Roma, Teatro Vascello
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe
assistenti alla regia Paolo Costantini, Andrea Lucchetta
costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Roma, 06 marzo 2025
“Sventurato, non chiamarmi da parte: io non sono tuo figlio, ma figlio del fato.” Sofocle
Da questa citazione prende avvio il percorso interpretativo di Andrea De Rosa, il quale penetra nelle pieghe dell’Edipo Re con un approccio che, pur rispettando il canone sofocleo, ne amplifica le tensioni esistenziali e le implicazioni universali. Rappresentata al Teatro Vascello di Roma, la messinscena del regista configura un rito scenico che esalta la dialettica fra luce e oscurità, fra l’indagine razionale e la vertigine dell’inconoscibile. L’impianto visivo, curato da Daniele Spanò, è simbolicamente pregnante: un’architettura di riflessi e trasparenze, costruita per suggerire un labirinto concettuale e spirituale. Le luci di Pasquale Mari, lungi dall’essere mero complemento estetico, assolvono il compito drammaturgico di scandire l’alternanza fra svelamento e occultamento. Esse non si limitano a illuminare la scena, ma tracciano percorsi simbolici, rendendo il palco un microcosmo in cui l’incontro tra umano e divino si manifesta in tutta la sua dolorosa complessità. Al centro di questo dispositivo teatrale, Marco Foschi dà vita a un Edipo segnato da un’inquietudine profonda, figlio del dubbio e della disperazione. La sua interpretazione si configura come un meticoloso scavo psicologico, attraverso cui emerge il conflitto irrisolvibile fra l’esigenza di conoscere e il terrore di scoprire la verità. Frédérique Loliée, nel ruolo di Giocasta, si muove con raffinata ambivalenza: il suo personaggio incarna la fragilità dell’essere umano di fronte all’ineluttabile, pur mantenendo un’aria di dignità regale. Roberto Latini nel ruolo di Tiresia, rappresenta il medium attraverso cui il sacro si fa parola: il suo tono oracolare, il suo incedere ieratico sottolineano la presenza del divino come forza oscura e inaccessibile. Il Coro, interpretato da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica, funge da voce collettiva, riflettendo il dramma individuale di Edipo sulla comunità tebana. La loro vocalità, sospesa tra il lirico e il tragico, diviene il tessuto connettivo che salda il singolo al destino universale. L’adattamento di Fabrizio Sinisi si distingue per la finezza linguistica e l’acume con cui restituisce le tensioni originarie del testo. Ogni battuta sembra frutto di una scelta consapevole e rigorosa, un’operazione che mira a far emergere il nodo centrale della tragedia: il rapporto conflittuale tra razionalità e inconoscibile. L’operazione drammaturgica non è mai pedissequa, ma vive di una rinnovata sensibilità che attualizza senza tradire. Le suggestioni sonore di G.U.P. Alcaro compongono un paesaggio acustico che non si limita a sottolineare le azioni, ma le amplifica emotivamente. I suoni sordi e vibranti si amalgamano alle voci, creando un’atmosfera sospesa che accresce la tensione drammatica. I costumi di Graziella Pepe raccontano la caduta e il disfacimento di un ordine simbolico: le stoffe, inizialmente pregiate, si trasformano progressivamente, lasciando trasparire una realtà che si sfalda sotto il peso della verità. L’Edipo Re di Andrea De Rosa non è soltanto una rilettura fedele del capolavoro sofocleo, ma un’opera che interroga il nostro rapporto con la verità e con l’identità. In questo contesto, la tragedia non si limita a rappresentare l’ineluttabilità del fato, ma diviene uno specchio in cui riflettere le angosce contemporanee. De Rosa, attraverso una regia sapiente e una cura maniacale dei dettagli, riesce a trasformare il testo classico in un’esperienza profondamente perturbante, capace di scuotere il pubblico e di suscitare interrogativi che vanno ben oltre il palcoscenico. Lo spettacolo, nella sua apparente semplicità, rivela una struttura compositiva complessa, in cui ogni elemento – attoriale, visivo, sonoro – contribuisce a costruire un linguaggio teatrale che si nutre di stratificazioni simboliche e rimandi culturali. È un teatro che non cerca la facile emozione, ma ambisce a una riflessione di ampio respiro, spingendo gli spettatori a confrontarsi con i limiti del conoscere e con la vertigine dell’essere. In definitiva, questa versione dell’Edipo Re si presenta come un laboratorio di pensiero e di sensazioni, un luogo in cui il sacro e il profano, la storia e il mito, l’antico e il contemporaneo trovano un equilibrio raro e prezioso. Il risultato è un’esperienza teatrale che non si esaurisce nella visione, ma continua a lavorare dentro di noi, come un enigma che non smette mai di interrogare la nostra coscienza. Photocredit Andrea Macchia
Napoli, Teatro Bellini
EXTRA MOENIA
uno spettacolo di Emma Dante
con Verdy Antsiou, Roberto Burgio, Italia Carroccio, Adriano Di Carlo, Angelica Di Pace, Silvia Giuffrè, Gabriele Greco, Francesca Laviosa, David Leone, Giuseppe Marino, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino
luci Luigi Biondi
assistente ai movimenti Davide Celona
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte
capo reparto fonica Giuseppe Alterno
elettricista Marco Santoro
macchinista Giuseppe Macaluso
sarta Mariella Gerbino
amministratore di compagnia Andrea Sofia
produzione Teatro Biondo Palermo
in coproduzione con Atto Unico – Carnezzeria
in collaborazione con Sud Costa Occidentale
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
«Danziamo, danziamo… altrimenti siamo perduti»
Pina Bausch
Extra moenia è una locuzione latina che significa “fuori dalle mura della città”. Vuole indicare un evento o un’attività svolti fuori dalla sede appropriata, fuori dalla propria residenza. Lo spettacolo racconta i momenti di una giornata qualunque in cui una comunità si sveglia, si prepara ed esce di casa per affrontare il mondo. Dalla sveglia mattutina, in un crescendo animato di suoni, parole e gesti, senza una trama precisa si susseguono accadimenti legati al presente. C’è un ferroviere, c’è la donna ucraina che scappa dai bombardamenti, c’è il migrante che arriva dal Congo, c’è il militare che esalta la guerra, ci sono due innamorati che si promettono amore ma lei non si decide a sposarlo, c’è una famiglia religiosa, una donna iraniana, due calciatori del Palermo, c’è lo stupro del branco, il mercato, il lungo elenco dei divieti, c’è il grido di protesta e il canto di speranza. Tutti si ritrovano per strada, fuori dalle mura di casa, per vivere insieme le meraviglie e le miserie della vita. Prima su un treno, poi in una piazza, in una chiesa, al bar, poi di nuovo per strada, al freddo, al caldo, in un posto non sicuro dove un attentato semina il panico fino ad arrivare al mare in un naufragio collettivo. Alla fine della giornata questa comunità è immersa in un mare di plastica dove, dolcemente, si lascia andare alla deriva. Le relazioni, gli incontri, le frustrazioni e i fallimenti sono alcuni dei tasselli del frenetico mosaico di questa giornata. Dall’alba al tramonto tutti e tutte camminano insieme, nella stessa direzione. Il cammino è l’unico modo per liberarsi del proprio fardello in un rituale condiviso, liberatorio e potente. Extra moenia è una ballata allegorica che mostra le atrocità del nostro tempo. Emma Dante Qui per tutte le informazioni.
Milano, MTM – Sala La Cavallerizza, Stagione 2024/25
“BARBABLÙ”
Drammaturgia di Sofia Bolognini
Interpreti: BENEDETTA BRAMBILLA, SEBASTIANO SICUREZZA
Regia Michele Losi
Scene e Costumi Michele Losi, Annalisa Limonta
Suono Luca Maria Baldini, Stefano Pirovano
Luci Stefano Pirovano, Alessandro Bigatti
Produzione Campsirago Residenza
Milano, 04 marzo 2025
E proprio quando credevamo (speravamo?) che fosse andato in letargo, ecco risvegliarsi in quasi tutta la sua essenza il postdrammatico, naturalmente protagonista di una residenza teatrale organizzata in un paesino delle valli lombarde, ovviamente preso a rileggere e rielaborare un classico, insomma comme il faut. “Barbablù” ci riporta indietro di una quindicina d’anni, quando Milano era molto più satura di adesso di spazi teatrali improvvisati in garage, cantine, strutture di non meglio identificato scopo, animate da gruppi a cavallo tra l’amatoriale e il Premio Ubu, il geniale e il disastroso; per nostra fortuna questa produzione non ambisce a toccare nessuna di queste due vette, ma si mantiene più sul livello di una mediocritas che, se non proprio aurea, almeno potremmo definire argentea. Vi sono, in questo spettacolo, infatti, alcuni spunti molto apprezzabili: in primis il talento degli attori Benedetta Brambilla e Sebastiano Sicurezza, che presentano belle vocalità, espressività non scontate, ritmi generalmente accettabili e fisicità consapevoli; la scena di Michele Losi e Annalisa Limonta è pure interessante, dominata da questi brandelli di blue-jeans che rappresentano ogni singola possibilità del male, e che insieme sembrano proprio una barba blu; funzionali e affascinanti anche le luci di Stefano Pirovano e Alessandro Bigatti, perlopiù, ovviamente, su toni freddi, ma capaci anche di inaspettati sprazzi di calore, che non disorientano, ma conferiscono significati nuovi a qualche passaggio; e azzeccati anche i costumi (sempre ad opera Losi-Limonta), manco a dirlo blu, che vogliono in qualche modo richiamare anche l’origine barocca della fiaba. Quello che convince meno invece è proprio la modalità di elaborazione drammaturgica e di messa in scena dell’immortale fiaba di Perrault (ad opera, rispettivamente, di Sofia Bolognini e di Miche Losi); ancor prima di entrare avremmo potuto prefigurarci la sua natura laboratoriale, da studio, coi suoi esercizi ormai codificati in ogni modo – ripetere le cose a specchio, creare sequenze di gesti che supportino/sostituiscano la parola, infrangere i pudori con il turpiloquio, sopportare la prevaricazione fisica dell’altro, riservare alla scena solo l’introspezione simbolica del personaggio e comunicare al microfono o le informazioni circa la vicenda, o il rapporto che l’attore stesso ha costruito col personaggio. Apprezziamo, in questa congerie, che perlomeno non si sia cantata qualche canzone pop degli anni 80 accompagnati da kazoo e ukulele, né si sia proceduto oltremodo a giochi di iterazione. Sia ben chiaro: chi scrive non crede nell’originalità a tutti i costi, quasi ogni regia ripete cose che abbiamo già visto, ma ci si aspetta che siano cose belle, non esercizi di stile spesso fini a se stessi e dall’imperscrutabile comprensione da parte del pubblico medio. Tuttavia, anche in questo contesto, abbiamo apprezzato alcune idee, come quella di far raccontare la storia di Barbablù ai suoi ipotetici figli, quindi a delle creature ibride che non si possano dire davvero avulse a quel male cosmico che si vuole che Barbablù incarni; e con questi occhi da bambini è pure interessante rivivere i grandi genocidi del passato, come naturale eco del localizzato uxoricidio, fino alla semplice presa di responsabilità capace di aprire gli occhi a questi bambini, e a farne, da adulti, dei persecutori del male. Insomma, questo “Barbablù” è uno spettacolo quasi riuscito, che dovrebbe liberarsi da qualche autocompiacimento di troppo per poter parlare chiaramente non solo agli avventori dei teatri. Foto Alvise Crovato
Roma, Teatro Vascello
“RECOLLECTION OF A FALLING”. 30 anni di Spellbound Contemporary Ballet
Forma mentis
Coreografia, Art Direction, Luci, Costumi Jacopo Godani
Musica originale Ulrich Müller
Musica dal vivo Sergey Sadovoy
Assistente alle coreografie Vincenzo De Rosa
Daughters and Angels
Coreografia e regia Mauro Astolfi
Set e disegno luci Marco Policastro
Musica originale Davidson Jaconello
Costumi Anna Coluccia
Assistente alle coreografie Elena Furlan
Interpreti Maria Cossu, Giuliana Mele, Lorenzo Beneventano, Alessandro Piergentili, Anita Bonavida, Roberto Pontieri, Martina Staltari, Miriam Raffone, Filippo Arlenghi
