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Musica corale

Verona: tutte le sinfonie e i concerti di Brahms in quattro appuntamenti al Filarmonico

gbopera - Ven, 22/03/2024 - 00:41

Il primo appuntamento è affidato ai giovani talenti più brillanti del panorama sinfonico italiano: il 5 e il 6 aprile solisti del crepuscolare Doppio concerto per violino, violoncello e orchestra saranno Giovanni Andrea Zanon e Luca Giovannini col giovanissimo direttore Diego Ceretta al debutto con l’Orchestra di Fondazione Arena. In programma anche la Prima sinfonia in do minore, opera che consacrò Brahms al grande pubblico come erede di Beethoven, tanto da essere chiamata “la Decima”.
Nel secondo appuntamento, il 12 e il 13 aprile, è la volta della Seconda sinfonia in Re maggiore, che evoca luci e ombre della natura, tra impetuosità e idillio quasi pastorale. A dirigere l’Orchestra areniana sarà per la prima volta lo svizzero Christoph-Mathias Mueller, nella sinfonia e nello spettacolare Concerto per violino e orchestra, in cui solista sarà uno dei violinisti più acclamati al mondo degli ultimi quarant’anni: Frank Peter Zimmermann.
Il 3 e il 4 maggio si prosegue con la potente e personalissima Terza sinfonia in Fa maggiore, che contiene il brano forse più celebre di tutta la produzione brahmsiana per grande organico. Sul podio dell’Orchestra di Fondazione Arena tornerà Franz Schottky, che accompagnerà anche l’indimenticabile Secondo concerto per pianoforte e orchestra, vertice del genere, godibilissimo per il pubblico ma di estrema difficoltà esecutiva per il solista: il quale sarà un interprete d’eccezione, il pianista Pietro De Maria.
A chiudere il ciclo è l’ultima sinfonia del maestro di Amburgo, accostata al suo primo grande brano concertistico: il 10 e il 11 maggio, il maestro Eckehard Stier, dopo il successo dell’inaugurazione sinfonica 2023, tornerà a dirigere l’Orchestra di Fondazione Arena nella Quarta sinfonia in mi minore, capolavoro in cui l’esperienza di una vita si tinge della poesia dell’autunno. A completare il programma, il titanico Primo concerto per pianoforte e orchestra, che avrà come solista l’acclamata Lilya Zilberstein.

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Roma, Arimondi Circle: “Azzurra Primavera” 100 ritratti oltre l’immagine

gbopera - Gio, 21/03/2024 - 23:51

Roma, Arimondi Circle
Via Arimondi 3

AZZURRA PRIMAVERA: 100 RITRATTI OLTRE L’IMMAGINE
In una Roma vibrante al ritmo dei primi anni di Madonna, Azzurra Primavera si avventura nel mondo della fotografia. Ancora adolescente, affascinata da MTV e “Beautiful”, cattura i volti dei divi del soap opera con la sua macchina fotografica davanti all’Hotel Excelsior. Le sue prime fotografie, rivendute ai compagni di scuola, non tardano a guadagnarsi l’attenzione e la pubblicazione su popolari riviste settimanali. L’intraprendenza la porta anche negli studi Dear di Roma, dove, grazie alla tenacia che colpisce Pippo Baudo, riesce ad accedere e a fotografare dietro le quinte. Dopo un breve flirt con gli studi in scienze politiche, interrotto da un “attacco di appendicite”, Azzurra Primavera sceglie definitivamente il percorso della fotografia. I suoi esordi professionali la vedono immersa nel teatro romano, dove ha l’occasione di ritrarre figure leggendarie come Giorgio Albertazzi e Gigi Proietti, consolidando così la sua vocazione per il ritratto nello spettacolo, ambito in cui diventa presto un punto di riferimento per agenti e produttori. Il suo lavoro, che abbraccia il cinema e il teatro, si guadagna le pagine delle principali testate nazionali e internazionali, mentre Primavera prosegue la sua esplorazione artistica focalizzandosi sugli emarginati e i dietro le quinte teatrali. Riconosciuta per il suo contributo al mondo della fotografia, viene scelta come giurata per il prestigioso premio Canon nel 2013, insieme a nomi del calibro di Giovanni Gastel e Adriano Brusaferri. Con una vita scandita da continui salti da un set all’altro, incontri con giovani talenti, un amore per la Pop Art, lo street food e le feste, Azzurra Primavera incarna lo spirito di una fotografa sempre in movimento, con una particolare predilezione per l’energia pulsante di New York. L’ Arimondi Circle di Roma ha avuto l’onore di presentare la prima mostra individuale dedicata alla fotografa italiana contemporanea Azzurra Primavera. Curata con maestria da Cesare Biasini Selvaggi e Barbara Santoro, l’esposizione ha offerto un’affascinante retrospezione sull’itinerario umano e professionale della Primavera, mettendo in luce oltre cento delle sue opere, tra cui numerosi inediti che hanno rivelato nuove dimensioni del suo sguardo artistico. La rassegna, vivacemente promossa da Luisa Melara, presidente di Arimondi Circle, ha delineato con chiarezza il profilo di Azzurra Primavera come creatrice di immagini profondamente umane e libere, dotate di un marcato senso sociale. Attraverso i suoi scatti, l’artista ha sempre esplorato tematiche di grande attualità, come la condizione degli emarginati e la lotta per i diritti civili, tematiche che hanno trovato nuova conferma e visibilità attraverso la scoperta dei suoi lavori inediti. L’itinerario espositivo si è articolato in cinque sezioni cronologiche, ripercorrendo l’evoluzione artistica di Primavera. L’avventura ha preso avvio negli anni ’90 con “Un anno in camerino”, una serie di ritratti intimi realizzati nei dietro le quinte dei più celebri teatri romani. Questi scatti inediti hanno immortalato momenti di genuina spontaneità, come se l’obiettivo di Primavera fosse capace di rendere invisibile la sua presenza. La mostra ha proseguito con “ROM/mania”, un progetto che ha raccontato storie di vita e comunità attraverso il linguaggio fotografico, andando oltre la superficie delle immagini per toccare l’essenza delle persone ritratte. Questi lavori sono emersi da un’interazione spontanea e umanamente ricca con la comunità rom del quartiere Monte Sacro, dove Primavera vive e lavora. Altro momento saliente è stato la documentazione del World Pride del 2000 a Roma, evento che ha visto Primavera catturare l’energia e lo spirito di una manifestazione memorabile per i diritti LGBT, affiancata dalla storica amica e attivista Imma Battaglia. La sezione “Wanted” ha poi messo in evidenza i ritratti che hanno segnato gli ultimi vent’anni della fotografia italiana di spettacolo, con opere che hanno decorato le copertine di prestigiosi magazine e pubblicazioni nazionali e internazionali. Infine, la mostra ha offerto un’anteprima di “L’attesa”, l’ultimo ciclo di lavori di Primavera incentrato sui momenti di intima concentrazione che precedono l’entrata in scena degli attori, esplorando così una nuova dimensione del suo linguaggio visivo. Gli scatti di Azzurra Primavera sono un’esplorazione profonda dell’animo umano, in cui le fotografie assumono una vita propria, scrutando lo spettatore con occhi penetranti e vigili. In questa dinamica straordinaria, il soggetto raffigurato diventa il narratore della propria vicenda, donando alle opere un’energia unica e coinvolgente. Le sue fotografie rappresentano un’immersione profonda nell’intimo dell’essere umano, in cui le immagini prendono vita propria, osservando lo spettatore con occhi vigili e penetranti. In questo dinamismo straordinario, il soggetto ritratto si rivela come il narratore della propria storia, conferendo alle opere un’energia unica e coinvolgente. La purezza delle sue fotografie è evidente, prive di qualsiasi artificio. Nessun dettaglio è trascurato ed ogni elemento è pregnante di significato, emanazione di un’immagine già presente nella mente del fotografo, pronta a prendere forma grazie al contesto, al soggetto e al momento preciso del suo processo creativo. Tuttavia, al di là della superficie delle sue opere, traspare un’intimità toccante e autentica, carica di insicurezza e fragilità umana. Questa comprensione emotiva permea ogni scatto, ammorbidendo e rendendo più accettabili le imperfezioni del momento. È un abbraccio consolatorio, una rassicurazione silenziosa che avvolge lo spettatore, invitandolo a immergersi completamente nell’esperienza visiva ed emotiva senza timore alcuno. La scelta poi di strutturare la mostra  all’interno di uno spazio domestico aumenta la percezione circolare di chi si espone e narra nello scatto un parte di sé. Lo sanno bene i curatori, che non a caso hanno saputo amplificarne l’effetto anche attraverso impattanti proiezioni. La mostra esplora in modo approfondito la vasta gamma di approcci adottati dall’artista nei confronti dei soggetti che ritrae, spaziando dalla documentazione sociale alla comunicazione politica. È un percorso che rivela la sua maestria nell’utilizzare la metonimia più della metafora e del simbolo, evidenziando la sua capacità, ancora oggi commovente, di narrare il reale. Tra lievi sfocature e una precisa focalizzazione sul “cuore” del soggetto, l’artista riesce a comunicare con una forza scalciante. Questa esposizione è un’opportunità imperdibile per immergersi nelle opere di un talento così eclettico ed attuale. Photocredit@AzzurraPrimavera

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“Un pianoforte per Padova” – Nikolay Lugansky

gbopera - Gio, 21/03/2024 - 18:55

Lunedì 25 marzo 2024, alle ore 20.15, all’Auditorium Pollini di Padova, ritorna, dopo lo strepitoso successo riscosso nel 2021, il grande pianista Nikolay Lugansky, sempre per la stagione degli Amici della Musica di Padova, nell’ambito del ciclo “Un pianoforte per Padova”, il progetto sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, dedicato alle eccellenze pianistiche. La prima parte del programma include una scelta delle popolarissime Romanze senza parole di Mendelssohn e alcune celebri pagine di Chopin. La seconda parte è dedicata a versioni pianistiche di opere di Wagner, e precisamente Ingresso degli Dei nel Valhallada “L’Oro del Reno” e quattro scene dal “Crepuscolo degli dei, queste ultime nella trascrizione dello stesso Lugansky, che riesce a preservare la forza emotiva della musica di Wagner trasportandone sulla tastiera la potenza, la densità e il lirismo, e offrendoci al tempo stesso una interessantissima lezione interpretativa. Foto@J.B.Millot
Per info: www.amicimusicapadova.org – info@amicimusicapadova.orgTel. 049 8756763

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Roma, Scuderie del Quirinale: “Napoli Ottocento” dal 27 Marzo al 16 Giugno 2024

gbopera - Gio, 21/03/2024 - 11:30

Roma, Scuderie del Quirinale
NAPOLI OTTOCENTO
Dal 27 Marzo al 16 Giugno 2024
La mostra è un omaggio all’Ottocento napoletano, momento di straordinaria ricchezza e vivacità in Italia e in Europa. Questo secolo lungo viene da lontano, dal fascino cosmopolita del Grand Tour e si conclude con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. L’esposizione sintetizza la grande produzione culturale della città che accolse artisti provenienti da tutta Europa a dagli Stati Uniti, arrivati a Napoli per contemplare e dipingere le attrazioni di Pompei ed Ercolano, il mare, le montagne, le isole di Capri, Ischia e Procida, gli scenari della costa amalfitana e sorrentina, il folclore, la terra fangosa del Vesuvio, la vegetazione lussureggiante della Campania, lo splendore e il degrado, l’urbanistica e il pittoresco della vita napoletana che si mescolavano tutti in un costante abbaglio. L’Ottocento a Napoli è ancora oggi un secolo poco conosciuto e da scoprire. La mostra vi condurrà in un incredibile viaggio tra le visioni che la città partenopea è riuscita a suscitare e produrre e che hanno pervaso per oltre un secolo l’arte, l’architettura e l’immaginazione come poche altre culture hanno saputo fare. Nelle sale le opere, tra gli altri, di Ludwig Catel, William Turner, Thomas Jones, John Singer Sargent, molti esponenti della scuola di Posillipo, Portici e Resina, Anton van Pitloo, Giuseppe De Nittis, Ercole e Giacinto Gigante, con i loro paesaggi che furono, molto più che semplici vedute, immagini che invasero il mondo. A interpretare le storie e i sentimenti che serpeggiavano per la città Mariano Fortuny, i fratelli Palizzi e Domenico Morelli. E poi, quasi in maniera sorprendente, un francese la cui famiglia aveva radici napoletane: Edgar Degas. E ancora: Achille d’Orsi, Antonio Mancini e Vincenzo Gemito, fino ad arrivare a Burri e Fontana. Capitale italiana dell’Illuminismo, Napoli nel XIX secolo divenne anche un’importante metropoli scientifica, sede di una fra le più antiche università italiane, della prima scuola di lingue orientali in Europa, del primo museo di mineralogia, dei primi osservatori scientifici. Fu anche la città dei dibattiti positivisti, delle scienze giuridiche e matematiche, dove un’intensa dialettica legò le nuove scienze a un’estetica che rimase fedele alla grande tradizione realista che ha definito l’arte napoletana fin dal periodo barocco e caravaggesco.

