Urbino, Palazzo Ducale
Galleria Nazionale delle Marche
Il ritorno dello Studiolo del Duca: un capolavoro restaurato alla sua unità iconografica e architettonica
Urbino, 30 maggio 2025
C’è un tipo di restauro che non aggiunge nulla. Non reinventa, non abbellisce, non interpola. Si limita a togliere l’inutile, a disfare l’artificio, a rimettere in ordine le cose così come erano nate: secondo un’idea e una volontà. È questo il caso dello Studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino, che il 30 maggio 2025 ha riaperto al pubblico dopo un intervento radicale, ma discreto, che ha restituito coerenza, coesione e misura a uno degli ambienti più emblematici della cultura umanistica italiana. L’intervento è stato diretto da Luigi Gallo, direttore della Galleria Nazionale delle Marche e della Direzione Regionale Musei Marche, con un’azione concertata tra il Ministero della Cultura, un’equipe di restauratori esperti e una squadra multidisciplinare che ha saputo coniugare rigore filologico e prassi conservativa contemporanea. Lo smontaggio completo delle tarsie lignee ha consentito trattamenti in anossia per debellare parassiti e valutare lo stato interno del legno, mentre l’intera architettura dello Studiolo è stata ripensata secondo criteri di veridicità percettiva: è stata adottata una nuova illuminotecnica ispirata alla luce naturale e rimosso ogni residuo di superfetazione ottocentesca. Il cuore dell’intervento è stato però la ricomposizione, per quanto possibile, del progetto iconografico originario. Delle 28 tavole raffiguranti gli Uomini Illustri voluti da Federico, quattordici sono conservate a Urbino; le altre quattordici, da secoli al Louvre, sono state riprodotte in alta definizione e reinserite grazie a un accordo tra i due musei. Si tratta di una delle rarissime operazioni museografiche in cui la riproduzione non è surrogato, ma strumento di lettura autentica. Ne scaturisce un insieme che torna a essere leggibile secondo l’originaria intenzione: un pantheon di sapienti e santi, di filosofi e teologi, collocati in due registri iconologici secondo una logica tanto eterodossa quanto armonica. Lo Studiolo stesso, con le sue dimensioni anomale (3,60×3,35 m), si inserisce in un dispositivo simbolico più ampio, che lega le tre logge del palazzo – corpo, mente e spirito – in un percorso verticale di ascesi e introspezione. Le tarsie, opera di Benedetto e Giuliano da Maiano e di Baccio Pontelli, si sviluppano su tre registri: strumenti scientifici e musicali, armi, libri, emblemi, “imprese” araldiche, il tutto intarsiato con essenze preziose in una costruzione illusionistica che dilata lo spazio e lo riempie di memoria. Nel soffitto a cassettoni, araldi e simboli privati; nella fascia superiore, le tavole dipinte da Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Lo Studiolo era, ed è, il luogo dove il Duca si spogliava dell’armatura e si vestiva di sapere. Tutto in esso parla di una visione del mondo in cui l’intelletto non è mai disgiunto dalla volontà di potere, e la contemplazione è esercizio di dominio interiore. Ma il restauro ha restituito anche altri spazi fino ad ora trascurati: è stata ripristinata la latrina del Duca, ambiente igienico dalle straordinarie soluzioni architettoniche, e è stato finalmente riassemblato nella sua forma e posizione originaria il lavabo monumentale, collocato nella camera da letto del Duca, smontato nell’Ottocento e poi ricomposto secondo criteri documentari, grazie alle vedute di Romolo Liverani e ai rilievi ottocenteschi. La complessità del progetto ha reso necessario l’allestimento di un laboratorio temporaneo all’interno del palazzo, dove sono stati eseguiti tutti gli interventi di manutenzione, concludendosi con il trattamento in atmosfera modificata che ha garantito una disinfestazione completa dei legni. L’intera operazione ha preso ispirazione dai restauri storici documentati da Otello Caprara (1969-72) e dalle procedure d’emergenza guidate durante la Seconda guerra mondiale da Pasquale Rotondi, all’epoca direttore del museo. A completare la restituzione dell’Appartamento del Duca, ora interamente visitabile, il riposizionamento delle opere più emblematiche della collezione: dalla Città Ideale al Doppio Ritratto di Federico e Guidobaldo, dal Miracolo dell’Ostia profanata di Paolo Uccello alla Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand. Opere che tornano a vivere nel luogo per il quale furono pensate o al quale sono legate per necessità storica e iconografica. L’operazione compiuta a Urbino non è solo restauro, ma atto critico. Un ritorno non al passato, ma alla verità originaria delle forme. Un’opera d’arte, per esistere, ha bisogno d’essere capita. Ma prima ancora, ha bisogno di essere restituita al suo silenzio eloquente. Ed è proprio questo che lo Studiolo oggi ritrovato offre: non una narrazione, ma una presenza. Non una vetrina, ma una visione.
Allegati
Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“MORTE ACCIDENTALE DI UN ANARCHICO”
Commedia di Dario Fo e Franca Rame
Matto DANIELE RUSSO
La giornalista CATERINA CARPIO
Questore ANNIBALE PAVONE
Primo Commissario (Commissario Bertozzo) / Secondo Agente EDOARDO SORGENTE
Secondo Commissario (Commissario Sportivo) / Primo Agente EMANUELE TURETTA
Regia Antonio Latella
Dramaturg Federico Bellini
Scene Giuseppe Stellato
Costumi Graziella Pepe
Musiche e Suono Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Movimenti Isacco Venturini
Assistente alla Regia Mariasilvia Greco
Realizzazione Scene Alovisi Attrezzeria
Costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Napoli, 28 maggio 2025
Il caso della Morte accidentale di Giuseppe Pinelli, anarchico e ferroviere, arriva al Bellini. La «farsesca» tragicità della Morte accidentale di un anarchico, commedia di Dario Fo e Franca Rame, riesce a sconvolgere anche la fisionomia della sala teatrale: essa assume, vagamente, la forma di un atipico «anfiteatro»: la platea viene occupata da uno spazio scenico in legno – progettato da Giuseppe Stellato e accuratamente illuminato da Simone De Angelis –, i cui contorni rimandano alla forma stilizzata del corpo dell’anarchico – piombato al suolo, nel 1969, da una finestra della questura di Milano. Un corpo che reca in sé la tragicità di un caso analogo, quello dell’italiano che – a New York, nel 1921 – precipita dall’edificio della polizia: un avvenimento che Dario Fo e Franca Rame, nel 1970, adottano come soggetto del lavoro teatrale – intendendo, però, fare riferimento alla «morte accidentale» del Pinelli. L’azione, al Bellini, viene trasferita al centro della sala – e, nell’ormai «ex» spazio scenico, sul palco, viene collocato un gruppetto di posti a sedere. Questo «sovvertimento», estetico e formale, reca in sé una forza espressiva estrema – non soltanto perché l’azione si svolge «sul» corpo legnoso dell’uomo, ma anche perché la nuova fisionomia del teatro consente agli attori di confondere, in modo irrimediabile, realtà «vera» e realtà «teatrale». Gli spettatori di teatro di prosa, oggi, sono un po’ avvezzi allo sfondamento, vagamente pirandelliano e no, della «quarta parete»: effettistica soluzione scenica, ricorrente in tante regie contemporanee. Però, questo elemento può ancora «sorprendere», soprattutto quando viene estremizzato o risolto drasticamente: ciò accade non soltanto sottraendo al palcoscenico la sua funzione originaria, ma anche integrando, sia pure parzialmente, gli spettatori nella rappresentazione; per esempio: a un certo punto della «conversazione» del Matto con il Questore, il Secondo Commissario e il Secondo Agente – gli spettatori, seduti nell’ex spazio scenico, vengono invitati a indossare dei berretti durante una momentanea chiusura di sipario, ritrovandosi innestati, dopo la riapertura del sipario, come «figuranti» nell’intreccio del lavoro teatrale e nei fatti raccontati. Quello di Fo e Rame è un linguaggio teatrale rivoluzionario – come afferma il dramaturg, Federico Bellini, in uno scritto inserito nel magazine del teatro (The Belliner, n. 43); e l’elemento artisticamente «rivoluzionario» della rappresentazione non è soltanto ravvisabile nel testo letterario in sé – determinato da momenti di «caustico» umorismo, da «notizie» oggettive riguardanti la «morte accidentale» dell’anarchico e da espressioni di carattere politico –, ma risiede anche nelle «modalità» attraverso cui avviene l’esposizione verbale del testo. Il regista Antonio Latella e il dramaturg Federico Bellini riescono, dunque, a dare evidenza al carattere «rivoluzionario» del lavoro teatrale, sottolineando la latente «drammaticità» di soluzioni apparentemente «farsesche» – come un’esasperata reiterazione di movimenti, coordinati da Isacco Venturini, e come una declamazione «vigorosa» e, a tratti, parossistica, sostenuta dai suoni cupi di Franco Visioli; elementi che, per esempio, hanno caratterizzato le notevoli prove attoriali di Edoardo Sorgente (Primo Commissario – Commissario Bertozzo / Secondo Agente) ed Emanuele Turetta (Secondo Commissario – Commissario Sportivo / Primo Agente). Soluzioni interessanti, dunque, perché utili all’estremo «rinvigorimento» del materiale letterario; soluzioni che, inoltre, consentono una definizione «drammatica» dei personaggi – il cui carattere «farsesco», però, appare costantemente percepibile, perché teatralmente animato dalla presenza di «pupazzi»: alter ego «inquietanti», che gli attori portano con sé. Emerge, inoltre, con estremo nitore, la figura del Matto – interpretato da Daniele Russo. L’attore realizza una costruzione scenica estremamente «realistica», e paradossalmente razionale, della figura: viene, pertanto, sottratta al clima generale, acutamente «farsesco», del lavoro teatrale. Un matto «razionale», dunque, che – grazie alle abilità, sceniche e vocali, dell’attore – riesce a fare sfoggio di un’elegante nonchalance, attraverso cui avviene la restituzione dei «personaggi», dal giudice al capitano della scientifica, al vescovo – che il Matto, assecondando le sue istrioniche manie, riesce a «interpretare»: «Ho la mania dei personaggi. Si chiama istriomania…», confessa candidamente al Primo Commissario, che lo sta interrogando. Notevoli sono, inoltre, le capacità dell’attore di alternare momenti di imperturbabilità a momenti di foga e veemenza. Parimenti ottimo l’attore Annibale Pavone, che dona agli spettatori un’interpretazione scenicamente efficace del Questore, anch’egli «avvinghiato» al suo alter ego inanimato. Nel ruolo di Maria Feletti, Caterina Carpio: l’attrice riesce a ritrarre validamente la giornalista – conferendo al tenace personaggio una fermezza emotiva, percepibile nell’incisività del linguaggio, e un comportamento scenico estremamente dinamico. Un personaggio interessante – l’unico a entrare in scena, e a «cantare» per un breve momento, sostenuto da un accompagnamento pianistico, sempre di Visioli; l’unico, inoltre, a indossare un costume colorato – in evidente e «metaforico» contrasto con il nero degli altri costumi, ideati tutti da Graziella Pepe. Il pubblico napoletano, composto anche da ragazze e ragazzi, accoglie positivamente il lavoro teatrale, tributando entusiastici applausi agli artisti. Foto Flavia Tartaglia
Vincenzo Bellini: “Oh! S’io potessi dissipar le nubi…Col sorriso d’innocenza…Oh, Sole! ti vela di tenebre oscure” (“Il pirata); Gaetano Donizetti: “Piangete voi?… Al dolce guidami…Qual mesto suon?… Cielo, a’ miei lunghi spasimi…Chi mi sveglia?… Coppia iniqua” (“Anna Bolena”), “M’odi, ah m’odi…Figlio! È spento!… Era desso il figlio mio” (“Lucrezia Borgia”); Giuseppe Verdi: “No…mi lasciate…Tu al cui sguardo onnipossente…Che mi rechi?… La clemenza?… s’aggiunge lo scherno!” (“I due Foscari), “Oh, cielo! Dove son’io!… Ah dagli scanni eterei…Mina!…Voi qui!… Ah dal sen di quella tomba” (“Aroldo”). Eleonora Buratto (soprano), Didier Pieri (tenore), Irene Savignano (mezzosoprano), Giovanni Batista Parodi (basso). Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice di Genova, Claudio Marino Moretti (maestro del coro), Sesto Quatrini (direttore). Registrazione: Genova, Teatro Carlo Felice luglio 2024. 1 CD Pentatone PTC: 5187409.