Produzione Spellbound Contemporary Ballet
con il contributo del Ministero della Cultura e della Regione Lazio
in collaborazione con Comune di Pesaro & AMAT per Pesaro Capitale italiana della Cultura 2024, Festival Torino Danza
Roma, 28 febbraio 2025
Parrebbe strano che uno spettacolo dedicato al trentennale della compagnia Spellbound Contemporary Ballet sia in realtà dedicato ad una caduta. Nelle note di sala si fa esplicito riferimento al ricordo della prima caduta, l’attimo in cui si perde l’equilibrio per spingersi verso “esperienze più profonde”. Trent’anni sono parecchi, e i ricordi che li accompagnano anche. Si attraversano diverse tappe, diversi momenti per ricordarsi che non si è indipendenti, ma parte di un tutto. I ricordi sono come un sistema di dati intriso nell’anima ed entrarci dentro serve a riconnettersi con se stessi, per ripartire ancora una volta, per ricostruire. È questa l’idea che spinge ad affidare la prima coreografia della serata a Jacopo Godani, incontrato nel periodo in cui aveva appena lasciato la direzione artistica della Frankfurt Dance Company mentre si svolgeva la pre-produzione del trentennale. Si tratta di un autore immaginifico, la cui potenza ben si incastra con i progetti della compagnia. E Godani dal suo canto ha inteso utilizzare una forma di danza “intelligente” per comunicare con le nuove generazioni. Forma mentis si intitola per l’appunto la prima coreografia. È dunque una piattaforma coreografica vibrante in cui ogni passo si trasforma in una visione, ispirando i danzatori ad alimentare le proprie aspirazioni attraverso una pluralità di idee creative. Partito come un’esplosione di movimenti sull’accompagnamento di una fisarmonica, il pezzo lascia in seguito spazio a duetti che significativamente celebrano in realtà lo stile del direttore della compagnia Mauro Astolfi. I danzatori sono lasciati liberi di divincolare i propri arti quasi fluttuando nello spazio. Centrale è la figura di Maria Cossu, che sembra cercare con lo sguardo il proprio punto di riferimento. Tuttavia, essendo una delle veterane della compagnia, diviene anche coreograficamente una musa per gli altri danzatori, ispirando le loro azioni coreografiche fino al crollo finale. Diversa invece l’ispirazione del secondo pezzo, Daughters and Angels, coreografato dallo stesso Astolfi e immortalato dall’uso di un velo nero, opera di Marco Policastro. Qui si fa riferimento all’immaginario legato alle “streghe”, che interessa il coreografo fin dall’adolescenza, ma lo si rinnova attraverso il tramite della lettura di Knowledge and Powers di Isabel Pérez Molina, pubblicato da un centro di ricerca universitario di Barcellona molto riconosciuto nell’ambito degli studi di genere. Secondo l’autrice del testo, le donne nel loro potere di terapeute fin dall’antichità destabilizzarono il potere patriarcale, al punto da scatenare nel corso dei secoli la caccia alle streghe. La coreografia si fa quindi qui più violenta e oscura, e la seta nera diviene un confine dietro cui sparire o da cui poi riapparire per sfidare il mistero, la notte, l’ignoranza. Una celebrazione di un trentennale che pare dunque svolgersi a ritroso, dal chiaro verso lo scuro. Mauro Astolfi non è del resto dedito a un tipo di coreografia leggera. E nell’andare avanti si propone di continuare a indagare. Foto Cristiano Castaldi
Al teatro Menotti Danio Manfredini, una delle voci più intense e poetiche del teatro contemporaneo, per tre appuntamenti imperdibili:
11 marzo – Divine
Una lettura scenica in cui voce e disegni di Danio Manfredini cuciono una sceneggiatura liberamente ispirata a Notre Dame des Fleurs di Jean Genet. La storia di Divine, un ragazzo che lascia la casa natale per immergersi in una Parigi notturna e clandestina, tra furti, passioni e incontri indelebili.
Info e biglietti: qui
12 marzo – Incontro con Danio Manfredini: 20 anni di Cinema Cielo (ore 19.00)
Un’occasione preziosa per ascoltare dalla voce dell’autore il racconto del viaggio artistico e umano che ha dato vita a Cinema Cielo, a vent’anni dal debutto di questo spettacolo di culto.
Info e biglietti: qui
13 – 16 marzo – Cinema Cielo
Torna in scena uno degli spettacoli più iconici di Manfredini, Premio Ubu 2004 per la miglior regia. Un’opera che porta lo spettatore all’interno di un vecchio cinema a luci rosse, dove le ombre del presente si intrecciano con quelle del romanzo di Jean Genet, in un gioco di specchi tra realtà e poesia.
Info e biglietti: qui
Roma, Palazzo Barberini, Gallerie Nazionali di Arte Antica
CARAVAGGIO 2025
a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon
progetto delle Gallerie Nazionali di Arte Antica
realizzato in collaborazione con Galleria Borghese
con il supporto della Direzione Generale Musei – Ministero della Cultura, con il sostegno del Main Partner Intesa Sanpaolo
con il supporto tecnico di Coopculture per i servizi al pubblico e di Marsilio Arte per la pubblicazione del catalogo.
Roma, 06 marzo 2025
Se la pittura ha mai conosciuto un eroe, questi ha un nome: Michelangelo Merisi da Caravaggio. Eroe per eccesso, per talento, per tormento. Le Gallerie Nazionali di Arte Antica gli rendono omaggio con Caravaggio 2025, mostra che ambisce a tracciare nuove rotte critiche e a portare sotto una luce rinnovata il percorso del pittore che, più di ogni altro, ha inciso a fuoco il naturalismo nell’anima della pittura moderna. Ma la luce di Caravaggio non è mai concessa con generosità: essa illumina e acceca, rivela e sottrae, si contorce nella drammaticità del vero. L’allestimento è classico nella sua impostazione museale e si sviluppa su tre sale, dove l’uso della luce diventa elemento di costruzione scenica. Tuttavia, tra ombre fin troppo dense e scritte espositive esili e poco illuminate, si rischia di compromettere la leggibilità dell’apparato critico. La prima sala appare eccessivamente densa, con un numero di opere che rischia di soffocarsi a vicenda, rendendo difficile un’esperienza contemplativa. L’affollamento dei visitatori renderà arduo avvicinarsi alle didascalie, la cui dimensione ridotta e la scarsa illuminazione rappresentano un ulteriore ostacolo alla fruizione. Con ventiquattro opere provenienti dalle più illustri collezioni pubbliche e private, Caravaggio 2025 non si accontenta di esibire capolavori, ma intende raccontare l’artista nel suo farsi. Il percorso, diviso in quattro sezioni, si apre con gli anni romani e l’incontro decisivo con il cardinale Francesco Maria del Monte, figura cruciale nel primo sviluppo della sua carriera. I Musici, la Buona Ventura, i Bari emergono come icone di una pittura ancora in bilico tra manierismo e naturalismo, in cui la luce, più che rivelare, inizia a creare. Segue la sezione dedicata ai ritratti, con la straordinaria opportunità di confrontare due versioni del Ritratto di Maffeo Barberini, una delle quali recentemente riemersa e attribuita con fermezza da Roberto Longhi nel 1963. Qui Caravaggio è magistrale nel tratteggiare la psicologia dei suoi soggetti, penetrandoli con un realismo che è più di un esercizio pittorico: è una sfida al tempo, un’insolenza alla morte. Il cuore pulsante della mostra si trova nella sezione dedicata alle grandi tele di soggetto sacro. Il San Giovanni Battista, la Giuditta e Oloferne, il San Francesco in meditazione si collocano lungo un’ideale traiettoria che dal teatro della violenza approda al mistero della penitenza. L’Ecce Homo, recentemente riscoperto e mai visto in Italia dopo quattro secoli, è forse il vertice di questo segmento espositivo: qui il Merisi scompone il pathos della Passione in una visione disarmante, in cui il dolore è trattenuto, negato, reso quasi burocratico nella sua inesorabilità. L’epilogo della mostra ha il sapore di una fuga senza scampo, quella di Caravaggio stesso, braccato non solo dalla giustizia terrena, ma dall’inesorabile rovina del suo destino. Le opere dell’ultimo periodo – il Martirio di Sant’Orsola, il David con la testa di Golia – non si limitano a rappresentare un dramma sacro, ma sembrano trascrivere in pittura l’urgenza disperata dell’artista, la sua identificazione con l’eroe vinto, con il peccatore in cerca di redenzione, con il carnefice che diventa vittima. Visitando Caravaggio 2025, si ha la sensazione di assistere a un dramma in cui il sipario non si apre mai del tutto, lasciando lo spettatore in un’attesa costante, quasi soffocata dall’allestimento che non sempre restituisce il respiro necessario alle tele. Se da un lato la luce, cupa e incalzante, amplifica la tensione emotiva dell’opera caravaggesca, dall’altro il percorso espositivo impone limiti alla piena comprensione del gesto rivoluzionario dell’artista. Tuttavia, la mostra si rivela un’operazione che non si esaurisce nell’esposizione, ma si configura come un atto di affermazione per Palazzo Barberini, che trova nella mitizzazione di Caravaggio un potente vettore per riportare l’attenzione su sé stesso e sulle potenzialità di un luogo non sempre al centro dei grandi circuiti museali. A questa rinascita contribuisce anche il catalogo edito da Marsilio, che non si limita a documentare l’esposizione, ma si impone come strumento di studio imprescindibile, capace di aprire nuove prospettive critiche e linee di ricerca su un artista che, ancora oggi, continua a sfidare la nostra capacità di vedere. Photocredit Alberto Novelli, Alessio Panunzi
Salvatore Pappalardo (Catania 1817 – Napoli 1884): Quartetto n. 1 in do maggiore op. 4; Giovanni Pacini (Catania 1796 – Pescia 1867): Quartetto n. 2 in do maggiore. Quartetto di Catania. Augusto Vismara (Violino). Marcello Spina (Violino). Gaetano Adorno (Viola). Alessandro Longo (Violoncello). Registrazione: presso TRP Studios, Tremestieri Etneo (CT), 2023. T. Time: 59′ 36″. 1 CD TRP-CD0081
Il nome di Giovanni Pacini, compositore contemporaneo di Bellini, noto soprattutto per alcune sue opere, è accostato in questa produzione discografica dell’etichetta TRP, a quello di un altro musicista anche lui catanese, Salvatore Pappalardo, nato nel 1817 nella città etnea e morto nel 1884 a Napoli dove fu compositore di camera del conte di Siracusa, Don Leopoldo di Borbone, e dove fu insegnante di contrappunto presso l’Albergo dei Poveri. Entrambi operisti, i due compositori sono presenti in questo CD nell’insolita veste di autori di musica strumentale, in quanto della loro produzione sono presentati il Quartetto n. 1 in do maggiore op. 4 di Pappalardo e il Quartetto n. 2 in do maggiore di Pacini. Apprezzato dai contemporanei, come si evince da una recensione, apparsa in seguito ad un’esecuzione fatta dal Quartetto di Firenze, dove si leggeva “il quartetto di Pappalardo è opera improntata di originalità tutta propria”, il primo è un lavoro in quattro movimenti, di piacevole ascolto, che rivela la solida preparazione musicale del suo autore e si può catalogare tra quelle opere nel quale si evidenzia un buon mestiere. Più interessante e originale appare sicuramente il lavoro di Pacini, nel quale, oltre ad alcune inflessioni “operistiche” di alcuni passi, si evidenziano il terzo movimento, Andantino affettuoso, per la cantabilità di alcune sue parti, e il quarto, Allegro, che si segnala per la bella scrittura melodica. Una solida professionalità contraddistingue la performance degli artisti del quartetto di Catania composto da Augusto Vismara (Violino) e Gaetano Adorno (Viola), artefici della riscoperta di questi lavori che faranno parte di un progetto più ampio che coinvolgerà in successive produzioni discografiche anche l’altro compositore catanese Pietro Platania, e da Marcello Spina (Violino) e Alessandro Longo (Violoncello). Ben evidenziato è nel complesso l’ordito polifonico sempre sostenuto da un bel suono da parte degli artisti che in questa incisione mostrano un grande affiatamento. Si tratta di un CD di piacevole ascolto che, comunque, non fa gridare ai capolavori dimenticati e ritrovati.
