Der Herr ist mein getreuer Hirt BWV 112 è la terza, in ordine cronologico, delle Cantate bachiane predisposte per la seconda domenica dopo la Pasqua. Composta a Lipsia tra il 1729 e il 1731, questa partitura su testo di Wolfgang Meuslin (1497-1563) tratto dal Salmo 23, utilizza la melodia del Corale Allein Gott in der Höh sei Her che troviamo nei due brani esterni: il nr.1, un “mottetto fantasia” su Corale con interventi strumentali e contrappuntistici sulla melodia con alcune velate e molto parziali citazioni che troviamo anche nei numeri successivi. L’ambientazione del Coro iniziale, come della Cantata in genere, non poteva che essere a carattere Pastorale, lo confermano le coppie di corni e di oboi d’amore, ma soprattutto il particolare sapore agreste delle due arie, la prima delle quali (Nr.2) si giova del colore ambientale dell’oboe d’amore, mentre l’altra (Nr.4), un duetto, si muove con i caratteri di una “Bourrée”. Fra i due brani si inserisce (Nr.3) un toccante recitativo del Basso che sfocia in arioso, con il solo Continuo nella prima parte e poi, secondo la modalità di recitativo accompagnato-arioso ricco di simbolismi.
Nr.1 – Coro
Il Signore è il mio fedele pastore,
mi tiene sotto la sua protezione
dove non mi manca nulla
che sia un suo bene,
mi fa pascolare continuamente
là dove cresce l’erba deliziosa
della sua santa Parola.
Nr.2 – Aria (Contralto)
Mi conduce ad acque pure
che mi rinfrescano.
E’ il suo Santo Spirito
che mi rinfranca.
Mi guida sul giusto cammino
dei suoi comandamenti senza sosta
per amore del suo nome.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male,
né persecuzione, sofferenza, tristezza
e falsità di questo mondo,
perché tu sei sempre con me,
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno
sicurezza, confido nella tua parola.
Nr.4 – Aria/Duetto (Soprano,Tenore)
Per me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici
Rendi il mio cuore intrepido e forte,
cospargi il mio capo
con il tuo Spirito, l’olio della gioia,
e ricolmi la mia anima
della tua felicità spirituale.
Nr.5 – Corale
Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò per sempre
nella casa del Signore,
sulla terra con la comunità cristiana
e dopo la morte sarò
con Cristo, mio Signore.
Traduzione Emanuele Antonacci
Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“JEPHTHA”
Oratorio in tre atti HWV 70, su libretto di Thomas Morell, basato sul libro dei Giudici e su Jephthas, sive votum di George Buchanan
Musica di Georg Friedrich Haendel
Jephtha MICHAEL SPYRES
Storgè JOYCE DIDONATO
Iphis MELISSA PETIT
Zebul CODY QUATTLEBAUM
Hamor JASMIN WHITE
Un angelo ANNA PIROLI
Il Pomo d’Oro
Direttore Francesco Corti
Maestro del Coro Giuseppe Maletto
Esecuzione in forma di concerto
Madrid, 1. Maggio 2025
Per eseguire un oratorio di Haendel dalle proporzioni magniloquenti come Jephtha è necessario disporre non soltanto di un gruppo di cantanti vocalmente e tecnicamente impeccabili (la precisazione non è poi così ovvia), ma anche di validi interpreti di quel tipo specifico di drammaturgia che è l’azione oratoriale. Un’esecuzione in forma di concerto, inoltre, non può prescindere dall’importanza dei movimenti sulla scena e dalla gestualità; da ultimo, essa innalza le aspettative del pubblico in termini di espressività e trasmissione degli affetti, per scongiurare il pericolo dell’uniformità e della monotonia. Il Pomo d’Oro diretto da Francesco Corti, impegnato in una tournée europea con il titolo haendeliano, può affidarsi a un quintetto vocale eccellente, un diamante a due punte, che risponde ai nomi di Michael Spyres (il protagonista) e Joyce DiDonato (Storgè, sua sposa), supportati da diciassette coristi (un cui integrante, il tenore Giuseppe Maletto, fondatore della compagine, è anche il Maestro del Coro). Corti opta per un suono omogeneo, compatto e unitario, anche quando qualche strumento assolve la funzione di accompagnamento obbligato, per stabilire come una fascia di sonorità dagli estremi definiti, al cui interno si alterna un’impressionante ricchezza cromatica. Nei momenti vocali l’orchestra preferisce lasciare sempre in primo piano la voce cantante, ma questo non impedisce indimenticabili momenti di protagonismo strumentale (come i tremuli degli archi in alcuni numeri particolarmente concitati). La voce di Spyres si è fatta leggermente brunita, ma più che la bellezza del timbro risaltano l’emissione perfetta, le agilità sgranate e gli impressionanti fiati impiegati per esaurire le colorature. Nell’accompagnato del n. 15 («What mean these doubtful fancies the brain?»), poi, il declamato solenne e marziale si appoggia a una cavata enorme, con cui il tenore soggioga l’ascoltatore; al contrario, quando il padre si appresta a sacrificare la figlia, all’inizio del III atto, Spyres è capace di cantare un’intera aria a mezza voce, tutta sul fiato, per esorcizzare l’orrore dell’assassinio (n. 50, «Waft her, angels, through the skyes»: tanto commovente l’effetto, da strappare un applauso a parte). Anche Joyce DiDonato imposta la propria interpretazione su forti contrasti emotivi: se esordisce come espressione dell’amore coniugale elegiaco e remissivo, ma adombrato da presagi funesti (n. 18, «Scenes of horror, scenes of woe», da cui traspare lo spavento), è poi capace di reazioni violente, come si quando si oppone all’olocausto della figlia per mezzo di emissioni di petto e messe di voce incrinate dal dolore (n. 41, «Let other creatures die?»: sembra di riascoltare il piglio di tante eroine rossiniane, così familiari alla cantante). Molto buona anche la prestazione del soprano Melissa Petit (nella parte di Iphis, figlia di Iefte), soprattutto per il vibrato della linea di canto, anche se il timbro è più convenzionale e l’emissione corriva alle voci fisse. Suscita un applauso a parte l’espressività con cui accetta il proprio sacrificio nell’aria «Happy they! This vital breath» (n. 46). Non sempre solida nel registro inferiore la voce di Cody Quattlebaum, il basso che interpreta Zebul, fratello di Iefte. Il contralto Jasmin White rende un Hamor (l’innamorato di Iphis) assertivo e sicuro, brillante tanto nelle arie a solo quanto nei numeri d’insieme. Un altro soprano, Anna Piroli, esce dal coro per dare voce all’Angelo che impone di evitare il sacrificio umano. Magnifico il Coro del Pomo d’Oro, nella cui tessitura risaltano sovente alcuni timbri femminili. Se a ogni personaggio principale corrisponde un registro fondamentale (Jephtha è l’eroismo profetico; Iphis la grazia; Storgè l’amore elegiaco; Hamor la passione), il direttore fa in modo che in ogni numero della partitura l’orchestra esprima un “temperamento” peculiare. L’accorgimento risulta tanto più opportuno, per valorizzare le complesse dinamiche narrative di Jephtha, che parlano il linguaggio della tragedia greca (riproponendo il conflitto di Ifigenia in Aulide) e dell’opera seria europea (è in nuce la trama di Idomeneo re di Creta), giacché si tratta di attenuare il cruento sacrificio umano con la consacrazione al Signore. Grazie all’esperienza cristiana, la pagina dell’Antico Testamento si trasforma così in una pièce à sauvetage; una metamorfosi che si coglie perfettamente anche nella musica haendeliana, quando trascorre dall’aria individuale a duetto e poi a quintetto, per ampliarsi finalmente in un maestoso rendimento di grazie corale (nn. 66b-67), a gloria della pace che soppianta la spada. Nulla a che vedere con la spietata stringatezza della pagina originale del libro dei Giudici, nel punto in cui si conclude la vicenda: la figlia ritorna a casa e Iefte semplicemente «fecit ei sicut voverat», “si comportò con lei secondo il voto che aveva pronunciato” (11, 39). Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid
Le Bret (fl.1730-1740): Deuxième suite, Première suite, Gavotte (Anonyme d’après
le manuscrpit de P. Pingré). Simone Pierini (clavicembalo). Registrazione: 14-15 novembre 2022, Palazzo Annibaleschi, Monte Compatri, Italia. T. Time: 70′ 36″. 1 CD Brilliant Classics LC 09421
Sotto il nome Le Bret, contenuto in un manoscritto di Alexandre-Guy Pingré, abate dell’abazia di St Geneviève, il quale copiò molta musica clavicembalistica tra cui i Livres de Pièces de Clavecin di François Couperin, ci sono stati tramandate due suite di Pieèces de clavecin, che si trovano anche in un volume stampato, del quale si è perso il frontespizio con il nome dell’autore di cui non si hanno, inoltre, notizie biografiche. Si può presumere, comunque, in base alle caratteristiche stilistiche che questi lavori, nei quali è possibile ravvisare influenze dei brani di Rameau, i cui Cyclopes sembrano ispirare L’Embarassante della Prima suite, e Couperin, risalgano alla prima metà del Settecento. Le due piacevolissime Suite, che costituiscono il programma di questa proposta discografia dell’etichetta Brilliant Classics, presentano una scrittura tipica della musica clavicembalistica francese della prima metà del Settecento con ritmi e ricche ornamentazioni e sono molto ben eseguite da Simone Pierini il quale, per questa incisione, si è avvalso di una copia di un M. Mietke realizzata da Giulio Fratini nel 2014. L’artista si è accostato a questo repertorio con grande senso dello stile realizzando bene l’inégalité e ben marcando gli abbellimenti. Inoltre è possibile rilevare anche una certa varietà timbrica e di dinamiche grazie all’alternanza tra le due tastiere.