Eleonora Buratto vanta ormai una carriera solida e affermata e sorprende che solo ora arrivi il primo recital discografico. L’etichetta è Pentatone, la casa discografica californiana che si sta distinguendo per una particolare sensibilità nei confronti dei cantanti di oggi e anche per la proposta di recital non prevedibili. In questo contesto rientra anche questo neppure questo della Buratto – accompagnata per l’occasione dai complessi del Teatro Carlo Felice di Genova diretti da Sesto Quatrini – dedicato alle eroine dell’ultima stagione del Belcanto italiano compreso tra Bellini e il primo Verdi. Si tratta di un repertorio da cui la Buratto negli ultimi anni sembrava essersi allontanata ma che qui recupera non solo come un ritorno alle origini ma anche come indicazione di una nuova frequentazione in futuro. Ipotesi non trascurabile avendo la Buratto dichiarato dio voler affrontare integralmente la trilogia Tudor – per ora ha cantato Anna Bolena e Maria Stuarda – a testimonianza di un interesse sempre presente per il belcanto Al momento della pubblicazione di questa recensione la Buratto ha annunciato che nel prossimo mese di giugno debutterà il Roberto Devereux a Valencia.
I brani proposti derivano da opere – con la sola eccezione della citata “Anna Bolena” – mai affrontate in teatro. I brani sono disposti in ordine cronologico di composizione, ad accompagnare lo sviluppo storico della vocalità italiana e sono eseguiti integralmente con partecipazione del coro e dei personaggi di contorno.
Bellini – evitata prudentemente “Norma” – è rappresentato dalla scena conclusiva de “Il pirata”. Per molti aspetti è il brano più lontano da quella che è oggi la vocalità della Buratto è proprio per questo ne diventa la cartina di tornasole di qualità e difetti. La voce è indubbiamente notevole per ampiezza ed emissione, capace di imporsi con sicurezza in teatro. Il cantabile “Col sorriso d’innocenza” è ben eseguito con un canto morbido e ben legato mentre gli scarti espressivi della cabaletta sono affrontati con attento gioco di colori e timbri. Di contro la dizione è perfettibile – si nota già nel recitativo introduttivo – e manca l’aplomb dell’autentica belcantista così che i passaggi di coloratura sono corretti ma sempre un po’ trattenuti, manca quella capacità di virtuosismo espressivo che è proprio di chi è più addentro a questo repertorio. Gli acuti sono ampi e ricchi di suono ma mostrano altresì un vibrato fin troppo presente.
I brani di Donizetti – oltre ad “Anna Bolena” è eseguito il finale di “Lucrezia Borgia” – si pongono in fondo sulla stessa linea. Anna è il ruolo più conosciuto tra quelli affrontati, la coloratura è meno virtuosistica e gli ampi cantabili hanno il sopravvento. Proprio per questo colpisce una certa piattezza espressiva in “Al dolce guidami” ben cantato ma poco emozionante mentre il temperamento le permette di dare il giusto vigore alla cabaletta, i cui passaggi di forza la vedono più a suo agio rispetto a quelli di grazia.
“Lucrezia Borgia” rappresenta quella vocalità donizettiana più matura che già si proietta verso tempi nuovi. Il cantabile è molto ben eseguito. La voce così ampia assume naturalmente caratteri materni, la linea di canto è sempre ben sorvegliata e ricco il gioco di colori e accenti. La cabaletta è resa con autentico coinvolgimento che fanno perdonare qualche imprecisione nelle agilità.
Due titoli verdiani chiudono il programma. Lucrezia Contarini s’inserisce naturalmente nel solco delle precedenti eroine donizettiane e anche l’esecuzione si pone su quella linea. La Buratto è perfettamente a suo agio nel forte temperamento della nobile veneziana che già emerge nel recitativo. Ben cantata la preghiera giunge a una cabaletta che risulta bifronte. In “O patrizi…tremate” la sua Lucrezia è un’autentica furia vendicatrice ma il registro acuto appare assai teso e tradiscono uno sforzo eccessivo.
La Mina di “Aroldo” non è forse “indomita” come personaggio – per citare il titolo scelto per il disco – ma nel suo trepidante lirismo è particolarmente congeniale per la Buratto che può far valere la sua musicalità e la sua eleganza. Il canto d’agilità è ben gestito così come il registro acuto appare meno esposto. Questo gioca a suo favore.
Efficacie nel complesso la direzione di Quatrini sempre attento al canto e alle sue esigente. Tra gli interpreti di contorno pienamente funzionali le prove di Irene Savignano e Didier Pieri mentre ormai troppo logora la voce di Giovanni Battista Parodi come Alfonso d’Este. Registrazione nel complesso pulita ma un po’ “inscatolata” per quanto riguarda le masse corali.
Roma, Teatro dell’Opera
L’ITALIANA IN ALGERI
Torna al Teatro dell’Opera di Roma uno dei capolavori più travolgenti di Gioachino Rossini: L’italiana in Algeri, dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli, esempio perfetto di quel “turbinio comico e musicale” che fece parlare Stendhal di Rossini come dell’inventore della felicità in musica. Con la direzione di Sesto Quatrini e la storica regia firmata da Maurizio Scaparro, ripresa oggi con raffinata sensibilità da Orlando Forioso, l’opera andrà in scena al Costanzi in un allestimento poetico e vivace, nato al Teatro Massimo di Palermo. Le celebri scenografie di Emanuele Luzzati – autentico alchimista del colore e del segno – insieme ai costumi di Santuzza Calì e alle luci di Vinicio Cheli, trasformeranno il palcoscenico in un orientaleggiante sogno teatrale, dove humour, bellezza e ritmo si fondono in un affresco irresistibile. La bacchetta di Sesto Quatrini guida l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, quest’ultimo preparato dal maestro Ciro Visco, in una partitura che alterna brio scintillante e malinconia lirica, virtuosismo vocale e spassosa ironia. Nel ruolo della brillante e astuta Isabella si alterneranno Chiara Amarù e Laura Verrecchia, affiancate dal Mustafà di Paolo Bordogna e Adolfo Corrado (6, 8, 11 giugno). Completano il cast Dave Monaco e Giorgio Misseri come Lindoro, Misha Kiria e Vincenzo Taormina nel ruolo di Taddeo, Jessica Ricci come Elvira, Maria Elena Pepi nel ruolo di Zulma, e Alejo Alvarez Castillo in quello di Haly. Grande spazio viene dato ai giovani talenti del progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, da cui provengono alcuni dei protagonisti in scena, a conferma della costante attenzione del Teatro verso la formazione e la valorizzazione delle nuove voci della lirica italiana e internazionale. Con la sua irresistibile miscela di beffa, amore e avventura, L’italiana in Algeri continua a divertire e a incantare, restituendo il Rossini più scoppiettante e teatrale, in una produzione che omaggia l’arte scenica italiana nella sua forma più alta e popolare insieme. Per informazioni, biglietti e repliche consultare il sito ufficiale del Teatro dell’Opera di Roma. www.operaroma.it
Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2024/25
“COME NEI GIORNI MIGLIORI”
di Diego Pleuteri
con ALESSANDRO BANDINI e ALFONSO DE VREESE
Regia Leonardo Lidi
Scene e Luci Nicolas Bovey
Costumi Aurora Damanti
Suono Claudio Tortorici
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Milano, 28 maggio 2025
Quello che colpisce di più di “Come nei giorni migliori“ non sono tanto le molte prove positive di chi lo ha portato in scena, ma l’assoluta misura di queste prove, che con tutta probabilità provengono dalla misura di un testo estremamente consapevole di sé: la struttura è quello di un gioco al massacro, una coppia di attori, che non fanno altro che amarsi ed odiarsi per un’ora e mezza; pure, non viene pronunciata una parola di troppo, lo spettacolo non dura un minuto di troppo, il coltello che spesso ci affonda nelle carni non ci risparmia nemmeno un centimetro della sua lama. Quando si dice che un testo è scritto a regola d’arte si intende esattamente questo, cioè un testo capace di tenere l’attenzione dello spettatore sempre alta, dal primo all’ultimo momento, senza la possibilità di annoiarsi, o di speculare troppo, ma lasciandogli l’unico diritto che uno spettatore ha e che sovente, invece, gli viene negato – cioè quello di lasciarsi coinvolgere. E non stiamo parlando del coinvolgimento del pubblico valicando la quarta parete (escamotage ormai praticato anche nei teatri degli oratori di provincia), né semplicemente del coinvolgimento emotivo, che, giustamente, molto teatro del Novecento rigetta come fuorviante, ma di un coinvolgimento umano a trecentosessanta gradi, anima, corpo e mente, quello stato in cui una persona viene portata fuori da sé per seguire quello che avviene sul palco. In questo senso, tutta la nostra lode va a Diego Pleuteri, l’autore di questo testo, che nonostante la giovane età non si trova certo alle prime armi – lo capiamo dal fatto che a fargli da regia troviamo Leonardo Lidi, un po’ a sorpresa, a dirla tutta: Lidi è un regista fra i più apprezzati del nostro teatro, fresco di una trilogia cecoviana che negli ultimi cinque anni ha girato tutte le maggiori piazze italiane, e con molte successi sul proprio carnet; ci stupiamo di lui perché in “Come nei giorni migliori“ sembra aver ritrovato una freschezza che da un po’ di tempo latita nelle sue regie: un lavoro a scena vuota tutto incentrato sulle prossemiche e le relazioni aptiche degli attori, che sono essi stessi gli oggetti di scena, si tratti di una discoteca, di un campo di padel, di una cena di Natale, di un’automobile o di un matrimonio; solo a loro Lidi rimanda la creazione scenica, e lo fa certamente con maestria, ma soprattutto con godibilissima spontaneità, tanto che in alcune scene non sappiamo dove cominci la regia, intervenga il lavoro dell’attore, e finisca la drammaturgia. I due interpreti sono stati scelti con grande attenzione: non ci spingiamo a dire che i ruoli siano stati cuciti loro addosso, ma senza dubbio, sono stati in grado di calarsi in due ruoli veramente complessi, ed estremamente demanding sul piano fisico (e non solo per le molte scene di intimità, ma anche per la rapidità, la varietà e la prontezza richiesta dalle azioni che devono compiere). Alessandro Bandini ha il giusto modo di relazionarsi al suo personaggio, che è inquieto, insicuro, il tipico gay milanese che vive per i suoi traguardi e pretende che il mondo lo ammiri; la voce lievemente nasale, la fisicità smilza, e i tratti e i modi del meridionale emancipato ne restituiscono un’immagine ferocemente credibile. Gli fa da perfetto contraltare Alfonso De Vreese, sotto ogni punto di vista: il fenotipo nordico, la fisicità imponente, la parlata settentrionale appena intelligibilmente cadenzata, il suo è il ritratto di un ragazzo gay da serie tv americana – gli piace la “normalità”, sogna una famiglia, è apparentemente risolto, ma è anche nevrotico, cerebrale, una creatura a cavallo fra Woody Allen e il personaggio di un manga giapponese; e forse, proprio per questa vena surreale che De Vreese riesce a imprimere al suo personaggio, ci risulta più convincente, in un angolo del nostro cervello speriamo che l’interprete non differisca così tanto dall’interpretato. Il resto non esiste: solo le luci di Nicolas Bovey si fanno vedere, a suggello delle varie fasi della storia fra i due protagonisti, ma non come una discreta cornice: al contrario, sono luci che si impongono, cambiano repentinamente, come repentinamente sono in grado di riassumere in un’ora e mezza più di un anno di storia Bandini e De Vreese – in un certo senso, le luci sono il terzo personaggio, l’unica presenza scenica che percepiamo davvero al di là degli attori. Il Teatro Franco Parenti ci tiene, prima dell’inizio dello spettacolo, a sottolineare quanto tutte le date di “Come nei giorni migliori“ siano già sold out, e onestamente non ci stupisce, in primis perché è stato scelto di metterlo in scena in una sala che conterà sì o no una settantina di posti, ma soprattutto, fuori di cinismo, perché lo spettacolo si preannuncia già ricco di noti professionisti, di cui lo spettatore assiduo pensa di potersi fidare, a prescindere dalla vicenda nuda e cruda; è bello constatare che per questa volta la fiducia sia largamente ben riposta. Foto Luigi De Palma
Cairo, Museo Egizio
TESORI DEI FARAONI
La mostra Tesori dei Faraoni, in programma alle Scuderie del Quirinale dal 24 ottobre 2025 al 3 maggio 2026, si impone nel panorama espositivo internazionale quale operazione culturale di altissima complessità filologica, museografica e simbolica, nonché come esito felice di una diplomazia del sapere che, partendo dal vincolo tra archeologia e politica, rinnova e approfondisce il dialogo tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Araba d’Egitto. L’iniziativa, resa possibile grazie alla sinergia tra il Supreme Council of Antiquities, Ales SpA, MondoMostre, il Museo Egizio di Torino e l’Ambasciata d’Italia al Cairo, restituisce una visione stratificata e coesa della civiltà egizia quale struttura di senso, architettura teologica e immaginazione materiale del divino. La mostra si articola in sei sezioni tematiche che si offrono non come comparti statici, ma come itinerari mentali attraverso cui il visitatore è chiamato a decifrare le costellazioni semiotiche di un mondo che concepì il tempo come eternità ritmata, la morte come passaggio ritualizzato e l’immagine come corpo animato. Oltre 130 reperti, molti dei quali per la prima volta esposti fuori dal territorio egiziano, tracciano un racconto che non è solo storico, ma mitopoietico. Come ha affermato il Segretario Generale del Supreme Council of Antiquities, Dr. Mohamed Ismail Khaled: «Ogni oggetto selezionato per questa mostra non è soltanto testimone del passato, ma organo vivente di un sistema culturale che continua a generare senso. “Tesori dei Faraoni” non è una semplice esposizione: è una trasmigrazione del sacro, un invito all’ascolto di una lingua antica, perfetta, ieratica». L’esposizione si apre con la Triade di Micerino, capolavoro del repertorio scultoreo dell’Antico Regno, dove il faraone — figura liminale tra mondo umano e sfera divina — è incastonato tra la dea Hathor e la personificazione del nomo tebano. È un manifesto in pietra dell’ideologia regale egizia, in cui l’equilibrio cosmico (maat) si fa materia scolpita, simmetria vivente, relazione teofanica. Altrettanto eloquente, la maschera funeraria d’oro di Amenemope irradia non solo bellezza tecnica, ma una tensione metafisica: l’oro, “carne degli dèi”, veicola la trasfigurazione del corpo regale in corpo eterno, impermeabile al disfacimento e consegnato al ciclo solare. Il sarcofago della regina Ahhotep, sontuoso e ieratico, si accompagna alla Collana delle Mosche d’Oro, onorificenza militare riservata ai più valorosi, testimonianza del potere femminile