Roma, Palazzo Bonaparte
BOTERO
curata da Lina Botero e Cristina Carrillo de Albornoz
Organizzata da Arthemisia
in collaborazione con la Fernando Botero Foundation e in partnership con la Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale
Fernando Botero, nato a Medellín nel 1932, ha saputo creare un universo visivo inconfondibile, segnato dalla pienezza generosa delle forme, dai colori intensi e dalla tridimensionalità che conferiscono alle sue figure una presenza unica. La sua pittura, espressione di un immaginario poetico e inventivo, affonda le radici nella cultura colombiana, dalla quale trae ispirazione per una critica sociale venata di ironia e affetto. Nel corso della sua carriera, Botero ha instaurato un dialogo incessante tra tradizione e innovazione, esplorando continuamente il volume e il colore come cifre stilistiche distintive, ottenendo riconoscimenti e apprezzamenti internazionali. L’esposizione a Palazzo Bonaparte, organizzata da Arthemisia e dalla Fondazione Terzo Pilastro per il primo anniversario della morte dell’artista, rappresenta una celebrazione della sua opera e offre un’ampia panoramica della sua produzione. La mostra mette in evidenza sia opere iconiche sia creazioni inedite, sottolineando la complessità e la profondità del linguaggio pittorico di Botero. Tra le opere esposte, “Omaggio a Mantegna” (1958) assume un ruolo centrale: mai esposta prima, è stata recentemente scoperta da Lina Botero. Questo dipinto, ispirato alla “Camera degli sposi” di Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova, esprime il profondo legame di Botero con il Rinascimento italiano, reinterpretando la scena della corte dei Gonzaga attraverso la sua tipica monumentalità e saturazione cromatica. La mostra si arricchisce di reinterpretazioni di capolavori della storia dell’arte, come la “Fornarina” di Raffaello, il dittico dei Montefeltro di Piero della Francesca, i ritratti di Rubens e il “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Van Eyck. Di particolare rilievo è anche una versione dell’Infanta di Velázquez, mai esposta al pubblico perché sempre rimasta nello studio parigino di Botero. In questi lavori, Botero non si limita a riprodurre gli originali, ma li trasforma in opere nuove, mantenendo la grandezza e la maestosità delle fonti ma esprimendo al contempo la sua personale visione artistica. Le sezioni della mostra dedicate ai temi prediletti di Botero – come l’America Latina, il circo, la religione, la mitologia, la natura morta e la corrida – rivelano l’interesse costante dell’artista per la tradizione pittorica europea e la cultura ispanoamericana. La sala riservata ai suoi acquerelli su tela di grande formato, realizzati dal 2019, riflette l’ultima fase della sua ricerca, in cui l’acquerello su grandi superfici diventa una sintesi poetica della sua carriera. Oltre ai dipinti, un elemento di grande impatto dell’esposizione sono le sculture monumentali di Botero, che si stagliano con forza tra le sale del Palazzo. Queste opere, caratterizzate da un’energia e una dirompenza straordinaria, riescono a catturare l’attenzione del visitatore in modo ancor più potente rispetto alle tele, esaltando la maestria dell’artista nel dare corpo alla sua visione del mondo. Le sculture di Botero, con le loro forme esagerate e voluminose, sembrano quasi prendere vita, occupando lo spazio con una presenza fisica imponente che amplifica il senso di meraviglia e stupore. In una sala è esposta una selezione di dipinti della serie “Abu Ghraib” creata nel 2005 per denunciare le atrocità commesse nella prigione di Irachena. Con queste opere, numerate ma volutamente senza titolo, Botero non intende documentare fedelmente gli eventi, ma suscitare indignazione e riflessione morale. Le figure possenti e voluminose, tipiche dello stile dell’artista, rappresentano prigionieri bendati, sanguinanti e sottoposti a tortura, mentre gli aguzzini sono suggeriti solo da dettagli inquietanti, come mani guantate o piedi che colpiscono, amplificando il senso di violenza latente e di disumanizzazione presente dentro ogni scena. Botero ha sempre sostenuto che il suo messaggio fosse di natura umana, non politica, volto a condannare le violazioni della dignità umana. Per questo motivo, ha scelto di non vendere le sue opere, ma di donarle a musei e istituzioni accademiche, affinché possano continuare a testimoniare contro la violenza e l’ingiustizia, mantenendo viva una memoria collettiva che ispiri riflessione critica e sensibilizzazione sul tema della crudeltà. Gli allestimenti di Palazzo Bonaparte, a cura di Arthemisia , adottano sempre la medesima metodologia espositiva di taglio funzionale, che garantisce una fruizione efficace delle opere ma non presenta particolari innovazioni dal punto di vista della progettazione spaziale, dell’illuminotecnica o della disposizione degli elementi in mostra. Questa scelta curatoriale, pur coerente e rassicurante nella sua ripetitività formale, trarrebbe beneficio da un intervento più audace, capace di rinnovare l’esperienza estetica del visitatore e di imprimere una cifra distintiva anche all’allestimento stesso. Come affermava lo stesso Botero: “Il volume è una celebrazione della vita, perché è nella pienezza delle forme che si trova la gioia e la bellezza dell’esistenza.” Questa mostra, con la sua articolata selezione di opere, riesce a restituire quel senso di meraviglia e stupore che l’artista ha sempre cercato di suscitare, invitando il pubblico a una rinnovata celebrazione della vita nelle sue infinite declinazioni.
Allegati
Roma, Museo Ebraico
CONSACRATI AL SIGNORE. ARGENTI DEL MUSEO EBRAICO DI ROMA
La “Sala degli Argenti” del Museo Ebraico di Roma rappresenta una straordinaria iniziativa di valorizzazione culturale e storica, nata dalla volontà di esporre e celebrare una collezione unica di oggetti liturgici in argento, testimoni della millenaria presenza ebraica nella Capitale. Realizzato dalla Fondazione per il Museo Ebraico di Roma con il fondamentale contributo della Regione Lazio, il progetto ha beneficiato dei finanziamenti previsti dall’Avviso Pubblico volto alla promozione di iniziative culturali, sociali e turistiche nel territorio, nell’ambito degli interventi di LAZIOCrea S.p.A. per l’annualità 2022. La Sala degli Argenti nasce dalla visione di Alessandra Di Castro, Presidente della Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, che ha fortemente sostenuto l’importanza di valorizzare la collezione degli argenti cerimoniali ebraici, non solo per accrescere il flusso turistico e arricchire l’offerta culturale di Roma, ma anche per riaffermare l’identità storica e culturale della comunità ebraica romana. Questa sala, inaugurata all’interno del Museo Ebraico, si configura come una “camera delle meraviglie”, dove circa metà dell’intera collezione di argenti – oltre quattrocento pezzi risalenti ai secoli XVII, XVIII e XIX – è esposta al pubblico, molti dei quali per la prima volta dopo essere stati restaurati e studiati. L’iniziativa non è solo un’operazione museale, ma un atto di recupero della memoria storica e spirituale degli ebrei di Roma. Gli argenti esposti, fino ad ora custoditi nei depositi del Museo, tornano così alla luce per raccontare, attraverso la loro bellezza e preziosità, una storia di fede, arte e resistenza culturale. Tra questi manufatti troviamo corone, “rimmonim” (decorazioni per il rotolo della Legge), “yadot” (indicatori per la lettura del Pentateuco), candelieri, lampade per Chanukkah, calici e strumenti per la circoncisione, oggetti che spaziano tra le tradizioni sefardita e ashkenazita, e che sono stati utilizzati per secoli nelle sinagoghe del ghetto di Roma. L’uso dell’argento per la creazione di oggetti liturgici ebraici è radicato in motivazioni storiche e simboliche profonde. L’argento è stato tradizionalmente considerato un simbolo di purezza per la sua brillantezza e la sua resistenza alla corrosione. Nella tradizione ebraica, rappresenta l’aspirazione alla purezza spirituale e alla santità, rendendolo il materiale ideale per gli oggetti destinati al culto. L’argento è anche associato a valore e ricchezza, qualità che conferiscono agli oggetti sacri un significato di rispetto e devozione verso il divino. Questo metallo, inoltre, è apprezzato per la sua durabilità, che lo rende adatto a resistere all’usura del tempo e all’uso frequente durante le cerimonie religiose. La sua bellezza intrinseca, con la caratteristica lucentezza e la possibilità di essere finemente decorato, contribuisce ad arricchire l’esperienza estetica delle celebrazioni, aggiungendo maestosità e solennità alle funzioni religiose. La collezione del Museo Ebraico di Roma è unica nel suo genere per l’eccezionalità del suo valore qualitativo e per la densità numerica dei pezzi esposti. Come evidenziato da Alessandra Di Castro, questo nucleo di oltre 400 oggetti, in gran parte attribuibili a maestri argentieri romani, è stato miracolosamente preservato dalle razzie, requisizioni, fusioni e riusi che hanno spesso devastato il patrimonio ebraico nei secoli. Questi oggetti, molti dei quali provenienti dalle sinagoghe del ghetto, offrono un affresco unico della vita e della spiritualità della comunità ebraica di Roma attraverso i secoli. Il volume “Consacrati al Signore. Argenti del Museo Ebraico di Roma” (Il volume è stato pubblicato in due edizioni italiana e inglese), curato da Dora Liscia Bemporad e Davide Spagnoletto e pubblicato da Sillabe, documenta con rigore scientifico la collezione, arricchito da un vasto repertorio fotografico di Giorgio Benni. Questo libro rappresenta un contributo prezioso alla conoscenza e alla valorizzazione di un patrimonio culturale e artistico che non ha eguali. Come osservato da Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità di Roma, la tradizione artistica degli ebrei italiani ha prodotto una serie di oggetti liturgici che si distinguono per stile e originalità in ogni collezione di arte cerimoniale a livello internazionale. La Sala degli Argenti del Museo Ebraico di Roma non è soltanto uno spazio espositivo, ma rappresenta una testimonianza vibrante della resilienza e della vitalità culturale di una comunità che ha saputo preservare e valorizzare la propria identità attraverso secoli di sfide e persecuzioni. Gli oggetti esposti raccontano storie di fede, di resistenza e di rinascita, dimostrando come l’arte e la spiritualità possano fungere da ponti tra passato e presente, creando una connessione profonda tra la memoria storica e la contemporaneità. Il nuovo spazio espositivo è stato progettato con cura meticolosa, con una disposizione che offre ad ogni pezzo uno spazio chiaro e distintivo, identificando in modo puntuale la provenienza, lo stile e l’uso di ciascun oggetto. L’allestimento brilla per la sua efficacia, grazie a didascalie dettagliate e accessibili che offrono spiegazioni approfondite. Queste guidano i visitatori, arricchendo l’esperienza museale con un prezioso contesto storico e culturale. Ogni oggetto esposto nella sala è presentato con l’intento di esaltarne la funzione liturgica, la provenienza e lo stile artistico, rivelando la complessità e la raffinatezza della tradizione artigianale ebraica. L’allestimento è concepito per mettere in luce la dimensione sacrale di questi manufatti, mostrando come ciascuno trascenda il proprio uso pratico, divenendo un autentico veicolo del sacro. Gli argenti esposti incarnano concetti profondi di armonia e bellezza, qualità che non solo riflettono l’estetica e la spiritualità ebraica, ma che si connettono anche al senso più ampio del divino. Rabbi Jonathan Sacks, grande pensatore ebreo contemporaneo, ha affermato: “La memoria è l’arma del popolo ebraico contro il tempo. Non solo ricordiamo il passato; riviviamo il passato per costruire il futuro.” La Sala degli Argenti del Museo Ebraico di Roma, dunque, non è semplicemente una collezione di manufatti preziosi, ma un tributo vibrante e vivente alla memoria di una comunità. È un luogo dove il passato non si limita a essere ricordato, ma viene rivissuto, rinnovandosi continuamente per ispirare un futuro costruito sulla conoscenza, sulla bellezza e sulla condivisione culturale. Questo patrimonio appartiene non solo a una singola comunità, ma a un’umanità più vasta, che condivide e custodisce questo tesoro come parte integrante della sua eredità collettiva. Nessuno è escluso.
