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Musica corale

Roma, Teatro Brancaccio: “Mare Fuori: Il Musical”

gbopera - Sab, 01/02/2025 - 00:59

Roma, Teatro Brancaccio
MARE FUORI: IL MUSICAL
scritto da Cristiana Farina, Maurizio Careddu, Alessandro Siani
regia di Alessandro Siani
con Andrea Sannino, Maria Esposito, Antonio Orefice, Mattia Zenzola, Giuseppe Pirozzi, Enrico Tijani, Antonio D’Aquino, Giulia Luzi, Carmen Pommella, Emanuele Palumbo, Leandro Amato, Antonio Rocco, Christian Roberto, Giulia Molino, Bianca Moccia, Angelo Caianiello, Yuri Pasquale Brunetti, Pascale Langer, Sveva Petruzzellis, Anna Capasso, Fabio Alterio, Benedetta Vari
direzione musicale Adriano Pennino
coreografie Marcello e Mommo Sacchetta
scenografo Roberto Crea
light design Carlo Pastore
costumi Eleonora Rella e Lisa Casillo
Roma, 31 gennaio 2025
Ci sono spettacoli che fanno riflettere, spettacoli che emozionano, spettacoli che segnano un’epoca. E poi c’è Mare Fuori – Il Musical, che sembra aver scelto deliberatamente la via del naufragio, galleggiando in un mare di compromessi e scelte artistiche quantomeno discutibili. Diciamolo subito: l’idea di trasporre sul palco un fenomeno televisivo di tale portata era rischiosa, ma non impossibile. Peccato che la resa scenica sembri più un esercizio di nostalgia seriale che un’opera con una propria dignità teatrale. La trama – o quel che ne resta – cerca di condensare tre stagioni in un susseguirsi di episodi incollati con lo scotch, senza un reale sviluppo narrativo. Il ritmo è schizofrenico: a momenti di frenesia ingiustificata si alternano pause dilatate al punto da far pensare che qualcuno si sia dimenticato di dare il via alla scena successiva. Dove la serie TV riusciva a costruire tensione e profondità emotiva, il musical si accontenta di un collage di momenti iconici, privati però di qualsiasi impatto drammaturgico. La regia di Roberto Crea sembra affidarsi ciecamente all’utilizzo dei Ledwall, nella convinzione che basti una proiezione ad alta definizione per supplire alla mancanza di una vera scenografia. Il risultato? Più che teatro, uno screensaver gigante. Certo, l’effetto visivo in alcuni momenti funziona, ma a lungo andare il tutto assume la staticità di una videoconferenza su Zoom. E se la scena della morte di Viola nella serie lasciava il pubblico con il fiato sospeso, qui l’unica tensione palpabile è quella degli spettatori che cercano di trattenere uno sbadiglio. E qui veniamo al capitano di questa nave alla deriva: Alessandro Siani. L’attore e regista, solitamente a suo agio con il linguaggio comico cinematografico e televisivo, sembra aver smarrito qualcosa di essenziale nel passaggio al teatro. Forse una direzione scenica coerente, forse una visione artistica, forse – e più semplicemente – il concetto stesso di teatro. La messa in scena si muove con la grazia di un camion in retromarcia, priva di organicità e incapace di fornire agli attori un supporto reale. Il problema si acuisce con l’uso sconsiderato del playback: non un semplice escamotage, ma un vero e proprio abuso che priva lo spettacolo dell’unica cosa che il teatro dovrebbe garantire al pubblico – la verità dell’interpretazione dal vivo. È vero che in alcune parti il canto è eseguito dal vivo, ma la resa è talmente incerta da far sorgere il dubbio che, forse, il playback sia la soluzione migliore. Un paradosso affascinante: ci si aspetta che il canto live aggiunga autenticità, ma invece finisce per persuadere il pubblico che forse, in alcuni casi, l’illusione digitale sia meno dolorosa. Il sincronismo tra labiale e audio, poi, è così precario che in certi momenti sembra di assistere al doppiaggio di un vecchio film giapponese, con il suono che arriva sempre un secondo prima o dopo. Ma il vero dramma si consuma nella recitazione, un curioso esperimento tra la declamazione forzata e il puro dilettantismo. Ogni battuta è pronunciata con la stessa sottigliezza di un megafono in una biblioteca, ogni gesto è calcato con foga, come se gridare fosse sinonimo di emozionare. Il risultato? Un melodramma involontario in cui il dolore diventa spettacolarizzazione e il disagio si traduce in pura retorica. Ciò che nella serie era costruito con sottigliezza qui diventa una gara a chi strilla più forte, in un crescendo che potrebbe tranquillamente essere sostituito da una sirena d’allarme antincendio. E poi c’è l’amplificazione. Se esiste un inferno sonoro, Mare Fuori – Il Musical ha trovato il modo di ricrearlo. Il volume è così esasperato che a tratti il pubblico viene investito da ondate di suono che lo lasciano tramortito. Ma il vero capolavoro è l’involontario concerto parallelo che si consuma nei microfoni aperti: tra respiri affannati e sospiri fuori sincrono, si ha l’impressione di essere catapultati in una seduta collettiva di iperventilazione. Sul fronte delle interpretazioni, il panorama è altrettanto disomogeneo. Maria Esposito (Rosa Ricci) si distingue per energia e presenza scenica, riuscendo almeno a dare un po’ di sostanza al proprio personaggio. Ma per il resto, la situazione è più confusa di una fuga in un labirinto. Mattia Zenzola, pur essendo un ballerino di talento, non riesce a dare a Carmine Di Salvo la profondità necessaria, mentre Christian Roberto, nei panni di O’ Chiattillo, sembra essersi smarrito tra il grottesco e il caricaturale. L’unico a emergere con autenticità è Yuri Pascal Langer , il solo a dimostrare una reale esperienza teatrale e una presenza scenica che va oltre la pura imitazione televisiva. Il problema principale, però, è proprio nella caratterizzazione dei personaggi: mentre la serie offriva una stratificazione emotiva e una crescita individuale, qui tutto viene appiattito, lasciando poco spazio all’evoluzione e riducendo i protagonisti a sagome bidimensionali. In definitiva, Mare Fuori – Il Musical si presenta come un’operazione più commerciale che artistica. Una celebrazione della serie che, però, si ferma alla superficie, senza mai scavare davvero nelle tematiche che avevano reso Mare Fuori un fenomeno di culto. L’effetto finale è quello di una copia sbiadita, un’esibizione che, invece di trovare una propria identità teatrale, si accontenta di una trasposizione annacquata e priva di autentico respiro drammaturgico. Il pubblico, o almeno i coraggiosi che non sono fuggiti al primo atto con la scusa di una sigaretta, sembra entusiasta di ritrovare i riferimenti alla serie. Ma per chi cerca vero teatro, l’esperienza è un naufragio annunciato: più che spettacolo, un’operazione promozionale affondata ben prima del gran finale.

 

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RAI 5. Opera e balletto di Febbraio 2025

gbopera - Ven, 31/01/2025 - 10:26

Sabato 1 febbraio
Ore 07.48
“ATALIA”
Musica Francesco Gasparini
Direttore Emmanuel Resche-Caserta
Interpreti: Emmanuelle de Negri, Fabien Hyon, Lisadro Abadie,  Mélodie Ruvio
Roma, 2023
Ore 10.11
“IL MONDO DELLA LUNA”
Musica Franz Joseph Haydn
Direttore Bruno Nicolai
Regia Ugo Gregoretti
Interpreti: Carmen Lavani, Ugo Benelli, Benedetta Pecchioli…
Benevento, 1980
Ore 18.50
Concerto Vincitori Concorso Tebaldi 2024
La Fondazione Renata Tebaldi presenta il Concerto dei Vincitori della IX edizione del Concorso Internazionale di Canto Renata Tebaldi, tenutosi al Teatro Concordia di Borgo Maggiore – Repubblica di San Marino – il 20 dicembre 2024.
Domenica 2 febbraio / Sabato 8 febbraio
Ore 10.0 / 09.40

“LE NOZZE DI FIGARO”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Gérard Korsten
Regia Giorgio Strehler
Interpreti: Ildebrando D’Arcangelo, Diana Damrau, Pietro Spagnoli, Marcella Orsatti Talamanca, Monica Bacelli…
Milano, 2006
Ore 18.10
“MEDÉE”

Musica Luigi Cherubini
Direttore Michele Gamba
Regia Damiano Michieletto
Interpreti: Marina Rebeka, Stanislas de Barbeyrac, Nahuel di Pierro, Martina Russomanno, Ambroisine Bré…
Milano, 2024
Lunedì 3 febbraio
Ore 10.00
“LA STRADA”
Musica Nino Rota
Direttore Armando Gatto
Coreografia Mario Pistoni
Interpreti: Carla Fracci, Aldo Santambrogio, Mario Pistoni…
Milano, 1967
Martedì 4 febbraio
Ore 10.00

“RENARD”
Ater Balletto nel balletto Renard di Igor Stravinsky.
Coreografie di Amedeo Amodio
Montepulciano, 1982
Ore 10.15
“OTELLO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Muti
Regia Graham Vick
Interpreti: Placido Domingo, Barbara Frittoli, Leo Nucci...
Milano, 2001
Mercoledì 5 febbraio
Ore 09.40
“PULCINELLA AFFAMATO IN PALESTINA”
Balletto su musiche di Gioachino Rossini/Benjamin Britten
Coreografie di Ugo Dell’Ara
Interpreti: Ugo Dell’Ara, Wanda Sciaccaluga, Jones Metafuni, Umberto Raho, Milena Odoli, Paolo Bartoluzzi, Paolo Grange, Vittorio Congia, Toni Harlem, Clara Stabilini.
RAI, 1956
Ore 10.11
“FEDORA”
Musica Umberto Giordano
Direttore Bruno Bartoletti
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Renata Heredia Capnist, Mafalda Micheluzzi, Davide Poleri, Mario Borriello, Sergio Mazzola, Valiano Natali, Glauco Scarlini
RAI, 1956
Giovedì 6 febbraio
Ore 09.57

“LA PICCOLA VOLPE ASTUTA”
Musica Leos Janacek
Direttore Seiji Ozawa
Regia Laurent Pelly
Firenze, 2011
Venerdì 7 febbraio
Ore 10.00
“La tarantella di Pulcinella”
Musica Silvano Spadaccino
Regia di Norman Paolo Mozzato.
Interpreti: Anna Casalino, Silvano Spadaccino, Emanuele Luzzati.
Domenica 9 febbraio
Ore 10.00
“CECCHINA, OSSIA LA BUONA FIGLIOLA”
Musica Niccolò Piccinni
Direttore Franco Caracciolo
Regia Virginio Puecher
Interpreti: Mirella Freni, Sesto Bruscantini, Werner Hollweg, Rita Talarico, Valeria Mariconda, Gloria Trillo, Bianca Maria Casoni.
Ore 18.10
“ADRIANA LECOUVREUR”
Musica Francesco Cilea
Direttore Gianandrea Gavazzeni
Regia Lamberto Puggelli
Interpreti: Mirella Freni, Peter Dvorsky, Fiorenza Cossoto, Alessandro Cassis…
Milano, 1989
Lunedì 10 febbraio
Ore 10.00
“CAPPUCCETTO ROSSO”
Giorgio Albertazzi presenta il balletto ispirato alla favola Cappuccetto rosso (su musiche di Ellington-Strayhorn, Grouya e Tizol), con The Joyce Trisler Danscompany di New York, coreografia di J. Trisler.
Spoleto, 1979
Ore 10.40
“L’ELISIR D’AMORE”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Mario Rossi
Regia Alessandro Bissoni
Interpreti: Mirella Freni, Renzo Casellato, Sesto Bruscantini, Mario Basiola, Elena Zilio.
RAI, 1968
Martedì 11 febbraio
Ore 11.55
“LA BOTTEGA FANTASTICA”
Balletto su musiche di Ottorino Respighi da  Gioachino Rossini.
Coreografie Ugo Dell’Ara
Direttore Santi Di Stefano
Interpreti: Giuliana Barabaschi, Antonietta Daviso, Paolo Bortoluzzi e Riccardo Duse…
Bologna 1975
Ore 10.35
“RAFFA IN THE SKY”
Musica Lamberto Curtoni
Direttore Carlo Boccadoro
Regia Francesco Micheli
Interpreti: Chiara dello Iacovo, Dave Monaco, Gaia Petrone, Carmela Remigio…
Bergamo, 2023
Mercoledì 12 febbraio
Ore 10.00