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“ATTILA”
Dramma lirico in un prologo e tre atti su libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave, dalla tragedia “Attila, König der Hunnen” di Zacharias Werner
Musica di Giuseppe Verdi
Attila, re degli Unni GIORGI MANOSHVILI
Ezio, generale romano ERNESTO PETTI
Odabella, figlia del signore d’Aquileja ANNA PIROZZI
Foresto, cavaliere aquilejese FRANCESCO MELI
Uldino, giovane bretone, schiavo d’Attila FRANCESCO DOMENICO DOTO
Leone, vecchio romano SEBASTIÀ SERRA
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Vincenzo Milletarì
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 27 aprile 2025
Attila, dramma lirico di Giuseppe Verdi, arriva al San Carlo e viene eseguito in forma di concerto. È «una delle opere di maggior successo del suo primo periodo» (Philip Gossett), e appartiene al cosiddetto periodo degli Anni di galera: una definizione coniata dal compositore medesimo e che viene adoperata in riferimento alla produzione operistica «giovanile», un periodo caratterizzato da una stressante e intensa attività lavorativa. Vincenzo Milletarì, alla testa dell’Orchestra del San Carlo, riesce a dominare la scrittura verdiana, evidenziando la funzione e la pregnanza drammatiche di ogni momento teatrale: dall’efficace energia della scena della tempesta, nel prologo, al suggestivo «episodio descrittivo dell’alba» (per dirla con Massimo Mila), che riesce stupendamente a culminare in un momento sonoro folgorante. La bellica fierezza dell’accompagnamento ritmico e la poetica delicatezza di momenti intimistici (come la Romanza Oh! nel fuggente nuvolo – affidata, nell’atto primo, al soprano) sono funzionali al soddisfacimento delle necessità drammaturgiche dell’opera – la cui natura drammatica riesce a farsi evidente fin dal Preludio, tetro e «doloroso». Occorre riconoscere a Milletarì il merito di aver eseguito anche i da capo delle Cabalette – la cui presenza, sia pure con delle variazioni, risulta drammaticamente essenziale. L’esecuzione in forma di concerto consente al coro – preparato da Fabrizio Cassi – di emergere teatralmente e di assumere un ruolo, anche «scenico», pressoché fondamentale, e ciò si avverte nell’energia fremente dei momenti vocali degli Unni, nelle religiose invocazioni degli eremiti e negli interventi di carattere patriottico del popolo. Nel ruolo di Attila, Giorgi Manoshvili. Profondità del colore vocale, sicurezza nel registro acuto, solidità di voce e sensibilità drammatica del fraseggio garantiscono al basso un appropriato atteggiamento vocale; ciò si avverte nell’Aria Mentre gonfiarsi l’anima, restituita con ricchezza di espressione, e nella travolgente Cabaletta Oltre quel limite, eseguita con gagliarda condotta teatrale (atto primo). Il ruolo conosce anche emozionanti momenti di contrizione emotiva, come Spiriti, fermate del finale primo No!… non è sogno, che consente al cantante di sfoggiare un’affettiva «cantabilità». Anna Pirozzi, nel ruolo di Odabella, conferma di essere un’ottima interprete verdiana. Con magnetica maturità, affronta i momenti di «veemenza» espressiva del ruolo, delineando così un personaggio drammatico, febbrilmente tormentato da un «santo di patria indefinito amor». Ciò accade nel prologo: un’emissione notevole consente alla cantante di affrontare drammaticamente l’impervia scrittura vocale della Cavatina Allor che i forti corrono. La determinazione del personaggio prosegue con la Cabaletta Da te questo or m’è concesso: un sentimento di nervosa e frenetica contentezza, per la spada ottenuta da Attila l’oppressore, rende appassionata la voce – sempre salda ed espressiva, anche nel registro grave. Interessante è anche l’esecuzione del da capo della Cabaletta – restituito attraverso una soffocata ferocia emotiva; un sentimento che si pone in netto contrasto con il carattere intimistico della raffinata Romanza dell’atto primo, Oh! nel fuggente nuvolo, dal soprano appropriatamente eseguita. Francesco Meli, nell’esecuzione del 27 aprile, ha sostituito Luciano Ganci. La bellezza del colore vocale, particolarissimo e inconfondibile, una sensibilità scenica di attore-cantante e l’aristocrazia del fraseggio consentono a Meli di cesellare, con perizia, ogni aspetto della personalità del suo personaggio, Foresto: il tenore rende teatralmente pregnante la parola verdiana, e ciò accade nei momenti di lirica soavità (nella Cavatina del prologo, Ella in poter del barbaro!, e nella Romanza dell’atto terzo Che non avrebbe il misero). Il cantante gestisce appropriatamente anche i momenti di furia emotiva (nel Duetto con Odabella, nell’atto primo: Sì, quell’io son, ravvisami) e di fervore patriottico (nella celebre Cabaletta Cara patria, già madre e reina, nel prologo). Ernesto Petti interpreta, invece, Ezio. Egli riesce a dare forma al variegato temperamento del generale romano, che prevede momenti di dignitoso «risentimento», come nella Scena iniziale dell’atto secondo Tregua è cogli Unni – successivamente risolto nell’Aria Dagli immortali vertici, opportunamente affrontata. Padronanza della tessitura acuta, ricchezza di fraseggio e avvenenza del colore vocale consentono al baritono anche di affrontare la celebre Cabaletta È gettata la mia sorte – la cui interpretazione avviene energicamente e, a volte, sfocia in marcate sfumature espressive. Completano il cast: l’ottimo Sebastià Serra, nel ruolo del maestoso Leone, vecchio romano – e Francesco Domenico Doto, nel ruolo di Uldino, giovane bretone, schiavo d’Attila. Il pubblico ha tributato calorosissimi applausi agli artisti, alla fine dell’esecuzione del dramma – preceduta da un commovente minuto di silenzio in memoria di Papa Francesco. Le foto, di Luciano Romano, riguardano l’esecuzione del 24 aprile 2025
Komische Oper Berlin, season 2024/2025
“DON GIOVANNI/REQUIEM”
Dramma giocoso in two acts
Libretto by Lorenzo Da Ponte
Music by Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni HUBERT ZAPIÓR
Leporello TOMMASO BAREA
Donna Anna ADELA ZAHARIA
Don Ottavio/Tenor AGUSTÍN GÓMEZ
Don Elviro BRUNO DE SÁ
Zerlina/Soprano PENNY SOFRONIADOU
Masetto PHILIPP MEIERHÖFER
Commendatore/Bass TIJL FAVEYTS
Young woman/Contralto VIRGINIE VERREZ
The soul of the Commendatore NORBERT STÖß
The soul of Don Giovanni FERNANDO SUELS MENDOZA
Chorsolisten & Orchester der Komischen Oper Berlin
Conductor James Gaffigan
Chorus master David Cavelius
Choreography Evgeny Kulagin
Director, stage and costumes Kirill Serebrennikov
Co-stage design Olga Pavlyuk
Co-costume design Tatiana Dolmatovskaya
Light Olaf Freese, Johannes Scherfling
Video Ilya Shagalov
Berlin, 27th April 2025
Admit that the unusual casting of Bruno de Sá as Don Elviro was the main reason why I went to see the new production of Don Giovanni by Wolfgang Amadeus Mozart at the Komische Oper Berlin. Musically, it was a successful evening whose length of almost four hours came close to Wagner. This was also due to the fact that James Gaffigan initially had the orchestra of the Komische Oper Berlin play somewhat broadly and brittlely. Later it became more dynamic, picking up speed so that the young singers could excel with their fresh voices. Hubert Zapiór as Don Giovanni and Tommaso Barea as Leporello look like brothers, so that the change of clothes in Act 2 is perfectly believable. At the same time, their baritone voices are different, Zapiór’s is brighter and softer, Barea’s more distinctive and darker, a charming contrast. Zapiór masters both the fast-paced Fin ch’han dal vino and the serenade Deh, vieni alla finestra, while the seductiveness of Là ci darem la mano does not materialise, presumably because the scene takes place between the intensive care patient Giovanni and the heavily pregnant nurse Zerlina. The young singer still has enough stamina for the tour de force of the finale. Barea is in no way inferior to him, does a great job with Madamina, il catalogo è questo, is extremely present in the ensembles and his attractive looks leave little doubt that he occasionally stands in for Don Giovanni in the affairs. Adela Zaharia is a glamorous Donna Anna; already experienced at the MET, she sings Or sai chi l’onore accordingly, but in Non mi dir at the latest, she is in top stylistic form. Her fiancé Don Ottavio, who is sung quite well by Agustín Gómez, remains in her shadow. Unfortunately, his original aria Il mio tesoro, one of the most beautiful that Mozart wrote, was cancelled. Instead, he is allowed to take on the tenor part in the movements of the Requiem that Mozart still had on paper. They replace the usual five-minute Giovanni finale, making the evening half an hour longer. The conductor justifies this with the shared sombre D minor sound world of the two works, which I think is a bit of a stretch. Penny Sofroniadou takes over the soprano part in the Requiem with her beautiful lyric soprano, after having sung a self-confident Zerlina, heavily pregnant in the first Act. Tijl Faveyts leaves a stronger impression in the bass solo than as Commendatore, which he sings dressed in a strangely Far Eastern way, while the actor Norbert Stöß plays him as his soul, reciting somewhat soullessly from the Tibetan Book of the Dead. Virginie Verrez sings the contralto solo in the Requiem rather inconspicuously, after she was allowed to mime a young woman in Giovanni. Philipp Meierhöfer as Masetto scores with Ho capito! Signor, sì in the first act. The Chorsolisten der Komischen Oper Berlin, rehearsed by David Cavelius, really come into their own in the Requiem, a beautifully homogeneous performance! As mentioned at the beginning: a world first, or should I say: welcome to our new world of diversity? A man, Don Elviro, sings Donna Elvira. Bruno de Sá is the first and only superstar in the newly invented field of the male soprano; after all, the Brazilian does not want to be confused with countertenors. His voice, trained and accustomed to baroque music, is childlike and delicate, almost fragile even for Mozart and may take some getting used to in the large auditorium. I had to completely forget the voices of my favourites Leontyne Price, Ilva Ligabue and Teresa Żylis-Gara, which I managed to do surprisingly well. It probably speaks in favour of Gaffigan’s skilful conducting, because de Sá would do well not to allow himself to be tempted to force: the timbre of the voice is too delicate and valuable! The conductor gives Mi tradì quell’alma ingrata the right tempo to show off de Sá’s voice to its best