Roma, Palazzo Altemps
NUOVO PERCORSO DANNUNZIANO
È stato presentato a Roma, presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, il gemellaggio tra Palazzo Altemps, il Castello di Gallese e il Vittoriale degli Italiani, un’iniziativa che non si limita a rievocare un passato di bellezza e passioni, ma che intende proporsi come un custode di una memoria vivente. Questo progetto, che mira a creare un ponte tra epoche diverse, unisce passato e presente in un dialogo ideale che attraversa i secoli e le generazioni nel nome della cultura, dell’arte e della poesia. Questa iniziativa si impegna a preservare e valorizzare i luoghi che hanno ispirato e accompagnato Gabriele d’Annunzio e Maria Hardouin nella loro vita, promuovendo un dialogo costante tra la storia e il pubblico contemporaneo, tra le vicende personali ei visitatori di oggi. Il gemellaggio, dunque, diventa un’opportunità per esplorare non solo la grandezza poetica del “Vate”, ma anche l’intimità delle sue relazioni personali, il contesto storico in cui ha vissuto e le influenze culturali che hanno plasmato la sua creatività. I tre luoghi, ciascuno con una propria anima e storia, si fondono in un progetto culturale che intende non solo celebrare il passato, ma anche stimolare nuove riflessioni sul presente, attraverso iniziative che combinano musica, arte e letteratura. Attraverso questa collaborazione, si punta a costruire un ponte tra il vissuto di personaggi emblematici e l’esperienza dei visitatori, offrendo un’esperienza che è allo stesso tempo educativa e profondamente emozionante. Il Museo Nazionale Romano, situato nel prestigioso Palazzo Altemps, è il luogo dove d’Annunzio incontrò per la prima volta Maria Hardouin di Gallese. La figlia del Duca Jules Hardouin e di Natalia Lezzani, Maria era giovane e di rara bellezza, e il loro incontro si trasformò rapidamente in una relazione appassionata. Sebbene il padre di Maria si fosse opposto fortemente al loro amore, la coppia si sposò in una cerimonia privata nella cappella del palazzo il 28 luglio 1883. Palazzo Altemps non fu solo un teatro di incontri amorosi, ma anche di un’unione intellettuale e artistica che avrebbe segnato profondamente Il Vittoriale degli Italiani, la residenza di Gabriele d’Annunzio dal 1921 al 1938, non è solo una casa, ma un monumento complesso che riflette l’anima del poeta in ogni suo angolo. Concepito come una rappresentazione tangibile della sua mente e del suo spirito, il Vittoriale è un microcosmo che ospita oggetti, opere d’arte, arredi e ricordi della vita del Vate. È qui che Maria Hardouin trascorse i suoi ultimi anni, ospitata nella vicina Villa Mirabella, voluta dallo stesso d’Annunzio come luogo di accoglienza per artisti e amici. Qui, Maria è sepolta, legando per sempre la sua memoria a quella dell’am Il Castello di Gallese, edificato su uno sperone di tufo tra i Monti Cimini e il fiume Tevere, è un luogo che rappresenta l’altra faccia della storia. Da fortilizio militare destinato a proteggere Roma, divenne una raffinata residenza gentilizia grazie al Duca Pietro Altemps nel XVII secolo. La ristrutturazione, affidata a illustri architetti come Carlo Fontana e Giacomo della Porta, donò al castello la sua forma attuale, con la magnifica doppia scalinata che accoglie i visitatori. Maria Hardouin frequentava spesso questo luogo per visitare il padre, ed è qui che fu raggiunta da Gabriele d’Annunzio, con il quale passeggiava tra i giardini e le stanze del palazzo, in un’intimità che traspare ancora oggi dalle storie di quei giorni. Stéphane Verger, Direttore del Museo Nazionale Romano, ha dichiarato il suo entusiasmo nel sostenere questa iniziativa, che vede in Palazzo Altemps non solo un luogo di rilevanza storica per la vita del poeta, ma anche un simbolo di un rinnovato impegno culturale. Verger ha sottolineato: “Sono onorato di poter dar vita ad una nuova pagina di cultura del Museo Nazionale Romano con una partnership così prestigiosa e di poter rinnovare i rapporti di amicizia e collaborazione con la famiglia Altemps-Hardouin di Gallese. Nel ringraziare il M° Giulia Mazzoni per aver voluto accompagnare la presentazione del gemellaggio con un momento di grande musica, mi rallegro di annunciare una nuova iniziativa del Museo non strettamente legata all’archeologia, ma alla storia della Poesia e della Letteratura, unendo la tradizione classica del nostro patrimonio con nuove modalità di narrazione culturale. Questa iniziativa mira a creare uno spazio in cui arte e poesia possano dialogare liberamente, offrendo al pubblico l’opportunità di esplorare le interconnessioni tra passato e presente attraverso esperienze immersive e multidisciplinari, che celebrano non solo il valore storico dei nostri siti, ma anche la la loro capacità di ispirare e stimolare le generazioni future”. Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, ha espresso il suo apprezzamento per l’iniziativa, definendola “una manifestazione di pura simpatia simbolica e storica“, culminante appunto nel concerto di Giulia Mazzoni, strettamente connessa ai tre luoghi. Federico d’Annunzio, pronipote del Vate, ha descritto l’evento come “un emozionante viaggio storico e di famiglia” che permetterà di preservare, custodire e aprire le porte di questi scrigni di bellezza e amore, ricordando l’importanza del legame tra Maria Hardouin e Gabriele d’Annunzio. Ha ringraziato il Direttore Stéphane Verger e il Presidente del Vittoriale per aver condiviso e reso possibile questo progetto straordinario. Anche Lucrezia Hardouin di Gallese, pronipote di Maria e promotrice dell’iniziativa, ha espresso la sua gioia e il suo onore nel partecipare a questo progetto che riaccende un faro sulla figura della sua prozia Maria Hardouin di Gallese: “Per tutta la vita ha silenziosamente amato, sostenuto e consigliato il Vate, scegliendo l’uomo e non il marito, restando al suo fianco, nell’ombra, fino alla fine della sua vita”.
