molte scene di intimità, ma anche per la rapidità, la varietà e la prontezza richiesta dalle azioni che devono compiere). Alessandro Bandini ha il giusto modo di relazionarsi al suo personaggio, che è inquieto, insicuro, il tipico gay milanese che vive per i suoi traguardi e pretende che il mondo lo ammiri; la voce lievemente nasale, la fisicità smilza, e i tratti e i modi del meridionale emancipato ne restituiscono un’immagine ferocemente credibile. Gli fa da perfetto contraltare Alfonso De Vreese, sotto ogni punto di vista: il fenotipo nordico, la fisicità imponente, la parlata settentrionale appena intelligibilmente cadenzata, il suo è il ritratto di un ragazzo gay da serie tv americana – gli piace la “normalità”, sogna una famiglia, è apparentemente risolto, ma è anche nevrotico, cerebrale, una creatura a cavallo fra Woody Allen e il personaggio di un manga giapponese; e forse, proprio per questa vena surreale che De Vreese riesce a imprimere al suo personaggio, ci risulta più convincente, in un angolo del nostro cervello speriamo che l’interprete non differisca così tanto dall’interpretato. Il resto non esiste: solo le luci di Nicolas Bovey si fanno vedere, a suggello delle varie fasi della storia fra i due protagonisti, ma non come una discreta cornice: al contrario, sono luci che si impongono, cambiano repentinamente, come repentinamente sono in grado di riassumere in un’ora e mezza più di un anno di storia Bandini e De Vreese – in un certo senso, le luci sono il terzo personaggio, l’unica presenza scenica che percepiamo davvero al di là degli attori. Il Teatro Franco Parenti ci tiene, prima dell’inizio dello spettacolo, a sottolineare quanto tutte le date di “Come nei giorni migliori“ siano già sold out, e onestamente non ci stupisce, in primis perché è stato scelto di metterlo in scena in una sala che conterà sì o no una settantina di posti, ma soprattutto, fuori di cinismo, perché lo spettacolo si preannuncia già ricco di noti professionisti, di cui lo spettatore assiduo pensa di potersi fidare, a prescindere dalla vicenda nuda e cruda; è bello constatare che per questa volta la fiducia sia largamente ben riposta. Foto Luigi De Palma
Cairo, Museo Egizio
TESORI DEI FARAONI
La mostra Tesori dei Faraoni, in programma alle Scuderie del Quirinale dal 24 ottobre 2025 al 3 maggio 2026, si impone nel panorama espositivo internazionale quale operazione culturale di altissima complessità filologica, museografica e simbolica, nonché come esito felice di una diplomazia del sapere che, partendo dal vincolo tra archeologia e politica, rinnova e approfondisce il dialogo tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Araba d’Egitto. L’iniziativa, resa possibile grazie alla sinergia tra il Supreme Council of Antiquities, Ales SpA, MondoMostre, il Museo Egizio di Torino e l’Ambasciata d’Italia al Cairo, restituisce una visione stratificata e coesa della civiltà egizia quale struttura di senso, architettura teologica e immaginazione materiale del divino. La mostra si articola in sei sezioni tematiche che si offrono non come comparti statici, ma come itinerari mentali attraverso cui il visitatore è chiamato a decifrare le costellazioni semiotiche di un mondo che concepì il tempo come eternità ritmata, la morte come passaggio ritualizzato e l’immagine come corpo animato. Oltre 130 reperti, molti dei quali per la prima volta esposti fuori dal territorio egiziano, tracciano un racconto che non è solo storico, ma mitopoietico. Come ha affermato il Segretario Generale del Supreme Council of Antiquities, Dr. Mohamed Ismail Khaled: «Ogni oggetto selezionato per questa mostra non è soltanto testimone del passato, ma organo vivente di un sistema culturale che continua a generare senso. “Tesori dei Faraoni” non è una semplice esposizione: è una trasmigrazione del sacro, un invito all’ascolto di una lingua