advantage after a cultivated entrance with Ah, chi mi dice mai and an attacking Ah, fuggi il traditor! The metamorphosis into Don Elviro is still the most successful trick of Kirill Serebrennikov’s production, interpreted as an expression of Don Giovanni’s polyamourous tendencies. What the hyped director, set and costume designer brings to the stage with the support of his large staff is actually three things: the theatre performance of a modern play, accompanied by Mozart’s Don Giovanni and a Pina Pausch-style ballet to the music of the Requiem. The director tells the story from behind, which is common nowadays: the overture accompanies a funeral in which the lovers of the dead Don Giovanni mourn at the coffin. The use of the Tibetan Book of the Dead (Bardo Thodol) to set the scenes of the play as a bardo between life and death is actually ingenious, but is garnished with a confetti shower of original and entertaining ideas that simply overwhelms the audience and invites them to put together their own individual interpretation. Today’s Regietheater, which began twenty years ago with provocative but stringently thought-out productions by Calixto Bieito at the Komische Oper Berlin (Die Entführung aus dem Serail, Madama Butterfly), has thus reached an absurd low point. The director knows his craft, but often wants too much, for example when he thinks that the audience might get bored listening to an aria and that there should therefore be a subplot on the other half of the stage. It becomes extremely ambiguous when a banner claims that the tenor aria Il mio tesoro has been cancelled due to the austerity measures of the Berlin cultural senate. What does a single aria cost compared to a lavish new production by an overrated director with a bloated staff of co-assistants? Photo Frol Podlesnyi
Roma, Teatro Argentina
RITORNO A CASA
di Harold Pinter
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio
e con Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Alessandro Saviozzi
foto Claudia Pajewski
produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Il capolavoro di Pinter del 1964 è un vero e proprio Gruppo di famiglia in un interno abbiamo il padre Max ex macellaio, frequentatore di ippodromi, suo fratello Sam, che guida un taxi non suo e vive a casa e Max non perde occasione per dargli del parassita. I figli: Lenny, un trentenne, un ex “pappa”, si vanta di avventure erotiche violente, probabilmente un mitomane, Joey il fratello ventiduenne vorrebbe essere pugile professionista, in realtà è il più fragile della famiglia, Teddy il maggiore e sua moglie Ruth arrivano di notte nell’appartamento, vivono negli Sati Uniti e in occasione di un viaggio in Europa Teddy ne approfitta per presentare la giovane moglie al padre, allo zio e ai fratelli. Ciò che accadrà ribalterà l’equilibrio già precario di quella famiglia. Il cinismo, la cattiveria, l’humor di Pinter si manifestano qui al massimo livello e Popolizio, grazie ad un testo che è quasi una sceneggiatura cinematografica, asseconda e incoraggia il cast in una performance che dà vita ad uno spettacolo “pericolosamente” divertente. Qui poer tutte le informazioni.
Roma, Teatro India
LA BANALITA’ DELL’AMORE
di Savyon Liebrecht
adattamento e regia Piero Maccarinelli
con Anita Bartolucci, Claudio Di Palma, Giulio Pranno, Mersila Sokoli
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Javier Delle Monache
musiche Antonio Di Pofi
aiuto regia Emanuela Annecchino
assistente costumi Francesca Colica
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Piero Maccarinelli firma la regia dello spettacolo La banalità dell’amore di Savyon Liebrecht. “La protagonista di quest’opera – spiega in una sua nota – è Hannah Arendt, una delle più importanti figure del ‘900 europeo, nata in Germania e costretta ad emigrare a causa delle leggi razziali prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Nel suo appartamento di New York, Hannah riceve la visita di un giovane che le chiede un’intervista televisiva, presentandosi come un ricercatore dell’archivio della Shoah dell’Università di Gerusalemme. L’intervista le viene chiesta per darle la possibilità di chiarire molte delle sue opinioni in merito al processo Eichmann, ma, contro la sua volontà, le farà aprire molti cassetti della memoria, soprattutto quelli delle tappe del suo innamoramento per Martin Heidegger, uno dei più importanti filosofi del ‘900 dichiaratamente Nazionalsocialista. Ebrea tedesca, Hannah è stata perseguitata dal nazismo, eppure, fin da quando era una giovane studentessa, non ha mai smesso di subire il fascino di Heidegger che a un certo punto definirà “l’ultimo romantico tedesco”, per la sua capacità di pensiero. Ma anche altre vite e altri personaggi popolano la vicenda: il giovane ricercatore svelerà una identità diversa da quella con cui si è presentato, scoprendo altri legami che lo avvicinano alla Arendt. Sapientemente costruito su più piani temporali, il testo abbina lo svolgersi di un plot quasi giallo a riflessioni ulceranti sull’amore. Da un lato quindi la storia d’amore impossibile, irrazionale e drammatica fra Hannah ed Heidegger, dall’altro le ragioni della Storia, di chi, come Michael Ben Shacked, cerca le ragioni di una storia personale che si intreccia con la grande tragedia della Shoah”. Qui per tutte le informazioni.
ANTICO PRESENTE. VIAGGIO NEL SACRO VIVENTE
Autore: Alessandro Giuli
Editore: Baldini + Castoldi
Anno edizione: 2025
In commercio dal: 15 aprile 2025
Pagine: 240 p., Brossura
EAN: 9791254942499
Il sacro sotto le rovine
Nel suo “Antico Presente”, Alessandro Giuli intreccia mito, memoria e politica culturale per interrogare il tempo profondo dell’Italia e la sua vocazione spirituale dimenticata
«Abditae in visceribus terrae vestigia sunt, quae non pereunt, sed dormiunt.» (Le vestigia celate nelle viscere della terra non periscono, ma dormono)
Ci sono scritture che non si limitano a informare, ma interrogano. Non conducono semplicemente tra le pieghe del passato, ma lo convocano, lo costringono a parlare nella lingua d’oggi. Antico Presente. Viaggio nel sacro vivente, firmato da Alessandro Giuli, non aderisce alle forme consuete del saggio, né si presta a classificazioni agili. È piuttosto un’opera a latere, capace di oscillare tra meditazione civile, esplorazione simbolica e riflessione sulla continuità del sacro nel paesaggio culturale italiano. Non si tratta di una guida turistica né di un atlante del patrimonio, ma di un attraversamento spirituale dei luoghi e delle storie che hanno forgiato l’identità profonda dell’Italia antica. Il percorso tracciato da Giuli comincia dalle popolazioni italiche e si inoltra nel mondo etrusco e romano, fino a toccare i confini estremi del Mediterraneo. L’itinerario non si limita a Roma — qui rivisitata come un museo vivente, ma ancora capace di stupire con epifanie inattese — e si estende alla Maremma, alla Tuscia, all’Abruzzo, alla Puglia e oltre, verso terre lontane eppure da sempre intrecciate alla nostra memoria storica. Ogni tappa del cammino, ogni suggestione mitica o fondativa, diventa occasione per risvegliare ciò che è latente: la percezione che il tempo non sia lineare, ma ritmico; che il mito non sia favola, ma architettura mentale e spirituale. Il concetto di “sacro vivente”, che dà titolo all’opera, non si riferisce a un credo codificato né a un sistema teologico. È, semmai, la traccia di un ordine simbolico ancora percettibile sotto la crosta dell’attualità. Un ordine smarrito, ma non estinto. Giuli non si affida alla nostalgia, ma a un esercizio intellettuale: rendere di nuovo udibile ciò che la modernità ha coperto di rumore. Ne deriva una scrittura densa, non mediata, deliberatamente lontana dalla semplificazione. L’autore costruisce un idioma colto, a tratti ieratico, che rifiuta la fretta e richiede attenzione. Il testo si articola per ellissi, ritorni, intermittenze, e non segue un andamento documentario. Piuttosto, si configura come una liturgia personale, dove le leggende e le battaglie epiche, le apparizioni divine e i rituali perduti, si fondono in un’unica materia vibrante. La prosa è volutamente solenne, erede di un pensiero che non rinuncia alla verticalità e rifiuta la banalizzazione del sacro in chiave estetica o folklorica. La prefazione, affidata a Andrea Carandini — figura eminente dell’archeologia italiana — non è soltanto un sigillo di autorevolezza, ma una chiave di lettura essenziale. Carandini riconosce in questo volume un atto di continuità con quella linea di pensiero che considera il patrimonio come sistema vivente di valori e significati, non come insieme muto di reperti. Il sacro di cui si parla non è il culto, ma il fondamento: ciò che precede, ciò che fonda, ciò che ancora agisce. Naturalmente, chi legge con strumenti storici potrà avvertire qualche dissonanza: l’assenza di un apparato filologico, certe corrispondenze simboliche che sfiorano l’intuizione più che la verifica, il rischio — sempre latente — di cadere nell’idealizzazione. Tuttavia, sarebbe un errore giudicare l’opera con i parametri dell’erudizione accademica. Antico Presente non è un compendio, ma un atto critico: muove dal dato, ma tende all’invisibile. L’intento sotteso è chiaro: affermare che la civiltà — intesa come forma di coscienza — non può sopravvivere senza una tensione verticale. Senza il riconoscimento, anche implicito, di una dimensione ulteriore rispetto alla contingenza. In questa prospettiva, il patrimonio culturale non è un insieme di manufatti, ma un sistema di segni ancora operanti, che chiedono di essere riletti non con l’occhio del turista, ma con quello dell’iniziato. Nel panorama editoriale italiano, dominato da testi agili e accomodanti, Antico Presente si presenta come un oggetto volutamente dissonante. Non intrattiene, non consola, non informa: pone una questione. E in questo sta il suo valore più problematico. Giuli non chiede consenso, ma attenzione. Propone un linguaggio che non teme la solennità, e una visione che rifiuta la neutralità. Il lettore si trova così coinvolto in un confronto più che in una lettura: chiamato non ad aderire, ma a prendere posizione. Perché questo libro — che non è un’ode all’antico, ma un’esplorazione della sua persistenza simbolica — obbliga a riflettere su cosa significhi oggi appartenere a un orizzonte culturale che si crede sepolto e invece continua a parlarci. Non con le voci del passato, ma con quelle che abbiamo dimenticato di ascoltare.