“LO SCHIACCIANOCI”
Musica Pëtr Il’c Čajkovskij
Direttore Jean Doussard
Coreografia  Joseph Lazzini
Interpreti: Annie Savouret, Jean-Pierre Laporte, Estela Erman, Attilas Silvester, Ekaterina Maximova,  Vladimir Vassiliev.
Spoleto, 1978

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Napoli, Teatro di San Carlo: “Velluti: l’ultimo castrato”

gbopera - Gio, 30/01/2025 - 23:59

Napoli, Teatro di San Carlo
VELLUTI: L’ULTIMO CASTRATO
Controtenore 
Franco Fagioli
Dirige 
George Petrou
Napoli, 30 gennaio 2025
“Quando canto, non sono più io: sono un respiro che si innalza verso il cielo.” Così Farinelli definiva l’atto sublime del canto, un’arte capace di trascendere la fisicità e di elevare l’animo umano verso una dimensione quasi divina. Questa visione trova una perfetta corrispondenza nell’esperienza offerta dal concerto-evento “Velluti: L’Ultimo Castrato”, recentemente andato in scena al Teatro di San Carlo di Napoli. In questa cornice storica, il dialogo tra memoria e interpretazione si è espresso con straordinaria intensità, richiamando l’età d’oro del belcanto, un periodo in cui la vocalità dei castrati rappresentava l’apice di una tecnica raffinata e di una sensibilità espressiva unica. La figura del castrato, emblema di un’arte tanto sublime quanto controversa, nasceva da una pratica medica e sociale che prevedeva la castrazione di giovani ragazzi dotati di voci promettenti, al fine di preservare la loro tessitura acuta durante la maturità. Questa trasformazione consentiva di ottenere voci di straordinaria potenza, estensione e agilità, capaci di affrontare passaggi virtuosistici ineguagliabili. Tra i più celebri esponenti di questa tradizione, oltre al leggendario Farinelli, si annoverano nomi come Senesino, Gaetano Majorano detto Caffarelli e Antonio Bernacchi, ognuno dei quali ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica e del teatro. Giovan Battista Velluti, ultimo grande castrato e protagonista di questo omaggio musicale, è figura emblematica del XIX secolo. Nato nel 1780 a Corridonia, nelle Marche, fu avviato giovanissimo alla carriera musicale, affinando una vocalità che univa potenza, flessibilità ed espressività drammatica. Velluti non fu solo un interprete straordinario, ma anche un innovatore: i suoi interventi nel repertorio operistico, come nell’ “Aureliano in Palmira” di Gioachino Rossini, dimostrano la sua capacità di piegare la scrittura musicale alle peculiarità della propria voce, introducendo variazioni di straordinario virtuosismo. Questo spirito creativo e indomito lo consacrò sui palcoscenici più prestigiosi d’Europa, rendendolo una figura cardine nel tramonto di questa tradizione. Sotto la bacchetta del direttore George Petrou, musicista dalla profonda sensibilità stilistica, e grazie all’interpretazione magistrale del controtenore argentino Franco Fagioli, si è aperto un universo sonoro di rara bellezza. Fagioli ha saputo coniugare un controllo impeccabile della tecnica vocale con una capacità espressiva che ha lasciato il pubblico profondamente coinvolto. La sua vocalità, che si distingue per un’estensione eccezionale e una straordinaria omogeneità timbrica, è capace di affrontare con sicurezza le più ardue colorature del repertorio barocco e rossiniano, donando ad ogni frase musicale una chiarezza cristallina e una carica emotiva palpabile. Il timbro caldo e denso di armonici, capace di alternare dolcezza e brillantezza, ha saputo restituire pienamente la complessità emotiva del repertorio affrontato. Tuttavia, il vibrato marcato e la teatralità enfatica che contraddistinguono le sue interpretazioni non mancano di suscitare opinioni contrastanti: se da un lato amplificano l’impatto drammatico, dall’altro possono apparire eccessivi per i puristi della filologia barocca. Fagioli, tuttavia, utilizza questi elementi con intenzione precisa, facendo della sua voce uno strumento che sfida le convenzioni e ridefinisce il ruolo del controtenore nel panorama contemporaneo. La sinergia tra voce e orchestrazione è stata uno degli aspetti più notevoli della serata. Petrou ha saputo bilanciare con maestria l’accompagnamento orchestrale, valorizzando le linee vocali senza mai sovrastarle. Gli archi hanno creato un tessuto sonoro avvolgente, caratterizzato da una cantabilità espressiva e una precisione negli attacchi, mentre i fiati, intagliati con delicatezza, hanno offerto colori timbrici che dialogavano con la voce solista. La scelta di tempi calibrati e dinamiche ben ponderate ha dato vita a un equilibrio perfetto tra l’orchestra e il controtenore, garantendo una resa musicale di straordinaria raffinatezza. Il programma del concerto ha offerto un viaggio attraverso celebri pagine rossiniane e gemme meno note di compositori come Paolo Bonfichi, Giuseppe Nicolini, Nikolaos Mantzaros, Johann Simon Mayr e Saverio Mercadante. Ogni brano è stato affrontato con una cura filologica e un’espressività che hanno illuminato la ricchezza di un repertorio spesso relegato ai margini della memoria musicale. Tra i momenti più significativi della serata, l’esecuzione della Sinfonia di “Tancredi” e la scena di Arsace da “Aureliano in Palmira” hanno rappresentato vertici di perfezione formale ed espressiva, mentre i brani di Bonfichi e Nicolini hanno offerto un’affascinante scoperta, rivelando la varietà e l’originalità della scrittura musicale per castrati. Il Teatro di San Carlo, con la sua acustica sontuosa e la sua storia secolare, è stato il luogo ideale per questa celebrazione. Non si è trattato solo di un omaggio a una tradizione lontana, ma di un atto d’amore verso un repertorio che, nelle mani di interpreti come Petrou e Fagioli, continua a pulsare di vitalità e a parlare al presente. La serata, lungi dall’essere un esercizio accademico, ha riaffermato la capacità della musica di trascendere il tempo, restituendo al pubblico la bellezza e la conoscenza di un patrimonio senza tempo. A suggellare questa rinascita musicale, Franco Fagioli ha recentemente pubblicato il disco The Last Castrato. Arias for Velluti (Château de Versailles Spectacles), uscito il 21 gennaio 2025. Affiancato dall’Orchestre de l’Opéra Royal e dal Chœur de l’Opéra Royal sotto la direzione di Stefan Plewniak, Fagioli esplora con maestria il repertorio dedicato all’ultimo grande castrato, offrendone una lettura moderna che combina rigore filologico e intensa espressività. Questo lavoro, già destinato a diventare un punto di riferimento per gli appassionati, è una celebrazione definitiva di un’epoca irripetibile e dell’arte sublime di un interprete unico nel suo genere.

Categorie: Musica corale

Entretien avec le Maestro Michele Spotti

gbopera - Gio, 30/01/2025 - 23:17
Un moment de partage avec le maestro Michele Spotti qui retrouve l’orchestre de l’Opéra de Marseille, dont il  est le directeur musical depuis 2023, pour interpréter La Messe de Requiem de Giuseppe Verdi. Un monument musical ! Notre précédent entretien date du 16 octobre 2021 lors de votre premier engagement à l’Opéra de Marseille pour diriger l’œuvre de Gioacchino Rossini “Guillaume Tell” donnée pendant la période troublée du Covid. Que nous racontez-vous de ce laps de temps qui nous amène à aujourd’hui ? Il est vrai que depuis cette horrible période où tout semblait s’être arrêté la vie a repris ses droits petit à petit et les contrats signés en amont ont pu être honorés. La vie est faite de rencontres, des liens se créent et des projets prennent forme. Ma rencontre avec Maurice Xiberras, Directeur général de l’Opéra de Marseille, a été déterminante. Bien avant le Covid il m’avait proposé la direction de “Guillaume Tell” l’opéra de Gioacchino Rossini. Nous étions loin d’imaginer alors qu’il serait joué dans des conditions spéciales. Ce premier contact avec l’Opéra de Marseille a donné lieu à une proposition qui ne se refuse pas. Et c’est avec un immense plaisir que j’ai accepté le poste de directeur musical, succédant au maestro Lawrence Foster. J’ai tout de suite aimé cette ville avec l’énergie, le soleil, la convivialité qui me rappellent l’Italie et avec ce théâtre qui m’a séduit d’emblée. Je suis très sensible aux ambiances et j’ai trouvé dans cette maison des atmosphères particulières venant de la direction, de l’orchestre, de toutes les équipes mais aussi du public. Un accueil chaleureux qui donne envie de poser ses valises et de travailler ensemble. Evidemment cette nomination a un peu bouleversé mon programme mais je pense pouvoir respecter mes engagements tout en étant le plus possible à Marseille. Vous dites avoir tout de suite aimé cet orchestre. Qu’est-ce qui vous a séduit ? C’est vrai. Une réceptivité, un investissement dans le travail et un accueil chaleureux tout d’abord. Nous avons dû jouer “Guillaume Tell” dans des conditions très particulières; l’orchestre étant placé dans la salle directement près du public, il a fallu aménager les sonorités pour ne pas être trop fort, placer les cuivres un peu en contrebas, un peu comme à Bayreuth (sourire) mais chacun s’est adapté et tout s’est bien passé. Depuis nous avons donné des concerts, d’autres opéras dans des répertoires différents avec ” Le Nozze di Figaro” ou “Norma” en début de saison, mais toujours dans une recherche de l’excellence et le respect du texte et du compositeur. Que recherchez-vous plus spécialement dans un orchestre ? Tout d’abord la sonorité. Avant, l’on disait que chaque orchestre avait sa sonorité propre; c’est sans doute un peu moins vrai actuellement alors que les musiciens voyagent beaucoup et que l’on trouve au sein des orchestres diverses nationalités. Mais peut-être chaque chef d’orchestre a-t-il la sensation du son qu’il voudrait entendre et qu’il cherche à obtenir. C’est mon cas. Il y a ce son fondamental et une certaine souplesse qui autorise les fluctuations. Cette recherche sur le son est un travail de longue haleine qui demande une grande écoute des musiciens entre eux. Chaque instrumentiste a sa propre compréhension de l’œuvre et c’est au chef d’orchestre d’insuffler sa vision personnelle dans la cohérence du souffle et des sonorités. Cela est plus difficile lorsque l’on est chef invité avec peu de répétitions. Avec l’orchestre de Marseille il y a maintenant une grande compréhension. Je connais les musiciens et ils connaissent mes désirs, cela va donc beaucoup plus vite. La réceptivité est aussi une chose importante. Depuis quelques années vous voyagez souvent et dirigez des orchestres très différents. Est-ce un apport pour vous ? Certes, l’apport se fait dans les deux sens. J’apporte mais je reçois aussi. Je ne suis pas là pour toujours imposer, il faut une certaine souplesse de part et d’autre, savoir s’adapter et pouvoir contourner les difficultés. Passer du lyrique au symphonique avec des orchestres différents n’est pas toujours chose aisée mais la souplesse, l’ouverture aux choses diverses et l’adaptation à certaines situations réussissent à arrondir les angles et donnent des résultats assez fantastiques. Être chef d’orchestre est un long apprentissage et c’est en cela que c’est passionnant. L’on arrive devant un orchestre de nationalité différente, l’on travaille ensemble et on le quitte en ayant quelque chose de changé. Vous aimez alterner concerts et opéras. Y a-t-il des compositeurs qui vous touchent plus personnellement ? En concert j’aime beaucoup diriger des œuvres avec chœur. C’est pourquoi travailler le Requiem de Verdi m’a enchanté. L’on retrouve la patte du compositeur bien entendu mais dans une autre dimension. Il y a une force que l’on ne trouve nulle pas ailleurs, sonore sûrement, mais aussi spirituelle qui ne laisse personne indifférent ; il faut un certain temps pour s’extraire de cette œuvre. J’aime beaucoup diriger les symphonies de Gustave Mahler, et pas uniquement celles avec chœur qui sont aussi des monuments d’intensité, Richard Strauss qui est d’une richesse musicale plus complexe, et pourquoi pas Igor Stravinsky avec son “Pulcinella” un peu spécial que nous avons donné en 2023 à l’Auditorium du Pharo. Mais quel plaisir de diriger les œuvres d’un Mozart habité qui permet de revenir à la clarté et la pureté du son. La musique est une source infinie d’inspirations et pourquoi pas le baroque comme un retour aux fondamentaux mais qui autorise une certaine liberté. Vous nous aviez-dit n’envisager certains compositeurs que plus tardivement. Richard Wagner par exemple. C’est exact. A cette époque les opéras de Richard Wagner me paraissaient demander une grande maturité, comme une apothéose dans certaines expressions, je le pense toujours. Actuellement je me sens assez proche de certaines de ses œuvres “Le Vaisseau fantôme” par exemple et pourquoi pas “Lohengrin” d’où se dégage une réelle poésie avec les deux préludes que j’ai dirigés ici même lors du concert du Centenaire. Les apports de la vie vous font changer plus vite que l’on ne croit. Maintenant que je suis père de deux enfants, je comprends beaucoup mieux le rôle de Rigoletto avec ses déchirements, cette volonté de protection envers sa fille Gilda, je ne le dirigerai pas de la même façon, question de tempo, de respirations sans doute. Berlin, Munich, Vienne, Tokio, Valence, Paris, Toulouse, Florence et son Maggio musicale pour n’en citer que quelques-uns, tous ces orchestres de renommée internationale jalonnent maintenant votre parcours. Rétrospectivement, qu’en pensez-vous ? Evidemment je suis très heureux de ce parcours que je vis comme une reconnaissance et qui me procure d’immenses joies avec des rencontres intéressantes et des aventures humaines parfois inattendues. En France, je ne parle pas de Marseille qui est maintenant ma maison, l’orchestre de l’Opéra de Paris, par exemple, m’a donné de grands moments de plaisir avec sa puissance et son investissement, je dois d’ailleurs y retourner bientôt, ou l’orchestre du Capitole de Toulouse d’une grande précision et d’une grande technique aussi avec Idoménée, entre autres, un Mozart audacieux, humain et révolutionnaire qui m’a beaucoup marqué. Chaque fois que je voyage en Europe ou bien plus loin, les contacts se font assez facilement, la musique est un vecteur extraordinaire dans un langage différent. Evidemment parler la même langue est un plus et diriger un opéra dont je ne maîtriserais pas la langue serait une frustration. L’anglais, le français, l’allemand ouvrent déjà bien des portes mais, bien que je sois attiré par les compositeurs russes, le moment n’est peut-être pas encore venu d’en diriger un opéra. Que pensez-vous des opéras donnés en version concertante ? Vous venez de diriger Simon Boccanegra au Théâtre San Carlo de Naples en version concertante justement qui a obtenu un grand succès. Dans un premier temps, je préfère toujours respecter la version originale, c’est à dire avec mise en scène si cela est le cas. D’un autre côté, je suis un esthète en toutes choses, en musique aussi bien entendu. J’ai souvent des craintes par rapport à certaines mises en scène qui vont à l’encontre de l’idée du compositeur, de la musique même, et je m’aperçois que le public réagit très bien à ces représentations sous forme de concert. L’on aurait pu penser que la durée de certains ouvrages pourrait dissuader les auditeurs ; il n’en est rien. L’attention reste constante, captée par la musique et les voix. C’est aussi une économie pour les théâtres qui ont ainsi la possibilité de programmer plus d’ouvrages dans la saison. Est-ce dommage ? Le public décidera. Aux metteurs en scène de faire un peu attention. Il est vrai que le Simon Boccanegra donné à Naples a été un réel succès. La musique a encore de beaux jours à venir avec un public toujours enthousiaste. Ph. Grzesiek Mart
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Roma, Teatro Vascello: “Il grande vuoto”