antica, perfetta, ieratica». L’esposizione si apre con la Triade di Micerino, capolavoro del repertorio scultoreo dell’Antico Regno, dove il faraone — figura liminale tra mondo umano e sfera divina — è incastonato tra la dea Hathor e la personificazione del nomo tebano. È un manifesto in pietra dell’ideologia regale egizia, in cui l’equilibrio cosmico (maat) si fa materia scolpita, simmetria vivente, relazione teofanica. Altrettanto eloquente, la maschera funeraria d’oro di Amenemope irradia non solo bellezza tecnica, ma una tensione metafisica: l’oro, “carne degli dèi”, veicola la trasfigurazione del corpo regale in corpo eterno, impermeabile al disfacimento e consegnato al ciclo solare. Il sarcofago della regina Ahhotep, sontuoso e ieratico, si accompagna alla Collana delle Mosche d’Oro, onorificenza militare riservata ai più valorosi, testimonianza del potere femminile come agente di stabilizzazione dinastica. La copertura funeraria del faraone Psusennes I e il sarcofago di Thuya, nonna del rivoluzionario Akhenaton, completano un itinerario nel quale ogni manufatto agisce come frammento di un cosmo rituale, in cui il confine tra arte, religione e funzione magica si dissolve. La sezione dedicata alla cosiddetta “Città d’Oro” — l’insediamento risalente ad Amenhotep III recentemente rinvenuto nei pressi di Luxor — apre un varco sulla dimensione microstorica dell’Egitto antico. Qui, il tempo non è più quello dei sovrani, ma quello degli artigiani, dei funzionari, dei tessitori: vite immerse nella fatica quotidiana, ma intrise della stessa sacralità di chi erigeva piramidi e scriveva inni solari. La loro esistenza, restituita da ceramiche, strumenti, sigilli, ci riporta a una civiltà dove l’ordinario era già sacro. Accanto a questi prestiti d’eccezione, il Museo Egizio di Torino ha concesso la celebre Mensa Isiaca, tavola bronzea del I secolo d.C., prodotta a Roma come omaggio colto e sincretico alla religiosità egizia. Come ha dichiarato il Direttore Christian Greco: «La Mensa Isiaca non è soltanto un oggetto, ma un’idea: essa mostra quanto il pensiero egizio abbia agito in profondità nelle matrici intellettuali del mondo romano e moderno, configurandosi come grammatica simbolica che attraversa epoche e civiltà». La mostra si svolgerà alle Scuderie del Quirinale, in un contesto topografico carico di valore: tra le vestigia del Tempio di Serapide e la residenza del Presidente della Repubblica, luogo in cui il tempo repubblicano e quello sacro sembrano convergere. Come ha sottolineato Matteo Lafranconi, Direttore delle Scuderie: «Ogni mostra ha un’architettura visibile e una invisibile. In “Tesori dei Faraoni”, quella invisibile è fatta di relazioni antiche che si riattivano: tra Roma e l’Egitto, tra l’immaginazione e la storia, tra la morte e il linguaggio». Alessandro Giuli, Ministro della Cultura, ha definito l’iniziativa «un modello esemplare del Piano Mattei declinato alla cultura: un sistema dove ricerca, politica e memoria si fondono in una visione condivisa del Mediterraneo come spazio di saperi in dialogo». Fondamentale è stato il contributo organizzativo di Ales SpA, come ha dichiarato il Presidente Fabio Tagliaferri: «Con “Tesori dei Faraoni” realizziamo pienamente la missione delle Scuderie: produrre cultura come esercizio di responsabilità, come atto di ascolto tra civiltà. Questa mostra è l’atto di fiducia reciproca tra due nazioni che riconoscono nella cultura un’architrave delle relazioni internazionali». Attraverso conferenze, laboratori, visite tematiche e apparati critici di altissimo livello, Tesori dei Faraoni non si limita a esporre: interroga. Non si limita a evocare: inizia. È, in definitiva, una soglia aperta sull’immaginario egizio, dove la forma non è ornamento, ma destino; dove ogni oggetto è eco del cielo, memoria della terra, cifra di un altrove eterno che ancora ci appartiene.
