Roma, Teatro Vascello
ERODIADE
di Giovanni Testori
Con Francesca Benedetti
Drammaturgia e regia di Marco Carniti
Video Artist Francesco Scandale
Musiche Originali David Barittoni
Aiuto regia Francesco Lonano
Produzione La Fabbrica dell’Attore
In collaborazione con l’Associazione Giovanni Testori
Roma, 26 Marzo 2025
Non è la scena, no; non è la platea che si accende e si consuma. È un vuoto che brucia. È un altare nudo, senza segni, senza ornamento. È lì che Francesca Benedetti appare, o forse si offre, o forse si sacrifica. Erodiade. Non quella dei libri, né quella dei Vangeli o delle iconografie smaltate d’oro e sangue che i secoli ci hanno lasciato a indurci pietà o orrore. È Erodiade la donna. La sposa, la madre scacciata, la regina che si disfa del diadema e resta carne, carne sola. E se ci si aspetta una scena, un luogo da abitare, si sbaglia. La Benedetti non abita: possiede, invade, squassa. Eppure non si muove. Sta seduta, sta eretta, sta dentro quella tunica rossa che è più carne che stoffa, più sangue che ornamento. Non c’è gesto che non sia voce, non c’è voce che non sia un fendente, un colpo, un graffio che pare affondare nelle fibre stanche dei nostri petti. Perché Erodiade la vediamo lì, ma siamo noi. È la nostra fame. È la fame di chi ha amato e non è stato ricambiato. Di chi ha teso le braccia verso l’amato e non ha ricevuto che la luce crudele del rifiuto. Francesca Benedetti è la parola, ma una parola che sanguina, che si schianta contro l’aria densa e immobile del Teatro Vascello. Lo spazio è una cella vuota. È il sepolcro di quel Giovanni che l’ha negata e che ora, decapitato, le offre un dialogo muto, una risposta che non arriverà mai. E lei, donna, madre, amante e regina, s’incarna in un monologo che è un salmo, un lamento, una bestemmia e una supplica. Tutto insieme, tutto mischiato, come fa Dio, quando ci confonde. Marco Carniti la lascia fare. Non le costruisce attorno alcuna prigione. La scena è una croce o un trono, non importa. È il luogo dove Erodiade, ancor prima di parlare, già si è offerta. Non c’è altro che lei. E le immagini che scorrono, quei disegni febbrili della testa recisa del Battista, altro non sono che le visioni che le bucano la mente, che le squarciano la memoria. Francesco Scandale le fa fluire, quelle teste. Sono maschere, sono volti e sono il Vuoto. La nostra fame di vedere, dicevano i Greci, è sempre la fame di vedere il nulla. E Benedetti ci ciabatta addosso quel nulla come una veste sporca di sangue. E lei, Erodiade, cosa fa? Non supplica, non aspetta, non ottiene. Benedetti la fa decidere. La fa scegliere. La fa desiderare con un dolore così ostinato, così vero, che è impossibile distogliere gli occhi. La sua voce scava, scava fino a far risalire quel lamento che sa di maternità e di stupro, di sacrificio e di gioia perduta. Ogni sillaba è pronunciata come si pronuncia una condanna a morte. E ogni pausa è un respiro negato. L’aria manca. Il pubblico, il pubblico rimane in apnea. Non applaude, non si agita. Rimane lì, serrato nelle poltrone rosse del Vascello, come bloccato da una mano che preme forte sul petto. Erodiade vorrebbe darsi la morte. Ma non può. Il coltello le viene strappato dalle mani. Ma il sangue esce lo stesso, e non si sa se è suo o se è nostro. È il miracolo del teatro che non imita ma rifà. Non rappresenta, ma produce. E Carniti, con Barittoni, con la Benedetti, lo sanno bene: questo non è uno spettacolo. È un’azione che ci strappa via i veli e ci lascia nudi davanti all’assenza di Dio. E poi? Poi, niente. La Benedetti resta lì, ancora, come una statua cui hanno sottratto l’anima, o forse cui hanno lasciato solo quella. E allora, il pubblico, finalmente, si scioglie. Applaude, sì. Ma non è un applauso. È un ringhio. È un grido che viene da lontano. È un applauso che chiede pietà, non approvazione. Che chiede di essere sollevato da quell’abisso di desiderio e di perdita. Questa Erodiade, questa di Francesca Benedetti, non è un personaggio. È l’urlo antico di ogni madre, di ogni amante, di ogni creatura che chiede e non riceve. Che dà tutto e non ottiene nulla. E che, come dicevano i Greci, viene inchiodata a un fato più grande di lei. Ma lo fa in piedi, lo fa parlando. Lo fa con la voce che non smette mai di suonare, anche dopo che il sipario si chiude.
RBR Dance Company – Illusionisti della Danza, compagnia e associazione culturale ispirata dall’illusionismo, arriva sabato 29 marzo 2025 al Teatro Astra di Verona con il suggestivo spettacolo “The Man” per la regia di Cristiano Fagioli, che ne cura anche le coreografie insieme a Cristina Ledri. In occasione del Giubileo dell’anno 2025, la compagnia propone questo spettacolo unico, una vincente coproduzione con la Camerata Musicale Barese, che ha debuttato al Teatro Petruzzelli di Bari nel 2015 circuitando fino al 2020.“The Man”debutterà nelle città di Modena, Verona, Fasano, Matera e Taranto. Lo spettacolo, ispirato al film di Mel Gibson “La Passione di Cristo”, è il racconto di un uomo e del suo tormento, del suo sacrificio come manifestazione di amore infinito, eroico e tenace.
Di seguito il calendario con le date al momento confermate:
28 marzo 2025 – Teatro Michelangelo, Modena
29 marzo 2025 – Teatro Astra, Verona
14 aprile 2025 – Teatro Kennedy, Fasano
15 aprile 2025 – Auditorium Gervasio, Matera
16 aprile 2025 – Teatro Orfeo, Taranto
CD1: Mel Bonis (1858-1937); Henriette Renié (1875-1956); Cécile Chaminade (1857-1944); Hedwige Chrétien (1859-1944); Marie Jaëll (1846-1925); Rita Strohl (1865-1941); Charlotte Sohy (1887-1955)
CD2: Cécile Chaminade (1857-1944); Rita Strohl (1865-1941); Charlotte Sohy (1887-1955);
CD3: Mel Bonis (1858-1937); Lili Boulanger (1893-1918); Louise Farrenc (1804-1875); Nadia Boulanger (1887-1979); Marie Jaëll (1846-1925);
CD4: Cécile Chaminade (1857-1944); Virginie Morel (1799-1869); Mel Bonis (1858-1937); Jeanne Danglas (1871-1915); Pauline Viardot (1821-1910);
CD5: Mel Bonis (1858-1937); Cécile Chaminade (1857-1944); Mel Bonis (1858-1937); Pauline Viardot (1821-1910); Charlotte Sohy (1887-1955);
CD6: Nadia Boulanger (1887-1979); Marie Jaëll (1846-1925); Mel Bonis (1858-1937); Lili Boulanger (1893-1918); Mel Bonis (1858-1937);
CD7: Augusta Holmès (1847-1903); Louise Farrenc (1804-1875); Augusta Holmès (1847-1903); Jeanne Danglas (1871-1915); Marthe Bracquemond (1898-1973); Clémence de Grandval (1828-1907); Marie-Foscarine Damaschino (1844-1921); Madeleine Jaeger (1868-1905); Marthe Grumbach (1871-1932); Madeleine Lemariey (active early 20th century);
CD8: Augusta Holmès (1847-1903); Hélène de Montgeroult (1764-1836); Pauline Viardot (1821-1910); Clémence de Grandval (1828-1907).
Orchestre national du Capitole de Toulouse. Leo Hussain (direttore) Orchestre National de France. Débora Waldman (direttore). Orchestre national de Metz Grand Est. David Reiland (direttore). Les siècles. François-Xavier Roth (direttore). Victor Julien-Laferrière (violoncello). Théo Fouchenneret (pianoforte). Cyrille Dubois (tenore); Tristan Raës (pianoforte). Roberto Prosseda (pianoforte). Alessandra Ammara (pianoforte). François Dumont (pianoforte). Anaïs Constans (soprano). Marie Vermeulin (pianoforte). Yann Beuron (tenore). David Zobel (pianoforte). Anna Agafia (violino). Frank Braley (pianoforte).Alexandre Pascal (violino). Héloïse Luzzati (violoncello); Célia Oneto Bensaid (pianoforte). Registrazioni: Toulouse (La Halle aux Grains), France, 31marzo – 2 aprile 2022; Paris (Auditorium de la Maison de la Radio et de la Musique), France, 1 Luglio 2021; Metz (Arsenal / Cité musical-Metz), Francia, 12-16 gennaio 2021; Tourcoing (Théâtre Raymond Devos), Francia, 8-9 gennaio 2022, Venezia tra il 2019 e il 2022. 8 Cd Palazetto Bru Zane
Di grande pregio, come del resto accade sempre di fronte alle proposte discografiche del Palazzetto Bru Zane di Venezia, è anche quest’ultima produzione, Compositrices, estremamente impegnativa, in quanto costituita da ben 8 CD dedicati alle compositrici francesi che hanno vissuto e operato tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Se i nomi di alcune di loro sono noti, come quelli di Cécile Chaminade o di Pauline Viardot, famosa, per la verità, più per la sua attività di cantante lirica, o di Nadia Boulanger, che, tra l’altro, fu l’insegnante di Philipp Glass, Copland e Bernstein, quelli delle altre sono conosciuti soltanto da un piccolo pubblico di intenditori. Si tratta della sorella di Nadia, Lili, di Henriette Renié, di Hedwige Chrétien, di Marie Jaëll, di Rita Strohl, di Charlotte Sohy, di Virginie Morel (splendidi i suoi Huit Études mélodiques del 1857), di Mel Bonis, che in questo progetto si distingue per la tenera e dolce cantabilità delle sue liriche per tenore e pianoforte, e di Jeanne Danglas, il cui L’Amour s’éveille mostra evidenti influenze del mondo dell’operetta viennese, più che francese, e in particolar modo di Léhar, o ancora di Augusta Holmès (molto bello il suo brano sinfonico Andromede nel quale fanno capolino influenze wagneriane), di Louise Farrenc, il cui trio per violino, violoncello e pianoforte si segnala per la dolce cantabilità ma anche per aspetti virtuosistici, di Marthe Bracquemond (gradevoli le sue Trois per tenore e pianoforte), di Clémence de Grandval (frizzante il suo Le Bohèmien), di Marie-Foscarine Damaschino (elegante il suo A une femme), di Madeleine Jaeger, di Marthe Grumbach e di Madeleine Lemariey. Si tratta di un mondo musicale, fino a questo momento poco esplorato, che meriterebbe maggiore attenzione e che, in questa proposta discografica, è ben valorizzato dalle ottime interpretazioni di compagini orchestrali di prestigio come l’Orchestre national du Capitole de Toulouse diretta da Leo Hussain, l’Orchestre National de France, diretta egregiamente da una donna, Débora Waldman, l’Orchestre national de Metz Grand Est diretta da David Reiland, e Les siècles, diretta da François-Xavier Roth, e da interpreti di valore, di cui è qui inutile ripetere qui la lunga lista di nomi che si possono leggere nella locandina. Si tratta di un lavoro pregevole e impegnativo, completato sempre da un Booklet di ottimo livello musicologico, ma al quale forse si potrebbe fare un appunto: non si sarebbero potuti fare dei lavori monografici per le compositrici più importanti e inserire in cd miscellanei i nomi delle altre? Così si ha l’impressione di un lavoro leggermente dispersivo.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
di Natalia Ginzburg
Con Marianella Bargilli e Giampiero Ingrassia
e con Lucia Vasini, Claudia Donadoni, Viola Lucio
scenografie Fabiana Di Marco
costumi Pamela Aicardi
regia Emilio Russo
produzione Tieffe Teatro Milano, Compagnia Molière, Teatro Quirino
Roma, 25 marzo 2025
«Io ti ho sposato per allegria, tu invece no. Tu mi hai sposato per disperazione.»