Roma, Teatro dell’Opera
Stagione lirica e balletto 2024/2025
“La Gloria di Primavera”
Serenata in due parti
libretto di Niccolò Giuvo
Musica di Alessandro Scarlatti
Primavera JIN JIAYU soprano
Estate MARTINA LICARI soprano
Autunno CHIARA BRUNELLO contralto
Inverno LUCA CERVONI tenore
Giove ANTONINO ARCILESI basso
Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori
Direttore Ignazio Maria Schifani
Progetto del Ministero dell’Università e Ricerca, in collaborazione con il Conservatorio Alessandro Scarlatti di Palermo in occasione dei trecento anni dalla morte del compositore
Roma, 28 aprile 2025
Con questo concerto si apre il percorso sinfonico della stagione in corso al Teatro dell’Opera di Roma, con l’intento di rendere omaggio alla ricorrenza dei trecento anni dalla morte di Alessandro Scarlatti. Protagonista della serata è stata l’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori, frutto di un progetto avviato dal 2016 dal Ministero dell’Università e della Ricerca con il fine di promuovere e valorizzare il patrimonio artistico ed umano dei nostri centri di formazione. Ai migliori allievi infatti viene offerta la possibilità di approfondire il grande repertorio o di cimentarsi in brani dimenticati o di rara esecuzione in contesti prestigiosi come in questo caso il Teatro dell’opera di Roma e a contatto con grandi artisti per affinare nella realtà la pratica concertistica ed orientarla ad una futura professione. Per l’occasione il maestro Ignazio Maria Schifani direttore e coordinatore della compagine ha scelto di riprendere La Gloria di Primavera di Alessandro Scarlatti. Questa serenata di rara esecuzione, appena eseguita al Teatro Massimo di Palermo e destinata domani ad andare ancora in scena a Napoli, è un lavoro della maturità dell’autore, composto in occasione della nascita dell’arciduca Leopoldo, molto atteso figlio primogenito di Carlo VI d’Asburgo che avrebbe dovuto scongiurare una guerra di successione alla morte del sovrano. In essa si celebrano le glorie asburgiche e la quattro stagioni ambiscono ad avere un premio da Giove vantando meriti per la nascita del piccolo arciduca. Come prevedibile verrà decretata la vittoria della Primavera stagione della nascita del bambino. Purtroppo la tremenda mortalità infantile dei tempi non risparmiava neppure le classi sociali più elevate e le teste coronate, il piccolo morirà all’età di sei mesi e nonostante la Prammatica Sanzione prudentemente promulgata, l’Europa di allora non sarà risparmiata dalla guerra. Singolari e probabilmente involontarie analogie con i tempi che attraversiamo che pure dovrebbero indurre a riflettere. La serenata viene eseguita integralmente per scelta del maestro Schifani e sebbene la composizione sia molto lunga, la ricca e variopinta orchestrazione di Scarlatti e i differenti caratteri delle numerose arie non permettono al pubblico di annoiarsi, in un susseguirsi di sempre nuovo stupore ad ogni incipit. L’Orchestra ha seguito le indicazioni del direttore con molta concentrazione mantenendo la necessaria tensione per tutto l’arco della composizione. Tutti infine su un buon livello sono stati i cinque solisti vocali. Jin Jiayu è stata una Primavera dalla voce morbida e fresca come si addice alla stagione della rinascita ed alla vincitrice della contesa. Martina Licari viceversa una più asciutta ed intonatissima Estate, stagione del concepimento del piccolo. Assai autorevole per ampiezza vocale, timbro morbido e vellutato, raffinata ed espressiva musicalità è apparso l’Autunno, impersonato dal contralto Chiara Brunello. L’Inverno, che vanta il merito di aver rafforzato e protetto il grembo imperiale, è stato ben caratterizzato dal tenore Luca Cervoni il quale ha brillato per eleganza di fraseggio soprattutto nei cantabili. Ed infine Giove arbitro della contesa ha trovato nel basso Antonino Arcilesi la sufficiente, giusta espressione nonostante le difficoltà tecniche della parte. Al termine lunghi e sentiti applausi per tutti per un concerto che avrebbe sicuramente meritato un pubblico più numeroso anche in considerazione della rarità dell’esecuzione. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
Pompei, Parco Archeologico
La domus di Elle e Frisso: dinamiche dell’ultimo istante e cultura materiale di una tragedia urbana
Il letto posto di traverso a sigillare un ambiente, i resti scheletrici, la bulla infantile, il vasellame in bronzo e le anfore di garum: materiali e contesto di una morte improvvisa nella Pompei del 79 d.C.
L’area di scavo ubicata lungo la cosiddetta via del Vesuvio, all’interno del settore nord di Pompei, ha restituito – nell’ambito di interventi di consolidamento e valorizzazione tra aree già indagate e porzioni ancora da scavare – un nuovo importante nucleo abitativo. Si tratta di una domus denominata di Elle e Frisso, dal nome del soggetto mitologico raffigurato in un pannello affrescato nel triclinio, che ha offerto dati significativi sulla dinamica dell’eruzione vesuviana e sulle risposte comportamentali degli abitanti durante le fasi finali dell’evento del 24 agosto 79 d.C. Il complesso, articolato su più ambienti afferenti a un’unità di medio-alto livello sociale, risulta in parte già noto per la sua vicinanza alla Casa di Leda e il Cigno, scavata nel 2018. I recenti interventi hanno consentito l’identificazione di un atrio con impluvium, un cubiculum, un triclinio decorato in IV stile pompeiano, un vano scoperto con tettoia per la raccolta pluviale e un vano di servizio destinato a dispensa, in parte sotto scala, con anfore stipate. Elementi strutturali e indizi materiali attestano che l’edificio era, al momento dell’eruzione, oggetto di lavori di ristrutturazione: tra questi si segnalano soglie rimosse, tratti murari tagliati e lacune decorative localizzate. Tra gli elementi di maggiore rilevanza stratigrafica e culturale figura il ritrovamento di quattro individui deceduti verosimilmente durante le fasi avanzate dell’eruzione, ascrivibili al collasso edilizio o alla successiva corrente piroclastica. La posizione dei corpi, associata a elementi della cultura materiale, offre preziosi elementi interpretativi. In uno degli ambienti interni, il rinvenimento di un letto ligneo collocato in posizione trasversale rispetto all’ingresso – e da cui è stato possibile realizzare un calco in gesso sfruttando le cavità lasciate dal legno decomposto nella matrice piroclastica – lascia ipotizzare un tentativo deliberato di ostruire l’accesso, forse come misura di protezione dall’ingresso dei lapilli attraverso l’apertura del tetto dell’atrio. Questa dinamica suggerisce un tentativo organizzato e razionale di sopravvivenza: i lapilli della fase iniziale dell’eruzione, caduti attraverso l’apertura centrale del tetto (compluvium), avrebbero costituito una minaccia immediata, spingendo gli occupanti a rifugiarsi in uno spazio secondario, isolandolo con gli arredi a disposizione. Il letto, nella sua funzione di barriera, si trasforma così da elemento d’arredo a strumento difensivo. Il fatto che si sia conservato come impronta negativa nella cenere solidificata permette oggi una restituzione tridimensionale del manufatto, fondamentale per lo studio del mobilio ligneo romano. Tra i resti antropologici, si segnala la presenza di un individuo infantile, connesso alla scoperta di una bulla in bronzo, tipico pendente apotropaico che i maschi romani liberi indossavano fino al raggiungimento della pubertà (toga virilis). Il rinvenimento della bulla in situ, in relazione con i resti del bambino, offre un importante dato di tipo culturale e sociale sullo status dell’individuo e sul valore attribuito agli amuleti nella protezione dell’età infantile. Altri elementi della cultura materiale includono un deposito di anfore, alcune delle quali contenenti residui organici attribuibili al garum, salsa di pesce fermentato di largo consumo in età romana, destinata sia all’uso domestico che al commercio. Il deposito si collocava in un vano secondario sotto scala, verosimilmente adibito a funzione di dispensa. Di particolare interesse è anche il rinvenimento di un servizio da mensa in bronzo costituito da attingitoio (simpulum), brocca monoansata, vaso a paniere (ciborium) e coppa a conchiglia (patera), verosimilmente parte del corredo utilizzato nel triclinio per il banchetto, pratica fondamentale nella ritualità e nella rappresentazione sociale della domus romana. Dal punto di vista iconografico e decorativo, la parete del triclinio ospita un affresco in IV stile con scena mitologica raffigurante Frisso ed Elle in fuga su un montone dal vello d’oro, identificabile con il Crisomallo. L’iconografia, che mostra Elle nel momento della caduta nelle acque dell’Ellesponto, mentre tende la mano verso il fratello, è di particolare rilevanza simbolica: evoca una tragedia imminente, un soccorso negato, una morte ineluttabile, elementi che paiono rispecchiare, quasi con sinistra prefigurazione, la condizione degli abitanti della casa. Nel contesto del I secolo d.C., la funzione di tali rappresentazioni mitologiche all’interno della domus non è più legata a una fruizione religiosa o cultuale, quanto piuttosto a dinamiche di rappresentazione estetica e culturale: l’apparato decorativo costituiva un indice visivo dello status economico, del gusto e dell’adesione a una cultura letteraria condivisa tra i ceti elevati e medio-alti della società urbana. In tal senso, anche la scelta della scena tragica appare congrua con il contesto del triclinio, spazio deputato all’ostentazione e alla convivialità ritualizzata. Il valore archeologico del sito risiede dunque non solo nel contributo che offre alla ricostruzione delle ultime ore di vita di Pompei, ma anche nella complessità stratigrafica, nella qualità della cultura materiale, nella varietà funzionale degli ambienti e nella ricchezza decorativa. La domus di Elle e Frisso rappresenta un microcosmo domestico colto nell’attimo del disastro, in cui il tempo si è fermato cristallizzando gesti quotidiani, strutture in transizione e oggetti d’uso che diventano segni, testimoni muti della fine. Come sottolineato dal direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, scavare in questo sito significa oggi confrontarsi con la bellezza e, simultaneamente, con la precarietà della vita. L’elemento umano si intreccia al dato tecnico: il letto spostato, la corrente piroclastica, il crollo delle strutture, le fratture murarie. La scienza archeologica restituisce voce a chi non ha potuto raccontare la propria fine, e consente a noi, uomini del presente, di leggere nei frammenti del passato l’eco di una condizione condivisa: quella della vulnerabilità. Photocredit Parco Archeologico di Pompei
Giovedì 1 maggio
“L’HISTOIRE DE MANON”
Musica Jules Massenet
Coreografia Kenneth McMillan
Direttore Paul Connelly
Interpreti: Nicoletta Manni, Reece Clarke, Nicola Del Freo, Gabriele Corrado, Martina Arduino, Francesca Podini, Gioacchino Starace…
Milano, 2024
Venerdì 2 maggio
Ore 10.00
“LE CORSAIRE”
Musica Adolphe Adam, Léo Delibes, Riccardo Drigo, Cesare Pugni
Direttore David Coleman
Coreografia Anna-Marie Holmes da Marius Petipa e Konstantin Sergeyev
Interpreti: Nicoletta Manni, Martina Arduino, Timofej Andrijashenko, Marco Agostino, Antonino Sutera, Mattia Semperboni, Alessandro Grillo, Antonella Albano, Virna Toppi, Maria Celeste Losa e Alessandra Vassallo..