come agente di stabilizzazione dinastica. La copertura funeraria del faraone Psusennes I e il sarcofago di Thuya, nonna del rivoluzionario Akhenaton, completano un itinerario nel quale ogni manufatto agisce come frammento di un cosmo rituale, in cui il confine tra arte, religione e funzione magica si dissolve. La sezione dedicata alla cosiddetta “Città d’Oro” — l’insediamento risalente ad Amenhotep III recentemente rinvenuto nei pressi di Luxor — apre un varco sulla dimensione microstorica dell’Egitto antico. Qui, il tempo non è più quello dei sovrani, ma quello degli artigiani, dei funzionari, dei tessitori: vite immerse nella fatica quotidiana, ma intrise della stessa sacralità di chi erigeva piramidi e scriveva inni solari. La loro esistenza, restituita da ceramiche, strumenti, sigilli, ci riporta a una civiltà dove l’ordinario era già sacro. Accanto a questi prestiti d’eccezione, il Museo Egizio di Torino ha concesso la celebre Mensa Isiaca, tavola bronzea del I secolo d.C., prodotta a Roma come omaggio colto e sincretico alla religiosità egizia. Come ha dichiarato il Direttore Christian Greco: «La Mensa Isiaca non è soltanto un oggetto, ma un’idea: essa mostra quanto il pensiero egizio abbia agito in profondità nelle matrici intellettuali del mondo romano e moderno, configurandosi come grammatica simbolica che attraversa epoche e civiltà». La mostra si svolgerà alle Scuderie del Quirinale, in un contesto topografico carico di valore: tra le vestigia del Tempio di Serapide e la residenza del Presidente della Repubblica, luogo in cui il tempo repubblicano e quello sacro sembrano convergere. Come ha sottolineato Matteo Lafranconi, Direttore delle Scuderie: «Ogni mostra ha un’architettura visibile e una invisibile. In “Tesori dei Faraoni”, quella invisibile è fatta di relazioni antiche che si riattivano: tra Roma e l’Egitto, tra l’immaginazione e la storia, tra la morte e il linguaggio». Alessandro Giuli, Ministro della Cultura, ha definito l’iniziativa «un modello esemplare del Piano Mattei declinato alla cultura: un sistema dove ricerca, politica e memoria si fondono in una visione condivisa del Mediterraneo come spazio di saperi in dialogo». Fondamentale è stato il contributo organizzativo di Ales SpA, come ha dichiarato il Presidente Fabio Tagliaferri: «Con “Tesori dei Faraoni” realizziamo pienamente la missione delle Scuderie: produrre cultura come esercizio di responsabilità, come atto di ascolto tra civiltà. Questa mostra è l’atto di fiducia reciproca tra due nazioni che riconoscono nella cultura un’architrave delle relazioni internazionali». Attraverso conferenze, laboratori, visite tematiche e apparati critici di altissimo livello, Tesori dei Faraoni non si limita a esporre: interroga. Non si limita a evocare: inizia. È, in definitiva, una soglia aperta sull’immaginario egizio, dove la forma non è ornamento, ma destino; dove ogni oggetto è eco del cielo, memoria della terra, cifra di un altrove eterno che ancora ci appartiene.
La cantata Gott fähret auf mit Jauchzen BWV 43 è la terza partitura bachiana destinata alla festa dell’Ascensione (celebrata nella Chiesa Luterana questo 29 maggio 2025, mentre nel rito cattolico la Domenica 1 giugno). Eseguita la prima volta il il 30 maggio 1726 si presenta con una strumentazione festosa (3 trombe, timpani, 2 oboi, archi e continuo) che evidenziano l’importanza di evento celebrativo (Ascensione). Che la struttura della cantata BWV 43 sia un po’ strana lo si capisce subito dal fatto che sia composta da undici movimenti nello spazio di poco più di venti minuti. Infatti, inizia in modo abbastanza convenzionale con testi biblici, ma poi inizia a utilizzare le strofe (sei in tutto) di un inno anonimo e termina con un corale composto da due strofe di un altro inno. Per di più, questa divisione non si riflette nella suddivisione della partitura in due parti, con la prima strofa dei sei versi che conclude la prima parte. Il punto culminante di questa cantata è il magnifico coro iniziale: Un breve adagio dell’oboe e della sezione d’archi conduce all’emozionante entrata della tromba e del coro. Le quattro arie presenti non sono con “da capo”. Presumibilmente Bach stava scrivendo con tempi ristretti e quindi ha ridotto le arie. Tra i cinque recitativi si impone quello centrale (nr.4) affidato al soprano su parole tratte dal Vangelo di Marco (cap.16 – vers.19). Tra le arie spiccano quella del basso (Nr.7) con tromba concertante, sostituita in una successiva esecuzione da un violino e l’aria del contralto (Nr.9) con due oboi che guidano un’introduzione orchestrale, per poi passano in secondo piano mentre il solista canta, anche se non sono mai assenti a lungo. La scelta degli oboi, della tonalità minore e delle dolci terze parallele crea un sentimento più cupo (anche se non proprio triste), forse di nostalgia per il Signore risorto e asceso
Parte prima
Nr.1 – Coro
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni;
cantate inni al nostro re, cantate inni.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
L’Altissimo si prepara a celebrare il suo trionfo
conducendo prigioniere le stesse prigioni.
Chi lo acclama? Chi suona le trombe?
Chi marcia al suo fianco?
E’ la legione di Dio
che rende onore al suo nome, cantando
salvezza, gloria, regno, forza e potenza
a piena voce e a lui elevando Alleluia in eterno.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Sì, migliaia e migliaia accompagnano i carri
per cantare le lodi del Re dei Re e proclamare
che il cielo e la terra sono in suo potere
e ciò che ha conquistato è a lui sottomesso.
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
E il Signore, dopo aver parlato con loro,
fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
Nr.5 – Aria (Soprano)
Il mio Gesù ha ormai
compiuto l’opera di salvezza
e fa il suo ritorno
a Colui che lo aveva mandato.
Ha concluso la sua missione sulla terra,
voi cieli, apritevi
e lasciatelo rientrare!
Seconda Parte
Nr.6 – Recitativo (Basso)
Arriva l’eroe degli eroi,
rovina ed terrore di Satana,
colui che ha sconfitto la morte,
cancellato la macchia del peccato,
disperso le armate dei nemici;
voi potenti, accorrete
a celebrare il vincitore.
Nr.7 – Aria (Basso)
E’ stato lui da solo
a pigiare nel tino
colmo di tormenti, pene e dolori, 3
per riscattare a caro prezzo
coloro che erano perduti.
Voi troni, affrettatevi
ad incoronarlo!
Nr.8 – Recitativo (Contralto)
Il Padre ha già preparato
per lui un regno eterno:
è ormai vicina l’ora
in cui sarà incoronato
dopo mille sofferenze.
Resto qui lungo la strada
per poterlo ammirare pieno di gioia.
Nr.9 – Aria (Contralto)
Posso già spiritualmente vederlo
alla destra di Dio
colpire i suoi nemici
per liberare i suoi servi
dall’angoscia, dal dolore e dall’umiliazione.
Resto qui lungo la strada
per poterlo ammirare pieno di fervore.
Nr.10 – Recitativo (Soprano)
Vuole preparare per me
una dimora vicino alla sua,
dove potrò eternamente
stare al suo fianco,
libero dai dolori e dai lamenti!
Resto qui lungo la strada
per poterlo acclamare con gratitudine.
Nr.11 – Corale
Principe della vita, Signore Gesù Cristo,
che sei stato accolto
in cielo, dov’è tuo Padre
con la comunità dei santi,
come posso celebrare
la tua grande vittoria,
conquistata dopo una dura guerra,
e renderti adeguato onore?
Portaci con te e correremo,
donaci le ali della fede!
Facci volare via da qui
sui monti d’Israele!
Mio Dio! Quando potrò giungere
là dove sarò felice per sempre?
Quando sarò davanti a te
per contemplare il tuo volto?
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Palazzo delle Esposizioni
ROMA CODEX
da un’idea di Studio F.P.
a cura di Clara Tosi Pamphili
Roma, 28 maggio 2025
Roma Codex, la grande mostra di Albert Watson ospitata dal 29 maggio al Palazzo delle Esposizioni, ha il merito raro di affrontare Roma senza mitizzarla. Lontana da ogni concessione al folklore o alla cartolina, l’operazione è un esercizio di visione lucida e rigorosa. Il fotografo scozzese, trapiantato a New York, non è nuovo a questo tipo di disciplina: per oltre cinque decenni ha attraversato l’immaginario collettivo passando dalla moda all’arte, con una capacità tecnica che non si esaurisce mai in se stessa. Watson arriva a Roma senza schema precostituito, ma con uno sguardo allenato all’essenziale. La città gli si rivela senza proclami, in una continua dialettica fra monumentalità e dettaglio umano. Il progetto, nato da un’idea di Studio F.P. e curato da Clara Tosi Pamphili, si sviluppa in oltre 200 fotografie, in bianco e nero e a colori, alcune di grande formato. Nulla è casuale, ma nulla è programmatico: è il metodo di Watson a guidare l’immagine, non l’ideologia della città. La scelta di non seguire una disposizione tematica, ma di disporre le opere secondo una logica interna, quasi musicale, restituisce alla mostra una fruizione non retorica. Roma, nella lente di Watson, è un sistema complesso e stratificato. Non vi è traccia del Roma-mito, ma semmai di un’attenzione analitica per ciò che la città produce nel suo presente: volti, architetture, frammenti di vita. Si incontrano così le immagini del Colosseo o dell’Ara Pacis, accanto a scatti nei club notturni, nei teatri di posa di Cinecittà, nei mercati, nei caffè e negli studi d’artista. Il fotografo documenta ma non racconta: costruisce un atlante visivo che non pretende di spiegare, ma di mostrare. È un’operazione che ricorda, per certi aspetti, la fotografia scientifica, ma con un’evidente capacità intuitiva e una conoscenza profonda della composizione. Nel corpus delle opere, convivono ritratti di artisti e intellettuali (Paolo Sorrentino, Roberto Bolle, Valeria Golino, Luca Bigazzi), accanto a volti anonimi, trattati con identico rispetto formale. Watson non crea gerarchie, ma stratificazioni. Ogni immagine è un tassello della città contemporanea, colta nella sua tensione tra memoria e mutamento. La Roma di Watson è una città dove il tempo non è univoco. Non è il luogo della Storia con la maiuscola, ma un corpo urbano che vive nel dettaglio. I paesaggi urbani diventano, così, quasi sezioni archeologiche della contemporaneità: il Foro Romano si affianca a Porta Portese, il Gianicolo alla Via Appia Antica, in un processo di accumulo che non è decorazione, ma struttura. Dal punto di vista tecnico, Watson mostra ancora una volta una padronanza assoluta del mezzo. La luce, trattata con cura quasi scultorea, delinea ogni soggetto senza eccedere in effetti. Il colore, quando presente, è misurato. Il bianco e nero domina con sobrietà. Non c’è compiacimento stilistico, ma aderenza allo sguardo. La mostra si articola in tre grandi sale, ma è concepita come un flusso continuo. Non vi è soluzione di continuità tra i soggetti, che siano monumenti, persone, oggetti o interni. Questo approccio rafforza la lettura di Roma come organismo e non come museo. Watson dimostra che si può fotografare Roma senza mitizzarla, ma anche senza negarne il peso simbolico. Al contrario di molti progetti recenti su Roma, qui non si cerca la città “alternativa” o “segreta”. Si guarda alla città reale, nella sua complessità. Si evita il pittoresco così come la denuncia. Non c’è ideologia nella fotografia di Watson, ma metodo, disciplina, occhio esercitato. L’allestimento, sobrio, non interferisce con le immagini. La mostra si affida interamente al potere del contenuto visivo. Si entra come in una camera ottica, si esce con la sensazione che Roma non sia stata raccontata, ma analizzata. Non è poco. In tempi in cui l’immagine tende a essere strumentalizzata o ingigantita, Roma Codex è un esempio di come si possa ancora praticare la fotografia come linguaggio critico. Watson osserva, isola, ordina. Non giudica, non grida. Mostra. Ed è in questo atto di mostrare, asciutto e onesto, che sta il valore di un progetto che non pretende di definire Roma, ma ne accetta l’ambiguità. Una mostra da vedere con lentezza, magari più volte, per apprezzare quella che, più che una sequenza di scatti, è una lezione di sguardo.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
“DER JUNGE LORD”
Opera comica in due atti di Ingeborg Bachmann ispirata alla novella Der Scheik von Alexandria und seine Sklaven di Wilhelm Hauff
Musica di Hans Werner Henze
Sir Edgar GIOVANNI FRANZONI
Sein Sekretär LEVENT BAKIRCI
Lord Barrat MATTEO FALCIER
Begonia CATERINA DELLAERE
Der Bürgermeister ANDREAS MATTERSBERGER
Oberjustizrat Hasentreffer YURII STRAKHOV
Ökonomierat Scharf GONZALO GODOY SEPÚLVEDA
Professor von Mucker LORENZO MARTELLI
Baronin Grünwiesel MARINA COMPARATO
Frau von Hufnagel IOANNA KYKNA
Frau Oberjustizrat Hasentreffer ALOISIA DE NARDIS
Luise MARILY SANTORO
Ida NIKOLETTA HERTSAK
Ein Kammermädchen LETIZIA BERTOLDI
Wilhelm ANTONIO MANDRILLO
Amintore La Rocca JAMES KEE
Ein Lichtputzer DAVIDE SODINI
Danzatori: Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli, Senne Reus, Julie Vivès
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Corpo di Ballo Compagnia KOMOCO
Direttore Markus Stenz
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Maestra del Coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino Sara Matteucci
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
Coreografia Sofia Nappi
Firenze, 25 maggio 2025
Domenica 25 maggio la grande affermazione della prima italiana in lingua originale di Der junge Lord (Il giovane Lord) del compositore tedesco Hans Werner Henze, legato al nostro Paese in particolare per aver fondato nel 1976 il Cantiere Internazionale d’Arte a Montepulciano. L’opera – pur essendo figlia del suo tempo e del suo concepimento (1960-65) e trattando vari temi come l’ipocrisia, l’alienazione o più particolarmente l’ironia o la risata amara – si presenta come un crogiolo di idee capace di trasformare strutture temporali, diversità e pluralità di linguaggi in un’edificante cattedrale di pensieri e di bellezza senza tempo. La partitura, come un cilindro magico, da qualsiasi punto di vista la si percepisca, restituisce effetti sorprendenti grazie ad una scrittura che coinvolge ogni componente dell’opera con inventio ed intuito, unitamente ad un chiaro richiamo alla tradizione. Da un lato emergono eredità che rimandano a Rossini, Mozart, al melodramma italiano, al teatro di Collodi, a Stravinskij, ecc., mentre dall’altro – per il suo parlare a tutti e per l’inserimento nel fulvido teatro del Novecento – risulta un lavoro dalle molte sfaccettature, ivi compreso il mondo poetico di Bachmann ed Henze. Si tratta di una partitura lontana dalle avanguardie nella quale si ravvisano procedimenti compositivi che strizzano l’occhio all’opera buffa e comica italiana in una mutazione di ritmi e di strutture talmente repentini che sussiste sempre qualcosa di sfuggente.
