Venezia, Teatro La Fenice, Concerto Straordinario
Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”
Direttore Riccardo Muti
Flauto Karl-Heinz Schütz
Ludwig van Beethoven: “Coriolano” Ouverture op. 62; Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto per flauto n. 2 in re maggiore KV 314; Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
Venezia, 9 ottobre 2025
Il maestro Muti è sbarcato in laguna a celebrare i cinquantacinque anni di collaborazione con il Teatro La Fenice, cui lo lega un rapporto tutto speciale, se proprio al maestro napoletano fu affidato il compito di dirigere il concerto che sancì la riapertura del Tempio della Lirica veneziano, nel 2003, dopo il terribile incendio. Re Riccardo è tornato nel prestigioso Teatro di Campo San Fantin, dopo il memorabile concerto del 2021, sempre insieme all’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”, da lui stesso fondata nel 2004, riunendo strumentisti provenienti da tutte le regioni italiane. Di assoluto richiamo – oltre agli esecutori – anche il programma, comprendente l’Ouverture del Coriolano e la Settima Sinfonia di Ludwig van Beethoven, oltre al Concerto n. 2 per flauto in re maggiore KV 314 di Wolfang Amadeus Mozart, uno dei concerti più riusciti e brillanti del Salisburghese, tra quelli non concepiti per il pianoforte. Ci si sarebbe potuto aspettare da questa serata un edonistico ripercorrere sentieri già battuti, per quanto straordinariamente luminosi e fioriti, appagandosi nel riconoscere una volta di più l’universale valore estetico di pagine fondamentali della ‘nostra’ cultura musicale. Ma non se sul podio vi è Riccardo Muti, uno dei custodi più sensibili e preparati, nonché un instancabile divulgatore di questa grande tradizione. Così, dopo le prime note dell’Ouverture beethoveniana, abbiamo avuto piena conferma che un grande interprete, un vero ‘cavallo di razza’ della bacchetta, qual è senza dubbio Riccardo Muti, imprime su ogni sua esecuzione la propria impronta inconfondibile. Il maestro – in questo primo pezzo come negli altri due – non si è, infatti, limitato a restituire una lettura corretta, storicamente informata, ma vi ha aggiunto un quid personale, trascendendo i limiti di una ‘buona esecuzione’ e infondendo nuova vita alla partitura. Il rispetto del dettato dell’autore, la brillantezza del suono, la pregnanza del parametro timbrico, la nitidezza nell’articolazione del discorso musicale, in un’agogica diffusamente trascinante – tutti elementi verosimilmente derivanti dall’esempio toscaniniano, che arrivò al giovane Muti attraverso la mediazione di Antonino Votto, suo maestro di Direzione d’Orchestra –, hanno diffusamente caratterizzato la performance del Maestro Muti. Con il quale i giovani strumentisti dell’Orchestra “Cherubini” hanno interagito in perfetta simbiosi, rispondendo al suo generoso gesto direttoriale con naturale immediatezza, quasi fossero, insieme al direttore, le membra di un unico grande corpo. Nel caso della folgorante Ouverture del Coriolano, essa ci è stata restituita in tutto il suo vigore e nella sua teatralità, che tanto affascinava Wagner. Era quasi palpabile la tensione che ha attraversato l’Ouverture tra frequenti spostamenti d’accento e lunghe pause, con l’effetto di un continuo ansimare, interrotto solo dal secondo tema di nobile lirismo: un clima di intensa drammaticità, che si è colto fin dall’esordio con il suo poderoso inciso, in fortissimo, ripetutosi, più tenue, anche alla fine, prima di spegnersi definitivamente, nel sinistro bagliore degli archi nel registro grave. Eleganza e compostezza stilistica hanno caratterizzato l’esecuzione del Concerto K. 314 di Mozart, nel corso della quale l’essenzialità del gesto direttoriale ha saputo coniugare leggerezza, intensità espressiva ed edonismo sonoro; complice ovviamente Karl-Heinz Schütz, sicuramente un flautista di prim’ordine, che ha decisamente brillato in questo pezzo – in cui è evidente l’influenza francese – sfoggiando una tecnica trascendentale. Assoluto dominatore rispetto all’orchestra – cui Mozart affida il compito di accompagnare con leggerezza d’organico – il flauto si è imposto nell’Allegro aperto iniziale, contraddistinto da due temi nettamente contrastanti, dove spiccava il virtuosismo del solista austriaco, mentre nell’Adagio non troppo – immerso in una serenità tipicamente mozartiana – Schütz ha risposto con pacatezza all’introduzione orchestrale, per poi trillare con gioia intonando il luminoso secondo tema e, più avanti, eccellendo nella cadenza, prima dell’epilogo orchestrale. Episodi brillanti, cadenze orchestrali, in stile di opera buffa, e passi di virtuosismo solistico si alternavano – nel Rondò. Allegretto finale – alle riprese del festoso refrain, preceduto da vivaci cadenzine del flauto. Sonoro apprezzamento da parte del pubblico. Un fuoriprogramma ‘impressionista’: Pièce pour flûte seule di Jacques Ibert. Un impeto dionisiaco ha caratterizzato l’esecuzione della Sinfonia n. 7 di Beethoven: l’“apoteosi della danza” secondo la celebre definizione di Wagner. Nel primo movimento si sono apprezzate la raffinatezza coloristica, la brillantezza adamantina del suono, la nitidezza della trascinante scansione ritmica, fondata su una pulsazione dattilica – che Wagner utilizzerà come figurazione portante nella Tetralogia – in una dinamica ampia e contrastata. Nell’Allegretto, che riecheggia la marcia funebre dell’Eroica, dominava un’atmosfera di delicata mestizia, animatasi un poco grazie alle variazioni ed al fugato – dove si è apprezzato il bel suono degli archi – oltre che nel corso del dolcissimo intermezzo, in tonalità maggiore, impreziosito dal fascinoso legato dei legni. L’‘apoteosi della danza’ ha attraversato con particolare verve il terzo movimento, inframezzato dall’arcadico Trio, dove si sono messi in luce i corni e i legni. Travolgente il Presto – il cui ritmo serratissimo non pregiudicava l’estremo nitore nell’articolazione del discorso musicale come nella scansione ritmica con i suoi repentini mutamenti –, chiuso da un finale mozzafiato. Applausi e Standing ovation non solo per l’insigne maestro. Due fuoriprogramma, tratti dal repertorio operistico romantico-risorgimentale italiano, che – come si dice in gergo – hanno fatto ‘venir giù il teatro’: la sinfonia del Nabucco – un’opera, la cui l’interpretazione da parte di Muti, costituisce un irrinunciabile punto di riferimento – e poi la Sinfonia della Norma, che l’artista napoletano ha collegato – intrattenendo brevemente il pubblico – agli anni Sessanta del Novecento, quando frequentava, nell’ambito delle Vacanze Musicali Veneziane, il Corso di Direzione d’Orchestra, tenuto dal mitico Franco Ferrara: in quel contesto di studio aveva affrontato proprio la celebre pagina belliniana.
La genesi della Cantata Wer sich selbst erhöhet, der soll erniedriget werden BWV 47 che chiude il trittico della partiture dedicate alla diciassettesima Domenica dopo la Trinità non è chiara. Sebbene la prima esecuzione conosciuta risalga al 13 Ottobre 1726, durante il terzo ciclo di cantate scritte da Bach a Lipsia, l’opera potrebbe essere stata scritta prima che Bach arrivasse a Lipsia. Si apre con un coro (Nr.1) fugato imponente e di grande effetto, dalla struttura molto chiara e ricco di episodi. Nell’aria tripartita del soprano, l’obbligato strumentale presenta una melodia figurativa inquieta su semicrome delicate nella linea del basso continuo. In una ripresa degli anni ’30 vi fu l’inserimento di un violino nell’accompagnamento ma le indicazioni nella partitura e i commenti successivi di Carl Philipp Emanuel Bach suggeriscono tuttavia che la versione originale fosse stata scritta per organo obbligato. Nel recitativo accompagnato (Nr.3), il basso non usa mezzi termini quando descrive l’umanità come «Kot, Staub, Asch und Erde» (letame, polvere, terra e cenere) – l’originale di Helbig usa addirittura la parola «Stank» (puzza) al posto di «Staub» – sottolineando così il divario tra i semplici mortali e la maestà divina. Infatti, il fatto che il Creatore si sia abbassato per amore dei vanitosi figli della terra non dà loro alcun diritto a un trattamento di favore! Qui, l’accompagnamento gelido degli archi non fa nulla per attenuare questo rimprovero, ma rafforza, come un pulpito scolpito dal suono, la distanza tra il messaggio e i destinatari. Nella parte finale in mi bemolle maggiore e nella sua confortante promessa, emerge poi un nuovo calore, che conferisce alle tenere linee del violino e dell’oboe nell’aria seguente un bagliore incantato. Qui, il basso si unisce alla preghiera e supplica con fiducia: «Jesu beuge doch mein Herze» (Gesù, piega il mio spirito). Una splendida aria lirica con oboi solisti e violino. L’armonizzazione del Corale “Warum betrübst du dich mein Herz” conclude l’opera.
Nr.1 – Coro
Chiunque si esalta sarà umiliato,
e chi si umilia sarà esaltato
Nr.2 – Aria (Soprano)
Chi vuole essere definito un vero cristiano
deve coltivare l’umiltà;
l’umiltà proviene dal Regno di Gesù.
La superbia è simile al demonio;
Dio non ama tutti coloro
che non abbandonano la loro arroganza.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
L’uomo è letame, peste, cenere e terra;
è possibile che dall’orgoglio,
nato dal diavolo,
sia ancora stregato?
Ah, Gesù, figlio di Dio,
creatore di tutte le cose,
si è umiliato e abbassato per noi
sopportando l’ignominia e lo scherno;
e tu, povero verme, ti vuoi vantare?
È un comportamento cristiano?
Vai, vergognati, creatura arrogante,
pèntiti e segui le orme di Gesù,
pròstrati con fede davanti a Dio!
Egli ti risolleverà al tempo opportuno.
Nr.4 – Aria (Basso)
Gesù, piega il mio cuore
sotto il tuo braccio potente,
affinchè io non perda la mia salvezza
come Lucifero.
Che io cerchi la tua umiltà
e maledica per sempre l’orgoglio;
donami uno spirito umile
che sia da te apprezzato!
Nr.5 – Corale
Rinuncio volentieri agli onori del mondo,
concedimi l’eternità
che hai conquistato
per mezzo della tua dura e amara morte,
questo ti prego, mio Signore e mio Dio.
Traduzione Emanuele Antonacci
Sarà un anno intenso, ricco di sfide. Fondazione Arena di Verona ha presentato, ieri sera, la Stagione Artistica 2026 al Teatro Filarmonico: ben 42 serate di spettacolo tra opera, danza e concerti sinfonici, a cui si sommeranno le prove aperte alle scuole, gli spettacoli per giovani e famiglie, i corsi per Voci Bianche e numerosi appuntamenti fuori sede, dalle recite di Aida in Australia alla tournée dei concerti sinfonici nelle città del Veneto.
La Stagione d’Opera e Balletto vede in calendario 7 produzioni: 5 titoli d’opera e 2 balletti. Dal 18 al 25 gennaio, mese mozartiano, grazie al consolidato Festival Mozart a Verona, tornerà in scena Don Giovanni nell’allestimento di Fondazione Arena. In febbraio il sipario si alzerà eccezionalmente sul palcoscenico del Teatro Ristori per una nuova produzione barocca: L’Olimpiade di Vivaldi, dal 23 febbraio al 1° marzo, proprio nei giorni delle grandi cerimonie olimpiche, sarà in scena nella produzione del Théâtre des Champs-Élysées. Dal 22 al 29 marzo al Teatro Filarmonico andrà in scena Falstaff di Verdi, in una produzione del Teatro Regio di Parma.
Il sipario del Filarmonico si chiuderà durante i mesi estivi e l’opera tornerà in scena, dal 25 ottobre al 1° novembre, con Amelia al ballo di Menotti, per la prima volta in Teatro, preceduta dal balletto stravinskiano Jeu de cartes, in una nuova produzione di Fondazione Arena di Verona. Un dittico inedito a Verona. Dal 22 al 29 novembre sarà la volta de La Bohème pucciniana, nella più recente produzione veronese. Dal 13 al 31 dicembre tornerà Il Lago dei cigni che ha conquistato il pubblico e che nel 2026 è atteso anche sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma.
A seguito dei grandi avvenimenti che coinvolgeranno Verona e Fondazione Arena nei primi mesi del 2026, la Stagione Sinfonica si avvierà in primavera con 8 appuntamenti sinfonici in abbonamento, ciascuno in doppia data, cui – in molti casi – si aggiungerà una terza replica in diverse città del Veneto (Rovigo, Treviso, Schio, Vicenza). I programmi spazieranno dal Settecento alla contemporaneità, con un focus particolare sul repertorio tardoromantico e sul Novecento storico, senza trascurare nuove commissioni in prima assoluta. Proseguiranno inoltre le integrali sinfoniche di grandi compositori avviate in questi ultimi anni (come Mahler, Bartók, Brahms). Nella programmazione si confermeranno due caratteristiche portanti che hanno riscosso grande interesse nel pubblico: i grandi lavori sinfonico-corali (Rossini, per la prima volta con orchestra, e Beethoven, debutto nel titolo per le forze areniane) e la presenza di eccellenti solisti e direttori di fama mondiale in dialogo con i complessi artistici e tecnici di Fondazione Arena. Per maggiori dettagli sulla stagione del teatro veronese vi rimandiamo al sito di Fondazione Arena.