Milano, 2018
Ore 21.15 – replica Domenica 4 maggio
Ore 18.25
“EUROPA RICONOSCIUTA”
Musica Antonio Salieri
Direttore Riccardo Muti
Regia Luca Ronconi
Interpreti: Diana Damrau, Désirée Rancatore, Daniela Barcellona, Giuseppe Sabbatini, Alessandra Ferri e Roberto Bolle.
Milano, 2004
Sabato 3 maggio
Ore 10.25
“NABUCCO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Frizza
Regia Jonathan Miller
Interpreti: Alberto Gazale, Susan Neves, Yasu Nakajima, Orlin Anastassov, Debora Beronesi, Alberto Rota, Sabrina Modena, Alessandro Cosentino
Genova, 2004
Domenica 4 maggio / Sabato 10 maggio
Ore 10.00 /10.50
“AIDA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniel Oren
Regia Gianfranco De Bosio
Interpreti: Fiorenza Cedolins, Walter Fraccaro, Vittorio Vitelli…
Napoli, 1998
Martedì 6 maggio
Ore 17,21
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Musica Pietro Mascagni
Direttore Juraj Valčuha
Regia Giorgio Barberio Corsetti
Interpreti: Veronica Simeoni, Roberto Aronica, Elena Zilio, George Gagnidze, Leyla Martinucci.
Matera, 2019
Mercoledì 7 maggio
Ore 17.11
“PAGLIACCI”
Musica Ruggero Leoncavallo
Direttore Andriy Yurkevych
Regia Cristian Taraborelli
Interpreti: Mario Caroli, Claudia Catarzi, Fabio Sartori, Serena Gamberoni, Sebastian Catana…
Genova, 2021
Venerdì 9 maggio
Ore 17.25
“IL GIARDINO DEGLI AMANTI”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Coreografia Massimo Volpini
Interpreti: Nicoletta Manni, Roberto Bolle
Milano, 2016
Domenica 11 maggio
Ore 10.00
“MADAMA BUTTERFLY”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Daniel Oren
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti: Fiorenza Cedolins, Francesca Franci, Marcello Giordani, Juan Pons…
Verona, 2004
Martedì 13 maggio
Ore 17.20
“LA TRAVIATA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniele Gatti
Regia Mario Martone
Interpreti: Lisette Oropesa, Saimur Pirgu, Roberto Frontali…
Roma, 2021
Dramma per musica in due atti su libretto di Giovanni Schmidt. Serena Farnocchia (Elisabetta), Patrick Kabongo (Leicester), Mert Süngü (Norfolc), Veronica Marini (Matilde), Mara Gaudenzi (Enrico), Luis Aguilar (Guglielmo). Kraków Philharmonic Chorus, Marcin Wróbel (maestro del coro), Kraków Philharmonic Orchestra, Antonino Fogliani (direttore). Registrazione: Juliusz Słowacki Theatre, Kraków, 3 – 4 luglio 2021 e Offene Halle, Bad Wildbad 21 luglio 2021. 2 CD NAXOS 8.660538-39
Il ciclo delle registrazioni rossiniane pubblicate da Naxos e registrate al Festival di Bad Wildbad prosegue con “Elisabetta regina d’Inghilterra” composta per Napoli nel 1815. Si tratta di un lavoro assai interessante pur nei suoi elementi sperimentali. Rossini da un lato esalta al massimo i modelli della tradizione neoclassica dall’altro compie significativi passi sulla strada del romanticismo incipiente. Tratta da un romanzo contemporaneo di Sophie Lee e ambientata nell’Inghilterra Tudor segna già in queste scelte una rottura rispetto ai soggetti tradizionali rafforzata dalla scelta di scrivere la parte di Leicester per tenore in loco del tradizionale contralto.
Opera quindi in sospeso tra passato e futuro e proprio per questo difficile da cogliere nella sua cifra stilistica. La presente edizione è per fortuna guidata dalla solida mano di Antonino Fogliani. Direttore sensibile e profondo conoscitore di questo repertorio di cui sa cogliere al meglio ogni aspetto. Quella che si ascolta è una direzione tesa, dall’andamento marcato e dalle sonorità terse e squillanti ma capace di cogliere – quando richiesto – un nuovo senso cromatico più intimo e crepuscolare. Fogliani avrebbe però meritato complessi migliori di quelli a disposizione del festival. La Krakòw Philarmonic Orchestra non va oltre un onesto professionismo e nei punti più impegnativi e concitati sembra essere al limite delle proprie potenzialità, ancor meno centrata la prova del coro che nei grandi pezzi d’assieme manca di peso specifico in virtù di una formazione troppo ridotta per pagine come queste.
Il Cast, considerando il contesto e i limiti economici nel festival, esce nel complesso con onore. Serena Farnocchia è cantante esperta e dal repertorio ecclettico che spazia da Mozart a Wagner. Ovviamente non ha l’aplomb dell’autentica belcantista e nei passeggi di bravura si trova costretta a giocare in difesa. Di contro il materiale vocale è imponente e solidissimo, l’accento scandito e autorevole così che nei pezzi d’insieme, e in genere quando a dover emergere è l’autorità della regina riesce ad imporsi con sicurezza.
La parte di Leicester è forse quella più proiettata verso il futuro. Patrick Kabongo è un ragazzo di grandi qualità ma probabilmente non è stata la scelta ideale per il ruolo. La voce è molto bella e canta in modo squisito sfoggiando anche una dizione impeccabile ma resta un tenore lirico-leggero in un ruolo che richiede altro peso vocale. Così se i momenti più lirici – il duetto con Matilde – o le fiorettature dell’aria di sortita non mancano di suggestione la grande scena del carcere “Sposa amata” manca di quell’intensità già pienamente romantica che dovrebbe esprimere.
La parte di Norfolc è un autentico cimento virtuosistico – non a caso era tra i cavalli di battaglia del sommo Blake. Mert Süngü al netto di qualche patteggiamento ne viene validamente a capo riuscendo anche a dare un riuscito taglio interpretativo e a non farsi travolgere dall’impegno vocale. Purtroppo le voci dei due tenori sono fin troppo simili così nel duetto “Deh! scusa i trasporti” manca quella contrapposizione timbrica che sarebbe necessaria.
La giovane Veronica Marini è una Matilde piacevole. Un po’ trattenuta nel primo atto prende corpo nel secondo trovando la giusta intensità nella scena con Elisabetta. E’ giovane e forse nel complesso la prova risulta ancora un po’ acerba il che è pianamente comprensibile considerando la giovane età e la scarsa esperienza. Mara Gaudenzi (Enrico) e Luis Aguilar (Guglielmo) affrontano con attenta professionalità le loro parti.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
“SALOME”
Dramma musicale in un atto, su libretto di Hedwig Lachmann tratto dall’omonimo dramma di Oscar Wilde.