Allo spettatore il compito di approcciarsi mediante una percezione sinestetica dell’opera per ‘ammirare’ uno spettacolo di primissimo artigianato, capace di far confluire i vari linguaggi artistici. La sorpresa e la sfuggevolezza di un qualcosa è costantemente presente come ad esempio in Lord Barrat, il quale parla attraverso il suo segretario, o nel ritorno del melos; due situazioni che possono passare quasi inosservate. Uno spettacolo molto armonizzato in cui emerge l’arte del dialogo e la partecipazione delle varie componenti artistiche. Già l’arrivo in una piccola città della Germania di Sir Edgar, nell’attraente e piacevole interpretazione di Giovanni Franzoni, costituisce un bell’esempio di rappresentazione sui generis. Il singolare personaggio inglese, portandosi dietro animali esotici, un seguito di persone tra cui un servo moro, attira l’attenzione dei cittadini ai quali risponde con ostentazione e riserbo anche di fronte ai vari inviti rivoltigli. Ma l’attesa di un ‘galateo internazionale’ che gli abitanti pensano corrisponda al bizzarro comportamento del nipote, il personaggio di Lord Barrat nella perfetta interpretazione di Matteo Falcier, alla fine, nella danza, si rivela essere una scimmia ammaestrata beffando tutti. Ritornando alla realizzazione ‘armoniosa’ dello spettacolo il gran numero di personaggi che via via si succedono sul palcoscenico riescono a creare vivide connessioni tra drammaturgia, musica, danza, scenografia, costumi, luci, ecc. Che dire poi della presenza fantastica e affascinante del circo, quasi metateatro, con la combinazione di vari personaggi come il mangiatore di fuoco, il giocoliere, ecc.? Tutti elementi capaci di evocare quella magia che riesce ad incantare grandi e piccoli. L’impressione che emerge dallo spettacolo è quella di un sontuoso atelier di illusioni in cui è necessaria una figura per gestire una serie di aspetti che, sottratti dal canto e dal suono, possono trasformarsi in una sorta di tableaux vivants. Quasi personaggio mitologico (Giano bifronte), capace di volgere lo sguardo sia al passato che al futuro, è apparsa la direzione precisa e coerente di Markus Stenz il quale ha espresso la sua inequivocabile attenzione alla partitura e alla conoscenza approfondita dello stile di Henze. Similmente la vivifica regia di Daniele Menghini ha sottolineato una perfetta simbiosi con le scene di Davide Signorini, i costumi di Nika Campisi, le luci di Gianni Bertoli e la coreografia di Sofia Nappi; in sostanza tutti hanno contribuito nella prospettiva teatro-vita a restituire un autentico capolavoro del Novecento. L’intera compagine ha suonato, cantato e ballato molto bene grazie all’eloquenza della partitura e, se in alcuni momenti poteva sorgere la ‘sorpresa’, la deviazione, il senso di smarrimento, ecc. non è stato arduo immaginare il grande lavoro di squadra di Lorenzo Fratini (direttore del coro), Sara Matteucci (direttrice del coro di voci bianche) e Sofia Nappi (curatrice dei danzatori) confluito nella direzione molto strutturata di Stenz sempre volta a valorizzare ogni aspetto dell’opera. Nel sottolineare il buon livello di tutto il cast vocale, non si può non tacere della buona prestazione dell’orchestra, molto duttile e ben esperta anche di questo tipo di repertorio. I numerosi e reiterati applausi da parte del pubblico hanno decretato il grande successo della prima, benché a molti presenti sia rimasto il rammarico della conclusione di uno spettacolo che ha donato atmosfere oniriche.
Roma, Teatro Argentina
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
foto Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, (agente del copyright), Londra
per conto della Ingmar Bergman Foundation
Roma, 27 maggio 2025
C’è un tempo in cui il teatro, più che raccontare, svela. Non narra storie, ma rivela strutture dell’anima, tracce di una geografia affettiva che si insinua nei corpi, nel ritmo delle battute, nella pause che valgono più di un discorso. Così accade con Sarabanda, ultimo e abissale lascito di Ingmar Bergman, che Roberto Andò trasporta con misura e intelligenza sulla scena italiana, in una regia che rifugge ogni facile suggestione, ogni estetismo di maniera, per restituire invece la potenza del pensiero che si fa azione. Non siamo davanti a una mera trasposizione filmica. Andò non ricuce il cinema al teatro con ago d’oro e filo di nostalgia. Fa qualcosa di più sottile e più necessario: filtra, depura, restituisce all’arte scenica il compito di essere specchio imperfetto dell’imperfezione umana. Nello spazio rarefatto, costruito da Gianni Carluccio come un organismo respirante di pareti mobili e tagli di luce millimetrici, si consuma una liturgia familiare che è anche disfacimento, scontro tra la memoria e l’oblio, tra ciò che resta e ciò che già è passato. Il testo – nella traduzione asciutta e incisiva di Renato Zatti – è una suite di duetti, dieci quadri che non inseguono la cronologia ma la vertigine del sentire. A turno i personaggi si cercano, si sfiorano, si feriscono, si tradiscono con una brutalità che ha poco a che vedere con il dramma nel senso tradizionale del termine. Qui non c’è la scena madre, non c’è il colpo di teatro: c’è l’umanità nella sua essenza, disadorna e lacerata. Renato Carpentieri compone un Johan di rara complessità, dove la decrepitezza fisica non addolcisce la lucidità spietata di un uomo che ha amato troppo poco e riflettuto troppo. Il suo corpo, rigido e insieme frantumato, è l’emanazione di un pensiero che fatica a farsi carne. La sua voce è rotta, mai tremante: ha l’autorità amara di chi ha rinunciato a chiedere scusa. Alvia Reale, nel ruolo di Marianne, è forse la vera colonna segreta dello spettacolo. Non alza mai la voce, non reclama mai il centro, ma lo abita con fermezza. La sua è una presenza che non chiede conferme, ma lascia dietro di sé una traccia di consapevolezza e silenziosa pietà. Marianne è la figura che Bergman pone al confine tra il disastro e la possibilità di redenzione. Reale ne fa una testimone, non una vittima. Henrik, affidato a Elia Schilton, è una ferita aperta. Il suo dolore non cerca empatia: è rifiuto, è recriminazione, è bisogno d’amore che sconfina nella crudeltà. Schilton lo interpreta con pudore e forza, evitando il rischio del patetico. C’è una bellezza tragica nei suoi cedimenti, una nobiltà residua nel suo fallimento. La sua rovina non è solo individuale: è l’eco di un’intera genealogia di uomini incapaci di amare senza possedere. Caterina Tieghi è una Karin trattenuta e indocile. Il suo personaggio si muove come in fuga, sempre sull’orlo dell’abbandono e della colpa. Il violoncello che suona è un’estensione del corpo, ma anche una gabbia. Tieghi riesce nell’impresa di restituire la tensione costante di una ragazza che non sa ancora se la propria voce le appartenga davvero o se sia solo l’eco di ciò che il padre ha voluto plasmarla a essere. La regia di Andò lavora sulle trasparenze, sulle linee rette che si spezzano, sulle simmetrie che non coincidono. Nulla è enfatico, nulla è lasciato al caso. Le dissolvenze scenografiche, le cesure temporali, le dilatazioni musicali (grazie al lavoro di Pasquale Scialò) scandiscono la partitura emotiva come una suite bachiana interiore. C’è una musicalità dolorosa nella successione delle scene: tutto sembra lento, ma tutto precipita. E poi c’è il buio. Il buio che non è assenza, ma grammatica primaria della visione. Ogni comparsa sul palco è una emersione, ogni personaggio pare nascere dal nulla, come idea incarnata. Le luci non illuminano, sezionano. Non mostrano, interrogano. Anche le quinte mobili sembrano fessure della mente, pareti della memoria che si aprono e si richiudono senza preavviso, come in un sogno lucido. Certo, alcune scelte registiche possono risultare meno convincenti. L’esplicitazione del sottotesto incestuoso tra Henrik e Karin, sebbene condotta con discrezione, sottrae al testo quella ambiguità tragica che Bergman custodiva gelosamente. Là dove il sospetto è arma più affilata della dichiarazione, la scena sembra cedere al bisogno di mostrare, piuttosto che di evocare. Ma è una caduta marginale, che non compromette l’ossatura etica e poetica di uno spettacolo necessario. Il finale – quell’urlo condiviso, corale, che raggruma in sé il dolore muto di una vita intera – è il vero lascito di questa Sarabanda: un grido che non cerca redenzione, ma almeno ascolto. E se manca l’epilogo originario di Bergman, con la voce narrante di Marianne che infine tocca la figlia e ne riconosce il mistero, resta tuttavia una forma implicita di riconciliazione nella scelta di Karin di partire, di suonare, di vivere. Forse è proprio questo il senso di Sarabanda: lasciare che la musica, più che le parole, sia l’ultima a parlare. Photocredit Lia Pasqualino
Allegati
Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
“COSÌ FAN TUTTE”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Fiordiligi MARIANGELA SICILIA
Dorabella FRANCESCA DI SAURO
Guglielmo VITO PRIANTE
Ferrando MARCO CIAPONI
Despina GIULIA MAZZOLA
Don Alfonso NAHUEL DI PIERRO
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Martijn Dendievel
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia e scene Alessandro Talevi
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Teresa Nagel
Video Marco Grassivaro
Regista assistente e coreografo Danilo Rubeca
Maestro del Fortepiano Nicoletta Mezzini
Bologna, 25 maggio 2025