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
IL GRANDE VUOTO
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli
regia Fabiana Iacozzilli
drammaturgia Linda Dalisi, Fabiana Iacozzilli
dramaturg Linda Dalisi
con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena
progettazione scene Paola Villani
luci Raffaella Vitiello
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
costumi Anna Coluccia
video Lorenzo Letizia
produzione CranpiLa Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione TeatraleLa Corte Ospitale, Romaeuropa Festival
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna
con il sostegno di Accademia Perduta / Romagna TeatriCarrozzerie n.o.tFivizzano 27Residenza della Bassa SabinaTeatro Biblioteca Quarticciolo
Roma, 29 gennaio 2025
La scena teatrale contemporanea è attraversata da un’esigenza sempre più pressante di interrogarsi sulla memoria, sulla perdita e sulla percezione del tempo. “Il Grande Vuoto”, ultimo capitolo della Trilogia del Vento di Fabiana Iacozzilli, in scena al Teatro Vascello, si pone con forza in questo solco di ricerca, costruendo un dispositivo scenico in cui il teatro diventa non solo rappresentazione, ma esperienza immersiva e sensoriale. La regia di Iacozzilli si conferma come una delle più incisive e rigorose della scena italiana attuale, capace di fondere una precisione compositiva assoluta con una tensione emotiva che si trasmette al pubblico senza mai scadere nel patetismo. Al centro della scena, una piccola automobile rossa introduce immediatamente una dimensione domestica, evocando uno spazio della quotidianità familiare che diventa, nel corso dello spettacolo, terreno di esplorazione delle dinamiche della memoria e della sua erosione. La messa in scena si sviluppa attraverso un raffinato equilibrio tra realismo e astrazione: gli oggetti di uso comune – occhiali, arance, buste della spesa – sono disposti e manipolati con estrema cura, trasformandosi gradualmente in elementi perturbanti che scandiscono il progressivo sfaldarsi del tempo e dell’identità.La drammaturgia, firmata da Linda Dalisi, si nutre di un profondo lavoro di ricerca su testimonianze raccolte in RSA, dando vita a una polifonia di voci che restituisce con autenticità il processo di smarrimento cognitivo e affettivo. L’andamento testuale non segue una linearità narrativa, ma procede per frammenti, costruendo un dialogo disarticolato tra passato e presente, tra consapevolezza e oblio. Ne emerge una scrittura scenica in cui la parola si alterna a lunghi momenti di silenzio, utilizzati come autentiche cesure drammaturgiche che accentuano il senso di vuoto evocato dal titolo dello spettacolo. Gli attori offrono interpretazioni di straordinaria intensità. Giusi Merli incarna con profondità e rigore una madre intrappolata nelle pieghe della propria mente, in un continuo slittamento tra lucidità e disorientamento. La sua performance si distingue per una delicatezza struggente, in cui ogni gesto, ogni espressione del volto diventa un segnale di resistenza alla dissoluzione. Accanto a lei, Francesca Farcomeni e Piero Lanzellotti interpretano i figli con una recitazione che alterna stati di tensione, disperazione e rassegnazione, restituendo con rara autenticità il carico emotivo e psicologico che accompagna chi assiste impotente all’inevitabile deterioramento di una persona cara. Mona Abokhatwa, nel ruolo della badante, è una presenza silenziosa e misurata, il cui distacco apparente si rivela invece una forma di accoglienza e comprensione profonda della fragilità umana. La regia di Iacozzilli costruisce un impianto visivo che rifugge ogni didascalismo, privilegiando un dialogo serrato tra luci, suoni e proiezioni video. La scenografia curata da Paola Villani compone uno spazio essenziale, ma altamente evocativo, in cui ogni oggetto sembra appartenere a un fragile equilibrio tra presenza e assenza. Il lavoro sulle luci, affidato a Raffaella Vitiello, modula chiaroscuri e bagliori improvvisi per scandire il flusso temporale ed emotivo della pièce. Le proiezioni video di Lorenzo Letizia amplificano il senso di scissione tra presente e ricordo, tra realtà e percezione interiore. Anche il paesaggio sonoro, con il suono curato da Hubert Westkemper e le musiche originali di Tommy Grieco, contribuisce in modo decisivo alla costruzione dell’atmosfera dello spettacolo: il ticchettio di un orologio, il fruscio delle buste, il rumore lontano di un motore non sono semplici elementi accessori, ma veri e propri strumenti di evocazione del vissuto e della sua progressiva dissolvenza. I costumi di Anna Coluccia, con la loro sobrietà e leggerezza, sottolineano la vulnerabilità dei personaggi, imprimendo un ulteriore strato di delicatezza alla messinscena. La scena finale rappresenta il culmine di questa indagine teatrale sulla memoria e sullo scorrere del tempo. Giusi Merli, avvolta in una tovaglia che si trasforma in un mantello, recita frammenti del Re Lear, in una commistione tra parola shakespeariana e sussurri frammentari, mentre una pioggia dorata cade su di lei. Il teatro si fa qui metafora dell’estrema resistenza dell’individuo di fronte al nulla, un ultimo baluardo contro l’oblio. “Il Grande Vuoto” non è solo uno spettacolo, ma un’esperienza di rara potenza emotiva e intellettuale. La scrittura scenica di Iacozzilli riesce a rendere tangibile ciò che per definizione sfugge: la natura impalpabile della memoria, la fatica del ricordo, il senso di spaesamento che accompagna la perdita. Il pubblico, travolto dalla potenza della messinscena, ha risposto con una standing ovation, in un silenzio carico di commozione che si è rotto solo nel fragore degli applausi finali. C’è qualcosa di universale in questo spettacolo, un dolore che tutti riconosciamo, una malinconia che ci attraversa e ci accomuna. Uscendo dal teatro, ci si porta dentro un nodo alla gola e una domanda aperta: quanto di ciò che amiamo può resistere al tempo? Forse, come suggerisce Il Grande Vuoto, non è solo l’arte a darci un barlume di eternità, ma anche l’amore. L’amore per chi abbiamo perso fisicamente o per chi, pur essendo ancora in questa vita, abbiamo perso nel contatto. Ed è proprio in questo spazio sospeso tra presenza e assenza che l’eco dei sentimenti continua a risuonare, offrendoci un fragile, ma inestimabile, senso di continuità.

 

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“L’elisir d’amore” al Teatro Regio di Torino dal 28 gennaio al 5 febbraio 2025.

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 20:03

Al Teatro Regio, dal 28 gennaio al 5 febbraio 2025, va in scena L’elisir d’amore, melodramma giocoso in due atti di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani. L’opera è presentata nel nuovo allestimento firmato da Daniele Menghini in coproduzione con il Teatro Regio di Parma. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio sale il maestro Fabrizio Maria Carminati, Ulisse Trabacchin istruisce il Coro. Protagonisti sono: Federica Guida (Adina), René Barbera (Nemorino), Paolo Bordogna (Dulcamara), Davide Luciano (Belcore) e Albina Tonkikh (Giannetta). L’Anteprima Giovani – dedicata al pubblico under 30 – è sabato 25 gennaio alle ore 20, i biglietti saranno in vendita a partire da venerdì 10 gennaio ore 11, seguono la Prima, martedì 28 gennaio e sette recite fino a mercoledì 5 febbraio.
 L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti esplora il tema della gioventù attraverso i suoi protagonisti e le loro esperienze di amore, ambizione e crescita personale. Nella visione di Daniele Menghini, Nemorino, fragile e puro, si rifugia in un mondo di marionette. L’allestimento, unendo tradizione e raffinata inventiva, trasforma il percorso di Nemorino in un racconto di formazione universale e il racconto d’amore in una fiaba onirica, popolata da burattini e marionette, reinventando il mondo di Nemorino come un “mondo di legno” in cui il protagonista scolpisce con la sua fantasia i personaggi della storia.
Tra le novità assolute di questo allestimento, la presenza in scena dei burattini della Fondazione Marionette Grilli di Torino, che creano un dialogo intimo e costante tra i personaggi inanimati e i cantanti. In scena prenderanno vita ben 30 burattini e marionette, “manovrati” da Augusto Grilli. Alcuni esemplari provengono dalla prestigiosa collezione storica del ’700, mentre altri sono stati realizzati appositamente per questa produzione, distinguendosi dall’originale andata in scena a Parma. Alcuni burattini raggiungono il metro di altezza, mentre il teatrino dei burattini è stato ricostruito nei nostri Laboratori artistici in una versione ampliata, adattata alle dimensioni del nostro palcoscenico.
Nei ruoli principali de L’elisir d’amore, brilla un cast d’eccezione: Federica Guida, giovane e talentuoso soprano, interpreta Adina; René Barbera, tenore di fama internazionale, è Nemorino; Paolo Bordogna, celebre per il suo talento comico e vocale, veste i panni di Dulcamara; Davide Luciano, baritono di grande versatilità, dà vita a Belcore; infine, Albina Tonkikh – Artista del Regio Ensemble – arricchisce il cast nel ruolo di Giannetta, completando una squadra di interpreti di altissimo livello. Nei ruoli dei protagonisti si alternano: Enkeleda Kamani (Adina), Valerio Borgioni (Nemorino), Simone Alberghini (Dulcamara), Lodovico Filippo Ravizza (Belcore). Le scene sono di Davide Signorini, i costumi di Nika Campisi e luci di Gianni Bertoli.
Fabrizio Maria Carminati è uno dei più apprezzati interpreti del repertorio operistico italiano. Diplomato in pianoforte e direzione d’orchestra, ha iniziato la sua carriera proprio al Regio di Torino, dove ha diretto numerosi titoli d’opera e concerti sinfonici. Direttore artistico del Teatro Donizetti di Bergamo (2000-2004) e della Fondazione Arena di Verona (2004-2006), è stato Primo Direttore ospite dell’Opéra de Marseille fino al 2015, dove ha diretto acclamate produzioni e concerti sinfonici. Esperto del belcanto e interprete donizettiano di riferimento, ha un repertorio che spazia da Paisiello a Puccini, con incursioni nel ’900 e nella musica contemporanea. Ha diretto in teatri prestigiosi come La Fenice, il Maggio Musicale Fiorentino, il Festival Puccini e l’Opéra de Nice.

