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Musica corale

Napoli, Teatro di San Carlo: “La fille du régiment”

gbopera - Sab, 24/05/2025 - 08:10

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“LA FILLE DU RÉGIMENT”
Opéra-comique in due atti su libretto di Jean-François-Alfred Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges
Musica di Gaetano Donizetti
Marie PRETTY YENDE
Tonio RUZIL GATIN
Sulpice SERGIO VITALE
La Marquise de Berkenfield SONIA GANASSI
Hortensius EUGENIO DI LIETO
La Duchesse Crakentorp MARISA LAURITO
Un Caporal SALVATORE DE CRESCENZO
Un Paysan IVAN LUALDI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Riccardo Bisatti
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi  Agostino Cavalca
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm
Drammaturgia Mattia Palma
Coproduzione Teatro di San Carlo e Bayerische Staatsoper
Napoli, 18 maggio 2025
Al Teatro di San Carlo, arriva La fille du régiment. La regia dell’opéra-comique in due atti, di Gaetano Donizetti, viene affidata a Damiano Michieletto. L’opera viene, dal regista, profondamente reinventata – e ciò accade attraverso la soppressione dei dialoghi parlati e il conseguente innesto, nell’impianto drammaturgico originario, di interventi solistici di carattere narrativo. Gli interventi parlati, affidati all’attrice Marisa Laurito, sembrerebbero fare linguisticamente eco alla farsa napoletana: potremmo definirli, infatti, dei mélanges linguistici – scritti in italiano, ma strutturalmente determinati da comicissime digressioni in francese e in napoletano. Il personaggio della Duchesse de Crakentorp si ritrova prevalentemente a dover fornire, allo spettatore, informazioni sulla trama dell’opera e sul carattere dei personaggi. Ciò accade fin dall’inizio: un suo intervento parlato viene scenicamente collocato prima dell’Ouverture: la «scenetta» è interessante, soprattutto perché termina con «’Nzerra chella porta», frase di derivazione eduardiana: un probabile «riferimento» a Uomo e galantuomo, commedia di De Filippo – nella cui edizione televisiva, del 1975, figurava, in una scena, proprio Laurito. Gli interventi narrativi e il taglio drammaturgico – conferito all’opera da Mattia Palma – riescono a interessare per efficacia scenica e verbale, ma «costringono» l’opéra-comique ad assumere la forma di un’operetta, soprattutto per la presenza di momenti collettivi danzati, coreograficamente organizzati da Thomas Wilhelm: il momento dell’Ouverture, per esempio, viene trasformato in un «antefatto» pantomimico. Il regista riesce a dare importanza al sentimento di «inadeguatezza» provato dalla «figlia» del Reggimento – quando, nell’atto secondo, si ritrova, suo malgrado, alle prese con il mondo aristocratico –, ma il piglio «militaresco» della protagonista viene risolto attraverso comportamenti scenici un po’ macchiettistici. I patimenti emotivi del personaggio vengono, invece, collocati e risolti entro uno spazio scenico metaforicamente ristretto, determinato da una cornica dorata: lì, nell’atto primo, viene affrontata dal soprano la Romanza Il faut partir!. Le scene – progettate da Paolo Fantin e nitidamente illuminate da Alessandro Carletti – restituiscono, attraverso un fondale illustrato, gli innevati paesaggi del Tirolo, che, nell’atto secondo, sopravvivono come un «ricordo» fintamente pittorico nel «minimalistico» salotto della Marquise; scene arricchite da costumi sontuosi ed eleganti, disegnati da Agostino Cavalca. Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Riccardo Bisatti. La lettura orchestrale è improntata su una generale esaltazione della «dinamicità» della scrittura donizettiana – e tende a favorire la costruzione «atmosferica» dei vari contesti scenici: da quello poeticamente campestre a quello «comicamente» soldatesco; ma ciò che riesce a convincere, effettivamente, è l’accorato sentimentalismo delle scene di «avvilimento» emotivo (sentimento che determina, per esempio, la già citata Romanza dell’atto primo). Emerge, però, anche il carattere «francese» dell’opéra-comique – ravvisabile, per esempio, nel raffinatissimo Entr’acte. Nel ruolo di Marie, Pretty Yende. Il soprano riesce a gestire opportunamente il carattere variegato del personaggio. Il ruolo prevede momenti di trasporto emotivo e di irresistibile verve, affrontanti dalla cantante perlustrando agilmente, e con melodica flessibilità, i momenti virtuosistici della scrittura vocale. Notevole è l’esecuzione del Rondò, nell’atto primo, Chacun le sait, chacun le dit: una pagina di innegabile bellezza, ma non fine a se stessa – e viene, pertanto, correttamente adoperata dal soprano per la costruzione e la determinazione del personaggio; viene, in tal senso, adoperata anche la «stravagante» coloratura del ruolo – nel comicissimo Terzetto, dell’atto secondo, Le jour naissant dans le bocage. Il soprano affronta appropriatamente anche il sentimentalismo dei già citati momenti di «avvilimento» emotivo – come la già menzionata Romanza (atto primo) e l’Aria Par le range et par l’opulence (atto secondo). Convince, inoltre, per la morbidezza del colore vocale e per l’attenta padronanza del registro acuto. Ruzil Gatin interpreta, invece, Tonio. Il tenore affronta in modo più che accettabile il ruolo, conferendo al giovane tirolese un delineamento teatrale un po’ «generico», benché vocalmente corretto. Non manca un’eleganza di fraseggio – a volte, però, poco pregnante; la trasparenza del colore timbrico riesce, tuttavia, a determinare il carattere sentimentale del ruolo – ravvisabile soprattutto nella Romanza dell’atto secondo: Pour me rapprocher de Marie. Il cantante affronta, correttamente, anche la Cabaletta dell’atto primo, celeberrima per i suoi nove do: Pour mon âme; l’estrema brillantezza del momento vocale consente al cantante una caratterizzazione maggiore, sebbene «temporanea», del personaggio. Nel ruolo di Sulpice, Sergio Vitale. Luminosità timbrica, nobiltà della condotta vocale e raffinatezza del ricco fraseggio, costantemente proteso alla risoluzione delle necessità sceniche del ruolo, consentono al baritono di restituire un notevole ritratto del bonario sergente – capace anche di accenti affettuosamente paterni, come accade nell’effervescente Duetto con Marie, figlia adottiva del Reggimento, nell’atto primo: Au bruit de la guerre. Le ottime capacità attoriali del cantante sono, inoltre, anche ravvisabili nel già menzionato Terzetto (atto secondo). Buona la prova, vocale e scenica, del mezzosoprano Sonia Ganassi, che, nel ruolo della Marquise de Berkenfield, offre un’accettabile interpretazione della Cavatina Pour une femme de mon nom (atto primo). Completano il cast, oltre alla già citata Marisa Laurito (Duchesse de Crakentorp), simpaticissima e teatralmente espressiva: Eugenio Di Lieto (Hortensius), Salvatore De Crescenzo (Un Caporal), Ivan Lualdi (Un Paysan). Il coro, preparato da Fabrizio Cassi, risolve ottimamente gli interventi di carattere soldatesco e il momento «religioso» dell’atto primo: Sainte Madone!. Lunghi applausi decretano, in definitiva, il successo di questa Fille «particolare». Foto Luciano Romano