Lo dice Giuliana, e mentre lo dice si capisce che non lo dice per ferire. Lo dice come si dicono le cose che si sono pensate troppo a lungo, e che prima o poi dovevano uscire. È una frase nuda, senza giri, e contiene già tutta la trama. Che poi, più che una trama, è un attraversamento. Perché Ti ho sposato per allegria non è una commedia con un intreccio, ma un confronto a due voci. Una commedia “da camera” dove il tempo scorre senza veri eventi, ma dove il teatro avviene in ogni silenzio, in ogni pausa, in ogni cambio di posizione sulla scena. Il Teatro Quirino ha ospitato questa nuova messinscena del testo di Natalia Ginzburg, prima delle sue undici commedie, con la regia di Emilio Russo. Una regia che ha avuto il merito – non scontato – di non voler attualizzare a forza, di non cercare aggiornamenti posticci. Il tempo resta quello della metà degli anni Sessanta, ma lo spettatore riconosce nei personaggi delle verità ancora vive: l’inadeguatezza, il bisogno di sentirsi accolti, la fatica a coniugare intimità e aspettative. Lo spazio scenico, firmato da Fabiana Di Marco, è costruito su una logica geometrica, minimale, quasi astratta. Una neutralità visiva che lascia il centro alla parola e al gesto. Ma a disturbare quella pulizia arriva una costellazione di manichini, presenze mute che aumentano man mano che i personaggi vengono evocati nel dialogo. La loro funzione è chiaramente simbolica, ma la loro efficacia è discutibile: troppo reali per essere evocativi, troppo statici per essere drammaturgicamente dinamici. Non sono figure metaforiche, né suggeriscono dimensioni interiori: sono segnali visivi che restano in superficie, come didascalie corporee.Marianella Bargilli è Giuliana. Ne dà una lettura calibrata, trattenuta, che evita sia l’eccesso caricaturale della ragazza “spiritosa”, sia la deriva patetica della moglie frustrata. Giuliana è fragile ma non sciocca, irrequieta ma non confusa. È una donna che ha conosciuto la precarietà affettiva e che cerca, con tutti i mezzi a sua disposizione – la parlantina, il disordine, l’ironia – di costruire un angolo di pace. Ma Pietro non glielo permette del tutto. Giampiero Ingrassia, nel ruolo, restituisce con rigore il borghese trattenuto, educato, ma bloccato da un sistema valoriale ereditato e mai discusso. Il suo Pietro è un uomo che ama senza coraggio. Che accoglie, ma giudica. Che ascolta, ma non comprende. È l’antagonista perfetto non per ostilità, ma per distanza antropologica. Lucia Vasini interpreta la madre di Pietro, e lo fa con una misura che sorprende. Il personaggio, già fortemente scritto come presenza ingombrante anche quando non c’è, qui acquista una forza scenica che supera la parola. Quando entra in scena – perché qui non resta solo evocata, ma ha una vera e propria presenza fisica – lo fa con un’energia disarmante, che occupa lo spazio senza violenza, solo con la forza della gravità emotiva. Non ha bisogno di alzare la voce per far sentire il peso del giudizio. Il suo modo di parlare, la postura, la gestione dello spazio scenico, suggeriscono perfettamente quel tipo di autorità familiare che si insinua nella vita degli altri come fosse cosa propria. Ed è un merito, non un eccesso: la Vasini riesce a dominare la scena senza mai rubarla. Alcuni personaggi minori, come la sorella e la serva, appaiono più come funzioni narrative che come figure sviluppate. Le loro scene – brevi, talvolta volutamente farsesche – sembrano a tratti eccedere nella gestualità, come se dovessero alleggerire la tensione drammatica centrale. Ma proprio in questo meccanismo si nota un piccolo squilibrio registico: la Ginzburg non ha bisogno di comicità d’appoggio, perché la sua è già una scrittura che contiene l’ironia nel cuore della malinconia. La partitura musicale è affidata a un pianoforte che compare in diversi momenti a sottolineare i cambi di quadro o le sospensioni. Ma il suo intervento non è sempre dosato: in alcuni passaggi il volume si fa invadente, interrompe più che accompagnare. In uno spettacolo fondato sulla misura e sulla sottrazione, il suono dovrebbe sapere come farsi da parte. E qui, invece, ogni tanto prende troppo spazio, arrivando a coprire la parola, che in Ginzburg è l’unico vero motore drammaturgico. Anche il disegno luci, firmato da Lucio Diana, alterna soluzioni efficaci a scelte più didascaliche. Ci sono momenti in cui la luce sa suggerire, sfumare, accompagnare. Ma in altri casi sembra voler guidare lo spettatore con troppa insistenza, come se non si fidasse della scena. Alcuni tagli risultano fuori fuoco, o troppo letterali, e questo va un po’ in contrasto con la scrittura dell’autrice, che è tutta costruita sulla mezza tinta, sull’ambiguità, sulla sospensione. Eppure, lo spettacolo nel suo complesso funziona. Proprio perché non cerca l’effetto, non vuole sedurre. Accetta il rischio dell’apparente staticità, ma dentro a quella immobilità scava. E lo fa con una compagnia di interpreti che non cerca il protagonismo, ma il tono giusto. La Ginzburg scrive per una voce teatrale che somiglia a quella della vita vera: una voce che balbetta, che sbaglia i tempi, che lascia frasi a metà. E questa messinscena ha avuto l’intelligenza di non correggerla, di non renderla più teatrale di quanto già sia. Non si esce ridendo da Ti ho sposato per allegria. Si esce con la sensazione che certi dolori siano così comuni da diventare universali, e che stare insieme sia una costruzione quotidiana, fragile, imperfetta. Ma forse proprio per questo ancora possibile.
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
ZZZ … DESERT
di Francesca Leone
organizzazione a cura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
in collaborazione con Intesa Sanpaolo
Roma, 25 marzo 2025
C’è sempre un momento sospeso che precede la forma, una soglia silenziosa dove i materiali attendono di essere interrogati. Nell’opera di Francesca Leone questa attesa si traduce in linguaggio visivo, in pratica costante, in gesto riflessivo. La sua installazione Zzz…desert, presentata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, conferma una ricerca coerente e stratificata, che trova nella materia usurata e nel suono della memoria un campo di azione estetica e concettuale. L’intervento si articola come una ricostruzione immaginifica di un deserto, non tanto reale quanto interiore. Un paesaggio che prende corpo attraverso sculture metalliche modellate in forme che richiamano rocce e fioriture inattese. Il deserto evocato non è arido né muto: vibra di stratificazioni affettive, memorie cinematografiche, tracce biografiche che non si dichiarano, ma si avvertono. Il titolo stesso – Zzz…desert – contiene un’ambiguità affascinante: il suono del sonno, l’eco di un ronzio, l’inizio di un sogno. Le sculture sono accompagnate da un paesaggio sonoro realizzato dal compositore Marco Turriziani, che intreccia con precisione il ronzio delle api al sussurro del vento e a profondi rimbombi metallici. Il suono non agisce come semplice sottofondo, ma contribuisce attivamente alla costruzione dell’ambiente percettivo, suggerendo allo spettatore una dimensione immersiva che invita alla contemplazione lenta, senza forzature narrative. Francesca Leone si muove da tempo in una direzione che evita la monumentalità retorica. Le sue installazioni, anche quando imponenti nelle dimensioni, mantengono una qualità raccolta, quasi intima. L’utilizzo di materiali di scarto – soprattutto lamiere arrugginite e ossidate, reperite in cantieri dismessi – si lega a una poetica del riuso che va oltre l’orizzonte ecologico. Non si tratta infatti di un semplice messaggio ambientalista, quanto piuttosto di un’attenzione specifica alla memoria impressa nella materia. Il ferro, già corroso, reca in sé le tracce del tempo, e l’artista non le cancella: le lascia affiorare, le esalta, le trasforma in struttura narrativa silenziosa. L’intervento visivo e pittorico sulle superfici – colorazioni vive, stratificazioni cromatiche che contrastano con l’opacità naturale del metallo – produce un’interazione costante tra degrado e vitalità. Le rose, in particolare, sono trattate con una forza espressiva che le sottrae a qualsiasi tentazione decorativa: la loro presenza appare simbolica, ma non sentimentale. Si impongono come emblemi di resistenza, forme vive che nascono dalla ruggine e dalla polvere. La materia, così lavorata, suggerisce un tempo lungo, un tempo non misurabile, che richiama la lentezza della trasformazione naturale. Sebbene non si presenti come opera autobiografica in senso stretto, Zzz…desert conserva nel suo impianto visivo e concettuale un legame evidente con la storia personale dell’artista. Non tanto per citazione diretta, quanto per atmosfera. La costruzione dello spazio, la sospensione percettiva, l’attenzione al silenzio, rimandano a un immaginario che trova una consonanza con quello dei film di Sergio Leone, padre dell’artista. La polvere, le rocce, l’aria immobile, i vuoti narrativi attraversati da presenze enigmatiche: elementi che abitano tanto il cinema quanto l’installazione, pur appartenendo a linguaggi differenti. Zzz…desert conserva il segno di una poetica dello sguardo assimilata sui set, ma reinventata in un’intensa visione pittorica e scultorea. Il rapporto con l’eredità paterna non è tematizzato, ma filtrato, trasfigurato attraverso una pratica artistica del tutto autonoma. La composizione dello spazio non risponde a una logica centrale o gerarchica. Le sculture si distribuiscono come frammenti emersi da un paesaggio interrotto, come elementi che appartengono a un sistema più vasto, solo in parte visibile. Questa scelta installativa favorisce un’esperienza dinamica e soggettiva da parte dello spettatore, che non è condotto, ma lasciato libero di costruire il proprio percorso percettivo. L’allestimento è arricchito da un’interessante collaborazione con Intesa Sanpaolo, che ha concesso in prestito una delle rose metalliche che compongono l’opera. Le altre due, donate da Francesca Leone alla GNAM, entreranno a far parte della collezione permanente del museo e saranno esposte nel Giardino Aldrovandi, dando continuità al dialogo tra arte e spazio naturale. Zzz…desert si inserisce in un momento di particolare rilievo nel percorso espositivo dell’artista, che rappresenterà l’Italia al Padiglione Italiano dell’Expo 2025 di Osaka. La partecipazione all’evento internazionale conferma la solidità di una ricerca artistica che ha saputo svilupparsi fuori da mode e pressioni di mercato, con coerenza e precisione. Non è comune, in un panorama artistico talvolta troppo incline all’effimero, incontrare un lavoro che coniughi attenzione al materiale, sensibilità spaziale e profondità concettuale con questa misura. Il deserto, nella lettura di Leone, non è luogo di morte ma di rigenerazione lenta. È lo spazio dove la forma si distacca dalla funzione, dove la bellezza non è immediata, ma conquistata attraverso un processo di stratificazione e riscrittura. Le rocce e le rose, pur nate dalla stessa lamiera corrotta, si rispondono con un equilibrio compositivo che alterna peso e leggerezza, opacità e brillantezza, severità e fragilità. L’installazione si conclude senza chiudersi: non c’è un centro simbolico, non c’è una morale da trarre. L’esperienza resta aperta, come il paesaggio che evoca. È in questa apertura che si misura forse la sua qualità più preziosa: quella di restare nello sguardo anche dopo la visita, come un ricordo difficile da collocare, ma impossibile da cancellare. Un’opera che non urla, ma insiste. Che non racconta, ma suggerisce. Che non consola, ma interroga. E che in questa tensione discreta e necessaria trova la sua forza.