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Roma, Teatro Sistina: “Jesus Christ Superstar” celebra i suoi anniversari

gbopera - Gio, 21/03/2024 - 10:06

Roma, Teatro Sistina
“JESUS CHRIST SUPERSTAR”
di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice
Versione di Massimo Romeo Piparo
con Lorenzo Licitra, Anggun, Frankie Hi-Nrg Mc, Feisal Bonciani
Jesus Christ Superstar“, al suo debutto, emerse come un’opera profondamente divisiva, sfidando le convenzioni tradizionali su Gesù Cristo con la sua natura irriverente e rivoluzionaria. Conquistando Broadway e il mondo, il musical affrontò temi di politica, opinione pubblica e censura, rimanendo fedele alla sua visione originale sotto la direzione di Norman Jewison e la produzione di Robert Stigwood. Il contesto culturale dell’epoca, influenzato dalla cultura hippy e dalle proteste contro la guerra in Vietnam, trovò in “Jesus Christ Superstar” un alleato che metteva in discussione le visioni conservative della religione, promuovendo un messaggio di amore e condivisione. Il musical incorporava elementi moderni e quasi ucronici, con Ted Neeley interpretando un Gesù che simboleggiava le minoranze oppresse. La sua narrazione audace, che presentava un Giuda interpretato dall’afroamericano Carl Anderson come figura tragica e complessa, sfidò le convenzioni e provocò il conservatorismo, innescando dibattiti e polemiche. Sorprendentemente, il film ricevette il plauso di Papa Pio VI, che ne apprezzò il tentativo di rinnovare l’interpretazione del Vangelo. Fedele alla struttura originale dell’opera e del film di cui questa versione è tributo , Piparo ha saputo modernizzare gli elementi scenici, scartando gli stereotipi anni ’70 a favore di un’estetica più contemporanea: via il pulmino hippy e i figli dei fiori, per lasciare spazio a personaggi in jeans e canottiere dei Lakers, iconici della moda odierna, ammiccando anche agli anni ’80. Questa scelta non intacca tuttavia il messaggio profondo dell’opera, voluto da Tim Rice mezzo secolo fa: la vicenda di Gesù assume un significato universale e intramontabile, proponendo una figura messianica profondamente umana, esposta alle paure e debolezze, conscia del proprio destino fin dalla nascita. Piparo eleva l’opera con dinamiche sceniche innovative, come l’uso di immagini video impattanti che accompagnano i momenti di sofferenza di Gesù, collegandoli a eventi drammatici della storia recente, dalle Torri Gemelle al genocidio palestinese. La scelta di rappresentare questa  sequenza di immagini durante la flagellazione di Cristo, in cui vengono mostrati vari martiri, può essere interpretata come un profondo tentativo di sensibilizzazione su tematiche che trascendono la mera narrazione religiosa per toccare sfere sociali e politiche molto attuali. Questa decisione artistica non è soltanto un richiamo alla sofferenza e al sacrificio, ma si trasforma in un potente strumento di riflessione sul concetto di martirio e sulle sue implicazioni nel contesto contemporaneo. L’entrata in scena di Giuda attraverso il tunnel principale del teatro, lo stesso percorso fatto dal pubblico, è una potente metafora della vicinanza tra il traditore e noi stessi, invitandoci a una riflessione profonda sulla natura umana e sulle sue contraddizioni. La performance beneficia dell’eccezionale contributo di un’orchestra dal vivo, guidata con abilità dal Maestro Friello. Egli ha mantenuto equilibrio e controllo, prevenendo che l’intensità dell’orchestra eclissasse le voci, anche nei frangenti di maggiore potenza sonora. Questa produzione si distingue per la sua impronta marcatamente internazionale, una scelta di stile che emerge chiaramente dalla decisione di eseguire l’intero repertorio in lingua inglese, evitando le consuete traduzioni in italiano che spesso caratterizzano le rappresentazioni nei teatri italiani. Questo approccio è ulteriormente valorizzato dall’uso di ampie citazioni del Vangelo, proiettate su un maxischermo durante i momenti più intensi e significativi dello spettacolo, creando un ponte tra la sacralità del testo e l’universalità del messaggio portato in scena. Feisal Bonciani, interpretando Giuda, dimostra coraggio nel confrontarsi con l’eredità di Carl Anderson, l’indimenticabile Giuda originale, onorandone la memoria senza incorrere in confronti azzardati. La sua performance vocale, sebbene a tratti non perfettamente controllata soprattutto nelle fasi iniziali dello spettacolo, evidenzia una crescita notevole. La sua incisiva presenza scenica, arricchita da un timbro profondamente soul,  gli assicura l’approvazione unanime del pubblico. Il teatro si accende di magia con l’entrata di Lorenzo Licitra, che emerge sulle note dell’iconico riff di trombe di “Superstar“, scatenando un’ovazione tra gli spettatori. Il cantante siciliano dispone di un’eccezionale capacità vocale, con una notevole versatilità di modulazione: dalla tecnica del falsetto, attraverso i passaggi più complessi, fino agli acuti più estremi, mantiene una precisione impeccabile. Si immerge nel ruolo con grande passione, anche se a tratti non sembra completamente immedesimato, risultando parzialmente distaccato in alcune parti della performance. Anggun, nei panni di una Maria Maddalena sensuale e misurata (fin troppo), si unisce al cast con performances vocali di alto livello in “Everything’s Alright” e “I Don’t Know How to Love Him“, dimostrando un’eccellente padronanza vocale, giocando abilmente con i virtuosismi che l’hanno resa celebre. La sua presenza scenica è ulteriormente valorizzata da tratti somatici asiatici, i quali evocano un’affascinante reminiscenza di Yvonne Elliman, l’attrice che interpretò Maria Maddalena nel celebre film. La vitalità dello spettacolo è arricchita dalle performance di Giorgio Adamo, un Simon Zealotes combattivo e pieno di energia, e da Claudio Compagno, che nei panni di Ponzio Pilato, offre un ritratto pieno di autorità e tormento interiore. Francesco Mastroianni e Paride Acacia, interpretando i sacerdoti antagonisti Caifa e Annas, aggiungono una dimensione di ironia ben dosata che alleggerisce la narrazione senza sminuirne la profondità. Il cast si completa con la presenza scenica di acrobati, trampolieri, mangiafuoco e ballerini, coordinati dalle coreografie di Roberto Croce, che contribuiscono a creare transizioni sceniche dinamiche e visivamente accattivanti. Un momento di intensa emozione si verifica con l’esecuzione di “Gethsemane“, un punto di forza dello spettacolo che vede Lorenzo Licitra eccellere, regalando al pubblico momenti di pura estasi vocale culminati in un acuto straordinario che scatena l’entusiasmo della platea. Il segmento più esilarante dello spettacolo è senza dubbio quello che vede come protagonista Frankie Hi-Nrg Mc nei panni di un Re Erode reinterpretato in chiave kitsch e surreale. Vestito con i classici attributi di un rapper degli anni Ottanta, Frankie trasforma “King Herod’s Song” in un’esibizione strabiliante, giocando con il pubblico in un crescendo di risate e applausi convinti. Uno spettacolo che, attraverso gli anni, si è saputo rinnovare pur rimanendo fedele alla sua essenza, riscuotendo un successo trasversale e continuo presso il pubblico di tutte le generazioni. Photocredit@GianlucaSarago

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“Il Campiello” di Wolf Ferrari al Teatro Filarmonico di Verona