Roma, Sala Umberto
L’UOMO DEI SOGNI
scritto e diretto da Giampiero Rappa
Con Andrea Di Casa, Elisa Di Eusanio, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli
Scenografia: ROMASCENOTECNICA
Costumi: Lucia Mariani
Musiche: Massimo Cordovani
Disegno luci: Gianluca Cappelletti
Assistente alla regia: Michela Nicolai
Direttore di scena: Davide Zanni
Sarta: Debora Pino
Organizzazione Rosi Tranfaglia
Roma, 04 marzo 2025
Giocoso, intelligente, sorprendente “L’uomo dei sogni” di Giampiero Rappa. Lo spettacolo conquista con una scrittura intelligente e una regia capace di trasformare un testo complesso in un’esperienza fluida e coinvolgente. La piece teatrale gioca sul sottile confine tra sogno e realtà, sorprendendo il pubblico con risate improvvise, cambi di luce e illusioni sceniche che sovvertono ogni certezza. Quando ci si immerge nella riflessione, una risata o un effetto scenico trasportano lo spettatore in una nuova dimensione. La gestione dei tempi comici e drammatici è equilibrata: il pubblico è colpito dalle risate nei momenti più seri, dai silenzi che aumentano la tensione emotiva, e da effetti sonori e luminosi inediti. Giovanni, il fumettista in crisi interpretato magnificamente da Nicola Pannelli, è un uomo tormentato dai suoi incubi e dai fantasmi del passato, che sembrano prendere vita dai suoi stessi sogni. Pannelli dà voce a un personaggio dalle mille sfaccettature, alternando ironia amara e malinconia struggente. La sua performance rappresenta un uomo che si confronta con le sue paure più intime. Al suo fianco, Elisabetta Mazzullo interpreta Viola, la figlia, che riporta alla luce un mondo sommerso, rivelando la lotta tra il bisogno di riconciliazione e il desiderio di riscatto. La loro interazione è un continuo oscillare tra forza e vulnerabilità, tra amore non espresso e necessità di redenzione, cuore pulsante di uno spettacolo che si muove tra verità e finzione. Ma senza i suoi sogni, Giovanni non lo conosceremmo davvero. E così entrano in gioco Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio che si completano come ombre e riflessi, incarnando le figure dei sogni di Giovanni: l’uomo nero delle paure, l’uomo bianco delle illusioni, i sogni incatenati che non riescono a fuggire. Sono il doppio che lo sfida, la coscienza che sussurra, le voci che lo tormentano e lo spingono oltre i confini della realtà. Insieme, danno corpo a tutto ciò che in Giovanni resta imprigionato, trasformando la scena in un labirinto di specchi in cui il protagonista si perde e si ritrova. Le luci, tra fredde e calde, si fondono progressivamente con una complessa linearità per sottolineare quel labile confine tra onirico e realtà. Riescono anche a creare atmosfere che trasformano la platea stessa, protagonista di questo gioco in cui lo spettatore è parte integrante della scena. Il momento in cui Giovanni immagina un paesaggio marino, i suoni ne creano l’atmosfera, ma la luce illumina la platea e diventa oceano, riversandosi sulla sala con una potenza emozionale che rende tangibile quel confine tra attore e spettatore. Le sonorità, ora delicate e malinconiche, ora esplosive e incalzanti, accompagnano la narrazione con una sensibilità che rende ogni scena ancora più immersiva, incalzante. Tutti i personaggi indossano abiti che sono il riflesso del loro mondo, interiore ed esteriore. Come te lo immagineresti l’uomo nero? E l’uomo bianco? Particolarmente affascinanti sono, infatti, gli abiti straordinari dei personaggi nati dalla propria mente: l’uomo nero, l’uomo bianco, o la super eroina-detective creata dalle fantasie di Giovanni, che con il suo abito rosso, irradia forza e lucidità; una figura capace di leggere e decifrare ogni segreto, in contrasto con le incertezze che circondano il resto. Le parasonnie, quegli incubi che sembrano prendere vita nella stanza stessa, diventano così una metafora per l’incapacità di “riposare” davvero, di lasciarsi andare e affrontare le proprie verità interiori. Con un sapiente gioco scenografico, le pareti della casa di Giovanni si trasformano in finestrini di un aereo, in specchi che riflettono sogni e paure, in quinte teatrali che svelano “le verità” nascoste nella sua mente. L’idea di dividere la scenografia in due sezioni, con una parte dedicata ai sogni incorniciata da tende teatrali, è una scelta simbolica interessante, che richiama il cuore dello spettacolo: i sogni esistono grazie alle persone, e il teatro grazie agli spettatori. Rappa stesso ha dichiarato quanto sia fondamentale oggi il teatro come luogo di esperienza innovativa e autentica in un’epoca dominata dal digitale. In un crescendo emozionale, non è facile distinguere il confine tra lo spazio-tempo della realtà e lo spazio-tempo del sogno. La divisione della scena appare così mutevole, fluida e sfumata. L’atmosfera visiva richiama i colori di Edward Hopper, ma con una forte personalità che rende ogni immagine densa di significato. Lo spettacolo ci porta lontano, per poi riportarci indietro con una nuova consapevolezza. “L’uomo dei sogni” è un vero e proprio viaggio nel subconscio del protagonista e una riflessione universale sul confronto con le nostre paure, i sogni non realizzati e le relazioni che ci definiscono. Con una regia sapiente, attori straordinari e una scenografia che trasforma lo spazio in un’illusione visiva e psicologica, lo spettacolo ci invita a riflettere sulla fragilità umana e sulla nostra costante ricerca di significato. Il pubblico si ritrova coinvolto emotivamente, sospeso tra il mondo tangibile e quello onirico, e alla fine, non può fare a meno di portare con sé la sensazione di consapevolezza che nasce solo dall’esperienza del teatro. La riflessione che resta è chiara: a volte, per affrontare la realtà, dobbiamo permetterci di sognare. E così, tra lacrime e sorrisi, “L’uomo dei sogni” lascia un segno, celebrando l’autenticità dell’esperienza teatrale, capace di emozionare e far riflettere, anche molto dopo il calare delle luci. Applausi scroscianti, meritati fino all’ultimo sogno. Photocredit Achille Lepera
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
BENVENUTI IN CASA ESPOSITO
con Giovanni Esposito, Nunzia Schiano, Susy Del Giudice, Salvatore Misticone, Gennaro Silvestro, Carmen Pommella, Giampiero Schiano , Aurora Benitozzi
Regia Alessandro Siani
Commedia in due atti scritta da Paolo Caiazzo, Pino Imperatore, Alessandro Siani
Liberamente tratta dal romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”
di Pino Imperatore (Giunti Editore)
Musiche Andrea Sannino
Direzione musicale e arrangiamenti Mauro Spenillo
Scene Roberto Crea
Costumi Lisa Casillo
Roma, 05 marzo 2025
A volte, il teatro sa trasformare il grottesco in un’amara elegia della mediocrità, e Benvenuti in Casa Esposito, in scena all’Ambra Jovinelli, si muove proprio su questo crinale sottile, tra la farsa e il dramma, tra il riso e una sottesa inquietudine. La trasposizione teatrale del romanzo di Pino Imperatore, curata da Paolo Caiazzo e Alessandro Siani, si fa specchio di una Napoli contraddittoria, dove l’ombra della camorra non è soltanto una realtà tangibile, ma anche un retaggio culturale da cui è difficile emanciparsi. Tonino Esposito, il protagonista, è l’ennesima incarnazione di una maschera tragicomica: figlio di un boss, incapace di raccoglierne l’eredità criminale, si dibatte in un’esistenza fatta di aspirazioni mal riposte e goffi tentativi di emulazione. Giovanni Esposito gli conferisce un’umanità disarmante, riuscendo a cogliere quel misto di stoltezza e malinconia che definisce il personaggio. Accanto a lui, un cast di spessore amplifica la narrazione con grande efficacia: Nunzia Schiano, Susy Del Giudice, Salvatore Misticone, Gennaro Silvestro, Carmen Pommella, Giampiero Schiano e la giovane Aurora Benitozzi offrono interpretazioni solide e perfettamente amalgamate, ciascuno donando sfumature diverse alla coralità della messa in scena. L’idea di suddividere lo spettacolo in capitoli, ricalcando la struttura del libro, è un espediente efficace che restituisce il senso di un racconto popolare, quasi da cantastorie. La messinscena è calibrata con misura: le scenografie, curate da Roberto Crea, si trasformano con fluidità, suggerendo senza invadenza gli spazi mutevoli del racconto, mentre i supporti multimediali, impiegati con saggezza, evitano la facile deriva dell’effetto speciale fine a sé stesso. Il palco diventa così una tela cangiante, che accoglie la vicenda con un senso di dinamismo continuo, perfettamente in linea con il ritmo narrativo dello spettacolo. Un altro elemento che contribuisce alla riuscita estetica dello spettacolo è il lavoro sui costumi firmati da Lisa Casillo. La caratterizzazione visiva dei personaggi gioca un ruolo chiave nell’accentuare il loro status sociale, il loro radicamento in un contesto urbano definito e il sottotesto ironico della messa in scena. Ogni scelta cromatica e stilistica contribuisce a delineare il microcosmo in cui si muove Tonino Esposito, rendendolo ancora più credibile e incisivo nella sua goffa tragicomicità. Ciò che distingue Benvenuti in Casa Esposito da una semplice commedia è il sottotesto: l’umorismo partenopeo, che nel teatro di Eduardo e nei film di Totò ha sempre affondato le radici nel reale, qui si tinge di una consapevolezza più cupa. Il crimine, nella sua quotidianità quasi banale, diventa una trappola esistenziale più che una scelta consapevole. L’apparizione del fantasama di un ufficiale spagnolo, figura eterea di una coscienza assente, è il segnale che la risata non è mai davvero liberatoria, ma sempre intrisa di un’ironia che lascia il segno. L’intreccio segue fedelmente le vicende del romanzo di Imperatore: Tonino Esposito, erede designato di una figura paterna ingombrante, cerca invano di farsi largo nel sottobosco della criminalità napoletana, ma la sua natura ingenua e impacciata lo porta a collezionare fallimenti uno dopo l’altro. Il capoclan Pietro De Luca, detto ‘o Tarramoto, che ha preso il posto del padre, non ha nessuna intenzione di lasciare spazio a un incompetente, e lo scontro tra i due diventa il fulcro di un gioco tragicomico in cui il protagonista si muove come un burattino fuori tempo. La sua goffaggine lo condanna a essere vittima delle circostanze, ma è proprio in questo suo arrancare senza possibilità di riscatto che emerge il lato più amaro della storia: Tonino non è un eroe, né un vero