Como, Teatro Sociale, Stagione d’Opera 2025/26
“CARMEN”
Opéra comique su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratto dall’omonima novella di Prosper Mérimée
Musica di Georges Bizet
Carmen EMANUELA PASCU
Don José JOSEPH DAHDAH
Escamillo PABLO RUIZ
Micaëla ROCÍO RAUS
Moralès MATTEO TORCASO
Zuniga NICOLA CIANCIO
Mercédès AOXUE ZHU
Frasquita SORAYA MENCID
Dancairo WILLIAM ALLIONE
Remendado GIANLUCA MORO
Orchesta I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Coro di Voci Bianche “I piccoli musici” di Casazza
Direttore Sergio Alapont
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Maestro delle Voci Bianche Mario Mora
Regia Stefano Vizioli
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Annamaria Heinrich
Luci Vincenzo Raponi
Progetto di videomapping e visual art Imaginarium Studio
Nuovo allestimento in coproduzione Teatri di OperaLombardia, Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena, Teatro Municipale di Piacenza, Teatro Alighieri di Ravenna
Como, 10 ottobre 2025
Intercettiamo la nuova produzione di “Carmen“ di OperaLombardia presso il Teatro Sociale di Como, dove, vuoi per l’innegabile e immarcescibile perfezione di quest’opera, vuoi per l’accurata scelta di interpreti e creativi, assistiamo al primo (e speriamo non l’ultimo) meritato trionfo di questa stagione lombarda. La bacchetta è quella di Sergio Alapont, e già per questo possiamo stare tranquilli: il maestro spagnolo non ha solo l’esperienza e l’assoluta competenza per assicurare una buona direzione di quest’opera, ma anche lo specifico piglio e la sensibilità scenica indispensabili per la piena riuscita di una “Carmen“; capiamo in pochi minuti che la sua autorità è fuori discussione: tutti sanno esattamente cosa fare, eppure tutti dipendono chiaramente dal podio, dal quale, non senza una certa dose di divertimento, si alza discreto anche il canto del direttore, specialmente nei più complessi momenti di insieme. Il mezzosoprano romeno Emanuela Pascu regala un’interpretazione tanto coinvolta sul piano non semplicemente scenico, ma anche fisico, che le si può perdonare di tanto in tanto qualche tentennamento sulle tempistiche, o qualche nota meno a fuoco delle altre: la sua Carmen è viva, non conosce pudore, né teme giudizi; la vocalità è scura e pastosa, naturalissima anche nella zona più grave, ma anche sicura nel registro acuto: bene la habanera, molto bene “Près des remparts de Seville“ e la chanson bohème, ma è in “En vain pour éviter les réponses amères” forse la prova più difficile, che la Pascu supera giocando proprio sulla naturale dolente tragicità del suo colore vocale. Accanto a lei il Don José di Joseph Dahdah, una vera scoperta: voce chiara quanto omogenea, luminosa e solida in tutti i registri; l’altrettanto bella presenza scenica del tenore libanese, poi, accanto alla conturbante prorompenza di Carmen, ricrea quella coppia di “belli e dannati” che già Mérimée tratteggiava nella sua novella, conferendo assoluta credibilità alle dinamiche malate di questi innamorati. Pure la Micaëla di Rocío Faus si rivela particolarmente riuscita, con chiaro picco interpretativo nella sua aria del terzo atto: il colore è quello del soprano lirico puro, dalle belle inflessioni, morbidissimo nell’emissione e capace di sfoggiare un fraseggio accurato e sensibile. Purtroppo, l’Escamillo di Pablo Ruiz ci è parso sottotono in questa recita, un’emissione non a fuoco alla quale si aggiunge una presenza scenica piuttosto compassata. Positive, invece, le prove dei ruoli di lato, l’intenso Zuniga di Nicola Ciancio, le frizzanti, ben curate tecnicamente, Frasquita (Soraya Mencid) e Mercedes (Aoxue Zhu), e i sonori ed efficaci Dancairo e Remendado (William Allione e Gianluca Moro); è bello, pure, ritrovare in ottima forma Matteo Torcaso, un Moralès gustoso e ben caratterizzato. Infine, sia il Coro di OperaLombardia diretto da Diego Maccagnola, sia le Voci Bianche “I Piccoli Musici” di Casazza, istruite da Mario Mora, forniscono prove molto convincenti, sia sul piano vocale che su quello scenico. Questo cast ben assortito trova nella messa ain scena di Stefano Vizioli una misura espressiva particolarmente riuscita: le atmosfere rimandano a una Spagna novecentesca che sembra uscita dalle pellicole di Carlos Saura, Costa Gavras, Bigas Luna, a cavallo tra l’aspro grigiore del franchismo e la torbida passionalità del folklore; la scena sovente divisa in due per il largo da una parete di tulle nero, poi, aiuta la rappresentazione metaforizzata dei rapporti e dei sentimenti, mentre il ricorso a proiezioni (curate dall’Imaginarium Studio) durante gli intermezzi implementa senza disturbare l’oneroso lavoro scenico. A questo successo contribuiscono, dunque, chiaramente sia lo scenografo Emanuele Sinisi, sia, soprattutto, il progetto luci di Vincenzo Raponi, che sfodera tutta una gamma di luci fredde e taglienti chiaroscuri di ispirazione giustamente cinematografica, ma anche che riprendono (specie nel terzo atto) gli studi di Appiah. Forse l’unica pecca di questa produzione è, nei primi due atti, una tendenza un po’ troppo da musical, facendo ballare coro e protagonisti molto spesso; tuttavia è una leggerezza che, invece, il pubblico ha gradito con applausi a scena aperta – oltre che con lunghe e appassionate chiamate alla fine dell’opera. Questa volta ne condividiamo le ragioni. Foto newreporter©favretto
Firenze, Teatro Goldoni – Stagione d’Opera 2025 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
“IL CIRO”
Opera in tre atti su Libretto di Pietro Ottoboni
Musica di Alessandro Scarlatti
Astiage MARGHERITA MARIA SALA
Arpago GIUSEPPE VALENTINO BUZZA
Mitridate CHRISTIAN SENN
Erenia ANITA GIOVANNA ROSATI
Ciro DENNIS ORELLANA
Arsace RÉMY BRÈS FEUILLET
Sandane MATHILDE LEGRAND
Orchestra Barocca Academia Montis Regalis
Direttrice Chiara Cattani
Regia Maria Paola Viano
Scene Darko Petrovic
Costumi Giovanna Fiorentini
Realizzazione fondali Piet Hoevenaars Sign Industries
Firenze, 10 ottobre 2025
Dall’inatteso annuncio di fine luglio c’era grande interesse per la prima de “Il Ciro”, opera in cartellone al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino in coproduzione con la Fondazione Academia Montis Regalis di Mondovì. Il dramma, scritto dal cardinale e mecenate Pietro Ottoboni e musicato dal celebre compositore della Scuola napoletana Alessandro Scarlatti, non era mai stato rappresentato in tempi moderni dalla prima esecuzione del 1712 al Teatro del Palazzo della Cancelleria di Roma. Lo spettacolo viene messo in scena presso lo storico Teatro Goldoni in zona Oltrarno, già scelto in passato come location ideale per titoli di nicchia. L’edizione critica, curata dal prof. Nicola Badolato dell’Università di Bologna sulla base del manoscritto autografo conservato nella Biblioteca del Conservatoire Royal de Musique di Bruxelles, nasce da un progetto di ricerca sul Barocco ed è stata pubblicata nel 2017 dall’Istituto Italiano per la Storia della Musica. L’importanza della produzione è testimoniata anche dalla ripresa di Sky Classica HD: l’opera, arricchita da un documentario girato per l’occasione, sarà trasmessa fra il 24 e 25 ottobre, in occasione del trecentesimo anniversario della morte di Scarlatti avvenuta a Napoli nel 1725. L’opera in tre atti, che si apre con una sinfonia in tre movimenti, è caratterizzata da una successione di recitativi, arie, duetti, cori e balli. Al centro della trama, di ambientazione arcadica e di duplice carattere politico e amoroso, c’è l’agnizione di Ciro, erede al trono usurpato dallo zio antagonista Astiage re di Media, nell’innocente pastore Elcino (si noti la voluta somiglianza fonetica tra “il Ciro” ed “Elcino”). Quest’ultimo, dopo essere stato abbandonato dal padre Cambise, era stato cresciuto dal pastore Mitridate insieme alla figlia Erenia. Il crudele Astiage si mostra spietato anche nei confronti del capitano Arpago, a cui fa bere con l’inganno il sangue del proprio figlio. Ciro assume così il potere e ridà splendore al regno di Persia, affermando il trionfo della verità. Superati gli ostacoli imbastiti da Erenia a sua volta attratta dal nobile Arsace, Ciro si unisce infine all’amata Sandane. La regista Maria Paola Viano, a partire da un lavoro minuzioso di re-editing e tagli del testo delle arie e dei recitativi, sceglie l’espediente del metateatro: in un paese in cui l’opera lirica è proibita, un gruppo di giovani commedianti, che ha Elcino come capocomico, si impegna a realizzare il sogno comune di rappresentare segretamente il mito stesso di Ciro, districandosi tra un leggio con gli spartiti e i pochi oggetti di scena. Oltre al teatro nel teatro si aggiunge anche l’universo parallelo di un percorso di iniziazione, cioè dopo il superamento di diverse peripezie, grazie alla conoscenza e alla resilienza, i personaggi compiono un percorso di formazione che li conduce all’agognato lieto fine. I bei fondali dello spettacolo sono stati realizzati sulla base dei disegni originali dell’architetto dell’epoca Filippo Juvarra e contribuiscono a contestualizzare e rendere affascinante la scenografia curata da Darko Petrovic. I costumi di Giovanna Fiorentini sono coerenti con la lettura registica e fondono scelte tradizionali e innovative: all’apertura del sipario restiamo per esempio colpiti dall’abbigliamento sgargiante del personaggio eponimo, che indossa scarponcini con lacci arancione, maglietta azzurra con un simbolo rosso e giallo che richiama quella di Superman (una C anziché la S), gilet di stile orientale e cappellino con tesa rivolta all’indietro. La Maestra concertatrice al cembalo e direttrice Chiara Cattani ha guidato sapientemente l’Orchestra barocca Academia Montis Regalis costituita da diciotto validissimi musicisti, affiatati e maturi nonostante la giovane età della maggior parte di loro. La direttrice ha confermato grande competenza nello stacco dei tempi e nella gestione delle dinamiche, suonando anche egregiamente il cembalo e infondendo un carattere adeguato sia ai recitativi che ai numeri musicali. A Roma all’epoca il divieto papale non permetteva alle donne di esibirsi, pertanto anche i ruoli femminili erano interpretati da voci maschili, in particolare dai castrati. Il cast della prima rappresentazione disponeva fra gli altri del soprano fiorentino Innocenzo Baldini (Ciro) e del famoso contralto “il Senesino” (Arsace). Oggigiorno si ricorre invece ai controtenori, sopranisti o contraltisti: Dennis Orellana (Ciro) dà prova della sua pulita e lucente vocalità, unita a una pregevole musicalità e a una efficace recitazione; anche Rémy Brès Feuillet (Arsace) è dotato di un timbro seducente e di una valida padronanza tecnica. Il contralto Margherita Maria Sala (Astiage) fornisce un’ottima prova vocale e scenica nel ruolo antagonistico en travesti, sapendo risaltare anche nel registro grave e dando sempre senso alla parola cantata. Si sono mostrati validi e appropriati sia il tenore Giuseppe Valentino Buzza (Arpago) dal timbro caldo e pastoso, che il baritono Christian Senn (Mitridate) dalla voce ben calibrata e risonante al servizio di un accurato fraseggio. Sono da evidenziare anche le performance del soprano Anita Giovanna Rosati (Erenia) e del mezzosoprano Mathilde Legrand (Sandane), entrambe convincenti per le loro vocalità interessanti e la bella presenza scenica. Tutti e sette i cantanti, coesi fra loro nel ridare vita a quest’opera, hanno affrontato consapevolmente le proprie parti, mostrando perizia tecnica nelle agilità e nei passaggi virtuosistici. Al termine della prima, il pubblico ha applaudito calorosamente il cast vocale (soprattutto Margherita Maria Sala, Christian Senn e Rémy Brès Feuillet) e la direttrice Chiara Cattani con la sua Orchestra barocca, mostrando apprezzamenti unanimi anche per la regia e l’allestimento. Un bel successo per il repertorio barocco, che il Teatro del Maggio e il Sovrintendente Carlo Fuortes presente in sala hanno dimostrato ancora una volta di avere a cuore.