gbopera - Mer, 20/03/2024 - 23:36

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2024
“IL CAMPIELLO”
Commedia lirica in tre atti su libretto di Mario Ghisalberti
Musica di Ermanno Wolf-Ferrari
Gasparina BIANCA TOGNOCCHI
Dona Cate Panciana LEONARDO CORTELLAZZI                                                      Lucieta SARA CORTOLEZZIS                                                                                Dona Pasqua Polegana SAVERIO FIORE                                                                Gnese LARA LAGNI
Orsola PAOLA GARDINA
Zorzeto MATTEO ROMA
Anzoleto GABRIELE SAGONA
Il Cavaliere Astolfi BIAGIO PIZZUTI
Fabrizio dei Ritorti GUIDO LOCONSOLO
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Francesco Ommassini
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Federico Bertolani                                                                                      Scene Giulio Magnetto
Costumi Manuel Pedretti
Luci Claudio Schmid
Nuovo allestimento di Fondazione Arena di Verona
Verona, 17 marzo 2024
A due anni da “Il segreto di Susanna” Verona torna ad omaggiare Wolf Ferrari con una delle sue opere più celebri, in un nuovo allestimento di Fondazione Arena. La passione del compositore per il teatro di Goldoni, coltivata sin dall’infanzia e di cui aveva già musicato altre quattro commedie, portò a compimento questa deliziosa vicenda umana e collettiva che porta in piazza aspirazioni, passioni e vicissitudini personali di un microcosmo qual è per l’appunto il campiello veneziano che fagocita il singolo nel vortice di un rituale popolaresco. Goldoni stesso definì la sua commedia “un intreccio di poco impegno e una peripezia poco interessante” dove i suoi personaggi sono incardinati nel tessuto sociale popolare veneziano eppure permeati di una certa universalità tale da rendere realistica la vicenda anche oltre la dimensione lagunare; sebbene gli usi e i costumi siano propri della realtà veneziana sono comunque comprensibili da ognuno. Ecco che il piccolo mondo evocato dal commediografo, quasi sospeso nel tempo e nello spazio, trova nella musica di Wolf-Ferrari, “goldoniano per disperazione” una dimensione che scorre al di là della semplice vicissitudine umana; egli affida all’orchestra ciò che non può dare ai cantanti, costretto dal testo nei declamati cerca rifugio nel respiro sinfonico degli intermezzi. L’opera lirica fu composta durante il ventennio fascista; nonostante il regime perseguisse l’idea di una sola ed unica lingua nazionale, riconosceva nel lessico teatrale di Goldoni una forte connotazione italiana. L’equilibrio tra il tono popolaresco e la malinconia pervasiva, quale tratto fondamentale, offrono un delizioso quadretto di vita familiare, una sorta di cartolina offerta alla miope e superficiale visione nazionalistica; significativo l’addio di Gasparina all’odiata vita del campiello nel quale riconosce tuttavia il forte legame esistenziale. L’idea registica di Federico Bertolani parte proprio dal parallelo tra la storia da cortile, con le beghe e i litigi eppure sospesa nella sua fissa immobilità, e la storia universale che invece scorre inesorabile; nella scena irrompono alcune finestre temporali che mostrano scene di storia veneziana che culminano nel volere mostrare la fragilità della città: l’acqua alta con le paratie del Mose e l’ingombrante sagoma di una grande nave che compare e che è in qualche modo si collega al turismo selvaggio che la soffoca. Tutto ciò pero, all’interno di uno spettacolo tradizionale nell’ambientazione, a nostro parere non necessita di ulteriori invenzioni, tanto meno di trovate registiche discutibili che suonano come delle forzature. In realtà Bertolani sembra che con questi interventi voglia per forza dare un tocco di originalità in uno spettacolo già di per sé completo disturbando lo spettatore  proprio nei momenti più intensi e lirici di abbandono ed espressione musicale. Tale disturbo è tanto più fastidioso proprio nel momento più atteso, quel “Buondì Venezia cara”, di forte richiamo belliniano, un fermo immagine dove la malinconia infinita e la nostalgia prendono il sopravvento; momento intenso e struggente, tristemente vanificato dall’assalto di turisti a caccia di selfie. Questa incursione moderna nella realtà settecentesca veneziana, seppur attuale nel turismo lagunare, ha finito tuttavia per privare l’opera del suo finale naturale. Gradevoli le scene di Giulio Magnetto – un campiello soffocato dalla parete di fondo che si apre per mostrare le citate scene “storiche” e che, francamente di veneziano hanno un po’ poco, se non lo scorcio delle scale di un ponte), i costumi appropriati di Manuel Pedretti, mentre le luci di Claudio Schmid solo occasionalmente hanno creato un’atmosfera. La compagnia di canto si è dimostrata compatta ed affiatata pur senza brillare particolarmente nella componente attoriale e nella caratterizzazione. È pur vero che l’opera non gode di particolari momenti di distensione vocale (a parte l’aria finale) ma tra i solisti un buon rilievo si è avuto con il baritono Biagio Pizzuti (già ascoltato ne Il parlatore eterno di Ponchielli), un Cavalier Astolfi fiero ed aristocratico e dalla Gasparina di Bianca Tognocchi che, a dispetto del momento disturbato di cui riferiamo sopra, regala al pubblico un’intenso momento lirico nel commiato dal suo campiello. Le due coppie di amanti, formate l’una da Sara Cortolezzis (Lucieta) e Gabriele Sagona (Anzoleto) e l’altra da Lara Lagni (Gnese) e Matteo Roma agiscono con buona scena tra i sospetti e i pettegolezzi di piazza ma, in assenza di pagine vocalmente impegnative ci si poteva aspettare una maggiore presenza scenica. A completare il cast Guido Loconsolo (Fabrizio dei Ritorti), Leonardo Cortellazzi (Dona Cate Panciana), Saverio Fiore (Dona Pasqua Polegana) e Paola Gardina (Orsola). L’orchestra e il coro della Fondazione Arena erano diretti dal veronese (ma veneziano di nascita) Francesco Ommassini il quale ha portato in fondo la rappresentazione con buon mestiere ma senza evidenziare talune preziosità timbriche e sinfoniche di cui la partitura è disseminata; forse bisognoso di un maggior lavoro di approfondimento che avrebbe dato esiti musicalmente più scavati e profondi. Corretto come sempre l’apporto del coro (il cui intervento era comunque ridotto ad un interno nel secondo atto e al finale dell’opera), diretto da Roberto Gabbiani. Pubblico abbastanza numeroso e prodigo di consensi per questo allestimento che chiude la prima parte della stagione invernale, in attesa del festival areniano. Repliche venerdì 22 e domenica 24 marzo. Foto Ennevi per Fondazione Arena

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Roma, Museo Ebraico: “Bellissima Ester. Capolavori per una Regina” dal 20 Marzo al 24 giugno 2024

gbopera - Mer, 20/03/2024 - 19:15

Roma, Museo Ebraico
BELLISSIMA ESTER. CAPOLAVORI PER UNA REGINA.
In occasione della festività ebraica di Purim, la Comunità Ebraica di Roma e la Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, in collaborazione con il Museo Nazionale dell’ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara (MEIS), presentano la mostra “Bellissima Ester. Capolavori per una Regina”. La mostra sarà aperta sino al 24 giugno 2024. Il percorso espositivo, costituito a 40 opere tra pergamene miniate, dipinti, disegni, manoscritti, volumi antichi e fotografie, analizza l’affascinante figura di Ester nei secoli, fonte di ispirazione e protagonista di romanzi, pellicole cinematografiche, pièce teatrali, musicali, e soprattutto di opere pittoriche. “Una mostra culturale, storica, artistica importante per la nostra città” ha detto Miguel Gotor, assessore alla cultura del Comune di Roma, durante la conferenza stampa di ieri. L’esposizione, a cura di Olga Melasecchi, Amedeo Spagnoletto e Marina Caffiero, raccoglie e restituisce al pubblico un viaggio tra le più antiche e pregiate Meghillot Estèr esibite insieme per la prima volta con le loro miniature e decorazioni uniche. “In questa bella giornata di primavera poter celebrare una donna come Ester è un bellissimo messaggio. Questa esposizione, ospitata nel nostro meraviglioso museo, è una vera gemma per la Comunità Ebraica” ha affermato Victor Fadlun, Presidente della Comunità Ebraica di Roma. Veri capolavori di arte ebraica, realizzati presso le Cinque Scole dell’antico ghetto di Roma, altri commissionati da privati, conservati per anni presso le famiglie, e donati successivamente al Museo Ebraico di Roma. “Il percorso espositivo si arricchisce inoltre di opere della pittura italiana rinascimentale e barocca, realizzate da artisti del calibro di Michelangelo Buonarroti e Jacopo del Sellaio. Opere d’arte raffiguranti le vicende e i personaggi della storia di Ester. Un’occasione straordinaria per comprendere come la storia biblica sia stata rappresentata all’interno e all’esterno del mondo ebraico” ha spiegato Olga Melasecchi. Una giornata all’insegna dell’arte che si è conclusa all’interno del Museo Ebraico con una tradizione storica della scuola ebraica: la recita dei bambini, il modo migliore per celebrare la festa più amata dai più piccoli.

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Roma, Teatro India: “La dodicesima notte ( o quello che volete)”

gbopera - Mer, 20/03/2024 - 10:17

Roma, Teatro India
LA DODICESIMA NOTTE (O QUELLO CHE VOLETE)
di William Shakespeare
traduzione Federico Bellini
adattamento e regia Giovanni Ortoleva
con (in ordine alfabetico) Giuseppe Aceto, Alessandro Bandini, Michelangelo Dalisi, Giovanni Drago, Sebastian Luque Herrera, Anna Manella, Alberto Marcello, Francesca Osso, Aurora Spreafico
scene Paolo Di Benedetto
costumi Margherita Baldoni
luci Fabio Bozzetta
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Centro D’arte Contemporanea Teatro Carcano, Arca Azzurra
partner di produzione Gruppo Ospedaliero Moncucco
Nel panorama teatrale, “La dodicesima notte” di William Shakespeare è comunemente percepita come un’opera di elevato spessore, celebrata come una delle sue commedie più brillanti, eppure, al contempo, è considerata un testo di formidabile complessità e insidiosità. Questa percezione ne fa un vero e proprio banco di prova per chiunque si cimenti nella sua messinscena, tanto che la sua presenza nei programmi delle stagioni teatrali si rivela piuttosto rara. Giovanni Ortoleva, con una scelta audace, porta “La dodicesima notte (o quello che volete)” sul palcoscenico, inserendola nella sua ricerca sulla trilogia dell’amore iniziata con “Lancillotto e Ginevra”. Questa nuova produzione del LAC, debuttata a Lugano e approdata in prima nazionale a Genova presso il Teatro della Tosse – che collabora nella co-produzione con il Teatro Carcano e Arca Azzurra – rappresenta un’ulteriore conferma del forte legame di Ortoleva con questa istituzione teatrale, di cui è stato regista residente fino al 2024 e che ha ospitato gran parte dei suoi lavori precedenti. Ortoleva descrive l’opera come una commedia che trascende la definizione convenzionale del genere, presentandosi come un testo ibrido in cui i personaggi, mosso da un amore idealizzato, si agitano in una continua e ossessiva ricerca dell’affetto, echeggiando la figura di Don Chisciotte e anticipando tematiche care a Cervantes. La trama si snoda attraverso una serie di equivoci e travestimenti, al centro dei quali troviamo la storia dei gemelli Viola e Sebastiano, sopravvissuti a un naufragio e separati dalle onde. Viola, assumendo l’identità di Cesario, si trova invischiata in una rete di affetti e malintesi che coinvolgono i nobili della corte della vedova Olivia. Parallelamente, la figura di Malvolio, il maggiordomo, si eleva a simbolo di un ordine destinato a essere sovvertito dall’irruzione dell’imprevisto e dell’inganno. Le dinamiche di potere e di desiderio si intrecciano, dando vita a un intricato balletto di personaggi che, sotto la guida di forze quasi divine – gli dei ex machina che, con dispettosa allegria, manipolano gli eventi – vanno incontro a svolte inaspettate, alimentando il fuoco di una commedia che si fa specchio dell’umana fragilità. La bravissima Francesca Osso (Feste), il buffone dalla saggezza velata di sarcasmo, emerge come il vero regista di questa follia collettiva. Con la sua presenza scenica e i suoi interventi puntuali, non solo sottolinea il carattere effimero e illusorio delle convenzioni sociali, ma guida lo spettatore attraverso il labirinto degli eventi, rivelando la profonda ironia e la critica sociale sottesa all’apparente leggerezza della trama. La scenografia di Paolo Di Benedetto reinventa lo spettacolo teatrale in un viaggio visivo e narrativo unico. Strutture maestose si elevano nell’ambiente teatrale, affiancate da bassorilievi di putti alati dalle dimensioni imponenti, colorati di un verde che simboleggia la malinconia amorosa al centro della narrazione. Questa visione emerge da un dialogo profondo e continuo con la regia, culminando in un’immagine finale che disorienta e affascina. Con un approccio minimalista ma incisivo, l’allestimento esalta la regia attraverso pochi elementi chiave, creando uno spazio che articolato su vari livelli, enfatizza le dinamiche sociali e personali dei personaggi. Volumi e superfici definiscono un ambiente dove ogni aspetto, dal posizionamento dei personaggi alla scelta dei colori, contribuisce a narrare una storia di amore intenso, torturato, esprimendosi attraverso un’estetica audace che cattura lo sguardo e il cuore. Il design dei costumi di Margerita Baldoni per la produzione si basa su un’interpretazione sofisticata delle corti di Orsino e Olivia, ritratte come enclavi di nobiltà moderna, distaccata e alla moda, dedita a indulgere in capricci erotici e bevute elaborate. In questo contesto di festa perenne, si muovono figure come i servi Malvolio e Maria, intrappolati in giochi di ambizione sociale e vendette giocose. Questo sfondo si tinge di due tonalità dominanti: il nero, simbolo di lutto nella corte di Olivia, e il blu, espressione di malinconia in quella di Orsino. Il giullare Feste diventa il punto di incontro di questi due mondi, incarnando la noia e il desiderio latente di entrambe le corti. Al di fuori di questi schemi cromatici si posizionano i personaggi marginalizzati dal dramma amoroso: Antonio, Andrea e Malvolio. I costumi di Viola/Sebastiano, con i loro dettagli unisex, sottolineano l’ambiguità di genere e l’attualissima riflessione sull’identità, raccontando di una donna che si maschera da uomo, esplorando i confini tra il sé e l’altro. In un allestimento che mescola modernità e decadimento, nove attori vivificano lo spazio scenico incarnando una società stratificata. Questi artisti passano da stati di inerzia a momenti di energia intensa, riflettendo il loro desiderio di cambiamento e accettazione della follia come veicolo di auto-scoperta. L’adattamento del testo da parte di Federico Bellini aggiunge attualità mantenendo la profondità dei personaggi. La decisione di Giovanni Ortoleva di assegnare il doppio ruolo di Viola e Sebastiano a Alessandro Bandini, già noto per il suo ruolo nel “Saul” del 2020, si rivela una scelta affascinante. L’uso scenico di un occhio di bue che illumina il protagonista, insieme ai nomi dei personaggi sussurrati da Feste, introduce una sovrapposizione identitaria che evoca un’interessante fluidità di genere. Questa dinamica si risolve in un finale inaspettato che celebra l’unione dei personaggi in una commistione di identità, suggerendo un’originale interpretazione della trama con un esito liberatorio e sensuale. Parallelamente, il personaggio di Maria, interpretato da una brillante Aurora Spreafico, emerge trionfante nella sua vendetta contro Malvolio, magistralmente rappresentato da Michelangelo Dalisi, conquistando non solo vendetta ma anche l’ammirazione di Sir Tobia attraverso una astuta manipolazione. Ottimo tutto il resto del cast : Giuseppe Aceto, Giovanni Drago, Anna Manella, Alberto Marcello, Edoardo Sorgente. Il pubblico ha accolto con entusiasmo gli interpreti, consacrando lo spettacolo con un successo unanime. photocredit@LucaDelPia