Roma, Teatro Vascello
LA PULCE NELL’ ORECCHIO
di Georges Feydeau
traduzione, adattamento e drammaturgia Carmelo Rifici e Tindaro Granata
regia Carmelo Rifici
con Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo
scene Guido Buganza
costumi Margherita Baldoni
luci Alessandro Verazzi
musiche Zeno Gabaglio
costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano, Teatro d’Europa
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello di Roma
Carmelo Rifici affronta la regia di una commedia facendo cadere la sua scelta su un esilarante vaudeville di Georges Feydeau, La pulce nell’orecchio, di cui cura adattamento e traduzione insieme a Tindaro Granata. Un lavoro che, pur mantenendo l’impianto originale del testo, rispettandone la vocazione, sottolinea lo spirito giocoso e selvatico della scrittura di Feydeau, ne cerca i piani nascosti, libera i singoli personaggi dal contesto borghese e valorizza i ruoli femminili. Al centro della vicenda, interpretata da un brillante cast di dodici attori, vi è una moglie, Raimonda, la quale, allarmata dal comportamento piuttosto freddo e distratto da parte del marito, l’assicuratore Vittorio Emanuele, sospetta che egli abbia un’amante. Il dubbio – la “pulce nell’orecchio” – le è nato dopo il ritrovamento di un paio di bretelle, simili a quelle indossate abitualmente dal consorte, presso l’Hotel Feydeau, un albergo assai equivoco nei pressi di Parigi. Per mettere alla prova la presunta infedeltà del marito, gli spedisce tramite un’amica, Luciana, un’appassionata e anonima lettera d’amore, cosparsa di profumo, in cui dà appuntamento all’uomo in quello stesso albergo, dove Raimonda si recherà per vedere se il coniuge cadrà nella trappola. Vittorio Emanuele, credendo però che il destinatario effettivo della lettera sia il suo migliore amico, Tornello, la consegna a quest’ultimo. Da qui si creerà una serie di fraintendimenti che indurrà tutti i personaggi ad incontrarsi all’Hotel Feydeau, dove, tra situazioni bizzarre, pareti girevoli, vecchietti che fungono da alibi, inaspettati sosia, sudamericani gelosi e travestimenti vari, cercheranno disperatamente di salvare le apparenze e di uscirne indenni. Qui per tutte le informazioni.
Gli ordinamenti liturgici a Lipsia consentivano che il lungo periodo di astinenza della “Musica figuralis”, con l’impiego cioè di cantate nel servizio liturgico, venisse interrotto, o meglio conoscesse una sospensione, il 25 marzo giorno nel quale si celebrava una delle più importanti feste liturgiche mariane, la Festa dell’Annunciazione a Maria, codificata da oltre un millennio nella tradizione Cristiana occidentale e assunta anche come data iniziale del calendario civile presso certi governi, quello Fiorentino ad esempio, con la considerazione che il 25 marzo si colloca esattamente nove mesi prima del Natale e deve quindi considerarsi come data del concepimento di Gesù.
Per questa festività Bach compose, a nostra conoscenza, due cantate, la numero 182 è la numero 1. La cantata nr. 182 è in realtà un’opera del periodo di Weimar, scritta per la domenica delle Palme che, nel 1714, al tempo e cioè in cui fu realizzata, cadeva appunto Il 25 marzo. Consideriamo qui, dunque la sola cantata BWV nr. 1 Wie schön leuchtet der Morgenstern eseguita Il 25 marzo 1725, una cantata che ha anche la fortuna di aprire il catalogo delle opere bachiane, è con questa pagina, infatti, che si inaugurò l’esecuzione ottocentesca delle opere bachiane promosse dalla società Bach eretta a Lipsia nel 1850. Punto di partenza della partitura è un Corale di Philipp Nicolai (1558-1608) del 1599, che poggia sul ben noto episodio evangelico narrato da Luca (cap. 1 vers. 26-38). Poiché l’evento è solenne, l’organico strumentale previsto da Bach per la Cantata che deve celebrarlo è adatto alla circostanza: una coppia di corni, 2 di oboi da caccia e due parti concertanti di violino in aggiunta a quelle consuete. L’ampio brano introduttivo, una sorta di pastorale in 12/8 che richiama alla mente il clima natalizio, si apre e si chiude con un intervento strumentale e risulta suddiviso in tre sezioni secondo il disegno proposto dalle “stanze” del Corale, due terzine e una quartina. La cantata poi presenta due arie con “da capo”, una per Soprano (Nr.3), accompagnata con oboe da caccia, che riflette il carattere sereno, gioioso della partitura, la seconda, per tenore (Nr.5), unisce due violini concertanti e violini di ripieno, quasi per dare maggiore risalto, spessore, al “suono degli strumenti”, che esplicitamente richiamano il testo. Il Corale conclusivo presenta l’organico completo e affida al secondo corno una parte indipendente, mentre gli altri strumenti hanno la semplice funzione di raddoppio delle parti vocali, e la realizzazione è quella che si addice a una festa cantata.
Nr.1 Coro
Con che bellezza splende la stella del mattino,
piena di grazia e verità del Signore,
il caro germoglio di Iesse!
Tu, figlio di Davide della stirpe di Giacobbe,
mio re e mio sposo,
hai preso possesso del mio cuore,
tu che sei amante
ed amico,
bello e splendente, grande e giusto, ricco di doni,
alto e stupendamente onorato.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
Tu, vero Dio e figlio di Maria,
tu, re degli eletti,
com’è dolce per noi la tua Parola di vita,
che già consentiva agli antichi padri
di contare gli anni e i giorni,
e che Gabriele con gioia
ha annunciato qui a Betlemme!
O dolcezza, o pane del cielo,
che né la tomba, né il pericolo, né la morte
possono strappare dai nostri cuori.
Nr.3 Aria (Soprano)
Celesti fiamme divine, riempite il petto
dei credenti che fortemente vi desiderano!
Le anime provano il potente sentimento
dell’amore ardente
e sperimentano sulla terra le delizie del paradiso.
Nr.4 – Recitativo (Basso)
Uno splendore terreno, una luce corporea
non commuovono la mia anima;
un raggio di gioia mi giunge da Dio,
poiché un dono supremo,
il corpo e il sangue del Salvatore,
è qui per mio conforto.
E’ necessario che
la sovrabbondante benedizione,
a noi destinata dall’eternità
e raccolta dalla nostra fede,
ci ispiri lode e gratitudine.
Nr.5 – Aria (Tenore)
La nostra voce e il suono degli strumenti
saranno
ora e sempre
pronti a porgerti ringraziamenti ed offerte.
Cuore e spirito si elevano
per tutta la vita
con il canto
per lodarti, grande Re.
Nr.6 – Corale
Sono contento dal profondo del cuore
che il mio tesoro sia l’Alfa e l’Omega,
il principio e la fine;
ricompensandomi con il suo salario
mi accoglierà in paradiso,
e perciò batto le mani.
Amen! Amen!
Vieni, bella corona di gioia, non tardare,
ti aspetto con desiderio.
Traduzione Emanuele Antonacci
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione 2025
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttrice Dame Jane Glover
Johann Sebastian Bach: Six Concerts Avec plusieurs Instruments BWV 1046 – 1051.Concerto n.1 in fa maggiore BWV 1046; Concerto n. 3 in sol maggiore BWV 1048; Concerto n. 5 in re maggiore BWV 1050; Concerto n. 6 in sib maggiore BWV 1051; Concerto n. 4 in sol maggiore BWV 1049
Firenze, 21 marzo 2025
Ad accogliere il pubblico un ampio organico strumentale, con i musicisti quasi tutti in piedi: 2 corni (Alessio Dainese, Alberto Serpente) 3 oboi (Marco Salvatori, Alessandro Potenza, Massimiliano Salmi) un fagotto (Alejandra Rojas) un violino (Salvatore Quaranta), con un nutrito gruppo d’archi disposti in semicerchio e, in fondo, un clavicembalo per la realizzazione del basso continuo (Dimitri Betti). Una serata in cui si sono apprezzati i virtuosismi di una musica concepita all’interno di una varietà che, nonostante risalga al periodo compositivo di Bach a Weimar, continua a stupire per la sua bellezza senza tempo. L’ordine d’esecuzione (1, 3, 5, 2, 6 e 4) in certo modo – oltre che evidenziare un’ulteriore ricchezza anche sul piano tonale come esplicitato dalla realizzazione armonica del clavicembalo (basso continuo) – offriva un arcobaleno di colori e di intrecci armonico-contrappuntistici. La ricchezza della scrittura bachiana, ove a tratti si coglievano i tre generi del concerto barocco (policorale, grosso e solistico), autentica eredità stilistica italiana (Gabrieli, Corelli, Vivaldi), nell’interpretazione della Glover evidenziava un’accurata concertazione.