Dulcis in fundo: Così fan tutte chiude la felice trilogia Mozart-Da Ponte e Dendievel-Talevi. Un’opera dal soggetto, caso raro, originale: ma intrisa, e ai massimi livelli, di letteratura, in un sofisticato intrico di citazioni e ammiccamenti letterario-filosofici, tal da trovare un possibile termine di paragone, forse, nel solo Rosenkavalier. Le dame ferraresi (dal nome della prima Fiordiligi, Adriana Ferrarese, però veneziana) si portano dietro gli ovvî Orlandi di Boiardo e d’Ariosto. Fiordiligi, in ambo i poemi, è la sposa fedele di Brandimarte. Doralice, pur presente in entrambi, è nel Furioso inizialmente promessa a Rodomonte, poi però amante di Mandricardo, almeno finché questi non viene ucciso da Ruggiero: «per lei buono era vivo Mandricardo: / ma che ne volea far dopo la morte?» (XXX). Ecco l’antenata di Dorabella, secondo la quale «Tra un ben certo, e un incerto, / c’è sempre un gran divario!». D’altro canto il «vecchio filosofo» porta il nome del celebre Duca di Ferrara, Alfonso. Anche se «la scena si finge in Napoli», dove spira lucreziana aria d’epicureismo, d’ellenismo manierato e forse un po’ decadente, distaccato e sornione. La classicità è comunque di casa con Ovidio, che nelle sue Metamorfosi (VII) racconta di Cefalo, che, mutato d’aspetto, seduce la propria moglie Procri. Né si può mancar di citare la disfida fra Bernabò ed Ambrogiuolo, che scommettono sull’infedeltà di Ginevra, moglie del primo, nella seconda giornata del Decameron. O la celebre novella anomala che apre la quarta, detta «delle papere»: non è forse esemplificativa del pensiero di Don Alfonso? E poi, oltre il libertinismo filosofico così letterariamente condito di un libretto saturo di vezzosi petrarchismi, e poi, oltre a tutto questo, c’è la musica. Per dire l’infinito che contiene un capolavoro. Alessandro Talevi sposta l’azione su un’isola, in cui uno stravagante e forse strafatto guru (il don Alfonso di Nahuel Di Pierro, tanto morbidamente e soffusamente timbrato da parer, a tratti, sfocato) introduce giovinotti di buona famiglia, e soprattutto di buoni principî, alle filosofie orientali; e lo fa sottoponendoli a curiose prove iniziatiche: come, per esempio, scambiarsi le fidanzate. Se l’isola è una condizione esistenziale, l’ambientazione temporale, invece, conta: negli Anni 60 i giovani ci entrano rigidi e formali per uscirne beatnik e figli dei fiori. Barbe e baffoni nei ragazzi, capelli sciolti e look Woodstock nelle ragazze: sono i segni della rivoluzione morale impressa dal guru Alfonso. E Despina? Più convenzionale, forse incerto il trattamento riservatole dal regista. Sarà per questo che Giulia Mazzola tende talvolta a caricare un po’ più del dovuto, con sottolineature espressive talvolta superflue, la sua fresca e brillante voce.Ma tornando alle coppie. Mariangela Sicilia dà incantevole prova di sé, soprattutto nel suo Rondò del second’atto Per pietà, ben mio perdona: con il consueto timbro di “panna montata”, morbido e corposo, rotondo e dolce, e fiati semplicemente sognanti. Complice l’abile concertazione del valoroso Dendievel. Che attacca con inaspettata delicatezza la Cavatina di Ferrando Tradito, schernito: Marco Ciaponi aggiunge a nettezza dell’articolazione e candore del timbro una irresistibile camminata molleggiata, parte del suo travestimento hippy. Francesca Di Sauro sfodera un mezzo vocale di belle proporzioni, dal timbro bronzato e fiero; anche scenicamente appare decisamente a suo agio. In Vito Priante un fraseggiare accorto e vivace incontra un calore e una pastosità timbrici invidiabili. Ma ancora abbastanza non si è lodata la direzione di Martijn Dendievel: sagace, brillante, ricca di vita e d’inventiva. Oculatissima la gestione dell’equilibrio acustico, in favore sempre delle voci; cercando anche di asciugare gli archi per far emergere certi punteggiamenti degli ottoni, e specie dei corni (cui in questo titolo Mozart ricorre anche soltanto in ragione del facile gioco di parole). Elastico nei tempi, trova originali articolazioni della frase musicale, sempre guizzante. Com’era facile pronosticare già dalle Nozze del 2023, questa Trilogia è, piaccia o no, l’evento teatrale di maggior rilievo dell’Era Nouveau. Foto Andrea Ranzi
Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione 2024-2025
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy dalla novella di Prosper Mérimée
Carmen CATERINA PIVA
Micaela ANGELA NISI
Frasquita VITTORIANA DE AMICIS
Mercedes ALESSANDRA DELLA CROCE
Don José AMADI LAGHA
Escamillo ABRAMO ROSALEN
Le Dancaire ARMANDO GABBA
Le Remendado SAVERIO FIORE
Morales PAOLO INGRASCIOTTA
Zuniga LUCA DALL’AMICO
Danzatori CRISTINA ARIAS, JUAN PEDRO DELGADO, MARIA ANGELES FERNANDEZ, LUCIA FERNANDEZ PERAL, ANA ISABEL MARTIN,JOSE RABASCO AGUILAR
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche dell’Opera Carlo Felice di Genova
Direttore Donato Renzetti
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Voci bianche dirette da Gino Tanasini
Regia Emilio Sagi ripresa da Nuria Castejòn
Scene Daniel Bianco
Costumi Renata Schussheim
Luci Eduardo Bravo
Coreografia Nuria Castejòn
Allestimento della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma
Genova, 24 maggio 2025.
Carmen attira sempre le folle e, per quanti allestimenti e recite vengano programmate, per il teatro c’è sempre l’esaurito. La locandina, esposta sulla parete esterna del Carlo Felice, è stata ancora ulteriormente tappezzata da avvisi che data per data confermano il raggiunto sold out. L’allestimento attuale, con scene di Daniele Bianco, luci di Eduardo Bravo e costumi di Renata Schussheim, è importato dal teatro dell’Opera di Roma e mostra una Spagna, forse franchista, ma assolutamente anonima e poco incline al folklore. La regia originaria di Emilio Sagi è ripresa, senza particolare estro, da Nuria Castjòn. Non sono certo il palpeggiamento intimo che riceve Zuniga da Carmen, né il colpo di pistola alla tempia che lo abbatte e neppure Lillas Pastias trasformato in una vivace drag queen, nera di pelle, a ravvivare un’azione genericamente passiva e incolore. Vivaci e autenticamente spagnole, quasi da servizio turistico, le coreografie di Nuria Castjòn, agite da un nutrito gruppo di fantastici danzatori. L’Orchestra del Carlo Felice, con l’orchestrazione e la guida di Donato Renzetti, dà il meglio di sé. Un rilievo particolare hanno avuto il preludio e i tre entre-act, il flauto e l’arpa hanno poi introdotto con mistero e tensione la scena notturna delle verdi montagne del contrabbando. Non sono mancate infatti le occasioni in cui si sono fatti apprezzare, come validi solisti, sia i legni che gli ottoni. Renzetti porta poi gli archi e le loro prime parti ad accompagnare e sostenere, sempre con molta efficacia e discrezione, le voci. La fossa né ostacola né ammutolisce il palco ma ne suggerisce costantemente il clima e il carattere. Il coro del Carlo Felice, col rinforzo delle voci bianche, non fa mancare un fondamentale sostegno all’azione anche nei momenti più complessi del gioco scenico. I due maestri dei cori Claudio Marino Moretti e Giulio Tanasini hanno raggiunto un raro grado di omogeneità espressiva che evita le deprecabili urla che purtroppo ci affliggono da tantissimi palcoscenici, più o meno rinomati, della penisola. Caterina Piva e Amadi Lagha sotto molti aspetti sono una coppia ideale di protagonisti. La Piva canta assai bene, con voce ben educata, pur se le sono carenti quegli armonici che rendono alcune interpreti inesorabili e, forse anche, non amabilissime femme fatale. Se Habanera, Seguidilla e l’aria delle carte soffrono non poco di questo alleggerimento del peso e del carattere, con la grande Berganza non era altrimenti, la Canzone zingaresca, il duetto con José e il finale dell’opera ne rimangono esaltati. Con Lagha e la Piva pare poi di assistere alle schermaglie amorose del secondo atto e alla tragedia finale giocate col fascino di due adolescenti. Il timbro del tenore franco-tunisino è piacevolissimo e lo aiuta nell’esprimersi in quell’emissione intermedia che caratterizza tanta opera romantica d’oltralpe. Non sempre la tecnica e il fiato lo sostengono a dovere, ma l’espressione persiste convincente e colma di appeal. Per La Fleur si prende quel che viene, che non è male, ma troppo altro si è udito negli anni per potersi dire entusiasti. Ad Angela Nisi si deve riconoscere la bontà del timbro e della tecnica, pur coi limiti di uno strumento che la intralciano nella piena espansione cantabile. L’aria del terzo atto è più frutto di un’espressione nervosa che di un lirico abbandono; lo attestano anche l’atteggiamento e il gesto di sfida con cui si contrappone a Carmen. Abramo Rosalen, veemente e infuocato Escamillo, deve fare i conti con gli sforzi che gli son richiesti da una visione esclusivamente convinta e sfogata del personaggio. Il timbro aggressivo supporta il fuoco del torero infiammato dall’improvvisa sbandata amorosa. Armando Gabba, nella nutrita parte di Dancaire, è ottimo attore ed altrettanto efficace cantante. Più contenuto il contributo del Remendado, che Saverio Fiore svolge con provata professionalità. Morales Paolo Ingrasciotta e Zuniga Luca dell’Amico nei loro molteplici interventi, nel corso dei due atti centrali, sono efficacissimi e contribuiscono positivamente a portare a buon fine i cruciali concertati dei contrabbandieri. Ancora più impegnate le amiche di Carmen, Frasquita Vittoriana de Amicis e Mercedes Alessandra Della Croce a cui toccano gli insiemi coi contrabbandieri, il gioco delle carte con Carmen ed infine l’annuncio della tragedia, il tutto è giocato, sia scenicamente che vocalmente, in modo eccellente con professionalità e disinvoltura. Il grande pubblico presente, che pure si era molto risparmiato lungo tutta la recita, ha elargito calorosissimi applausi ed entusiastiche prolungate approvazioni finali.