Roma, Museo della Fanteria
MIRO’. IL COSTRUTTORE DI SOGNI
curata da Achille Bonito Oliva, Maïthé Vallès-Bled e Vincenzo Sanfo
Roma, 14 Settembre 2024
Joan Mirò, pittore, scultore e ceramista catalano di grande spessore, ha sempre trasceso i confini tradizionali dell’espressione artistica con uno stile personalissimo che sfidava le convenzioni. Nel tessuto delle sue opere, Mirò ha intrecciato l’incanto del colore puro con la libertà delle forme, unendo surrealismo, astrazione e simbolismo in un dialogo visivo che solletica l’immaginazione e invita alla riflessione. La sua arte è un viaggio attraverso il subconscio, dove le forme biomorfiche danzano in spazi sconfinati, vibranti di una vitalità che sembra emergere direttamente dalla tela. Dalle prime influenze del cubismo e del fauvismo, Mirò si evolve rapidamente verso un’espressione più astratta e onirica, segnando il suo ingresso nel movimento surrealista nel 1924. Questa fase fu segnata da una serie di opere dove il gioco dei colori e delle forme raggiunge una dimensione quasi musicale, orchestrare con una maestria che sfida l’occhio e stimola l’intelletto. Le sue composizioni, spesso animate da simboli come stelle, occhi, e figure femminili, diventano luoghi di incontro tra sogno e realtà, dove il visibile e l’invisibile si fondono in un dialogo enigmatico. Non meno importante è la sua sperimentazione con materiali diversi, che vanno dalle tradizionali tele e sculture a innovazioni in campo grafico e ceramico, mostrando il suo impegno continuo nell’esplorazione delle possibilità espressive dell’arte. La sua collaborazione con la rivista “Derrière le Miroir” evidenzia inoltre la sua fluidità nel muoversi tra diverse modalità di espressione artistica, sottolineando il suo ruolo come catalizzatore di nuove forme e idee nel panorama artistico del ventesimo secolo. L’esposizione “Mirò. Il Costruttore di Sogni” al Museo Storico della Fanteria di Roma non solo riporta l’attenzione su questo artista fondamentale, ma offre anche un’opportunità rara di vedere opere meno note provenienti da collezioni privati, permettendo ai visitatori di immergersi completamente nel suo universo artistico, ricco di colore, forma e movimento. Le sezioni della mostra, come le litografie e la ceramica, riflettono le diverse sfaccettature della sua arte, mentre le collaborazioni e le influenze con altri giganti come Picasso e Dalí evidenziano l’interconnessione tra i grandi maestri dell’arte. La mostra, curata da Achille Bonito Oliva, Maïthé Vallès-Bled e Vincenzo Sanfo, vuole essere un’immersione profonda nel percorso artistico di Mirò, offrendo ai visitatori una panoramica completa del suo sviluppo stilistico e tematico. Questa rassegna è supportata dall’Ambasciata di Spagna, dall’Istituto Cervantes di Roma, dalla Regione Lazio e dalla Città di Roma, sottolineando l’importanza culturale e storica di questo evento nell’ambito dell’arte contemporanea. Pur offrendo un ampio spettro di opere, dall’inchiostro su carta alle sculture, l’approccio curativo fin troppo didascalico rischiando di appesantire l’esperienza, privandola della leggerezza e dell’intuitività che caratterizzano l’arte di Mirò. In un ironico contrasto con l’audacia creativa di Mirò, noto per il suo spirito libero e giocoso, la mostra si configura con una struttura rigida e prevedibile. È come se ogni opera, pur vibrante di colori e forme, fosse incatenata dentro una cornice troppo stretta di spiegazioni e dettagli storici, quasi a limitare quella spontaneità di interpretazione che Mirò stesso avrebbe probabilmente scartato. Allo stesso tempo, il Museo Storico della Fanteria sembra combattere una battaglia ardua per affermarsi come un punto di riferimento nel panorama culturale romano. Nonostante la serie di mostre di calibro, l’istituzione non ha ancora trovato il proprio “volo”, rimanendo ancorata a un approccio espositivo ripetitivo e conservatore. Questa persistente uniformità nell’impostazione delle mostre suggerisce una cautela forse eccessiva, un timore di osare che potrebbe frenare il museo dal raggiungere una nuova vitalità e attrazione. Per rinnovare il suo fascino e attrarre un pubblico più ampio e variegato, il museo potrebbe beneficiare di un ripensamento radicale dell’approccio curativo. Introducendo elementi interattivi, esposizioni tematiche audaci o persino collaborazioni artistiche contemporanee, potrebbe non solo rompere il ciclo di monotonia, ma anche infondere nuova vita nelle sue sale. Cambiamenti come questi potrebbero trasformare il museo in un luogo di scoperta dinamica, dove ogni visita diventa un’esperienza unica, lasciando ai visitatori non solo conoscenza ma anche un ricordo empatico. La sfida per il Museo Storico della Fanteria e per la mostra di Mirò è duplice: da un lato, riuscire a trasmettere la profondità e la complessità di un artista eccezionale senza cadere in un eccesso di rigidità interpretativa, e dall’altro, reinventare se stessi come spazio culturale capace di innovare e coinvolgere attivamente il pubblico. Solo il tempo dirà se riusciranno a trasformare queste ambizioni in realtà tangibile.
Roma, RomaEuropaFestival 2024
“OUTSIDER” DI RACHID OURAMDANE
Rachid Ouramdane – Ballet du Grand Théâtre de Genève
Coreografia Rachid Ouramdane
Scenografia Sylvain Giraudeau
Costumi Gwladys Duthil
Luci Stéphane Graillot
Musiche Julius Eastman (Evil Nigger, Gay Guerrilla), Adrián Fernández García, Pilar Huerta Gómez, Lucie Madurell, Luca Moschini (Improvisation)
Registrazione musicale Grand Théatre de Genève (rappresentazione del 4 maggio 2024)
Pianisti Adrián Fernández García, Pilar Huerta Gómez, Lucie Madurell, Luca Moschini
Direzione musicale Stéphane Ginsburgh
Assistente alla coreografia Mayalen Otondo
Interventi durante le prove Hamza Benlabied, Airelle Caen, Clotaire Foucherau
Highliners/Funanboli moderni Nathan Paulin, Tania Monier, Louise Lenoble, Daniel Laruelle
Corpo di ballo Ballet du Grand Théâtre de Genève
Creazione internazionale Ballet du Grand Théâtre de Genève (maggio 2024)
Coproduzione Chaillot – Théâtre national de la Danse
Con il sostegno di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
Prima nazionale
Roma, Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, 09 settembre 2024
Si apre all’insegna della leggerezza lo spettacolo di Rachid Ouramdane, nato per i danzatori del Ballet du Grand Théâtre de Genève su invito del direttore Sidi Larbi Cherkaoui. Con la sua poetica del volo aveva già conquistato il pubblico del Romaeuropa Festival nel 2021, presentando lo spettacolo Möbius. E stavolta la presenza dei funamboli annunciata nel programma lascia presagire emozioni uniche. Sulle travolgenti vibrazioni del pianoforte che si susseguono a ritmo incalzante nella musica di Julius Eastman, i corpi volteggiano nello spazio, dando l’impressione di essere senza peso. Ci si lascia così trasportare dal flusso dei movimenti, assaporando la beatitudine di un’atmosfera ben distante dall’ordinaria quotidianità. Veloci roteazioni dei danzatori su se stessi, un’estrema agilità nei movimenti degli arti, vaporosi balzi dall’aria al pavimento e viceversa, il pieno utilizzo dello spazio precedono una pausa riflessiva, seguita da corse e rimbalzi che allo slancio verso l’alto fanno seguire il richiamo della terra. Il titolo dello spettacolo è Outsider, termine che rimanda a una condizione di estraneità, a uno sguardo rivolto verso l’esterno. Il coreografo spiega che tale definizione si applica ad una persona non attesa che si rivela all’improvviso, non solo agli altri, ma anche a se stessa. Facilmente si può riconnettere tale termine al clima di sospensione generato dall’apparizione dei funamboli. Tra di loro vi è Nathan Paulin, noto per l’attraversamento della Senna tra la Torre Eiffel e il Théatre Chaillot a 70 metri di altezza. Dopo essersi abbandonati alla libertà del movimento, i danzatori li ritrovano sulle proprie teste. È una sfida alla gravità, ma anche una nuova sfida alle convenzioni, interamente fondata sulla trepidante ricerca dell’equilibrio. E anche quando i corpi riposano nell’aria in orizzontale si tratta di una tranquillità apparente. Come ricordava Kundera, la leggerezza non è del tutto sostenibile, la vita umana è legata alla terra nella sua pesantezza, nelle sue contraddizioni, nei suoi alti e nei suoi bassi. Nasce quindi un dialogo tra le due dimensioni, ed inoltre si avvia un discorso che riguarda la dimensione sociale della collettività, delle coppie e del singolo individuo. Alle volte sono i gruppi a lasciare emergere più in alto un loro membro, nella speranza di identificazione. Ma come ben sappiamo spesso a questi innalzamenti segue il desiderio di osservare la caduta. Nella coppia spesso un partner porta tutto il peso sulle spalle, e l’altro può godere di questo sostegno per elevarsi, ma è pur sempre vincolato e incomincia a rivolgere lo sguardo verso l’alto. La drammaturgia si infittisce, la serenità lascia spazio ad un’ombrosa cupezza. A prevederlo è la stessa dimensione umana, ma per dare il giusto significato all’esistenza basta semplicemente trovare un equilibrio. Uno spettacolo, dunque, non semplicemente ipnotico, ma votato ad una riflessione più ampia. Adatto a chi ama osservare per poi porsi delle domande. Foto Gregory Batardon
Roma, Museo Casa di Goethe
Roma, via del Corso 18
(Piazza del Popolo)
MAX LIEBERMANN. UN IMPRESSIONISTA DI BERLINO.
Il Museo Casa di Goethe presenta la prima retrospettiva ampia del pittore ebreo tedesco Max Liebermann (1847-1935) in Italia. Nato a Berlino, Liebermann è considerato uno dei più importanti innovatori della pittura tedesca di fine Ottocento: la sua arte e le sue attività politico-artistiche, tra cui quella di presidente della Secessione di Berlino e dell’Accademia Prussiana delle Arti, hanno dato un notevole impulso alla modernizzazione della scena artistica berlinese. Attraverso opere significative, la mostra ricostruisce le fasi più importanti della produzione di Liebermann, fatta di disegni, dipinti e stampe. Inizialmente dedito al realismo e al naturalismo, Liebermann fu definito per dileggio “pittore dei poveri” a causa dei motivi antiaccademici con cui raffigurava il duro lavoro nelle campagne. Intorno alla fine del secolo, i suoi dipinti si ispirarono agli svaghi equestri dei borghesi in riva al mare e dei giovani bagnanti sulla costa olandese. La tavolozza di Liebermann si illumina e le macchie scintillanti di luce diventano il suo marchio inconfondibile. L’idilliaco giardino di Liebermann in riva al Wannsee, che egli immortalò con colori pregnanti e nello spirito di una visione impressionistica della natura, fu la fonte da cui trassero ispirazione i suoi ultimi lavori. Sebbene Liebermann intrattenesse stretti contatti con la Francia e soprattutto con la sua “patria artistica”, i Paesi Bassi, anche l’Italia svolse un ruolo decisivo nella sua carriera di pittore. Tra il 1878 e il 1913 egli valicò le Alpi almeno sei volte. Inoltre, le sue opere entrarono a far parte delle prestigiose collezioni museali di Venezia, Firenze, Milano, Roma e Trieste, alcune delle quali saranno riunite presso il Museo Casa di Goethe. La mostra presenta inoltre dipinti del giardino sul Wannsee, ritratti di famiglia e di contemporanei provenienti dalla collezione della Liebermann-Villa am Wannsee e da altre collezioni private in Germania. Un’occasione per riscoprire i luoghi in cui lavorò Liebermann e rafforzare così i legami tra la capitale tedesca e quella italiana. Il catalogo della mostra “Max Liebermann in Italia” è pubblicato in italiano e tedesco. A cura di Alice Cazzola (curatrice della mostra), Lucy Wasensteiner (direttrice della Liebermann-Villa am Wannsee) e Gregor H. Lersch (direttore del Museo Casa di Goethe) e contiene saggi di Alice Cazzola, Sarah Kinzel, Enrico Lucchese e Lucy Wasensteiner. Una mostra in cooperazione con la Liebermann-Villa am Wannsee di Berlino. Grazie alla collaborazione con il Museo Nazionale Romano, si rende inoltre merito al legame che Liebermann intrattenne con la capitale italiana: il suo dipinto murale nella loggia della Villa am Wannsee trae infatti ispirazione dall’antica pittura parietale del giardino della Villa di Livia presso Prima Porta a Roma. La mostra si avvale del patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania in Italia e dell’Ambasciata d’Italia nella Repubblica Federale di Germania.