Categorie: Musica corale

Firenze: Daniele Gatti e l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino tra pathos e spiritualità

gbopera - Mer, 20/03/2024 - 09:46

Firenze, Teatro Maggio Musicale Fiorentino: Stagione 2023-2024 Gennaio – Marzo 2024
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Franz Joseph Haydn: Sinfonia n. 44 in mi minore (Trauer-Symphonie); Paul Hindemith: Nobilissima visione; Richard Wagner (1813-1883) Da Parsifal: «Incantesimo del Venerdì Santo» (atto III)
Firenze, 16 marzo 2024
Per riferire l’esito del concerto, realizzato nella sala Mehta (quasi sold out), basterebbe considerare il battito dei piedi e delle mani del pubblico alla fine del concerto al punto che, in una percezione più musicale ed inclusiva, poteva sembrare un ‘contrappunto’ doppio unito alle ‘voci’ dei musicisti dell’orchestra. Se, in generale, le prime parti si caratterizzavano per un vivido virtuosismo, smagliante fraseggio ed espressività, la compagine strumentale era talmente duttile da riuscire ad offrire un suono diverso per ogni partitura. La Sinfonia n. 44 di Haydn, nota come la Trauer-Symphonie (Sinfonia funebre) per desiderio (non sicuro) del compositore di far eseguire l’Adagio durante le sue esequie, ha evidenziato molti aspetti interessanti. La riduzione degli archi, il fagotto all’unisono ‘mimetizzato’ tra i violoncelli, effetti d’eco, ecc., annunciavano una certa attenzione alla filologia e alla prassi esecutiva della musica del XVIII secolo, mentre il principio, in senso lato, della variazione, già presentato all’inizio dell’ Allegro con brio, faceva presagire la volontà di Haydn di ‘stupire’ e gli stessi equilibri sonori sembravano proiettarsi verso una percezione più antica e grazie ad un’interpretazione ‘affettiva’ veniva restituito il senso più espressivo della partitura. All’orchestra bastava ascoltarsi e al direttore più che ‘dirigere’ gli occorreva una chironomia essenziale (spesso era solo la mano sinistra a modellare il melos e fraseggi) per restituire sonorità particolarmente suggestive e architetture formali inequivocabili. In questa insolita ‘tonalità classica sinfonica’ (mi minore), ecco la chiarezza dei due oboi che spesso raddoppiano i violini, i due corni che contribuiscono al ‘ripieno’ dell’armonia così come il perentorio incipit (mi-si, mi-re#) che, già dalla prima apparizione, sembrava annunciare la sua singolarità e volontà di rimanere fedele al monotematismo, pur lasciandosi cullare nell’alveo della forma sonata. Talmente significativo che non rinunciava a conservare alcuni tratti retorici barocchi come nell’ultima enunciazione del tema (dopo l’intervallo di quinta ascendente [mi-si]: inizio del canone in epidiapente) in cui bassi e viole portano avanti la linea cromatica discendente, autentico rimando allo stato d’animo del dolore (Passus duriusculus). Il principio contrappuntistico tra le voci era godibile e facilmente percepibile anche nel Menuetto Allegretto – Canone in diapason (mi minore) e Trio (mi maggiore), ove, come si evince dal testo, si intende la ‘canonica’ articolazione formale (minuetto seguito dal trio) e l’insistenza della tecnica contrappuntistica con un canone (distanza di una battuta e di un’ottava inferire) tra voci superiori e inferiori. Poi finalmente, quasi momento di tenerezza e di grande morbidezza sonora, anche grazie all’uso della sordina negli archi, l’Adagio (in mi maggiore) in cui Gatti riusciva a proporre, fin dall’unisono dei violini, una ‘calma’ proiettata verso la grande serenità d’animo. Con il Finale Presto vi è un ritorno all’unità (tonalità d’impianto, scrittura contrappuntistica, monotematismo, ecc.). L’inizio (mi – sol# – mi – re# – mi – fa# – la) presenta affinità con il I movimento e continua a non rinunciare alla forza e rigore contrappuntistico tanto che gli applausi degli ascoltatori sembravano dettati dall’ impulso sonoro iniziale, foriero di belle emozioni. Con Nobilissima visione Orchester-Suite (Suite per orchestra dal balletto omonimo) di Hindemith (prima esecuzione nel 1938) ci spostiamo di ca 160 anni: altro linguaggio e mondo sinfonico con un organico più ampio (coppia di legni, anche ottavino, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, una grande varietà di percussioni e il quintetto d’archi). Pur di fronte ad una tavolozza sonora così ricca colpisce già il primo movimento Einleitung und Rondo in cui il melos è suonato dai clarinetti insieme agli archi (unisono con i primi violini) e solo successivamente (Rondò) entra il flauto fino ad aggiungersi altri fiati evidenziando grande considerazione per il colore ora inteso non solo come arte dell’orchestrazione ma anche con riferimento all’arte pittorica. Infatti, pensando all’ispirazione del compositore tedesco tratta dagli affreschi giotteschi sulla vita di San Francesco d’Assisi in occasione della sua presenza (1937) nella Basilica fiorentina di Santa Croce, potremmo affermare che l’opera è in stretta relazione con la tecnica dei loci ove la percezione delle «imagines agentes», nell’interpretazione di Gatti, restituivano una serie di numeri che, nella traduzione sonora dell’orchestra, si trasfigurava in un autentico itinerario vitae del Santo di Assisi. Musica coinvolgente tanto che nella Marsch und Pastorale è bastato il solo dell’ottavino ad invitare altri solisti e le diverse sezioni dell’orchestra. In questo movimento centrale il direttore ha cercato la cura di ogni dettaglio, mentre l’orchestra restituiva tonalità delicate e appropriate. Il momento più rasserenante, nonostante la complessità della scrittura, è stato l’ultimo movimento (Passacaglia) in cui una luminosa sezione degli ottoni (4 corni, 2 trombe e 2 tromboni) apriva con il monumentale melos (guida sicura per tutto il movimento) che, nella sua reiterazione arricchito dalle numerose variazioni, per la chiarezza del fraseggio non è sfuggito a nessuno dei presenti in sala. Anche in questa occasione abbiamo notato una gestualità essenziale del direttore, la stessa semplicità francescana che, espressa mediante un linguaggio più consono, diventava luce talmente radiosa, serena, gaudiosa e necessaria per concludere con il wagneriano «Incantesimo del Venerdì Santo». Come il cavaliere Parsifal è alla ricerca del Santo Graal così la poetica ed intensa conduzione di Gatti, insieme alle vibranti note dell’orchestra, era sempre volta a fondere in un crogiuolo mitologia, fede e bellezza in un viaggio (dal poema medioevale Parzival alla realizzazione wagneriana) pur di ‘incantare’ il pubblico.

Categorie: Musica corale

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto: MusicAeterna & Teodor Currentzis interpretano Mozart