Reggio Emilia, Teatro Valli
“THE WALL & PINK FLOYD GREATEST HITS”
Musiche Pink Floyd
MM Contemporary Dance Company
Orchestra Città di Ferrara
Accademia Corale “Vittore Veneziani”
Gruppo rock Pink Sonic
Coreografia Michele Merola
Direttore d’orchestra e arrangiamenti Roberto Molinelli
Maestro del coro Teresa Auletta
Attore Jacopo Trebbi
Interpreti: Filippo Begnozzi, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Aurora Lattanzi, Fabiana Lonardo, Federico Musumeci, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
Regia Manuel Renga
Regia video Fabio Massimo Iaquone
Drammaturgia Emanuele Aldrovandi
Scene Matteo Paoletti Franzato
Costumi Nuvia Valestri
Luci Marco Cazzola
Attore Jacopo Trebbi
Produzione Fondazione Teatro Comunale di Ferrara Fondazione, I Teatri di Reggio Emilia, Ravenna Festival, MM Contemporary Dance Company
Reggio Emilia, 25 maggio 2025
Spettacolo in due tempi: la prima parte di danza la seconda d’orchestra; la prima con la messa in scena di “The Wall”, la seconda con l’esecuzione dei brani più famosi della band inglese dei Pink Floyd (Pink Floyd Greatest Hits: Shine on you crazy diamond, Time, Wish you were here, The great gig in the sky, High hopes, Money). Per questo spettacolo abbiamo la commistione di danza, videoarte e narrazione attoriale. La scenografia di Matteo Paoletti si rifà al film “The Wall” (Alan Parker, 1982), mentre la regia video, del videomaker Fabrizio Iaquone, prende spunto dalla collaborazione di Iaquone con Robert Wilson; quindi le elucubrazioni mentali del protagonista, l’attore Jacopo Trebbi (alias Roger Waters, Bob Geldof nel film) prendono vita con le coreografie della MM Contemporary dance company che riproduce le animazioni create da Gerald Scarfe, per il film “The Wall”. Scarfe lavorò a stretto contatto con Roger Waters per sviluppare le animazioni, che sono diventate iconiche per il film. Alcuni di questi disegni sono stati poi utilizzati nelle performance dal vivo dei Pink Floyd; esemplare tra essi la marcia dei soldati che si trasforma nella marcia dei martelli. Una pedana mobile in cui stanno una sedia, una lampada e una TV sopra un tavolino che riproduce scene che noi spettatori vediamo amplificate a tutto palco in sovrapposizione all’ambiente. Il richiamo all’adattamento cinematografico, curato sempre da Waters, è molto forte: la storia, i flashbacks, la voce del protagonista, in continua condivisione si sovrappongono per costruire la crescente follia nella testa della rockstar Pink (Roger Waters). Il concept-album (26 tracce, 1979) esplora una vastissima gamma di suggestioni e stili musicali, accoglie significati profondi e universali e consegna alla storia del rock un capolavoro intramontabile. Si tratta della messa in scena delle frustrazioni di Roger Waters perché affranto dal progressivo allontanamento tra la band e il pubblico. Nel distacco tra performance e fruizione assistiamo alla rappresentazione dei brani più famosi del concept-album: In the flesh, Hey You, Nobody Home, Mother, Good Bye Blue skies, Comfortably Numb, The happiest days in our life, Another brick in the wall, Run like hell, Stop, The trial, Outside the wall. Ottime le coreografie di Michele Merola fondatore e direttore artistico della MM Contemporary Dance Company (1999, Nel 2021, 2022 e 2024 è stata presente su RAI 1 nelle trasmissioni di Roberto Bolle “Danza con me” e “Viva la danza”). I monologhi del protagonista sono intervallati da danze che inscenano i suoi diversi pensieri: la solitudine, il rancore, ma anche la voglia di emergere e di dettar legge. Sul palco non solo i danzatori ma anche una cover band “Pink Sonic” che esegue le musiche dal vivo, affiancata dall’Accademia Corale “Vittore Veneziani”, guidata dalla maestra del coro Teresa Auletta e dalla Orchestra Città di Ferrara, tutti diretti, negli arrangiamenti, dal direttore Roberto Molinelli. Ciò che rimane di questo spettacolo di danza, video e musica è una rappresentazione a tutto tondo dei prodromi di una società aberrante, che impone scelte, che sfocia in dittature, che versa in alienazione e isolamento, che impone la gloria della guerra, tutti mattoni di un muro invalicabile nella psiche dell’uomo. Lo spettacolo, The Wall & Pink Floyd Greatest Hits, iniziato in anteprima al teatro comunale di Ferrara, si concluderà al Ravenna Festival. Foto Marco Caselli Nirmal
Allegati
Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore – O flos colende, XXVIII edizione
“PEREGRINACIÓNS”
Musica dal Nuovo Mondo in occasione del Giubileo “Pellegrini di speranza”
The King’s Singers
Controtenori Patrick Dunachie, Edward Robert Button
Tenore Julian Gregory
Baritoni Christopher Bruerton, Nicholas Ashby
Basso Piers Connor Kennedy
Tradizionale Quechua (Perù): “Hanaqpachap cussicuinin”; Ariel Ramírez (1921 – 2010)-Félix Luna (1925 – 2009): “La peregrinación” (arr. Peter Knight); Sebastián De Vivanco (1551 – 1622): “Versa est in luctum”; Giovanni IV Re Di Portogallo (1604 – 1656): “Crux fidelis”; Tomás Luis De Victoria (1548 – 1611): “O quam gloriosum”; Gabriela Lena Frank (1972): “Travel Song” (da Tres Mitos de mi Tierra); Vicente Lusitano (C. 1520 – 1561):”Libera me” (da Heu me Domine); Juan Gutiérrez De Padilla (C. 1590 – 1664): “De carámbanos el día viste”, “Tristis est anima mea”; Heitor Villa-Lobos (1887 – 1959): “Pica-Pau” (Chôros n. 3); Tradizionale della Bolivia:”Dulce Jesús” mio. Selezione di brani tratti dal repertorio del gruppo.
Firenze, 22 maggio 2025
Da un ingresso della Cattedrale – passando sotto la cupola del Brunelleschi e alzando gli occhi all’affresco del Giudizio universale – il pubblico ha attraversato questo luogo santo come ‘pellegrino’ per arrivare allo spazio laterale destinato al concerto dei King’s Singers, singolare gruppo vocale britannico a cappella. L’acustica particolare di Santa Maria del Fiore ha restituito sonorità, anche con suggestive sfumature nel canto che proviene da lontano. Il gruppo di voci maschili, procedendo processionalmente, ha intonato un canto tradizionale Quechua del Perù, Hanaqpachap cussicuinin per proseguire il programma che, per molti aspetti, è sintetizzato nell’incipit di questo brano «Hanaqpachap kusikuynin» (Gioia del paradiso). Ultimo concerto della XXVIIIesima edizione di O flos colende che, come afferma il direttore artistico Gabriele Giacomelli, è «un ciclo di riflessioni bibliche, nelle quali la lettura dei testi viene affiancata all’esecuzione di brani musicali tematicamente coerenti, che vanno a incorniciare la lectio biblica». Infatti, insieme ai concerti, si sono svolti incontri sui temi del pellegrinaggio e della speranza, in riferimento al Giubileo 2025 indetto da Papa Francesco. Entrando in medias res, il gruppo ha presentato della «Musica dal Nuovo Mondo» il cui fil rouge era basato sulla parola chiave Peregrinacións declinata in ambito geografico-musicale ma attuale, in quanto l’umanità è alla ricerca di un obiettivo interiore. Si è trattato di una full immersion nella cultura musicale composita e multiforme che ha lasciato nei presenti ripercussioni significative non solo dal punto di vista artistico-musicale. La maggior parte dei brani è stata scelta con accuratezza non tanto riguardo agli autori ma al messaggio trasmesso che ha evidenziato, di volta in volta, le musiche europee e dell’America latina. Infatti Da Victoria e Lusitano sono stati sapientemente accostati a Ramírez-Luna, Villa-Lobos e alla compositrice contemporanea Gabriela Lena Frank. Di quest’ultima si segnala che il testo e la musica del Travel Song eseguito prende spunto dalla cultura dei popoli del Perù, Bolivia ed Ecuador rievocando le loro tipiche tecniche vocali, interpretato con rara maestria dai King’s Singer. Ritmi e armonie particolari si sono apprezzati anche nel canto piuttosto vivace di Villa-Lobos, ricco di onomatopee, visto che Pica-Pau significa picchio e la composizione ne imita chiaramente il verso. Altro brano piuttosto particolare il Libera me di Lusitano di cui resta famosa la disputa a Roma con Nicola Vicentino. La ricchezza di dissonanze della composizione è stata associata dai King’s Singers, nella loro breve presentazione, all’incertezza che pervadeva i viaggiatori verso il nuovo mondo. Testimone di un’importante peregrinacion è Juan Gutiérrez De Padilla, originario di Malaga, che si trasferisce a Puebla, in Messico, come magister capellae. L’inserimento di due composizioni di questo musicista ha proposto il tipo di repertorio che poteva essere eseguito nel primo Seicento nella cattedrale di questo importante centro religioso, in particolare Tristis est anima mea che ricorda la liturgia del Venerdì Santo, mentre l’altro, probabilmente, era eseguito con uno strumentario che costruiva lo stesso De Padilla, divenuto famoso per questa attività fino in Guatemala. Il gioco di incastri Europa-America si è dipanato per tutto il concerto, facendo emergere le qualità interpretative e musicali del gruppo inglese che vanta una carriera di successi fin dagli Anni Sessanta. Del complesso vocale colpisce la grande duttilità unita a rigore filologico e una significativa versatilità tale da poter interpretare, oltre al classico, altri ed ampi repertori. Ascoltare i King’s Singers significa lasciarsi proiettare verso lo stupore.
La luminosa voce di Patrick Dunachie rimanda alla bellezza e alla purezza e, insieme all’altro controtenore, Edward Robert Button, le suggestioni sonore sono diventati autentici bicinia colmi di pathos. In un registro più esteso, sia in contesti solistici che corali, è apparsa la voce cristallina del tenore Julian Gregory le cui caratteristiche timbriche evidenziano una vocalità nitida e brillante. Incastonati tra quest’ultima voce e in posizione più grave i due baritoni Christopher Bruerton e Nicholas Ashby. Udire i loro interventi è come sentirsi parte del loro sound e lasciarsi ‘cullare’ da una calda e ricca sonorità, oltre a percepire quanto armonizzino la limpidezza e la pastosità dell’ensemble. Dulcis in fundo, rendendo tutto più edificante ed equilibrato l’insieme, la voce piena, profonda e nello stesso tempo rotonda, del basso Piers Connor Kennedy. Attingendo al repertorio più conosciuto, il gruppo ha offerto un omaggio alla città di Firenze, poiché vi è sepolto Gioachino Rossini (chiesa di Santa Croce), con una scoppiettante esecuzione dell’Allegro vivo dall’Ouverture de Il Barbiere di Siviglia. Le singole voci, nelle varie trasposizioni imitative degli strumenti, hanno fatto emergere e confermare un’impeccabile tecnica e musicalità tanto da catalizzare la meraviglia.
Il successo del concerto si è tradotto in un ‘incontro’ sonoro di umanità e bellezza, colmo di altrettante suggestioni spirituali tanto che il fermarsi alla fine a conversare con il pubblico si è rivelato il rinnovato abbraccio di una città che ancora ricorda il concerto nel 2021 dei King’s Singers al Teatro della Pergola.
Allegati
La nuova Stagione d’Opera si apre con un titolo duro, scabro, che aggredisce lo spettatore e lo stringe in un nodo di violenza e disperazione. Scritta da Šostakovič nel 1934 e ispirata alla celebre novella di Leskov, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. A cinquant’anni dalla scomparsa del compositore, Riccardo Chailly la porta alla ribalta del 7 dicembre con la regia di Vasily Barkhatov: una proposta che apre in modo insolito e coraggioso una programmazione fatta di grandissimi titoli. Il Maestro Chailly, che conclude alla fine del 2026 il suo mandato come Direttore Musicale ma il cui legame con la Scala inaugurato nel 1978 proseguirà con nuovi progetti oltre l’incarico, si conferma tra i direttori dal repertorio più ricco e denso di curiosità culturale e senso dell’avventura musicale. Evento cardine per la Stagione e appuntamento irrinunciabile del calendario culturale milanese è il doppio ciclo completo del Ring des Nibelungen diretto da Alexander Soddy e Simone Young, già tutto esaurito in abbonamento. Il viaggio attraverso le quattro Giornate, con un cast di grandissime voci, permetterà di cogliere l’insieme del percorso registico immaginato da David McVicar come recupero delle radici mitiche del racconto e summa di esperienze teatrali diverse. Nel mese di aprile ricorre il centenario della prima esecuzione assoluta di Turandot, avvenuta alla Scala con la direzione di Arturo Toscanini: l’opera torna in scena diretta da Nicola Luisotti nell’allestimento pensato da Davide Livermore nel 2024 per il centenario della morte del compositore. Un debutto particolarmente atteso è quello di Romeo Castellucci, uno dei maggiori registi europei, che approda alla Scala con Pelléas et Mélisande di Debussy, opera particolarmente adatta alla sua concezione di teatro simbolico e visionario. Dirige Maxime Pascal, brillante protagonista della nuova generazione della direzione d’orchestra francese al suo terzo titolo scaligero. È alla sua prima volta alla Scala anche Alessandro Talevi, cui è stata affidata la responsabilità di una nuova produzione di Nabucodonosor con il Direttore Musicale Riccardo Chailly sul podio e Anna Netrebko e Luca Salsi nel cast. Myung-Whun Chung torna per la prima volta nella buca scaligera dopo l’annuncio della sua nomina a successore di Chailly come Direttore Musicale con Carmen, un titolo che non ha mai diretto alla Scala e che verrà presentato nel nuovo allestimento di Damiano Michieletto. È francese anche l’ultima nuova produzione della Stagione, Faust di Gounod con il debutto del regista Johannes Erath, la coppia formata da Marina Rebeka e Vittorio Grigolo in palcoscenico e il ritorno in buca dopo dodici anni di uno dei direttori italiani più apprezzati nel mondo, Daniele Rustioni. Le riprese sono invece tutte dedicate a grandi titoli del melodramma italiano: oltre a Turandot, Lucia di Lammermoor diretta da Speranza Scappucci con Rosa Feola protagonista nell’elegante spettacolo di Yannis Kokkos e la storica Traviata firmata da Liliana Cavani con Nadine Sierra diretta da Michele Gamba. Completa la Stagione la nuova produzione dell’Elisir d’amore per il Progetto Accademia, con altri due importanti debutti, quello del quarantenne Marco Alibrando sul podio e di Maria Mauti alla regia.