Nel Primo concerto, un autentico polittico sonoro, si poteva già cogliere in nuce quella sintesi della musica concertante barocca, ma per l’organico orchestrale ed in particolare per la presenza dei corni (‘corni di caccia’ nell’originale, di cui si segnala la magistrale interpretazione di Dainese coadiuvato da Serpente), sembrava assurgere ad emblema di atmosfere più note (Sinfonia La Chasse di Haydn) oltre al fatto che l’ottima articolazione della fagottista Rojas ben si fondeva con i bassi. Riflettendo sull’interpretazione della direttrice colpiva il modo di trattare i musicisti, autentica gentlewoman, e la sua spontanea natura musicale tanto che qualche piccola e sporadica ‘sbavatura’ non era un’ ‘imperfezione tecnica’ ma sfumatura dei colori. Considerando l’impresa nell’affrontare un programma assai impegnativo, la direttrice con entrambe le mani, senza l’uso della bacchetta, sprigionava una bella espressività convogliando l’orchestra in un unico respiro musicale. Con il Terzo si è percepita ancora di più la policoralità (tre gruppi di strumenti: 3 violini, 3 viole, 3 violoncelli concertano alla pari) in cui emergeva l’omogeneità timbrica ed un virtuosismo trasparente tanto che il rapporto imitativo del terzo movimento (Allegro) presentava un’inaudita chiarezza.
Con il Quinto abbiamo assistito alla presenza, insieme ad un flauto traverso (suono luminoso e ‘vibrante’ di bellezza di Mattia Petrilli), di un violino principale (Quaranta, musicista molto strutturato e dotato di grande duttilità che gli permette di affrontare qualsiasi repertorio con estrema musicalità), di un gruppo d’accompagnamento (violino, viola di ripieno, violoncello e contrabbasso) e del clavicembalo (Cristiano Gaudio, un musicista di cui sentiremo parlare per il suo modo versatile di suonare e per le buone idee, sostenuto da un’ interessante natura musicale). Quest’ultimo, oltre che ad offrire varietà nella realizzazione del continuo, sia nella lunga cadenza, a tratti autentica ‘Toccata’ solistica (“Cembalo solo senza stromenti”) si è fatto apprezzare anche nel movimento centrale (Affettuoso), perfetto esempio interpretativo del trio (flauto traverso, violino e clavicembalo).
Il Secondo è stato un bell’esempio di concerto grosso in cui i protagonisti erano il ‘Concertino’ (la luminosa tromba di Gabriele Cassone), flauto dolce (Maria De Martini, dalla buona articolazione ed espressività), oboe (Salvatori più volte apprezzato nel programma per chiarezza interpretativa e bel suono) e violino (Quaranta) e il ‘Tutti’ con l’orchestra d’archi in ripieno. Si segnala l’efficace ricerca della gradazione dei colori da parte della direttrice onde valorizzare i singoli strumenti. Nel I movimento la ripetizione del melos era letta in un contesto retorico diverso, nell’Andante il principio ostinato del basso, con la figurazione dell’ottavo, dettava la scorrevolezza del tempo e l’intreccio imitativo dei solisti, ivi compresa la precisione delle entrate, mentre nell’Allegro assai il rigore della fuga sovrastava sul principio concertante.
Il Sesto ha visto protagonista un ensemble di soli archi con 2 viole da braccio (Jorg Winkler e Dezi Herber in ottima sintonia) 2 viole da gamba (Silvia De Maria e Felice Zaccheo in un bel fraseggio) un violoncello (Simao Alcoforado, squisito continuista e capace di sfoderare un audace virtuosismo) e un Contrabbasso (“Violone” in partitura) suonato sempre con appropriatezza nel creare il profondo effetto nella tessitura dei 16 piedi (Marco Martelli) in cui, a parte la peculiarità dell’organico, si ha una valorizzazione del ruolo della viola, spesso incastonata tra i violini e il basso e quasi sempre per assolvere il ruolo di ‘ripieno’ o di completamento dell’armonia. Soprattutto nel II movimento (Adagio ma non tanto) in cui le 2 viole da gamba tacciono, sono proprio le viole da braccio, in un ‘duetto’ accompagnato dal basso (il violoncello si muove intorno alla linea del basso con delle semiminime), ad attirare il pubblico per il bel suono, la seducente cantabilità e il virtuosismo dell’Allegro.
A chiudere la serata il Quarto che prevede “Violino Prencipale. Due Flauti d’Echo. Due Violini, una Viola è Violone in Ripieno, Violoncello è Continuo” proposto invece con un organico più ampio: 6 violini I, 4 violini II, 3 viole, 3 violoncelli, 2 contrabbassi e il clavicembalo per il continuo. Si è apprezzata la base del concerto grosso, ma il corposo organico ha offuscato in certe sezioni l’espressività di alcuni strumenti del concertino, come nel caso dei flauti dolci (Maria De Martini e Nina Taddei, ‘duetto’ proiettato verso lo stupore). Serata riuscita per tutti con un plauso al violinista Quaranta, autentico ‘virtuoso’ e colonna portante dell’Orchestra del Maggio e per Glover, una Dame che ha offerto una lettura complessivamente attraente di un’opera che continua a porre questioni di carattere interpretativo-musicologico. Foto Michele Monasta
Nel 150° anniversario della prima di Carmen e della morte del suo autore, il Festival Bizet, l’amore ribelle propone un programma di 7 concerti e una conferenza concepito a immagine del compositore che si divideva tra opera, mélodie e pezzi per pianoforte (il suo strumento). Il pubblico potrà così accedere a un ritratto di Bizet che va oltre il capolavoro che ha consacrato il suo successo. Georges Bizet (1838-1875) è l’autore dell’opera francese oggi più rappresentata al mondo, ma nonostante la sua prematura scomparsa a soli 36 anni, ha lasciato ai posteri una ricca eredità di opere liriche, opera- comique, melodies e ha segnato la sua epoca con una produzione musicale d’avanguardia. Il suo retaggio va ben oltre il successo di Carmen: il festival veneziano approfondirà questi aspetti poco noti al pubblico italiano.
Il concerto di inaugurazione sabato 29 marzo metterà in luce le qualità di trascrittore di Bizet, che in gioventù si guadagnava da vivere lavorando per altri compositori come Charles Gounod o Camille Saint-Saëns. Il pianista Nathanaël Gouin interpreterà una serie di queste composizioni, completate dalle sue trascrizioni di opere di Bizet.
Domenica 30 marzo, ritroveremo un Bizet giovane con Le Docteur Miracle, deliziosa opéra-comique in un atto con cui vinse (ex-aequo con Charles Lecocq) un concorso organizzato da Offenbach. Presentata in versione concerto alla Scuola Grande San Giovanni Evangelista, l’opera rivela il naturale talento comico del compositore. Per favorire la fruizione da parte del pubblico, l’attore Vincenzo Tosetto interverrà raccontando, in italiano, gli sviluppi della trama di questa opera che vede come protagonista il Podestà di Padova.
Il festival proseguirà mercoledì 2 aprile con un altro genere caro a Bizet: la mélodie, tanto abbondante quanto poco conosciuta nel suo catalogo. Il tenore Reinoud Van Mechelen, accompagnato da Anthony Romaniuk al pianoforte, svelerà alcune di queste gemme – composte, tra l’altro, su testi di Victor Hugo o Pierre de Ronsard – pur lasciando spazio ai contemporanei di Bizet.
Martedì 8 aprile, Monique Ciola terrà una conferenza sul legame di Bizet con il suo strumento prediletto: il pianoforte.
Torneremo, appunto, al pianoforte martedì 15 aprile, questa volta a quattro mani con il Duo Spina & Benignetti. Oltre a opere e trascrizioni dei suoi contemporanei, il Duo eseguirà l’unica raccolta a quattro mani di Bizet, Jeux d’enfants, composta mentre si apprestava a diventare padre.
Martedì 6 maggio segnerà il ritorno al Palazzetto Bru Zane di Roberto Prosseda che ha già contribuito a rivalorizzare il repertorio romantico francese a Venezia e in CD. Interpreterà opere di Bizet in alternanza con pezzi di Gounod e Farrenc, tra la poesia di un Nocturne e il virtuosismo delle Variations Chromatiques.
Inserito all’interno della coproduzione con Asolo Musica che prosegue per la seconda stagione, il concerto successivo si terrà presso l’Auditorium Lo Squero sull’Isola di San Giorgio sabato 10 maggio. Gli artisti dell’Académie de l’Opéra national de Paris eseguiranno mélodies e duetti di Bizet, Massenet, Gounod e Saint-Saëns.
Venerdì 16 maggio, il festival si concluderà con un concerto in collaborazione con l’Accademia Teatro alla Scala, con la quale il Palazzetto Bru Zane collabora per la quinta stagione. Gli artisti interpreteranno una selezione di arie di Bizet e dei suoi contemporanei tra i più affascinanti dell’epoca.
Per la terza domenica di Quaresima, nota anche come “Dominica Oculi”, dalla prima frase dell’Antifona d’Ingesso (“I miei occhi sono sempre rivolti al Signore”), Bach scrisse una prima Cantata,Widerstehe doch der Sünde BWV 54 nel 1714, per Weimar, dove il compositore era stato nominato Konzermeister, proprio nel marzo di quell’anno. Qui Bach aveva l’obbligo di comporre una Cantata ale mese per il servizio che si teneva presso la Cappella di Corte. Nel 1714 scrisse 10 Cantate (ma ne conosciamo solo 8), mentre delle dodici Cantate relative al 1715, ce ne sono pervenuto solo 7, a queste però vanno aggiunte altre 2 che ci sono pervenute non nella loro forma originale ma come riadattamenti per far fronte ad altre destinazioni liturgiche. Non è chiarissima l’attribuzione della Cantata Widerstehe doch der Sünde alla Dominica Oculi (la prima stampa ne attribuiva questa destinazione) così come l’esecuzione, tra il 1714 (Bach era giutno a Weimar il 4 marzo 1714) e il 1715. Aldilà di questì dati storici, questa pagina, su testo di Georg Christian Lehms (1684-1717 fa parte del numero piuttosto ristretto delle Cantate (solo una dozzina tra le circa 200 cantate esistenti di Bach) per voce sola, in questo caso un contralto. La struttura è semplice: due arie separate da un recitativo; senza un corale conclusivo. Evidente l’influenza – specialmente nella sua netta divisione di arie tripartite con il recitativo centrale della Cantata in stile italiano. Il tema, un monito a resistere alle insidie di Satana. La prima aria, la più ampia e armonicamente ricca esorta il cristiano a non lasciare che “il veleno ti afferri” sotto forma delle astuzie di Satana. Dopo un recitativo che avverte che coloro che hanno “scelto” il peccato non entreranno nel regno di Dio, segue la seconda aria, dalla chiara cifra bachiana, una fuga a tre voci tra voce, violini all’unisono e viole, il cui sinuoso soggetto cromatico dipinge ancora una immagine del peccato nelle sue molteplici affermazioni.