gbopera - Mer, 20/03/2024 - 01:28

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto
MusicAeterna
Direttore Teodor Currentzis
Fortepiano Olga Pashchenko
Soprano Elizaveta Sveshnikova
Controtenore Andrey Nemzer
Tenore Egor Semenkov
Basso Alexey Tikhomirov
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto per fortepiano e orchestra n.24 in do minore kv.491; Requiem in re minore per soli coro e orchestra kv.626.
Torino, 16 marzo 2024
La cinquantina di musicisti e la quarantina di coristi di musicAeterna, nelle mani del loro demiurgo Teodor Currentzis, sono una falange artistica che a definire semplicemente formidabile le si fa torto. Diversamente da altre occasioni, dopo avere diffuso la moda del suonare in piedi, in questa nuova circostanza, al Lingotto, suonano comodamente seduti. Anche l’organico strumentale ha subito interventi vistosi con l’introduzione di ottoni, corni, trombe e tromboni rigorosamente raddoppiati ma alla barocca, naturali senza pistoni. I legni sono ovviamente di legno e di foggia settecentesca, come i timpani smilzi e sonorissimi e i violoncelli sono trattenuti tra le ginocchia, come viole da gamba. Nel centro della compagine è steso un monumentale fortepiano che, diversamente da quanto affermato dalla solista, la validissima Olga Pashchencko, non è uno strumento utilizzato da Mozart ma una copia di un Paul McNully del 1792. Il mozartiano Concerto n.24 in do minore kv 491,che apre la serata, si rivela essere una prima delusione perché, in una sala così grande e molto affollata, il flebile suono del fortepiano si perde. L’orchestra, seppur “alla barocca”, attacca con un forte risoluto, di piglio assolutamente veemente e sonoro, come si trattasse di un pezzo beethoveniano; in questo rigoglio di suono, il timido tintinnio dei martelletti dello strumento antico si perde. È questo uno dei famosissimi ultimi concerti “per pianoforte” di Mozart e da troppi anni siamo abituati ad ascoltarlo dalle mani dei più grandi della tastiera, con dosaggi calibrati di suono e di sfumature che qui non esistono. La sola meccanicità visiva delle mani sulla tastiera è inefficace a vincere le barriere orchestrali e a imporsi come protagonista e anche le cadenze solistiche si risolvono in un timido mulinare di scale dal fraseggiare indistinto. La responsabilità della delusione non va imputata alla solista, ma alle scelte complessive di organizzatore, orchestratore di  Currentzis che si sono rivelati inefficaci ed inadatti al contesto e all’ambiente. Pareva di cogliere la presenza di diffusori acustici, posti sotto al corpo del fortepiano, ma, se presenti, in sala non se ne son colti gli effetti. Probabilmente la medesima esecuzione, in ambiente dalle dimensioni più contenute o in sala di registrazione, avrebbe certamente potuto rivelare maggiore preziosità di ricerca e più autenticità di approccio. A riscatto delle doti di Olga Pashchencko, inequivocabilmente penalizzate, lei stessa annuncia due fuori programma volti ad esaltane la consistenza. Dello sconosciuto Dmitry Bortnyansky (1751-1825) il Concerto per clavicembalo ed archi in un unico movimento, e di Beethoven Il Rondò all’ungherese (Collera per il soldino perduto) op 129. Entrambi sono stati eseguiti, con grande destrezza ed abilità, dalla Pashchenko, così da farle meritare l’ovazione che il generoso ed abbondante pubblico del Lingotto le ha tributato.
La seconda parte della serata è tutta spesa ad inscenare il Requiem kv.626, estrema e non-finita composizione mozartiana. Qui la rappresentazione esasperatamente drammatica che Currentzis mette in atto prevale su qualsiasi istanza di fedeltà alla lettera e allo spirito dell’opera. Siamo ben oltre alla drammaticità dei Don Giovanni di Furtwängler, di Klemperer e di Mitropoulos, anche se a quest’ultimo, forse per la comune origine greca, Currentzis parrebbe essersi volto. La rappresentazione che suona effettivamente contradditoria rispetto agli strumenti barocchi dell’orchestra, si avvia con i tempi larghissimi imposti all’attacco che sublimi oboi e corni di bassetto fanno della Musica funebre massonica kv 477/479 a, forzatamente imposta, come il successivo Requiem gregoriano, a mo’ di pronao del lavoro mozartiano. La sala viene precipitata in un buio assoluto, mentre una parte del coro maschile intona il mestissimo e suggestivo Graduale gregoriano. Si riaccendono progressivamente, con accorta regia, le luci e, senza pause, con un lentissimo Introito si avvia il mozartiano Requiem k626. Orchestra e coro, con una prestazione stellare, ne drammatizzano inverosimilmente, con tempi e sonorità tirate all’eccesso, il testo. Con un’ammirevole raggiunta compattezza, viene data una continuità che fa dimenticare la frammentarietà originaria conseguente al non-finito mozartiano e al completamento di Süssmayer, è superato anche il fastidioso effetto ripetitivo dato da alcuni fugati, dispersi nelle varie sezioni. Si intuisce come gran parte del numeroso pubblico sia in preda a una forte emozione che lo fa scatenare in un immediato applauso finale che Currentzis blocca (seccato?) sul nascere imponendo una lunghissima e opportuna pausa di silenzio. Formidabile le prestazioni di orchestra e coro, oggettiva testimonianza di una preparazione meticolosissima e di un accordo formidabile, a cui vanno associati i solisti di canto: Elizaveta Sveshnikova soprano dal timbro tagliente e penetrante, a cui non sempre riesce il pieno controllo della morbidezza degli acuti; Andrey Nemzer, controtenore, che ben illumina le sue frasi con voce bianca, dal morbido timbro infantile; Egor Semenkov sfoggia un chiaro e piacevole timbro di tenore lirico e ricorda alcuni Lenskij russi della storia del disco; Alexey Tikhomirov basso di buona tradizione dell’est presenta correttamente, in concorrenza con un affannato trombonista, il Tuba Mirum, ineludibile momento topico dell’opera. Il pubblico è quello delle grandi occasioni e così il successo incondizionato si manifesta con applausi prolungati, sostenuti e più volte replicati. Foto© Mattia Gaido

Categorie: Musica corale

Modena, Teatro Comunale: “Turandot”

gbopera - Mar, 19/03/2024 - 10:03

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2023-2024
TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni dalla fiaba teatrale omonima di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot LEAH GORDON
Limperatore Altoum RAFFAEL FEO
Timur, re tartaro spodestato GIACOMO PRESTIA
Il principe ignoto Calaf ANGELO VILLARI
Liù, giovine schiava JAQUELINA LIVIERI
Ping, grande cancelliere FABIO PREVIATI
Pang, gran provveditore SAVERIO PUGLIESE
Pong, gran cuciniere MATTEO MEZZARO
Un Mandarino BENJAMIN CHO
Prima ancella HAOYOUNG YOO
Seconda ancella ELEONORA NOTA
Principe di Persia ALFONSO COLOSIMO
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Coro Lirico di Modena
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Voci bianche del Teatro Comunale di Modena
Direttore Marco Guidarini
Maestro del Coro Corrado Casati
Maestro delle Voci bianche Paolo Gattolin
Direttore Marco Guidarini
Regia, coreografia, scene e luci Giuseppe Frigeni
Ripresa di Marina Frigeni
Costumi Amélie Haas
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Ravenna Manifestazioni, Teatro Galli di Rimini.
Allestimento Teatro Comunale di Modena
Modena, 17 marzo 2024
È sempre lei, la Turandot, col suo Finalino secondo del povero Alfano bacchettato dalla bacchetta più bacchetta del secolo (assai più fragrante, a unanime giudizio, è la sua prima versione), e persino con quel consuetissimo interventino di micro-chirurgia le cui ragioni restano tuttavia insondabili sulla frase dei ministri “Ne abbiam visti arrivar degli aspiranti! O quanti! O quanti!”. Con l’ottima Toscanini in buca e il Maestro Marco Guidarini sul podio c’è tutto quello che ci deve essere: manca forse la magia. I colori cangianti e fascinosi di questo seducente e mitico notturno, luccicante di esotismo fiabesco. Insomma l’orchestrazione inarrivabile dello stregone Puccini, un manto sfumato e fuggevole che si posa (e si porta) su tutto, e che non ha rivali nemmeno in campo francese. Giuseppe Frigeni imprime allo spettacolo una pulizia di design: sicché spazza via ventagli variopinti, lanternucole e lacche rosse che infestano gli allestimenti cosiddetti tradizionali, ma con quelli sparisce anche qualcosa che dell’opera, piaccia o meno, è. Restano però, dell’usurato apparato di stereotipi che il titolo si porta dietro, i passettini e le mossette da macchietta orientale (che presto il politicamente corretto ci farà rimpiangere): ma difficilmente possono bastare come risposta visiva alla crescente pompa musicale fra primo e secondo quadro dell’atto secondo. Rinunciataria la scelta di relegare il coro (anzi i cori: Coro Lirico di Modena più Coro del Teatro Municipale di Piacenza, il Maestro è Corrado Casati) ai margini della scena, in fila per due (senza resto). Scena che si compone di una vasta scalinata la cui porzione centrale può scorrere verso il fondo scena rivelando, nel primo atto, le teste mozzate degli incauti contendenti (assai belle ed efficaci, ispirate forse all’esercito di terracotta che il primo Imperatore Qin, il muragliaro, si fece forgiare per portarselo nell’Aldilà) e poi, nel terzo, il cadavere di Liù, che resta significativamente in scena sino alla fine. Rispettata, purtroppo, anche l’abitudine di piazzare la protagonista quanto più in alto e lontano possibile sulla scena, fatto che penalizza la resa della bella voce di Leah Gordon, dai centri assai ben timbrati, ma talvolta troppo sbrigativamente sguinzagliata nel registro acuto. Solidità encomiabile invece quella di Angelo Villari, con un mezzo vasto e squillante, qua e là opacizzato forse da una leggera stanchezza. È un tenore di forza bruta, che può puntare sulla spettacolarità muscolosa di una voce grande più che su sfumati giochi di dinamiche e mezzevoci: ma che può supplirvi con una ricerca cromatica. Dal suo accento, dal suo fraseggio, si tradisce appassionato e rimuginante ascoltatore dei vecchi dischi amati da tutti i vociomani del mondo. Jaquelina Livieri, Liù, ha voce dal timbro tenero e dolce, come si conviene al personaggio, e una corposità vocale che è forse meno consueta per il ruolo, e tuttavia graditissima. Adombrato dai piccoli inconvenienti delle recite dal vivo quel “sorriso” ricevuto da Calaf un dì, nella reggia di Timur. Timur di grande lusso con Giacomo Prestia che come tutti i grandi indossa la boccoluta parrucca da Mosè e fa rivivere i fasti del suo glorioso, sontuoso, pastoso mezzo vocale. Impegnati in un intricato tessuto coreografico e contemporaneamente nelle loro parti vocali sono i tre personaggi la cui statura non viene mai debitamente riconosciuta: stiamo parlando nientepopodimeno che del Grande Cancelliere Ping, Fabio Previtati, del Gran Provveditore Pang, Saverio Pugliese, e del Gran Cuciniere Pong, Matteo Mezzaro: tre buone voci, la prima forse la più interessante nonostante piccoli segni di usura. Forse non sembra, ma in quest’opera uno scoglio sommerso che incute terrore ad ogni accorto ascoltatore (e Direttore Artistico) c’è, ed è il ruolo di Altoum. Più che ardua, la scrittura è scomoda, tale da produrre spesso e volentieri esiti ridicoli: ma non qui, dove la parte è risolta con grande e solida dignità da Raffaele Feo. Completano il cast il Mandarino di Benjamin Cho e le due ancelle Haoyoung Yoo e Eleonora Nota. Foto Rolando Paolo Guerzoni

Categorie: Musica corale

Genova, Teatro Carlo Felice: “Beatrice di Tenda”