La cantata Gott fähret auf mit Jauchzen BWV 43 è la terza partitura bachiana destinata alla festa dell’Ascensione (celebrata nella Chiesa Luterana questo 29 maggio 2025, mentre nel rito cattolico la Domenica 1 giugno). Eseguita la prima volta il il 30 maggio 1726 si presenta con una strumentazione festosa (3 trombe, timpani, 2 oboi, archi e continuo) che evidenziano l’importanza di evento celebrativo (Ascensione). Che la struttura della cantata BWV 43 sia un po’ strana lo si capisce subito dal fatto che sia composta da undici movimenti nello spazio di poco più di venti minuti. Infatti, inizia in modo abbastanza convenzionale con testi biblici, ma poi inizia a utilizzare le strofe (sei in tutto) di un inno anonimo e termina con un corale composto da due strofe di un altro inno. Per di più, questa divisione non si riflette nella suddivisione della partitura in due parti, con la prima strofa dei sei versi che conclude la prima parte. Il punto culminante di questa cantata è il magnifico coro iniziale: Un breve adagio dell’oboe e della sezione d’archi conduce all’emozionante entrata della tromba e del coro. Le quattro arie presenti non sono con “da capo”. Presumibilmente Bach stava scrivendo con tempi ristretti e quindi ha ridotto le arie. Tra i cinque recitativi si impone quello centrale (nr.4) affidato al soprano su parole tratte dal Vangelo di Marco (cap.16 – vers.19). Tra le arie spiccano quella del basso (Nr.7) con tromba concertante, sostituita in una successiva esecuzione da un violino e l’aria del contralto (Nr.9) con due oboi che guidano un’introduzione orchestrale, per poi passano in secondo piano mentre il solista canta, anche se non sono mai assenti a lungo. La scelta degli oboi, della tonalità minore e delle dolci terze parallele crea un sentimento più cupo (anche se non proprio triste), forse di nostalgia per il Signore risorto e asceso
Parte prima
Nr.1 – Coro
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni;
cantate inni al nostro re, cantate inni.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
L’Altissimo si prepara a celebrare il suo trionfo
conducendo prigioniere le stesse prigioni.
Chi lo acclama? Chi suona le trombe?
Chi marcia al suo fianco?
E’ la legione di Dio
che rende onore al suo nome, cantando
salvezza, gloria, regno, forza e potenza
a piena voce e a lui elevando Alleluia in eterno.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Sì, migliaia e migliaia accompagnano i carri
per cantare le lodi del Re dei Re e proclamare
che il cielo e la terra sono in suo potere
e ciò che ha conquistato è a lui sottomesso.
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
E il Signore, dopo aver parlato con loro,
fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
Nr.5 – Aria (Soprano)
Il mio Gesù ha ormai
compiuto l’opera di salvezza
e fa il suo ritorno
a Colui che lo aveva mandato.
Ha concluso la sua missione sulla terra,
voi cieli, apritevi
e lasciatelo rientrare!
Seconda Parte
Nr.6 – Recitativo (Basso)
Arriva l’eroe degli eroi,
rovina ed terrore di Satana,
colui che ha sconfitto la morte,
cancellato la macchia del peccato,
disperso le armate dei nemici;
voi potenti, accorrete
a celebrare il vincitore.
Nr.7 – Aria (Basso)
E’ stato lui da solo
a pigiare nel tino
colmo di tormenti, pene e dolori, 3
per riscattare a caro prezzo
coloro che erano perduti.
Voi troni, affrettatevi
ad incoronarlo!
Nr.8 – Recitativo (Contralto)
Il Padre ha già preparato
per lui un regno eterno:
è ormai vicina l’ora
in cui sarà incoronato
dopo mille sofferenze.
Resto qui lungo la strada
per poterlo ammirare pieno di gioia.
Nr.9 – Aria (Contralto)
Posso già spiritualmente vederlo
alla destra di Dio
colpire i suoi nemici
per liberare i suoi servi
dall’angoscia, dal dolore e dall’umiliazione.
Resto qui lungo la strada
per poterlo ammirare pieno di fervore.
Nr.10 – Recitativo (Soprano)
Vuole preparare per me
una dimora vicino alla sua,
dove potrò eternamente
stare al suo fianco,
libero dai dolori e dai lamenti!
Resto qui lungo la strada
per poterlo acclamare con gratitudine.
Nr.11 – Corale
Principe della vita, Signore Gesù Cristo,
che sei stato accolto
in cielo, dov’è tuo Padre
con la comunità dei santi,
come posso celebrare
la tua grande vittoria,
conquistata dopo una dura guerra,
e renderti adeguato onore?
Portaci con te e correremo,
donaci le ali della fede!
Facci volare via da qui
sui monti d’Israele!
Mio Dio! Quando potrò giungere
là dove sarò felice per sempre?
Quando sarò davanti a te
per contemplare il tuo volto?