Nr.1 Aria (Contralto)
Resisti al peccato,
prima che il suo veleno si impadronisca di te.
Non lasciarti ingannare da Satana;
disonorare la gloria di Dio
è una sventura che conduce alla morte.
Nr.2 Recitativo (Contralto)
L’apparenza del peccato più infame
è di una grande bellezza esteriore;
ma successivamente si trasforma
con dolore e frustrazione
in una profonda tristezza.
Visto dall’esterno sembra oro;
ma guardando dentro,
si rivela non essere altro che un’ombra vuota
e un sepolcro imbiancato.
Il peccato è come le mele di Sodoma,
e chi lo ha scelto
non entrerà nel Regno di Dio.
Esso è come una spada affilata
che trafigge il corpo e l’anima.
Nr.3 Aria (Contralto)
Chi commette peccato viene dal diavolo,
poiché egli né è l’origine.
Eppure quando si oppone resistenza
ai suoi spregevoli attacchi con vera devozione,
il peccato subito svanisce.
Traduzione Emanuele Antonacci
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave. Francesco Meli (Ernani), Maria José Siri (Elvira), Roberto Frontali (Don Carlo), Vitalij Kowaljow (Silva), Xenia Tziouvaras (Giovanna), Joseph Dahdah (Riccardo), Davide Piva (Jago). Coro del Maggio Musicale Fiorentino, Lorenzo Fratini (maestro del coro), Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, James Conlon (direttore). Registrazione, Firenze, teatro del Maggio Musicale – Sala Zubin Mehta, 10 novembre 2022. 2 CD Naxos 8.660534-35
La presente registrazione di “Ernani” testimonia una produzione fiorentina andata in scena nel novembre del 2022. Si tratta di un’edizione nel complesso poco significativa che poteva trovare la sua ragion d’essere nel regolare sviluppo di una stagione ma che discograficamente non riesce a lasciare nessuna traccia significativa.
Le cose migliori vengono dalla vibrante direzione di James Conlon. Direttore ecclettico ma di grande esperienza e con una lunga frequentazione fiorentina che gli permette una perfetta sintonia con l’orchestra, fornisce una lettura al calor bianco ma mai sguaiata e con un rigoroso controllo di tutte le componenti. Conlon non teme il romanticismo bruciante del primo Verdi e si lancia in una concertazioneassa piena di fuoco, dai contrasti violenti e marcati, dai ritmi rapinosi. Irruenza e slancio fremente di ardente giovinezza uniti a un sempre rigorosissimo controllo nelle dinamiche musicali, nella cura dei dettagli – si ascolti il ricamo sonore che accompagna “O morir potessi adesso”, attentissima alle regioni del canto ma al contempo inflessibile nell’evitare accomodamenti o facili scappatoie imponendo ai cantati una rigorosa disciplina che di certo giova nonostante certi limiti del cast. La prova assai positiva dell’orchestra e quella ancor più ragguardevole del Coro del Maggio – sempre una sicurezza al riguardo – completano quella che è di gran lunga la componente più riuscita dell’esecuzione.
La direzione di Conlon avrebbe, infatti, meritato cast più omogeneo nella resa. Spicca l’Ernani di Francesco Meli. La voce, sappiamo, è molto bella e ideale per il ruolo con il suo timbro luminoso e smaltato di matrice ancora pienamente belcantista. La dizione è pulitissima e l’accento partecipe e coerente con il personaggio. La direzione di Conlon lo aiuta a sfumare e a fraseggiare al meglio delle sue possibilità – certe frasi sono colme di autentica poesia – e se la zona del passaggio resta sempre un po’ problematico sul piano tecnico si fa perdonare la cosa con l’intensità del canto e la bellezza della voce.
Purtroppo Maria José Siri affronta Elvira forse un po’ tardi con un timbro che si è fatto fin troppo matronale e un settore medio grave impoverito. Ha dalla sua il mestiere ed esperienza che le permettono di venire a capo della parte. Pur giocando in difesa arriva a capo della temibile cavatina e la solidità del registro acuto gli permette di superare non pochi scogli ma nei centri e ancor di più nei gravi la voce risulta sfocata. Resta una lettura corretta che non riesce a suscitare entusiasmi né tanto meno a imprimersi nel ricordo.
Roberto Frontali (Don Carlo) ha dalla sua il senso della parola, la capacità di far vibrare la parola scenica unita a una dizione nitidissima. I lunghi anni di carriera hanno lasciato però non pochi sogni sul materiale voce. La voce si è impoverita di armonici e come prosciugata, l’emissione fatica a staccarsi da un mezzo forte che limita molto l’espressività del personaggio. Frontali funziona nella scena con Silva o in certe sprezzanti frasi del III atto ma del canto nobile e alato del giovane Re di Spagna è difficile trovare taccia.
Giudizio senza attenuanti quello sul Silva Vitalij Kowaliow. La voce di suo sarebbe anche apprezzabile ma risulta totalmente fuori luogo lontanissima per emissione, stile e gusto dalla vocalità italiana. Kowaliow trasforma il ruolo in una sorta d’ibrido tra Hunding e un orco vociferane che è quanto di più lontano ci sia da questo inflessibile aristocratico, paradigma di un mondo finito ma colmo di una sua austera grandezza.
Le parti di fianco nel complesso funzionano bene e tecnicamente la registrazione è godibile ma di certo il catalogo discografico di “Ernani” – non ricchissimo ma con picchi di assoluta qualità – non sentiva bisogna di una registrazione nel complesso così ordinaria.
Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2025
“ELEKTRA”
Tragedia in un atto su libretto di Hugo von Hofmannsthal (da Sofocle) Musica di Richard Strauss
Clitennestra ANNA MARIA CHIURI
Elettra LISA LINDSTROM
Crisotemi SOULA PARASSIDIS
Egisto PETER TANTSITS
Oreste THOMAS TATZL
Il precettore di Oreste NICOLO’ DONINI
La confidente ANNA CIMARRUSTI L’ancella dello strascico VERONICA MARINI
Un servo giovane LEONARDO CORTELLAZZI
Un servo anziano STEFANO RINALDI MILIANI
La sorvegliante RAFFAELA LINTL La prima ancella LUCIA CERVONI
La seconda ancella MARZIA MARZO
La terza ancella ANNA WERLE
La quarta ancella FRANCESCA MAIONCHI
La quinta ancella MANUELA CUCUCCIO
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Michael Balke
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Yamal das Irmich Scene Alessia Colosso Costumi Eleonora Nascimbeni
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona
Verona, 16 marzo 2025
Il nuovo allestimento di Fondazione Arena, che prosegue nel solco di proposte di raro ascolto, affronta l’atto unico che Richard Strauss e Hugo von Hoffmannsthal concepirono nel 1909 dall’omonima tragedia di Sofocle, di cui abbiamo un solo precedente al Filarmonico nel 2003. La vicenda è imperniata sulle tre protagoniste principali: Elektra, Clitennestra e Crisotemi, ciascuna con le proprie radici temporali, segnate da inquietudini, dubbi e rivendicazioni femminili. La regìa di Yamal das Irmich traspone l’originale mito greco durante la Repubblica di Weimar, con un chiaro richiamo a La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, la cui ambientazione borghese è sorretta dalle scene di Alessia Colosso sospese tra gusto tipicamente ottocentesco e Bauhaus, con tanto di ritratto del Kaiser Guglielmo II che si staglia sul caminetto; scene che tuttavia rischiano di compromettere la proiezione del suono in sala in quanto aperte verso il fondo. Anche i costumi di Eleonora Nascimbeni tendono a sottolineare l’alternanza delle diverse fasi storiche con molti riferimenti a stili e gusti dell’epoca fino ad arrivare all’inserimento dei feroci e sanguinari guerrafondai nazisti. Lo spettacolo nel suo complesso regge, se consideriamo un pubblico come quello veronese assai poco avvezzo a titoli desueti ma pur sempre aperto alle novità se non addirittura alla provocazione. La ricollocazione temporale si rivela coerente, anche se l’idea principale concepita da Irmich risulta nelle scene di insieme più attenta alla caratterizzazione di contorno che a focalizzare i protagonisti, con chiare allusioni al mondo dorato del cabaret. Buono il disegno luci di Fiammetta Baldiserri che asseconda i movimenti scenici con garbo senza distrarre oltremodo lo spettatore. Venendo all’aspetto musicale, Lise Lindstrom nel ruolo eponimo si dimostra interprete di indiscusso temperamento vocale ed attoriale con voce salda e fraseggio cesellato oltre ad una presenza e ad una tenuta scenica davvero lodevoli; se consideriamo che è quasi sempre sul palcoscenico per quasi due ore la sua prestazione in termini di spettacolo è stata davvero eccellente. Gli stessi esiti non li abbiamo riscontrati in Soula Parassidis (Crisotemi) e Anna Maria Chiuri (Clitennestra), entrambe