gbopera - Lun, 18/03/2024 - 22:33

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2023/24
BEATRICE DI TENDA”
Tragedia lirica in due atti di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Filippo Maria Visconti MATTIA OLIVIERI
Beatrice di Tenda ANGELA MEADE
Agnese del Maino CARMELA REMIGIO
Orombello FRANCESCO DEMURO
Anichino MANUEL PIERATTELLI
Rizzardo del Maino GIULIANO PETOUCHOFF
Orchestra e Coro  dell’Opera Carlo Felice
Direttore d’orchestra Riccardo Minasi
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Italo Nunziata
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Alessio Rosati
Luci Valerio Tiberi
Nuovo Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova in coproduzione con la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia
Genova, 17 marzo 2024
Nel parlare della “Beatrice di Tenda” in scena in questi giorni al Carlo Felice di Genova è fondamentale scindere bene tre aspetti della produzione: l’opera per quello che è intrinsecamente, la dimensione scenica e i risultati musicali. L’opera, sia detto una volta per tutte, è un capolavoro, che ad oggi non può e non deve più comparire tra le opere rare: per quanto drammaturgicamente presenti alcune farragini, la musica di Bellini riesce a sciogliere qualsiasi riserva. Le parti vocali sono ricchissime e complesse, i cori sono tra i migliori del repertorio belliniano, l’orchestrazione è travolgente e tutta tesa alla resa drammaturgica; insomma: occorre che compaia in molte più stagioni d’opera, in Italia e ancor più all’estero, dove è davvero un titolo caduto nel dimenticatoio. Detto questo, tributato il giusto plauso all’ottima scelta dell’Opera Carlo Felice, e forse proprio in virtù di questo, non si può non restare un poco interdetti nell’assistere a una messa in scena (curata da Italo Nunziata) decisamente troppo spoglia, per lo meno nel primo atto: il palco, organizzato su due livelli, e incorniciato da giganteschi quadri talvolta animati da proiezioni, è del tutto vuoto per la prima ora e mezza, e, ahinoi, non si ravvisa una regia abbastanza forte che lo riempia. In poche parole: è un primo atto tutto di pose, di luci di taglio (per quanto splendide, curate da Valerio Tiberi), di passeggiatine, di “salgo il gradino, scendo il gradino”, fino ad arrivare al paradossale duetto di Beatrice e Filippo in cui è più che evidente che i due interpreti non sappiano né cosa né come fare, giacché non è loro concessa manco una sedia, un qualsivoglia punto d’appoggio. Non basta l’eleganza dei costumi di Alessio Rosati, né la bella presenza scenica degli interpreti a riempire un vuoto, le cui ripercussioni si fanno presto risentire su una platea singolarmente assonnata (a parte per gli applausi in odor di delirio per la Meade). La riprova di questa fatale staticità sta nel fatto che al secondo atto bastano una decina di sedie e due tavoli per sembrarci molto più frizzante, sebbene alcune trovate non siano particolarmente riuscite (vedi sub vocem “girotondo del coro maschile”): insomma una regia letteralmente riuscita per metà, ed è un peccato, considerate le scelte senza dubbio eccentriche proposte dalla scena (ma che a noi son garbate, bravo Emanuele Sinisi, anche nella selezione delle foto di Ola Kolemhainen), così come dal voler ambientare la vicenda nel “futuro”, a fine Ottocento. Per fortuna che questa mezza riuscita viene letteralmente travolta dalle prove del cast vocale, davvero in stato di grazia. Abbiamo spesso già coperto di lodi – e sempre a ragione – l’americana Angela Meade (Beatrice), quindi su di lei non ci dilungheremo troppo: basti dire che è “la” Meade, in tutto e per tutto, col suo suono al contempo cristallino e tornito, i filati preziosi, le agilità precisissime, il fraseggio accorato;  Mattia Olivieri, giovane e fascinosissimo baritono puro, già visto in ruoli leggeri anche in piazze importanti, possiamo dire che qui ottenga una piena consacrazione: il suo Visconti è ben tratteggiato nelle linee di canto omogeneo, nel suono naturalmente morbido che si piega su accenti di tagliente crudeltà, nel fraseggio cui non fugge un tormento, un palpito, uno scatto. E dire che una comunicazione di servizio prima della recita ce lo dava per indisposto! Accanto a lui un sontuoso Francesco Demuro rende giustizia all’ardua tessitura di Orombello con una linea di canto ormai davvero collaudata; il suono è sempre piacevolmente esibito, ben portato, e scenicamente il tenore si spende con misura. Ci fa piacere ritrovare anche una Carmela Remigio vocalmente presente a se stessa, sebbene la Remigio sia sempre sul piano scenico che vinca la partita: la sua Agnese del Maino è splendidamente recitata, oltre che cantata, e attira l’attenzione anche nei concertati, oltre che nei duetti (superbo il terzetto finale con Beatrice e Orombello dalla quinta). È giusto lodare anche la bella prova di Manuel Pierattelli nel ruolo di Anichino, il fedele di Beatrice che tenta in ogni modo di scolparla: la voce di tenore forse un po’ generica si fa notare grazie a un’ottima tecnica e all’appropriato trasporto scenico. Apprezzabile pure la prova di Giuliano Petouchoff, nel breve intervento affidato a Rizzardo Del Maino. Il coro dell’Opera Carlo Felice – ottimamente istruito dal maestro Claudio Marino Moretti – fornisce una prova all’altezza delle aspettative, sia sul piano vocale che quello scenico. La concertazione del maestro Riccardo Minasi, invece, ha dato risultati più alterni: molto a suo agio nelle parti più eroiche, ci è parso poco morbido in quelle più liriche, e in alcuni momenti l’unità buca e scena ha vacillato; tuttavia Minasi ha saputo dare il giusto risalto a quella drammaturgia musicale di cui spesso abbiamo parlato, e che, come detto all’inizio, caratterizza specificamente quest’opera. Il pubblico ha calorosamente accolto la recita, con espressioni particolarmente affettuose nei riguardi della Meade e di Olivieri – sebbene per ragioni chiaramente differenti. Si replica fino al 22 marzo. Foto Marcello Orselli

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Elfo-Puccini: “Edipo re – Una favola nera”

gbopera - Lun, 18/03/2024 - 19:59

Milano, Teatro Elfo Puccini, Stagione 2023/24
EDIPO RE – UNA FAVOLA NERA”
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Edipo VINCENZO GRASSI
Giocasta/Voce/Coro MAURO LAMANTIA
Laio/Sfinge/Tiresia/Pastore/Voce/Coro FERDINANDO BRUNI
Creonte/Manto/Messaggero/Voce/Coro EDOARDO BARBONE
costumi di Antonio Marras realizzati da Elena Rossi e Ortensia Mazzei
maschere di Elena Rossi
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
Produzione Teatro dell’Elfo con il contributo di NEXT- laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo, Regione Lombardia e Fondazione Cariplo
Milano, 12 marzo 2024
Si parta da una considerazione chiara: non si fa mai abbastanza teatro antico, nemmeno nelle sue rielaborazioni moderne e contemporanee. Per questo qualunque riproposizione porta in sé un buon proposito che si spera venga mantenuto nella realizzazione dell’opera – e senza alcun dubbio questo “Edipo Re – Una favola nera” non può che assestarsi su una produzione di livello alto, trattandosi di una produzione dell’Elfo di Milano. Lo spettacolo è infatti godibile, con momenti più coinvolgenti di altri, ma comunque un ritmo serrato che probabilmente non ci si aspetterebbe dalla tragedia greca: infatti si ottiene fondamentalmente non portando in scena una tragedia greca, ma frammenti di sue rielaborazioni (da Seneca, Dryden, Cocteau e Berkoff, tra le più riconoscibili) cuciti insieme in un disegno unitario di stampo laboratoriale, con gli interpreti che impersonano vari ruoli, usano maschere, modificano voci e gestualità, il tutto immerso in un generale “arcaico steampunk”, che mescola periodi e stili nel nome dell’originarietà, del graffio, dello strappo, del vagito iniziale della civiltà. Tutto bello, tutti bravi gli interpreti, ma nulla di nuovo, né di sorprendente: la stessa struttura patchwork del testo ne tradisce la difficoltà di approfondimento, del personaggio come del testo; siamo di fronte a una specie di saggio di lusso sul mito di Edipo che, contemporaneamente, diviene un saggio di teatro – dalla tragedia nera romana, fino all’in-yer-face postcoloniale, passando dalla heroic tragedy della Restaurazione e dal dramma borghese esistenzialista. Francamente ci saremmo aspettati qualcosa di più da Bruni e Frongia, che qui sono più dei burattinai che degli effettivi registi; Ferdinando Bruni è poi anche interprete ancora freschissimo, fascinoso e ammaliante: la sua sfinge berkoffiana è più parente del leone de “Il mago di Oz” che un mostro vero e proprio, e per questo sa conquistarci; forse l’unico altro attore che sa mettersi in luce in questo turbinar di scene è Mauro Lamantia, che costruisce una Giocasta lacerata, soffertissima, eppure fermamente convinta a non lasciarsi condizionare da quel pensiero condiviso che chiamano “verità” – per lo più mutuata dalla “Machine Enfernale” di Coteau. Vincenzo Grassi invece è esattamente come ci aspetteremmo un Edipo in un contesto come questo spettacolo – ossia mezzo nudo e poco convincente, poiché tutto preso a recitare, a farci vedere che il suo Edipo di Seneca è diverso da quello di Dryden. La scena è invece parecchio interessante, funzionale ma anche impositrice di un’estetica chiarissima, una specie di parco-giochi dei primordi dell’umanità in cui i personaggi si muovono consapevoli del loro effimero; i costumi di Antonio Marras sono senz’altro un tocco di classe, e sembrano influenzare l’intero impianto scenico – le maschere di Elena Rossi sono del tutto ad essi complementari: non ci sembra possibile immaginare gli uni senza le altre. Belli ed evocativi i giochi di luci e proiezioni curati da Nando Frigerio, un ricamo sonoro efficace e puntuale quello fornito da Giuseppe Marzoli. Si replica a Milano fino al 29/03, a conclusione della seconda tournée. Foto Lorenzo Palmieri e Sara Deidda

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Al Teatro Lac di Lugano va in scena “Antonio e Cleopatra” di Shakespeare

gbopera - Lun, 18/03/2024 - 17:31

Tra il clangore delle armi e gli intrighi della politica, esplode il vitalissimo amore di Antonio e Cleopatra, eroi che eccedono ogni misura per affermare la loro infinita libertà. Valter Malosti e Anna Della Rosa, affiancati da un brillante cast di dieci interpreti, interpretano il capolavoro di William Shakespeare i cui versi sono tra i più alti ed evocativi di tutta l’opera shakespeariana, giocando con l’alto e il basso, la storia, l’eros e il potere. Antonio e Cleopatra sono gli straripanti protagonisti di un’opera basata sulle opposizioni: maschile e femminile, dovere e desiderio, letto e campo di battaglia, giovinezza e vecchiaia, antica verità egiziana e realpolitik romana. Politicamente scorretti e pericolosamente vitali, al ritmo misterioso e furente di un baccanale egiziano vanno oltre la ragione e ai giochi della politica. Inimitabili e impareggiabili, neanche la morte li può contenere.
Al Lac di Lugano (CH) il 20 e 21marzo per poi passare al Piccolo di Milano dal 04 al 09 aprile.
Intervista a Valter Malosti, qui
Per altre info qui

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Roma, Liceo Classico Torquato Tasso: “Il ritmo della vita degli uomini” . Quando il museo invade la scuola.