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma, basato sul libretto di Eugène Scribe per l’opera di Daniel Auber “Gustave III, ou Le bal masqué”
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo VINCENZO COSTANZO
Renato ERNESTO PETTI
Amelia OKSANA DYKA
Ulrica ELIZABETH DESHONG
Oscar CASSANDRE BERTHON
Silvano MAURIZIO BOVE
Samuel ROMANO DAL ZOVO
Tom ADRIANO GRAMIGNI
Un Giudice / Un servo d’Amelia MASSIMO SIRIGU
Orchestra, Coro e Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia e Luci Massimo Pizzi Gasparon Contarini
Scene e Costumi Pierluigi Samaritani e Massimo Pizzi Gasparon Contarini
Direttore della Scuola di Ballo Clotilde Vayer
Coreografia Gino Potente
Produzione del Teatro Regio di Parma
Napoli, 5 ottobre 2025
Al Teatro San Carlo, va in scena Un ballo in maschera in un celebre e storico allestimento, quello di Pierluigi Samaritani, ravvivato da modificazioni apportate da Massimo Pizzi Gasparon Contarini, regista-scenografo-costumista e ideatore delle luci. Questo riallestimento reca in sé un raffinato e particolareggiante «estetismo», che riesce ad assumere, anche grazie alle modificazioni apportate, un’ulteriore importanza drammatica. Il carattere marcatamente «pittorico», che lo caratterizza, conferisce al melodramma un’atmosfera favolisticamente tragica. La risoluzione visiva del dramma avviene, pertanto, attraverso un impianto scenografico costituito da fondali di carattere pittorico-architettonico. Ed ecco: la «sala nel palazzo del Governatore» di Boston, il conte Riccardo, determinata da un elegante scalone; «l’abituro dell’indovina», Ulrica, trasformato in un antro stregonico, teatro di un momento danzato di carattere «orgiastico»; il «campo solitario», trasformato in un suggestivo camposanto; l’«abitazione di Renato», determinata da un gruppetto di oggetti posto al centro della scena: una baroccheggiante «natura morta»; il «gabinetto del Conte» e la «sala da ballo»: scene formalmente rispettose della struttura librettistica – cosa sottolineata, peraltro, dal regista medesimo in uno scritto, inserito nel programma di sala –, e accuratamente illuminate. Il ventaglio cromatico dei costumi, di Samaritani e Pizzi Gasparon Contarini, riesce ad assumere anche un’essenziale funzione scenografica. Il disegno registico è caratterizzato da una poetica eleganza, che accarezza e sollecita l’occhio dello spettatore-melomane: un disegno di regia felicemente «tradizionale», anche determinato da momenti di danza collettiva (ottimi gli allievi della Scuola di Ballo del San Carlo, diretta da Clotilde Vayer, nell’eseguire le eleganti coreografie di Gino Potente). Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Pinchas Steinberg. Egli offre una lettura avveduta e ponderata dell’opera verdiana; una lettura appagante, al servizio delle necessità drammaturgiche delle vicende sceniche: il risultato che ne consegue è un vasto e modernissimo affresco narrativo-musicale, ottenuto attraverso un attento controllo dei vari elementi che compongono strutturalmente il melodramma: un «gioco dei contrasti», come ottimamente scriveva Pierluigi Petrobelli in riferimento all’opera, qui perfettamente ravvisabile. Gli strumenti a fiato riescono ad assumere quella funzione drammatica assegnatagli dal compositore; come non ricordare, inoltre, la commovente bellezza del Preludio dell’atto primo e la validità del dialogo attori-cantanti e tessuto orchestrale. A interpretare Riccardo è Vincenzo Costanzo. Il tenore garantisce al Conte un opportuno atteggiamento teatrale: una fascinosa nonchalance di Governatore e un comportamento scenico di innamorato perfetto consentono all’attore-cantante di ritrarre opportunamente il personaggio – garantendogli, altresì: ottima padronanza del registro acuto; morbidezza del colore vocale; ricchezza di fraseggio, pregno di affettività e sempre attentamente governato. L’appropriata condotta dell’elegante linea di canto è, inoltre, ravvisabile in ogni momento del ruolo: dalla Sortita «La rivedrà nell’estasi» alla Canzone «Di’ tu se fedele / il flutto m’aspetta», nell’atto primo. «È scherzo od è follia», nel Quintetto dell’atto primo, viene correttamente affrontato. Nel ruolo di Amelia, Oksana Dyka. L’interpretazione del soprano appare, purtroppo, compromessa da una gestione non perfetta dello strumento vocale, e ciò – pertanto – non le consente di proporre una caratterizzazione effettivamente drammatica del personaggio: le zone acute della scrittura vocale sono interessate da suoni fissi, un po’ opachi e striduli – e il registro grave avrebbe necessitato di maggior saldezza. I momenti di intimistico tormento interiore – come «Consentimi, o Signore», nel Terzetto dell’atto primo o come l’Aria, nell’atto secondo, «Ma dall’arido stelo divulsa» – avrebbero necessitato di maggior partecipazione emotiva. Le cose vanno un po’ meglio quando l’attrice-cantante deve affrontare il Duetto, nell’atto secondo, con il Conte, «Non sai tu che se l’anima mia». Occorre precisare, però: sono ravvisabili un appropriato comportamento scenico e una certa espressività di fraseggio – che, dopotutto, consentono al soprano la risoluzione del ruolo; risoluzione che ha ricevuto qualche «buu». Renato è interpretato da Ernesto Petti. Avevamo apprezzato, qualche mese fa – sempre al San Carlo, ma in Attila –, le notevoli qualità attoriali e vocali del baritono, che, nel ruolo del segretario del Conte e dello sposo di Amelia, conferma di essere un ottimo interprete verdiano; propone un’interpretazione caratterizzata da: gradevolezza del colore timbrico e precisione nel fraseggio, che – all’occorrenza – conosce anche momenti di marcata, ma appropriata, espressività. I sentimenti del segretario devoto e del consorte rancoroso sono, per esempio, ravvisabili nell’atto primo, nel Cantabile «Alla vita che t’arride», e nell’atto terzo, nell’Aria «Eri tu che macchiavi quell’anima», la cui interpretazione è caratterizzata anche da profonda, disperata, nostalgica introspezione. Emergono, inoltre, un ottimo dominio della tessitura acuta e un drammatico atteggiamento scenico. Nel ruolo di Ulrica, Elizabeth DeShong. Il mezzosoprano garantisce all’indovina una vocalità scurissima e profonda, che le consente di poter contribuire alla determinazione della tetra atmosfera entro cui il suo «Re dell’abisso, affrettati» è fatalmente innestato. Cassandre Berthon interpreta, invece, Oscar e offre un ottimo ritratto del paggio: con un’opportuna condotta vocale e con un parimenti opportuno atteggiamento scenico, affronta agilmente le pagine del ruolo – come «Volta la terrea / fronte alle stelle», la Ballata nell’atto primo, e «Saper vorreste», la Canzone nell’atto terzo. Completano appropriatamente il cast: Romano Dal Zovo e Adriano Gramigni, che affrontano con estrema correttezza i rispettivi ruoli di Samuel e Tom, nemici del Conte; Maurizio Bove (Silvano), Massimo Sirigu (Un Giudice / Un Servo d’Amelia). Ottimo anche il Coro, opportunatamente preparato da Fabrizio Cassi. Pubblico numerosissimo per quest’interessante allestimento del Ballo verdiano. Foto Luciano Romano
MOISAI 2025 – IV edizione
NERONE: autoritratto con figure
Regia e ideazione Fabrizio Arcuri
Testo Fabrizio Sinisi
Con Gabriel Montesi, Iaia Forte
Contralto Maurizio Aloisio Rippa
Attori e attrici della Stap Brancaccio Beatrice Buscemi, Chiara Brunetti, Chiara Liotta, Emilio De Rosa, Federica Petti, Flavia Lucangeli, Flavia Tomassini, Francesca Puorto, Leonardo Pocaterra, Ginevra Ceccherini, Margherita Bigazzi, Viola Dini, Leonardo Fantini, Giorgio Munaco, Giuseppe Franchina, Samuele Sabbatini, Matteo Gizzi, Nicolò Nitto, Amedeo Distilo
Compagnia di Danza e Circo Contemporaneo Claudio e Paolo Ladisa
Coreografie: danzatrici dell’Accademia Nazionale di Danza, Greta Celegon, Sara Parisi
Musiche dal vivo Ensemble musicale Santa Maria di Corte (arpa, flauto, violoncello)
Produzione: PAV
progetto a cura del Parco archeologico del Colosseo
Roma, 10 ottobre 2025
Μουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ’ ἀείδειν,
αἵ τ’ Ἑλικῶνος ἔχουσιν ὄρος μέγα τε ζάθεόν τε,
καί τε περὶ κρήνην ἰοειδέα πόσσ’ ἁπαλοῖσιν ὀρχεῦνται.
“Dalle Muse dell’Elicona cominciamo a cantare,
che abitano il grande e sacro monte
e danzano attorno alla fonte dal viola riflesso con piedi leggeri.” (Esiodo – Teogonia, vv. 1–3)
C’era un tempo in cui l’uomo cercava la luce non per essere visto, ma per scoprire fin dove potesse spingersi l’ombra. È di questo tempo che parla Moisai 2025. Nerone: autoritratto con figure, e forse di tutti i tempi. Nelle profondità della Domus Aurea, dove la pietra trattiene la memoria come una lingua dimenticata, Fabrizio Arcuri e Fabrizio Sinisi costruiscono un teatro che non rappresenta ma rivela. Un’esperienza in cui parola, corpo e suono si fondono, restituendo al mito la sua dimensione più autentica: quella della conoscenza, che ferisce e illumina insieme. La regia di Fabrizio Arcuri respira con l’architettura, la asseconda, la lascia parlare. La luce entra come un pensiero, il buio la trattiene come un dubbio. Ogni gesto è calibrato, ma mai rigido: il teatro si muove con la grazia della scoperta, non con la sicurezza della messa in scena. La Domus Aurea non è sfondo, ma organismo. Le sue pareti umide diventano pelle, la volta si fa respiro, l’eco trasforma ogni parola in preghiera. Gabriel Montesi, nel ruolo di Lucio/Nerone, ne incarna la febbre. Non interpreta un imperatore, ma una coscienza in bilico tra il desiderio e la colpa. L’ attore dà voce a un Nerone intimo, attraversato da visioni e contraddizioni: non l’uomo del potere, ma l’artista che crea e distrugge per esistere. È un personaggio che abita la luce come un campo minato. Ogni volta che la raggiunge, la luce lo acceca; e lui, per sopravvivere, deve bruciare ciò che ama. La sua distruzione diventa così un passaggio necessario e catartico: un modo per rigenerare la verità nella cenere della bellezza. Accanto a lui, Iaia Forte interpreta Agrippina Minore, madre e Musa, archetipo del principio femminile che genera e riconcilia. È la voce della memoria, il respiro che cura. L’attrice dà corpo a un personaggio che è insieme madre e coscienza, presenza terrena e forza cosmica. Ogni sua parola scende nel profondo come una radice, ogni sguardo accende un dubbio o una grazia. È lei a ricordare a Nerone – e a noi – che non c’è creazione senza ferita, né luce che non nasca dal buio. In questa dialettica si muove l’intero impianto di Moisai. Non esiste un’unica lettura temporale: il passato e il presente si sovrappongono, si toccano e si confondono, sia nei dialoghi sia nelle espressioni dei corpi. L’antico parla la lingua dell’oggi, e il contemporaneo restituisce voce al mito. Così il tempo smette di essere linea e diventa spirale. È questo continuo intreccio tra memoria e attualità che rende lo spettacolo universale e perennemente eterno. Nella Domus, tutto esiste contemporaneamente: Roma imperiale e l’oggi, Nerone e noi, la colpa e la rinascita. La musica, affidata all’Ensemble Santa Maria di Corte, accompagna con discrezione, tesse un tessuto sonoro che vibra come un cuore antico. Il canto del contralto Maurizio Rippa si leva come un’invocazione sottile, ma a tratti penalizzato dai microfoni: l’acustica della Domus chiede contenimento, non espansione, suggerisce l’ascolto più che la proiezione. È uno spazio che assorbe, che inghiotte, e che costringe gli interpreti a un equilibrio difficile tra intensità e misura. Le danzatrici dell’Accademia Nazionale di Danza e i performer aerei dei fratelli Ladisa completano la partitura visiva. Moisai è un viaggio dentro la mente di un artista e dentro l’anima di un luogo, un’indagine sul desiderio di luce che abita ogni creazione e ogni distruzione. Non mancano imperfezioni — un ritmo a tratti dilatato, una parola che talvolta rischia l’eccesso poetico, o una linea musicale che avrebbe potuto osare il silenzio anziché la proiezione. Ma sono fratture necessarie, perché la bellezza non è mai liscia: vive nelle crepe e Moisai guarisce perché non pretende di essere armonioso. È un teatro che accetta il disordine, che si sporca di vita, che mette a nudo il pensiero prima che la forma. Quando lo spettacolo termina, la Domus Aurea resta immobile, come in ascolto. Un tempo tempio della luce, oggi vive sepolta, ma continua a emanare un chiarore che viene dalla memoria più che dal sole. Per un attimo nessuno applaude. Il silenzio pesa, poi si scioglie in un applauso lento, misurato, come se il pubblico avesse bisogno di rispettare ciò che ha appena attraversato. È un gesto discreto, ma pieno: la consapevolezza che Moisai non si chiude davvero — resta lì, sotto terra, vivo come la sua antica luce.
Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia – Ninfeo
THE ETERNAL DUALITY
Personale di Keita Miyazaki
A cura di Pier Paolo Scelsi
co-curatela di Ilaria Cera (CREA)
direzione artistica di Riccardo Freddo (Rosenfeld Gallery)
Con il coordinamento di IUVART – LoveItaly e il supporto di John Cabot University
Roma, 10 ottobre 2025
L’acqua non è mai solo materia. È psiche liquida, inconscio che scorre e affiora. Porta con sé memorie invisibili, trascina ferite e promesse, si insinua nelle crepe del tempo come un pensiero che non smettiamo di ripetere. Nell’acqua convivono il desiderio di cancellare e la necessità di conservare: è oblio e ricordo, lavacro e specchio. Quando si infrange contro i muri di un Ninfeo rinascimentale, diventa simbolo di commistione: tra corpo e anima, tra passato e presente, tra ciò che è stato distrutto e ciò che può rinascere. È in questo spazio interiore, prima ancora che architettonico, che si colloca la mostra di Keita Miyazaki, The Eternal Duality – Là dove scorre l’acqua, tra storia e rinascita, ospitata dal 10 ottobre al 2 novembre 2025 al Ninfeo di Villa Giulia. Un luogo che ha conosciuto l’abbandono e oggi torna a vivere, aprendosi a un dialogo con l’arte contemporanea. Miyazaki, nato a Tokyo nel 1983 e diviso tra Giappone e Regno Unito, ha imparato presto che la bellezza può nascere dal trauma. Lo tsunami del 2011 lo ha reso testimone di una natura che distrugge e rigenera, lasciando macerie ma anche possibilità. Da quell’esperienza, la sua ricerca artistica si è fatta radicale: non narrare la catastrofe, ma trasformarla in gesto poetico. Le sue opere sono corpi ibridi che non temono la contraddizione. A tecnica mista, costruite con scarti di motori d’auto saldati tra loro e combinati con origami di carta, queste sculture monumentali raccontano i contrasti della vita contemporanea. La durezza del metallo incontra la fragilità della carta, l’inerzia industriale si fonde con la precisione fragile del gesto manuale. È una lingua che non cerca armonia apparente, ma accetta lo stridore come parte della verità. In queste opere non c’è silenzio: c’è rumore. Miyazaki inserisce suoni nelle sue sculture, melodie urbane che rimandano a jingle di supermercati e a segnali delle metropolitane giapponesi. Non è un vezzo, ma un atto politico: portare dentro le sale museali ciò che appartiene agli spazi pubblici, rendendo udibile la vita che di solito resta fuori. Così le grandi sculture fanno riecheggiare all’interno delle Gallerie i suoni quotidiani, creando un cortocircuito che obbliga chi guarda a ricordare che l’arte non è mai separata dalla realtà. Il Ninfeo di Villa Giulia, appena restaurato, è il complice perfetto di questo incontro. Non solo spazio espositivo, ma organismo che dialoga. I marmi, i mosaici, le architetture rinascimentali non si limitano a fare da cornice, ma rispondono alle opere, accogliendo la contraddizione tra passato e contemporaneo. È un dialogo che non cancella nulla: il Cinquecento italiano con le sue fontane e la sua monumentalità convive con le sculture post-industriali di Miyazaki, e da questa convivenza nasce un nuovo racconto. La mostra, curata da Pier Paolo Scelsi e co-curata da Ilaria Cera, con la direzione artistica di Riccardo Freddo e il supporto di IUVART – LoveItaly, CREA e Rosenfeld Gallery, non è soltanto esposizione ma progetto condiviso. È la dimostrazione che il patrimonio culturale può vivere non solo nella tutela, ma nella metamorfosi, aprendosi a linguaggi capaci di parlare al presente. Miyazaki stesso è il testimone di questa trasformazione. Vincitore del premio speciale di CREA OPEN 2025, scelto tra oltre 4.000 artisti di 104 paesi, ha dimostrato che il suo linguaggio, pur radicato nella materia del nostro tempo, sa dialogare con luoghi di memoria. Le sue sculture diventano così non solo opere da contemplare, ma dispositivi di pensiero, strumenti per interrogare la nostra idea di bellezza e di rovina. C’è un’intimità inattesa nelle sue forme monumentali. Dietro l’impatto dei materiali industriali si nasconde la delicatezza di un gesto umano: piegare un foglio di carta, cucire un tessuto, saldare un frammento metallico. Ogni scultura porta con sé la memoria del lavoro manuale, come se dicesse sottovoce che anche il mondo più tecnologico non può prescindere dal tocco fragile dell’uomo. Il Ninfeo diventa allora il luogo simbolico di un dialogo tra acqua e ferro, tra suono e silenzio, tra l’antico e il contemporaneo. Non c’è invasione, ma comunione: il patrimonio si lascia contaminare, e proprio per questo sopravvive. È il segno che la bellezza non vive di isolamento, ma di incontro. The Eternal Duality – Là dove scorre l’acqua non è soltanto il titolo di una mostra, ma una dichiarazione di poetica. Ci ricorda che la vita non è mai pacificata, ma sempre duale. Che nell’acqua, come nella psiche, convivono il desiderio di cancellare e la forza di rinascere. Che nelle rovine della modernità è ancora possibile trovare i semi di un’estetica nuova, capace di riconciliare i nostri opposti senza eliminarli. E forse è proprio questa la lezione più intima che Miyazaki ci offre: accettare che siamo fatti di fragilità e resistenza, di metallo e carta, di rumore e silenzio. Come l’acqua, che scorre senza mai fermarsi, custodendo in sé la memoria e la promessa di ogni rinascita.
Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione 2025-2026
“DON GIOVANNI” ossia Il dissoluto punito KV 527
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni SIMONE ALBERGHINI
Donna Anna DESIRÉE RANCATORE
Don Ottavio IAN KOZIARA
Il Commendatore MATTIA DENTI
Donna Elvira JENNIFER HOLLOWAY
Leporello GIULIO MASTROTOTARO
Masetto ALEX MARTINI
Zerlina CHIARA MARIA FIORANI
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice di Genova
Direttore Constantin Trinks Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto ripresa da Elisabetta Acella
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Fabio Barettin
Allestimento della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia.
Genova, 5 ottobre 2025
Il Don Giovanni che ha inaugurato la stagione del Carlo Felice non è, come da titolo, Il dissoluto punito ma piuttosto Il Dissoluto (e anche più) sterminatore. Tutte le sue e i suoi compagni di percorso, Dissoluti, e pure no, vengono, nel finale, inopinatamente atterrati dalla sua mano. Che significhi tutto ciò, a fronte di un’accoppiata testo-note già nata perfetta, forse l’avrà saputo il Damiano Michieletto che ha forzato questo ed altri deragliamenti dalla via tracciata dalla ineffabile accoppiata Da Ponte – Mozart. Fu “La Fenice” veneziana, nel 2010, a commissionare al concittadino, promettente genio innovatore delle scene, lo spettacolo e lo ripropose sul suo palco, quasi annualmente, fino al maggio del 2024. Al Carlo Felice la continuità registica è stata assicurata dalla ripresa, ma così fu anche nell’ultima comparsa veneziana, di Elisabetta Acella. Le prestigiose premiazioni accordate allo spettacolo non gli hanno comunque risparmiato giudizi più cauti e meno favorevoli. Troppe le intemperanze e le ambiguità. “Or sai chi l’onore…” Anna fa la capitale confessione a Ottavio che qui, inopinatamente, viene sostituito da Giovanni. Allo stesso modo il “Vedrai carino” di Zerlina prevede al suo lato il bastonato Masetto e non il bastonatore Giovanni. Il “Là ci darem la mano” mal sopporta che l’impegno amoroso degli imminenti fornicatori sia scambiato da camere separate. E così altre decine di situazioni, affogate in un buio persistente che mescola e confonde i personaggi. Può essere che questa fosse proprio l’intenzione ultima della regia, promossa e coadiuvata dal virtuosismo tecnico delle scene, sempre superlative, di Paolo Fantin e dalle sconvolgenti luci di Fabio Barettin. Si crea infatti, sull’ossessiva tappezzeria, l’ulteriore dramma delle ombre incombenti e minacciose dei protagonisti, siamo immersi nell’espressionismo alla Murnau. I costumi di Carla Teti, di artefatto anonimato, calzano con la rinuncia al rococò e con la penalizzazione dei personaggi. A risollevare le sorti dei protagonisti non contribuisce il complessivo grigiore musicale. Constantin Trinks mostra le doti tipiche del kapellmeister: determinazione e sicurezza nel condurre, sono efficacissime nei due grandi concertati finali, dove più prepotente è la necessità di una tecnica consumata. Nel corso del dramma giocoso, sicuramente per l’invadenza confusa della scena, la prestazione della pur ottima Orchestra del Carlo Felice, tende ad appiattirsi sfuocata in un accompagnamento passivo, rinunciando così a porsi da coprotagonista. La stessa sinfonia manca dell’incisività graffiante che condiziona perentoriamente il carattere delle vicende in divenire. Così pure i numerosissimi e capitali recitativi, che Trinks accompagna dal fortepiano, si mostrano claudicanti per come sono lasciati all’estro e alla sensibilità individuale degli attori, sostanzialmente mancanti di una regia che gli dia un carattere unificante. Simone Alberghini è l’ottimo protagonista. La regia, che non gli concede requie, gli nega distinti spazi individuali e lo spinge a confondersi tra gli altri, altrettanto confusi, impedendogli così di mettere in risalto l’ottima tecnica vocale e il timbro accattivante. Desirée Rancatore fa valere il suo virtuosismo, pur scontando un peso vocale poco adatto alla carica drammatica che si suole associare ad Anna. Il timbro e il carattere, gentilmente sopranili, parrebbero più consoni alla leggerezza di Elvira che non alle rigidezze di Anna. Per Jennifer Holloway, Elvira, l’opera di Mozart non pare assolutamente idiomatica: ha voce e timbro da walkiria e poco sa piegarsi alle esigenze dell’opera italiana; tende a spianare i gruppetti e a dribblare le difficoltà di scrittura. Il legato non è nelle sue corde e la sua Elvira suona come una feroce e fredda virago. Il tenore americano Ian Koziara colpisce per il fascinoso timbro baritonale. Non è comunque un baritenore, gli sono carenti tecnica ed estensione, sia sopra che sotto il rigo. I centri sono comunque fascinosamente timbrati e lo candidano ad essere un buon Idomeneo. Le sue due arie sono state le più applaudite, in una recita che dagli applausi non è stata sommersa. Il Leporello di Giulio Mastrototaro, pur soffrendo anch’egli della confusione dei ruoli che caratterizza lo spettacolo, emerge per prestanza scenica e per caratterizzazione di linguaggio e di carattere. Volgare quanto basta per essere un servo, snocciola con sprezzante disinvoltura un catalogo che la regia vuole essere una collezione di schede personali in valigia di cartone. Malamente si unisce a Giovanni nella distopica e sconcertante cena/orgia del finale. Chiara Maria Fiorani è una bravissima e vivace Zerlina che, benché costretta a un “là ci darem la mano” in camere separate e a consolare dalle percosse subite non il suo Masetto, ma l’ubiquo e inopportuno Giovanni, ha saputo farsi apprezzare come squisita e fascinosa vocalista. Alex Martini è il suo Masetto, aitante baritono dalla buona prestazione sia scenica che vocale. A Mattia Denti il disbrigo del difficile, con Michieletto, ruolo del Commendatore. Se la musica fa sentire il cozzar di spade, gli si impone di morir per bastonate, come se due nobili di Spagna potessero sfogarsi alla pari dei villani, compari di Masetto. Da morto, interviene poi in scena, muto, nel corso della festa mascherata della chiusa del primo atto. Non riveste mai i panni della statua funeraria ma sostiene dignitosamente, con voce non tonitruante, le minacce tempestose del finale. Il coro del Carlo Felice, retto da Claudio Marino Moretti, non ha, nel corso dell’opera, un grande impegno da sostenere, ma quanto ha da cantare lo porta ottimamente a compimento. Sala pienissima, Entusiasmo moderato. Foto Marcello Orselli
Roma, Villa Medici
LUOGHI SACRI CONDIVISI. Viaggio tra le religioni
a cura di Dionigi Albera, Raphaël Bories e Manoël Pénicaud
ideata e prodotta dall’ Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, dal MuCEM – Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée e dall’ Ambasciata di Francia presso la Santa Sede – i Pii Stabilimenti Francesi a Roma e a Loreto
Roma, 08 ottobre 2025
Il sacro nasce dove l’uomo si ferma, tace e riconosce un limite. È il confine che separa e insieme collega la terra e il cielo, l’umano e il divino. “Il sacro non è un luogo, ma una qualità della presenza”, scriveva Mircea Eliade, ricordando che ciò che chiamiamo sacro non appartiene alle cose, ma allo sguardo che le investe. È lo sguardo che trasfigura, che distingue, che fa del mondo un tempio. Ma se il sacro separa, la condivisione riunisce. E nel gesto di condividere — cum-dividere, spartire insieme — si nasconde forse il più profondo atto di fede dell’umanità: quello di credere che ciò che è divino possa essere esperito da tutti. È in questa dialettica che si inscrive la mostra Luoghi Sacri Condivisi, allestita all’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici dal 9 ottobre 2025 al 19 gennaio 2026, nel quadro del Giubileo. Un titolo che è già una sfida: due parole che si respingono si trovano qui a convivere, come due note dissonanti che, suonate insieme, generano una nuova armonia. L’esposizione, curata da Dionigi Albera, Raphaël Bories e Manoël Pénicaud, è ideata e prodotta dall’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, dal MuCEM – Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée e dall’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede – i Pii Stabilimenti Francesi a Roma e a Loreto. Per la prima volta, i Musei Vaticani, i principali musei francesi e le istituzioni italiane si uniscono in un unico progetto: un evento che, ancor prima di essere artistico, è politico nel senso più alto del termine, cioè comunitario. Villa Medici, con la sua doppia anima – francese per nascita, romana per destino – si presta naturalmente a questo esperimento di incontro. L’allestimento non impone percorsi obbligati ma suggerisce movimenti, respiri, sguardi. Le opere, oltre cento, si dispongono come tappe di un pellegrinaggio mentale, attraversando sette “paesaggi del sacro”: la città, il mare, il giardino, la montagna, la grotta, gli oggetti erranti e le architetture. È un viaggio non solo estetico ma spirituale, che spinge il visitatore a una lenta discesa dentro se stesso, come in una topografia dell’anima. E in questo pellegrinaggio, il Mediterraneo non è più una geografia ma una condizione dello spirito. È il mare che bagna le fedi, le confonde e le fa respirare insieme. È il luogo dove San Giorgio diventa Al-Khidr, dove la Vergine è venerata da cristiani e musulmani, dove il pellegrinaggio è sempre una traversata e la preghiera ha sempre il suono del vento. Qui il sacro si mescola, non per confondersi ma per ricordarci che il divino non ha passaporto. Lungo le sale della Villa, il tempo sembra sospendersi. Le opere di Gentile da Fabriano, Chagall e Le Corbusier dialogano con i linguaggi contemporanei di Dana Awartani, Rachid Koraïchi e Benji Boyadgian. Non c’è successione, ma simultaneità: le epoche convivono, come convivono le fedi. Le icone si fanno specchi, le architetture si dissolvono in luce, i simboli si contaminano come in un respiro collettivo. La mostra non cerca un racconto ma un’esperienza. Non dice cosa sia il sacro, ma ne evoca la presenza. E allora si comprende che il sacro, per esistere, ha bisogno di essere condiviso. Non come atto di appropriazione, ma come gesto di comunione. È la donna che accende una candela in un santuario che non le appartiene, l’uomo che si inginocchia davanti a una tomba venerata da un’altra fede, il pellegrino che attraversa un confine per chiedere una grazia. È l’arte stessa, che da sempre vive di prestiti, di contaminazioni, di traduzioni. Il sacro condiviso è una forma di resistenza alla chiusura: è la memoria dell’altro che sopravvive in noi. Dionigi Albera e i suoi co-curatori costruiscono un dispositivo che si colloca tra l’antropologia e la poesia visiva. Nulla è illustrativo, nulla è didascalico. La mostra procede per analogie, come un racconto che si srotola in una lingua senza grammatica. È il linguaggio del simbolo, che non spiega ma rivela. In questo senso, Luoghi Sacri Condivisi si colloca nel solco delle grandi mostre “pensanti”, quelle che non offrono risposte ma generano domande. L’arte, in questa prospettiva, torna a essere ciò che era all’origine: un ponte fra visibile e invisibile, fra uomo e mistero. E Villa Medici, con la sua architettura rinascimentale e la sua vocazione alla mediazione, diventa il luogo ideale per ospitare questa riflessione. Sul piano teorico, il progetto si iscrive nel concetto di hierotopia – la creazione dello spazio sacro come atto estetico e spirituale – ma lo estende verso una dimensione relazionale. Qui il sacro non è più il risultato di un solo gesto creativo, ma la somma di gesti che si incontrano. È una hierotopia plurale, dove la convivenza non è compromesso ma nuova forma di trascendenza. In un’epoca segnata da chiusure identitarie, questa mostra propone un’idea rivoluzionaria nella sua semplicità: che la fede, per essere viva, deve aprirsi. Che il sacro, per restare tale, deve essere attraversato. E che forse l’unico modo di salvarlo è quello di offrirlo. È una lezione antica, eppure urgente: il sacro non teme la condivisione, la richiede. Perché, in fondo, il sacro è ciò che accade quando l’uomo riconosce nel volto dell’altro una traccia del divino. È un’esperienza di rivelazione reciproca, un istante di comunione che l’arte può ancora restituire. In questo senso, Luoghi Sacri Condivisi non è solo un’esposizione, ma un atto di riconciliazione estetica. È la dimostrazione che l’arte può ancora essere uno spazio di incontro fra civiltà, un terreno dove il mistero si fa comune. E che Roma, città di soglie e di eredità, resta il luogo più adatto per ricordarci che il sacro, per continuare a esistere, deve continuamente tornare fra gli uomini.