dotate di bel timbro, fraseggio e capacità scenica encomiabili ma apparse non completamente a proprio agio nella tessitura straussiana, sì da rendere la loro prestazione a tratti forzata. Va da sé, tuttavia, che la scrittura vocale del tedesco è più attenta alla declamazione narrativa ed emotiva che alla ricerca del cantabile e questo rappresenta spesso un terreno non congeniale e di poca familiarità per talune voci. Tra i personaggi maschili, con minore impegno vocale in scena, Thomas Tatzl è un Oreste che non va oltre la correttezza così come l’Egisto di Peter Tantsits è reso correttamente senza inutile enfasi. Nelle parti minori si distinguono Nicolò Donini, Leonardo Cortellazzi e Anna Cimarrusti. Con qualche discontinuità le cinque ancelle Lucia Cervoni, Marzia Marzo, Anna Werle, Francesca Maionchi e Manuale Cucuccio. Sul podio Michael Balke adotta (per la prima volta in Italia) la versione orchestrale di Richard Dünser che sfronda l’originale gigantesco organico, improponibile nella buca non ampia del Filarmonico, adattandolo alle sonorità di un’orchestra sinfonica tardoromantica; ovviamente qualche preziosità di dettaglio va persa ma la partitura e il pensiero musicale originale rimangono saldi nella loro integrità. Ciò nonostante, lo strumentale ha finito comunque per sovrastare con sonorità debordanti le voci sul palcoscenico, già gravate dall’impegnativa scrittura straussiana. La lettura di Balke, sebbene non di profonda indagine e scavo musicale si rivela tuttavia ben più che funzionale e con risultati apprezzabili grazie ancora una volta ad una prestazione encomiabile dell’orchestra della Fondazione Arena, in grado di adattarsi con duttilità ad un repertorio ad essa non particolarmente familiare, anche se già affrontato nel sinfonico. Il coro, diretto da Roberto Gabbiani, ha tutti i suoi interventi fuori scena e per i motivi sopra descritti è risultato ai limiti dell’udibilità, circostanza che ne impedisce una valutazione oggettiva. Pubblico abbastanza numeroso ed attento che ha riservato applausi convinti al termine, particolarmente al terzetto delle protagoniste e al direttore. Repliche venerdì 21 e domenica 23 marzo. (Foto Ennevi per Fondazione Arena)
Roma, Spazio Diamante
AL POSTO SBAGLIATO
Liberamente tratto dal libro omonimo di Bruno Palermo
direzione di produzione Lindo Nudo
aiuto regia Stefania Scola
responsabile tecnico Jacopo Andrea Caruso
direzione di produzione Lindo Nudo
aiuto regia Stefania Scola
organizzazione L’ALTRO TEATRO
produzione Teatro ROSSOSIMONA
Roma, 21 marzo 2025
“Ci si può opporre alla mafia semplicemente raccontando la verità”, disse Paolo Borsellino. Ma c’è una verità più scomoda e lacerante, che solo di rado trova chi abbia il coraggio di pronunciarla: quella che giace muta nei corpi fragili dei bambini, vittime incolpevoli di una violenza senza redenzione. Da questo silenzio, e dall’urgenza di restituire voce all’innocenza tradita, nasce Al posto sbagliato, la prova scenica di Francesco Pupa, andata in scena allo Spazio Diamante di Roma. Non un teatro di denuncia, né un resoconto di cronaca, ma un sacrificio laico che affida alla parola e al gesto l’impossibile compito di ridare volto, corpo e memoria a chi, per brutalità d’uomo, è stato consegnato all’oblio. Tratto dall’omonimo libro-inchiesta di Bruno Palermo, che raccoglie centotto storie di minori uccisi dalle mafie, lo spettacolo concentra la sua narrazione su dodici di queste esistenze spezzate. Dodici storie scelte non per una semplice rappresentazione, ma come testimonianza universale di una colpa collettiva. Pupa sceglie la via più difficile e onesta: la spoliazione scenica e la nudità espressiva. Rinuncia a ogni artificio per affidarsi al rigore della parola e alla verità del corpo. La scena è quasi vuota, ma non del tutto. A occuparla vi sono scatole di legno, disposte in maniera lineare o a incastro, che torreggiano come architetture precarie. Scatole che sembrano contenere qualcosa o forse nulla. Ricordano bare, archivi muti o stanze chiuse da cui nessuno può più uscire. Sono prigioni e tombe, ma anche costruzioni della memoria, blocchi impilati a ricordare la compartimentazione del dolore. Francesco Pupa si muove tra questi oggetti come un testimone che interroga se stesso e il pubblico. Al centro della scena, un’agenda rossa. Non è un caso che richiami quella di Paolo Borsellino, scomparsa misteriosamente dopo la strage di via D’Amelio. Nelle mani di Pupa, quell’agenda diventa il registro delle vittime innocenti, il libro muto delle verità negate. È da lì che escono i nomi, le date, le storie spezzate dei bambini assassinati dalle mafie. L’agenda si apre e si chiude come un libro sacro, scandendo il tempo del ricordo e della testimonianza civile. La regia delle luci è essenziale, precisa, sobria. Fasci stretti di luce bianca tagliano lo spazio, scolpendo il buio e isolando la figura dell’attore. La luce non accompagna, ma rivela. A tratti si spegne, lasciando il palco nell’ombra, quasi a suggerire che certe verità si colgano solo nel silenzio. Le luci dettano il ritmo del racconto con rigore ascetico, rafforzando l’asciuttezza di un’interpretazione che non concede nulla al sentimentalismo. Francesco Pupa è solo in scena. Come solo è l’uomo che si fa carico di una memoria scomoda. La sua recitazione è composta, asciutta, priva di retorica. Non interpreta i personaggi, li evoca. La voce si fa a tratti sommessa, a tratti tagliente, il corpo si muove senza mai cadere nell’imitazione o nell’enfasi. È un atto etico più che teatrale, in cui il pubblico è chiamato a essere partecipe, non spettatore. Pupa non cerca l’emozione immediata, ma costruisce una lenta e inesorabile presa di coscienza. Il dinamismo della scena nasce proprio dalla sua immobilità. Pupa si muove nella penombra, avvolto nel fumo di una sigaretta che apre lo spettacolo come un presagio. I suoi passi lenti tracciano un percorso nella memoria collettiva, evocando l’origine della mafia e restituendo la voce a quei bambini, i picciriddi, come li chiama con rispetto. Passa con naturalezza dal dialetto siciliano al napoletano, dal pugliese al calabrese. Ogni lingua segna l’appartenenza di quelle vite spezzate alle diverse mafie d’Italia: mafia, camorra, Sacra Corona Unita, ‘ndrangheta. Un atlante del dolore che diventa universale. Il racconto attraversa alcuni degli episodi più drammatici e simbolici della storia criminale italiana. La strage di Portella della Ginestra, primo patto tra politica e mafia nella storia repubblicana, si alterna al martirio di Nicholas Green, il bambino americano ucciso in Calabria, la cui morte ha portato alla donazione degli organi. Seguono l’omicidio di Dodò Gabriele, colpito mentre giocava a calcio, e la strage di Pizzolungo, dove una madre e i suoi due figli vennero uccisi per errore in un attentato contro il magistrato Carlo Palermo. Ci sono anche storie meno note, come quella dei quattro ragazzi gettati in un pozzo dopo aver derubato la madre di un boss. Gli oggetti scenici sono minimi ma carichi di significato: una coppola per il narratore di paese che racconta l’uccisione di una bambina, un fazzoletto rosso per il contadino che credeva in una Sicilia migliore e che invece vede morire il proprio figlio. Elementi essenziali che, con il gesto e la voce, costruiscono una polifonia di racconti intrecciati a canti popolari spezzati e struggenti. È un mondo arcaico quello che Pupa porta in scena, dove la comunità è devastata da una violenza che ha cancellato ogni residuo di umanità. Alla fine della rappresentazione cala un silenzio profondo. Un silenzio non imposto, ma conquistato. Poi, lentamente, il pubblico inizia ad applaudire. Prima piano, poi sempre più forte, fino a un applauso scrosciante, che è insieme liberazione e gratitudine. Non un’ovazione scontata, ma un tributo autentico, figlio di una partecipazione intensa e sofferta. Al posto sbagliato non è semplicemente un atto di accusa. È, soprattutto, un atto di verità. Un teatro che non si limita a rappresentare il reale, ma lo interroga e lo scava fino a restituirlo nella sua forma più pura e radicale. Uno spettacolo necessario, che si ascolta in silenzio e che continua a vivere ben oltre il tempo breve della rappresentazione.
Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica 2025
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani, dalla pièce teatrale “Norma, ou l’infanticide” di Louis-Alexandre Soumet.