criminale, ma un uomo alla deriva in un sistema che non concede alternative. Se da un lato la scrittura sa dosare battute efficaci e trovate sceniche ben congegnate, dall’altro la messa in scena accusa, almeno nelle fasi iniziali, una certa esitazione. Il ritmo impiega del tempo per assestarsi, forse complice la necessità di rodare gli ingranaggi di un meccanismo narrativo che alterna registri differenti. Tuttavia, una volta raggiunto l’equilibrio, lo spettacolo si dispiega con un’energia crescente, guadagnando progressivamente in compattezza. Il pubblico si trova così immerso in una girandola di situazioni paradossali che ricordano la comicità del cinema neorealista italiano, capace di far ridere e, al tempo stesso, di insinuare il germe di una riflessione più profonda. La Napoli che emerge da questa rappresentazione non è solo il palcoscenico delle vicende di Tonino, ma un personaggio a tutti gli effetti. Il rione Sanità, quartiere dalla storia complessa e stratificata, si fa metafora di una città che vive costantemente in bilico tra luce e ombra, tra speranza e disillusione. Non è un caso che proprio in questo contesto nascano personaggi come Totò, il cui retaggio aleggia implicitamente sullo spettacolo, come a voler ricordare che la grande comicità napoletana è sempre stata capace di raccontare il dolore con un sorriso amaro. Alla fine, Benvenuti in Casa Esposito è uno spettacolo che diverte senza mai cadere nella superficialità. Nel riso si annida sempre un retrogusto amaro, e in questa risata sospesa tra la leggerezza e la disillusione sta tutta la sua forza. Non è solo una commedia ben congegnata, ma un ritratto che, dietro la maschera dell’umorismo, porta con sé una nota di malinconia impossibile da ignorare. Un’operazione teatrale che, nel suo alternare registri e nel suo oscillare tra farsa e riflessione, si rivela un piccolo gioiello di intelligenza scenica e sensibilità narrativa. Forse, al di là dell’umorismo, ciò che resta davvero è il senso di una battaglia persa in partenza, il destino di un uomo che si affanna a recitare un ruolo che non gli appartiene. E in questa amara consapevolezza, paradossalmente, risiede tutta la potenza dello spettacolo.
Danza / Festival Aperto / Teatro Valli, Reggio Emilia
“NOTTE MORRICONE”
Aterballetto
Regia e coreografia Marcos Morau
Musica Ennio Morricone
Direzione e adattamento musicale a cura di Maurizio Billi
Sound designer Alex Rœsr Vatiché, Ben Meerwein
Testi Carmina S. Belda
Scene e luci Marc Salicrù
Costumi Silvia Delagneau
Assistenti alla coreografia Shay Partush, Marina Rodriguez
Produzione Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto in coproduzione Fondazione Teatro di Roma, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Centro Servizi Culturali Santa Chiara Trento, Centro Teatrale Bresciano
Reggio Emilia, 4 marzo 2025
“Volevo sapere che suono ha un uomo quando nessuno lo guarda” è l’insolito interrogativo che il maestro Ennio Morricone si pone a fine spettacolo, come a sancire l’essenza del sogno ad occhi aperti appena vissuto. È solo nel suo studio, pieno di visioni che gli girano attorno che interpretano l’estro creativo della sua inconfondibile musica. Ogni messinscena è un film. Ogni musica è un set coreografico in cui 15 danzatori (8 femmine e 7 maschi), rappresentano il mondo di storie che possiamo vivere anche solo ascoltando la musica di Morricone. In questo spettacolo, un’ora e mezza fitta e densa di movimenti, CCN Aterballetto, compagnia che nel 2022 ha ricevuto il riconoscimento del Ministero della Cultura come primo e unico Centro Coreografico Nazionale in Italia, ha saputo regalare intense emozioni al pari della musica sempre suggestiva ed evocativa dell’autore della colonna sonora, premio oscar, del film “The Hateful Eight” del suo grande estimatore Quentin Tarantino. Aterballetto ha eseguito la coreografia firmata dal regista e coreografo spagnolo Marcos Morau che afferma «La musica di Morricone incarna quel senso astratto di ciò che non è detto e non si vede nei film. Sebbene sia quasi impossibile separare la sua musica dalle immagini che la accompagnano, Morricone trascende e si intreccia con la vita stessa, con i ricordi e con la bellezza e la crudeltà di un mondo che continua ad avanzare, distruggendo e costruendo sé stesso ogni giorno». Il coreografo spagnolo, che è anche regista, scenografo, light designer e costumista, ha dimostrato di saper amalgamare il linguaggio della danza con quello del cinema, creando un ibrido visionario come se avesse reso vivi gli stimoli creativi del maestro romano. In fondo Morricone è sempre stato uno stimolo professionale inestimabile, confessa Morau, che ha potuto conoscerlo e che gli ha confessato che «la musica non ha bisogno di stampelle», significando il valore assoluto della sua musica che, anche se funzionale alle immagini, possiede una vita autonoma, densa di significati. Sul palco le nere pareti di un ipotetico hangar degli studios hollywoodiani fa da quinta scenica come ambiente entro il quale Morricone compone le sue musiche. I ballerini, tutti truccati con parrucchino grigio e occhiali neri come se fossero tanti Morricone, tanto quanto lo è la sua marionetta, manovrata dai danzatori come un pupazzo da ventriloquo. Un mixer audio e un grande pianoforte si contendono la scena, girando sul palco come danzanti, fulcro coreografico di notevole impatto per i 15 danzatori davvero bravi a rappresentare le nuvole di pensieri che affollano la mente del creatore. Notevole la regia per questo spettacolo di teatro danza capace di dare un corpo ai pensieri che affollano una mente creativa autrice delle più belle musiche da film ma anche di brani di musica leggera come “Se telefonando” con le parole di Maurizio Costanzo. Quello che veramente ha stupito è la regia e la direzione dei ballerini-attori nel dar corpo alle colonne sonore pluri premiate con Golden Globe e BAFTA. Applausi, quasi una decina, per questa compagnia emiliana coinvolta in progettazioni europee, come la creazione di spettacoli per lo schermo, o per i visori in realtà virtuale, per l’infanzia, o con interpreti disabili oppure “over 65”. A fine spettacolo la direzione artistica ha sottoposto il pubblico un questionario dove si chiedeva pochi minuti di tempo per comprendere più a fondo la relazione con il teatro, lo spettacolo e la cultura. Le risposte, si legge, saranno di grande utilità per migliorare l’offerta di spettacolo e i servizi ad essa connessi. Infine un sincero ringraziamento per la pazienza, nel confidare di incontrare il pubblico ancora molte volte in questo e in altri teatri e luoghi della cultura. Foto Christophe Bernard e Andrea Mafrica
Roma, Teatro Vascello
MOBY DICK ALLA PROVA
di Orson Welles
adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di Herman Melville
con Elio De Capitani
e Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari
traduzione Cristina Viti
uno spettacolo di Elio De Capitani
costumi Ferdinando Bruni
musiche dal vivo Mario Arcari
direzione del coro Francesca Breschi
maschere Marco Bonadei
luci Michele Ceglia
suono Gianfranco Turco
coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Moby Dick alla prova, scritto (oltre che, a suo tempo, diretto e interpretato) da Orson Welles, è lo spettacolo a cui Elio De Capitani ha lavorato nel corso dell’inverno del 2020/21 e che è giunto al debutto l’11 gennaio ’22 all’Elfo Puccini di Milano, ottenendo un notevolissimo successo. «Il testo di Welles, inedito in Italia, è un esperimento molteplice» sottolinea il regista «Blank verse shakespeariano, una sintesi estrema del romanzo, personaggi bellissimi, restituiti in modo magistrale e parti cantate. Noi abbiamo realizzato questo spettacolo ‘totale’, con in più la gioia di una sfida finale impossibile: l’apparizione del capodoglio. E con un semplice trucco teatrale siamo riusciti a crearla in scena». La produzione di questo spettacolo di dimensioni corali vede associati il Teatro dell’Elfo e il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale. In scena accanto a De Capitani (che interpreta Achab, padre Mapple, Lear e l’impresario teatrale) troviamo Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa. Il cast salda le eccellenze artistiche di tre generazioni di interpreti. La musica dal vivo di Mario Arcari e i canti diretti da Francesca Breschi (vibranti rielaborazioni degli sea shanties) riempiono intensamente la scena generando emozioni profonde, in uno spazio dominato da un fondale enorme, eppure leggero, cangiante e mutevole, capace di evocare l’immensità del mare e la presenza incombente del capodoglio. Orson Welles portò al debutto il suo testo il 16 giugno 1955, al Duke of York’s Theatre di Londra. Lo mise in scena in un palco praticamente vuoto, scegliendo di non dare al pubblico né mare, né balene, né navi. Solo una compagnia di attori e sé stesso in quattro ruoli, Achab compreso. E vinse la sfida di portare in teatro l’oceanico romanzo di Melville gettando un ponte tra la tragedia di Re Lear e Moby-Dick: l’ostinazione del re – che la vita, atroce maestra, infine redimerà – si rispecchia in quella irredimibile, fino all’ultimo istante, dell’oscuro e tormentato capitano del Pequod. Splendidamente tradotto per l’Elfo dalla poetessa Cristina Viti, il copione di Welles restituisce con forza d’immagini la prosa del romanzo.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
LA SIGNORA OMICIDI
di William Arthur Rose
adattamento Mario Scaletta
con Giuseppe Pambieri, Paola Quattrini, Mario Scaletta, Roberto D’Alessandro, Marco Todisco
scene Fabiana Di Marco
costumi Graziella Pera
regia GUGLIELMO FERRO
cast Produzioni Teatro della Città
Dal celebre racconto di William Rose e ispirato all’omonimo film di Mackendrick, Lady Killers, Mario Scaletta ha tratto l’adattamento teatrale di La Signora Omicidi. È una commedia ricca di humor e di divertenti intrighi, situazioni ambigue ed equivoci esilaranti, ambientata in una Londra anni Cinquanta, città che fa da sfondo all’improbabile incontro fra Louise Wilberforce, arzilla e svanita affittacamere, e il misterioso Professor Marcus, presunto musicista, in realtà capobanda di un gruppo di pericolosi malviventi che Louise Wibelforce finirà per smascherare. Nei panni della svanita ed arzilla Louise Wilberforce e del misterioso Professor Marcus, i bravissimi Paola Quattrini e Giuseppe Pambieri diretti da Guglielmo Ferro.