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La stagione d’Opera 2026 del Teatro Regio di Parma

gbopera - Ven, 23/05/2025 - 07:58

La stagione 2026 del Teatro Regio di Parma si aprirà con Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck (dal 19 al 31 Gennaio 2026): non nella versione parmense del 1769, ma nella più consueta e originaria versione viennese del 1762, in cui il ruolo di Orfeo è scritto per contralto castrato. A Parma sarà Carlo Vistoli, con Francesca Pia Vitale quale Euridice e Nadja Mchantaf nel ruolo di Amore. A dirigere la Filarmonica Arturo Toscanini sarà Fabio Biondi, uno dei massimi esperti nell’esecuzione di musica antica con strumenti e prassi esecutiva originali. Lo spettacolo, con le scene di Heike Vollmer e i costumi di Katharina Schlipf, segna il debutto a Parma di Shirin Neshat, artista iraniana di fama internazionale, che firma la regia. Il suo lavoro si concentra sulla fotografia e sul linguaggio del video. È autrice di tre lungometraggi, dei quali il primo, Women without Men (2009), vincitore del Leone d’argento per la migliore regia alla 66ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ha debuttato nella regia operistica nel 2017 al Festival di Salisburgo con una produzione di Aida diretta da Riccardo Muti.
Dopo l’Orfeo, la stagione continua con Norma di Vincenzo Bellini (dal 13 al 22 Febbraio 2026). La produzione neoclassica firmata dal regista Nicola Berloffa ritorna per la direzione di Renato Palumbo, a capo della Filarmonica di Parma, con un cast che vede nel ruolo della protagonista Vasilisa Berzhanskaya; accanto a lei Dmitry Korchak come Pollione, Giuliana Gianfaldoni come Adalgisa e Carlo Lepore come Oroveso. Infine un nuovo allestimento di Manon Lescaut di Giacomo Puccini (dal 16 al 28 Marzo 2026) firmato per regia, scene, costumi e luci da Massimo Gasparon. Francesco Ivan Ciampa dirige la Filarmonica di Parma, e nel cast troviamo la Manon di Anastasia Bartoli, il Des Grieux di Luciano Ganci, e il Lescaut di Alessandro Luongo. Andrea Concetti nel ruolo di Geronte e Davide Tuscano come Edmondo. La stagione si conclude con il tradizionale concerto per festeggiare l’anniversario dall’inaugurazione del Teatro, che nel 2026 spegnerà 197 candeline.