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Palazzo delle Esposizioni
ROMA CODEX
da un’idea di Studio F.P.
a cura di Clara Tosi Pamphili
Roma, 28 maggio 2025
Roma Codex, la grande mostra di Albert Watson ospitata dal 29 maggio al Palazzo delle Esposizioni, ha il merito raro di affrontare Roma senza mitizzarla. Lontana da ogni concessione al folklore o alla cartolina, l’operazione è un esercizio di visione lucida e rigorosa. Il fotografo scozzese, trapiantato a New York, non è nuovo a questo tipo di disciplina: per oltre cinque decenni ha attraversato l’immaginario collettivo passando dalla moda all’arte, con una capacità tecnica che non si esaurisce mai in se stessa. Watson arriva a Roma senza schema precostituito, ma con uno sguardo allenato all’essenziale. La città gli si rivela senza proclami, in una continua dialettica fra monumentalità e dettaglio umano. Il progetto, nato da un’idea di Studio F.P. e curato da Clara Tosi Pamphili, si sviluppa in oltre 200 fotografie, in bianco e nero e a colori, alcune di grande formato. Nulla è casuale, ma nulla è programmatico: è il metodo di Watson a guidare l’immagine, non l’ideologia della città. La scelta di non seguire una disposizione tematica, ma di disporre le opere secondo una logica interna, quasi musicale, restituisce alla mostra una fruizione non retorica. Roma, nella lente di Watson, è un sistema complesso e stratificato. Non vi è traccia del Roma-mito, ma semmai di un’attenzione analitica per ciò che la città produce nel suo presente: volti, architetture, frammenti di vita. Si incontrano così le immagini del Colosseo o dell’Ara Pacis, accanto a scatti nei club notturni, nei teatri di posa di Cinecittà, nei mercati, nei caffè e negli studi d’artista. Il fotografo documenta ma non racconta: costruisce un atlante visivo che non pretende di spiegare, ma di mostrare. È un’operazione che ricorda, per certi aspetti, la fotografia scientifica, ma con un’evidente capacità intuitiva e una conoscenza profonda della composizione. Nel corpus delle opere, convivono ritratti di artisti e intellettuali (Paolo Sorrentino, Roberto Bolle, Valeria Golino, Luca Bigazzi), accanto a volti anonimi, trattati con identico rispetto formale. Watson non crea gerarchie, ma stratificazioni. Ogni immagine è un tassello della città contemporanea, colta nella sua tensione tra memoria e mutamento. La Roma di Watson è una città dove il tempo non è univoco. Non è il luogo della Storia con la maiuscola, ma un corpo urbano che vive nel dettaglio. I paesaggi urbani diventano, così, quasi sezioni archeologiche della contemporaneità: il Foro Romano si affianca a Porta Portese, il Gianicolo alla Via Appia Antica, in un processo di accumulo che non è decorazione, ma struttura. Dal punto di vista tecnico, Watson mostra ancora una volta una padronanza assoluta del mezzo. La luce, trattata con cura quasi scultorea, delinea ogni soggetto senza eccedere in effetti. Il colore, quando presente, è misurato. Il bianco e nero domina con sobrietà. Non c’è compiacimento stilistico, ma aderenza allo sguardo. La mostra si articola in tre grandi sale, ma è concepita come un flusso continuo. Non vi è soluzione di continuità tra i soggetti, che siano monumenti, persone, oggetti o interni. Questo approccio rafforza la lettura di Roma come organismo e non come museo. Watson dimostra che si può fotografare Roma senza mitizzarla, ma anche senza negarne il peso simbolico. Al contrario di molti progetti recenti su Roma, qui non si cerca la città “alternativa” o “segreta”. Si guarda alla città reale, nella sua complessità. Si evita il