Torino, Teatro Regio Stagione d’opera 2024 – 2025
“RIGOLETTO” (cast alternativo)
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova ORESTE COSIMO
Rigoletto DAVID CECCONI
Gilda DANIELA CAPPIELLO
Sparafucile LUCA TITTOTO
Maddalena VETA PILIPENKO
Giovanna SIPHOKAZI MOLTENO*
Il conte di Monterone EMANUELE CORDARO
Il cavaliere Marullo JANUSZ NOSEK*
Matteo Borsa DANIEL UMBELINO*
Il conte di Ceprano TYLER ZIMMERMAN*
La contessa di Ceprano ALBINA TONKIKH*
Un usciere di corte ALESSANDRO AGOSTINACCHIO
Un paggio CHIARA MARIA FIORANI
*Membro del Regio Ensemble
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Leo Muscato
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Nuovo allestimento Teatro Regio di Torino
Torino, 1 marzo 2025
Rigoletto è opera che si è vista e ascoltata le decine di volte e che, con gli interpreti giusti, ci conquista fin da questa o quella, per proseguire con caro nome, tutte le feste al tempio e trionfare con i bis della vendetta e della donna è mobile. C’è poi un ultimo atto “da sballo” che si dispiega come vela maestra sull’intera produzione operistica, non solo del suo autore. Non è per la canzonetta scanzonata del Duca ma grazie al sovrumano quartetto e agli altrettanto formidabili insiemi che racchiudono l’automicidio e la morte di Gilda. I mezzi utilizzati da Verdi sono semplici, essenziali e insostituibili. Non una nota in più e neppure una sillaba trascurata o fraintesa. Dall’arido deserto di Maddalena, del Duca e di Sparafucile emerge il cuore del poeta col sacrificio d’amore di Gilda e il disperato rimorso paterno. Verdi costruisce, pur se con fatica, il sorprendente risultato. Forza Piave, con pressanti imposizioni, a “togliere e limare” per concentrarsi sull’essenziale. Verdi nel 1852, data della prima veneziana dell’opera, ha 39 anni e segna un punto di non ritorno, non solo alla sua produzione futura. Assodato che la musica e il dramma sono costruiti sull’essenziale, a discapito del sovrappiù, la messa in scena dovrebbe prenderne atto e attenersi a criteri di severa necessità. Dalla sovrabbondanza dell’inutile, deriva l’insoddisfazione che ricaviamo dalla regia di Leo Muscato. Troppa gente e troppo movimento sul palco anche quando, più opportunamente, si sarebbe potuto approfittare di suggestioni “fuori scena”, come per l’orgia del primo atto. Il bordello, con annessa fumeria d’oppio, fraintende un ultimo atto che la musica vorrebbe incentrato sulla dialettica espressione di forti e contrastanti sentimenti individuali. L’inutile ha poi aspetti grotteschi e risibili: la statua della madonna con annesse candeline votive; la parata di lettini del dormitorio (sic!) di Gilda; la gipsoteca dannunziana della camera del Duca; la sfilata di scale a pioli, come per turchi all’assalto di Vienna, nel rapimento di Gilda. Il tutto, seppur inopportuno, è allestito, con un apprezzabile e lodevole mestiere, su una piattaforma rotante che fluidifica e facilita lo svolgersi dei fatti. Su di essa le scene di Federica Parolini, sotto le fantasiose luci di Alessandro Verazzi, si rivestono di fascinosi colori notturni. I costumi di Silvia Aymonino, con gran varietà e assoluta perizia, contribuiscono all’anacronistica ambientazione protonovecentesca, per cui non si può non dubitare che la festa iniziale, per rimanere in ambito verdiano, sia in casa di Violetta piuttosto che alla corte di Mantova. Nicola Luisotti mostra tanta sagacia e provata esperienza da guidare con efficacia e positività l’intera serata. L’equilibrio fossa-palcoscenico è sempre raggiunto, anche quando qualche disallineamento ritmico o tonico incombe. Gli accelerando e i decibel eccessivi, espressi dall’ottima Orchestra, si fanno funzionali a schivar ostacoli e ad ottenere una buona qualità complessiva dell’esecuzione. I complessi del Teatro Regio: Orchestra e Coro, hanno quindi ben meritato gli applausi che il gran pubblico presente gli ha tributato, sia nel corso che alla fine della recita. Il maestro Ulisse Trabacchin ha saputo dare ai suoi coristi, pur nel gran guazzabuglio scenico in cui dovevano agire, la necessaria sicurezza tecnica e la saldezza psicologica necessarie. Non sono certamente i tempi per un facile allestimento di cast verdiani. Ovunque se ne tentano ma, pur dove i budget disponibili sono generosi, i risultati complessivi possono rivelarsi non del tutto soddisfacenti. Questo secondo cast del Regio, è risultato complessivamente omogeneo e di discreto livello. David Cecconi ci offre un Rigoletto chiaro e sfogato, forse più giullare nervoso che padre affettuoso. La parola verdiana indubitabilmente c’è, ma la sommarietà e la risolutezza espressiva paiono più occhieggiare a un repertorio verista che non al Verdi della trilogia. Oreste Cosimo, annunciato, ad inizio recita, con lieve indisposizione, ha saputo ben mascherare l’inconveniente. La voce ha bel timbro e, seppur di limitata proiezione, si mostra complessivamente omogenea, ritenuta nello squillo e ben centrata sugli acuti, che, pur affrontati con discontinuità per salto di registro, suonano sempre ben presi e corretti. Agisce, da Duca, perfetto e credibile, anche grazie all’aitante figura, adattissima al ruolo, e all’innata disinvoltura accentuata dal bianco abito da perdinotte contemporaneo. Daniela Cappiello riporta Gilda all’ingenua ragazzina, ospite del ricovero religioso a cui è forse stata forzata dalla morte della madre e dal mestiere del padre. La flebile voce, che agli inizi sconta certamente qualche attimo di timidezza, si rafforza man mano, fino a rinsaldarsi in un ardito Caro Nome, giocato con brillante leggerezza e gusto. Con un peso vocale più consono al canto d’agilità, affronta comunque con sicurezza il Tutte le feste al tempio e il taglio più lirico e patetico del personaggio nelle scene finali. Luca Tittoto, ha tutte le carte in regola per un apprezzabile Sparafucile. Vera Pilipenko, in un costume troppo azzardato e criticabile, con voce calda e profonda disegna un’intrigante Maddalena. Gli altri del cast, fissi in tutte le recite, con professionalità sicura ed affidabile garantiscono la buona riuscita della recita che, dal pubblico, ottiene convinte approvazioni. Per questa produzione di Rigoletto, il Teatro Regio, con evidente soddisfazione, segnala da settimane il “tutto esaurito”, fatto che rallegra pure gli appassionati sempre in apprensione per le sorti presenti e future del loro teatro. Repliche fino all’11 marzo
Roma, Teatro Argentina
NOVEMBER
di David Mamet
regia Chiara Noschese
con Luca Barbareschi, Chiara Noschese, Simone Colombari, Nico Di Crescenzo, Brian Boccuni
scene Lele Moreschi
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Cucuncia Entertainment s.r.l.