gbopera - Lun, 18/03/2024 - 12:14

Roma, Liceo Classico Torquato Tasso
IL RITMO DELLA VITA DEGLI UOMINI
Roma, 15 Marzo 2024
Il Liceo Tasso di Roma, ubicato nei Giardini di Sallustio, è noto per il suo edificio progettato dall’ing. Mario Moretti, premiato con la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Bruxelles nel 1910. Caratterizzato da soluzioni architettoniche innovative per l’epoca, quali aule specializzate, biblioteche in ogni stanza, un anfiteatro da 90 posti e una palestra per ottanta studenti, il Tasso ha guadagnato nel tempo una reputazione di eccellenza culturale e di apertura alla comunità. Conserva spazi e arredi originali, tra cui un Museo delle Scienze con collezioni di valore e materiali didattici d’inizio secolo. La scuola combina la dotazione di moderni strumenti didattici con il fascino storico, evidenziato da vetrine d’epoca che arricchiscono i corridoi e mantengono viva la memoria storica. Tra i suoi ex studenti si contano personalità di spicco della cultura e della scienza. Oggi, il Liceo Tasso continua a essere un punto di riferimento educativo e culturale a Roma e in Italia, grazie alla sua posizione centrale e al prestigio acquisito in oltre un secolo di attività, promuovendo eventi culturali significativi in spazi storici come il cortile adornato e l’Aula Magna. All’interno del cuore pulsante della Capitale, il liceo classico Torquato Tasso si appresta a diventare teatro di un evento culturale di eccezionale valore: l’inaugurazione della mostra “Il ritmo della vita degli uomini”. Questa iniziativa si inscrive nel più ampio contesto del progetto portato avanti dalla direzione generale musei del ministero della cultura (Mic), mirando a tessere un legame indissolubile tra passato e presente attraverso il filtro dell’arte e della conoscenza. L’esposizione è stata svelata al pubblico il 16 marzo, preceduta da un’anteprima esclusiva per la stampa il giorno 15. Un appuntamento di rilievo, che ha visto la partecipazione di figure di spicco come Massimo Osanna, direttore generale musei, Paolo Pedullà, dirigente scolastico del Torquato Tasso, oltre agli studenti dell’istituto e ai rappresentanti del comando dei carabinieri, tutti sotto la guida esperta di Duilio Giammaria, noto giornalista e conduttore televisivo. L’ispirazione per il titolo della mostra affonda le sue radici nell’antichità, precisamente in un verso del poeta lirico greco Archiloco, selezionato personalmente dal direttore Osanna in occasione di una giornata di dialogo focalizzata su Pompei e i musei italiani, svoltasi proprio nelle aule del liceo Tasso. “Cuore, cuore, agitato da mali inesorabili, riemergi e dagli avversari difenditi opponendo contro il petto, nelle insidie dei nemici arrestandoti vicino senza paura; e non vantarti apertamente quando vinci, non lamentarti abbattendoti in casa quando sei stato vinto, ma delle gioie godi e dei mali affliggiti non troppo, e sappi quale ritmo domina gli uomini.” Archiloco, Esortazione a se stesso (Arch. fr. 128 W). Il componimento di Archiloco, poeta del VII secolo a.C., si presenta come un precursore delle riflessioni filosofiche greche, incentrato sulla nozione di ῥυϑμός, simbolo di equilibrio e ordine nell’esistenza e nell’universo. Questa comprensione del ritmo della vita invita a moderazione e saggezza. Rivolgendosi al proprio θυμός, Archiloco esplora la capacità dell’animo umano di riflettere e imparare, preludendo alla definizione socratica dell’anima (ψυχή) come centro di intelligenza e etica. La sua opera, arricchita di introspezione e dialogo intergenerazionale, traccia un cammino di crescita morale destinato a influenzare la filosofia successiva e a integrarsi nel patrimonio culturale universale. L’evento si propone di far luce su 50 reperti archeologici di inestimabile valore, molti dei quali esposti al pubblico per la prima volta. Questi tesori, emersi dalle ombre di tombe scavate clandestinamente, raccontano storie secolari, grazie anche al prezioso lavoro di recupero condotto dal comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale. Tra le opere di maggiore rilievo si annoverano busti di Eracle e Afrodite, teste votive fittili, nonché vasi di diverse forme e funzioni, testimoni silenziosi di un passato glorioso, per lo più provenienti dall’Etruria meridionale. L’unicità di questa mostra risiede però nella scelta didattica innovativa che vede gli studenti del liceo classico Torquato Tasso coinvolti in prima persona. Attraverso un lavoro di cura e interpretazione, hanno impreziosito l’esposizione con versi di autori classici del calibro di Omero, i lirici greci, Eschilo, Sofocle, Euripide e Virgilio, creando un dialogo continuo tra le opere esposte e la letteratura antica. Il percorso espositivo si articola attraverso quattro temi fondamentali – uomo, Dio, coraggio e amore – ognuno dei quali è rappresentato da una specifica notazione di colore, pensata per facilitare la comprensione dei visitatori e stimolare una più profonda riflessione sul legame tra gli oggetti archeologici e i concetti universali che continuano a influenzare la nostra esistenza. Nell’ ampio spazio della sala espositiva, i reperti archeologici emergono maestosi, incorniciati da vetrine di design minimalista che ne esaltano il fascino senza tempo. Le didascalie, precise e dettagliate, offrono ai visitatori una panoramica su misure, uso e peculiarità di ciascun oggetto, sebbene l’origine rimanga avvolta nel mistero, suggerita solo da ipotesi plausibili. Questi tesori parlano di una storia che continua a rivelarsi. Al centro di questa narrazione museale, spicca il coinvolgimento vibrante degli studenti. L’entusiasmo palpabile dei ragazzi riflette la partecipazione attiva a un progetto maturato nell’arco di oltre un anno, testimoniando un sentimento profondo di appartenenza. Oltre alla limpidezza espositiva, ciò che veramente cattura l’attenzione è la sinergia collettiva: lo studio diligente e le competenze individuali si fondono in un esercizio magistrale di lavoro di squadra, dove coordinazione e gestione emergono come i veri protagonisti. Questa esperienza, al di là del suo valore educativo intrinseco, invoca un appello affinché iniziative analoghe possano estendersi oltre i confini dei licei classici, tradizionalmente più inclini a questo genere di attività, per raggiungere una platea più ampia. L’ambizione è quella di trasferire questa magia anche in contesti meno consueti, dimostrando così come l’arte e la bellezza possano trascendere le barriere, illuminando e trasformando realtà anche meno fortunate. Un invito a non perdere l’opportunità di testimoniare come l’arte, nella sua universale grandezza, possa diventare un potente strumento di inclusione e superamento dei pregiudizi. Una mostra che non è soltanto una finestra sul passato, ma un ponte verso un futuro di più ampia consapevolezza e condivisione.

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Roma, Arimondi Circle “Azzurra Primavera: 100 ritratti oltre l’immagine” dal 21 Marzo al 30 Giugno 2024

gbopera - Lun, 18/03/2024 - 08:00

Roma, Arimondi Circle
Via Arimondi 3

AZZURRA PRIMAVERA: 100 RITRATTI OLTRE L’IMMAGINE
Dal 21 marzo al 30 giugno 2024 Arimondi Circle presenta a Roma la prima mostra personale dedicata alla fotografa italiana contemporanea Azzurra Primavera, che ne ripercorre l’esperienza umana e professionale, con oltre 100 scatti, molti dei quali inediti. A cura di Cesare Biasini Selvaggi e Barbara Santoro, l’esposizione parte dalle fotografie che ricostruiscono la storia del teatro, del cinema, della TV degli ultimi trent’anni con i ritratti delle loro protagoniste e protagonisti, fino ai cicli di ricerca mai mostrati né pubblicati, come quelli dedicati ai rom e al World Pride del 2000 a Roma. La mostra, promossa da Luisa Melara, presidente di Arimondi Circle, presenta organicamente Azzurra Primavera e la sua produzione fotografica di artista libera, umana, dai profondi valori sociali, attenta alla condizione degli ultimi, alle battaglie per i diritti civili: tutti temi di assoluta attualità che attraversano da sempre i suoi scatti, ribaditi oggi nello scoprirne anche quelli ancora completamente inediti. Qui per tutte le informazioni.

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Wolfgang Amadeus Mozart: Cyndia Sieden in “Arias for Aloysia Weber”

gbopera - Dom, 17/03/2024 - 08:53

Wolfgang Amadeus Mozart: “No, no, che non sei capace”, KV419, “Alcandro, lo confesso… Non so d’onde viene” KV294, “Vorrei spiegarvi, oh Dio!” KV418, “Ah se in ciel, benigne stelle” KV538, “Mia speranza adorata… Ah non sai qual pena sia” KV416, “Popoli di Tessaglia!… Io non chiedo” KV316, “Nehmt meinen Dank, ihr holden Gönner” KV383. Cyndia Sieden (soprano), Orchestra of the Eighteenth Century, Frans Brüggen (direttore). Registrazione: Utrecht (Vredenburg), Maggio e settembre 1998. 1 CD Glossa Cabinet GCD C801133
La casa discografica Glossa ripropone in CD questa registrazione – risalente al 1998 – di una serie di arie composta da Mozart tra il 1778 e il 1788 per l’amata Aloysia Weber e che sono tra le più celebri arie da concerto del salisburghese.
L’edizione trova il maggior interesse nella direzione di Frans Brüggen alla guida della Orchestra of the Eighteenth Century, formazione all’epoca all’avanguardia nella passi esecutiva filologica. La prova del maestro olandese non ha perso nulla della sua freschezza. Una lettura caratterizzata da colori tersi e luminosi e da agogiche brillanti ma mai eccessive, sempre all’insegna di una musicalità elegante e naturale. Proprio questo è forse il temine più corretto per rendere la sincerità e la schiettezza della direzione di Brüggen che pur nell’innegabile magistero stilistico non risulta mai affettata ma sempre caratterizzata da una verità espressiva che non potrebbe essere più mozartiana.

L’interprete vocale è il soprano statunitense Cyndia Sieden che in quegli anni si era ricavata un proprio spazio soprattutto nell’ambito delle registrazioni filologiche. Soprano leggero dal timbro terso e luminoso ma non eccessivamente esangue la Sieden affronta con proprietà brani di notevole impegno e se non riesce a prevalere sulla troppo significativa concorrenza fornisce ugualmente un ascolto assai piacevole.
L’aria iniziale del programma “No, no, che non sei capace” è significativa nel mostrare limiti e pregi della cantante. La voce è piacevole pur con qualche asprezza in acuto, le colorature sono facili e fluide – le rapide volatine della parte finale sono impeccabili come esecuzione  – e la gamma appare omogenea in tutte le sue parti. Manca però – in un brano intenso come questo – un accento più incisivo, una maggior capacità di connotare espressivamente l’aria oltre alla raffinatezza musicale che è doveroso riconoscerle.
Questi elementi si ritrovano più o meno simili in tutto il programma, esemplare al riguardo la parte conclusiva di “Vorrei spiegarvi, oh Dio!” del 1783 così vicina sul piano espressivo alle ormai prossime “Le nozze di Figaro” in cui l’allegro finale pur ben eseguito sul piano musicale manca di quell’impellenza espressiva, di quel senso di ansia montante che dovrebbe avere e che ritroviamo molto bene nell’accompagnamento orchestrale.

La Sieden ci appare espressivamente più centrata nell’abbandono lirico di “Non so d’onde viene” del 1778 su testo di Metastasio il cui tono languidamente elegiaco si adatta come un guanto alla vocalità della cantante. Considerazioni analoghe si possono fare per la successiva “Ah non sai qual pena sia” più drammatica ma caratterizzata anch’essa da un tono dolente che l’agevola permettendo di affrontare con sicurezza anche i momenti più accesi.
Una pronuncia italiana ma non così autorevole limita un po’ il tono solenne di “Popoli di Tessaglia!” che almeno in questa prima sezione mantiene il carattere di classica nobiltà che gli era originario. L’aria “Io non chiedo, eterni Dei” è trasforma da Mozart in un autentico sfoggio virtuosistico in cui la Sieden riesce a uscirne con dignità pur con qualche forzatura sugli estremi acuti che appaiono poveri di suono e privi di autentico squillo. Le colorature sono però sgranate con precisione e l’ottimo controllo del fiato le permette filature pulite e tenute con sicurezza.
Non stupisce vedere la Sieden perfettamente a suo agio nell’unico brano tedesco del programma la breve “Nehmt meinen Dank” co il suo carattere da autentica aria di siengspiel. La Sieden che in quegli anni era splendida Blonde nel “Die Entführung aus dem Serail” diretto da Gardiner ne colga alla perfezione il carattere sia sul piano vocale sia su quello interpretativo, cosa che come abbiamo visto non accade in modo altrettanto riuscito nei brani italiani.