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Staatsoper Stuttgart: “Otello”

gbopera - Ven, 23/05/2025 - 00:23
Staatsoper Stuttgart, Stagione 2024/2025
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito dalla tragedia “Othello, the Moor of Venice” di William Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Otello MARCO BERTI
Jago DANIEL MIROSŁAW
Cassio SAM HARRIS
Roderigo ALBERTO ROBERT Lodovico GORAN JURIČ Montano ALEKSANDER MIRLING
Un araldo KYUNG WON YU
Desdemona ESTHER DIERKES
Emilia ITZELI DEL ROSARIO
Staatsorchester Stuttgart Staatsopernchor Stuttgart Kinderchor der Staatsoper Stuttgart Direttore Stefano Montanari Maestro del Coro Manuel Pujol Maestro del Coro di Voci Bianche Bernhard Moncado Regia e Scene Silvia Costa Costumi Gesine Völlm  Luci Marco Giusti Video John Akomfrah Drammaturgia Julia Schmitt, Martin Mutschler Stuttgart, 18 maggio 2025 Esito artistico assai deludente per la nuova produzione di Otello alla Staatsoper Stuttgart, l’ ultima della attuale stagione. Quasi tre ore e mezzo di pura noia e questo dato dovrebbe bastare a chi conosce bene il capolavoro verdiano per capire cosa io intenda dire con la mia precedente affermazione. Le più serie riserve sono da attribuire, a mio avviso, al progetto registico di Silvia Costa che è apparso gravemente carente per quanto riguarda il racconto scenico e si limitava ad una vuota e insignificante esibizione di estetismi. La messinscena era chiaramente ispirata alle idee di Bob Wilson e Romeo Castellucci: Dopo un paio di minuti di video in cui veniva mostrato, su uno sfondo sonoro fatto di sibili di vento, un uomo di colore che guarda verso il mare, fatto che si ripeteva anche all’ inizio degli atti seguenti, il sipario si alzava mostrandoci un apparato scenico fatto solo di un cubo bianco illuminato da luci al neon al cui interno si svolgeva tutta l’ azione, con personaggi che recitavano in maniera statica e alcune trovate del tutto incongrue come quella dell’ omaggio del popolo a Desdemona trasformato in una processione sacra con tanto di croci e chierichetti e quella di Jago che canta il suo monologo seduto a un tornio da ceramista. A questo si deve aggiungere il fatto che Silvia Costa nella sua regia sembrava chiaramente non sapere cosa fare con il coro, sempre posizionato in maniera statica sullo sfondo, con un effetto che oltretutto non aiutava per nulla l’ equilibrio tra buca orchestrale e palcoscenico. Quali fossero i significati drammaturgici della vicenda, quali motivazioni avesse la gelosia di Otello che funziona da elemento scatenante della tragedia, quali siano i rapporti che intercorrono fra i vari personaggi del dramma: tutto questo Silvia Costa non ha voluto o saputo dirci. Riassumendo, quello che si è visto era solo un susseguirsi di estetismi incongrui e privi di significato, senza alcun rapporto con il testo scritto da Arrigo Boito e musicato da Verdi: quasi tre ore passate guardando una serie di figure che si muovevano quasi sempre al rallentatore come quei robot giocattolo a cui si stanno per scaricare le batterie, generavano un senso di noia che raramente nella mia vita ho provato assistendo a una recita operistica. Immagino che la spiegazione di tutto questo fosse contenuta nel programma di sala, che come sempre io ho evitato di leggere per principio. Secondo il mio modo di vedere, un regista deve spiegarsi esclusivamente tramite ciò che si vede sulla scena e se uno spettacolo richiede una spiegazione preliminare per essere compreso, ciò vuol dire che la produzione è sbagliata già in partenza. Come dice il Conte nelle Nozze di Figaro: “Tu sai che là per leggere io non desio d’ entrar”. Tanto per riprendere una vecchia battuta di Fedele D’ Amico, “anche all’ opera non è per leggere che desiamo d’ entrar.” Deludente anche la realizzazione della parte musicale. La direzione di Stefano Montanari mancava completamente di senso tragico e si limitava a gestire i tempi in maniera meccanica e impersonale, con sonorità spesso inutilmente fragorose e una prestazione della Staatsorchester Stuttgart che in generale appariva poco partecipe esattamente come il coro, oltretutto fortemente penalizzato dalle scelte della regia. Per quanto riguarda il cast vocale, il sessantatreenne tenore comasco Marco Berti è uno tra i pochi specialisti odierni del difficile ruolo di Otello e canta con buona sicurezza vocale e incisivia di declamazione. Ma la voce mostra evidenti segni di stanchezza e dal punto di vista interpretativo la sua raffigurazione del protagonista si limita a mettere in rilievo la furia gelosa senza approfondire il tormento interiore del personaggio. Anche la prestazione degli altri due interpreti principali era decisamente inadeguata. Esther Dierkes, il giovane soprano nativo di Münster che in questi ultimi anni alla Staatsoper ci ha offerto diverse ottime interpretazioni, ha una voce troppo debole per la parte di Desdemona e il suo canto suonava sempre forzato, teso nell’ ottava acuta e opaco nelle note basse in cui la voce veniva spesso sovrastata dall’ orchestra. Il baritono polacco Daniel Mirosław, che ha iniziato la carriera come basso, ha dato una raffigurazione di Jago del tutto insignificante, senza  mostrare la minima attenzione al fraseggio e alle sfumature, (bruttissima in particolare era la frase “Quel fazzoletto ieri lo vidi in man di Cassio”, eseguita con platealità verisitca ingnorando le precise indicazioni di Verdi che a quel punto sulla partitura scrive pianissimo) con una voce di buon volume e consistenza ma ruvida nel colore e spesso sgradevole perchè suonava forzata. Nel complesso sufficiente è sembrata la prestazione di tutti gli interpreti delle parti di fianco.Alla fine il pubblico ha applaudito in maniera abbastanza convinta tutti i componenti del cast, ma si sono sentiti diversi fischi e buh all’ entrata in scena del team registico. Non abbastanza, per quanto ci riguarda.  Foto ©Martin Sigmund
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Roma, Museo Ebraico: “Donne. Storie di donne che hanno influenzato il mondo”