Roma, 04 marzo 2025
In un tempo in cui la politica si confonde con l’intrattenimento e la realtà supera la più spietata delle satire, November di David Mamet diventa uno specchio impietoso di un potere che si dibatte nel proprio pantano. Il Teatro Argentina accoglie questa macchina teatrale dal ritmo serrato, capace di trasformare il cinismo in risata e la risata in un brivido d’inquietudine. Luca Barbareschi, nel ruolo di Charles Smith, presidente in caduta libera nei sondaggi e privo di ogni residuo di scrupolo, incarna un personaggio che sfugge alla caricatura per farsi espressione perfetta di un sistema allo sbando. Con parole appuntite come pugnali, Smith si muove nel chiuso del suo ufficio presidenziale, tentando disperatamente di ribaltare il destino con una serie di mosse tanto spregiudicate quanto tragicomiche. Mamet, maestro nella costruzione del dialogo, mette in scena un serrato gioco di manipolazioni, contrattazioni e colpi bassi, con un lessico politico che suona ormai più vicino alla truffa che alla democrazia. Il suo linguaggio è asciutto, essenziale, a tratti brutale, fatto di frasi spezzate e interruzioni, un contrappunto continuo tra ciò che si dice e ciò che si intende davvero. Il ritmo è martellante, come un ring verbale in cui nessuno arretra, e lo spettatore è trascinato in un vortice di battute e ribaltamenti che scandiscono la caduta libera del protagonista. L’allestimento è essenziale eppure potentissimo. Le scene di Lele Moreschi disegnano un campo di battaglia verbale: una stanza blindata, dove la politica si trasforma in un ring e ogni scambio è un colpo sferrato per sopravvivere. L’apparente staticità degli ambienti esalta il dinamismo febbrile dei personaggi, avviluppati in un turbine di battute e mosse strategiche. Il grottesco si insinua nel realismo, amplificando il paradosso di una realtà che non ha più bisogno di essere deformata per risultare assurda. Ogni elemento scenico contribuisce a rafforzare la tensione: lo spazio chiuso diventa metafora di un sistema politico prigioniero di se stesso, senza vie di fuga. Il simbolismo si annida nei dettagli: l’opulenza decadente del mobilio suggerisce un potere in declino, la disposizione degli arredi tradisce un ordine solo apparente, dietro cui si cela il caos. Barbareschi guida un cast di grande solidità, in cui Chiara Noschese emerge con un’interpretazione di raffinata precisione. Il suo personaggio, spietato e lucido, attraversa la scena con una consapevolezza che stride con la cieca ambizione del protagonista, in un gioco di specchi che esalta l’equilibrio precario tra potere e disillusione. La sua recitazione è un misto di ironia tagliente e controllo emotivo, una performance che si insinua sotto pelle con la stessa ambiguità con cui il testo di Mamet descrive il potere. Accanto a loro, Simone Colombari, Nico Di Crescenzo e Brian Boccuni contribuiscono a costruire un microcosmo di figure satiriche, incarnazioni perfette di un sistema in cui ogni ruolo è parte di un meccanismo inarrestabile. I loro personaggi, pur nella loro apparente marginalità, sono indispensabili ingranaggi di questa macchina teatrale, e ciascuno porta con sé un tassello del disastro politico che si consuma sulla scena. La regia, attenta a mantenere il ritmo senza lasciar scivolare lo spettacolo nella sola comicità, lavora sulla precisione del testo e sulla fisicità degli attori. Il risultato è una macchina scenica che incalza lo spettatore, portandolo a ridere con amarezza, consapevole che dietro la farsa si cela il ritratto impietoso di una politica che si alimenta del proprio fallimento. È un meccanismo teatrale perfetto, che dosa con precisione i tempi comici e quelli più riflessivi, senza mai perdere il filo della tensione narrativa. La direzione degli attori è calibrata con attenzione: nessun personaggio è solo una macchietta, ogni ruolo è costruito con spessore e credibilità, rendendo il gioco scenico ancora più efficace. Mamet, con November, non ci offre alcuna via di fuga: il teatro si fa specchio di un potere che si sgretola tra affarismo, corruzione e improvvisazione, lasciandoci con una risata che ha il sapore della sconfitta. Lo spettacolo, perfettamente orchestrato, è un esempio di satira che non consola, ma che, come ogni grande commedia, sa graffiare con ferocia il cuore del presente. La sua forza sta proprio nella capacità di tenere insieme leggerezza e ferocia, di farci ridere mentre ci mostra il vuoto dietro le maschere del potere. Il messaggio è chiaro: la politica è ormai un grande spettacolo, un gioco senza regole in cui l’unica cosa che conta è restare sulla scena il più a lungo possibile. Alla fine, lo spettatore esce dal teatro con una sensazione ambigua: ha riso, certo, ma quel riso ha lasciato un retrogusto amaro. Perché November non è solo una commedia sulla politica: è una riflessione sul nostro tempo, su un mondo in cui il potere non è più una questione di idee o di valori, ma solo di strategie e di sopravvivenza. Mamet ci dice che non c’è più spazio per l’idealismo, che la politica è ormai solo una questione di tattica, di mosse ben calcolate in un gioco cinico e senza scrupoli. E noi, seduti in platea, non possiamo fare altro che riconoscerci in questo specchio deformante, mentre ridiamo con un senso di inquietudine sempre più profondo. Photocredit Federica Di Benedetto
La stagione lirica del Maggio, dopo la ripresa di Rigoletto, si concretizza con il primo nuovo allestimento del 2025 con Norma, uno dei grandi capolavori di Vincenzo Bellini, e uno dei capisaldi del belcanto che torna in scena al Teatro del Maggio oltre 45 anni dopo le ultime rappresentazioni fiorentine. La prima recita è in cartellonedomenica 9 marzo alle ore 17; altri tre sono gli spettacoli in programma: l’11 e il 14 marzo alle ore 20 e il 16 marzo alle ore 15:30. Sul podio, alla testa dell’Orchestra e del Coro del Maggio Musicale Fiorentino, il maestro Michele Spotti, al suo terzo impegno a Firenze negli ultimi mesi dopo i concerti sinfonici del dicembre scorso e di quello del 7 marzo. La regia è curata da Andrea De Rosa. Il maestro del Coro del Maggio è Lorenzo Fratini. Le scene sono di Daniele Spanò, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci sono di Pasquale Mari e i movimenti coreografici sono curati da Gloria Dorliguzzo. Interpreta Norma – la protagonista della vicenda – Jessica Pratt, al suo debutto nella parte della sacerdotessa della Gallia.Maria Laura Iacobellis, anche lei di ritorno nel volgere di pochi mesi dopo la Cenerentola dello scorso autunno, interpreta Adalgisa; Mert Süngü, al suo debutto sulle scene del Maggio, è Pollione e Riccardo Zanellato, che ha debuttato nelle stagioni del Teatro nell’autunno del 1996,veste i panni di Oroveso. Chiudono il cast vocale due talenti dell’Accademia del Maggio: Elizaveta Shuvalova nella parte di Clotilde e Yaozhou Hou in quella di Flavio. La recita del 9 marzo sarà trasmessa in differita su Rai Radio 3
Ravenna, Teatro Alighieri, Stagione d’Opera e Danza 2025
“LA VESTALE”
Tragédie-lyrique in tre atti su libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy
Musica di Gaspare Spontini
Julia CARMELA REMIGIO
Licinius BRUNO TADDIA
Cinna JOSEPH DAHDAH
La Grande Vestale LUCREZIA VENTURIELLO
Le Souveran Pontife ADRIANO GRAMIGNI
Le chef des aruspices, Un consul MASSIMO PAGANO
Orchestra La Corelli
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Alessandro Benigni
Maestro del coro Corrado Casati
Regia, Scene e Costumi Gianluca Falaschi
Coreografie Luca Silvestrini
Luci Emanuele Agliati
Nuovo allestimento della Fondazione Pergolesi-Spontini in coproduzione con Teatro Alighieri di Ravenna, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Verdi di Pisa
Ravenna, 02 marzo 2025
“La vestale“ di Spontini recentemente andata in scena al Teatro Alighieri di Ravenna è una produzione dai risultati alquanto alterni. Prevede, infatti, una rilettura sul piano estetico piuttosto radicale, che vuole essere un omaggio a Maria Callas (che con quest’opera iniziò il sodalizio con Visconti) e al mondo delle grandi dive degli anni 50: per fare questo si utilizza un estratto di un’intervista alla Callas come introduzione alla recita e una serie di riprese cinematografiche piuttosto affascinanti che coinvolgono la protagonista Carmela Remigio in momenti di tormento di varia natura (a teatro, nella sua camera da letto, in una vasca da bagno); inoltre la pregevole eleganza dei costumi richiama chiaramente quel periodo, con uomini in frac e donne in ampi abiti da sera di satin scuro, scolli e ardite capigliature raccolte con tiare ecc.; la scena, invece, è tutta marmorizzata e delimitata da ambi tendaggi di mussola bianca, che alzandosi ed abbassandosi delimitano spazi scenici più ampi o più intimi – nulla di trascendentale, ma ben funzionali alla vicenda. La regia di Gianluca Falaschi (storico costumista di Davide Livermore e Arturo Cirillo, e per questo curatore anche qui pure di scene e costumi) vuole essere tutta un bianco e nero, proprio per richiamare le illustrazioni e le pellicole di quei tempi, e riesce a dare comunque una certa dinamicità a questa bidimensionalità cromatica; tuttavia, per quanto riguarda la drammaturgia, la gestione di personaggi, la semplice recitazione, questa regia latita, non si vede, forse non vuole esserci, non importa: i cantanti sono spesso ammassati stipati nel piccolo proscenio e si producono come in un concerto, salvo individuali velleità istrioniche, che ovviamente si manifestano con dimenare di braccia, dita indicatrici, pestare di piedi nervosi e addirittura qualche urletto qua e là – in poche parole, uno spettacolo tristemente monotono, incapace di dirci qualcosa di nuovo (e questo, con la messa in scena di un’opera rara, è veramente il paradosso). È un vero peccato, perché le rare volte che gli interpreti riescono a trovare autonomamente la giusta intesa (come ad esempio quelle tra Giulia e la Gran Vestale), assistiamo a scene di grande impatto estetico ed emotivo, ma è evidente che gli sforzi della produzione si siano orientati al contenitore di questa messa in scena, più che alla sostanza del contenuto. Anche sul piano musicale l’andamento è alterno: Il direttore d’orchestra Alessandro Benigni, capace di resuscitare la partitura spontiniana con grande carattere e precisa attenzione alla resa degli stati emotivi che reggono la vicenda. Nel cast emerge Alessia Venturiello, una Gran Vestale empatica e sofferta, quanto vocalmente consapevole dell’ampia estensione e della forza proiettiva del suo mezzo – il fraseggio è ben curato, la linea di canto omogeneamente ben caratterizzata. Purtroppo non possiamo dimostrarci altrettanto entusiasti della Julia di Carmela Remigio. A sicuramente compensa con il grande coinvolgimento scenico, da autentica attrice drammatica, la stanchezza vocale che appare evidente con una emissione e una linea di canto spesso in affanno. Non convince nemmeno il Licinius di Bruno Taddia che appare vocalmente poco a fuoco, con un fraseggio generico mentre sul piano scenico Taddia all’opposto è sopra le righe, preso da gesticolazioni e mimiche livorose ed eccessive persino sul finale amoroso con Giulia. Prova positiva per Joseph Dahdah che affronta il ruolo di Cinna con una equilibrata presenza scenica e un mezzo vocale ben controllato – è un tenore di bello squillo, dal fraseggio espressivo. Basso dai bellissimi colori bruniti e dal porgere nobile è, inoltre, Adriano Gramigni, nel ruolo del Souveran Pontife. Infine due note di merito al Coro del Teatro Municipale di Piacenza (bene istruito dal maestro Corrado Casati), che si è dimostrato sempre sul pezzo, e a Luca Silvestrini per le coreografie che a tratti sembravano riprendere gli affreschi del ridotto del Teatro Alighieri, ponendo almeno quelle scene in comunicazione col contesto. Foto Stefano Binci
Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2024/25
“SOLITUDE SOMETIMES”
Coreografia Philippe Kratz
Musiche Thom Yorke, Radiohead
Interpreti: MARTINA ARDUINO, CAMILLA CERULLI, LINDA GIUBELLI, ALESSANDRA VASSALLO, STEFANIA BALLONE, DOMENICO DI CRISTO, CHRISTIAN FAGETTI, NAVRIN TURNBULL, ANDREA CRESCENZI, DARIUS GRAMADA, SAID RAMOS PONCE, ANDREA RISSO, GIOACCHINO STARACE, RINALDO VENUTI
Scene Carlo Cerri, Philippe Kratz
Costumi Francesco Casarotto
Luci Carlo Cerri
Video designer Carlo Cerri e OOOPStudio.