Link: https://www.teatroregio.torino.it/opera-e-balletto-2024-2025/lelisir-damore

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Roma, Museo del Corso – Polo Museale: “Picasso lo straniero” dal 27 febbraio al 29 giugno 2025

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 16:11

Museo del Corso – Polo Museale
PICASSO LO STRANIERO
A cura di Annie Cohen-Solal
con un intervento di Johan Popelard del Musée national Picasso-Paris
Organizzata da Fondazione Roma con Marsilio Arte
Al Museo del Corso – Polo Museale dal 27 febbraio 2025 apre la seconda tappa italiana della mostra “Picasso lo straniero”.
A Roma oltre 100 opere con un nucleo inedito dedicato alla primavera romana del 1917. Dipinti, disegni, ceramiche, fotografie, documenti, che presentano il percorso di Picasso straniero in Francia. Organizzata da Fondazione Roma con Marsilio Arte, Picasso lo straniero apre al Museo del Corso – Polo Museale dal 27 febbraio 2025 ed è realizzata grazie alla collaborazione con il Musée national Picasso-Paris (MNPP), principale prestatore, il Palais de la Port Dorée di Parigi, il Museu Picasso Barcelona, il Musée Picasso di Antibes, il Musée Magnelli – Musée de la céramique di Vallauris e importanti e storiche collezioni private europee. L’idea originale del progetto è nata da Annie Cohen-Solal, curatrice della mostra con un intervento di Johan Popelard del Musée national Picasso-Paris. Picasso lo straniero presenta più di 100 opere dell’artista, oltre a documenti, fotografie, lettere e video: un progetto che si arricchisce – per la seconda tappa italiana dopo Palazzo Reale di Milano e Palazzo Te a Mantova – di un nucleo di opere inedite, selezionate dalla curatrice esclusivamente per il percorso espositivo del Museo del Corso – Polo Museale. La mostra presenta in particolare un’importante sezione dedicata alla primavera romana del 1917 trascorsa da Pablo Picasso con Jean Cocteau, Erik Satie, Serge de Diaghilev e Leonid Massine. Pablo Picasso, nato nel 1881 a Málaga in Spagna, si stabilisce a Parigi definitivamente nel 1904. Anche se la Francia lo ospiterà fino alla sua morte e la sua fama crescerà oltre i confini nazionali, l’artista non otterrà mai la cittadinanza francese: la mostra segue la traiettoria estetica e politica di Picasso, per illustrare come abbia plasmato la propria identità vivendo nella difficile condizione di immigrato. «La primavera romana di Picasso nel 1917 rimane un momento storico di rinascita per l’artista “straniero”, dopo la confisca (dicembre 1914) delle sue opere cubiste dal governo francese» commenta Annie Cohen-Solal curatrice e autrice del libro Picasso. Una vita da straniero (Prix Femina Essai, 2021) già tradotto in 10 lingue e pubblicato in Italia da Marsilio Editori. Il percorso della mostra, arricchito dai prestiti di importanti musei e collezioni private europee, sarà quindi un modo per approfondire ulteriormente come l’artista, maestro dell’arte del Novecento, si sia affermato, straniero in Francia, e abbia imposto le sue rivoluzioni estetiche. Qui per tutte le informazioni.

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Milano, Teatro del Borgo: “Vania”

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 15:22
Milano, Teatro del Borgo, Stagione 2024/25 “VANIA” Drammaturgia collettiva da Anton Cechov Ivan FABIO ZULLI Sonia FRANCESCA GEMMA Elena VANESSA KORN Dottore UMBERTO TERRUSO Regia Stefano Cordella Scene e Costumi Stefania Coretti e Maria Barbara de Marco
Disegno luci Marcello Falco Produzione Oyes Milano, 24 febbraio 2025

Il secondo Cechov cui abbiamo assistito la settimana passata è per alcuni versi molto simile e per altri diametralmente opposto al primo. “Vania“ è una drammaturgia collettiva, ossia gli attori hanno scritto le loro stesse parti ispirandosi all’opera del drammaturgo russo; il pericolo, in casi come questo, è che l’attore, vuoi per ignoranza, vuoi per protagonismo, attinga sempre più al proprio vissuto e alla propria personalità, tenendosi lontano dal modello proposto, ma questo non è il caso dei quattro della Compagnia Oyes: ci troviamo di fronte, infatti, a un testo di rara corrispondenza drammaturgica e, allo stesso tempo, di notevole originalità. I cinque ruoli aderiscono perfettamente alle fisicità, alle vocalità, alle prossemiche dei loro interpreti, e non è superfluo specificarlo, giacché la scrittura è un formidabile mezzo di mistificazione del sé; Zulli, Gemma, Korn e Terruso, invece, sanno tenere bene le redini del difficile mezzo espressivo scelto, mantenendo una via di onestà a se stessi e al personaggio degna di lavori drammaturgici ben più illustri. Fabio Zulli è un Ivan come tutti, nella vita, ne abbiamo conosciuti: un uomo piccolo, insignificante, ma comunque a contatto con i propri sentimenti, il proprio lato oscuro, che si esprimono a prescindere da quello che accade – e nelle movenze, nella falsificazione della voce, ricorda davvero il lešij di Cechov, ossia lo spirito briccone e smargiasso che l’antica mitologia russa ricollegava, però, a una vita originaria boschereccia. Francesca Gemma della Sonia originale ci ripropone, in primis, la complessità di una ragazza allo stesso tempo felice e non felice, in difficile equilibrio tra ciò che le è stato dato e ciò che vorrebbe prendersi; l’interpretazione è naturalmente ben caratterizzata, anche nei momenti più bruschi o sofferti, senza dubbio aiutata da una cosciente gestione di un’estesa vocalità, che ci mostra nei momenti in cui canta “Mad World“. Vanessa Korn è, considerato il personaggio di Elena, quella su cui è più difficile esprimere un giudizio, giacché l’enigmaticità e l’introiezione dell’emotività sono i caratteri principali del personaggio; la fisicità con cui Korn decide di contraddistinguere il suo ruolo ne tradisce l’algore, poiché è severa e torreggiante nel suo abitino azzurro, spesso mossa da fremiti ed istinti selvaggi. Umberto Terruso, infine, è un dottore che si esprime senza dubbio più in profondità che in esteriorità: i suoi monologhi sono taglienti, il suo carattere conosce sia la complessità di Sonia sia l’incomunicabilità di Elena, ma anche il desiderio di leggerezza di Ivan, diventando l’oggetto del desiderio di tutta la famiglia, ma non sapendosi concedere davvero a nessuno dei tre come questi desiderano. Di fronte a ruoli così accuratamente viscerali, la regia di Stefano Cordella sa comunque trovare una cifra stilistica, un gesto unificante, ed è proprio il costringere gli interpreti ad entrare e uscire dal personaggio a scena aperta, per far sì che le luci (efficacemente disegnate da Marcello Falco) e le musiche dello spettacolo siano direttamente gestite da loro, ma anche il ridurre ai minimi termini le uscite vere e proprie dal palco, tenendo sempre a vista sia chi parla sia di chi si parla, in un gioco efficace di rispecchiamenti. Lo spettacolo si risolve così in un esito affascinante e strettamente coeso, perfettamente in equilibrio tra teatro di parola, drammaturgia di scena e postdrammatico: una piccola gemma che merita di continuare a riscuotere successi. Foto Matteo Gilli 

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Milano, Teatro alla Scala: “Giuseppe Verdi: “Falstaff”

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 15:10

Milano, Teatro alla Scala, stagione lirica 2024/25
“FALSTAFF
Commedia lirica in tre atti su libretto di Arrigo Boito da Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Sir John Falstaff AMBROGIO MAESTRI
Ford LUCA MICHELETTI
Fenton JUAN FRANCISCO GATELL
Dott. Cajus ANTONINO SIRAGUSA
Bardolfo CHRISTIAN COLLIA
Pistola MARCO SPOTTI
Mrs Alice Ford ROSA FEOLA
Nannetta ROSALIA CID
Mrs Quickly MARIANNA PIZZOLATO
Mrs Meg Page MARTINA BELLI
L’Oste della Giarrettiera MAURO BARBIERO
Robin LORENZO FORTE
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Giorgio Strehler
Ripresa da Marina Bianchi
Scene e costumi Ezio Frigerio
Luci Marco Filibeck
Coreografia Anna Maria Prina
Milano,  26 gennaio 2025
La Scala prosigue l’attività di ripresa dei propri allestimenti storici, dopo i titoli mozartiani delle scorse stagioni l’ideale omaggio a Strehler riporta in scena il “Falstaff” nato nel 1980 e ripreso per l’ultima volta nel 2004. Lo spettacolo – ripreso con intelligenza e rispetto da Marina Bianchi – resta un incanto poetico che affascina gli occhi e commuovo l’anima. La vicenda trasposta in un Cinquecento padano tra cascine avvolte nella nebbia, notti lattiginose e architetture laterizie popolate da figure direttamente uscite dai pennelli di un Campi o di un Savoldo suscita ancora intatta la sua meraviglia. E’ un “Falstaff” avvolto di atmosfere melanconiche, di un calore autunnale che esprime perfettamente lo spirito di quest’opera sospesa tra melanconia e bonaria ironia e quando alla fine le luci della Scala si accendo di colpo a far tutti partecipi di quel “Tutti gabbati” che in fondo è la cifra le destino ultimo di ciascuno di noi l’emozione lascia ancora stupiti dopo tanto tempo così come immutato è il senso di umana fratellanza che in quel momento si sprigiona. La direzione di Daniele Gatti è in perfetta sintonia con lo spettacolo. Tempi ampi, distesi e colori orchestrali caldi e autunnali sono la cifra stilistica dominante nella lettura di Gatti. Una direzione dal sapore elegiaco, di atmosfere quasi gozzaniane nell’esaltare gli aspetti più malinconici dell’opera e dove il sorriso si vela di bonaria ironia. Curatissimi le dinamiche e i dettagli timbrici e cromatici, esplode negli archi tesi al parossismo nella caccia infernale di Ford e si dipana in trine argentee e quasi impalpabili nella scena delle fate. Inutile dire che i momenti più lirici – dall’abbandono carica di sensualità dei duetti degli innamorati alle sonorità misteriose e magiche del preludio alla scena seconda del terzo atto – trovano la loro piena esaltazione ma non manca d’ironia e di leggerezza quando richiesta anche se resta sempre un tocco più delicato come se un’ombra sfiorasse anche il riso più sincero. Una concertazione “personale” ma che abbiamo particolarmente apprezzato non solo per aver proposto una visione diversa dell’opera ma soprattutto per una perfetta sintonia con lo spettacolo di cui condivide perfettamente colori e atmosfera. Ambrogio Maestri di Falstaff possiede ogni fibra, forse nessuno nei nostri tempi è giunto a una così completa identificazione con il personaggio. Sul piano vocale la prestazione ha lasciato adito a qualche dubbio. La voce è sempre solida e robusta, capace di dominare i vasti spazi della sala del Piermarini di contro nei falsetti, nelle mezzevoci si è notata qualche durezza, qualche segno di fatica che sembrava tradire una condizione di salute forse non ottimale. Difetti che la pienezza della cavata e soprattutto l’irresistibile personalità scenica e interpretativa compensano ampiamente ma che vanno ugualmente rilevati. Nulla da eccepire invece sul resto della compagnia. Rosa Feola ha forse una voce un po’ leggera per Alice cui manca anche un po’ di maturità timbrica ma canta in modo semplicemente squisito e l’ottima proiezione fa correre la voce con sicurezza nei vasti spazi scaligeri, la sua lettura molto seria e contenuta del personaggio si sposa alla perfezione con regia e direzione. Luca Micheletti è un Ford di lusso. Voce bella, potente, ricca di armonici e non comuni qualità interpretative e attoriali. La coppia dei giovani innamorati ha tutta l’incantevole freschezza richiesta. Voci chiare e luminose quelle di Rosalia Cid e Juan Francisco Gatell che si adattano alla perfezione ai rispettivi ruoli di cui possiedono anche ideale fisicità. In particolare la Cid, neppure trentenne, mostra già qualità non trascurabile e merita di essere seguita con attenzione. Antonino Siragusa è un dottor Cajus magistrale. Semplicemente perfetto sia sul piano vocale – un vero lusso una voce di questa qualità per la parte – sia interpretativo. Marianna Pizzolato è una Quickly splendidamente cantata, la voce è molto bella e l’emissione morbida e rotonda. La linea di canto è elegante senza cadute di stile e si riconosce la tempra da autentica belcantista e scenicamente il personaggio è di grande comunicativa. Martina Belli è una Meg dalla voce scura e profonda oltre che dall’innegabile presenza scenica che ben giustifica gli interessi di Falstaff. Marco Spotti (Pistola) e Christian Collia (Bardolfo) funzionano molto bene nell’economia complessiva. Una nota particolare per il piccolo Lorenzo Forte nei panni di Robin. Simpatico e spigliato nel tratteggiare un piccolo Falstaff che del padrone imita vestiti, pose e vezzi come gli Eroti che nella pittura romana – e poi rinascimentale – imitavano con la simpatica goffaggine dell’infanzia in modi degli eroi e degli Dei. Con un simile erede il vecchio John può stare tranquillo, qualcuno continuerà a far trillare il mondo dopo il lui.  Foto Brescia & Amisano