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Venezia, Peggy Guggenheim Collection: “Marcel Duchamp e la seduzione della copia” seduce la laguna

gbopera - Sab, 16/03/2024 - 21:49

Venezia, Peggy Guggenheim Collection
MARCEL DUCHAM E LA SEDUZIONE DELLA COPIA
A cura di Paul B. Franklin
Venezia, 13 marzo 2024
“Pour copie conforme” – copia certificata, queste le parole con cui lo stesso Duchamp diede il proprio avallo alla prima e alla seconda copia, o ricostruzione, della sua “opus magnum” : la sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (1915-1923) eseguite rispettivamente da Ulf Linde per la mostra “Röselse i konsten” a Stoccolma nel 1961 e da Richard Hamilton nel 1966 per la mostra “The almost complete work of Marcel Duchamp” alla Tate di Londra.
Ennesimo, (e non ultimo) gesto ironico-provocatorio di uno degli artisti più influenti del XX secolo, che della “meta-ironia” ha fatto l’architrave di tutta la sua produzione artistica. Nato a Blainville-Crevon nel 1887, all’interno di una famiglia versata nelle arti (figurative e musicali), Duchamp, inizia la propria produzione artistica interiorizzando le principali correnti pittoriche del suo tempo: l’impressionismo (Paesaggio a Blainville 1902), i fauve (Corrente d’aria sul melo del Giappone 1911), fa propria la lezione di Cézanne (Ritratto del padre 1910), raggiunge e oltrepassa il cubismo (Giovane triste in treno – 1911-12, Nudo che scende le scale n°2 – 1912). Gli iniziali insuccessi sul piano del pubblico riconoscimento, la sua personale ricerca artistica, e la volontà precisa di non vivere da artista professionista, lo spinsero ad allontanarsi tanto dagli ambienti artistici, quanto dalla concezione formale/tradizionale del fare arte, concependo invece un’arte più cerebrale, un’arte che ponesse l’Idea al centro. Così, nel 1918, a soli 31 anni, Duchamp abbandona la pittura ad olio per dedicarsi agli scacchi. Al contrario di quanto possa sembrare però, aver abbandonato la pittura “retinico-olfattiva” non comportò la fine della produzione artistica di Duchamp che, già nel 1913, aveva realizzato il primo (Ruota di bicicletta) di quei “gesti artistici” che successivamente definì “Ready-made” e che rappresentano tout court la concezione artistica dada di cui Duchamp fu uno dei massimi rappresentanti. I Ready-made, oggetti di produzione industriale (quindi multipli) e di uso comune, (uno scolabottiglie, un pettine, un orinatoio), che vengono elevati allo status di opere d’arte per il solo fatto di essere stati scelti e firmati dall’artista, esemplificano quella “bellezza di indifferenza” con cui Duchamp demolisce tanto la concezione dell’ artista-demiurgo, quanto quella dell’opera d’arte originale, contrapposta alla copia. Proprio queste sono le tematiche che vengono approfondite nell’esposizione. In una celebrazione senza precedenti del genio creativo di Marcel Duchamp, una delle figure più enigmatiche e influenti dell’arte moderna, un’istituzione museale di primo piano come il Peggy Guggenheim di Venezia apre le sue porte alla prima mostra personale dell’artista mai organizzata fino ad oggi. Questo evento esclusivo si avvale di prestiti eccezionali da alcune delle più prestigiose istituzioni e collezioni sia pubbliche che private a livello internazionale, tra cui la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, il Philadelphia Museum of Art, il Museum of Modern Art di New York, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, e la raffinata collezione veneziana di Attilio Codognato. Attraversando l’arco temporale della carriera di Duchamp con una cura quasi filologica, la mostra propone al pubblico oltre sessanta opere in un percorso espositivo riccamente articolato che spazia dalle sue sperimentazioni pittoriche e disegni ai celebri ready-made, senza trascurare le opere che sfuggono alle definizioni più convenzionali, come “La scatola verde” del 1914. Questa diversità nell’esposizione non solo riflette l’eclettismo dell’artista, ma invita anche a una riflessione più ampia sul concetto di arte stessa. L’esibizione è impreziosita dalla presenza di contenuti multimediali e interviste d’archivio che offrono una finestra sugli intricati processi creativi di Duchamp, demistificando la complessità e la meticolosità dietro alcune delle sue creazioni più significative. Tra queste, emerge come fulcro dell’intera mostra la “Scatola in una valigia” (1935-1941), un’opera che incarna in maniera emblematica l’innovativo approccio di Duchamp all’arte: concepita come un museo portatile, contiene riproduzioni in miniatura di 69 delle sue opere, fungendo da metafora del viaggio dell’artista attraverso l’arte e della sua capacità di trasformare lo spazio espositivo in un’esperienza intima e personale. La versione deluxe qui esposta, la I/XX realizzate da Duchamp, acquistata da Peggy Guggenheim nel 1941, sottoposta per l’occasione a due interventi conservativi condotti dall’ Opificio delle pietre dure di Firenze, è una valigia ricoperta in pelle di vitello contenente cartone, legno, tela rigida, tela cerata, velluto, ceramica, vetro, cellophane, gesso, filo di ferro, elementi in ferro e ottone, riproduzioni a stampa tipografica, collotipia e litografia su carta, cartoncino, trattati con tempera, acquerello, pochoir, inchiostro, grafite, resine vegetali e gomme naturali e chiusa da una serratura Luis Vuitton e si compone di un totale di 180 elementi che assemblati riproducono perfettamente 69 opere dell’artista, (da Sonata a Tu’m, dal Grande Vetro a 50cc air de Paris). Contenitore di copie, prodotta in multipli, progettata ed assemblata più come un oggetto industriale che opera d’arte, ognuna delle venti “Scatole in una valigia” contiene anche un originale, nel caso specifico il coloriage original di “Il re e la regina attraversati da nudi veloci” 1937: manifesto tangibile della complessità del pensiero e del fare di Duchamp sempre in silenzioso ed ironico equilibrio tra provocazione e tradizione. Gli spazi del Guggenheim sono caratterizzati da una straordinaria ricerca della perfezione, dove ogni oggetto e opera d’arte trova la sua collocazione ideale, creando una connessione estetica e di significato che si integra perfettamente nel percorso evolutivo dell’artista. Le opere sono messe in risalto da un’illuminazione studiata ad hoc, con luci ben puntate e vibranti che ne valorizzano le tonalità e le forme, rendendo ogni dettaglio nitido e ogni colore vivido, in una celebrazione della bellezza e della creatività che lascia il visitatore senza parole. A rendere l’esperienza ancora più immersiva e significativa, la presenza straordinaria in mostra di Germano Chilelli, uno studioso indipendente la cui competenza e passione per l’arte ha trasformato la visita in un dialogo aperto e coinvolgente. Chilelli, con la sua straordinaria capacità di comunicare e la profonda conoscenza del settore, è riuscito a dialogare con il pubblico, rispondendo con competenza ai numerosi quesiti e arricchendo la comprensione delle opere esposte. La mostra è ulteriormente arricchita da un catalogo illustrato di pregio, pubblicato da Marsilio Arte, che comprende un saggio del curatore Paul B. Franklin.

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Roma, Teatro Sistina: “Jesus Christ Superstar” dal 20 al 31 Marzo 2024

gbopera - Sab, 16/03/2024 - 20:00

Roma, Teatro Sistina
“JESUS CHRIST SUPERSTAR”
di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice
da 30 anni la versione firmata Massimo Romeo Piparo
con Lorenzo Licitra, Anggun, Frankie Hi-Nrg Mc, Feisal Bonciani
Ted Neeley celebra i 50 anni del film e i 30 della produzione di Massimo Romeo Piparo con un doppio appuntamento per i grandi appassionati che potranno, in un unica volta, assistere al film e allo show dal vivo con il commento del leggendario Gesù del film. Al Sistina il 20 marzo 2024. Era il Marzo del 1994 quando Massimo Romeo Piparo guidò la prima rappresentazione italiana del titolo più famoso tra le opere rock, “Jesus Christ Superstar” di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice: da quel giorno il Musical italiano non fu più lo stesso. Dopo esattamente 30 anni ininterrotti di repliche in Italia (tranne durante il periodo della pandemia Covid-19, il titolo è sempre stato programmato in ogni stagione teatrale e applaudito da oltre 2 milioni di spettatori) e dopo il trionfale tour europeo tra il 2016 e 2020, torna a farsi ammirare -con una limited edition di appena un mese- il Superstar dei record con un cast ancora una volta eccezionale. In questa edizione celebrativa dei “30 e 50 anni” di successi italiani e internazionali, a fianco della già annunciata popstar internazionale Anggun (tre dischi di platino con la popolarissima hit “Snow on the Sahara”) che interpreterà -con la sua suadente voce e quell’aspetto orientale che tanto ricorda l’attrice originale del film Yvonne Elliman- il ruolo di Maria Maddalena, ci sarà il primo avvicendamento nel ruolo di Gesù. La star del film del ’73 Ted Neeley consegnerà infatti il testimone del ruolo del titolo al giovane talento Lorenzo Licitra, 33 anni (!!) cantautore e performer siciliano già vincitore di X-Factor nel 2017 che con la sua possente voce saprà onorare un’eredità così importante. Il mitico Ted Neeley sarà presente in Italia per questa doppia celebrazione al Teatro Sistina di Roma e che offrirà agli spettatori che acquisteranno il biglietto dello spettacolo la possibilità di godersi in sua presenza la proiezione del film due ore prima dell’inizio dello show. Una grande occasione, quindi, di poter partecipare ad un unico e irripetibile evento per i grandi appassionati di JCS che -per la prima volta al mondo- metterà insieme nella stessa sala e nello stesso giorno la celebre opera cinematografica del compianto Norman Jewison e lo spettacolo dal vivo, potendo applaudire insieme il leggendario protagonista del film e il “nuovo” interprete di Gesù. Con l’Orchestra come di consueto rigorosamente dal vivo diretta dal M° Emanuele Friello e un nutrito cast di performer, sul palco anche Feisal Bonciani nel ruolo di Giuda, già tanto amato e applaudito nelle ultime edizioni, e Frankie Hi-Nrg MC, uno dei precursori del rap italiano, nel ruolo di Erode, che regalerà al pubblico la prima versione del famoso brano in chiave hip-hop, arrangiamento molto apprezzato dagli spettatori più giovani. Prodotto dalla PeepArrow Entertainment, sempre in lingua originale, lo spettacolo ha visto alternarsi negli anni diverse star della musica pop-rock italiana come Elio, Max Gazzè, Pau con i Negrita, Simona Molinari, Shel Shapiro, Matteo Becucci, Mario Venuti, Simona Bencini dei “Dirotta su Cuba”, Amii Stewart, Giorgio Faletti, Ivan Cattaneo; ma soprattutto ha compiuto il “miracolo” di riunire sulle scene italiane ed europee (memorabili, tra le altre, le repliche sold out all’Arena di Verona e all’Ahoy di Rotterdam) i protagonisti originali del film cult del 1973: Carl Anderson-Giuda, Ted Neeley-Gesù, Yvonne Elliman-Maddalena e Barry Dennen-Pilato. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Argentina: “L’origine del mondo. Ritratto di un interno.” dal 22 al 28 Marzo 2024

gbopera - Sab, 16/03/2024 - 20:00

Roma, Teatro Argentina
L’ORIGINE DEL MONDO. Ritratto di un interno.

scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Concita De Gregorio, Lucia Mascino, Alice Redini
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Nel 2011, vincendo 3 premi UBU nel 2012, nasce la prima versione di Origine del mondo, ritratto di un interno. Nel 2024, in una versione rivisitata da questi tempi umbratili e dal nuovo cast, decido con il Teatro di Roma, di riallestire quel perturbante domestico che cercherà di integrare i traumi legati a un tempo recente, presente, indubbiamente nevrastenico. Presente che non si ferma a riflettere, che rimuove, che tira avanti “come se”, pur sapendo benissimo che quel “come se “non vale più niente. Qui per tutte le informazioni.

 

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