Francisco Coll (*1985): Violin Concerto for violin and orchestra (Atomised- Hyperhymnia- Phase); Hidd’n Blue op. 6 for orchestra; Mural for large orchestra; Four Iberian Miniatures for violin and chamber orchestra; Aqua Cinerea op. 1 for orchestra. Patricia Kopatchinskaja (Violino); Orchestre Philharmonique du Luxembourg; Gustavo Gimeno (Conductor). Registrazione: alla Philharmonie Luxembourg nel luglio 2019 (Mural & Hidd’n Blue), a giugno/luglio 2020 (Violin Concerto & Four Iberian Miniatures) e dicembre 2020 (Aqua Cinerea). T. Time: 80’ 57”. 1 CD Faber Music PTC: 5186951
L’uscita di questo CD è occasione per far conoscere, soprattutto in Italia, l’itinerario artistico-creativo di Francisco Coll, un giovane compositore spagnolo classe 1985. Si presenta una produzione ascrivibile agli anni 2005 – 2019 in un arco temporale di 14 anni ove si percepisce una continua ricerca nel manifestare un’identità sempre più traslucida. Trattasi di un lavoro monografico e, come sottolinea lo stesso autore delle musiche, oltre ad avvicinarsi all’immaginario collettivo nel concepire la figura del compositore come colui che scrive in solitudine, dall’altro significa essere arrivati a realizzare quella speranza di far conoscere la propria produzione, ovvero «dare vita alla [propria] musica». Un dato oggettivo che risulta da questi lavori è costituito da una natura compositiva che, pur non rinnegando la tradizione e lo specchiarsi nella contemporaneità, predilige e valorizza il colore tanto che, le composizioni ove è presente lo strumento solista come in Four Iberian (2014) e il Violin Concerto (2019), ben si inseriscono in questo ricco florilegio. Ciò che emerge è una tavolozza di colori così ricca di sfumature tanto da comprendere lo stesso compositore quando asserisce che nell’atto di scrivere musica non vede molta differenza tra la pittura e la composizione musicale. Il risultato è quello che forma e contenuti siano sempre alla ricerca di un rapporto simbiotico ove l’evidenza della natura ispanica tende a coinvolgere e sedurre l’ascoltatore. Ad esplicitare tutto ciò e renderlo più affascinante è il pregevole lavoro svolto dagli interpreti. Se l’intervento della violinista Patricia Kopatchinskaja riesce a rendere più esplicativo ed enfatico l’interpretazione dello spartito, all’Orchestre Philharmonique du Luxembourg (‘laboratorio sonoro’) il compito della ricerca e produzione del suono facendo emergere buone individualità e gusto per questo tipo di repertorio. Altrettanto positiva, consapevole e attenta la conduzione del direttore Gustavo Gimeno che, benché lo scrivente non disponga delle partiture, fa percepire tuttavia l’impressione di voler restituire ogni piccolo dettaglio del testo musicale oltre a voler creare una perfetta sintonia con gli altri musicisti.
Giovedì 12 settembre Rosa Giglio (coordinatrice artistica), Alexandre Dratwicki (direttore artistico) e Camille Merlin (coordinatrice Bru Zane Label e partenariati discografici) hanno presentato – presso la deliziosa sala dei concerti del Palazzetto Bru Zane, gremita di pubblico, nonostante le poco invitanti condizioni atmosferiche – la programmazione 2024-2025 del Centre de Musique Romantique Française. Per quanto riguarda gli eventi “veneziani”, dopo vari cicli, incentrati nelle precedenti stagioni su un autore o un periodo della storia musicale francese, quello che si aprirà a breve – “Passione violoncello” – avrà, invece, come protagonista questo nobile componente della famiglia degli archi, che – ha spiegato Dratwichi – rappresenta, insieme al pianoforte, la “voce” del romanticismo francese. Derivato dalla viola da gamba e dal violone, il violoncello, caratterizzato da un timbro ricco di inflessioni scure e da un’ampia tessitura, ha cominciato ad avere un suo repertorio a partire dalla fine del Settecento. In una prima fase – che dura fino agli anni Quaranta dell’Ottocento – gli autori francesi indagano soprattutto le possibilità virtuosistiche dello strumento, analogamente a quanto Paganini fa per il violino: si tratta di una generazione di autori-esecutori – come Duport, Franchomme, Baudiot e altri – influenzati da Luigi Boccherini, che vive a Madrid, ma pubblica a Parigi con Pleyel. Emblematico in tal senso il concerto composto da Baudiot, che – al pari di quello firmato da Reicha – è tra i più difficili del repertorio violoncellistico ed è perciò evitato dai solisti. In una fase successiva della storia misicale francese il repertorio dello strumento si è adeguato alla poetica romantica, puntando sulla malinconia, la nostalgia, l’introspezione, grazie ad autori, quali Saint-Saëns e Lalo, che ne mettono in particolare evidenza il côté espressivo. Come sempre il Palazzetto Bru Zane presenterà composizioni inedite, rinvenute in archivi, tra cui quelli della BNF: concerti per violoncello e orchestra – composti sull’esempio di Beethoven e Brahms – e lavori per varie formazioni da camera, che il Palazzetto Bru Zane mette a disposizione di musicisti e studiosi, grazie a proprie iniziative editoriali.
Ecco il primo ciclo dei concerti veneziani
SABATO 21 SETTEMBRE – ORE 19.30
SCUOLA GRANDE SAN GIOVANNI EVANGELISTA
“Passione violoncello”
QUATUOR CAMBINI-PARIS
Julien Chauvin e Karine Crocquenoy violini,
Pierre-Éric Nimylowycz viola, Atsushi Sakai violoncello
Marion Martineau violoncello
opere per quintetto con due violoncelli diBaudiot, Franchomme e Gouvy
DOMENICA 22 SETTEMBRE – ORE 17
PALAZZETTO BRU ZANE
“Violoncelli in coro”
Anne Gastinel, Xavier Phillips, Lila Beauchard e Leonardo Capezzali violoncelli
opere per ensemble di violoncelli di Erb, Offenbach, Franchomme, Faye-Jozin e Schmitt
MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE – ORE 19.30
PALAZZETTO BRU ZANE
“Il Beethoven francese”
QUATUOR DUTILLEU
Guillaume Chilemme e Matthieu Handtschoewercker violini
David Gaillard viola, Thomas Duran violoncello
Victor Julien-Laferrière violoncello
opere per quintetto con due violoncelli di Onslow e Gouvy
GIOVEDÌ 3 OTTOBRE – ORE 19.30
PALAZZETTO BRU ZANE
“Sere straniere”
Yan Levionnois violoncello, Guillaume Bellom pianoforte
opere per violoncello e pianoforte di Boellmann, Magnard e Vierne
MARTEDÌ 8 OTTOBRE – ORE 19.30
PALAZZETTO BRU ZANE
“L’arte del violoncello”
Edgar Moreau, Gabriel Guignier e Jean-Baptiste de Maria violoncelli
opere per ensemble di violoncelli di La Tombelle, D’Ollone, Battanchon, Franchomme, Offenbach
GIOVEDÌ 10 OTTOBRE – ORE 18
PALAZZETTO BRU ZANE
“Storie di musica a palazzo”
conferenza di Neda Furlan
in collaborazione con la Fondazione Querini Stampalia
ingresso gratuito
MARTEDÌ 15 OTTOBRE – ORE 19.30
PALAZZETTO BRU ZANE
“Note su misura”
Aurélien Pascal violoncello, Josquin Otal pianoforte
opere per violoncello e pianoforte di Chevallard, Dumas, Huré, Lecocq
Concerto proposto all’Auditorium du Musée d’Orsay di Parigi, il 29 aprile 2025
GIOVEDÌ 24 OTTOBRE – ORE 19.30
PALAZZETTO BRU ZANE
“Il tempo ritrovato”
Miriam Prandi violoncello, Gabriele Carcano pianoforte
opere per violoncello e pianoforte di Debussy, Boulanger, Franck
Qui per tutti i dettagli della stagione e iniziative del Palazzetto Bru Zane
Christus, der ist mein Leben BWV 95 eseguita la prima volta a Lipsia il 12 settembre 1723 è la seconda delle quattro Cantate bachiane per la sedicesima domenica dopo la Trinità. Opera stupenda ed imprevedibile che Bah avvia arditamente con la citazione di due Corali, frapponendo fra l’uno e l’altro un recitativo che prosegue nell’accompagnamento obbligato, i disegni esposti nella frase iniziale del brano. Le citazioni sono ancora una volta la conseguenza di una perfetta padronanza di una analogia e e similitudine fra i vari passi della delle scritture e la proposta della liturgia. Il Corale che da il titolo all’opera “Cristo, tu sei la mia vita e morie è il mio premio” si addice all’episodio di Luca che già abbiamo citato nella precedente Cantata, e poiché la prima strofa del Corale termina con la parola “Con gioia me ne vado”, risulta pressoché diretto il richiamo a un altro Corale “Mit Fried und Freud” che altro non è se non la versione tedesca ad opera di Martin Lutero del “Canticus Simenonis” , cioè del Magnificat. Così tutto l’episodio riceve giustificazione da un trascorrere per analogie da un testo all’altro. La bellissima aria tripartita del tenore (Nr.5) prepara al “passaggio estremo”: “Ah, suona presto, ora benedetta, l’ultimo rintocco della campana!” con un improvvisa ed eloquente deviazione dalle leggi del simbolismo, Bach si compiace di organizzare una pagina, ne è veicolo il tenore, nella quale il descrittivismo è l’anima vincente, lo strumento docile della poesia. Il pizzicato degli archi scandisce il tempo che viene poi fermato da un artificio elegantissimo, un effetto d’eco di 2 oboi d’amore. In precedenza erano state poste le premesse per il distacco dal mondo con la trasformazione in aria (Nr.3) del Corale “Voglio dirti addio, falso e perfido mondo, anche qui inserendo nel tessuto orchestrale la parte obbligata di 2 oboi d’amore. E ancora, naturalmente, è un Corale a chiudere la meditazione sulla morte e sulla liberazione da quella che il fedele potrà ottenere.