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Saverio Mercadante (1795 -1870): “Il proscritto” (1842)

gbopera - Mer, 29/01/2025 - 14:06

Dramma lirico in tre atti su libretto di Salvatore Cammarano. Ramón Vagas (Giorgio Argyil), Iván Ayón-Rivas (Arturo Murray), Irene Roberts (Malvina Douglas), Elizabeth DeShong (Odoardo Douglas), Sally Matthews (Anna Ruthven), Goderdzi Janelidze (Guglielmo Ruthven), Susana Gaspar (Clara), Alessandro Fischer (Osvaldo), Niall Anderson (un ufficiale di Cromwell). Opera Rara Chorus, Stephen Harris (maestro del coro), Britten Sinfonia, Carlo Rizzi (direttore). Registrazione: Londra, Barbarican Center, giugno 2022, 2 CD Opera Rara ORC62
Saverio Mercandante è sempre stata figura difficile da classificare nella storia del melodramma italiano. Forse il maggior operista della generazione compresa tra i Dioscuri e Verdi ma al contempo sempre un passo indietro, sempre un po’ al traino della situazione. Questo è il caso anche de “Il proscritto” andato in scena a Napoli nel 1842 con tiepida accoglienza e in seguito dimenticato.
Recuperato il manoscritto il titolo ha rivisto la luce a Londra nel 2022 – esecuzione in forma di concerto a Barbarican Center – e trova ora la via del disco – grazie ad Opera Rara – sempre sotto la guida di Carlo Rizzi.
L’opera tratta da un dramma di Frédéric Souilé e Timothée Dehay s’ispirava a un racconto popolare che si diceva avvenuto nel Delfinato durante le guerre napoleoniche. Cammarano per evitare problemi di censura – l’ambientazione rivoluzionaria era sempre guardata con sospetto dai censori italiani – sposta il tutto nella Scozia del XVII secolo al tempo della Rivoluzione inglese resa di moda da “I puritani” di Bellini. Purtroppo il libretto di Cammarano – qui privo di quel controllo che sarà fondamentale per la riuscita dei testi verdiani – appare uno degli elementi più deboli, molto dispersivo e superficiale nella caratterizzazione dei personaggi.
La musica di Mercadante si muove tra tradizione e innovazione. I riferimenti alla grande stagione – ormai tramontante – del Belcanto italiano sono palesi ma si riconosce anche una volontà di superare un sistema formale troppo rigido. Un superamento che avviene attraverso lo studio dell’opera francese e in particolar modo di Meyerbeer da cui derivano sia l’uso di blocchi formali più ampi sia la maggior attenzione alla scrittura orchestrale.
Quest’ultima trova interprete attento e sensibile in Rizzi che fornisce una prestazione decisamente convincente. Grande cura è data al colore orchestrale ricco ma mai sovraccarico così come attende e curate sono le dinamiche con una ritmica serrata e molto teatrale ma attenta alle ragioni del canto e non eccessivamente forzata. Fortuna non da poco il poter disporre di un complesso della qualità della Britten Sinfonia che suona in modo magnifico e risponde con naturalezza assoluta alle richieste direttoriali. L’Opera Rara Chorus forse non brilla per chiarezza di dizione ma si fa apprezzare per una ricchezza di suono e per una compattezza veramente non comuni.
La compagnia di canto vede protagonisti i due tenori. I due sposi di Malvina, Giorgio già creduto morto e ora ricomparso e il giovane Arturo, sposato per necessità politiche ma al quale la donna si è ormai affezionata sono, infatti, entrambi scritti per voce di tenore. Più scura e baritonale quella di Giorgio, che si esprime con ampi e intensi declamati più acuta e squillante quella del giovane Arturo. La contrapposizione è quella che ritroviamo in tante opere serie rossiniane anche se l’uso drammaturgico è nel complesso originale.

Ritornando a un repertorio a lui più congeniale Ramón Vargas ritrova una freschezza vocale che negli ultimi anni sembrava essersi appannata a causa di un repertorio fin troppo impegnativo. La voce qui appare bella e sicura, l’emissione nel compresso ben controllata e la maturità interpretativa gli permette di dare il giusto risalto ai declamati drammatici che caratterizzano la parte. Gli anni non sono passati senza lasciare traccia e seppur ancor notevole la voce presenta qualche smagliatura, qualche suono più roco e indurito che però non guasta in un personaggio così provato e sofferto.
Al suo fianco è tutta la baldanza giovanile di Iván Ayón-Rivas. Timbro luminoso e squillante, acuti facilissimi e accento di aulica nobiltà. Le due voci tenorili risultano quindi ben differenziate così da poter dare il giusto contrasto nel grande duetto della sfida, ancora palesemente modellato su quello dell’”Otello” rossiniano.
Un gradino più sotto la Malvina di Irene Robets non tanto per la voce abbastanza prosaica anche se corretta nel canto quanto per un’interpretazione troppo compassata in cui si fatica a trovare traccia delle lacerazioni che straziano l’animo dell’eroina fino a spingerla al suicidio.
Il fratello di Malvina Odoardo ha un ruolo drammaturgico marginale ma Mercandante gli da grande rilevanza musicale quasi a farne il proprio Maffio Orsini e bravissima è Elizabeth DeShong, mezzosoprano dalla voce davvero bella, morbida e ricchissima di armonici unita a un canto elegante e molto musicale.
Anna, la perfida madre di Malvina, è cantata da Sally Matthews che purtroppo soffre di una pronuncia precaria e interpretativamente è anonima quanto la figlia; meglio Goderdzi Janelidze nell’implacabile fermezza di Guglielmo. Buone le parti di fianco e come sempre impeccabile nei prodotti Opera Rara la qualità della registrazione.

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Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni: “Giulio Cesare”

gbopera - Mar, 28/01/2025 - 14:25

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2024-2025
GIULIO CESARE
Dramma musicale in tre atti su libretto di Nicola Francesco Haym da Giulio Cesare in Egitto di Giacomo Francesco Bussani
Musica di Georg Friedrich Händel
Giulio Cesare RAFFAELE PE
Cleopatra MARIE LYS
Achilla DAVIDE GIANGREGORIO
Cornelia DELPHINE GALOU
Tolomeo FILIPPO MINECCIA
Sesto FEDERICO FIORIO
Nireno ANDREA GAVAGNIN
Curio CLEMENTE ANTONIO DAILOTTI
Accademia Bizantina
Direttore al clavicembalo Ottavio Dantone
Regia Chiara Muti
Scene Alessandro Camera
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Vincent Longuemare
Nuovo allestimento in Coproduzione Ravenna Manifestazioni, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Teatro del Giglio di Lucca, Fondazione Haydn di Bolzano e Trento
Modena, 26 gennaio 2025
Come suonavano le voci di quei mitici castrati che facevano impazzire il Settecento? Bisognerebbe averli sentiti. Ma la verità, è noto, abbonda nelle tasche del melomane, sempre pronto a sfoderare la propria su ogni questione. Controtenori, falsettisti, sopranisti, contraltisti: volano termini diversi per indicare gli uomini che cantano nei registri più acuti. Dalla loro, parecchi punti a favore ne giustificano il grande successo degli ultimi anni: sono giovani, spesso belli, talvolta prestanti, credibili in scena (più di una donna en travesti) e musicisti preparatissimi, colti e raffinati. Per forza, perché hanno a che fare sempre con rarità e riscoperte. Rarità e riscoperte che non hanno quella palla al piede della tradizione: interpreti e pubblico sono vergini e, spesso e volentieri, anche giovani. E, si sa, quel disinvolto gioco di generi e sessi solletica le moderne sensibilità facendo precipitare l’appeal dei bacchettoni romantici. Limiti? La voce maschile a quelle altezze resta un po’ bianchiccia, il timbro come slavato, il volume non poderoso. Anche nei casi migliori, come qui. Raffaele Pe, il protagonista, fa i miracoli per garantire omogeneità su tutta l’estensione e con grande abilità dà spessore e slancio all’emissione. Filippo Mineccia, il co-protagonista (Cesare dà il nome all’opera, ma Tolomeo non è meno centrale nell’azione), non può certo contare sulla stessa omogeneità, anzi ci gioca espressivamente, e compensa con esuberante scioltezza scenica. Dei tre, Federico Fiorio (Sesto), ha forse il timbro più corposo e bello; e insieme il più delicato, però. Girandole di note, fuochi d’artificio, ghirigori e infiorettature: niente li spaventa, naturalmente. Ma accenti di un’espressività più, se vogliamo, sentimentale, non mancano: per esempio, nel bel duetto di Sesto e Cornelia. Delphine Galou (Cornelia) è, come si dice, una specialista, che usa la duttile voce come uno strumento, rifuggendo a qualunque costo il vibrato e asciugando quanto più possibile il suono. Se così canta la romana, l’egiziana invece, Marie Lys (Cleopatra), non disdegna nessun elemento di seduzione vocale, e si cura di riempire, tondeggiare, ammorbidire, sfoggiando senza tanti imbarazzi il bel timbro corposo (ma anche le gambe). Davide Giangregorio (Achilla) alleggerisce garbatamente la sua voce di basso per salvaguardare l’unità stilistica col resto del cast, canta benissimo, e alla fine dà anche una significativa prova attoriale con la sua morte: dove la recitazione è al suo posto, ovvero nel canto e non sulla scena. Completano ineccepibili il cast il Nireno di Andrea Gavagnin e il Curio di Clemente Antonio Daliotti. Ottavio Dantone con la sua Accademia Bizantina è un punto di riferimento per questo repertorio: organico asciuttissimo, sonorità leggere, svolazzanti e taglienti. Nessuno vuol “wagnerizzare”, per carità, ma le barbare stelle non vogliano che l’esecuzione storicamente informata si rivolga ad un pubblico stoicamente formato: che sa già di dover battere i denti su un suono ridotto all’osso. Chiara Muti firma questo bello spettacolone, one perché tanto lungo quanto ricco. Con l’impianto scenico di Alessandro Camera, sobrio e deliberatamente passatista, fra il pvc molto Strehler-Frigerio e il dorato faccione di Cesare, gigantesco à la De Ana, e affettato come quelli di Abu Simbel durante il trasloco. Dentro ci mette di tutto, dalle gags più classiche (per esempio il calice avvelenato fumante, come quello, per chi se lo ricorda, del paggio ghignante nel Boccanegra di Strehler) fino al farfallone un po’ Oberon, ma lo fa sempre con un certo gusto. Tanto che perfino la torta in faccia a Tolomeo riesce a non essere fuori luogo. Così Cesare conquistò le romantiche province dell’Emilia. Ma il melomane-Tantalo che, in questo fine settimana di tentazioni, attratto anche dai Capuleti e Montecchi a Reggio Emilia, dalla Fanciulla del West a Bologna e dalla Giovanna d’Arco a Parma, se lo fosse perso, questo Giulio Cesare lo può ancora recuperare su YouTube nella diretta ravennate curata da Opera Streaming.