gbopera - Gio, 22/05/2025 - 17:12

Roma, Museo Ebraico
DONNE. STORIE DI DONNECHE HANNO INFLUENZATO IL MONDO
a cura di Michal Vanek, Olga Melasecchi, Lia Toaff e Michelle Zarfati
In collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica Slovacca in Italia, l’Istituto Slovacco e il Museo della Cultura Ebraica di Bratislava
Roma, 20 maggio 2025
«È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze, perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo.»
Anna Frank, “Il diario di Anna Frank”
In queste parole, annotate da una ragazza quindicenne in un nascondiglio di Amsterdam nel luglio del 1944, si condensa una delle più alte espressioni dell’umano sotto assedio. Il pensiero che, nel pieno della catastrofe, una giovane vita potesse ancora professare fiducia — e in quella fiducia riconoscere la propria umanità — costituisce il vero punto di partenza di ogni riflessione sulla memoria, sulla storia, sulla responsabilità. Proprio da questa disposizione interiore prende forma la mostra Donne. Storie di donne che hanno influenzato il mondo, ospitata dal 21 maggio al 1 settembre 2025 presso il Museo Ebraico di Roma. Realizzata in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica Slovacca in Italia, l’Istituto Slovacco e il Museo della Cultura Ebraica di Bratislava, l’esposizione si sviluppa come un itinerario biografico e critico, interamente dedicato a figure femminili che hanno segnato il secolo scorso. Non si tratta di una mostra celebrativa nel senso corrente del termine: il tono è sobrio, l’impianto rigoroso. L’approccio è storico e documentario, e il criterio selettivo è la rilevanza delle vite narrate rispetto a una domanda: cosa significa trasformare l’esperienza in testimonianza, e la testimonianza in cambiamento? A rispondere non sono le parole degli storici, ma le vite stesse. Tra le protagoniste selezionate compaiono donne ebree italiane che hanno lasciato un segno nei rispettivi ambiti: dalla scienza all’arte, dalla moda alla cultura. Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, è il simbolo di una ricerca che ha saputo superare non solo le frontiere del sapere, ma anche le barriere ideologiche e le persecuzioni razziali. Elsa Morante, scrittrice di rara intensità, ha dato voce a una letteratura che non ha mai smesso di interrogare il dolore, il ricordo, la colpa. Franca Valeri, ironica e lucida, ha trasformato il palcoscenico in uno strumento di coscienza. Amelia Rosselli, poetessa, ha saputo tenere insieme l’abisso privato e la tragedia collettiva. Roberta di Camerino, nel mondo della moda, ha ridefinito il concetto stesso di eleganza come gesto identitario. Accanto a loro, la figura della professoressa Ruzena Bajcszy, ricercatrice slovacca oggi novantaduenne, pioniera della robotica e dell’intelligenza artificiale, è testimone di un sapere che sa restare umano anche nelle sue forme più astratte. Curata da Michal Vanek, Olga Melasecchi, Lia Toaff e Michelle Zarfati, la mostra si avvale di fotografie, testi, documenti d’archivio, filmati. Un posto di rilievo è riservato alla senatrice a vita Liliana Segre, presente anche con un videomessaggio che accompagna il visitatore lungo il percorso. La sua frase — «Dare corpo alla memoria è il miglior concime per il terreno futuro» — non è un motto, ma una sintesi etica. Una voce accanto all’altra, queste figure delineano una geografia etica che attraversa persecuzioni, rinascite, conquiste e silenzi. Il gesto curatoriale è misurato, antiretorico: la verità, per essere trasmessa, deve essere asciutta, essenziale, depurata dall’enfasi. L’asciuttezza del racconto è scelta stilistica e necessità morale: non amplifica, non abbellisce, non esibisce. Espone, affida, trasmette. Il valore più alto della mostra consiste forse in questo: nel mostrare che l’identità femminile, lungi dall’essere categoria secondaria della narrazione storica, ne è parte fondante. E che ogni riconoscimento dei diritti non è mai un punto d’arrivo, ma un processo da difendere e rinnovare, giorno per giorno, scelta dopo scelta. In un tempo in cui la memoria rischia di farsi stanca liturgia o cifra d’oblio, Donne rappresenta un contrappunto civile: chiaro, composto, ineludibile. Il Museo Ebraico, con questa mostra, rinnova la propria funzione non solo conservativa ma formativa, proponendo un modello di storia come esercizio del pensiero critico. Una storia che non serve a celebrare, ma a comprendere. Non a rassicurare, ma a inquietare. Perché, come ci ricorda Anna Frank, persino nella notte più fonda può germogliare una speranza. E questa speranza si chiama, ancora oggi, conoscenza.

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Roma, Casino dei Principi di Villa Torlonia: “Mario Mafai e Antonietta Raphaël. Un’ altra forma di amore”