Nr.1 – Corale e recitativo (Tenore)
Cristo, tu sei la mia vita,
morire è il mio premio;
a te mi abbandono,
con gioia me ne vado.
Con gioia,
sì, con cuore lieto
voglio partire da quaggiù.
E se oggi stesso mi fosse detto: tu devi!
sarei docile e pronto a far sì che
questo povero corpo, queste membra scarnificate,
il vestito di ogni mortale,
torni alla terra
e riposi nel suo seno.
Il mio canto funebre è già pronto:
ah, che possa cantarlo oggi!
Con pace e gioia me ne vado,
secondo la volontà di Dio,
consolàti sono il mio cuore e la mia mente,
calmi e sereni.
Dio me lo aveva promesso:
la morte è diventata il mio sonno.
Nr.2 – Recitativo (Soprano)
Addio, mondo crudele!
Ormai non ho più niente a che fare con te;
la mia dimora è gia pronta,
posso riposare in pace
più di quanto ero presso di te,
lungo le rive dei fiumi di Babilonia,
ad ingoiare il sale della lussuria,
nei tuoi giardini del piacere dove
non poter cogliere che le mele di Sodoma.
No, no! Ora posso dichiarare con coraggio:
Nr.3 – Corale (Soprano)
Voglio dirti addio,
falso e perfido mondo,
la tua vita di peccato
non può piacermi.
La buona dimora nel Paradiso,
lassù è la mia aspirazione.
Dio ricompenserà per l’eternità
chi lo ha servito quaggiù.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Ah, possa venire presto il momento
in cui vedrò la morte,
fine di tutte le sofferenze,
impadronirsi delle mie membra;
è lei che vorrei per il mio corpo
e nella sua attesa contare tutte le ore.
Nr.5 – Aria (Tenore)
Ah, suona presto, ora benedetta,
l’ultimo rintocco della campana!
Vieni, vieni, ti tendo la mano,
vieni, metti fine alla mia sofferenza,
giorno tanto desiderato della morte!
Nr.6 – Recitativo (Basso)
Poichè so
e credo fermamente
che dalla mia tomba
avrò un accesso sicuro al Padre.
La mia morte non è che un sonno
grazie al quale il corpo, liberato dalle
preoccupazioni,
giunge al riposo.
Come il pastore cerca la pecora smarrita,
così Gesù saprebbe trovarmi, poiché
lui è il mio capo e io una delle sue membra!
Per questo ora posso, con spirito gioioso,
fondare la mia beata resurrezione sul mio Salvatore.
Nr.7 – Corale
Poichè so
e credo fermamente
che dalla mia tomba
avrò un accesso sicuro al Padre.
La mia morte non è che un sonno
grazie al quale il corpo, liberato dalle
preoccupazioni,
giunge al riposo.
Come il pastore cerca la pecora smarrita,
così Gesù saprebbe trovarmi, poiché
lui è il mio capo e io una delle sue membra!
Per questo ora posso, con spirito gioioso,
fondare la mia beata resurrezione sul mio Salvatore.
Traduzione Emanuele Antonacci
Giuni Russo (Palermo, 1951 – Milano 14 settembre 2004)
A 20 anni dalla morte
Musiche di G.Donizetti (“A mezzanotte”, “Le crépuscole” (con Franco Battiato), “La zingara”, “Me voglio fa ‘na casa”), V,Bellini (“Malinconia ninfa gentile”, “Fenesta che lucive”, “Vanne o rosa fortunata”) G.Verdi. (“Nell’orror di notte oscura”)..”Turna a Surriento”,”Marchiare”, “Serenatella a mare”, “A’ cchiu bella”, “Tu ca nun chiagne”, “O sole mio”, “Santa Lucia”
Milano, Palazzo Reale
MUNCH. IL GRIDO INTERIORE
Dopo 40 anni dall’ultima mostra a Milano, Edvard Munch (Norvegia, 1863 -1944) viene celebrato con una grande retrospettiva promossa da Comune di Milano – Cultura con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia in collaborazione con il Museo MUNCH di Oslo. Protagonista indiscusso nella storia dell’arte moderna, Munch è stato uno dei principali artisti simbolisti del XIX secolo ed è considerato un precursore dell’Espressionismo, oltre a essere un maestro nell’interpretare le ansie e le aspirazioni più profonde dell’animo umano. La vita di Munch è stata segnata da grandi e precoci dolori. La perdita prematura della madre a soli 5 anni e della sorella, la morte del padre e la tormentata relazione con la fidanzata Tulla Larsen sono stati il materiale emotivo primigenio sul quale l’artista ha cominciato a tessere la sua poetica, la quale si è poi combinata in maniera originalissima, grazie al suo straordinario talento artistico, con la sua passione per le energie sprigionate dalla natura. I suoi volti senza sguardo, i paesaggi stralunati, l’uso potente del colore, la necessità di comunicare dolori indicibili e umanissime angosce sono riusciti a trasformare le sue opere in messaggi universali e Munch uno degli artisti più iconici del Novecento. La mostra – curata da Patricia G. Berman, una delle più grandi studiose al mondo di Munch, in collaborazione con Costantino D’Orazio per il supporto nella redazione dei testi di approfondimento in mostra – racconta tutto l’universo dell’artista, il suo percorso umano e la sua produzione grazie a un percorso di 100 opere, tra cui una delle versioni litografiche de L’Urlo (1895) custodite a Oslo, La morte di Marat (1907), Notte stellata (1922–1924), Le ragazze sul ponte (1927), Malinconia (1900–1901) e Danza sulla spiaggia (1904). Ad arricchire la mostra milanese, è previsto un ricco palinsesto di eventi che coinvolgerà diverse realtà culturali della città e che andrà ad approfondire la figura dell’artista e ad espandere i temi delle sue opere. La mostra vede come sponsor Statkraft e Generali Valore Cultura, special partner Ricola, media partner Urban Vision, mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale e radio partner Dimensione Suono Soft. Munch è uno degli artisti che ha saputo meglio interpretare sentimenti, passioni e inquietudini della sua anima, comunicandoli in maniera potente e diretta. Plasmato inizialmente dal naturalista norvegese Christian Krohg, che ne incoraggiò la carriera pittorica, negli anni Ottanta del Novecento si recò a Parigi dove assorbì le influenze impressioniste e postimpressioniste che gli suggerirono un uso del colore più intimo, drammatico ma soprattutto un approccio psicologico. A Berlino contribuì alla formazione della Secessione Berlinese e nel 1892 si tenne la sua prima personale in Germania, che fu reputata scandalosa: da quel momento in poi Munch viene percepito come l’artista eversivo e maledetto, alienato dalla società, un’identità in parte promossa dai suoi amici letterati. A metà degli anni Novanta del XIX secolo si dedicò alla produzione di stampe e, grazie alla sua sperimentazione, divenne uno degli artisti più influenti in questo campo. La sua produttività e il ritmo serrato delle esposizioni lo porteranno a ricoverarsi volontariamente nei sanatori a partire dalla fine degli anni Novanta del XIX secolo.
Relazioni amorose dolorose, un traumatico incidente e l’alcolismo – vivendo la vita “sull’orlo di un precipizio” – lo portarono a un crollo psicologico per il quale cercò di recuperare in una clinica privata tra il 1908 e il 1909. Dopo aver vissuto gran parte della sua vita all’estero, l’artista quarantacinquenne tornò in Norvegia, stabilendosi al mare, dipingendo paesaggi e dove iniziò a lavorare ai giganteschi dipinti murali che oggi decorano la Sala dei Festival dell’Università di Oslo. Queste tele, le più grandi dell’Espressionismo in Europa, riflettono il suo sempre vivo interesse per le forze invisibili e la natura dell’universo. Nel 1914 acquistò una proprietà a Ekely, Oslo, dove, da celebre artista internazionale, continuò il suo lavoro sperimentale fino alla morte, avvenuta nel 1944, appena un mese dopo il suo ottantesimo compleanno. Nel corso della sua lunga vita Edvard Munch realizzò migliaia di stampe e dipinti. Essendo tanto un uomo d’immagini quanto di parole, riempì fogli su fogli di annotazioni, aneddoti, lettere e persino una sceneggiatura per il teatro. L’esigenza di comunicare le proprie percezioni, il proprio ‘grido interiore, lo accompagnò per tutta la vita, e proprio questa attitudine è stato il motore della sua pratica come artista, che ha toccato tanto temi universali – come la nascita, la morte, l’amore e il mistero della vita – quanto i disagi psichici necessariamente connessi all’esistenza umana – le instabilità dell’amore erotico, il disagio prodotto dalle malattie fisiche e mentali e il vuoto lasciato dalla morte. Questa mostra ruota attorno al ‘grido interiore’ di Munch, al suo saper costruire, attraverso blocchi di colore uniformi e prospettive discordanti, lo scenario per condividere le sue esperienze emotive e sensoriali: un processo creativo che sintetizza ciò che l’artista ha osservato, quello che ricorda e quanto ha caricato di emozioni. Altre opere, invece, cercano di immortalare le forze invisibili che animano e tengono insieme l’universo. L’inizio della sua carriera coincide infatti con cambiamenti radicali nello studio della percezione: alla fine dell’Ottocento è in corso un dibattito tra scienziati, psicologi, filosofi e artisti sulla relazione tra quello che l’occhio vede direttamente e come i contenuti della mente influiscono sulla nostra vista. Il suo interesse per le forze invisibili che danno forma all’esperienza, condizionerà le opere che lo rendono uno degli artisti più significativi della sua epoca. Precursore dell’Espressionismo e persino del Futurismo del XX secolo nella sua esplorazione delle forze impercettibili, oggi continua a “parlare” alle visioni interiori e alle preoccupazioni anche di noi, uomini e donne dell’età moderna. Nelle sue creazioni Munch punta a rendere visibile l’invisibile.
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
PENELOPE
a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni
Il Parco archeologico del Colosseo promuove la mostra Penelope, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa.