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Roma, Teatro Torlonia: “Elena” dal 30 gennaio al 02 febbraio 2025

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 18:13

Roma, Teatro Torlonia
ELENA
di Ghiannis Ritsos
traduzione Nicola Crocetti
diretto e interpretato da Elena Arvigo
e con la partecipazione di Monica Santoro – flauto traverso e canto
Elena è un poemetto scritto da Ritsos, ispirato al personaggio mitico di Elena, regina di Sparta, icona dell’eterno femminino e fa parte della raccolta Quarta dimensione, il capolavoro  del poeta greco Ghianni Ritsos, scritto durante i lunghi anni di detenzione nei campi di  concentramento del regime militare dei colonnelli, che con un colpo di Stato prese il potere in Grecia  dal 1967 al 1974. Attraverso la metafora della mitologia, Ritsos denunciò la tragica realtà di un Paese schiacciato dalla morsa dei colonnelli per ben 7 anni, e riuscì a eludere la censura. Quarta dimensione è un testo sulla guerra e sulla solitudine. La forma scelta da Ritsos è quella del monologo in versi rivolto ad un personaggio che resta una muta presenza sulla scena. Elena vecchissima, dall’età indefinibile, immersa nei ricordi, che si confessa tra memoria e disincanto a un visitatore silenzioso (forse «figura» dello stesso poeta),  riflette sul passare del tempo che tutto travolge; rievoca disingannata e lucidissima l’antico splendore. Ritsos attraverso il suo teatro-poesia che reincarna i miti, libera Elena dal suo stesso mito e concede alla propria amata attrice la possibilità di essere finalmente un diverso personaggio: una donna. Chi è Elena? La regina di Sparta? Perché ci fu la guerra di Troia? La guerra è forse sempre per un inganno? Chi sono gli eroi? E dopo la guerra, cosa rimane? In questo viaggio ogni nuovo pensiero mette in discussione il precedente. Elena è il racconto di un viaggio nel tempo che solo il mito ci concede di fare e rifare per rinnovare il senso e la coscienza di ciò che fu. Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro Brancaccio: “Mare Fuori: il musical” dal 31 gennaio al 02 febbraio 2025

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 18:04

Roma, Teatro Brancaccio
MARE FUORI: IL MUSICAL
scritto da Cristiana Farina, Maurizio Careddu, Alessandro Siani
regia di Alessandro Siani
con Andrea Sannino, Maria Esposito, Antonio Orefice, Mattia Zenzola, Giuseppe Pirozzi, Enrico Tijani, Antonio D’Aquino, Giulia Luzi, Carmen Pommella, Emanuele Palumbo, Leandro Amato, Antonio Rocco, Christian Roberto, Giulia Molino, Bianca Moccia, Angelo Caianiello, Pasquale Brunetti, Yuri Pascale Langer, Sveva Petruzzellis, Anna Capasso, Fabio Alterio, Benedetta Vari
direzione musicale Adriano Pennino
coreografie Marcello e Mommo Sacchetta
aiuto regia Pino L’Abbate
scenografo Roberto Crea
light design Carlo Pastore
costumi Eleonora Rella e Lisa Casillo
actor coach Gennaro Silvestro
vocal and song director Mauro Spenillo
casting director Marita D’Elia
L’istituto di detenzione minorile è una bolla in cui “ragazzi interrotti” hanno la possibilità di capire chi sono e cosa vogliono al di là di cosa sono stati fuori da quelle mura. è una parentesi di sospensione in cui hanno la possibilità di navigare nel loro mare interiore, fare nuove scoperte e conoscere nuovi mondi. luoghi che sinora non hanno mai esplorato. Qui per tutte le informazioni.

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Novara, Teatro Carlo Coccia: “Otello”

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 16:30

Novara, Teatro Carlo Coccia, Stagione lirica 2025
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti di Arrigo Boito dall’omonima tragedia di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Otello ROBERTO ARONICA
Jago ANGELO VECCIA
Casso ORONZO D’URSO
Roderigo ANDREA GALLI
Lodovico SHI ZONG
Montano LORENZO LIBERALI
Un araldo LORENZO MARIA DEGIACOMI
Desdemona IWONA SOBOTKA
Emilia NIKOLINA JANEVSKA
Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Christopher Franklin
Coro del Teatro Municipale Piacenza
Maestro del coro Corrado Casati
Coro Voci Bianche Piacenza
Maestro del coro Giorgio Ubaldi
Regia Italo Nunziata
Scene Domenico Franchi
Costumi Artemio Cabassi
Luci Fiammetta Baldiserri
Novara, 24 gennaio 2025
Otello” è opera da far tremare i polsi. Punto di arrivo della drammaturgia tragica verdiana e paradigma di un mito verdiano che suscita timore anche solo ad avvicinarsi. Allestire “Otello” specie fuori dai grandi circuiti è impresa che richiede coraggio e una certa dose di follia. Entrambe non sono mancate al Teatro Coccia che proprio con quest’opera ha deciso di inaugurare la stagione 2025. Un azzardo ma nel complesso la scommessa è stata vinta.
Lo spettacolo conta sulla mano sicura ed esperta di Christopher Franklin che guida il tutto con solido rigore. Il direttore punta a una lettura essenziale ma nel complesso efficacie. Garantisce un’ottima tenuta tra buca e palcoscenico e gestisce con bravura il problema dei pesi sonori tra un’orchestra di grandi dimensioni – è stato necessario disporre anche dei palchi di proscenio – e un teatro piccolo e dall’ottima acustica. L’Orchestra Filarmonica Italiana – presenza ormai abituale a Novara – e il Coro del Teatro Municipale di Piacenza forniscono il loro contributo di solida professionalità alla riuscita complessiva.
Roberto Aronica arriva a capo del cimento rappresentato dal protagonista. Il tenore sfoggia una voce sicura e robusta, molto sonora e ottimamente proiettata. Al netto di qualche nota “sporca” nel II atto – quasi inevitabile in certi passaggi – padroneggia la parte con sicurezza e forte senso drammatico con risultati particolarmente convincenti nel IV atto dove trova accenti di sincera e accorata commozione. Il timbro non è bellissimo e nel corso egli anni si è in parte indurito per un repertorio forse troppo pesante per un materiale di natura più lirico ma presenza vocale e facilità di canto restano una sicurezza.
Vera rivelazione della serata la polacca Iwona Sobotka, cantante attiva quasi esclusivamente in patria – in Occidente conta come presenza di rilievo solo un “Requiem” verdiano diretto da Muti in Francia – ma in possesso di un materiale di prim’ordine. La sua è una Desdemona di vecchia scuola, lontana da letture più intime e liriche e impostata su una vocalità doviziosa e possente, con uno spessore quasi da soprano drammatico. Una Desdemona guarda ai lontani modelli della Caniglia e della Tebaldi nel tipo di vocalità e nel gusto interpretativo. La voce è non solo grande e sonora ma molto bella come timbro e colore e facilissima negli acuti, potenti e ricchissimi di suono. Questo “Otello” novarese potrebbe essere un meritato trampolino di lancio. Cantante ben noto al pubblico novarese Angelo Veccia mostra come Jago di aver raggiunto una piena maturità artistica. Baritono dalla voce robusta anche se un po’ grezza ha nella nitidezza della dizione e nelle doti attoriali le sue armi migliori. Il suo è uno Jago deciso e di forte personalità che trova il momento più riuscito in un Credo reso con grande autorevolezza di accenti, feroce e granitico nella sua malvagità senza cedimenti. Dove manca qualcosa è nel canto alato del Sogno, nelle trine del terzetto della “Ragna” dove servirebbe una vocalità più raffinata.
Bel timbro e squillo sicuro per il Cassio di Oronz D’Urso. Perfettamente funzionali Andrea Galli (Roderigo), Lorenzo Liberali (Montano) e Nikolina Janewska (Emilia). Coretto anche se timbricamente un po’ anonimo il Lodovico di Shi Zang.
La regia di Italo Nunziata (con scene di Dmenico Franchi e costumi di Artemio Cabassi) si concentra sui rapporti tra i personaggi, sacrificando le componenti eroiche per focalizzarsi sulle emozioni più intime. La sua è una visione da dramma borghese enfatizzata anche dai costumi che traportano la vicenda in ambientazione tardo-ottocentesca, più o meno coeva alla composizione dell’opera. L’impianto scenico è antinaturalistico, dominato di quindi scure e rugose che tendono a chiudersi in modo sempre più opprimente man mano che il delirio serra tra i suoi artigli la mente di Otello. Pochi e stilizzati elementi simbolici arricchiscono l’impianto scenico così come essenziali sono gli arredi. Belli i costumi, di un’eleganza sobria e raffinata con una precisa volontà di connotare con i dettagli ciascun personaggio. L’ambientazione più intima aiuta un lavoro di recitazione attento e molto curato. La stagione novarese si apre con il miglior viatico possibile arricchito da una sala gremita e da un calorosissimo successo per tutti gli interpreti.

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Nikolai Myaskovsky (1881-1950): Sinfonie No. 17 e No. 20

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 14:04

Nikolai Myaskovsky (1881-1950): “Symphony No. 17 in G sharp minor, Op. 41 & Symphony No. 20 in E major, Op. 50”. Ural Youth Symphony Orchestra. Alexander Rudin (direttore), Registrazione: Luglio 2022. Grand Hall of Sverdlovsk Philharmonic,Yekaterinburg, Russia. T. Time: 75′ 1CD Fuga Libera FUG 820

Considerato da Aram Khatchatourian, che fu uno dei suoi 80 allievi, un ponte tra il classicismo e la modernità, Nikolaï Miaskovski (1881-1950) può essere a buon diritto definito il padre della sinfonia sovietica. 
La parte preponderate del catalogo di Miaskovski, nobile di origine e ufficiale dell’esercito, che servì durante la Prima Guerra Mondiale, durante la quale fu ferito, è, infatti, costituita dalle 27 sinfonie, alle quali vanno aggiunti 13 quartetti per archi, 9 sonate per pianoforte, che mostrano l’attenzione del compositore sovietico per la forma-sonata da lui sottoposta a un processo di elaborazione. Del resto, è stato lo stesso Miaskovski, in un articolo intitolato Tchaïkovski et Beethoven pubblicato nel 1912, a confessare il suo impegno a favore della delineazione di una scrittura sinfonica drammatica nella quale è possibile riscontrare due caratteristiche: la soggettività da una parte e l’oggettività dall’altra. Ciascuno di questi aspetti prevale in una parte della sua produzione piuttosto che nell’altra e, se un forte soggettivismo contraddistingue i primi lavori sinfonici, di cui massimi esempi sono, per la loro complessità, la Decima e la Tredicesima, l’oggettività, che comporta un’apertura verso l’esterno, informa le sinfonie che egli compose dal 1930 in poi, di cui un esempio è la Sinfonia n. 17 in sol diesis minore, Op. 41, risalente al 1937 che, come dichiarato dal compositore in una lettera ad Assafiev, era “molto più significativa e legata alla sua epoca”. Questa sinfonia, dedicata a Alexander Gaouk, che la diresse in occasione della prima esecuzione avvenuta a Mosca nel mese di dicembre del 1937, si distingue per il carattere drammatico ed emotivamente denso del primo e del quarto movimento, ma anche per la bellezza e il lirismo di alcuni passi del secondo. Composta nel 1940 ed eseguita per la prima volta il 28 novembre dello stesso anno a Mosca sotto la direzione di Nikolaï Golovanov, la Sinfonia n. 20 in mi maggiore, Op. 50 con i suoi tre movimenti, pur avendo aspetti in comune con la Diciassettesima, appare nettamente più compatta e si distingue per il bellissimo secondo movimento di carattere meditativo. Ottima la concertazione da parte di Alexander Rudin il quale, alla guida dell’Orchestra giovanile degli Urali, stacca dei tempi corretti e trova delle sonorità sempre adeguate e molto belle soprattutto nei momenti lirici con le varie sezioni dell’orchestra che si integrano sempre senza mai soverchiarsi l’una con l’altra. Il direttore, infine, mette ben in evidenza gli aspetti drammatici di questi lavori, ma anche i momenti più magniloquenti.