La prima Stagione di Balletto disegnata dal nuovo Direttore del Ballo Frédéric Olivieri brilla di novità per la Scala: accanto alle riprese di spettacoli storici come La Bella addormentata (che apre il cartellone) e Don Chisciotte di Nureyev, e Giselle di Yvette Chauviré, il palcoscenico ospita una parata di firme contemporanee e grandi del Novecento. A partire dal nuovissimo trittico che a marzo presenta tre pagine mai viste a Milano: il ritorno di Wayne McGregor, che con Olivieri ha una lunga consuetudine, con Chroma del 2006, uno dei suoi pezzi più rappresentativi; Dov’è la luna di Jean-Christophe Maillot, più riflessivo e intimistico; il dirompente Minus 16 con cui Ohad Naharin porta per la prima volta alla Scala il suo stile assolutamente unico e riconoscibile. Christopher Wheeldon aveva presentato un suo lavoro al Teatro degli Arcimboldi anni fa, ma non è mai comparso nella programmazione del Piermarini: per il 2026 Olivieri ha voluto il suo Alice’s Adventures in Wonderland, ormai un classico di grande attrattiva per il pubblico e grande impegno per la Compagnia. Tutta dedicata a Stravinskij la serata che unisce due pietre miliari della danza di tutti i tempi: Apollo di Balanchine e il debutto scaligero della Sagra di Pina Bausch. L’artista tedesca ha legato il suo nome alla Scala solo una volta, nel 1983, con il suo Tanztheater Wuppertal in Kontakthof: questa prima è dunque un momento importante per la Compagnia. Nella programmazione di danza del 2026 torna anche il Gala Fracci, un omaggio alla grande artista milanese che dopo quattro edizioni di successo e numerose richieste raddoppia in due serate. In allegato la stagione in dettaglio
Roma, Teatro Argentina
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
foto Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, (agente del copyright), Londra
per conto della Ingmar Bergman Foundation
Sebbene pensata per il cinema, Sarabanda, ultima opera di Ingmar Bergman, ha una struttura straordinariamente affine al linguaggio teatrale. In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a parlare dei protagonisti di Scene da un matrimonio diventati, trent’anni dopo, più maturi ma anche più spietati. Il loro è un ultimo confronto che, in presenza d’un figlio e di una nipote, evidenzia le molteplici sfumature delle relazioni umane e familiari e la loro capacità di generare rimpianti, rimorsi, rancori. Il mistero dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza e attaccamento morboso, la vecchiaia, l’angoscia degli «ultimi giorni», lo scenario della vita, «troppo grande» per la debolezza umana, sono i temi di questa Sarabanda, danza lenta e severa in cui le coppie si formano e si disfano: dieci scene, dieci dialoghi in cui i personaggi s’incontrano a due a due, per sciogliersi definitivamente nell’esecuzione di padre e figlia della omonima suite bachiana. Un testo scomodo nella sua cruda onestà, ma il cui vero messaggio non è affidato alle parole, ma ai silenzi e ai gesti: alla tenerezza di un abbraccio, di un tenersi per mano, di un denudarsi accettando di rivelare l’uno all’altro la fragilità di corpi segnati dal tempo e dal peso di vivere. Qui per tutte le informazioni.
Roma, OperaCamion
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Dal 25 maggio riparte OperaCamion, il progetto itinerante del Teatro dell’Opera di Roma che trasforma un TIR in un teatro mobile. Non è solo un’iniziativa culturale, ma una vera e propria rivoluzione scenica che porta la lirica nel cuore pulsante della città, tra cortili, piazze e incroci, lì dove raramente si immagina di trovare un baritono o una sinfonia. L’idea è tanto semplice quanto potente: far sbocciare l’opera lirica là dove meno la si aspetta, rendendola accessibile, viva, popolare. Quest’anno, in occasione del Giubileo 2025, il carrozzone colorato porterà Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini nelle periferie della Capitale, in un abbraccio musicale che toccherà tutti e quindici i municipi di Roma. «È come un circo che attraversa la città – racconta la regista Manu Lalli – pieno di musicisti, acrobati e meraviglie. Un palcoscenico che si apre alle persone, come un regalo, portando con sé l’energia e il gioco del teatro popolare, e insieme tutta la bellezza sofisticata della musica di Rossini». Le sue parole rendono con chiarezza il senso profondo di un’operazione che unisce l’incanto dell’opera alla vitalità della strada, mescolando tradizione e innovazione, professionalità altissima e spirito comunitario. Il debutto è previsto il 25 maggio a Spinaceto, ma seguiranno altre otto tappe in rapida successione fino al 22 giugno. Poi, in autunno, una nuova produzione attraverserà i restanti municipi, completando l’ambizioso disegno di rendere l’opera un patrimonio condiviso, gratuito e capillare. L’iniziativa gode del sostegno forte delle istituzioni cittadine. Il Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, sottolinea come OperaCamion rappresenti «un’occasione preziosa di rigenerazione culturale e sociale. Portare la lirica fuori dai teatri significa diffondere la cultura, valorizzare i territori e creare nuovi spazi di incontro». Le piazze, anche quelle meno conosciute, si trasformano così in teatri a cielo aperto, restituendo centralità a luoghi spesso marginalizzati e offrendo un’esperienza artistica autentica, senza barriere. Dello stesso tenore le parole dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, Massimiliano Smeriglio: «Tutta la cittadinanza potrà godere dell’opera nel proprio quartiere, gratuitamente. È un’occasione straordinaria di socialità, bellezza e condivisione. Dopo il successo delle passate edizioni, sosteniamo con convinzione questa nuova avventura che rende la cultura un diritto concreto, non un privilegio». A ribadire l’impegno del Teatro dell’Opera, il Sovrintendente Francesco Giambrone parla di un progetto “inclusivo e coraggioso”, che rompe le convenzioni e abbraccia la città: «Per la prima volta raggiungeremo tutti i quindici municipi, con il coinvolgimento diretto dell’Orchestra del Teatro dell’Opera e dei giovani artisti di Fabbrica, il nostro programma formativo. È un passo avanti notevole, sia nella direzione dell’accessibilità che nella valorizzazione del talento emergente». Già il nome OperaCamion è evocativo: un connubio fra la concretezza del mezzo e la leggerezza dell’arte, fra mobilità urbana e vocazione teatrale. Quando il container si apre, si rivela un piccolo miracolo scenico: luci, costumi, orchestra, cantanti. Un teatro in miniatura ma pienamente funzionale, capace di meravigliare, emozionare, intrattenere. Il Barbiere di Siviglia scelto per l’edizione 2025 è proposto in una versione snella, adattata per strada, ma assolutamente completa. Alla direzione d’orchestra Carlo Donadio, che guida l’ensemble con ritmo vivace, complice un’orchestrazione agile ma rispettosa dell’opera originale. La regia, firmata da Manu Lalli, è un’esplosione di creatività visiva: costumi e luci richiamano l’immaginario del circo, della commedia dell’arte, del teatro di strada. Una sintesi di colori, simboli e citazioni che rende il tutto immediatamente riconoscibile e accessibile anche al pubblico più giovane. «Nel nostro Barbiere – spiega ancora Lalli – ci sono pagliacci che si travestono da signori, illusionisti che si spacciano per innamorati, domatori di cuori e, naturalmente, Figaro: il factotum per eccellenza, ironico, trasgressivo, geniale. In fondo, tutto ruota intorno all’amore, proprio come nella vita». Il cast vocale è composto da giovani interpreti provenienti da Fabbrica Young Artist Program, un vivaio d’eccellenza voluto dal Teatro dell’Opera di Roma per formare le nuove generazioni di cantanti lirici. L’adattamento musicale è a cura di Tommaso Chieco e Marco Giustini, mentre la scenografia – ridotta all’essenziale, ma ingegnosa – è firmata da Daniele Leone. I movimenti mimici sono coordinati da Chiara Casalbuoni, che inserisce elementi coreografici e gestuali per rendere la narrazione ancora più avvincente, soprattutto per un pubblico eterogeneo come quello che popolerà le piazze. Il pubblico, d’altronde, è parte integrante dello spettacolo. Famiglie, bambini, anziani, curiosi: tutti sono invitati a portare la propria sedia, il proprio entusiasmo, e a immergersi in un rito collettivo che fa della cultura un gesto quotidiano. Non più silenzi reverenziali da sala rossa, ma risate, applausi, partecipazione spontanea. L’opera diventa così ciò che in fondo è sempre stata: un’arte popolare, capace di parlare a tutti, di raccontare storie universali, di unire. Nel momento storico in cui si celebra il Giubileo, l’opera lirica abbandona i suoi recinti elitari per incontrare l’anima vera della città. E Roma, in questa inedita geografia culturale tracciata da OperaCamion, non è più una somma di periferie e centri, ma una comunità sonora, un’umanità vibrante riunita attorno al teatro più democratico che ci sia: la piazza. Con questa edizione 2025, OperaCamion non è soltanto un progetto culturale, ma una dichiarazione d’intenti: l’arte non chiede permesso, non resta confinata nei salotti, ma attraversa le strade, ascolta i quartieri, si fa presente. Un camion, un sipario, un’orchestra, qualche metro di pavé: basta questo per riscoprire l’incanto. E per ricordarci, ancora una volta, che la bellezza, quando è vera, sa viaggiare leggera. Qui per il programma.
La Quinta domenica dopo la Pasqua, prende il nome di Dominica Rogate”, termine che in latino significa “pregate”. Qui il termine viene interpretato come “richiedere”, “domandare”, connesso alle pratiche delle “Erogazioni”, ovvero preghiere straordinarie che nei quattro giorni precedenti la festa dell’Ascensione venivano recitate, generalmente nelle campagne, durante processioni con lo scopo di ottenere le benedizioni di Dio sulle messi e sui frutti della terra e conseguentemente un buon raccolto. Una pratica d origine che si riconnetteva ai riti della Roma pagana che per tre giorni consecutivi, durante il mese di maggio, venivano celebrati in onore di Cerere la dea dell’Agricoltura e che prevedevano sacrificio di tre vittime: unl maiale, una pecora e un toro. Le feste popolari connesse a questa pratica prendevano il nome di “Rubigalia”, dal momento che coronavano con la visita al tempio Rubigus, il dio della brina. La pratica Cristiana dell’Erogazione è testimoniata già dai tempi di Gregorio Magno, ma sicuramente più antica, consisteva nei primi tempi nelle recite delle litanie dei Santi che sostituirono la pratica pagana delle “Rubigalia”.
Litanie che nella Chiesa romana erano dette “maggiori” per distinguersi dalle altre denominate “minori” che si erano diffuse nelle Gallie dove le processioni delle Rogazioni aveano incontrato una particolare fortuna.Nella Dominica Rogate, o delle Rogazioni, la liturgia non si stacca dallo spirito che precede la Pentecoste, periodo di attesa dello Spirito Santo, “Spirito di verità, di giustizia, di giudizio” come dice il Vangelo di Giovanni (capitolo 16 vers.23-30) che è alla base della prima di due Cantate di Johann Sebastian Bach per questa domenica. Parliamo di “Wahrlich, wahrlich, ich sage euch” Bwv 86, eseguita per la prima volta a Lipsia il 14 maggio 1724. La cantata inizia con “In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa
al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. Sono parole di Cristo e secondo la logica bachiana, sono affidate alla voce di basso che le intona nell’arioso che apre la Cantata. La scrittura vocale e quella strumentale procedono alla stesso modo, sicchè la struttura generale è quella di un Mottetto a voce sola, in stile arcaico e fugato. L’aria successiva, tripartita, affidata alla voce contralto, si apre al virtuosismo di un violino solista, impegnato in una lunga sequenza di accordi spezzati. Il nr.3 è la elaborazione di un Corale affidato alla voce di soprano, in forma di “lied” su tessuto contrappuntistico affidato a 2 oboi d’amore. Un recitativo, un’aria bipartita cantata dal tenore e un Corale, chiudono la partitura che ha complessivamente un carattere improntato alla semplicità.
Nr.1 – Arioso (Basso)
In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa
al Padre nel mio nome, egli ve la darà
Nr.2 – Aria (Contralto)
Io voglio davvero cogliere le rose,
Anche se mi pungerò con le spine.
Perché io confido
Che le mie preghiere e le mie suppliche
Giungono certamente al cuore di Dio
Perchè me lo promette la Sua parola
Nr. 3 Corale (Soprano)
E ciò che Dio, eterno e misericordioso,
Ha promesso con la Sua parola
E giurato sul Suo nome,
Senza dubbio lo manterrà e lo darà.
Ci aiuti Egli ad unirci alle schiere degli angeli
Per mezzo di Gesù Cristo, amen.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Dio non si comporta come il mondo,
Che molto promette e poco mantiene;
Ciò che Egli promette deve accadere
Così che vi possiamo ammirare la Sua gioia
E il Suo compiacimento.
Nr.5 – Aria (Tenore)
L’aiuto di Dio è certo;
Se pure il Suo aiuto dovesse tardare
Non per questo ci verrà negato.
Perché è la Sua parola che lo assicura:
L’aiuto di Dio è certo!
Nr.6 Corale (Coro)
La speranza attende il tempo
Promesso dalla parola di Dio,
Quando questo arriverà, per la nostra gioia,
Dio non stabilisce il giorno.
Egli sa bene quale è il momento giusto,
E non usa con noi alcun crudele inganno;
Per questo dobbiamo avere fiducia in Lui.