Musica di Richard Strauss
Herodes NIKOLAI SCHUKOFF
Herodias ANNA MARIA CHIURI
Salome LIDIA FRIDMAN
Jochanaan BRIAN MULLIGAN
Narraboth ERIC FENNELL
Ein Page der Herodias MARVIC MONREAL
Funf Juden ARNOLD BEZUYEN, MATHIAS FREY, PATRICK VOGEL, MARTIN PISKORSKI, KARL HUML
Zwei Nazarener WILLIAM HERNANDEZ, YAOZHOU HOU
Zwei Soldaten FREDERIC JOST, KARL HUML
Ein Sklave YAOZHOU HOU
Ein Kappadozier DAVIDE SODINI
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Alexander Soddy
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Luigi Biondi
Coreografia Silvia Giuffrè
Firenze, 27 aprile 2025
Uscendo dalla gremitissima Sala Grande del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, oltre ad aver percepito la complessità dell’opera e lo strappo con la tradizione, ecco una serie di considerazioni. Lo spettatore si è trovato catapultato in una scena presente per gran parte della rappresentazione: la grande maschera de L’Orco delle favole del Parco dei Mostri di Bomarzo, senza nessun suono dell’orchestra, quasi ‘ingresso magico’, illuminata dalla luna «fiore d’argento, freddo e casto», allude fin dall’inizio a una sinistra narrazione. Il tutto può accennare ad una strana favola in cui i costumi di Vanessa Sannino ricordano i pupi siciliani che ben si armonizzano con la fantasiosa e ricca regia di Emma Dante, alla ricerca di una vivida immaginazione creativa. Oltre alla varietà del ritmo narrativo colpisce anche quello scenico tanto che, per esempio, le oscillazioni dei “bianchi pavoni” si inseriscono nei linguaggi artistici coinvolti. Il gesto di Alexander Soddy, al suo debutto al Maggio, dà voce ad una partitura che per molti aspetti si rivela una grande tavolozza strutturata per intere famiglie strumentali, post-wagneriana e ante litteram dell’Eine Alpensinfonie, con: 18 legni (compreso l’ Heckelphon, oboe baritono), 15 ottoni, 4 timpani e molti altri strumenti a percussione (grancassa, diversi tipi di tamburo, triangolo, xilofono, glockenspiel, ecc.), 2 arpe, celesta, harmonium e organo (dietro le scene) e, naturalmente, il quintetto d’archi (sovente anche divisi). In alcuni momenti si sono percepite grandi espressioni colme di nuances unite a un’incredibile potenza sonora. Protagonista un’orchestra straordinaria, dalla grande duttilità ed esperienza, restituendo immagini di magnificenza immaginativa anche in contesti in cui occorre trasformarsi rapidamente in un caleidoscopio di colori, pur attraversando le strettoie dell’atonalità o della politonalità. L’indicazione Andante mosso delle prime battute sembra anticipare un certo mistero, congiuntamente ad una messe di sensazioni contrastanti e molto altro: il ‘solo’ del clarinetto disegna un’attorcigliata scala ascendente partendo dal sol diesis grave, sostenuto dalla figura cromatica di minime, ‘trasfigurata’ dal tremolo dei violini II, poi il graduale inserimento di strumenti compresa la celesta, l’arpa (con effetto “flageoletes”), che nel presentare il motivo principale di Salome costituisce un ‘perfetto invito’ ad ascoltare la voce a tratti velata di Narraboth (Eric Fennell): «Wie schön ist die Prinzessin Salome heute nacht!». Pur dichiarando la bellezza della principessa Salome, interpretata da Lidia Fridman, personaggio fùlgido tout court, alla musica è affidata la perfetta connotazione per creare l’atmosfera e la simbiosi tra le componenti dello spettacolo: scene suggestive (Carmine Maringola), luci appropriate (Luigi Biondi) e un’elegante coreografia (Silvia Giuffrè). L’approccio di Soddy all’opera e la sua concertazione hanno ben interpretato la convergenza dei vari linguaggi, pur diversi e a tratti contraddittori, avvicinandosi alla feconda espressività straussiana.
Tuttavia la complessità non ha reso lo spettacolo faticoso o difficile poiché bastava seguire l’argomento tratto dagli Evangeli di Matteo e di Marco, confluiti nel dramma di Oscar Wilde e la successiva traduzione di Hedwig Lachmann per lasciarsi coinvolgere dalle diverse atmosfere. Dopo l’inizio in cui il Tetrarca fa incatenare Jochanaan (un convincente Brian Mulligan), alcune espressioni chiave: «Non è lecito giacere con la moglie di tuo fratello» (Jochanaan a Herodes); o «Dammi su un piatto la testa di Giovanni il Battista» (richiesta di Salome, istigata dalla madre, a Herodes) dopo la sua danza. In virtù del giuramento di quest’ultimo nella perfetta interpretazione di Nikolai Schukoff, egli è costretto a cedere. Decapitato Giovanni, si consegna la testa alla donna. La danza di Salome «regalmente adorna, col corpo d’angelo, indescrivibilmente delicata e interamente femmina» (H. Sachs), ottimamente resa dalla Fridman, suggella l’espressione «il mistero dell’amore è più grande di quello della morte», rinviando al rapporto tra Eros e Thanatos. Tutto concorre a ‘svelare l’arcano’: si pensi, per esempio, all’effetto dei contrabbassi (prendendo la corda fra il pollice e l’indice in un registro acuto dello strumento) nell’anticipare l’intervento di Salome (“Nessun suono s’avverte […] Perché egli non grida, quell’uomo?”) nel percepire la decapitazione di Jochanaan. La Salome di Strauss non è il personaggio biblico ma una dea che esprime la nevrosi e la lussuria di certi antichi personaggi femminili rivisitati in epoca decadente benché, grazie alla musica del compositore tedesco, la figura della protagonista superi quella tratteggiata da Wilde. Nel momento antecedente la morte di Salome, è ancora la partitura a restituire accordi strazianti e i vari motivi (desiderio, vendetta, ecc.) offrono percezioni che rimandano ad una sorta di castigo divino preannunciato nelle apocalissi. A chiarire invece il finale è lo stesso autore: «Questo finale è imperscrutabile, come lo è in genere la natura della donna, ed io stesso con precisione non lo so. Se lo sapessi, non sarei un artista, ma un giornalista!». Al pieno successo della parte musicale e registica già espresso sopra, va aggiunto quello degli altri personaggi della compagnia (cinque ebrei, due nazareni, due soldati, uno schiavo, un cappadoce). Considerando la natura dei ruoli, in alcuni è emersa una buona presenza scenica ed in altri anche una buona vocalità come quella di Anna Maria Chiuri (Herodias), capace di allinearsi alle altre voci che si sono distinte per la capacità di trasmettere al pubblico sia la comprensione del personaggio che le stesse emozioni.Non per ultimo si segnala il grande successo per il Maggio Musicale Fiorentino in quanto, con il ritorno dopo 15 anni di Salome, ha saputo offrire la degna inaugurazione di un grande Festival. Foto Michele Monasta
I FIGLI DELL’ISTANTE
Di Edoardo Albinati
Editore: Rizzoli
Data di Pubblicazione: 04/03/2025
Genere: Romanzo
Pagine: 696
ISBN cartaceo: 9788817174428
https://www.rizzolilibri.it/libri/i-figli-dellistante/
Nel vuoto inquieto degli anni Ottanta, tra la fine delle ideologie e l’inizio dell’era-spettacolo, Albinati orchestra una sinfonia di vite disorientate. Nessuna trama salvifica, solo istanti che decidono chi siamo – o chi non siamo stati. “Nel mezzo del cammin” degli anni Ottanta, senza che nessuno ce lo dicesse, avevamo smesso di aspettarci qualcosa. Non era ancora l’epoca della rassegnazione elegante dei Novanta, né il tempo in cui si credeva che l’agire potesse trasformare il reale. Eravamo – non solo noi ragazzi, ma anche i padri, le madri, i professori – in una zona intermedia. Un limbo emotivo e sociale, dove non si faceva più la rivoluzione ma neppure si sorrideva convinti davanti alla telecamera. È lì che si colloca I figli dell’istante: tra ciò che si è estinto e ciò che ancora non ha imparato a parlare. In quel vuoto in cui tutto può accadere, ma quasi niente accade davvero. L’istante – come suggerisce il titolo – è una categoria dell’esistenza. Quello che separa il desiderio dall’azione, l’adolescenza dall’età adulta, l’empatia dall’indifferenza. Ma anche chi resta da chi scompare. Il romanzo non è costruito attorno a un plot, ma a una serie di fratture. Quelle crepe in cui cominci a chiederti: Dov’ero io, quando succedeva? E la risposta ti resta addosso come un odore che non va più via. Nico Quell parte per il militare. Potrebbe sembrare l’inizio di un romanzo di formazione, ma è un gesto di dissoluzione. Parte per sottrarsi, per non essere più responsabile nemmeno di se stesso. Ha dentro quella specie di abulia intelligente che è il tratto distintivo di molti figli degli anni Ottanta: capaci di desiderare tutto senza scegliere nulla. Nanni Zingone, invece, si carica sulle spalle una giovane famiglia, due figli, un lavoro. È il ragazzo che ha scelto. Che ha fatto il passo. E che proprio per questo si consuma. Sono due facce della stessa generazione. Due versioni del fallimento. Attorno a loro, una moltitudine di figure si affaccia e si ritira. Come comparse in un sogno, ognuna lascia un segno, un’indicazione che non viene raccolta. Ci sono bambine che non vogliono più giocare, ragazze alla pari che si innamorano in silenzio, padri che non vogliono essere padri, madri che si aggrappano al ruolo con ferocia. E poi professori disillusi, terroristi sbiaditi, maghi da dopolavoro, vecchi che delirano e bambini che osservano. Non c’è un centro. Non c’è un asse. Ma c’è una circolazione inquieta, come di molecole in eccitazione perenne. Gli anni Ottanta, nel romanzo, non sono un contesto ma un sintomo. Non vengono descritti con nostalgia né con giudizio, ma con la precisione fredda di un entomologo. Sono gli anni delle pettinature gonfie e dei jeans slavati, ma anche dell’inerzia travestita da vitalismo, dell’egotismo moralmente presentabile. Un’epoca in cui l’individuo non si sente più parte di un disegno collettivo, ma non ha ancora trovato il linguaggio per dirsi solo. Tutti recitano la parte di chi sa cosa fare, ma nessuno si fida più del copione. Ogni gesto è un’improvvisazione. Ogni decisione, un azzardo. Ogni relazione, una zattera. Scrivere degli anni Ottanta significa raccontare la fine del tempo lungo, quello delle ideologie, dei grandi racconti. Al loro posto arrivano frammenti, deviazioni, derive. Il romanzo segue questa logica: niente trama, ma una deriva. Niente protagonista assoluto, ma una coralità stonata. E tuttavia, un ordine segreto si intuisce. Come se ogni scena sapesse dove deve andare, senza dirlo. Albinati scrive come chi scava: non cerca l’effetto, ma l’origine. Il suo linguaggio è complesso, stratificato, mai gratuito. C’è una necessità interna in ogni paragrafo. Un’urgenza. Un’ossessione. Le digressioni non distraggono: illuminano. Come lanterne accese là dove il sentiero si perde. Ci sono momenti in cui la narrazione si interrompe per riflettere sull’infanzia, sulla colpa, sull’educazione, sull’amore come possesso o come scomparsa. Ed è lì che il romanzo smette di essere racconto e diventa pensiero. Corpo vivo. Molti lettori chiederanno: Ma cosa succede, esattamente, nel libro? La verità è che non succede nulla che possa essere riassunto. Succede che si vive. Succede che si cambia. Succede che si muore. Succede che si guarda la propria vita e non la si riconosce più. E tutto questo accade, appunto, in un istante. Che non è mai solo quello che segna l’orologio, ma quello che lacera l’identità. Forse il romanzo più vero non è quello che costruisce una storia, ma quello che costruisce uno sguardo. I figli dell’istante è esattamente questo: un’educazione alla visione. Alla visione del dolore, della bellezza, della perdita. Alla visione di ciò che abbiamo preferito ignorare, per vigliaccheria, pigrizia o paura. È un libro che non giudica, ma interroga. Non consola, ma costringe. Un romanzo profondamente etico, anche se non moralista. Profondamente politico, anche se non parla di politica. Alla fine, restiamo lì, come Nico, come Nanni, come tutti gli altri. A chiederci se quell’istante fosse evitabile, se poteva andare diversamente, se siamo stati noi a causarlo oppure solo a subirlo. La risposta, sempre, è che non lo sapremo mai. Ma intanto qualcuno ha provato a raccontarlo. E questo, in un mondo che ha smesso di raccontare davvero, è già moltissimo.