Aperta negli spazi delle Uccelliere Farnesiane e del Tempio di Romolo, l’esposizione ̶ attraverso circa cinquanta opere ̶ ripercorre il mito e la fortuna della figura di Penelope che giunge a noi, dalla remota età in cui affondano i poemi omerici, attraverso due tradizioni ugualmente potenti: quella letteraria e quella legata alla rappresentazione visiva. Il suo personaggio ha attraversato i millenni e popolato il nostro immaginario legandolo a un ideale normativo della donna, fedele al marito Ulisse e saggia custode della sua dimora-reggia a Itaca, ubbidiente perfino al figlio Telemaco appena ventenne. Ma a renderla affascinante sono la sua determinazione, la sua resistenza e capacità di sognare. All’interno del percorso espositivo anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro le materie tessili, in collaborazione con l’Archivio e la Fondazione Maria Lai. Alla mostra si accompagna il catalogo pubblicato da Electa, concepito, per la ricchezza dei contributi affidati ai maggiori specialisti con focus su vari aspetti e cronologie, come un volume esauriente ̶ e ancora mancante nel panorama editoriale ̶ sulla figura mitica eppure così attuale di Penelope e sulla sua fortuna nella cultura occidentale fino ai giorni nostri. Electa, inoltre, riedita nella collana Pesci Rossi Le ragioni dell’arte (2002), dialoghi tra Giuseppina Cuccu e Maria Lai nati da temi e argomenti che l’artista aveva proposto come materia didattica per l’infanzia. In occasione della mostra il Parco archeologico del Colosseo promuove il programma di incontri Esistere come Donna. Dialoghi e lezioni su donne, artiste, battaglie e archetipi femminili ideato e realizzato da Electa con Fondazione Fondamenta e con Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni. Gli incontri si terranno nel Foro Romano presso la Curia Iulia, a partire dal 21 settembre, e fino a dicembre.
Arnold Schönberg (Vienna 13 settembre 1874 – Los Angeles 13 luglio 1951)
Nel centenario della nascita – 2
Piuttosto tormentata e lunga fu la composizione di Die glückliche Hand (La mano felice), poiché occupò il triennio compreso tra il 1910 e il 1913, anche se la prima idea risaliva probabilmente al 1908. Die glückliche Hand, anch’essa un monodramma come Erwartung, in quanto l’unico protagonista è un uomo sconosciuto, dovette attendere 11 anni prima di essere rappresentata alla Volksoper di Vienna il 24 ottobre 1924. Il testo dell’opera è fortemente connotato in senso simbolico sin dal titolo la cui traduzione, La mano felice, non rende perfettamente il significato delle parole. Il termine tedesco «Glück» può essere tradotto non solo con le parole «fortuna», «felicità» e «destino», ma anche con il lemma «talento» che si riferisce alla capacità artistica e creativa che l’Uomo, l’ignoto protagonista dell’opera, metafora dell’eroe perseguitato nel quale confluiscono le figure di Prometeo, di Gesù Cristo e di Sigfrido, mostra di avere.
L’opera si apre con l’intervento di un coro di 12 solisti, formato da 6 donne e altrettanti uomini, espressione del divino e dell’immutabile, che ammonisce il nostro protagonista, roso alla nuca da un mostro favoloso, a non inseguire sogni fallaci. Uno di questi è rappresentato dall’amore per una Donna, con la quale instaura un rapporto contrastato. Con la sua presenza la donna, infatti, nel secondo quadro, rende felice l’Uomo che le sfiora la mano, ma che è poi da lei abbandonato per un Signore vestito in modo elegante, simbolo della fredda e ipocrita realtà mondana. Pentita, tuttavia, la donna ritorna dall’Uomo che le sfiora nuovamente la mano e lo rende talmente felice da indurlo a dedicarsi all’attività artistica su una rupe dove si trovano due grotte. Entrato in una di esse, dove alcuni operai stanno lavorando attorno a una grossa incudine, l’Uomo pone su di essa un pezzo d’oro, da cui, dopo averlo percosso con il maglio, trae un grosso diadema. Egli allora va alla ricerca della donna che si trova con il Signore vestito elegantemente nella grotta accanto, ma quest’ultima, vedendolo, fugge dall’Uomo che la insegue inutilmente inerpicandosi sulla rupe, fino a quando lei gli fa precipitare addosso un macigno che si tramuta nel mostro iniziale. L’opera si conclude con la ripresa della scena iniziale in una struttura circolare in cui il progresso, rappresentato dalla creazione artistica della quale, tuttavia, l’Uomo è insoddisfatto, viene annullato da un ritorno alla situazione iniziale indicativo dell’immobilità che colpisce il destino umano.
La struttura musicale ricalca fedelmente quella del testo ed è riassumibile nello schema A-B-C-B1C1A1 dove le tre lettere dell’alfabeto corrispondono alle tre idee musicali. Se A costituisce il tema dell’«acquietamento», B e C identificano, rispettivamente, la «felicità illusoria» e le azioni dell’eroe-artista che stridono al confronto con quelle degli operai. Da un punto di vista musicale
colpisce l’immobilità iniziale resa dai quattro accordi sovrapposti di settima che vengono tenuti come pedale dall’arpa, dai timpani e dagli archi inferiori e rappresentano un’atemporalità che rimanda all’eternità.
Il testo, con alcune modifiche, è tratto da Riccardo Viagrande, L’opera nl 900′. Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti, Monza, Casa Musicale Eco, 2020, pp. 316-317.
Arnold Schönberg (Vienna 13 settembre 1874 – Los Angeles 13 luglio 1951)
Nel centenario della nascita
“ERWARTUNG”(Attesa) op. 17.
Prima opera di Schönberg, Erwartung (Attesa) op. 17, composta in appena quindici giorni tra il 27 agosto e il 12 settembre del 1909 e completata nell’orchestrazione il 4 ottobre dello stesso anno, fu rappresentata per la prima volta solo 15 anni dopo a Praga il 6 giugno 1924 sotto la direzione di Alexander Zemlinsky con Marie Gutheil-Schoder. Il libretto di Marie Pappenheim, moglie di uno psicologo viennese, non segue i canoni tradizionali dei testi destinati al teatro musicale, in quanto si presenta come un monodramma ispirato da una vicenda personale.
L’unica protagonista è una donna che si reca ad un appuntamento con il suo amante in un bosco così terrificante da incutere nel suo animo un forte senso di paura. Nelle quattro scene, di cui si compone l’opera, la sua mente è popolata da fantasmi che sembrano il tragico epilogo. Alla fine, infatti, scopre, nei pressi della casa della rivale, il cadavere ancora sanguinante dell’uomo amato che non smette di baciare e abbracciare in preda al delirio fino all’alba che sancisce il loro definitivo distacco.
In quest’opera Schönberg, nella quale non vi è una vera e propria azione drammatica, in quanto sulla scena vive l’ansia della protagonista in preda ai fantasmi che la sua mente produce, in un ambiente spettrale come quello del bosco, si assiste alla rappresentazione del mondo psichico della donna che va incontro ad una progressiva e irreversibile dissoluzione. Dal punto di vista musicale sono riconoscibili tre cellule tematiche associabili a tre sentimenti diversi, dei quali il primo (cellula 1) rappresenta le ansie dell’amore, il secondo (cellula 2) quelle della colpa ed il terzo (cellula 3) il pensiero della morte. Il carattere realistico dell’opera marca un netto distacco dalla tradizione melodrammatica tedesca e da quelle opere, tra cui Salome ed Elektra di Strauss, che, alla stregua dell’Erwartung, rappresentano la nevrosi. In quest’ultima, infatti, la finzione scenica e le forme convenzionali, a cui Strauss non aveva rinunciato, sono sopraffatte da una realtà che rappresenta il continuo e irreversibile degrado della psiche umana.
Il testo, con alcune modifiche, è tratto da Riccardo Viagrande, L’opera nel 900′. Trame, successi e fiaschi in Italia, Europa e Stati Uniti, Monza, Casa Musicale Eco, 2020, pp. 315-316.