Traduzione di Alberto Lazzari
Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera 2024/25
“TRITTICO WEILL: DIE SIEBEN TODSÜNDEN, MAHAGONNY SINGSPIEL, THE SONGS OF HAPPY END”
Su testi di Bertolt Brecht ed Elisabeth Hauptmann
Musica di Kurt Weill
Anna I, Bessie, Mary ALMA SADÉ
Anna II, Jessie, Jane LAUREN MICHELLE
Bruder I, Bobby, Sam Worlitzer ELLIOTT CARLTON HINES
Mutter, Jimmy ANDREW HARRIS
Vater, Charlie, Ein Mann MATTHÄUS SCHMIDLECHNER
Bruder II, Billy, Hanibal Jackson MICHAEL SMALLWOOD
Bill Cracker MARKUS WERBA
Die Fliege NATASCHA PETRINSKY
Lilian Holiday WALLIS GIUNTA
Attore GEOFFREY CAREY
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Regia, Scene, Costumi e Video Irina Brook
Luci Marc Heinz
Coreografia Paul Pui Wo Lee
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 20 maggio 2025
Come Milano è stata in passato la città brechtiana d’Italia, grazie alla presenza e all’azione di due artisti straordinari come Giorgio Strehler e Milva, possiamo ben riconoscerle un presente brechtiano grazie a Riccardo Chailly, che negli ultimi cinque anni ha fortemente voluto la presenza del compositore brechtiano per antonomasia, Kurt Weill, sul palcoscenico scaligero, in forme ridotte, ma sempre di eccezionale qualità. Quest’anno il dittico presentato quattro anni fa, ossia “Die sieben Todsünden“ e il “Mahagonny Songspiel“ si arricchisce di una terza parte, che si rivela anche, a dirla tutta, la migliore, e cioè “The Songs of Happy End”, riduzione senza dialoghi dell’operetta scritta nel ‘29. L’operazione è particolarmente riuscita anche per l’ordine scelto: “Die sieben Todsünden” è senza dubbio, dei tre, l’opera più cerebrale, anche sperimentale (trattandosi di un balletto con voci), che serve a risvegliare lo spettatore e gettarlo nella critica del mondo capitalista di Brecht e Weill; il “Mahagonny Songspiel“, antologia dell’unica opera stricto sensu composta da Weill, “Ascesa e caduta della città di Mahagonny“ del 1930, ospitata alla Piccola Scala l’ultima volta quarant’uno anni fa, delinea più chiaramente la natura marxiana di questo critica, mostrandoci una realtà di furfanti e prostitute, intenti unicamente al guadagno senza scrupoli; infine “Happy End” che, anche privato dei non brevi dialoghi, cui generalmente spetta il compito di far capire l’azione scenica, funziona a meraviglia, grazie ai testi fra i migliori concepiti dal poeta tedesco – o, ad essere onesti, dall’allora sua amante Elisabeth Hauptmann –, che fungono da eserciziario delle teorie espresse in “Mahagonny“ ponendoci di fronte una irresistibile schiera di esempi terrificanti, nei quali, tuttavia, nessuno può veramente dire di non riconoscersi: l’impenitente donnaiolo Surabaya Johnny, la casta Lily (interpretata da una soave Wallis Giunta, mezzosoprano dai portamenti elegantissimi), intenta a voler salvare l’umanità, che alla fine capisce di preferire l’inferno al paradiso, o luoghi dai tratti malfamati quanto fiabeschi, come la taverna di Bill a Bilbao o il mitico bordello di Mamma Goram, su cui non sempre splende la luna. La concertazione di Chailly è puntuale, come sempre, ma qui il direttore può anche mostrarsi umano, permettersi di abbandonarsi, di rubare, mostrando tutta la sua personale preferenza a questo repertorio da funambolo, tra gli ultimi sprazzi del sinfonismo tonale, la canzone popolare (sovente di tradizione ebraica) e l’allucinato jazz delle avanguardie. È un Brecht di lusso, quello di Chailly, poiché non è un Brecht, ma giustamente un Weill, compositore sontuoso, che nulla ha da invidiare a ben più celebrati suoi coetanei. A ricostruire la vera identità musicale di queste opere contribuisce, senza dubbio, anche l’eccezionale cast, in mezzo al quale brillano le stelle di Alma Sadé, Lauren Michelle e Natascha Petrinsky: soprani le prime, formidabili insieme nei ruoli di Anna I e Anna II nel Prologo dei “Sieben Todsünden” e di Bessie e Jessie nell’“Alabama-Song” e nel “Benares-Song” di “Mahagonny”, ma la Sadé anche in un misurato quanto ben caratterizzato “Surabaya-Johnny”; la Petrinsky, interprete magistrale del repertorio novecentesco, compare nel ruolo della Mosca per una Höllenlili da manuale, aspra quanto efficace vocalmente, calata del tutto nel personaggio. Fra gli interpreti maschili spiccano i baritoni – il registro preferito da Weill – Elliott Carlton Hines (soprattutto in qualità di rocambolesco e irresistibile Sam Worlitzer in “Happy End”) e Markus Werba, che specialmente con “Bilbao-Song” e “Was di Herren Matrosen sagen” sa coniugare la sua piena padronanza del mezzo vocale dal colore fresco, con una dizione godibile e scandita, e una presenza scenica rutilante e lievemente manierata. Tuttavia i pezzi migliori in assoluto sono quelli d’insieme, come la “Vollerei” dei “Sieben Todsünden”, il Terzo “Mahagonny-Song”, “Hosiannah Rockefeller” di “Happy End”, e pure il tango “Youkali”, che pur non appartenendo all’operetta, chiude la serata in maniera accorata e tagliente allo stesso tempo. Sulla regia di Irina Brook si scrisse già nel 2021 e, a dirla tutta, alcune riserve rimangono: la Brook decide di spostare la denuncia, di cui le opere sono foriere, dal capitalismo all’inquinamento e il climate change, operando di per sé non una vera e propria forzatura, ma un’attualizzazione che, tuttavia, sembra sottendere all’idea che il capitalismo, oggi, non faccia più paura – mentre oggi più che mai occorre aprire gli occhi sul nostro sistema economico-sociale, poiché è l’origine conclamata anche dei problemi ambientali. Insomma, tutta questa plastica, tutte queste proiezioni di disastri ecologici, sembrano aggirare l’ostacolo, non saltarlo, né lavorare per distruggerlo (com’era invece l’intento di Weill e Brecht); il terzo atto, invece, trova una misura maggiore, sia nella messa in scena – si abbandona l’éscamotage della metateatralità per un’impostazione più da recital, con semplici sedie nere e i personaggi seduti fin dall’inizio – ma anche nelle scene tutte in nero e oro, semplicissime ed efficaci. C’è da augurarsi che dopo questo dittico, evolutosi in trittico, la Scala si prenda la responsabilità di produrre le intere opere, “Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny” e “Happy End”, garantendo la presenza di Brecht e Weill anche nel prossimo futuro. Foto Brescia & Amisano
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Sala Orchestra
Direttore Francesco Gesualdi
Violino Alberto Bologni
Pianoforte e Clavicembalo Ilaria Baldaccini
Flauto Roberto Fabbriciani
GAMO Ensemble
Violini: Alberto Boccacci, Alberto Bologni, Lucrezia Ceccarelli, Marco Facchini, Chiara Franceschini, Chiara Mura, Michelangelo Nuti, Eleonora Podestà, Lorenzo Petrizzo, Pamela Tempestini
Viole: Carmelo Giallombardo, Matilde Giorgis
Violoncelli: Andrea Volcan, Lucio Labella Danzi
Contrabbasso: Giacomo Piermatti
Gaetano Giani-Luporini (1936-2022): Concerto de Le divine battaglie per undici archi (1984-1987); Nove Mantram per pianoforte solo (2000); Tessiture per clavicembalo e undici archi (1973); Genesi per flauto solo (1972); Tetraktis per violino, pianoforte e quattordici archi (1995). Programma a cura di GAMO – Gruppo Aperto Musica Oggi e del Centro Studi Gaetano Giani-Luporini
Firenze, 21 maggio 2025
Il concerto annunciava con dovizia di particolari un programma che, soprattutto per i non habitués della musica contemporanea, poteva essere concepito come un’avventura intellettuale capace di sfidare il grande pubblico. Ciò che si è ascoltato è risultato un concerto monografico, quasi in memoriam di Gaetano Giani-Luporini, maestro e compositore nato a Lucca nel 1936 e scomparso nel 2022, ma, per altri aspetti, poteva considerarsi l’anticipo della celebrazione dei 90 anni dalla nascita. Per coloro che non lo hanno conosciuto è stata un’occasione per specchiarsi in una luce prismatica capace di rilevare tanti aspetti. A guidare ed invitare il pubblico ad una sorta di itinerario sonoro Francesco Gesualdi, un musicista versatile, conosciuto anche come fisarmonicista il quale, per tutto il concerto, è apparso molto ispirato e attento a restituire un’interpretazione aderente allo stile del compositore. Luporini è stato allievo della Scuola di Composizione di Roberto Lupi al Conservatorio fiorentino, dal quale apprese l’Antroposofia di Rudolf Steiner. Da questa Scuola uscirono maestri e compositori, alcuni dei quali diedero vita alla cosiddetta Schola fiorentina. Ascoltare le musiche di Luporini nell’arco temporale di produzione (1972-2000) è stato in qualche modo, mediante l’immaginazione, ‘ritrovare’ attraversando il guado (pànta rei), una ricca ‘quadreria’ di personaggi a lui coevi e non, in cui oltre ai maestri, si potevano incontrare tanti musicisti, prima in qualità di allievi, poi come maestri, interpreti, collaboratori e amici, tanto da non stupirsi per la presenza di molti musicisti al concerto. L’evento, curato da GAMO (Gruppo Aperto Musica Oggi) e dal Centro Studi Gaetano Giani-Luporini, dichiarava l’attenzione alla musica contemporanea di matrice fiorentina e nella fattispecie anche ‘offerta musicale’ ricca di spunti ‘contrappuntistici’ in grado di aiutare all’approccio della musica di Luporini. Ritornando su Le divine battaglie, come non pensare alla grande eredità monteverdiana in cui nei brani che compongono l’insieme per undici archi era possibile percepire lontanissimi echi di una grande tavolozza sonora ove alcuni topoi musicali si rigeneravano in autentica metamorfosi?Tessiture per clavicembalo e undici archi, affrontato da Ilaria Baldaccini con un approccio dal forte impatto interpretativo e con la presenza nella parte centrale di una fughetta da eseguire «con estro» – oltre ad esplicitare lontane ‘ascendenze’ ed allusioni alla celeberrima struttura polifonica – sottolineava una precisa aderenza formale e ricerca sonora esplicitate dalla partitura. Ritornando al programma ecco che già i titoli del primo brano Concerto de Le divine battaglie per undici archi: 1.Dell’armonia primordiale; 2.Dei primi litigi angelici; 3.Dell’intervento del Padre Eterno; 4.Dell’apparente armonia; 5.Della scissione degli Angeli; 6.Del Concilio della S.S. Trinità e 7.Del compromesso divino rivelano in qualche modo quanto questo lavoro, pur nel godibile ‘assolo’ del contrabbasso, suonato con ricercate sonorità da Giacomo Piermatti, sembrava alludere alla connessione tra la nostra imperfezione percettiva (musica mundana) alla perfezione divina. Nella parte centrale del programma Baldaccini si è prodotta anche in Nove Mantram per pianoforte solo, ove ha confermato la sua duttilità e raffinatezza interpretativa nell’affrontare una partitura colma di energia e altresì esigente di pensieri edificanti. A seguire Genesi per flauto solo nella fulgida interpretazione di Roberto Fabbriciani. Nel gioco dei rimandi della musica ‘senza tempo’, includendo l’intero programma della serata, si potrebbe incipitare tutto il concerto con “in principio fu il soffio” (pneuma) in cui la musica, pur di esprimere la sua essenza, aveva bisogno di grandi respiri, gli stessi che generano quella forza vitale capace di dare vita a tutto l’universo. Ma se in una mente come quella di Wagner è possibile immaginare la ‘genesi’ con la profondità e gravità del mi bemolle (contrabbassi) nel letto del Reno (cfr. Der Ring des Nibelungen), in Luporini la rappresentazione immaginativa di una sorta di genesi o creazione del mondo avviene attraverso frequenze multiple rispetto ad un suono grave (armonici) in cui l’informità lancia l’ascoltatore verso sonorità talmente eteree al punto da essere proiettato verso percezioni sensoriali sub divo coelo. Il concerto, per le sue allusioni e valenze simboliche, poteva iniziare dal soffio di Fabbriciani nel flauto, poiché l’interprete, oltre ad offrire magia e incanto del suono, rappresenta uno dei pochi testimoni e collaboratori di tanti compositori del Novecento.A chiudere il programma Tetraktis per violino, pianoforte e quattordici archi in cui si sottolinea la bella espressività di Alberto Bologni in una fervida immaginazione del suono e funzionale rapporto con l’Ensemble, quest’ultimo sempre recettivo degli impulsi del direttore e caratterizzatosi per una sonorità feconda. Pur senza esclusione ai vari rimandi teosofici, la dissonanza ha rappresentato il grande mare magnum in cui l’ascoltatore poteva seguire il motto navigare necesse est. Gesualdi, autentico timoniere che ha guidato il GAMO Ensemble in un fervido respiro musicale all’interno di un programma non facile da gestire, nella metafora, ha ben saputo avvicinare i presenti all’inventio e alla poetica di Luporini. Foto di Sanzio Fusconi