Musica di VINCENZO BELLINI
Pollione MERT SÜNGÜ
Oroveso RICCARDO ZANELLATO
Norma JESSICA PRATT
Adalgisa MARIA LAURA IACOBELLIS
Clotilde ELIZAVETA SHUVALOVA
Flavio YAOZHOU HOU
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Michele Spotti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Andrea De Rosa
Scene Daniele Spanò
Costumi Gianluca Sbicca
Luci Pasquale Mari
Movimenti coreografici Gloria Dorliguzzo
Nuovo allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 18 marzo 2025
Grande e inattesa recita di “Norma” questa sera al Maggio Musicale Fiorentino, andata in scena con lodevole impegno di tutte le maestranze in seguito al rinvio della rappresentazione del 14 marzo per l’allerta meteo in codice rosso, in modo da non privare il pubblico di un titolo assente dal 1978. Le scene di Daniele Spanò ci conducono in una sorta di accampamento-carcere, dominato da una rotonda vasca per aspersioni che dischiude il levarsi lunare, dove il popolo è soggiogato dalle sevizie degli invasori e tenuto minacciosamente sotto tiro. I principi costruttivi e gli abiti sono moderni, ma entro un’aura atemporale, dove la mistica sacralità dei riti è evocata dalla gestualità e dai dettagli dei costumi ideati da Gianluca Sbicca, ricchi di accessori atti ai rituali. Ne è riprova il sanguigno abito di Norma del finale, da cui s’innesca la concatenazione degli archi di catene dorate che man mano mettono al laccio i due protagonisti, rendendo la fatale sacerdotessa vittima del suo stesso cerimoniale. D’effetto l’utilizzo del ponte mobile con cui il bunker dove vivono Norma e Pollione viene fatto emergere dalle viscere della terra, squallido rifugio della dimensione privata di Norma e custode dei ricordi della coppia che tanto scuoteranno Adalgisa, nelle cui scene l’attenzione al dettaglio registico è assimilabile a quella del teatro di prosa. Magistralmente, il bunker riappare nel finale, a testimoniare che sono due bimbi in cerca della loro mamma a scontare la pena più severa. In tale contesto, anche le luci di Pasquale Mari concorrono alla suggestione sacrale, mentre le vivaci coreografie di Gloria Dorliguzzo danno vigore a una vicenda viva e particolareggiata, che appare passata, presente e futura allo stesso tempo. La regia di Andrea De Rosa elude, dunque, l’ardua impresa di rappresentare una “Norma” tradizionale, ma senza snaturarne l’essenza, anzi rendendola coinvolgente e vicina al pubblico, al punto che in platea si è potuto sentire alcuni spettatori esclamare: “… quando si dice un vero spettacolo!”. Dalla buca, la direzione di Michele Spotti recupera il brio dell’ouverture rossiniana, per una conduzione senza soluzione di continuità, vibrante e sensibile ai diversi nuclei motivici che figurano i contenuti psicologici dell’intreccio. Complice di un solido fondale orchestrale e in sintonia col professionale coro di Lorenzo Fratini, il direttore riduce al minimo i tagli e riesce a trovare le giuste soluzioni per far emergere sia le peculiarità dei cantanti, che i sottili effetti coloristico-dinamici con cui Bellini accarezza le ricorrenze tematiche più fascinose di questa immortale partitura. Jessica Pratt, che al tempo de “I Puritani” del 2015 non sembrava intenzionata a cantare “Norma” prima dei 40 anni, scioglie senza riserve il suo debutto nel ruolo della complessa sacerdotessa, che Bellini scrive per soprano lirico-drammatico con agilità, frequentemente approcciato da soprano lirici stridenti in acuto o soprano acuti d’agilità svantaggiati su centri e gravi. La Pratt sulla carta appartiene alla seconda tipologia e ne è consapevole, come testimoniano le insolitamente frequenti prese di fiato sull’ipnotico “Casta Diva” (cantato nell’originale tonalità di Sol maggiore), anche se il graduale scolorimento timbrico sui centri è qui smorzato da un tessuto orchestrale correttamente esile e da una tessitura che esplora in rapidità tutta l’estensione e su cui il declamato in affondo è accuratamente risolto. Con tali caratteristiche della scrittura, non è difficile per la cantante sublimare l’intrinseco lirismo della vocalità belliniana con una costellazione di sbalzate variazioni d’agilità e puntature acute personalizzate, su cui il luminoso timbro si diffonde per la sala con mirabile forza proiettiva, in nome di una Norma da ricordare per l’elevata caratura belcantistica. L’intero spettro vocale e coloristico è vagliato con meticolosità e afflato con la parte. Così, i tonanti accenti a piena voce verso Pollione e Adalgisa, le funamboliche colorature di sfogo interiore, le tenere fioriture e gli illusori filati con cui il cuore guarda al miraggio, la dolente identificazione con Medea, i madrigalismi sonori di condanna, il fraseggio singhiozzante di una furia trattenuta a stento e, infine, l’intenso pathos declamatorio, scolpiscono con carisma l’alterazione mentale e l’iridescenza di questo emblematico personaggio. Le era degna rivale l’Adalgisa di Maria Laura Iacobellis, già apprezzata Clorinda ne “La Cenerentola” della stagione autunnale. Il secondo soprano prende parte con nitore alle difficili cadenze a cappella con Norma e plasma il ruolo contando sulla duttilità di un omogeneo strumento vocale. Se i centri sono adeguatamente corposi, gli acuti risuonano meno angelici di quelli della Pratt, ma comunque ben emessi e incastonati in un fraseggio di rilevante carica espressiva, capace di sicuri virtuosismi e legati dall’ammirevole resistenza respiratoria. Un’Adalgisa disinvolta, empatica e responsabile, che porta a casa una prova di tutto rispetto. Al loro fianco, rimane più sullo sfondo il fondo Pollione di Mert Süngü, che dà il meglio nella fierezza d’accenti in recitativo, stagnando per il resto su un canto monocorde e privo di “chioma” sugli acuti, che non sempre fa emergere la seduttiva passionalità della scrittura da tenore lirico di forza. Pietoso e autoritario al punto giusto, invece, il timbrato e perlopiù rotondo Oroveso di Riccardo Zanellato, il cui timbro ben si addice alle frequenti incursioni nel registro più acuto, restituendo con determinazione sia i maestosi moniti nei confronti della collettività, che l’accorato volgere al perdono finale. Convincenti e ben a fuoco anche i puntuali interventi di Elizaveta Shuvalova (Clotilde) e Yaozhou Hou (Flavio). Al termine, l’attonito pubblico del Maggio Musicale Fiorentino tributa un sentito consenso verso tutti gli artisti, con particolare enfasi per la protagonista.
Teatro dell’Opera di Roma, Stagione di Opere e Balletti 2024- 2025
“ALCINA”
Dramma in musica tre atti
libretto di anonimo, adattato da L’isola di Alcina di Antonio Fanzaglia per la musica di Riccardo Broschi da Ariosto
Musica di Georg Friedrich Handel
Alcina MARIANGELA SICILIA
Ruggiero CARLO VISTOLI
Bradamante CATERINA PIVA
Oronte ANTHONY GREGORY
Morgana MARY BEVAN
Oberto SILVIA FRIGATO
Melisso FRANCESCO SALVADORI
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Rinaldo Alessandrini
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Pierre Audi
Scene e costumi Patrick Kinmoth
Luci Metthew Richardson
Nuovo Allestimento del Teatro dell’Opera, in collaborazione con De Nationale Opera, Amsterdam
Roma 18 marzo 2025
Dello sterminato catalogo delle opere di Handel solo tre sono i titoli attualmente entrati integralmente nella memoria del pubblico grazie all’impegno di primedonne di levatura assoluta, il Giulio Cesare recentemente ripreso anche all’Opera di Roma, il Rinaldo e Alcina che finalmente, mai rappresentata finora, approda sulle scene romane. Per l’occasione la direzione è stata affidata ad uno specialista del repertorio il maestro Rinaldo Alessandrini e la regia a Pierre Audi. Lo spettacolo già concepito in più riprese dal regista a partire dal 2000 è stato rifatto per l’occasione. I personaggi vestiti in bei costumi del XVIII secolo e inseriti in una scena unica che rievoca le quinte dipinte in uso al tempo, raccontano la vicenda ariostesca in maniera lineare ed assai efficace, restituendo la forza e l’intensità del teatro handeliano attraverso una recitazione curatissima e adatta al gusto moderno sempre appropriata e soprattutto in perfetta sintonia con la musica. I da capo delle arie non sono solamente animati da stupefacenti variazioni atte a destare la meraviglia ma contribuiscono alla narrazione scenica o allo sviluppo dei sentimenti e dei pensieri che pervadono i personaggi, tenendo sempre alta l’attenzione del pubblico e conferendo unità e significato alla vicenda che in questo tipo di teatro potrebbe rischiare di diventare un catalogo frammentario di splendide arie fra loro slegate ed intercambiabili. Assai vivace e ben atta a differenziare il carattere ed il genere dei diversi momenti espressivi è parsa la direzione del maestro Rinaldo Alessandrini molto attento nel saper trovare la giusta dimensione teatrale attraverso le pause e il respiro della musica. Ottimo il coro diretto dal maestro Ciro Visco per apollinea bellezza di suono. E veniamo agli interpreti vocali di questa interessante e bella serata, tutti molto bravi e ben amalgamati in un evidente prezioso lavoro di insieme. Nel ruolo eponimo ha brillato il soprano Mariangela Sicilia, in grado di dominare la lunga e difficile parte in tutti i diversi momenti espressivi con un sapiente gioco di colori, messe di voce ed agilità impeccabili. Ottimo Ruggiero è stato Carlo Vistoli con elegante presenza scenica e stupefacente sicurezza vocale sia nelle vorticose agilità che nella nobiltà del cantabile. Assai intensa è parsa la Bradamante interpretata dalla brava Caterina Piva e complessivamente riuscita dopo un esordio eccessivamente prudente la caratterizzazione di Morgana fatta da Mary Bevan. Buone le interpretazioni sia sceniche che vocali di Oronte, Anthony Gregory, Oberto, Silvia Frigato e Melisso, Francesco Salvadori il quale ha cantato molto bene l’unica aria della sua parte. Alla fine lunghi e calorosi applausi per tutti da parte di un pubblico molto attento e piacevolmente sorpreso dalla forza espressiva di un genere teatrale di purtroppo rara rappresentazione.
Milano, Teatro fACTORy 32, Stagione 2024/25
“LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL’OCEANO”
Tratto da “Novecento” di Alessandro Baricco
con IGOR CHIERICI
Regia Luca Cicolella
Produzione Compagnia Chierici-Cicolella
Milano, 16 marzo 2025
Se non sarà per i molti meriti pedagogici e divulgativi – e nemmeno per il talento più strettamente letterario – Alessandro Baricco certo passerà alla storia della cultura di questo Paese come l’autore di un vero classico contemporaneo, quel “Novecento”, sovente ribattezzato sulla scorta della pellicola di Tornatore “La leggenda del pianista sull’oceano”, che si pone come uno dei monologhi teatrali imprescindibili del nostro teatro, sapientemente modellato sul teatro di narrazione senza perdere il suo appeal specificamente scenico. In un panorama post-Covid che per svariate ragioni predilige la forma del monologo a quella della produzione più articolata (e costosa), e che dunque in monologo trasforma qualsiasi cosa, poter andare ad assistere ad un monologo nato tale, con la sua compiutezza, coerenza e coesione testuale e narrativa, è un piacere – complimenti dunque, in primis, alla fACTORy 32 di Valentina Pescetto per la scelta azzeccata. Tuttavia, come altrove abbiamo sottolineato, la forma monologica si porta dietro inevitabilmente delle difficoltà e delle trappole, nelle quali sia l’attore che il pubblico possono cadere: questa resa di Igor Chierici, con la regia di Luca Cicolella, tuttavia, sa aggirare con eleganza questi ostacoli, privilegiando una messa in scena semplice ed ultracomunicativa, che non vada alla ricerca di cose che nel testo non ci sono. Certo, si potrebbe obiettare che è una scelta fin troppo prudente, ma considerata la specificità del testo, la sua celebrità, anche la sua brevità, il rischio di rovinare o distorcere gli spunti che vengono offerti è davvero alto – dunque, in fondo, che male c’è nel riproporre una volta tanto un testo per quello che è? Ecco allora che Chierici è vestito con foggia Anni Venti e ci parla con quella cadenza un po’ guascona che ci aspetteremmo da un marinaio che ci racconta una storia: la vocalità è senz’altro la carta vincente di questo attore, che sa trattenersi dall’uso macchiettistico della voce, valorizzando tuttavia il bel range vocale tenorile che possiede, in dizione ineccepebile – la fisicità smilza e quasi post-adolescente che l’interprete conserva, oltre alla ricerca spudorata del contatto col pubblico, garantiscono alla sua performance un’apprezzabile freschezza. Chierici possiede la capacità di sembrare davvero senza età, potendo giocare coi personaggi del monologo con credibilità. La regia di Cicolella, d’altro canto, è giustamente poco chiassosa, si nutre di piccoli gesti significativi, di posizionamenti, di giochi di luce, valorizzando l’attore e al contempo creando, come già detto, un’atmosfera più che una vera e propria lettura, ma comunque facendosi riconoscere. Insomma, questa “Leggenda del pianista sull’oceano” non cambierà, con tutta probabilità, i destini del teatro italiano del XXI secolo, ma non ne ha nemmeno la pretesa: vuole genuinamente intrattenere, comunicare una storia, innescare il bagliore di una piccola visione. Missione del tutto compiuta.