pittoresco così come la denuncia. Non c’è ideologia nella fotografia di Watson, ma metodo, disciplina, occhio esercitato. L’allestimento, sobrio, non interferisce con le immagini. La mostra si affida interamente al potere del contenuto visivo. Si entra come in una camera ottica, si esce con la sensazione che Roma non sia stata raccontata, ma analizzata. Non è poco. In tempi in cui l’immagine tende a essere strumentalizzata o ingigantita, Roma Codex è un esempio di come si possa ancora praticare la fotografia come linguaggio critico. Watson osserva, isola, ordina. Non giudica, non grida. Mostra. Ed è in questo atto di mostrare, asciutto e onesto, che sta il valore di un progetto che non pretende di definire Roma, ma ne accetta l’ambiguità. Una mostra da vedere con lentezza, magari più volte, per apprezzare quella che, più che una sequenza di scatti, è una lezione di sguardo.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
“DER JUNGE LORD”
Opera comica in due atti di Ingeborg Bachmann ispirata alla novella Der Scheik von Alexandria und seine Sklaven di Wilhelm Hauff
Musica di Hans Werner Henze
Sir Edgar GIOVANNI FRANZONI
Sein Sekretär LEVENT BAKIRCI
Lord Barrat MATTEO FALCIER
Begonia CATERINA DELLAERE
Der Bürgermeister ANDREAS MATTERSBERGER
Oberjustizrat Hasentreffer YURII STRAKHOV
Ökonomierat Scharf GONZALO GODOY SEPÚLVEDA
Professor von Mucker LORENZO MARTELLI
Baronin Grünwiesel MARINA COMPARATO
Frau von Hufnagel IOANNA KYKNA
Frau Oberjustizrat Hasentreffer ALOISIA DE NARDIS
Luise MARILY SANTORO
Ida NIKOLETTA HERTSAK
Ein Kammermädchen LETIZIA BERTOLDI
Wilhelm ANTONIO MANDRILLO
Amintore La Rocca JAMES KEE
Ein Lichtputzer DAVIDE SODINI
Danzatori: Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli, Senne Reus, Julie Vivès
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Corpo di Ballo Compagnia KOMOCO
Direttore Markus Stenz
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Maestra del Coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino Sara Matteucci
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
Coreografia Sofia Nappi
Firenze, 25 maggio 2025
Domenica 25 maggio la grande affermazione della prima italiana in lingua originale di Der junge Lord (Il giovane Lord) del compositore tedesco Hans Werner Henze, legato al nostro Paese in particolare per aver fondato nel 1976 il Cantiere Internazionale d’Arte a Montepulciano. L’opera – pur essendo figlia del suo tempo e del suo concepimento (1960-65) e trattando vari temi come l’ipocrisia, l’alienazione o più particolarmente l’ironia o la risata amara – si presenta come un crogiolo di idee capace di trasformare strutture temporali, diversità e pluralità di linguaggi in un’edificante cattedrale di pensieri e di bellezza senza tempo. La partitura, come un cilindro magico, da qualsiasi punto di vista la si percepisca, restituisce effetti sorprendenti grazie ad una scrittura che coinvolge ogni componente dell’opera con inventio ed intuito, unitamente ad un chiaro richiamo alla tradizione. Da un lato emergono eredità che rimandano a Rossini, Mozart, al melodramma italiano, al teatro di Collodi, a Stravinskij, ecc., mentre dall’altro – per il suo parlare a tutti e per l’inserimento nel fulvido teatro del Novecento – risulta un lavoro dalle molte sfaccettature, ivi compreso il mondo poetico di Bachmann ed Henze. Si tratta di una partitura lontana dalle avanguardie nella quale si ravvisano procedimenti compositivi che strizzano l’occhio all’opera buffa e comica italiana in una mutazione di ritmi e di strutture talmente repentini che sussiste sempre qualcosa di sfuggente.