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Roma, Museo Ebraico: il cuore della memoria nella Giornata della Memoria

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 13:44

Roma, Museo Ebraico
ROMA E IL MUSEO EBRAICO: il cuore della memoria nella Giornata della Memoria
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”
– Primo Levi
Nel cuore del Ghetto di Roma, il Museo Ebraico rappresenta un custode essenziale della memoria storica della comunità ebraica romana, un luogo in cui le testimonianze del ventesimo secolo si intrecciano inesorabilmente con le vicende della Shoah e della propaganda che ne fu il preludio. Tra documenti, oggetti personali e materiali di propaganda, il museo permette di ricostruire il contesto di esclusione, persecuzione e resistenza che segnò gli anni più bui della storia italiana. Il percorso di questo racconto storico prende avvio dalle leggi razziali del 1938, che costituirono il fondamento legislativo della discriminazione antiebraica in Italia. Tali leggi, emanate dal regime fascista con un linguaggio freddo e burocratico, sancirono la progressiva esclusione degli ebrei dalla vita pubblica: furono espulsi dalle scuole, dalle professioni e da ogni ambito di partecipazione sociale. Conservati tra i materiali esposti, questi documenti raccontano l’inizio di un percorso di degradazione e disumanizzazione che non colpì solo gli ebrei, ma tutte le categorie considerate “inferiori” secondo una presunta gerarchia razziale. In questo contesto si inserisce anche la rivista La Difesa della Razza, uno degli strumenti propagandistici più efficaci utilizzati dal regime fascista per legittimare l’ideologia razzista. Pubblicata dal 5 agosto 1938 al 20 giugno 1943, la rivista era diretta da Telesio Interlandi e aveva come segretario di redazione Giorgio Almirante. Con il sostegno finanziario e politico del regime, il periodico raggiunse una vasta diffusione grazie a una grafica modernissima e a una campagna pubblicitaria capillare. Gli articoli, firmati da noti scienziati e intellettuali asserviti al fascismo, proponevano teorie pseudoscientifiche volte a giustificare la superiorità della razza italiana e la necessità di preservarne la purezza. Fotografie, grafici e testi contribuirono a creare un clima di diffidenza nei confronti di ebrei, rom, africani e altre categorie considerate “inferiori”. Il museo conserva alcune copie di questa rivista, dono di Denise e Simonetta Caterina Di Castro nel 2005, che rappresentano un tassello essenziale per comprendere il ruolo della propaganda nella costruzione del consenso razziale e nella diffusione dell’intolleranza. Il dramma delle leggi razziali e della propaganda culminò nel rastrellamento del 16 ottobre 1943, un evento che segna uno dei momenti più tragici della storia romana. Alle prime luci dell’alba, le SS, con il supporto di collaborazionisti fascisti, irruppero nelle case del Ghetto e di altri quartieri della città, arrestando 1.259 persone, tra cui uomini, donne, bambini e anziani. Dopo una breve detenzione nella caserma di Via Tasso, furono deportati nei campi di sterminio, principalmente ad Auschwitz. Solo 16 di loro tornarono. Nel Museo Ebraico, questo tragico evento è raccontato attraverso lettere, fotografie e oggetti personali che restituiscono volti e storie a quelle vittime spesso ridotte a numeri nei documenti ufficiali. Tra gli oggetti conservati, spiccano indumenti, libri e utensili domestici, frammenti di una quotidianità interrotta. Questi oggetti, nella loro semplicità, diventano testimoni di vite spezzate e pongono domande profonde su ciò che è stato perso. I registri e le liste di deportazione esposti nel museo fissano con spietata precisione amministrativa il destino delle persone arrestate, trasformando identità complesse in meri numeri. Ogni nome su quelle liste rappresenta una vita, un’esistenza interrotta brutalmente, e ogni documento offre una finestra su una tragedia collettiva che non può essere relegata al passato. In questo scenario di sofferenza emerge anche il racconto della resistenza ebraica, una resistenza che non fu solo armata, ma morale e solidale. Un esempio significativo è rappresentato dalla DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), un’organizzazione clandestina che operò in Italia durante l’occupazione nazista. Attraverso una rete di collaborazione che coinvolse ebrei, religiosi cattolici e cittadini comuni, la DELASEM fornì rifugio, documenti falsi e sostegno economico a migliaia di ebrei in fuga. Questo impegno, spesso rischioso per chi vi partecipava, dimostrò che anche nei momenti più bui era possibile opporsi al male con gesti di coraggio e umanità. La disposizione dei materiali nel Museo Ebraico non segue una narrazione puramente cronologica, ma mira a intrecciare le dimensioni storiche, emotive e intellettuali degli eventi. Ogni documento, ogni oggetto personale, ogni fotografia invita il visitatore a riflettere non solo su ciò che è stato, ma anche sulle dinamiche che hanno permesso il verificarsi di tali tragedie. La memoria qui non è semplice commemorazione, ma uno strumento per comprendere e prevenire. Come ammonisce Primo Levi, “non c’è nulla di più inumano dell’indifferenza.” Le testimonianze raccolte nel Museo sfidano questa indifferenza, trasformando la memoria in un atto di responsabilità. Il Museo Ebraico di Roma si pone, dunque, non solo come luogo di ricordo, ma come spazio di consapevolezza storica e di riflessione critica. Attraverso la sua narrazione, offre un monito universale, un invito a riconoscere il valore della dignità umana e a difenderla ogni giorno. La memoria, in questo contesto, non è solo un tributo alle vittime, ma un elemento essenziale per costruire un futuro in cui l’umanità non debba mai più affrontare l’orrore dell’intolleranza e dell’odio.

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Venezia, Teatro Malibran: Alpesh Chauhan sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice

gbopera - Lun, 27/01/2025 - 10:15

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2024-2025 della Fondazione Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Alpesh Chauhan
Felix Mendelssohn Bartholdy: Meeresstille und glückliche Fahrt op. 27; Darius Milhaud: “Le bœuf sur le toit” op. 58; Louise Farrenc: Ouverture n. 2 in mi bemolle maggiore op. 24; Robert Schumann: Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 97 “Renana”
Venezia, 24 gennaio 2025
Dopo aver diretto, nel febbraio del 2024 l’Ottava di Bruckner, Alpesh Chauhan è tornato a Venezia, in occasione del quinto appuntamento della nuova Stagione Sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice. Davvero intrigante il programma del concerto – svoltosi al Teatro Malibran –, che coniugava arditamente il pathos romantico – diversamente declinato nell’evocativa Ouverture da concerto Meeresstille und glückliche Fahrt, frutto della creatività di un Mendelssohn appena diciottenne; nella struggente Ouverture n. 2 op. 24 di Louise Farrenc, autorevole rappresentante del genio femminile in un contesto ottocentesco pervicacemente maschilista; infine nella Sinfonia “Renana”, affettuoso omaggio di Robert Schumann alla patria tedesca – con la scanzonata gaiezza che percorre Le bœuf sur le toit, un divertissement costruito dall’“antiromantico” Darius Milhaud, esponente del francese Gruppo dei Sei, utilizzando ritmi e melodie popolari del Brasile. Diffusamente brillante, energica, autorevole – come nella sua precedente esibizione alla Fenice – la prova offerta dal direttore britannico – nato a Birmingham da una famiglia di origine indiana – che, nonostante la giovane età si è già affermato nel panorama internazionale, grazie alle sue eccezionali doti musicali. La finezza interpretativa di Chauhan si è pienamente apprezzata in Meeresstille und glückliche Fahrt, ispirata da una coppia di poesie di Goethe, dalle quali Mendelssobn trasse l’intonazione lirica e il sentimento della natura, oltre alla struttura stessa dell’Ouverture, formata da una lenta introduzione (Adagio), seguita da un esteso Molto allegro e vivace. Duttile, l’Orchestra ha assecondato l’esplicito gesto direttoriale: dall’ampia e serena frase melodica d’apertura – che nel fraseggio e nell’atmosfera armonica prelude a Wagner – alla scintillante fanfara dei fiati, al tema vero e proprio dell’ouverture – appassionato, nonché disseminato di spunti e riecheggiamenti beethoveniani –, il cui ampio sviluppo è culminato nella squillante fanfara delle trombe, interrotta da una brevissima ripresa conclusiva della distensione melodica iniziale. L’Orchestra ha brillato di luce propria, in ogni sua sezione, nel successivo Le bœuf sur le toit, variopinto rondò orchestrale su temi e ritmi popolari soprattutto brasiliani, scritto da Milhaud nel 1919 al suo rientro in Francia dopo i due anni passati a Rio de Janeiro come funzionario d’ambasciata, accanto a Paul Claudel. Va comunque precisato che il tema ricorrente nel pezzo come il refrain di un rondò è stato composto ex novo dallo stesso Milhaud, cui appartengono anche le armonie politonali, i sapienti intrecci del materiale musicale, i nitidi colori dell’orchestra, tipici del suo stile, che nasconde spesso un intento provocatorio. Un acceso pathos romantico ha percorso l’esecuzione della breve Ouverture in mi bemolle maggiore op. 24 di Louise Farrenc – allieva di Antonin Reicha –, che ha la struttura tradizionale della forma-sonata e nella quale – dopo la lenta introduzione – si è colta la tipica contrapposizione tra la concitazione del primo tema e la scorrevole cantabilità del secondo. Veramente straordinaria è risultata l’esecuzione della Sinfonia “Renana”, a conferma della perfetta simbiosi tra l’Orchestra e il Direttore, che hanno saputo rendere, in particolare, la ricchezza di colori e di atmosfere emotive racchiusa nell’ultima partitura sinfonica di Robert Schumann, composta nel 1850 (quella pubblicata, nel 1851, come Quarta era già stata portata a termine dieci anni prima). Questa sinfonia risente della felicità provata da Schumann nei primi mesi trascorsi a Düsseldorf – dove si era trasferito nel 1850 per assumere la carica di Direttore dei concerti – e rappresenta la trasfigurazione musicale del paesaggio renano, che valse alla sinfonia la denominazione che la distingue. In effetti la Stimmung, il carattere della Terza Sinfonia si lega al germanesimo di Schumann, al culto romantico della patria tedesca, il cui simbolo per eccellenza è il Reno, che ne rappresenta la memoria storica, l’arte, la natura sentita misticamente e poeticamente. La lettura di Chauhan ha esaltato la gioia e la commozione con cui Schumann esprime il proprio attaccamento alle radici nazionali così come l’originalità del linguaggio musicale della partitura, improntato a maggiore trasparenza e chiarezza rispetto a quello delle sinfonie vicine. Intensissimo era lo slancio del tema che apre la sinfonia senza alcuna introduzione, legato a un originale profilo ritmico (combinazione di tempi binario e ternario), cui si è contrapposto il lirismo del secondo tema, più breve, che ha assunto maggiore rilievo nel corso del vasto sviluppo, fondato in gran parte sulla elaborazione dei motivi del tema iniziale. Archi e legni hanno brillato nello Scherzo dal ritmo di Ländler, privo del Trio, e nel terzo movimento, Nicht schnell, un breve Intermezzo, che aveva l’intonazione intima di certe pagine pianistiche di Schumann, mentre nel movimento successivo, Feierlich, ha primeggiato, per nitore di suono e intonazione, la sezione degli ottoni, che in una sorta di Corale – basato su un motivo non troppo lontano da quello della “Todesverkündigung”, l’annuncio di morte del secondo atto della Walküre – hanno solennemente evocato la maestà del Duomo di Colonia, emblema di una Germania gotico-cavalleresca. Lo slancio del primo tempo, insieme ad alcuni suoi spunti tematici, è tornato nel movimento finale, che si è chiuso in un tono grandioso e affermativo. Scroscianti applausi hanno festeggiato il Direttore e l’Orchestra a fine serata.