Berlin, Staatsoper, Season 2024/25
“NORMA”
Tragedy in two acts, text from Felice Romani
Music Vincenzo Bellini
Norma IRINA LUNGU
Pollione STEFAN POP
Adalgisa ELMINA HASAN
Oroveso RICCARDO FASSI
Clotilde MARIA KOKAREVA
Flavio JUNHO HWANG
Staastopernchor
Staatskapelle Berlin
Musical Dicetor Francesco Lanzillotta
Chorus Master Dani Juris
Director Vasily Barkhatov
Set Zinovy Margolin
Costumes Olga Shaishmelashvil
Light Alexander Sivaev
Fight choreography Ran Arthur Braun
Dramaturgy Kai Weßler, Christoph Lang
Berlin, 26 april 2025
In a co-production with Vienna’s Theater an der Wien the Berliner Staatsoper has given us what amounts to an old fashioned “modern” German opera production, where concept dominates the original material. This can lead to new insights that come from the opera but are entirely independent of the original setting, or distract from dramatic conflicts of the original. A great opera like Norma can survive almost anything because it’s power lies in the confluence of music with the personal emotions arising out of cultural and individual conflicts. Vasily Barkhatov recognizes this but his concept serves more as a distraction which fails to heighten or clarify these feelings. It takes first rate stagecraft to connect stage actions with outside ideas and concepts must be carefully played out onstage. This where Barkhatov’s concept fails. The seemingly aimless wanderings of the women’s chorus among the religious statuary is unfocused and unrevealing and only serves to confuse the audience. Likewise Adalgisa, Pollione and Norma seem prone in their duets to very standard stage crossing and counter crossing for purely visual reasons, not to help the audience understand what is happening between the characters. Perhaps Barkhatov’s most blatant application of a modern concept comes at the end of the opera, when modern sensibilities about Norma’s impending suicide suddenly assert themselves and Pollione drags her from the fire. Her nobility, however misguided, is trivialized and the primal power of self sacrifice is transmuted into a crazy female being saved by a strong, rational man. Bellini’s music constantly belies these concepts and while it is possible to play against the outward actions of an opera it takes far more than Barkhatov has managed. This music is magical, but this was not an evening where music triumphed. Norma, as the excellent notes of the Staatsoper’s program by Kai Weßler and Christoph Lang make clear, has deep roots in the historic conflicts of Bellini’s era which strongly resonate in both Vienna and Berlin, but this opera lives and dies by the beauty and expressiveness of the music. Bellini’s melodies insinuate themselves into any audience’s consciousness, but to truly communicate through these sublimely simple melodies was given to only two of the singers, and rarely to the conductor. The Italian bass Riccardo Fassi effortlessly carried over the thick late romantic sound of the Staatsoper orchestra. His is a true chiaroscuro voice, both dark and imposing and at the same time having the high overtones which provide clarity and carrying power. He employed this instrument effectively and impressively with line and musical direction. The Adalgisa of Elmina Hasan, on the other hand drew listeners in with superb piano singing and a fine sense of line. Her voice was equal in power to both Norma’s and Pollione’s, but the atmosphere was transformed when she sang. She and the Oroveso had magic in their voices, sang the words on wonderful techniques, and showed the musical direction which Bellini so diligently created. Stefan Pop, who jumped in for Pollione – no small feat in itself – was very good. His is the right voice for the role and he effectively employed a lovely messa di voce. His high C in the aria was on the short side and a bit unsteady, and too many stock verismo Italian cliches detracted from his performance but this may have been the result of the last minute jump in.
Irina Lungu has a strong voice with decent but not breathtaking agility, and a remarkable high extension, but her Norma lacked the magic, vocal display and emotional power that are the hallmarks of a role which sets the standard for any soprano who wishes to sing this repertoire. She began her Casta Diva with attractive piano phrases but gave way to the strong but monochromatic tone which defines her voice and singing. The conductor Francesco Lanzillotta led an overly romantic and muddy rendition of Bellini’s masterpiece. From the loud and pompous opening chords to a pedestrian introduction to Casta Diva he did not provide the sure hand to guide his players to the style and sound appropriate to Bellini. His ritardandi were mechanical and not elegant. Lanzillotta was at his best when he followed sensitive singing and placed chords in recitative passages. It may be a joy to conduct an orchestra capable of such sound and power but it did not serve the music at hand. The set by Zinovy Margolin was clever and attractive, allowing for seamless scene changes which did not interrupt the drama in spite of their frequency. The noise of stagehands doing their job was a small distraction, but quite acceptable and there wasn’t a video in site: theater as we once knew it!
The costumes by Olga Shaishmelashvili, like the lighting from Alexander Sivaev were nondescript and generalized, presumably to emphasize the collective and universal nature of the concept, which is at odds with the opera’s stunning concentration on the individual. An intellectual approach to an opera which relies on the magic of inspiration and sublime music is a daunting task. We can be grateful that the Staatsoper has tried, but regret that Bellini’s genius only occasionally emerged. Even through a glass darkly, Norma is worth hearing. Photo Bernd Uhlig
Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Costanzi
Stagione Sinfonica 2024/ 2025
La Gloria di Primavera celebra i trecento anni dalla scomparsa di Alessandro Scarlatti
Il Teatro dell’Opera di Roma rende omaggio ad Alessandro Scarlatti, a trecento anni dalla sua scomparsa, con il concerto La Gloria di Primavera, in programma lunedì 28 aprile alle 20. L’evento, realizzato in collaborazione con il Ministero dell’Università e della Ricerca e il Conservatorio di Palermo, arriva nella capitale dopo la prima tappa al Teatro Massimo di Palermo e sarà seguito da un’ulteriore esecuzione al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli il 29 aprile. Protagonista della serata l’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori Italiani, diretta da Ignazio Maria Schifani, al suo debutto al Costanzi. Sul palcoscenico anche cinque solisti: Jiayu Jin (Primavera), Martina Licari (Estate), Chiara Brunello (Autunno), Luca Cervoni (Inverno) e Antonino Arcilesi (Giove). La Gloria di Primavera, serenata mai eseguita prima all’Opera di Roma, è un capolavoro maturo di Scarlatti, riportato all’attenzione del pubblico solo in tempi recenti, dopo secoli di oblio. Commissionata nel 1716 dal principe napoletano Gaetano d’Aragona per celebrare la nascita dell’arciduca Leopoldo, la serenata unisce splendore musicale e suggestioni allegoriche: le quattro stagioni, personificate, si sfidano per la supremazia, mentre Giove decreta la vittoria della Primavera, simbolo del rinnovamento dinastico. Il libretto non manca di riferimenti storici alla guerra di successione spagnola e alla pace di Utrecht, restituendo un ritratto vivido dell’Europa del primo Settecento. Ignazio Maria Schifani, clavicembalista, organista e direttore palermitano di fama internazionale, guida l’ensemble barocco, fondato a Palermo nel 2016 e già riconosciuto per l’interpretazione raffinata del repertorio antico. Con questo concerto si apre il percorso sinfonico della Stagione 2024/25 dell’Opera di Roma, che proseguirà il 10 maggio con James Conlon e si concluderà il 26 settembre 2025 con il debutto di Diego Ceretta. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL MEDICO DEI MAIALI
con Luca Bizzarri, Francesco Montanari, David Sebasti, Mauro Marino
testo e regia di Davide Sacco
scene Luigi Sacco
costumi Annamaria Morelli
luci Luigi Della Monica
musiche Davide Cavuti
aiuto regia Claudia Grassi
amministratore di compagnia Luigi Cosimelli
Ente Teatro Cronaca, LVF-Teatro Manini di Narni
Roma, 24 aprile 2025