Dopo il successo delle recite de Les pêcheurs de perles, la stagione autunnale del Maggio Musicale Fiorentino mette in programma da domenica 12 ottobre 2025 alle ore 17 Macbeth, il capolavoro di Giuseppe Verdi tratto dall’omonima tragedia di William Shakespeare.
Altre tre le recite previste in cartellone: il 14 e il 17 ottobre alle ore 20 e il 19 ottobre alle ore 15:30.
Questa messa in scena è la 21esima del titolo a Firenze, la cui storia inizia con la Città, al Teatro della Pergola, il 14 marzo del 1847 dove fu eseguita per la prima volta in assoluto. Al Comunale la prima rappresentazione è del maggio 1951 con Vittorio Gui sul podio, alla quale ne seguono altre sei programmazioni del titolo: nel 1969, nel 1975, nel 1995, nel 2002, nel 2013, e l’ultima – in forma di concerto – al Teatro del Maggio Fiorentino, diretta da Riccardo Muti nel 2018.
Sul podio della Sala Grande del Teatro il maestro Alexander Soddy, che torna alla guida dell’Orchestra e del Coro del Maggio dopo le recite della Salome straussiana che ha inaugurato lo scorso 87esimo Festival del Maggio e che ha segnato suo il debutto fiorentino.
Lo spazio e la regia dello spettacolo sono curati da Mario Martone, le scene sono firmate da Mimmo Paladino che realizza per il Macbeth e per il Maggio, anche una vera opera d’arte: il maestoso, enorme sipario dipinto su legno ispirato all’affresco “Il Trionfo della morte” di palazzo Abattellis a Palermo.
Lo scenografo realizzatore è Barbara Bessi, i costumi sono di Ursula Patzak, luci e video sono di Pasquale Mari e Alessandro Papa è il video designer. La coreografia della messinscena è di Raffaella Giordano. Il maestro del Coro del Maggio è Lorenzo Fratini.
Il cast vocale è formato da Luca Salsi come Macbeth; Vanessa Goikoetxea come Lady Macbeth; Antonio Di Matteo nei panni di Banco, al suo debutto al Maggio e da Antonio Poli nella parte di Macduff. Elizaveta Shuvalova è la Dama di Lady Macbeth; Lorenzo Martelli interpreta Malcolm; Huigang Liu è Un medico; Egidio Massimo Naccarato è Un domestico e Lisandro Guinis è Un sicario mentre Dielli Hoxha e Nicolò Ayroldi sono rispettivamente Un araldo e la Prima apparizione.
Chiudono il cast come la Seconda Apparizione e la Terza Apparizione Aurora Spinelli e Caterina Pacchi. Qui per ulteriori informazioni. Manifesto © Gianluigi Toccafondo
Roma, Mercati di Traiano
1350. IL GIUBILEO SENZA PAPA
curata da Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor
promossa da Roma Capitale con la Sovrintendenza Capitolina
organizzata da Zètema Progetto Cultura
Roma, 08 ottobre 2025
Ogni città ha un momento in cui si ritrova sola con la propria storia. Per Roma, quel momento fu il 1350, quando il papa, lontano ad Avignone, lasciò l’Urbe a se stessa e la città, come un organismo rimasto senza cuore, scoprì di poter continuare a vivere grazie al respiro profondo delle sue pietre. In quell’anno si celebrò il secondo Giubileo della cristianità, un Anno Santo senza pontefice, che nonostante l’assenza della Curia e il peso delle pestilenze divenne un trionfo di fede e sopravvivenza civile. La mostra “1350. Il Giubileo senza papa”, ai Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali (9 ottobre 2025 – 1° febbraio 2026), curata da Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor, restituisce quella stagione sospesa, quando Roma, privata del proprio vertice, si fece corpo collettivo, anima diffusa, città che resiste e ricomincia. Visitare questa mostra significa attraversare un secolo lacerato e febbrile, in cui l’assenza del potere diventa strumento di conoscenza. Non si raccontano soltanto opere – statue, manoscritti, epigrafi, sigilli, reliquie – ma il processo con cui la città trasformò la mancanza in forza, l’esilio del papa in occasione di rifondazione. Ogni frammento è un sintomo, ogni reperto un pensiero sulla sopravvivenza. Il Medioevo romano vi appare non come un’epoca chiusa, ma come una condizione permanente: fragile, instabile, perennemente minacciata dalla rovina, ma sempre capace di rinascita. La figura di Bonifacio VIII, artefice del primo Giubileo del 1300, emerge come l’eco lontana di un’idea di universalità ormai in crisi. Nella Roma del Trecento, il suo nome sopravvive sulle misure per olio e vino, strumenti pubblici che rivelano l’intreccio fra autorità religiosa e amministrazione comunale. È il segno di una civiltà che unisce liturgia e commercio, fede e misura, corpo e spirito. In quell’intreccio si annida il genio romano: la capacità di tradurre la metafisica in sistema urbano. Quando il papato si trasferisce ad Avignone, portando con sé il centro del mondo cristiano, Roma rimane un guscio, ma un guscio che respira. Nel vuoto lasciato dal pontefice, la città si trasforma in reliquiario e laboratorio. La cattività avignonese (1309-1377) appare come una ferita aperta, ma anche come l’occasione per un atto di autonomia spirituale. Un modellino ligneo del Palais des Papes evoca la grandezza del potere trasferito, mentre un affresco con la Santissima Trinità, proveniente da una chiesa romana, mostra la fede che rimane: l’immagine di un popolo che, anche senza guida, continua a produrre segni di devozione. Roma non tace mai, ma mormora attraverso le sue mura. L’elezione di Clemente VI nel 1343 riaccende la tensione politica. Il Comune di Roma lo supplica di tornare e di anticipare il Giubileo: il papa concede la festa ma non il ritorno, stabilendo che si celebri ogni cinquant’anni. È un gesto ambiguo, a metà tra la grazia e il diniego, come se l’autorità volesse concedere il perdono senza condividere la presenza. Quel frammento d’epigrafe dedicato a Clemente VI, conservato da Santo Spirito in Sassia, non è soltanto un resto archeologico, ma il simbolo di una nostalgia del potere: una Roma che guarda verso Avignone come verso un sole distante. Ma il cielo del 1348 si oscurò. La Peste Nera falciò la popolazione, lasciando nella città un silenzio che la mostra traduce con la figura dell’Arcangelo Michele, in marmo, le ali spiegate e la spada levata. È l’immagine della salvezza che scende dal cielo quando la terra muore. Un anno dopo, un violento terremoto spezza le torri medievali e scuote le certezze della civiltà. Eppure Roma, come sempre, resiste: dalle sue macerie nasce un pensiero nuovo, in cui la rovina non è più fine ma origine. In questo orizzonte di instabilità, appare Cola di Rienzo, tribuno visionario che tenta di restituire alla città la gloria perduta. È un personaggio doppio: politico e profeta, ribelle e sognatore, emblema di un popolo che cerca nel passato la misura del futuro. La mostra ne restituisce il mito attraverso opere ottocentesche che più della cronaca rivelano la psiche collettiva del romano: il desiderio di autorità unito alla paura della libertà. Intorno a lui si dispiega il paesaggio mentale dei Mirabilia Urbis, le leggende che uniscono sacro e mito, dove il Petrarca e gli eruditi medievali descrivono una città che parla con i suoi frammenti. La Lastra dell’Aracoeli, raffigurante la visione di Augusto, diventa emblema di continuità: in quel rilievo, secondo la leggenda, il pagano vide il volto del Cristo venturo. La storia si piega alla profezia, e Roma sopravvive traducendo l’Antico nel linguaggio del sacro. Al centro del percorso non c’è il trionfo, ma la moltitudine dei pellegrini. Uomini e donne che attraversano l’Europa con il bordone e la bisaccia. Le loro insegne di piombo, oggi in mostra, sono l’archeologia della fede popolare, la traccia tangibile di un’umanità che viaggia verso Roma come verso se stessa. L’immagine della Veronica, il volto di Cristo impresso sul velo, diviene l’icona di questo bisogno: il sacro che si fa corpo, il mistero che si lascia toccare. Quando infine il papa torna nel 1377, guidato da Gregorio XI e Santa Caterina da Siena, Roma non è più la stessa. Ha conosciuto la solitudine, ha imparato a esistere senza centro, a riconoscersi nella propria disgregazione. La mostra si chiude su questo sentimento di ritorno e perdita, con l’immagine della giovane Jacopa dei Prefetti di Vico, sposa di Andrea Tomacelli, la cui sepoltura nei Musei Capitolini segna la fine di un’epoca. Dopo di lei, il Comune medievale scompare e la città rientra nell’orbita papale, ma il sogno di autonomia che fu del 1350 rimane impresso come un sigillo. Questa esposizione non restituisce soltanto reperti, ma la percezione di una città che ha fatto del vuoto il proprio centro. Roma, anche quando resta sola, non è mai deserta: custodisce nel silenzio la memoria di secoli e nel silenzio, come nel 1350, ritrova ogni volta la sua eternità.
Roma, Teatro Nazionale
TRAGUDIA – Il canto di Edipo
Liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito
Regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
Traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera
Con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino
Voci e canti Bruno de Franceschi
Roma, 07 ottobre 2025
C’è un silenzio che precede ogni parola, un’eco profonda che sembra provenire dalle viscere del tempo. È da quel silenzio che nasce Tragùdia – Il canto di Edipo, creazione totale di Alessandro Serra, che firma regia, scene, luci, costumi e suono, componendo un organismo teatrale di assoluta coerenza estetica. Il mito sofocleo, spogliato di ogni linearità narrativa, si trasforma in una partitura di gesti, luci e suoni: non più racconto, ma rito, non più rappresentazione, ma esperienza. Serra non mette in scena il mito: lo riattraversa, lo riduce all’osso, ne estrae la vibrazione prima del linguaggio. Sul palco, immersi in un paesaggio di cenere e di rovine, agiscono Leonardo Capuano, Chiara Michelini, Michele Maccagno, Francesco Cortese, Francesco Lanciotti e Giorgia Coco. Sono presenze, non personaggi: voci e corpi che abitano uno spazio sacro, frammenti di una coralità che restituisce al mito la sua dimensione collettiva. La loro parola non descrive, ma evoca. È pronunciata in grecanico, lingua di confine e di sopravvivenza, residuo sonoro della Magna Grecia rimasto nei villaggi dell’estremo Sud. Serra ne fa il cuore poetico dello spettacolo: non una curiosità linguistica, ma un gesto di resistenza. Il grecanico è una lingua che non si comprende ma si sente, che costringe all’ascolto, alla disponibilità sensoriale. In essa, la tragedia ritrova la propria sostanza acustica: non più parola, ma canto; non più significato, ma suono. Lo spazio scenico è spoglio, terroso, segnato da un’ossidazione che pare geologica. Non rappresenta Tebe, ma il suo relitto: un paesaggio mentale e insieme fisico, dove il tempo è collassato su se stesso. Blocchi, superfici screpolate, fenditure di luce che tagliano il buio come lame di memoria. I corpi si muovono con lentezza, immersi in un’atmosfera densa e sospesa, quasi di polvere in movimento. Tutto in Tragùdia si fonda su una drammaturgia della sottrazione: ciò che non è detto, ciò che si dissolve, vale più di ciò che appare. Le luci di Serra, più che illuminare, scavano. La scena non è un luogo, ma un respiro: uno spazio che esiste solo per scomparire. La coralità diventa la struttura drammatica dell’opera. Non c’è distinzione tra individuo e moltitudine: tutti sono Edipo, tutti sono la città cieca che lo ha generato. Il dolore non appartiene a un corpo solo, ma si distribuisce come una vibrazione che attraversa il gruppo. È una tragedia senza protagonista, dove la voce si fa comunità e il canto prende il posto del dialogo. Serra conduce il mito fino alla sua essenza rituale, restituendo alla scena la densità di un atto sacro. Il ritmo è lento, ipnotico, scandito da silenzi che pesano quanto le parole. Non esiste progressione, ma ritorno. La tragedia si ripete come un’invocazione ciclica, un respiro che si apre e si richiude su se stesso. Il canto, ora sussurrato ora percussivo, scandisce il tempo interiore dello spettacolo. La musica – non illustrativa, ma drammaturgica – si intreccia al suono delle voci, ai rumori del corpo, al fruscio della materia. Tutto partecipa di una stessa sostanza vibrante: parola, gesto e suono si fondono in un unico organismo scenico. E tuttavia, in tanta coerenza formale, si cela anche una tensione. L’assoluto rigore estetico di Serra può farsi ostacolo, la perfezione diventare distanza. L’esperienza sensoriale, pur di straordinaria intensità, rischia di sfiorare l’ermetismo. L’uso del grecanico, pur potentissimo come scelta poetica, crea una barriera percettiva: l’ascoltatore, immerso in un linguaggio che non comprende, oscilla tra fascinazione e smarrimento. L’incomprensibilità, che in principio genera mistero, può trasformarsi in chiusura. Il teatro, pur nella sua tensione sacrale, corre allora il rischio di perdere la propria immediatezza emotiva, sostituita da una contemplazione rarefatta. La bellezza visiva, indiscutibile, sfiora a tratti il manierismo. L’equilibrio millimetrico delle luci, la precisione dei movimenti, la costruzione quasi pittorica delle scene, tutto concorre a un’armonia che può divenire incantamento statico. L’immagine domina, ma non sempre ferisce. Si resta affascinati, non necessariamente turbati. Serra, nel tentativo di restituire al teatro la sua dimensione rituale, lo porta sul limite dell’astrazione assoluta: una forma di sacralità laica che commuove per rigore, ma che chiede un atto di fede per essere accolta. Eppure, è proprio in questo limite che Tragùdia trova la sua verità. La sua forza non risiede nell’accessibilità, ma nell’ostinazione con cui rifiuta ogni compromesso. È un teatro che non spiega, che non semplifica, che non concede sollievo. Ogni gesto è un frammento di conoscenza, ogni luce una domanda, ogni suono un’offerta. Serra sottrae fino all’osso, fino a quando la tragedia si riduce a respiro. Ciò che resta è l’essenza del mito: l’uomo di fronte alla propria cecità, la parola ridotta a invocazione, il corpo come misura del destino. Gli ottanta minuti senza intervallo si vivono come un unico flusso. Non esiste tempo esterno, ma solo un tempo interiore, dilatato, ciclico. Lo spettatore non “assiste”, ma attraversa. La comprensione razionale si dissolve, sostituita da un ascolto fisico, da una percezione che coinvolge i sensi più che l’intelletto. È un teatro che domanda, non risponde; che non chiede consenso, ma disponibilità. Tragùdia – Il canto di Edipo non si conclude: si sospende. Come il respiro di un rito interrotto, continua a vibrare oltre la scena. Serra restituisce al teatro la sua funzione più antica: non rappresentare, ma ricordare. La cecità di Edipo diventa la nostra, e il suo canto una possibilità di riscatto. La conoscenza, qui, non illumina ma brucia. E nel punto esatto in cui la parola si spegne, il teatro ritrova la sua verità: quella di un’arte che non spiega, non narra, ma canta per sopravvivere al silenzio.