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Bologna, Teatro Comunale Nouveau: “La fanciulla del West”

gbopera - Dom, 26/01/2025 - 20:33

Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
LA FANCIULLA DEL WEST
Opera in tre atti su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Minnie CARMEN GIANNATTASIO
Dick Johnson ANGELO VILLARI
Jack Rance CLAUDIO SGURA
Nick PAOLO ANTOGNETTI
Ashby NICOLÒ DONINI
Sonora FRANCESCO SALVADORI
Trin CRISTIANO OLIVIERI
Sid DARIO GIORGELÈ
Bello PAOLO INGRASCIOTTA
Harry ORLANDO POLIDORO
Joe CRISTOBAL CAMPOS MARIN
Happy PAOLO MARIA ORECCHIA
Larkens YURI GUERRA
Billy Jackrabbit ZHIBIN ZHANG
Wowkle ELEONORA FILIPPONI
Jake Wallace FRANCESCO LEONE
José Castro KWANGISK PARK
Un postiglione ENRICO PICCINNI LEOPARDI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Paul 28, 29 e 30 gennaio
Scene e Costumi Gary McCann
Luci Daniele Naldi
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 24 gennaio 2025
Eccola, la più americana delle opere mitteleuropee: La fanciulla dei West. Che sono almeno tre: c’è quello polveroso e arroventato della Polka; poi quello delle cime innevate su cui si accucuzzola la capannuccia di Minnie; infine quello della foresta di sequoie, trasfigurata dall’alba della redenzione. Il patetismo non ha freni: fra il cane che non li ravviserà, la nonna che se ne è andata, il piedino della mamma vicino a quello del babbo, (“Ah! S’amavan tanto!”), fino al “Se studiavo di più…”, ed è solo il primo atto. Non mancano rime esilaranti: il tale mai visto sembra di San Francisco, il nascondiglio è a poco più d’un miglio, e via così. La capannuccia del secondo atto è stipata della proverbiale attrezzeria del puccinismo: tendine, lettino, tavolino, poltroncina, scalette, scarpette, biscottini e Arbasino saprebbe continuare. Eppure, eppure, l’orchestra di Puccini sfavilla con le sue tinte sgargianti, sature, sagaci. Il materiale melodico riemerge in improvvisi e laceranti squarci dal ribollire della partitura, e l’effetto vuol assecondato: come fa, benissimo, Riccardo Frizza che, all’occorrenza, dilata leggermente i tempi per godere dell’espansione lirica. Opera mitteleuropea di orizzonti, sì, ma di italianissimo compositore: questa sensibilità nell’esecuzione, oggi ormai rara, i complessi felsinei la custodiscono. La scrittura vocale è al limite del sadismo, soprattutto per la povera fanciulla, con quelle improvvise fiammate acute che si devono alzare da un registro centrale volitivo e maschio ma fascinoso e seducente. Carmen Giannattasio si difende molto bene, tramutando le fiammate in lampi e sfoggiando una timbratissima risonanza di petto. Questi personaggi pucciniani soffrono sempre di sbalzi d’umore, che per i cantanti sono sbalzi di tessitura, colori ed accenti: anche il bandito di Angelo Villari ne è soggetto. La vita ancor bella gli appar, ma non proprio bellissima; poi, nel monologo del second’atto, si lascia andare al trasporto drammatico e convince; l’inno del terzo (“Ch’ella mi creda” non è altro) vorrebbe un tempo sconsideratamente largo, che dia alla scena un’aurata solennità capace di bonificarne il patetismo. Ultimamente, nell’emissione di Claudio Sgura pare abbia fatto capolino una sorta di oscillazione, che però l’artista maschera abilmente aiutato dalla scrittura del ruolo, ma anche dall’espressione di cui è capace, nonché dal timbro piuttosto pastoso e morbido che conserva. Intorno al triangolo, una costellazione di ruoli di fianco: fra tutti spicca Paolo Antognetti per infallibile precisione, squillo e volume, nei panni del fedele Nick. Sonoro il Sonora di Francesco Salvadori (questa era scontata, ma irresistibile), più dell’Ashby minacciosamente nerovestito di Nicolò Donini. Omogeneo e di buon livello in generale il gruppo dei ragazzi, e ottimo, come al solito, il coro del Comunale, diretto da Gea Garatti Ansini, compatto e vivace. Dopo quella bella Ariadne (2022) popolata di una organizzatissima “ammuina” scenica, le aspettative per la regia di Paul Curran erano piuttosto alte. La gestione delle masse, o meglio dei gruppi, ha un che di brillantemente improvvisato: e, ancorché brillantemente, resta improvvisato. Wallace (il bravo Francesco Leone) entra nella Polka da quella che si supporrebbe essere la porta che dà sulla sala da ballo, mentre la proprietaria Minnie entra in scena dalla porta sul fondo che sembra dare sull’esterno, e il coro deve affrettarsi a farle largo, o non la si noterebbe nemmeno: potrebbero sembrare sciocchezze, ma in un’opera così meticolosamente congegnata le sciocchezze sono tutto. La scena di Gary McCann punta su un’insolita astrazione grafica: lo stile dello scenografo scozzese è notoriamente tutt’altro che asciutto, e lo si vede bene negli splendidi figurini dei costumi pubblicati sul programma di sala. Lo spazio del Nouveau sarà ingrato, ma di spettacoli belli, e davvero belli, ne abbiamo visti. Ma, forse, per molti basteranno le assi di legno in luogo delle navicelle spaziali a garantire rispettata la tradizione, qualunque cosa voglia dire. Il pubblico di questa Prima delle Prime, allegramente abbigliato (mica come quei noiosi della Scala, tutti in nero), ha mal sopportato il lungo primo atto con tutto quel color locale; si è scaldato con il serrato piglio drammatico del secondo e ha salutato con favore tutti i protagonisti alla fine del terzo. Quand’è che fanno la Bohème? Repliche 28, 29 e 30 gennaio. Foto Andrea Ranzi

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Premio Piccinni 2025: nominati i nuovi Ambasciatori piccinniani e formato il Comité d’Honneur.

gbopera - Dom, 26/01/2025 - 10:44

Il Premio Piccinni – For excellence in the performing arts, giunto quest’anno alla sua 43° edizione, rappresenta uno dei riconoscimenti più prestigiosi nel panorama delle arti performative. Nato per celebrare l’eredità di Niccolò Piccinni, figura centrale dell’opera italiana del Settecento e ponte culturale tra Italia e Francia, il premio è assegnato annualmente dal Comité d’Honneur a personalità che incarnano l’eccellenza nel campo della musica d’arte, del teatro lirico o della danza ed esprimono la capacità di ispirare le nuove generazioni. Nel corso della sua lunga storia, il Premio Piccinni ha celebrato leggende della musica e delle arti performative come il regista Franco Zeffirelli, il direttore d’orchestra Georges Prêtre, il violinista Uto Ughi e cantanti del calibro di Leyla Gencer, Joan Sutherland, Carlo Bergonzi, Christa Ludwig, Franco Corelli, Dietrich Fischer-Dieskau.
La cerimonia dello scorso 16 gennaio ha visto la consegna delle targhe ai nuovi membri del Comité d’Honneur: oltre a Maximilien Seren-Piccinni, Presidente del Fondo Niccolò Piccinni, regista e direttore artistico del Garda Festival, a Simone Di Crescenzo, Coordinatore del comitato, pianista e musicologo, a membri del Fondo e della stessa famiglia Piccinni, a selezionare il vincitore del Premio Piccinni 2025 saranno: Rossella Vanna Ardielli, fondatrice Garda Festival; Stefania Bonfadelli, cantante lirica e regista; Michele Calella, musicologo Universität Wien; Andrea Cigni, Sovrintendente e direttore artistico Teatro Ponchielli Cremona, Monteverdi Festival; Elena D’Ambrogio Navone, giornalista e scrittrice; Andrea Estero, presidente Associazione Nazionale Critici Musicali, direttore responsabile «Classic Voice»; Giampaolo Fogliardi, fondatore Garda Festival e Onorevole della Repubblica Italiana; Federico Freni, Sottosegretario di Stato per l’Economia e le Finanze; Giuseppe Gerbino, musicologo Columbia University New York; Vito Lentini, giornalista, critico di danza e balletto, caporedattore «Sipario»; Dominique Meyer, Sovrintendente Teatro alla Scala Milano; Filippo Michelangeli, giornalista, direttore responsabile «Amadeus» e «Suonare News»; Kate van Orden, musicologa Harvard University e presidente IMS; Roger Parker, musicologo King’s College London; Elisabetta Perucci, giornalista e scrittrice; Mario Resca, presidente Mondadori Retail e Confimprese, già direttore generale Ministero della Cultura; Susan Rutherford, musicologa University of Cambridge; Augusto Techera, Direttore di produzione artistica Teatro de la Maestranza Sevilla; Alberto Triola, docente Università di Bologna, già Sovrintendente e direttore artistico.
Durante la cerimonia è stata assegnata a Maria Alberta Viviani Corradi-Cervi, già direttrice dei programmi Radio RAI, la prestigiosa “Targa Piccinni”, l’onorificenza che il Fondo consegna a una personalità di spicco nel panorama culturale per aver apportato un contributo concreto e significativo al Fondo Piccinni negli ultimi anni.
Il Premio Piccinni viene annualmente assegnato durante il Garda Festival – Festival Internazionale di Musica e Danza del Lago di Garda, manifestazione volta all’arricchimento dell’offerta artistica, musicale e culturale del territorio.

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: terza Domenica dopo l’Epifania

gbopera - Dom, 26/01/2025 - 00:17

“Was mein Gott will, das g’scheh allzeit” BWV 111 è la terza Cantata bachiana in programma la terza Domenica dopo l’Epifania. Eseguita per la prima volta a Lipsia il 21 gennaio 1725, questa partitura ha alla base un testi di Albrecht Margravio di Brandenburg-Ansbach (1490-1568) la cui prima strofa era presente come brano finale della Cantata BWV 72 che abbiamo già trattato. Nella Cantata BWV 111 delle 4 stanze di 8 versi ciascuna di consta il carme, sono mantenute integre solo la prima e l’ultima, in apertura e chiusura della partitura, mentre la seconda concorre ad ispirare i nr. 2 e 3, la terza strofa i nr.4 e 5. È da notare che echi variati della melodia del Corale, che fra l’altro è tratto da una “Chanson” di  Claudin de Sermisy (circa 1495-1562) si trovano anche nell’aria del basso (nr.2), nella ricorre anche una citazione di un verso del Lied. Il Coro introduttivo (Nr.1) ha un carattere relativamente semplice, si tratta di un brano concertante su “cantus firmus” ai soprani, a note lunghe e con interventi in imitazione ai valori perlopiù dimezzati da parte delle altre voci omofonicamente disposte. Un brano strumentale di 16 battute funge da preludio e da postludio al tempo stesso essendo riproposto il “da capo” subito dopo l’enunciazione dell’ottavo e ultimo versetto. Altri brevissimi episodi strumentali si hanno tra un versetto e l’altro e con maggiore ampiezza al termine di ogni strofa.  Una pagina di grande intensità che l’aria del basso che segue (Nr.2)  forse non riesce a mantenere, ma è piena di salti nel continuo, per cui l’atmosfera si mantiene tesa fino al recitativo del Contralto (Nr.3). Segue un eccellente duetto tra contralto e tenore (Nr.4), che cantano in canone per gran parte del movimento e sono guidati da un bell’accompagnamento orchestrale. Poiché le parole si riferiscono al seguire Dio con passi coraggiosi, l’uso del canone sembra appropriato. Un recitativo per soprano (Nr.5) conduce al Corale finale (Nr.6).
Nr.1 – Coro
Ciò che il mio Dio vuole, sempre si compie,
la sua volontà è per il meglio,
egli è pronto ad aiutare
coloro che credono fermamente in lui.
Soccorre nel bisogno, questo Dio giusto,
e punisce con moderazione.
Chi confida in Dio e conta su di lui
non sarà mai abbandonato.
Nr.2 – Aria (Basso)
Non temere, mio cuore,
Dio è tua forza e speranza
e la vita della tua anima.
Si, a ciò che la sua saggezza decide
il potere dell’uomo e del mondo
non può opporsi.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Folle, chi si allontana da Dio
e come Giona
fugge lontano dalla sua presenza; 
persino i vostri pensieri sono a lui noti
e i capelli del vostro capo
sono tutti contati. 
Beati coloro che si rimettono alla sua
protezione nella fiducia della fede,
rivolgendosi alla sua parola e promessa
con pazienza e speranza.
Nr.4 – Aria/Duetto (Contralto, Tenore)
Procedo dunque con passo sicuro
anche se Dio mi conduce alla tomba.
Dio ha scritto i miei giorni 
e così, quando la sua mano mi toccherà,
farà svanire l’amarezza della morte.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
E quando infine la morte estirperà
con violenza l’anima dal suo corpo,
accoglila, Dio, nelle tue fedeli mani di padre!
Quando male, morte e peccato lottano
Contro di me ed il mio letto di morte
diventa un campo di battaglia, allora aiutami,
affinchè trionfi la mia fede in te!
O fine beata e a lungo desiderata!
Nr.6 – Corale
Una cosa ancora, Signore, ti chiedo,
non puoi negarmela:
quando sarò tentato dallo spirito maligno,
non farmi soccombere.
Aiutami, guidami, proteggimi, o Dio,
mio Signore, per l’onore del tuo nome.
Chiunque desidera ciò, sarà esaudito;
perciò dico con gioia: Amen.
Traduzione Emanuele Antonacci

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