Davide Sacco si muove come un rabdomante nella terra desolata del Potere. E nel suo Medico dei maiali, in scena al Teatro Quirino, cesella – tra le pieghe di Shakespeare e le fenditure gelide di Carl Schmitt – una favola nera che odora di stalla, di morte, di sovversione impossibile. Qui il Potere è una peste sottile: chi lo sfiora, chi tenta di guarirlo, ne resta contaminato irrimediabilmente. La scena si apre su un’immagine quasi beckettiana: un corpo in ginocchio, la resa e la morte consumate in pochi battiti d’occhio. “THE KING IS DEAD”, sibila il neon livido sopra le nostre teste: e già tutto è compiuto, già tutto è compromesso. Un re d’Inghilterra, mai nominato, cade trafitto non da un nemico ma da mani fidate, da consiglieri che si proclamano salvatori della patria. Nulla di nuovo, penserete. Eppure Sacco, con una lingua che frusta e accarezza, che si fa bisturi e veleno, ci racconta l’eterno ritorno della dissoluzione morale con una freschezza tanto feroce da sembrare antica. Per certificare la morte del sovrano – e il suo assassinio che deve restare impunito – non c’è un medico di corte, bloccato dalla tempesta. Arriva invece un veterinario di maiali (un meraviglioso Luca Bizzarri, capace di affondare il suo talento comico in una recitazione di acciaio e tenerezza), improvvisato coroner, testimone e al tempo stesso artefice di una rivoluzione abortita. Il suo avversario designato, Francesco Montanari, interpreta il principe ereditario Eddy: idiota, cocainomane, involontario clown vestito da nazista a un gay pride. Un Enrico V capovolto, che all’ardore idealista sostituisce la vanità fatuamente criminale. E in questo ribaltamento, Sacco piazza il suo capolavoro: Eddy, pupazzo nelle mani del veterinario, inizia a respirare il profumo inebriante del comando, mutando in tiranno il suo ghigno ebete. Sacco orchestra questo duello di metamorfosi – tra servo e padrone, tra burattinaio e burattino – con una scrittura che evoca, più che imitare, Shakespeare: il suo Riccardo III, il suo Enrico IV, ma anche la putrefatta bruma di Macbeth. E il riferimento a Schmitt non è affettazione, ma grimaldello: se il Potere è decisione sovrana, qui ogni decisione è già corrotta nella sua origine. Ogni scelta, ogni movimento è destinato a produrre altro fango. La regia, chirurgica e trattenuta, non indulge mai nel compiacimento. La scena di Luigi Sacco è scabra, soffocante come una stanza d’albergo in Galles sotto un cielo nero di pioggia, mentre le luci di Luigi Della Monica tagliano le figure come lame chirurgiche: non vi è scampo, né riparo. Solo il lento, irresistibile sprofondare nella spirale del dominio. Che cos’è, allora, Il medico dei maiali? È una fiaba oscena sulla impossibilità di redimere il potere; è una risata soffocata nel gorgo di una modernità in putrefazione. È, soprattutto, un apologo tragico su quel momento impercettibile – e fatale – in cui il carnefice scopre di amare il proprio potere più della propria umanità. Davide Sebasti e Mauro Marino, interpreti dei consiglieri assassini, innestano nelle pieghe della narrazione una dimensione ancora più torbida: quella della ragione di Stato, della necessità superiore che giustifica ogni crimine. E intanto il pubblico, inchiodato a una claustrofobia teatrale impeccabile, assiste alla progressiva scomparsa dell’innocenza. C’è qualcosa di irrimediabilmente nostro in questa Inghilterra fittizia, in questo teatro della crudeltà che ha il passo felpato di una commedia e il morso avvelenato di una tragedia. Come non pensare, dietro il costume da nazista di Eddy, allo scandalo che travolse il principe Harry? Come non riconoscere, nei ghigni e nelle smorfie dei potenti, l’eco grottesca delle nostre democrazie svuotate? Alla fine, resta solo il silenzio. Un silenzio colpevole, malsano, pieno di quei pensieri inconfessabili che lo spettacolo ha saputo suscitare. Il medico dei maiali non pretende di offrire soluzioni. Non predica, non consola. Ma incide – con la precisione di un chirurgo crudele – una domanda nella carne viva dello spettatore: siamo anche noi parte di questo meccanismo? E se sì, a quale prezzo? È uno di quegli spettacoli rari, necessari, che riescono a raccontare la miseria e la grandezza dell’essere umano senza filtri, senza orpelli, senza bugie. E per questo, come accade con i veri capolavori, ci costringe – una volta usciti dal teatro – a camminare più lentamente, a pensare più a lungo, a guardare negli occhi la nostra personale ombra.
La prima domenica dopo la Pasqua, correttamente indicata nei libri liturgici con il termine in “Octava Paschae” oppure Domenica in “Quasi modo”, dalla prima dell’Introito (Quasi modo géniti infántes, rationábile, sine dolo lac concupíscite, ut in eo crescátis in salútem, allelúia, – Come bambini appena nati desiderate il genuino latte spirituale: vi farà crescere verso la salvezza. Alleluia) nota popolarmente con l’espressione Dominica in Albis, dalla consuetudine della chiesa cristiana dei primi secoli di amministrare il Battesimo, Domenica in albis vestibus depositis, la domenica in cui le bianche vesti vengono deposte, con riferimento alle tuniche bianche indossate dai nuovi battezzati per tutta la settimana successiva alla Pasqua, e tolte, appunto, la domenica dopo Pasqua. quando si procedeva al battesimo dei catecumeni che deponevano la veste per immergersi nella vasca e ricevere in tal modo il sacramento che segna l’ingresso ufficiale del credente nella Chiesa. Al battesimo fa riferimento una delle letture del giorno, tratta dalla prima lettera di Giovanni cap.5, vers.6-8: “Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, cioè Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che ne rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e i tre sono concordi.” L’altra lettura, al Vangelo, propone un passo ancora di Giovanni (cap.22 – vers.19-31): “…La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.”
L’episodio narrato da Giovanni si verifica dunque 8 giorni dopo la resurrezione ed è pertanto conseguente che la liturgia lo collochi all’Ottava di Pasqua. Per questa domenica Bach ci ha lasciato solo 2 cantate. La prima in ordine di tempo è Halt im Gedächtnis Jesum Christ BWV 67 (Ricordati che Gesù Cristo, è risuscitato dai morti) eseguita la prima volta a Lipsia il 16 aprile 1724, a Lipsia. I testi di Nikolaus Herman (1480-1561), Jakob Ebert (1549-1615), Christian Weiss (1671-1737) e Solomo Franck (1659-1725) sono ispirati ai dubbi che pervadono gli apostoli dopo la resurrezione di Gesù. Nel coro iniziale spicca il tono solenne con il quale viene enunciata e ripetuta la parola “Halt”(Ricordati), mentre un melisma ascendente associato alla parola “Auferstanden” (Resuscitato). Il concetto della paura è ribadito anche nella successiva aria bipartita del tenore, con oboe obbligato: “Il mio Gesù è risorto, perché ho paura?”. Le frasi spezzate del canto e della parte strumentale, trasmetto questo senso di gioia ma anche di timore.
Seguono due recitativi “secchi” del contralto, inframezzati da un Corale sulla gioia della Pasqua. Fulcro della Cantata, e pagina di grande originalità, l’aria del basso con coro. Il tema è ancora quello del dubbio individuale e dell’esperienza comunitaria della Resurrezione. L’aria si apre con un motivo agitato di archi in tempo di 4/4 che sfumanon in un terzetto di flauti e due oboi d’amore, in una meldia quasi di danza in tempo di 3/4 che accompagna la voce del basso (Gesù) che canta le parole “Pace a voi”. Questi due caratteri radicalmente diversi si alternano durante tutto l’aria. Alla musica concitata si collegano gli interventi del Coro (i soprani, i contralti e i tenori) che implorano Gesù di aiutarli nella loro battaglia contro Satana. A poco a poco i due tipi di musica si insinuano l’uno nell’altro. Nell’ultimo segmento di tempo in 4/4 si sente Gesù “agitato” che canta la sua “Pace a voi” al di sopra del tumultuante coro. Un rasserenante Corale, chiude la Cantata. Un’ultima notazione della storia dell’nterpretazione bachiana: questa è stata la prima cantata bachiana ad avere un’incisione discografica nel 1931.
Nr. 1 – Coro
Ricordati che Gesù Cristo,
è risuscitato dai morti.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Il mio Gesù è risorto,
di cosa ho ancora paura?
La mia fede riconosce la vittoria del Salvatore
ma il mio cuore percepisce ancora conflitti e
battaglie, appaia dunque la mia salvezza!
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Mio Gesù, tu che sei conosciuto come lo sterminio
della morte e la peste degli inferi: 2
ah, sono ancora assalito da paure e pericoli!
Tu stesso hai posto sulle nostre bocche
un canto di lode che noi abbiamo intonato:
Nr.4 – Corale
E’ apparso il giorno glorioso
di cui non si può mai gioire abbastanza:
Cristo, nostro Signore, oggi trionfa,
ha imprigionato tutti i suoi nemici.
Alleluia!
Nr.5 – Recitativo (Contralto)
Sembra ormai
che la schiera dei nemici,
che mi appare sempre più grande e spaventosa,
non mi lascerà in pace.
Ma visto che hai ottenuto per me la vittoria,
combatti ora al mio fianco, con il tuo bambino.
Si, si, già la fede ci fa percepire
che tu, Principe della Pace,
compirai in noi la tua Parola e la tua opera.
Nr.6 – Aria (Basso e Coro)
Basso:
La pace sia con voi!
Coro (Soprano, Contralto, Tenore)
Che gioia per noi! Gesù ci aiuta a combattere
e contenere la furia del nemico,
inferno, Satana, vade retro!
Basso
La pace sia con voi!
Coro
Gesù ci porta la pace
e a noi affaticati rinfranca
sia il corpo che l’anima.
Basso
La pace sia con voi!
Coro
O Signore, aiutaci e rendici capaci
di raggiungere attraverso la morte
il tuo Regno glorioso!
Basso
La pace sia con voi!
Nr.7 – Corale
Principe della Pace, Signore Gesù Cristo,
vero Dio e vero uomo,
tu sei un soccorritore potente
nella vita e nella morte:
perciò solo
nel tuo nome
possiamo invocare il nostro Padre.
Traduzione Emanuele Antonacci