Roma, Castel Sant’Angelo
IL COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA
Centro Coreografico Nazionale /Aterballetto
regia e visual Fabio Cherstich
coreografia e movimenti scenici Philippe Kratz
musica Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Claudio Monteverdi
danzatori: Nyoka Byli Wotorson, Pedro Francisco Texeira Correia , Scapino Ballet Rotterdam, Gádor Lago Benito e Alberto Terribile
Centro Coreografico Nazionale / Aterballetto
tenore Matteo Straffi
clavicembalo Deniel Perer
coproduzioni Fondazione Nazionale
della Danza / Aterballetto,
Teatro Regio di Parma, Torinodanza
Festival – Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Centro di Musica Antica
All’interno della IV edizione della rassegna “sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo”, sarà in scena il 13 settembre ore 18,30, 19.30 e 21.00, presso la Sala della Biblioteca, lo spettacolo di danza del Centro Coreografico Nazionale /Aterballetto: “IL COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA”, regia e visual Fabio Cherstich, coreografia e movimenti scenici Philippe Kratz, musica Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Claudio Monteverdi, danzatori (ore 19,30 e ore 21.00 ) Gádor Lago Benito, Alberto Terribile, e (ore 18.30) Nyoka Byli Wotorson, Pedro Francisco Texeira Correia; tenore Matteo Straffi, clavicembalo Deniel Perer. Nella splendida cornice di Castel Sant’Angelo, guidato dal Direttore generale Musei Massimo Osanna, la rassegna a cura di Anna Selvi, promuove il confronto fra l’arte dell’attore, quella del danzatore e del musicista, che riesce a innescare un dialogo con gli spazi del museo e i suoi pubblici nell’ambito del programma di valorizzazione del monumento. Il combattimento di Tancredi e Clorinda diventa, a 400 anni dalla sua prima rappresentazione, la creazione di un progetto multidisciplinare innovativo, che sperimenta nuove forme di coprogettazione, costruendo percorsi nuovi per la valorizzazione degli artisti e la diffusione delle opere. Il lavoro nasce per far dialogare l’uomo, la musica e le opere d’arte presente nei Musei. Uno dei brani più straordinari di Claudio Monteverdi, la figura più universalmente nota della musica barocca italiana, Il combattimento di Tancredi e Clorinda, che nel 2024 compirà 400 anni dalla sua prima rappresentazione, diventa la creazione di un progetto multidisciplinare innovativo. La coreografia è firmata da Philippe Kratz mentre la regia è curata da Fabio Cherstich, nel cui lavoro convergono la cura dell’immagine e la passione per i linguaggi visivi. Il Centro Coreografico Nazionale /Aterballetto ha proposto al Teatro Regio di Parma e al Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale di investire su una nuova produzione che interpreti due aspetti differenti e quasi sempre separati del made in Italy della cultura. Quello del grande patrimonio musicale, per il quale l’Italia è conosciuta, e quello contemporaneo che – anche grazie alla danza – comincia ad avere attenzione in Europa e nel mondo. Il progetto rappresenta la costruzione di un percorso di ricerca, collaborazione e produzione dove, insieme alla necessità di sperimentare nuove forme di co-progettazione, all’ibridazione dei linguaggi performativi e al bisogno di costruire strade nuove per la valorizzazione degli artisti e la diffusione delle opere, è centrale una forte identità estetica e tematica. La scelta musicale è caduta su uno dei brani più straordinari di Claudio Monteverdi, la figura più universalmente nota nella musica barocca italiana. Il combattimento di Tancredi e Clorinda, che nel 2024 compirà 400 anni dalla sua prima rappresentazione, diventerà la creazione/ bandiera di questo progetto, allestita per due danzatori, una cantante, un clavicembalo e, per la versione da palcoscenico, un quartetto d’archi. La performance è progettata per la messa in scena tanto in contesti teatrali quanto all’interno di cornici museali e del patrimonio nazionale, dando vita a un progetto in grado di rivolgersi a pubblici e contesti differenti. La regia è curata da Fabio Cherstich, affermato regista che dal 2021 collabora anche con il CCN/Aterballetto in veste di curatore degli allestimenti. La scelta della cantante e del clavicembalista è a cura della Fondazione Teatro Regio di Parma insieme al Centro di Musica Antica Ghislieri, così come quella del quartetto d’archi per l’allestimento da palcoscenico, con la possibilità di coinvolgere anche i conservatori di musica antica nelle città dove la performance sarà presentata. La scelta dei danzatori è curata dal CCN/Aterballetto. I movimenti scenici sono affidati a Philippe Kratz, già danzatore di Aterballetto e ora coreografo, che ha debuttato nel 2023 al Teatro alla Scala e lavora stabilmente in Germania. Il combattimento di Tancredi e Clorinda è un progetto pensato per rappresentare un’Italia della cultura radicata nel proprio patrimonio senza rinunciare a proiettarsi nella contemporaneità. Per rivolgersi a tutti i pubblici, dai più colti e raffinati a quelli senza una conoscenza specifica della danza. Per andare in qualsiasi spazio, senza particolari difficoltà.
LA VACCHERIA DELL’EUR DIVENTA LA “CASA DELLA POP ART” CON UNA NUOVA ESPOSIZIONE E TRE GIORNI DI FESTIVAL
A due anni dall’apertura dello spazio espositivo e dopo aver ospitato importanti mostre come “Flesh: Warhol & The Cow. Le opere di Andy Warhol alla Vaccheria” e “Dal Futurismo all’arte virtuale“, gli spazi della Vaccheria nel Municipio IX Roma EUR si preparano ad accogliere un nuovo e ambizioso progetto espositivo: “Viaggio nella Pop Art: un nuovo modo di amare le cose“. Curato da Giuliano Gasparotti e Francesco Mazzei, questo evento, che si terrà dal 13 settembre 2024 al 31 marzo 2025, offrirà al pubblico un accesso gratuito a circa 200 opere provenienti da collezioni private e dalla Collezione Rosini Gutman, curata da Gianfranco Rosini. La Vaccheria, un tempo grande casale dell’agro romano adibito a stalla, ha conosciuto una notevole trasformazione negli ultimi anni, diventando un polo culturale aperto al coinvolgimento di tutti e un punto di riferimento per giovani talenti e artisti del territorio. Con questo nuovo progetto espositivo, l’obiettivo è di candidare la Vaccheria a diventare la “Casa romana della Pop Art“, una sorta di Factory attualizzata al contesto e ai tempi odierni. Questa visione è fortemente sostenuta da Titti Di Salvo, Presidente del Municipio IX Roma EUR con delega alla cultura, che intende fare della Vaccheria un luogo di sperimentazione e creatività continuo. Ad inaugurare questa nuova fase contribuirà, oltre alla mostra, anche la prima edizione del festival “From Pop to Pop”, che si terrà dal 13 al 15 settembre. Il festival, dedicato alla cultura pop, offrirà eventi a ingresso libero e gratuito per tutti, arricchendo l’esperienza culturale e coinvolgendo un pubblico vasto e diversificato. “Viaggio nella Pop Art: un nuovo modo di amare le cose” si propone di raccontare la Pop Art, un movimento artistico anticonformista e “popolare” per definizione, capace di superare barriere e creare un senso di identificazione. La mostra copre quasi otto decenni di storia della Pop Art, esplorandone le diverse articolazioni, dalle origini negli Stati Uniti negli anni Sessanta fino alle evoluzioni contemporanee. La mostra si sviluppa lungo tre direttrici principali. La prima direttrice si concentra sui grandi protagonisti della Pop Art americana, come Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Robert Rauschenberg, e della New Pop, rappresentata da artisti contemporanei come Marco Lodola e Mark Kostabi. Tra le opere esposte, spiccano alcuni pezzi iconici di Andy Warhol, come “Liza Minnelli” e “Cow“, che riflettono il suo profondo legame con l’Italia e la società del tempo. Particolarmente significativa è l’opera “Fate Presto”, una reinterpretazione in stile Pop Art della prima pagina del quotidiano “Il Mattino” del 26 novembre 1980, che esortava a intervenire rapidamente in soccorso delle vittime del terremoto in Irpinia. Completano questa sezione opere di Roy Lichtenstein, come “Sunrise” e “Shipboard Girl“, Robert Rauschenberg con “Sky Rite“, e Robert Indiana con “Liebe Love“. Il percorso continua con Mark Kostabi, che reinterpreta in chiave postmoderna i temi cari a Warhol, come il rapporto con la musica e i media, e l’uso di linguaggi, tecniche e materiali diversificati. Tra le opere esposte, “Gaming the Course of History” di Kostabi sarà presentata per la prima volta al pubblico, mentre alcuni disegni a matita preparatori documentano le fasi iniziali della sua carriera artistica e l’evoluzione del suo progetto artistico “Kostabi World“. Il contributo di Marco Lodola, fondatore del Nuovo Futurismo, è evidenziato da opere come “Jim Morrison” e la scultura tridimensionale “Abbey Road“, una presenza centrale nel percorso espositivo con i suoi monumentali pannelli portanti di 8 metri di larghezza e 4 di altezza. La seconda direttrice della mostra mette in luce il ruolo delle artiste donne nella New Pop Art, celebrando la forza dirompente della creatività femminile. Tra le protagoniste, spiccano le “Nana dansant” di Niki De Saint Phalle, sospese in un turbinio di tessuti sgargianti e colori accesi, simboli di una sensualità esplosiva e di una vitalità prorompente. L’arte femminile è ulteriormente valorizzata da opere di artiste come Ilaria Rezzi, con la sua tecnica che ci porta in un regno incantato di omini blu, Ludmilla Radchenko con la sua arte piena di ironia, Erika Calesini che trasforma oggetti esausti in elementi funzionali, Olivia Gozzano che fonde fotografia e pittura, e molte altre. La terza e ultima direttrice ci porta nel cuore della Roma degli anni Sessanta, alla riscoperta delle radici italiane della Pop Art, che trovano terreno fertile nella “Scuola di Piazza del Popolo“, nata intorno al Caffè Rosati e alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martis. Tra i protagonisti, Franco Angeli, con opere come “Olimpico” e “Olimpico svastiche“, Tano Festa con “Manet” del 1981, e Mario Schifano, tra le figure più poliedriche e affascinanti del gruppo, rappresentato in mostra con foto ritoccate e l’omaggio a De Chirico, “Piazza delle Muse Inquietanti“. A completare l’esperienza espositiva, le installazioni ideate da Giuliano Gasparotti e Francesco Mazzei, realizzate da KIF Italia, contribuiscono a rendere la mostra un evento immersivo e multisensoriale. Tra queste, l’installazione sospesa “Pixell” dialoga con il ritratto di Liza Minnelli attraverso l’uso delle Polaroid, mentre “Pop Mirage“, una video-opera all’interno della Mirror Room, e “Hurricane“, un vortice di colori fluorescenti che avvolge le “Nana dansant” di Niki de Saint Phalle, rappresentano omaggi al genio di Warhol e alla Factory. Con “Viaggio nella Pop Art: un nuovo modo di amare le cose“, la Vaccheria si conferma un polo culturale d’avanguardia, capace di attirare un vasto pubblico e di promuovere la conoscenza e l’apprezzamento di una corrente artistica che ha rivoluzionato il mondo dell’arte, influenzando non solo il gusto estetico ma anche il modo di vivere e di percepire la realtà.
Roma, Sala Umberto
CHICCHIGNOLA
di Ettore Petrolini
con Massimo Venturiello, Maria Letizia Gorga
e con (in o.a.) Franco Mannella, Claudia Portale, Carlotta Proietti
Scene Alessandro Chiti
arrangiamento musicale Mariano Bellopiede
produzione Officina Teatrale
Regia di Massimo Venturiello
Massimo Venturiello sarà in scena alla Sala Umberto dal 19 Settembre al 22 con “Chicchignola” di Ettore Petrolini. In scena con Venturiello – che cura anche la regia – Maria Letizia Gorga e Franco Mannella, Claudia Portale, Carlotta Proietti. Le scene sono di Alessandro Chiti, mentre l’arrangiamento musicale e di Mariano Bellopede. La trama di questa commedia è semplice. Chicchignola, un uomo qualunque che tira avanti vendendo giocattoli da lui stesso costruiti, su un carretto, lungo le strade di Roma, è oggetto di comune derisione. Questa sua passione per palloncini e giocattoli sembra essere espressione di grande ingenuità, se non addirittura di stupidità. Con estrema facilità dunque sua moglie lo tradisce col suo migliore amico, nella convinzione che il marito non riuscirà mai a scoprirlo. Un finale a sorpresa però ribalterà completamente la situazione e i cosiddetti furbi che ronzano attorno al poetico protagonista dovranno ricredersi e confrontarsi con la loro squallida superficialità. Chicchignola è considerata la più bella commedia di Ettore Petrolini. Fu rappresentata per la prima volta nel 1931 a Roma, al Teatro Argentina e al Quirino; l’anno dopo fu portata a Parigi ed ebbe uno straordinario successo internazionale. Infine dal 1969 per dieci anni, alternandola con altri spettacoli, Mario Scaccia l’ha riproposta con la sua regia. Qui per tutte le informazioni.