Roma, Palazzo Bonaparte
“ALPHONSE MUCHA. UN TRIONFO DI BELLEZZA E SEDUZIONE”
A cura di Elizabeth Brooke e Annamaria Bava
Direzione scientifica Francesca Villanti
Promossa da Arthemisia in collaborazione con la Mucha Foundation e i Musei Reali di Torino
Roma, 07 ottobre 2025
La mostra “Alphonse Mucha. Un trionfo di bellezza e seduzione”, allestita a Palazzo Bonaparte a Roma, riunisce oltre centocinquanta opere tra manifesti, bozzetti, studi e dipinti del maestro ceco (Ivančice, 1860 – Praga, 1939), in un percorso che ambisce a ricomporre la complessità di una figura centrale per la cultura visiva europea tra fine Ottocento e primo Novecento. Promossa da Arthemisia in collaborazione con la Mucha Foundation e i Musei Reali di Torino, la rassegna — curata da Elizabeth Brooke e Annamaria Bava, con la direzione scientifica di Francesca Villanti — mira a restituire il ruolo di Mucha come interprete di un’estetica unitaria, in cui la decorazione è linguaggio e non semplice ornamento. Nel suo viaggio a Roma, intrapreso negli anni giovanili, Mucha non trovò la quiete che aveva cercato. Le fonti ricordano il suo disagio nel confronto con la città antica, che lo irritava per la troppa materia e la scarsa misura. Roma, con la sua densità di pietra e di storia, lo innervosiva: «tutto qui è eccesso», scriveva, «anche la luce». Forse fu proprio da quel contrasto che nacque la sua esigenza di ordine, la sua volontà di ridurre il mondo a ritmo, a segno, a costruzione. Nella sua opera la forma è un atto di controllo, la bellezza una disciplina. Nelle sale di Palazzo Bonaparte, questa concezione appare in tutta la sua chiarezza. I manifesti teatrali, i pannelli decorativi e le serie allegoriche rivelano un artista che concepisce la composizione come un sistema di forze: la linea curva che guida lo sguardo, la figura femminile che diventa centro ideale, il colore che non invade ma sostiene. L’armonia non è sentimento, è architettura. L’ornamento, lungi dall’essere un compiacimento, è struttura. I suoi celebri manifesti per Sarah Bernhardt — Gismonda, Médée, La Dame aux Camélias — rappresentano non solo l’incontro tra grafica e teatro, ma una ridefinizione del rapporto tra immagine e potere. La diva diventa icona, il volto si trasforma in simbolo, la pubblicità in liturgia. In queste opere, la modernità non è rottura, ma trasfigurazione. Il segno si fa ieratico, la linea si tende verso l’assoluto: tutto è disegnato per durare, non per stupire. A differenza di altri interpreti dell’Art Nouveau, Mucha non indulge nella grazia. La bellezza, per lui, è proporzione, non seduzione. Le sue figure non sorridono, non si concedono; si offrono come presenze che impongono distanza. Eppure, dietro quella compostezza si nasconde una sensualità profonda, fatta di ritmo e di respiro. L’armonia, nelle sue mani, diventa un modo per sublimare la materia. La mostra restituisce bene questo equilibrio, accompagnando il visitatore in un percorso che si muove dalla grafica teatrale alle grandi allegorie cosmiche — The Times of the Day, The Flowers, The Stars — fino ai dipinti dedicati all’Epopea slava, realizzati dopo il ritorno a Praga. È un viaggio dall’intimo al monumentale, dal piacere visivo all’impegno storico. Il linguaggio resta lo stesso: la linea come architettura dello spirito. A completare il percorso, una scelta che sorprende e convince: il dialogo con la Venere di Botticelli, prestito dei Musei Reali di Torino. L’accostamento, lungi dall’essere forzato, illumina la continuità dell’idea occidentale di grazia. Botticelli e Mucha, distanti quattro secoli, condividono lo stesso principio compositivo: la linea come misura, la bellezza come forma di ordine morale. L’uno sublima l’ideale umanistico, l’altro lo traduce nella lingua della modernità industriale. Tuttavia, se la costruzione intellettuale dell’esposizione è solida, l’allestimento resta fedele alla formula ormai riconoscibile delle mostre di Palazzo Bonaparte: ambienti quasi completamente bui, attraversati da fasci di luce diretti sulle opere, in modo da isolarle nello spazio e renderle oggetti di culto visivo. È una soluzione che funziona, che restituisce alle immagini la loro sacralità, ma la sua ripetizione comincia a mostrare i limiti di uno schema. La penombra costante, per quanto suggestiva, finisce per appiattire la percezione e impedire una lettura più naturale delle cromie e dei materiali. Forse, dopo tante esposizioni costruite su questo modello, un piccolo cambiamento scenografico — una variazione tonale, un dialogo più ampio con la luce — potrebbe restituire maggior respiro all’esperienza. Nonostante questo, l’allestimento accompagna con rispetto le opere e ne valorizza la forza grafica. La linearità dei percorsi, la chiarezza dei pannelli e la sobrietà dei cromatismi permettono di cogliere la coerenza del linguaggio di Mucha: un’arte che, pur nata per la strada, conserva il rigore della cattedrale. L’ornamento, in lui, non distrae: educa lo sguardo alla misura, all’armonia, alla calma. L’esposizione non si limita a esibire capolavori; mostra un metodo. La forma, in Mucha, è un pensiero che si ripete con variazioni infinite, come un tema musicale. Ogni manifesto, ogni allegoria, ogni volto femminile è parte di una grammatica che si fonda sulla linea, intesa non come contorno ma come idea. L’arabesco, spesso scambiato per decorazione, è invece costruzione concettuale: una rete che unisce spirito e materia. Questa chiarezza di visione rende Mucha un artista necessario, nonostante il suo apparente distacco dalle inquietudini del Novecento. In un’epoca di fratture, la sua fede nella forma suona quasi anacronistica, ma proprio per questo risulta preziosa. Egli mostra che la bellezza non è evasione, ma conoscenza: una via per ordinare il mondo e comprenderlo. Si esce dalla mostra con la sensazione di aver attraversato non solo un universo estetico, ma una teoria del vedere. In un tempo in cui l’immagine è consumo, Mucha restituisce alla visione la sua dignità: l’atto di guardare come esercizio di misura. La sua Roma, quella che lo aveva infastidito per troppa luce e troppa grandezza, lo ritrova ora in una penombra controllata, dove il segno e il silenzio tornano a coincidere. E forse è proprio questo il messaggio più attuale del maestro boemo: che la bellezza, se è tale, non deve gridare per essere ascoltata. Basta una linea, una curva perfettamente tracciata, perché il mondo ritrovi, anche solo per un istante, la propria forma.
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
RIAPRE IL PASSAGGIO DI COMMODO
Roma, 07 ottobre 2025
Sotto la grande arena del Colosseo, dove la folla acclamava e i gladiatori attendevano il loro destino, si celava un’altra Roma: più silenziosa, più solenne, più vicina al mistero del potere che alla sua esibizione. È la Roma dei sotterranei, delle vie coperte e dei passaggi segreti, quella che non si mostrava, ma che permetteva all’Imperatore di muoversi come un’ombra, senza essere visto. Tra questi luoghi, il cosiddetto Passaggio di Commodo rappresenta forse il più enigmatico. Oggi, dopo secoli di chiusura, il Parco archeologico del Colosseo lo riporta alla luce e alla fruizione del pubblico, restituendo un frammento dell’architettura imperiale nella sua duplice dimensione: funzionale e simbolica, scenica e sacra. Non si tratta di un semplice corridoio, ma di una vera galleria ipogea, scavata tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. per collegare il pulvinar — il palco riservato alle alte gerarchie — con l’esterno del monumento. L’intervento, diretto dalla dott.ssa Federica Rinaldi e dall’architetto Barbara Nazzaro, è durato un anno e ha coinvolto archeologi, architetti e restauratori in un lavoro di precisione, condotto tra la conservazione della materia e la restituzione dell’immaginario. Il corridoio non apparteneva al progetto originario dell’Anfiteatro Flavio. Fu aggiunto in seguito, probabilmente sotto Domiziano o Traiano, quando l’esigenza di isolare il percorso dell’Imperatore impose modifiche alle fondazioni. Si compone di tre bracci, due divergenti e uno centrale, coperto da una volta a botte e punteggiato da lucernari che assicuravano ventilazione e luce. All’uscita, il tracciato piega verso est, forse in direzione del Ludus Magnus, la palestra dei gladiatori, o del Celio, dove si trovavano i quartieri imperiali. L’associazione con Commodo (180-192 d.C.), figlio di Marco Aurelio, nasce dal racconto dello storico Cassio Dione (Historia Romana, LXXII, 4), che menziona un attentato contro l’imperatore in un “luogo tenebroso del Colosseo”. Un episodio tanto incerto quanto suggestivo, sufficiente però a imprimere al passaggio il nome di un sovrano ossessionato dal palcoscenico. Commodo, che amava combattere travestito da gladiatore, incarna l’ambiguità del potere romano: la distanza e l’esibizione, la divinità e la teatralità. Le pareti della galleria erano originariamente rivestite di lastre marmoree, fissate da grappe metalliche di cui restano ancora le impronte. In un secondo momento, il marmo fu sostituito da intonaci dipinti a fondo bianco, animati da figure e motivi vegetali. Sulla volta, stucchi figurati raccontavano episodi legati a Dioniso e Arianna, agli amori e alle fughe del mito. Nelle nicchie d’ingresso comparivano invece scene di cacce e combattimenti: orsi, cinghiali, acrobati, porte teatrali da cui emergevano animali. Tutto ciò che resta di quell’universo — frammenti, lacerti, ombre di figure — è stato oggetto di un restauro meticoloso, condotto con strumenti ottici e laser, che ha restituito non solo la superficie, ma la vibrazione del colore e del gesto. La nuova volta in acciaio corten, progettata dall’ingegnere Stefano Podestà, sostituisce la parte crollata senza tentare di mascherarsi. La sua struttura modulare, brunita e discreta, si dichiara contemporanea: un segno visibile della continuità temporale, una ferita risanata che non nasconde la cicatrice. È una soluzione che parla la lingua della verità: quella del restauro che non copia, ma accompagna. La luce, elemento essenziale del progetto, è stata affidata all’architetto Francesca Storaro, che ha scelto di non invadere l’oscurità, ma di dialogarvi. Piccoli fasci LED simulano l’effetto dei lucernari originari, rievocando la stessa luce filtrata che, duemila anni fa, guidava il cammino dell’Imperatore. La galleria non si illumina: respira. Le ombre si allungano, le superfici riflettono bagliori caldi, il visitatore procede su una passerella sospesa in acciaio e vetro, con la sensazione di attraversare una soglia viva tra visione e memoria. Fondamentale, nel disegno complessivo, è stata la riflessione sull’accessibilità. Con i fondi europei del PNRR – Cultura 4.0, il progetto ha integrato dispositivi di mediazione e inclusione: una scala retrattile che diventa piattaforma elevatrice consente di superare i sei gradini ottocenteschi che separavano la galleria dall’arena; una mappa tattile e un video digitale ricostruiscono i soggetti degli stucchi, permettendo un’esperienza multisensoriale. È una concezione del patrimonio che unisce la dimensione estetica a quella etica: la bellezza non è solo da custodire, ma da rendere accessibile. «L’apertura del Passaggio di Commodo — sottolinea Alfonsina Russo, direttrice del Parco archeologico del Colosseo — rappresenta un risultato straordinario, frutto di un lavoro che ha saputo coniugare ricerca, tutela e valorizzazione. È anche un segno concreto di come le risorse europee abbiano permesso di intervenire su un monumento simbolo dell’antichità introducendo soluzioni innovative e rispettose del contesto storico». Il restauro, completato con un anno di anticipo rispetto ai tempi stabiliti, anticipa il secondo cantiere previsto per il 2026, che riguarderà il tratto esterno della galleria. Attraverso una porta vetrata, i visitatori potranno osservare i restauratori al lavoro sugli intonaci e sugli stucchi, trasformando il cantiere in parte dell’esperienza. La cura diventa così spettacolo, la manutenzione conoscenza, la tecnica gesto poetico. Tutto nel Passaggio di Commodo sembra appartenere alla logica del teatro. L’oscurità e la luce, la distanza e la rivelazione, la discesa e la riemersione: sono gli stessi elementi della tragedia antica, della rappresentazione pubblica del potere. Qui, sotto la pietra del Colosseo, l’imperatore attraversava l’ombra prima di apparire davanti al popolo. Oggi, quello stesso cammino si offre al visitatore come un rito laico, una discesa nella storia per risalire verso la conoscenza. Il risultato non è solo archeologico, ma profondamente concettuale. Questo restauro mostra come l’antico possa ancora parlare al presente, non come reliquia ma come linguaggio. L’uso dell’acciaio corten, la luce calibrata, la passerella sospesa, i dispositivi tattili e digitali: tutto concorre a creare una nuova grammatica del visibile, in cui il passato e la contemporaneità si guardano senza cancellarsi. Ogni lacuna, ogni rilievo, ogni frammento parla di una continuità che non è solo storica, ma esistenziale. Il Passaggio di Commodo non è più un luogo di transito imperiale, ma un simbolo del nostro modo di abitare la memoria: camminare sul margine tra ciò che resta e ciò che ritorna, tra la pietra e la voce. Photocredit Simona Murrone ParcoArcheologicodelColosseo
Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2025
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito da William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Otello YUSIF EYVAZOV
JAGO ARIUNBAATAR GANBAATAR
Cassio DAVIDE TUSCANO
Roderigo FRANCESCO PITTARI
Lodovico FRANCESCO LEONE
Montano ALESSIO VERNA
Desdemona MARIANGELA SICILIA
Emilia NATALIA GAVRILAN
UN araldo CESARE LANA
Filarmonica “Arturo Toscanini”
Coro e Coro di Voci Bianche del Teatro Regio di Parma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Martino Faggiani
Voci Bianche dirette da Massimo Fiocchi Malaspina
Regia Federico Tiezzi
Scene Margherita Palli
Costumi Giovanna Buzzi
Luci Gianni Pollini
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 5 ottobre 2025
Quando, all’alba del 27 gennaio 1901, Verdi fornisce un valido motivo alla successiva affissione d’una targa in sua memoria sulla facciata del Grand Hotel et de Milan, è opinione diffusa che i massimi suoi capolavori siano gli ultimi (Otello, Aida e Falstaff); in ossequio alla concezione, oggi riconosciuta strettamente imparentata con la sciocchezza, della produzione verdiana come «ascensione creativa»: una evoluzione progressiva verso la vetta, che avrebbe fatto di Verdi, da grezzo abitante delle Roncole, un raffinatissimo e sofisticato parigino, a giorno persino sull’inedite stravaganze del linguaggio wagneriano, e che incontra finalmente in Boito un librettista alla propria altezza. Oggi che la presa di coscienza critica sul cosiddetto «primoVerdi» è ampiamente consolidata, Otello appare in una luce diversa. Qui Verdi dimostra la sua maturità artistica nell’apertura alle istanze scapigliate di Boito, che garantisce l’italianità dell’ex Padre della Patria ormai sospettato di esterofilia. Federico Tiezzi firma qui uno spettacolo che rifugge il naturalismo didascalico delle grandi pagine mimetiche della partitura e si concentra sulla messa in scena, tutta rituale, del meccanismo psichico azionato da Jago. Ovvero: il classico sul tavolo anatomico. Operazione che offre la possibilità al pubblico colto di una lenta degustazione, con un insopprimibile retrogusto di strutturalismo novecentesco, ma che sembrerebbe altresì implicare la stato non più vitale del sezionando classico. Contribuiscono allo straniamento di una fruizione tutta cerebrale dello spettacolo i costumi di Giovanna Buzzi: che sembrano omaggiare, più che una certa tradizione, una certa prassi. Nelle scene di Margherita Palli, invece, lumeggianti simboli icastici emergono dal nero assoluto di questa «camera delle torture», delineata da taglienti linee di luce, merito senz’altro anche di Gianni Pollini (nel duetto dell’eburnea mano una lama orizzontale larga quanto il boccascena viene trafitta dall’inquietante e lenta discesa di una verticale, con evidenti o inaccessibili significati), e popolata dal largo campeggiare di parole chiave del libretto. Cui si aggiunge un uso misurato e consapevole del video, e quell’insostituibile ritrovato scenico che è il sipario (rosso). Il quarto atto ha un tono diverso. Dai «titanici oricalchi» della tempesta all’interno borghese della camera da letto è un lento restringimento di campo che dura tutta l’opera. Alla fine dal buio avanza la stanzetta della Desdemona che visse due volte, con la tendina illuminata di luce verde: Hitchcock docet. Ma anche Boito: che nel bocciare l’idea verdiana dello spettacolare attacco dei Turchi sul finale terzo, lo paragona ad «un pugno che rompe la finestra di una camera dove due persone stavano per morire asfissiate». Ecco, qui c’è quell’«ambiente intimo di morte», quella «camera letale» di cui parla Boito. La direzione di Roberto Abbado è improntata ad una composta eleganza che garantisce il serrato incedere drammatico, e non senza dar rilievo ai preziosismi dell’orchestrazione. Eppure, l’impressione dell’ascoltatore che scrive, è che, forse, non sarebbe stato soverchio un poco più di nerbo, di guizzante fervore, di mordente vitalità, anche a prezzo d’un certo bon ton. In buca la valorosa Filarmonica Toscanini; l’affidabile Coro del Regio è sempre diretto da Martino Faggiani. Yusif Eyvazov sostiene la parte del protagonista in soccorso dell’improvvisamente indisposto Sartori. Posto che «la voce è brutta ma canta bene» e «non esistono più le mezze stagioni», possiamo passare avanti e notare che, benché sia poco serio giudicare un Otello da una sostituzione, l’interprete è parso dapprima un po’ in sordina sul piano espressivo, ma ha preso statura ma mano, prima con un accorto Dio, mi potevi scagliar e poi con un Niun mi tema convinto. Certo, non c’è lo spessore vocale di certe rimpiante ugole energumene del secolo scorso. Ma, relativamente brevi momenti topici esclusi, si tratta d’un ruolo, in fondo, giocato più sull’abilità declamatoria che sulla solidità vocale. Discorso analogo vale per Jago. Ariunbaatar Ganbaatar, improvvidamente gettato nell’acqua altissima di tale ruolo, non soltanto resta a galla, ma ci sguazza con sudata padronanza. Timbro morbido e pastoso ed elegante linea di canto gli erano già stati riconosciuti, ma qui gli si richiedeva una presenza scenica e una varietà di fraseggio nient’affatto scontati. L’accortezza che lo fa vincitore è l’aver ben compreso che nemmeno un Gobbi, con un timbro tanto prezioso dalla sua, si sarebbe sentito in dovere di strafare sul piano espressivo. Mariangela Sicilia è una approvata ed apprezzata garanzia: una Desdemona tutta lirica, dolcissima e tenera, dai fiati sognanti e soffusi, perfetta per contrastare con un Otello graffiante, brunito e duro (qualora se ne rintracci uno). Con lei il quarto atto prende decisamente quota. Il cast si completa felicemente con il brillante scintillio, che traluce dal fraseggio consapevole e vivace, di Davide Tuscano, Cassio; e con la corposa, fresca vigoria dell’Emilia di Natalia Gavrilan. Francesco Pittari fa bene nella parte di Roderigo, come pure Alessio Verna in quella di Montano. Francesco Leone dona al suo giovanile Lodovico voce bellissima per timbro e colore ma ancora un filino acerba per consistenza. Un Otello di buona e sofisticata fattura, insomma, da decifrare con un certo qual distacco.
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
CEROLI TOTALE
A cura di Renata Cristina Mazzantini e Cesare Biasini Selvaggi
Promossa da Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
in collaborazione con Banca Ifis
Roma, 6 ottobre 2025
C’è in Mario Ceroli una calma che sembra appartenere alla materia stessa, una vibrazione che non nasce dalla volontà ma dall’ascolto. Il legno, nelle sue mani, non è materia da plasmare, ma un essere da accompagnare. Ogni venatura è un segno del tempo, ogni fibra una memoria che respira. In questo atto silenzioso si riconosce l’essenza della sua arte: non costruire, ma rivelare. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dove da giovanissimo aveva mosso i primi passi, Ceroli torna oggi con Ceroli Totale, mostra promossa in collaborazione con Banca Ifis. È un ritorno che non conclude ma riprende, un cerchio che si apre ancora. Le sue opere tornano nelle sale della Galleria come frammenti di un discorso che non si è mai interrotto, portando con sé la memoria di un mestiere e la promessa di un futuro. L’esposizione si fa anche preludio alla Casa-Museo Ceroli, che dal 2026 accoglierà la sua collezione, trasformando la sua dimora e il suo hangar-studio in una factory per giovani artisti: un laboratorio di continuità dove la sua eredità artigianale, spirituale e civile potrà rigenerarsi ogni giorno. Non è una retrospettiva, ma una meditazione sulla durata. Le venti opere esposte, provenienti dalle collezioni della GNAMC, di Banca Ifis e dell’artista, non seguono un ordine cronologico ma un ritmo interiore. La curatela congiunta di Renata Cristina Mazzantini e Cesare Biasini Selvaggi restituisce la densità poetica di questo pensiero, offrendo un percorso che unisce rigore e intimità. Ogni elemento è spiegato con misura, ma lasciato libero di evocare: la mostra chiarisce senza imporre, illumina senza svelare del tutto. In questo contesto, il sostegno di Ernesto Fürstenberg Fassio, Presidente di Banca Ifis, assume un valore più ampio della semplice committenza. Il suo progetto culturale, espresso attraverso Ifis Art, riconosce nell’arte di Ceroli non solo la forza di un linguaggio, ma la potenza etica della materia. La visione di Fürstenberg Fassio si radica in un’idea di cultura come ecosistema, dove la responsabilità sociale, la bellezza e la memoria condivisa convivono in un medesimo orizzonte. Il legno, in questa prospettiva, è materia viva. Ogni elemento porta con sé una storia, i cicli di vita della natura, come in quei frammenti di tronco raccolti lungo i fiumi dal naturalista Herbert Steiner, che li definiva “lacerti della natura”. In questa visione si riflette l’approccio olistico di Rudolf Steiner e della sua pedagogia Waldorf: l’idea che la materia, e in particolare il legno, non sia mai inerte, ma viva di forze che uniscono la terra e lo spirito. È un principio che permea l’intera mostra. Le sculture di Ceroli ne sono la manifestazione tangibile: non oggetti, ma esseri che respirano, che si trasformano, che portano dentro di sé la voce della vita. Le sagome che popolano le sale non rappresentano, ma evocano. Sono figure di passaggio, silhouette che definiscono l’uomo nel suo confine più sottile. Ceroli lavora da sempre sul limite: il contorno come soglia, non come separazione. Il legno, con le sue fenditure e i suoi nodi, diventa la mappa di un tempo che scorre dentro le cose. La forma non chiude, apre. È un varco tra l’umano e il mondo, tra la presenza e la memoria. La mostra si sviluppa come un respiro, un moto continuo tra pieni e vuoti. Le opere dialogano senza sopraffarsi, come pensieri che si richiamano a distanza. Ci si muove tra i lavori come tra le stanze di un ricordo: nulla è fissato, tutto è in movimento. Le prime sagome nate negli anni della Scuola di Piazza del Popolo convivono con le più recenti, scurite dal tempo, eppure ancora vibranti di una giovinezza segreta. Biasini Selvaggi costruisce questo ritmo con discrezione, restituendo la coerenza interiore di un artista che non ha mai tradito la propria materia. In Ceroli l’opera non è mai definitiva. Egli la sposta, la modifica, la reinventa. Ogni luogo ne determina la metamorfosi, ogni tempo la sua tonalità. È un processo di trasformazione continua, in cui la scultura diventa esperienza. L’artista accompagna la materia nel suo divenire, lasciandole la libertà di cambiare, come se anche il legno avesse diritto alla sua evoluzione. C’è una dolcezza silenziosa in questo percorso, una malinconia che non è rimpianto ma consapevolezza. Ceroli appartiene a una generazione che ha vissuto l’arte come mestiere, con la dignità del lavoro e la responsabilità del pensiero. È superstite di un’epoca in cui l’artista non interpretava il mondo, ma lo costruiva con le proprie mani. Eppure, la sua opera non è mai nostalgica: è un atto di resistenza gentile contro la perdita di senso, una dichiarazione di fiducia nella durata. Nelle ultime sale, il tempo entra nella materia. Le superfici ossidate raccontano il respiro degli anni, e Ceroli non tenta di opporvisi: lascia che il tempo completi ciò che la mano umana ha iniziato. È un gesto di abbandono e di fiducia, un riconoscimento che la bellezza nasce anche dal consumo, dalla trasformazione, dalla finitudine. In Le ceneri, opera dedicata ai conflitti contemporanei, questa visione trova la sua forma più alta. Le sagome bruciate e annerite non parlano di distruzione, ma di sopravvivenza. La cenere diventa memoria viva, sostanza che trattiene energia. È la materia del lutto e della rinascita, il simbolo dell’uomo che attraversa il dolore per tornare alla luce. E così, Ceroli Totale non è un punto d’arrivo ma un inizio. Totale non perché racchiude tutto, ma perché contiene il principio del movimento: la certezza che ogni cosa, anche la più ferita, può ancora trasformarsi. Nella costanza del legno, nella precisione del taglio, nella fedeltà alla forma Ceroli ha trovato la sua libertà: quella di lasciare che la materia viva, che il tempo parli, e che l’arte continui, come il respiro, a non finire mai.