Allo spettatore il compito di approcciarsi mediante una percezione sinestetica dell’opera per ‘ammirare’ uno spettacolo di primissimo artigianato, capace di far confluire i vari linguaggi artistici. La sorpresa e la sfuggevolezza di un qualcosa è costantemente presente come ad esempio in Lord Barrat, il quale parla attraverso il suo segretario, o nel ritorno del melos; due situazioni che possono passare quasi inosservate. Uno spettacolo molto armonizzato in cui emerge l’arte del dialogo e la partecipazione delle varie componenti artistiche. Già l’arrivo in una piccola città della Germania di Sir Edgar, nell’attraente e piacevole interpretazione di Giovanni Franzoni, costituisce un bell’esempio di rappresentazione sui generis. Il singolare personaggio inglese, portandosi dietro animali esotici, un seguito di persone tra cui un servo moro, attira l’attenzione dei cittadini ai quali risponde con ostentazione e riserbo anche di fronte ai vari inviti rivoltigli. Ma l’attesa di un ‘galateo internazionale’ che gli abitanti pensano corrisponda al bizzarro comportamento del nipote, il personaggio di Lord Barrat nella perfetta interpretazione di Matteo Falcier, alla fine, nella danza, si rivela essere una scimmia ammaestrata beffando tutti. Ritornando alla realizzazione ‘armoniosa’ dello spettacolo il gran numero di personaggi che via via si succedono sul palcoscenico riescono a creare vivide connessioni tra drammaturgia, musica, danza, scenografia, costumi, luci, ecc. Che dire poi della presenza fantastica e affascinante del circo, quasi metateatro, con la combinazione di vari personaggi come il mangiatore di fuoco, il giocoliere, ecc.? Tutti elementi capaci di evocare quella magia che riesce ad incantare grandi e piccoli. L’impressione che emerge dallo spettacolo è quella di un sontuoso atelier di illusioni in cui è necessaria una figura per gestire una serie di aspetti che, sottratti dal canto e dal suono, possono trasformarsi in una sorta di tableaux vivants. Quasi personaggio mitologico (Giano bifronte), capace di volgere lo sguardo sia al passato che al futuro, è apparsa la direzione precisa e coerente di Markus Stenz il quale ha espresso la sua inequivocabile attenzione alla partitura e alla conoscenza approfondita dello stile di Henze. Similmente la vivifica regia di Daniele Menghini ha sottolineato una perfetta simbiosi con le scene di Davide Signorini, i costumi di Nika Campisi, le luci di Gianni Bertoli e la coreografia di Sofia Nappi; in sostanza tutti hanno contribuito nella prospettiva teatro-vita a restituire un autentico capolavoro del Novecento. L’intera compagine ha suonato, cantato e ballato molto bene grazie all’eloquenza della partitura e, se in alcuni momenti poteva sorgere la ‘sorpresa’, la deviazione, il senso di smarrimento, ecc. non è stato arduo immaginare il grande lavoro di squadra di Lorenzo Fratini (direttore del coro), Sara Matteucci (direttrice del coro di voci bianche) e Sofia Nappi (curatrice dei danzatori) confluito nella direzione molto strutturata di Stenz sempre volta a valorizzare ogni aspetto dell’opera. Nel sottolineare il buon livello di tutto il cast vocale, non si può non tacere della buona prestazione dell’orchestra, molto duttile e ben esperta anche di questo tipo di repertorio. I numerosi e reiterati applausi da parte del pubblico hanno decretato il grande successo della prima, benché a molti presenti sia rimasto il rammarico della conclusione di uno spettacolo che ha donato atmosfere oniriche.
Roma, Teatro Argentina
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
foto Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, (agente del copyright), Londra
per conto della Ingmar Bergman Foundation
Roma, 27 maggio 2025
C’è un tempo in cui il teatro, più che raccontare, svela. Non narra storie, ma rivela strutture dell’anima, tracce di una geografia affettiva che si insinua nei corpi, nel ritmo delle battute, nella pause che valgono più di un discorso. Così accade con Sarabanda, ultimo e abissale lascito di Ingmar Bergman, che Roberto Andò trasporta con misura e intelligenza sulla scena italiana, in una regia che rifugge ogni facile suggestione, ogni estetismo di maniera, per restituire invece la potenza del pensiero che si fa azione. Non siamo davanti a una mera trasposizione filmica. Andò non ricuce il cinema al teatro con ago d’oro e filo di nostalgia. Fa qualcosa di più sottile e più necessario: filtra, depura, restituisce all’arte scenica il compito di essere specchio imperfetto dell’imperfezione umana. Nello spazio