Antoine Forqueray (1672-1745): Prélude Non Mesuré En Ré Mineur; Jean-Baptiste Forqueray (1699-1782): Première Suite en ré mineur; François Couperin (1668-1733): Troisième Livre De Pièces De Clavecin Ordre XVII (La Superbe ou la Forqueray); Antoine Forqueray: Suite pour trois violes, transcribed for solo harpsichord by Justin Taylor; Jacques Duphly (1715-1789): Troisième livre de pièces de clavecin (La Forqueray); Jean-Baptiste Forqueray: Cinquième suite en do mineur. Justin Taylor (clavicembalo). Registrazione: 13-16 marzo 2016 presso Notre Dame De Bon Secours (Parigi). T.Time: 79′ 15″. 1CD ALPHA CLASSICS ALPHA 247
Parenti serpenti, verrebbe da dire, citando il titolo di un famoso film di Mario Monicelli, per la Famille Forqueray, che, protagonista di un’originale proposta discografica dell’etichetta ALPHA CLASSICS, non si distinse certo per l’armonia e l’amore tra i suoi membri. Dei tanti musicisti, che compongono questa famiglia, soltanto due sono stati quelli che hanno raggiunto una certa fama: il violista Antoine Forqueray (1672-1745) e il figlio Jean-Baptiste Forqueray (1699-1782), pure lui violista, avuto con la clavicembalista Henriette-Angélique Houssu che Antoine aveva sposato nel 1697, ma dalla quale si sarebbe separato definitivamente nel 1710, nonostante i due coniugi condividessero il comune amore per la musica e la donna lo accompagnasse spesso al clavicembalo. Diventato giovanissimo Ordinaire de la chambre du Roi, Luigi XIV, rimasto impressionato dal suo virtuosismo nel suonare la viola da gamba tanto da chiedergli di insegnarli a suonarla, Antoine fu gelosissimo del figlio Jean-Baptiste che vero e proprio enfant prodige aveva suscitato l’entusiasmo del re suonando all’età di cinque anni. Antoine, da parte sua, non solo fece imprigionare il figlio quando aveva appena 15 anni nella prigione di Bicêtre, ma dieci anni dopo lo fece mandare in esilio con una Lettre de cachet. Grazie ad amicizie influenti, Jean-Baptiste sarebbe ritornato due anni dopo a Parigi, dove finalmente il suo talento fu riconosciuto tanto che egli si esibì con i più grandi musicisti dell’epoca e, alla fine, da succedere, nel 1742, al padre a corte. Morto il padre nel 1745, due anni dopo, Jean-Baptiste pubblicò cinque suite in due versioni, una per viola da gamba e basso continuo e l’altra per clavicembalo affermando nella prefazione che erano state composte dal suo “defunto padre”. In realtà quest’attribuzione al padre desta non poche perplessità innanzitutto perché molti dei brani sono dedicati a persone che, in realtà, facevano parte dell’entourage del figlio il quale, secondo quanto da lui stesso affermato, avrebbe composto solo alcuni pezzi e avrebbe aggiunto il basso alle composizioni che sarebbero state scritte dal padre per viola sola. Al di là delle intrinseche difficoltà inerenti alla loro attribuzione, questi brani illuminano una prassi piuttosto diffusa all’epoca, quella di disegnare ritratti musicali di personaggi secondo un procedimento tipico della musica francese del Seicento e del Settecento in base al quale le danze tipiche della suite diventavano un’occasione per descrivere personaggi e situazioni. Tra i ritratti troviamo musicisti celebri come Couperin, ultimo brano della Prima suite, Forqueray, forse un ricordo del padre scritto dal figlio Jean-Baptiste, e Rameau (primo brano della Quinta suite. A completare il ricco e anche molto bello programma sono, infine, due ritratti abbastanza famosi di Forqueray, usciti dalla penna di Jacques Duphly (1715 – 1789) e di François Couperin (1668-1733), e la Suite per tre viole di Antoine, trascritta per clavicembalo da Justin Taylor. In qualità di interprete, l’artista, su un clavicembalo costruito sul modello di un Ruckers-Hemsch costruito da Anthony Sidey e Frédéric Bal, perfetto per questo tipo di repertorio, si accosta a queste musiche con grande senso dello stile, rendendo al meglio i valori espressivi di queste pagine, alcune delle quali sono dei piccoli autentici gioielli come, del resto, buona parte delle composizioni francesi di questo periodo.
Roma, Museo di Roma in Trastevere
80’S DARK ROME
Il Museo di Roma in Trastevere presenta le fotografie con cui Dino Ignani ha ritratto la Roma ombrosa e scintillante, sotterranea e plateale, degli anni Ottanta del secolo scorso. 80’s Dark Rome è il titolo della mostra, a cura di Matteo Di Castro, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura. Il nucleo centrale del progetto espositivo è costituito dal ciclo di ritratti, denominato Dark Portraits, che Ignani ha dedicato ai giovani che animavano la vita notturna dell’epoca e, in particolare, i luoghi e gli eventi legati alla scena dark. Pochi anni dopo l’esplosione del punk, in Italia viene chiamata dark una cultura di strada non riconducibile a un’unica tendenza musicale ma identificata soprattutto dal proprio look, in cui il colore nero assume un’inedita valenza simbolica. È proprio agli inizi del decennio che il termine look entra nel nostro linguaggio per indicare qualcosa che va ben al di là del modo di vestire: l’attitudine a vivere l’aspetto esteriore come un progetto vero e proprio, in cui, oltre all’abbigliamento, entrano in gioco gli accessori, l’acconciatura (taglio e colore), il make-up. Ignani segue e documenta questo fenomeno puntando sul classico ritratto in posa. Nei videobar, nelle storiche e nuove discoteche della capitale ma anche in locali di altro genere, invita i presenti a farsi ritrarre approntando un set ad hoc, come fosse in studio. Il risultato è un archivio di circa cinquecento immagini, per lo più in bianco e nero, che pur evocando a volte il linguaggio della fotografia di moda, nascono come un progetto personale, rigoroso quanto giocoso. Di queste, una selezione di duecento fotografie del ciclo Dark Portraits è risultata tra i vincitori del bando PAC 2022-2023 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, entrando così a far parte delle collezioni permanenti della Sovrintendenza Capitolina di Roma Capitale. La mostra è dunque l’occasione per presentare al pubblico questo corpus di opere recentemente acquisito dal Museo di Roma in Trastevere. In mostra sono esposti anche altri lavori realizzati negli anni ’80 da Ignani, in vario modo riconducibili al suo sguardo su una Roma notturna, in ombra, periferica e camaleontica. Dopo le prime visioni sul paesaggio urbano contemporaneo, il fotografo individua proprio nel ritratto il linguaggio con cui registrare le frequenze più profonde della città. Nell’estate del 1979, sulla spiaggia di Castelporziano si tiene il Festival internazionale dei poeti. Ignani lo segue solo da spettatore, ma poco dopo inizia a fotografare poetesse e poeti che vivono a Roma, come Dario Bellezza, Patrizia Cavalli, Amelia Rosselli, Valentino Zeichen. Volti e corpi di donne e uomini di poesia, si affiancano dunque in mostra a quelli di ragazze e ragazzi che cercano a loro volta forme di espressione non convenzionali. Tra loro c’è anche Porpora Marcasciano, riconosciuta oggi come figura storica del movimento LGBTQ, attivista, scrittrice. Porpora è ancora una studentessa universitaria, giovane pittrice, quando Ignani sceglie lei come prima modella di un progetto, poi interrotto, sulla comunità trans romana. Tra i protagonisti della mostra anche la musicista e cantante statunitense di origine greca Diamanda Galás, ritratta nel gennaio 1985 in occasione di un suo concerto romano al Teatro Spazio Zero. Nel gennaio del 1985 i Dark Portraits sono esposti per la prima volta in uno spazio pubblico, a Palazzo Braschi, e tre mesi dopo compaiono sul mensile Rockstar, ad accompagnare un articolo di Roberto D’Agostino intitolato “Gente di notte”. Lo stesso D’Agostino scriverà poi un testo critico sul lavoro del fotografo. In occasione della mostra sarà pubblicato il libro Dark Rome 1982-1985, edito da Viaindustriae, a cura di Matteo Di Castro, con testi di Daniela Amenta, Diego Mormorio, Emanuele De Donno e un’intervista a Dino Ignani. Dino Ignani (1950) è nato e vive a Roma. Ha iniziato a occuparsi di fotografia a metà degli anni Settanta del secolo scorso, privilegiando il lavoro di documentazione della scena artistica e culturale e dei suoi protagonisti. Da oltre quarant’anni, in particolare, si dedica a ritrarre i poeti italiani: scrittori già consacrati, ma anche autori emergenti, che hanno via via arricchito il suo progetto. Presentato per la prima volta nel 1987 da Enzo Siciliano e Diego Mormorio col titolo “Intimi ritratti”, esposto e pubblicato in più occasioni in Italia e all’estero, questo lavoro, unico nel suo genere, è entrato nelle collezioni del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo e della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. A partire dal 1982 e fino alla metà del decennio, Ignani sviluppa un ciclo di ritratti dedicato ai giovani che a Roma animano le serate e i club della new wave dell’epoca. Le fotografie sono esposte per la prima volta in pubblico nel 1985 nell’ambito della mostra collettiva Immagini per Roma. Archivio fotografico e divenire urbano, allestita a Palazzo Braschi. Nel 2013 ripropone questo lavoro sotto il titolo 80’s Dark Portraits. Nell’estate 2022 il Museo Marino Marini di Firenze ha prodotto e ospitato una nuova mostra, a cura di Matteo Di Castro e Bruno Casini: Dark Portraits. Florence/Rome 1982-1985.