“ANNONCIATION”
Coreografia Angelin Preljocaj
Musiche Stéphane Roy e Antonio Vivaldi
L’Ange CATERINA BIANCHI
Marie AGNESE DI CLEMENTE
Costumi Nathalie Sanson
Luci Jacques Châtelet
“CARMEN”
Coreografia Patrick de Bana
Musiche Rodion Ščedrin, El Pele & Vicente Amigo, Montse Cortés con Juana La Del Pipa
Carmen NICOLETTA MANNI
Don José ROBERTO BOLLE
Scene Ricardo Sánchez Cuerda
Costumi Stephanie Bäuerle
Luci Ivan Vinogradov
Milano, 1 marzo 2025
Com’è ormai da consuetudine di questo periodo, abbiamo assistito presso il Teatro alla Scala alla seconda delle serate contemporanee Kratz/Preljocaj/de Bana, tre coreografi di spicco degli ultimi decenni. Il primo spettacolo è un piacevole ritorno, Solitude Sometimes di Philippe Kratz. Aveva debuttato in prima assoluta proprio alla Scala due anni fa, a nostro giudizio con successo (qui la nostra recensione). Oggi confermiamo quanto detto, aggiungendo che la parte più felice della coreografia è quella su musica di Thom Yorke, e forse abbiamo compreso il perché questa coreografia ci abbia affascinato: elementi semplici, quasi “pop” (ad esempio quella sorta di moonwalk sul posto) sono miscelati ad altri più complessi senza l’effetto del posticcio (e la musica di Thom Yorke scelta ne è un altro esempio: musica elettronica più “pura”, ma resa comprensibile ad un orecchio meno esperto); poi alcune citazioni o stilemi (ma non sapremmo se definirli/e tali e se siano voluti/e. Una per tutte: le parti di coreografia danzate “piatte” com’era in Prelude di Nijinskij) che vivono però di vita propria, e sono ben innestate nel fluire della coreografia. La felicità di Solitude Sometimes è data anche dal fatto che la coreografia non si ostina a voler raccontare la fonte di ispirazione – difetto di molte coreografie contemporanee che aspirano all’astrazione – e quindi vive senza appoggi esterni: un balletto astratto deve essere tale, non astrarre ex nihilo (a dirla con Epicuro), ma divenire altro e vivere da sé. Solitude Sometimes prende la suggestione del fluire delle vite com’è nel Libro dei Morti egizio del museo di Torino, ma senza volerlo rappresentare, vediamo solamente una sfilata di ballerini i cui ispirati movimenti coreografici fanno il resto. Il secondo spettacolo è Annonciation di Angelin Preljocaj. È una coreografia nata nel 1995, debuttò in Scala nel 2002, e fu rappresentata sulle scene scaligere per ben tre anni di fila per poi scomparire. È un’opera figlia del suo tempo: è su musica di Stéphane Roy con innesti del Magnificat di Vivaldi (un po’ ci ricorda quella di John Oswald), e un fascino per il tableau vivant, com’è per esempio per Bella Figura di Kylián del 1996. Molte sono le citazioni di quadri, inserite in tempi che vengono dilatati in molte occasioni com’è nelle opere di Bill Viola. Per questi motivi, nonostante l’interesse che può scaturire da questo spettacolo, per chi vi scrive ne sono evidenti anche i limiti: oltre alle citazioni che sembrano in parte rimanere tali, il legame con il tema di ispirazione sembra troppo vincolante seppur volendosene emancipare, stabilendo quindi un equilibrio precario per cui lo spettatore è indeciso su cosa trarne. In più i mezzi coreografici e i tempi dilatati in cui poco succede delega tutto a delle piccole sfumature percepibili solo a chi è seduto nelle primissime file: un modo quindi più cinematografico che teatrale di condurre l’azione. Annonciation rimane comunque un interessante testimone di un momento di cultura della danza. Belle le interpretazioni di Caterina Bianchi e Agnese Di Clemente. Termina la serata il debutto di Carmen di Patrick De Bana. Coreografo che ha mietuto successi, ma qui fallisce. Forse consapevolmente, perché ha dichiarato: “tutti conoscono la storia di Carmen, perché raccontarla di nuovo? Ci sono già versioni molto belle, non sarebbe di alcun interesse personale rifare qualcosa che è già stato fatto molte volte”. Ma per aggiungere poi: “cerco sempre di catturare, focalizzarmi su qualcosa. Probabilmente è perché, in quanto persona fatta di commistioni, non ho mai potuto scegliere la strada più facile […] E così nei miei balletti cerco sempre di leggere fra le righe, e cercare cosa c’è dietro il sipario”. E per fare ciò vuole tornare maggiormente alla Spagna gitana e al racconto di Merimée da cui è tratta la celebre opera di Bizet, che illustra altre sfumature psicologiche. L’intento ha un suo interesse, ma il fallimento è in prima battuta già nella scelta musicale: di nuovo Bizet (per altro non di prima mano, ma su temi rimaneggiati da Ščedrin e presentati in musica registrata). Infatti, per poter dire quello che De Bana voleva ha dovuto innestare o sostituire alcuni pezzi di Bizet con della musica da flamenco, come quelle di El Pele & Vicente Amigo. Possiamo quindi concludere che una cornice di seconda mano (in questo caso quella messa punto da Ščedrin, che già era un riadattamento fatto per altre esigenze) spesso non è adatta ad un quadro di misure differenti, con effetti di dubbio gusto. La coreografia ne soffre di conseguenza, anche per un inevitabile confronto con il precedente illustre di Roland Petit. La ricerca di una musica differente, e forse anche maggiormente adatta alle esigenze poietiche, avrebbe indotto meno al paragone e forse stimolato meglio la coreografia. Ciononostante, i danzatori ballano con la massima professionalità e vengono molto applauditi. I protagonisti Nicoletta Manni e Roberto Bolle più per fama, perché le loro parti si perdono un po’ nella coreografia (che ci appare a tratti anche un po’ troppo “frenetica”), mentre si distingue il torero di Marco Agostino, e notiamo i calorosi applausi per Maria Celeste Losa (Michaela), Edoardo Caporaletti e Andrea Crescenti (nei ruoli de La Morte e Il Toro, presenti quasi sempre in scena ma con ruoli spesso non così ben amalgamati alla coreografia). Si replica il 4 (doppio appuntamento), 6, 7 e 12 marzo. Foto Brescia & Amisano
INTERVISTA A GIAMPIERO RAPPA: “L’UOMO DEI SOGNI”
Roma, 1 Marzo 2025
Il nuovo spettacolo di Giampiero Rappa al Sala Umberto di Roma, dal 4 al 16 marzo 2025. “L’uomo dei sogni” è una commedia surreale che gioca con il confine tra sogno e realtà, portando in scena una storia ironica, profonda e spiazzante. A dar vita ai personaggi è un cast d’eccezione: Elisabetta Mazzullo nel ruolo di Viola, Nicola Pannelli nei panni di Giovanni, noto nel mondo dei fumetti come Joe Black, insieme ad Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio. Abbiamo incontrato Giampiero Rappa per scoprire di più su questo spettacolo.
Come nasce l’idea di questo spettacolo?
L’idea e il meccanismo drammaturgico dello spettacolo nascono dal confronto con un caro amico, Tullio. Una sera, ci siamo divertiti a raccontarci i nostri incubi, in particolare quelli legati alle parasonnie, ovvero quegli incubi che sembrano prendere vita nella stanza stessa.Parlandone, ci siamo ritrovati a ridere: a volte sono inquietanti, ma spesso talmente assurdi da sfiorare il tragico. Durante quella conversazione, è nata l’idea: “Potresti scrivere una commedia su questa storia.” Il testo si sviluppa in due fasi: la prima, scritta nell’agosto 2021, e la seconda, nell’agosto 2022.
Quali sono le principali tematiche che affronti ?
La depressione, il bisogno di trovare una via d’uscita dalle situazioni difficili, la lotta con le proprie paure sono le tematiche di questa storia. Ho voluto scrivere una commedia che affrontasse questi argomenti con ironia, mostrando come riconoscere e accettare le proprie paure sia il primo passo per superarle.
La commedia oscilla tra momenti surreali e situazioni profonde. Come hai costruito questo equilibrio?
È il genere che amo di più. Mi piacciono i racconti che mescolano comico e drammatico, perché credo che l’uno esaltil’alt. Un momento divertente può far risaltare ancora di più un’emozione profonda. Quando scrivo in questo modo, mi diverto io per primo, e spero che il pubblico possa divertirsi altrettanto.
Il rapporto tra Joe e sua figlia Viola è centrale nella storia. Possiamo leggerlo attraverso la lente di Freud?
Joe è un uomo che ha superato i 50 anni e si ritrova a fare i conti con il passato. Si è separato dalla madre di Viola tanti anni fa, e ora sua figlia vive in Nuova Zelanda. Tra loro c’è un legame profondo, ma la distanza lo ha reso più complesso. Joe è molto legato alla sua scuola di fumetto e ai suoi allievi, ma la solitudine lo ha segnato. Nonostante la sua età, è ancora bloccato da questioni irrisolte del passato. Freud probabilmente direbbe che i suoi incubi sono il suo inconscio che bussa alla porta.
Lo spettatore viene trascinato in un gioco di percezione tra realtà e illusione. Come hai lavorato per rendere visibile questo viaggio?