rarefatto, costruito da Gianni Carluccio come un organismo respirante di pareti mobili e tagli di luce millimetrici, si consuma una liturgia familiare che è anche disfacimento, scontro tra la memoria e l’oblio, tra ciò che resta e ciò che già è passato. Il testo – nella traduzione asciutta e incisiva di Renato Zatti – è una suite di duetti, dieci quadri che non inseguono la cronologia ma la vertigine del sentire. A turno i personaggi si cercano, si sfiorano, si feriscono, si tradiscono con una brutalità che ha poco a che vedere con il dramma nel senso tradizionale del termine. Qui non c’è la scena madre, non c’è il colpo di teatro: c’è l’umanità nella sua essenza, disadorna e lacerata. Renato Carpentieri compone un Johan di rara complessità, dove la decrepitezza fisica non addolcisce la lucidità spietata di un uomo che ha amato troppo poco e riflettuto troppo. Il suo corpo, rigido e insieme frantumato, è l’emanazione di un pensiero che fatica a farsi carne. La sua voce è rotta, mai tremante: ha l’autorità amara di chi ha rinunciato a chiedere scusa. Alvia Reale, nel ruolo di Marianne, è forse la vera colonna segreta dello spettacolo. Non alza mai la voce, non reclama mai il centro, ma lo abita con fermezza. La sua è una presenza che non chiede conferme, ma lascia dietro di sé una traccia di consapevolezza e silenziosa pietà. Marianne è la figura che Bergman pone al confine tra il disastro e la possibilità di redenzione. Reale ne fa una testimone, non una vittima. Henrik, affidato a Elia Schilton, è una ferita aperta. Il suo dolore non cerca empatia: è rifiuto, è recriminazione, è bisogno d’amore che sconfina nella crudeltà. Schilton lo interpreta con pudore e forza, evitando il rischio del patetico. C’è una bellezza tragica nei suoi cedimenti, una nobiltà residua nel suo fallimento. La sua rovina non è solo individuale: è l’eco di un’intera genealogia di uomini incapaci di amare senza possedere. Caterina Tieghi è una Karin trattenuta e indocile. Il suo personaggio si muove come in fuga, sempre sull’orlo dell’abbandono e della colpa. Il violoncello che suona è un’estensione del corpo, ma anche una gabbia. Tieghi riesce nell’impresa di restituire la tensione costante di una ragazza che non sa ancora se la propria voce le appartenga davvero o se sia solo l’eco di ciò che il padre ha voluto plasmarla a essere. La regia di Andò lavora sulle trasparenze, sulle linee rette che si spezzano, sulle simmetrie che non coincidono. Nulla è enfatico, nulla è lasciato al caso. Le dissolvenze scenografiche, le cesure temporali, le dilatazioni musicali (grazie al lavoro di Pasquale Scialò) scandiscono la partitura emotiva come una suite bachiana interiore. C’è una musicalità dolorosa nella successione delle scene: tutto sembra lento, ma tutto precipita. E poi c’è il buio. Il buio che non è assenza, ma grammatica primaria della visione. Ogni comparsa sul palco è una emersione, ogni personaggio pare nascere dal nulla, come idea incarnata. Le luci non illuminano, sezionano. Non mostrano, interrogano. Anche le quinte mobili sembrano fessure della mente, pareti della memoria che si aprono e si richiudono senza preavviso, come in un sogno lucido. Certo, alcune scelte registiche possono risultare meno convincenti. L’esplicitazione del sottotesto incestuoso tra Henrik e Karin, sebbene condotta con discrezione, sottrae al testo quella ambiguità tragica che Bergman custodiva gelosamente. Là dove il sospetto è arma più affilata della dichiarazione, la scena sembra cedere al bisogno di mostrare, piuttosto che di evocare. Ma è una caduta marginale, che non compromette l’ossatura etica e poetica di uno spettacolo necessario. Il finale – quell’urlo condiviso, corale, che raggruma in sé il dolore muto di una vita intera – è il vero lascito di questa Sarabanda: un grido che non cerca redenzione, ma almeno ascolto. E se manca l’epilogo originario di Bergman, con la voce narrante di Marianne che infine tocca la figlia e ne riconosce il mistero, resta tuttavia una forma implicita di riconciliazione nella scelta di Karin di partire, di suonare, di vivere. Forse è proprio questo il senso di Sarabanda: lasciare che la musica, più che le parole, sia l’ultima a parlare. Photocredit Lia Pasqualino
Allegati
Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
“COSÌ FAN TUTTE”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Fiordiligi MARIANGELA SICILIA
Dorabella FRANCESCA DI SAURO
Guglielmo VITO PRIANTE
Ferrando MARCO CIAPONI
Despina GIULIA MAZZOLA
Don Alfonso NAHUEL DI PIERRO