Roma, Teatro Argentina
SEI PERSONAGGI IN CERCA DI AUTORE
da Luigi Pirandello
regia Valerio Binasco
con (in o.a.) Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini
e con Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta
scene Guido Fiorato
costumi Alessio Rosati
luci Alessandro Verazzi
musiche Paolo Spaccamonti
suono Filippo Conti
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Nazionale di Genova / Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Roma, 19 marzo 2025
“Quando l’autore si dilegua, i personaggi restano in scena. E reclamano un pubblico.” (Postille semi-serie al dramma non finito, Apocrifo attribuito a Luigi Pirandello)
È una verità che riguarda l’intera letteratura e ancor più il teatro, dove l’assenza dell’autore non impedisce alla sua ombra di aggirarsi inquieta fra le quinte. Valerio Binasco, regista e attore, sembra aver preso alla lettera questa massima apocrifa e la sua nuova edizione di Sei personaggi in cerca d’autore, in scena al Teatro Argentina di Roma, si muove esattamente su questa sottile linea di frontiera: fra ciò che è stato scritto e ciò che resta da scrivere. La scena si presenta spoglia, un luogo neutro che potrebbe essere una sala prove o una palestra di scuola; tavoli e sedie scompagnate, qualche oggetto casuale, luci al neon fredde e impietose che sottolineano il carattere provvisorio dell’ambiente. La compagnia di giovani attori – studenti della Scuola dello Stabile di Torino – si muove all’interno di questo spazio con l’energia tipica di chi si esercita, si confronta, si corregge. Il teatro è rappresentato nella sua nudità più semplice, privo di quell’aura di sacralità che pure, nel cuore dello spettatore, non smette mai di esercitare. È in questa atmosfera di quotidianità che si inserisce la rottura dell’ordinario. I Sei Personaggi non entrano in scena come si varca una soglia, bensì sembrano emergere da una piega del reale, avvolti in costumi d’altri tempi, figure scolorite che il tempo non ha saputo consumare del tutto. Sono lì, richiesti da un’urgenza che non si è mai spenta: raccontare la loro storia, ottenere un riconoscimento, esistere oltre la parola scritta. Binasco non impone la sua regia con clamore. La sua scelta è quella dell’ascolto. Il Capocomico – affidato a un Jurij Ferrini misurato e consapevole – non domina la scena, ma la accompagna, guida i suoi giovani con l’attitudine del pedagogo e la pazienza di chi sa che il mestiere del teatro è fatto di continue approssimazioni. Gli attori non si oppongono ai Personaggi, non li sfidano, non li mettono in ridicolo: si pongono piuttosto in una posizione di ascolto, in cui la finzione teatrale si intreccia con la vita, in un continuo scambio di ruoli e di prospettive. La messinscena si muove su un linguaggio asciutto e diretto, che non tradisce mai la complessità filosofica del testo pirandelliano ma ne rende più immediato l’approccio. La drammaturgia è alleggerita, la lingua viene semplificata senza che la profondità venga meno: la busta “cilestrina” diventa “celeste”, ma la parola “giuoco” si conserva, come un’eco che attraversa le epoche. La riscrittura non è mai arbitraria, piuttosto è un tentativo di rendere i dialoghi aderenti al sentire contemporaneo, senza svilire il pensiero originario. Il cuore dello spettacolo pulsa nei suoi interpreti principali. Valerio Binasco stesso veste i panni del Padre, non più il filosofo raziocinante che si erge a portavoce dell’autore, ma un uomo disfatto, segnato da un dolore che lo rende fragile e umano. La sua parola si incrina, si interrompe, si asciuga in un continuo gesto di asciugare lacrime e sudore, più per stanchezza dell’anima che per emotività. Giordana Faggiano incarna una Figliastra intensa, sfrontata e insieme vulnerabile: la sua risata, momento topico della pièce, si carica di un’ambiguità che la rende un grido di ribellione e insieme un disperato bisogno di essere ascoltata. Sara Bertelà conferisce alla Madre una forza nuova: non più solo la figura sofferente e dimessa, ma una donna che si fa carico della memoria, della rabbia e della pietà. Il suo silenzio è gravido di significato, e lo sguardo diventa parola muta che scuote chi osserva. Giovanni Drago è un Figlio enigmatico, chiuso in un mutismo che si fa posizione esistenziale: i suoi gesti sono minimi, ma carichi di tensione, e nell’ultimo movimento, quando tenta di sottrarsi al copione imposto, rivela l’ineluttabilità di un destino che nessuna volontà può cambiare. Intorno a loro si muove il gruppo dei giovani attori, coro muto e partecipe, che non funge da commento ma da testimone: non rappresentano, osservano; non giudicano, accolgono. Il loro stare in scena è naturale, privo di sovrastrutture, e in questa naturalezza si coglie il senso più profondo della messinscena di Binasco: il teatro come luogo di ascolto, prima ancora che di rappresentazione. La scena firmata da Luigi De Palma è essenziale, funzionale a un’idea di spazio che si definisce nel momento stesso in cui viene abitato. Le luci fredde disegnano un ambiente sospeso, senza tempo, e la scelta di mantenere quasi assente l’apparato musicale contribuisce a un clima di concentrazione, dove nulla distoglie dall’essenziale: la parola, il gesto, il silenzio. Nell’ultima sequenza, quando i giovani attori prendono per mano i Sei Personaggi e li conducono fuori scena, non si ha l’impressione di una conclusione, ma di una tregua. Non c’è catarsi, non c’è soluzione: solo un momento di sospensione, in cui la tragedia si fa ascolto e il dolore viene riconosciuto. Il dramma non è stato rappresentato, ma è stato compreso. Forse è questo l’approdo ultimo di questa regia: la consapevolezza che il teatro non può colmare il vuoto lasciato dall’autore, ma può accogliere le sue creature, dare loro un luogo, un tempo, un’attenzione. Il pubblico del Teatro Argentina ha risposto con un silenzio carico di rispetto e un applauso che è sembrato un ringraziamento più che un tributo. Sei personaggi in cerca d’autore, in questa edizione, si offre come esperienza condivisa di un enigma che continua a parlarci, e che ci chiede di essere ascoltato più che spiegato. PhotocreditVirginiaMingolla
Roma, Teatro Brancaccio
PROVA A PRENDERMI
basato sul film Dreamworks
libretto di Terrence McNally
musiche di Marc Shaiman
liriche di Scott Wittman & Marc Shaiman
con Claudio Castrogiovanni e Tommaso Cassissa
e con Simone Montedoro
regia di Piero Di Blasio
coreografie di Rita Pivano
scenografie di Lele Moreschi
costumi di Francesca Grossi
luci di Emanuele Agliati
produzione di Alessandro Longobardi per VIOLA PRODUZIONI – Centro di Produzione Teatrale
Roma, 19 marzo 2025
C’è un ragazzo, un sogno americano e una bugia dietro l’altra. E poi c’è la voglia di non fermarsi mai, di scappare sempre un po’ più in là. Prova a prendermi – Il Musical racconta tutto questo con ritmo, energia e quella patina brillante anni Sessanta che è impossibile non amare. Se il film di Steven Spielberg ci aveva già fatto battere il cuore (chi non ricorda Leonardo DiCaprio in divisa da pilota?), questa versione teatrale – prodotta con coraggio da Viola Produzioni – ha il pregio di non limitarsi a ripetere lo schema cinematografico, ma di trovare un linguaggio tutto suo. E funziona. Merito di una regia solida e creativa firmata da Piero Di Blasio, che dopo il successo di Tutti parlano di Jamie si misura con un racconto più complesso e disseminato di trappole. Invece di caderci dentro, Di Blasio sceglie la strada della leggerezza e della precisione. Il risultato? Uno spettacolo che scorre liscio, ha ritmo, colpi di scena e persino un’anima. Non da poco. La scenografia di Lele Moreschi è uno dei punti forti dell’allestimento: pulita, dinamica, intelligente. Bastano pochi elementi – su tutti, l’iconico oblò di un aereo che si illumina e si sposta come un vero e proprio occhio narrante – per far viaggiare il pubblico attraverso gli Stati Uniti degli anni ’60, tra aeroporti, camere d’hotel, stazioni ferroviarie e sale da interrogatorio. Senza fronzoli, ma con stile. Sul palco, a indossare i panni (e le tante divise) di Frank Abagnale Jr. è Tommaso Cassissa. Sì, proprio lui, lo YouTuber che si trasforma in protagonista di un musical con una sicurezza sorprendente. Dimenticate DiCaprio: Cassissa ha energia, faccia tosta e, soprattutto, una capacità di stare in scena che conquista. Non è un cantante di professione? Vero, ma canta bene e recita meglio. E la sua versione di Frank Jr. è meno spavalda e più umana: un ragazzo che si inventa mille vite per sfuggire a quella vera, forse troppo dura da affrontare. Accanto a lui, Claudio Castrogiovanni è l’agente Hanratty dell’FBI. Burbero il giusto, inflessibile ma capace di sciogliersi – piano piano – di fronte al ragazzo che rincorre in tutto il mondo. E che, forse, finisce per capire meglio di chiunque altro. Il duetto tra lui e Simone Montedoro, nei panni del padre di Frank, è uno di quei momenti in cui la scena si fa più intima e toccante, senza scivolare mai nel patetico. A portare un soffio di dolcezza è Brenda, la promessa sposa di Frank Jr., interpretata da una luminosa Benedetta Boschi. La sua “Fly, Fly Away” è la canzone che non dimenticherete tanto presto. Così come il ruolo, breve ma intenso, di Jacqueline Ferry, madre di Frank: una donna che ha inseguito l’amore e ha trovato, purtroppo, la disillusione. Piccole storie di vita dentro una grande avventura. E poi c’è l’ensemble. Fondamentale, mai eccessivo, mai fuori registro. Le coreografie di Rita Pivano giocano sulla misura e sull’ironia, regalando numeri eleganti e frizzanti, senza mai strafare. La scena del viaggio in treno, in particolare, strappa più di un sorriso. Le luci di Emanuele Agliati fanno il resto: disegnano atmosfere sospese tra sogno e realtà, mentre i costumi curati da Francesca Grossi sono un inno al vintage che non stanca mai. Un tuffo in un’America di completi pastello, hostess impeccabili e agenti in trench, ma con quella vena malinconica che tiene ancorati alla realtà. Il suono dello swing, il fascino del jazz e qualche ballata che arriva dritta al cuore fanno da colonna sonora a uno spettacolo che ha il sapore dell’intrattenimento di qualità. Perché Prova a prendermi – Il Musical è, prima di tutto, una storia di sogni rubati, di fughe a perdifiato e di ritorni a casa. E alla fine, anche chi guarda, si sente un po’ complice. E un po’ più leggero.