A un certo punto, non si capisce più se Joe stia sognando o vivendo la realtà. Lui stesso utilizza l’incubo per affrontare qualcosa che lo tormenta, cercando di risolverlo. Ma spesso scopriamo che siamo ancora dentro il sogno, e questa tortura continua finché Joe non prende il controllo e si ribella ai suoi stessi incubi. I personaggi degli incubi, interpretati da Elisa Di Eusanio e Andrea Di Casa, iniziano a entrare in difficoltà perché la loro missione è quella di risvegliare Joe. Quando Joe finalmente prende in mano la propria vita, sono i sogni a ribellarsi, temendo di scomparire. È una metafora anche del teatro: come dicono a un certo punto i personaggi dei sogni, “Noi esistiamo grazie a voi, ma anche voi esistete grazie a noi.” Così come gli attori esistono grazie al pubblico, anche il pubblico esiste grazie agli attori.
In un’epoca dominata da immagini digitali e piattaforme streaming, perché è ancora importante andare a teatro?
Il teatro oggi sta vivendo una nuova forza, proprio perché le persone sentono sempre più il bisogno di un contatto autentico con la realtà, di condividere emozioni, respiri, silenzi e risate in sala. In un’epoca dominata dal digitale, questa forma d’arte così antica diventa improvvisamente innovativa. Se vogliamo, questo spettacolo è una dedica non solo agli attori, ma anche al pubblico, che sceglie di regalare il proprio tempo con la speranza di vivere un’esperienza che lo emozioni, lo faccia riflettere o divertire, lasciandolo in qualche modo cambiato rispetto a quando è entrato.
Come nel tuo spettacolo “Intorno al vuoto”, dove hai affrontato il tema dell’Alzheimer, anche qui esplori i pensieri profondi, i ricordi, le paure. Cosa ti spinge a portare in scena questi mondi interiori?
Credo che nasca dalla mia sensibilità verso certe tematiche. Ho sempre fatto un lavoro su me stesso, cercando di empatizzare con i problemi degli altri. Questo mi ha portato a esplorare e documentarmi su aspetti che considero centrali nella drammaturgia: le dipendenze, le relazioni umane, la difficoltà di essere autentici nelle proprie richieste e nell’accettare quelle degli altri.
Tre motivi per vedere il tuo spettacolo?
1-Perché sogni e incubi ci appartengono tutti. Anche chi non ricorda i propri sogni potrebbe scoprire qualcosa di sé attraverso questo spettacolo.
2-Perché si ride e ci si commuove. È una storia che mescola leggerezza ed emozione.
3-Perché il cast, le scene, le musiche e le luci sono tutti elementi che contribuiranno a far sognare davvero.
Se dovessi racchiudere “L’uomo dei sogni” in un’unica immagine, quale sarebbe?
Un uomo che vola.
Progetti futuri?
Sto scrivendo una nuova commedia. Da quest’anno, inoltre, sono diventato coordinatore didattico della scuola di recitazione Fondamenta, un ruolo che vivo con grande entusiasmo. La formazione è fondamentale per me, e voglio continuare a dedicarmi a questo percorso.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
BENVENUTI IN CASA ESPOSITO
con Giovanni Esposito, Nunzia Schiano, Susy Del Giudice, Salvatore Misticone, Gennaro Silvestro, Carmen Pommella, Giampiero Schiano , Aurora Benitozzi
Regia ALESSANDRO SIANI
Commedia in due atti scritta da Paolo Caiazzo, Pino Imperatore, Alessandro Siani
Liberamente tratta dal romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”
di Pino Imperatore (Giunti Editore)
Musiche Andrea Sannino
Direzione musicale e arrangiamenti Mauro Spenillo
Scene Roberto Crea
Costumi Lisa Casillo
Nessuno ha imposto a Tonino Esposito di fare il delinquente. Eppure lui vuole farlo a tutti i costi, anche se è sfigato e imbranato. Perché vuole mostrarsi forte agli occhi di tutti. E perché è ossessionato dal ricordo del padre Gennaro, che prima di essere ucciso è stato un boss potente e riverito nel rione Sanità, a Napoli. Così Tonino, tra incubi e imbranataggini, resta coinvolto in una serie di tragicomiche disavventure che lo portano a scontrarsi con i familiari, con le spietate leggi della criminalità e con il capoclan Pietro De Luca detto ’o Tarramoto, che ha preso il posto del padre. E quando non ce la fa più, quando tutto e tutti si accaniscono contro di lui, va nell’antico Cimitero delle Fontanelle a conversare con un teschio che secondo la leggenda è appartenuto a un Capitano spagnolo. Nel tentativo di riportarlo sulla strada dell’onestà, la capuzzella del Capitano si trasforma in un fantasma e si trasferisce a casa di Tonino. Dalla comica “collaborazione” tra i due nascono episodi esilaranti, che trovano il loro culmine nel periodo in cui Tonino, dopo aver messo nei guai ’o Tarramoto, viene messo agli arresti domiciliari dal capoclan e cade in depressione. Intorno a Tonino, al Capitano e a De Luca si muovono altri personaggi memorabili: Patrizia, moglie di Tonino, donna procace e autoritaria; Gaetano e Assunta, genitori di Patrizia, che si strapazzano di continuo; Manuela, vedova del boss Gennaro, donna dai nobili sentimenti; Tina, giovane figlia di Tonino e Patrizia, che combatte la condotta illegale del padre. In casa Esposito non manca una presenza animalesca: Sansone, un’iguana del genere meditans, che fa da contrappunto a tutti i divertenti momenti della commedia. La commedia è un insieme di dialoghi irresistibili, colpi di scena e messaggi di grande valore etico, riporta gli aspetti più cafoni e ridicoli della criminalità, rispolvera la grande tradizione comica napoletana e fa ridere e riflettere. Un modo nuovo di raccontare e denunciare la malavita, perfettamente in linea con i contenuti del romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”, che è stato un vero e proprio caso letterario. Un libro che ha scalato le classifiche grazie al passaparola e all’entusiasmo di migliaia lettori in tutta Italia e che è stato adottato da scuole, istituzioni pubbliche, associazioni antimafia, comitati civici, gruppi che si battono per la Legalità. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Brancaccio
I TRE MOSCHETTIERI: OPERA POP
con Vittorio Matteucci, Giò di Tonno, Graziano Galatone
e con:
Sea John – D’Artagnan
Leonardo Di Minno – Rochefort
Cristian Mini – Richelieu
Camilla Rinaldi – Milady
Beatrice Blaskovic – Costanza
Roberto Rossetti – Dumas
Gabriele Beddoni – Planchet
Performers: i ragazzi della Peparini Academy Special Class
coreografie VERONICA PEPARINI e ANDREAS MULLER
testi ALESSANDRO DI ZIO
musiche GIO’ DI TONNO
orchestrazioni GIANCARLO DI MARIA
produzione STEFANO FRANCIONI PRODUZIONI E TEATRO STABILE D’ABRUZZO
organizzazione VENTIDIECI
Direzione artistica e regia Giuliano Peparini
“Tutti per uno, uno per tutti!”, il motto simbolo di un’amicizia incorruttibile, si rinnova in questo spettacolo in cui musica, prosa e danza si intrecciano in un racconto coinvolgente ed emozionante con Gio’ Di Tonno, Vittorio Matteucci, Graziano Galatone nei ruoli di Athos, Porthos e Aramis e il tocco innovativo ed elegante di Giuliano Peparini al quale è affidata la Direzione Artistica e la Regia; le Coreografie sono curate da Veronica Peparini e Andreas Müller, la preparazione dei duelli è del Maestro d’Armi Renzo Musumeci Greco, i Testi scritti da Alessandro Di Zio e le Musiche composte da Gio’ Di Tonno; gli arrangiamenti sono di Giò Di Tonno e Giancarlo Di Maria che ha curato anche le orchestrazioni. Lo spettacolo inizia prima dello spettacolo in una fabbrica di scatoloni dove il tempo è scandito dalla monotonia delle azioni da compiere giorno dopo giorno. In questo luogo si intravede un libro dimenticato o forse lasciato lì da qualcuno volontariamente. Un lavoratore lo prende, lo apre e, incuriosito, inizia a leggere appassionandosi subito alla storia e a ciò che questo libro rappresenta, un oggetto sempre più raro in un’epoca dove tutto si smaterializza. La sua voce che legge attira anche gli altri lavoratori che, via via, diventano i personaggi della storia catapultando lo spettatore nella Parigi dell’800. Giuliano Peparini racconta il suo intento artistico: “Se devo affrontare un argomento storico o mettere in scena la vita di personaggi la cui azione si svolge in un’epoca passata, penso sempre a come farla risuonare nella nostra epoca e a come potrebbe raggiungere il pubblico di oggi. È il caso di Alexandre Dumas, autore e romanziere la cui forza supera il passare del tempo. L’amicizia, le differenze tra classi sociali, l’onore, la vendetta, i segreti e la seduzione sono al centro del romanzo “I Tre Moschettieri” e sono temi ancora attuali nel XXI secolo. Ciò che personalmente mi colpisce dei personaggi di Dumas è il loro modo di crescere ed evolvere continuamente di fronte agli eventi che affrontano. In particolare, un giovane come D’Artagnan che cerca di trovare la sua identità e un posto nel mondo, è di grande attualità per i nostri giovani, una generazione che mette fortemente in discussione i suoi riferimenti e modelli.” Giò Di Tonno racconta così il progetto che lo vede coinvolto su diversi fronti: “Considero I Tre Moschettieri l’inizio di una nuova vita artistica che mi vedrà sempre più impegnato come compositore. Ho messo tutto me stesso in questo progetto che finalmente vede la luce. Sono felice di portare in scena la storia di amicizia più celebre della letteratura, e di farlo proprio con alcuni amici veri, a cominciare da Vittorio Matteucci e Graziano Galatone con cui ho già condiviso tante avventure, Alessandro Di Zio, autore dei testi, a Renzo Musumeci Greco maestro d’armi e di vita, per finire con un nuovo amico, Giuliano Peparini, col quale sono onorato di lavorare. E ora “In guardia!” I Tre Moschettieri sta per cominciare… e vi sorprenderà!” Il trionfo dell’amicizia, ma anche il trionfo del potere e dell’ambizione in questa storia senza tempo dove “buoni” e “cattivi” combattono una lotta quasi archetipica mettendo al centro valori quali onore, fedeltà, onestà, troppo spesso messi in crisi dal mito dell’uomo contemporaneo e che i tre moschettieri portano fieri sulla punta delle loro spade. Accanto all’amicizia trova spazio anche l’amore, motore di ogni azione che qui si sublima nell’incontro tra D’Artagnan e Costanza, un amore che verrà spezzato dalla sete di vendetta dell’altra protagonista femminile, la perfida Milady. Il finale, come tutti i finali, riporterà l’equilibrio, ma lo spettatore andrà via con l’amaro in bocca. Chissà, forse perchè i “buoni” sono a un tratto diventati “cattivi”? Oppure perché è proprio la morte l’unico mistero che neanche l’uomo contemporaneo è riuscito a svelare. L’unico mistero che ci rende microscopici e vulnerabili. Qui per tutte le informazioni.