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Martijn Dendievel
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia e scene Alessandro Talevi
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Teresa Nagel
Video Marco Grassivaro
Regista assistente e coreografo Danilo Rubeca
Maestro del Fortepiano Nicoletta Mezzini
Bologna, 25 maggio 2025
Dulcis in fundo: Così fan tutte chiude la felice trilogia Mozart-Da Ponte e Dendievel-Talevi. Un’opera dal soggetto, caso raro, originale: ma intrisa, e ai massimi livelli, di letteratura, in un sofisticato intrico di citazioni e ammiccamenti letterario-filosofici, tal da trovare un possibile termine di paragone, forse, nel solo Rosenkavalier. Le dame ferraresi (dal nome della prima Fiordiligi, Adriana Ferrarese, però veneziana) si portano dietro gli ovvî Orlandi di Boiardo e d’Ariosto. Fiordiligi, in ambo i poemi, è la sposa fedele di Brandimarte. Doralice, pur presente in entrambi, è nel Furioso inizialmente promessa a Rodomonte, poi però amante di Mandricardo, almeno finché questi non viene ucciso da Ruggiero: «per lei buono era vivo Mandricardo: / ma che ne volea far dopo la morte?» (XXX). Ecco l’antenata di Dorabella, secondo la quale «Tra un ben certo, e un incerto, / c’è sempre un gran divario!». D’altro canto il «vecchio filosofo» porta il nome del celebre Duca di Ferrara, Alfonso. Anche se «la scena si finge in Napoli», dove spira lucreziana aria d’epicureismo, d’ellenismo manierato e forse un po’ decadente, distaccato e sornione. La classicità è comunque di casa con Ovidio, che nelle sue Metamorfosi (VII) racconta di Cefalo, che, mutato d’aspetto, seduce la propria moglie Procri. Né si può mancar di citare la disfida fra Bernabò ed Ambrogiuolo, che scommettono sull’infedeltà di Ginevra, moglie del primo, nella seconda giornata del Decameron. O la celebre novella anomala che apre la quarta, detta «delle papere»: non è forse esemplificativa del pensiero di Don Alfonso? E poi, oltre il libertinismo filosofico così letterariamente condito di un libretto saturo di vezzosi petrarchismi, e poi, oltre a tutto questo, c’è la musica. Per dire l’infinito che contiene un capolavoro. Alessandro Talevi sposta l’azione su un’isola, in cui uno stravagante e forse strafatto guru (il don Alfonso di Nahuel Di Pierro, tanto morbidamente e soffusamente timbrato da parer, a tratti, sfocato) introduce giovinotti di buona famiglia, e soprattutto di buoni principî, alle filosofie orientali; e lo fa sottoponendoli a curiose prove iniziatiche: come, per esempio, scambiarsi le fidanzate. Se l’isola è una condizione esistenziale, l’ambientazione temporale, invece, conta: negli Anni 60 i giovani ci entrano rigidi e formali per uscirne beatnik e figli dei fiori. Barbe e baffoni nei ragazzi, capelli sciolti e look Woodstock nelle ragazze: sono i segni della rivoluzione morale impressa dal guru Alfonso. E Despina? Più convenzionale, forse incerto il trattamento riservatole dal regista. Sarà per questo che Giulia Mazzola tende talvolta a caricare un po’ più del dovuto, con sottolineature espressive talvolta superflue, la sua fresca e brillante voce.Ma tornando alle coppie. Mariangela Sicilia dà incantevole prova di sé, soprattutto nel suo Rondò del second’atto Per pietà, ben mio perdona: con il consueto timbro di “panna montata”, morbido e corposo, rotondo e dolce, e fiati semplicemente sognanti. Complice l’abile concertazione del valoroso Dendievel. Che attacca con inaspettata delicatezza la Cavatina di Ferrando Tradito, schernito: Marco Ciaponi aggiunge a nettezza dell’articolazione e candore del timbro una irresistibile camminata molleggiata, parte del suo travestimento hippy. Francesca Di Sauro sfodera un mezzo vocale di belle proporzioni, dal timbro bronzato e fiero; anche scenicamente appare decisamente a suo agio. In Vito Priante un fraseggiare accorto e vivace incontra un calore e una pastosità timbrici invidiabili. Ma ancora abbastanza non si è lodata la direzione di Martijn Dendievel: sagace, brillante, ricca di vita e d’inventiva. Oculatissima la gestione dell’equilibrio acustico, in favore sempre delle voci; cercando anche di asciugare gli archi per far emergere certi punteggiamenti degli ottoni, e specie dei corni (cui in questo titolo Mozart ricorre anche soltanto in ragione del facile gioco di parole). Elastico nei tempi, trova originali articolazioni della frase musicale, sempre guizzante. Com’era facile pronosticare già dalle Nozze del 2023, questa Trilogia è, piaccia o no, l’evento teatrale di maggior rilievo dell’Era Nouveau. Foto Andrea Ranzi