Torino Auditorium Giovanni Agnelli. I concerti del Lingotto 2025-2026
Die Deutsche Kammerphilharmonie Bremen
Direttore Riccardo Minasi
Pianoforte Beatrice Rana
Carl Maria von Weber: Ouverture da Der Freischütz; Ludwig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n.3 in do minore op.37; Johannes Brahms: Sinfonia n.4 in mi minore op.98.
Torino, 2 ottobre 2025.
Cassati, da una manciata di giorni, i fasti di MITO 2025, nel grande Auditorio Giovanni Agnelli ha preso avvio la nuova stagione di Lingottomusica. La locandina del primo concerto poteva suscitare il dubbio di essere costretti a una serata di ordinaria routine: capolavori sì, ma sempre quelli; interpreti per cui srotolare un red carpet parrebbe azzardo avventato; formazione orchestrale tedesca, non ascrivibile al gotha del settore. Ma, fin dalle prime note dell’Ouverture del Freischütz, quando due calibratissimi crescendo che dal nulla coinvolgono, con dosaggio millimetrico, l’intera orchestra, ci si avvede che è giocoforza abbandonare prevenzioni e pregiudizi e tenersi invece in allerta per quanto seguirà. La Deutsche Philharmonie di Dresda, compagine ospite della serata, è forte di 50 elementi: 30 archi, 19 tra fiati, legni, ottoni e un timpano. Viole celli e contrabbassi, quasi la metà della forza degli archi, uniti ai quattro corni e ai fagotti, contribuiscono alla tinta umbratile che evidenzia meravigliosamente la brillantezza delle linee acute. A queste ultime Riccardo Minasi affida la chiara intellegibilità delle strutture formali. Non c’è luogo né per noia, né per routine e neppure per le recriminazioni del già troppo sentito. Il direttore è sempre inesorabilmente vigile e presente; mai accompagnatore dell’orchestra di cui costantemente, col gesto risoluto, anticipa il suono. Si suole commentare come i grandi direttori, con le mani e con il corpo, anticipino di frazioni di secondo i suoni che seguiranno. Con Minasi tutto ciò è comprovato e concreto. La quadratura dell’Ouverture weberiana è inappuntabile e introduce prepotentemente, quasi uno squillo d’avvio, al Romanticismo musicale che sta alle porte. Un’esecuzione esaltante: da antologia. Per i concerti, con solista all’arco o alla tastiera, si è portati ad apprezzare i direttori che, frenando le intemperanze orchestrali, non ostacolano l’individualità del solista. Minasi sul podio e la Signora Beatrice Rana alla tastiera, non si trattengono; come in una sorprendente congiunzione degli opposti, due forti e distinte personalità riescono, pur mantenendo le rispettive visioni, ad ottenere uno splendido risultato comune. È uno sfolgorante e inaudito Terzo concerto di Beethoven in cui la flessibile e morbida linea femminile, ça va sans dire, della Rana si allaccia alla sonoramente scabra precisione di Minasi. Romeo e Giulietta che si corteggiano, nel focoso e giovanile primo movimento. È poi, nel largo, una Penelope amorosa ed accorata che, in notti sospirose, fa e disfa un interminabile ricamo, intricato di mille fili e sfumato di infiniti colori. Un capolavoro delle dita, dei tasti e del pedale di Beatrice Rana. Nel travolgente Rondò finale, come sempre in Beethoven: il lieto fine liberatorio. L’orchestra prende il sopravvento e il timpano, strumento che Minasi deve molto amare, ne scandisce ritmi e fraseggi che rinchiudono aree riservate per il pianoforte che realizza mirabilmente i “dolce” che si ripetono, in partitura, sotto il suo rigo. Ad una esecuzione di rara bellezza, segue l’entusiasmo del vastissimo pubblico di questa inaugurazione di stagione. Gran successo e, fortunatamente, un bis del pianoforte. La pianista non l’annuncia e in molti si stenta a riconoscere l’Intermezzo dallo Schiaccianoci di Čaikovskij nella trascrizione pianistica di Michail Pletnëv. Beatrice Rana dà al pezzo tutta l’affettuosità tipica dell’autore e nasconde il suo grande virtuosismo in un appassionante legato cantabile: da urlo! A chiudere il programma ufficiale: la gigantesca Sinfonia n.4 di Brahms. Il Freischütz, con i suoi demoni della Gola del Lupo, nel 1821, aveva acceso le scintille Romantiche che, per circa 80 anni infiammeranno, tra peccati e redenzioni, la musica tedesca, fino a consumarsi, dopo i roghi Wagneriani, nelle urla ferine di Elettra e nell’ allucinato onanismo bruckneriano. Brahms, per quanto poté se ne tenne lontano. Ammirava Beethoven, e ambiva a raccoglierne l’eredità. Tornò quindi, con convinzione, a rivolgersi al passato e alle strutture formali “classiche”. Minasi ci mostra di avere, per vocazione e per prassi, uguale intenzione. Nel suo curriculum ci sono, tra gli altri incarichi: la Scintilla di Zurigo, l’ensemble il Pomo D’oro, e il Mozarteum di Salisburgo con cui praticò principalmente l’approfondimento della musica di fine 700 e del primo 800. Strumenti originali o suonati come se lo fossero. Chiarezza delle linee costruttive e dei loro rapporti reciproci. Cura, quasi maniacale, delle sonorità storiche che, oltre a minimizzare il vibrato, evitano gli impasti strumentali confusi e i turgori timbrici. In questa Quarta di Brahms l’intera dinamica sonora viene comunque coperta, dal pianissimo al fortissimo, questi ultimi per quanto lo consente un’orchestra contenuta nel numero degli elementi. Gli archi scuri e i corni permettono di mantenere sempre il colore crepuscolare di fondo, da cui emergono, con brillantezza inusitata, le voci degli strumentini e dei violini. I 4 timpani, isolati in evidenza, quasi al proscenio, ritmano il procedere del percorso e ne mettono in risalto i “focus”. I tempi sono quelli tradizionali delle esecuzioni storiche dei Walter e dei Kleiber, ma il contenuto ne risulta del tutto “nuovo”. Quando Schoenberg indicava in Brahms il musicista del futuro, forse si riferiva anche ad esecuzioni come quelle alla Minasi che eludono le viscide paludi inclinate che scivolano nel decadentismo. L’esecuzione ha avuto successo, il virtuosismo e la disciplina degli orchestrali di Brema non avrebbero potuto non averne, allo stesso tempo ha anche disorientato parte della platea: tanto era personale e inconsueta. Ai reiterati applausi finali al suo indirizzo e all’orchestra, Minasi replica annunciando, visto che si era in Italia, L’Ouverture in stile italiano D.591, omaggio a Rossini, di Franz Schubert. Nel corso del pezzo, sconosciuto ai più, a qualcuno del pubblico è (forse) sfuggito un applauso inopportuno, Minasi ha colto l’occasione per esibirsi in una gag da attore consumato: con gesto esplicito disapprova, minaccia e invita, nell’ilarità della platea, il provvidenziale incauto ad uscire di sala. Risate e applausi suggellano la splendida serata. Foto Mattia Gaido
La Fondazione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino annuncia in coproduzione con la Fondazione Academia Montis Regalis, la programmazione dell’opera Il Ciro di Alessandro Scarlatti, nel trecentesimo anniversario della morte del compositore, dal dramma del cardinale Pietro Ottoboni, mai rappresentata in tempi moderni dalla sua prima esecuzione del 1712. Due gli spettacoli in cartellone venerdì 10 ottobre, alle ore 20 e sabato 11 ottobre 2025, alle ore 17 presso lo storico Teatro Goldoni di Firenze, l’elegante e raccolto teatro “all’italiana” in Oltrarno del Maggio Fiorentino, palcoscenico ideale per la valorizzazione delle opere del prezioso repertorio barocco.
Sul podio dell’Orchestra barocca dell’Academia Montis Regalis la direttrice Chiara Cattani, la regia è di Maria Paola Viano; le scenografie sono di Darko Petrovic i costumi di Giovanna Fiorentini e le luci di Nevio Cavina. Alcuni fondali dello spettacolo sono realizzati sui disegni originali di Filippo Juvarra. La produzione sarà documentata e ripresa da Sky Italia che ne realizzerà un documentario. L’opera verrà trasmessa sulla piattaforma il 24 ottobre 2025 in occasione del trecentesimo anniversario della morte del compositore. L’edizione critica del Ciro, realizzata dal professor Nicola Badolato, nasce da un progetto di ricerca condotto nell’ambito della Borsa di Alti Studi della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura di Torino sull’Età e la Cultura del Barocco (Cultura, arte e società al tempo di Juvarra), assegnatagli per il biennio 2013–2015. L’edizione è stata successivamente pubblicata nel 2017 dall’Istituto Italiano per la Storia della Musica.
Nel cast figurano: Margherita Maria Sala (Astiage), Giuseppe Valentino Buzza (Arpago), Christian Senn (Mitridate), Anita Giovanna Rosati (Erenia), Dennis Orellanna (Ciro), Rémy Brès Feuillet (Arsace), Mathilde Legrand (Sandane), Matteo Quaranta (Bambino). Qui per ulteriori informazioni.
Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Parigi romantica pop”, 27 settembre-28 ottobre 2025
“OH LÀ LÀ!” – La chanson française tra Otto e Novecento
Duo Contraste
Tenore Cyrille Dubois
Pianoforte Tristan Raës
Venezia, 3 ottobre 2025
Cyrille Dubois e Tristan Raës – ben noti al pubblico del Palazzetto Bru Zane – abbandonando per una volta l’ambito alquanto raffinato della mélodie francese, hanno affrontato con umorismo e passione un repertorio più ‘leggero’, capace di sedurre ogni genere di pubblico: quello relativo alla chanson. In esso il valzer – che ai primi del Novecento, in forma cantata, divenne espressione dello spirito parigino – la fa da padrone, seppur convivendo con tendenze più ‘moderne’: dal valzer Boston (versione lenta, americanizzata del valzer) alla musica tzigana, dal bolero al foxtrot. Nel primo Ottocento tanti artisti hanno potuto fare carriera dedicandosi a questo genere ‘leggero’, in un’epoca in cui l’ascesa dell’editoria musicale ha favorito il commercio di migliaia di pagine dal successo spesso effimero. Naturalmente è tra le due guerre mondiali del XX secolo, che la chanson raggiunge un livello di popolarità senza precedenti, complici il grammofono e la radio. Ma il coinvolgimento di un pubblico sempre più vasto è anche legato all’affermarsi di nuovi luoghi di intrattenimento durante gli anni ruggenti: il caffè concerto della Belle Époque lascia il posto al music-hall e alle sale da ballo. Il ricorso al ritmo del valzer appare ancora obbligatorio, insieme l’attenzione alle novità provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico: il jazz, insieme a tango, foxtrot, valzer Boston. È l’età d’oro della chanson, paradossalmente dovuta anche anche al difficile contesto economico: la crisi del 1929 costringe a ridurre drasticamente le spese per gli spettacoli, il che favorisce le forme di spettacolo più sostenibili economicamente come il recital di cantanti di varietà: assai meno costoso dell’Opera lirica o del Concerto sinfonico, esso basta ad attirare un vasto pubblico. E anche il pubblico, che gremiva la deliziosa sala dei concerti del Palazzetto Bru Zane si è lasciato sedurre dalla miriade di chansons, che hanno trovato in Cyrille Dubois, sostenuto con intima partecipazione da Tristan Raës, l’interprete ideale. Il tenore normanno – uno tra i più autorevoli divulgatori del Grand Répertoire francese – si è dimostrato particolarmente versatile nell’aderire ai diversi colori, profumi, forme di questo florilegio, che ha affrontato con lo stesso amore, la stessa intensità espressiva, la stressa accuratezza nei particolari, che dedica ad altri repertori come quello dell’opera lirica o della mélodie, sorretto da qualità vocali – timbro omogeneo e squillante, facilità negli acuti e nelle agilità, fraseggio scolpito –, nonché da una padronanza tecnica, che hanno dello sbalorditivo. Perfetto l’affiatamento tra la voce e la tastiera con un Raës analogamente espressivo, attento alle sfumature e nitido nel tocco. Ne è risultato un affascinante percorso attraverso diversi climi emotivi. Alcune valses chantées incantavano per la loro dolcezza di toni – dalla cullante ma anche spiritosa Causerie d’amour (musica di Eugène Rosi-versi di Émile Bessière) alla sognante L’Amour tient à peu de chose (musica di Eduardo Mezzacapo-versi di Fabrice Lémon), alla carezzevole Portrait (musica di Cécile Chaminade-versi di Pierre Reyniel), quest’ultima – di qualità straordinaria – caratterizzata da colorature e dal finale vocalmente possente. In altre chansons si coglieva un tono vaudevillier: dalla spumeggiante Amours de Paris (chanson-marche: musica di Fermo Dante Marchetti-versi di Gaston Deval) a Mais l’amour c’est tout (fox-trot: musica d’Eugène Rosi-versi di Eugène et Edmond Joullot), la cui verve faceva pensare a Offenbach. Tutt’altro clima evocavano, tra le altre: La Valse des feuilles (musica di Émile Durand-versi di Paul Juillerat), dal tono mesto e luttuoso, arricchita da colorature, e La Valse des follets (musica di Charles Lecocq-versi di Paul Gravollet), spettrale, oltre che armonicamente inquieta, dove il pianoforte ha brillato disegnando un diafano arabesco. Applausi reiterati a fine serata. Due fuoriprogramma: la vaudevillière Bonjour toi – una chanson dei primi del Novecento: versi di E. Christien; musica di Henri Christiné – e la splendida Les Chemins de l’amour – composta nel 1940 da Francis Poulenc su versi di Jean-Louis Anouilh –, percorsa da quell’afflato romantico, delicato ed intenso, che ha fatto grande la chanson francese: dovizioso suggello a questa intrigante soirée, targata Palazzetto Bru Zane.