gbopera - Gio, 22/05/2025 - 16:06

Roma, Casino dei Principi di Villa Torlonia
MARIO MAFAI E ANTONIETTA RAPHAËL. UN’ALTRA FORMA DI AMORE
a cura di Valerio Rivosecchi e Serena De Dominicis
promotori Roma Capitale, la Sovrintendenza Capitolina, Zètema, il Centro Studi Mafai-Raphaël
Roma, 22 maggio 2025
Ci sono mostre che tentano di restaurare la memoria con la stuccatura della retorica. Altre, più rare, che fanno ciò che l’arte dovrebbe sempre compiere: svelare. “Mario Mafai e Antonietta Raphaël. Un’altra forma di amore”, in programma dal 23 maggio al 2 novembre 2025 al Casino dei Principi di Villa Torlonia, è una di queste. Non soltanto un’esposizione, ma una stratigrafia sentimentale e pittorica, un’inchiesta condotta con gli strumenti dell’occhio e della materia, dentro la trama complessa di due vite intrecciate tra le macerie di un secolo e le fondamenta dell’arte italiana. I promotori – Roma Capitale, la Sovrintendenza Capitolina, Zètema, il Centro Studi Mafai-Raphaël – consegnano al pubblico una narrazione sobria ma rigorosa, affidata alla cura sapiente di Valerio Rivosecchi e Serena De Dominicis, che evitano ogni trionfalismo per restituire, semmai, la dimensione terrena e tumultuosa di una storia d’amore e d’arte. A cinquant’anni dalla scomparsa di lei e a sessanta da quella di lui, la mostra riporta a Roma non un semplice confronto, ma un corpo a corpo: due poetiche distinte eppure fuse in un’epica domestica, fatta di pennellate, gessi, silenzi e fughe. Mafai e Raphaël: il primo, romano, già precoce protagonista della scena artistica capitolina tra le due guerre, riconosciuto, accademizzato suo malgrado, e nondimeno refrattario all’ufficialità. La seconda, ebrea lituana, esule e irregolare, scolpisce con la furia di chi ha troppo da dire e poco tempo per compiacere. Già questo basterebbe a giustificare il sottotitolo della mostra: “Un’altra forma di amore”. Perché di un amore incomposto, asimmetrico, ma profondamente produttivo si tratta. Un amore che si misura nei confronti plastici tra pittura e scultura, nel dialogo muto tra un fiore che appassisce e una madre che dà forma all’angoscia, nella dialettica instancabile tra chi lavora a levare e chi a sedimentare. Le sette sezioni del percorso espositivo – articolate sui due piani del Casino dei Principi – sono concepite come stanze della memoria e dell’invenzione. La prima, dedicata alla cosiddetta “Scuola di via Cavour”, chiama in causa anche Scipione, il terzo vertice di quel triangolo giovane e feroce che sfidò il Novecento imbellettato di classicismo. Qui il ruolo propulsivo di Antonietta è messo in chiaro: non musa, non comprimaria, ma scintilla teorica e formativa. Le opere esposte testimoniano un primo nucleo di pulsione creativa ancora informe ma già tagliente. E l’allestimento, sobrio, lascia che siano i quadri a parlare, senza cornici storiografiche soffocanti. Nelle sale successive, si apre un doppio movimento. Da un lato, l’esplosione plastica delle sculture di Antonietta – alcune mai viste prima, come Angoscia n. 2, capolavoro di ostinazione e travaglio – dall’altro, le nature morte e le vedute urbane di Mafai, con quel loro tremore sottile, quasi febbrile, che pare sempre sul punto di sciogliersi nell’aria. Il confronto, volutamente asimmetrico, lascia emergere il non detto: la distanza stilistica non è disaccordo, ma grammatica coniugata al plurale. La sezione musicale – intima e marginale – rivela un altro tratto comune: la musica come lingua privata. Il Natura morta con chitarra o La lezione di piano non sono soltanto soggetti domestici, ma spartiti cromatici, veri e propri pentagrammi pittorici. Di grande finezza curatoriale la sezione “Una silenziosa sfida”, dove la mostra si fa partita a scacchi. Autoritratti, nudi, disegni: stessi temi, esiti opposti. Mafai sceglie la dissolvenza, il non-finito, il velario malinconico. Raphaël incide, scolpisce, afferra. E proprio lì, dove sembrano allontanarsi, si toccano più a fondo. Il Ritratto di Simona (1932), qui esposto per la prima volta, è una prova di toccante dolcezza, e il video collocato nella stessa sala restituisce voci e sguardi che resistono al tempo. La stanza centrale del primo piano è tutta di Mario. Il concetto di “metamorfosi” regge come un architrave la sua traiettoria pittorica. Dai toni incantati del primo decennio al segno nervoso e astratto degli ultimi anni, si assiste a una progressiva rarefazione dell’immagine, non per fuga dalla realtà, ma per cercarne una verità più profonda, più carnale. I Mercati del Dopoguerra non sono cronaca ma epica della sopravvivenza. Poi è il turno di Antonietta. La sezione a lei interamente dedicata – Un viaggio nell’identità e oltre – è una sorta di contrafforte emotivo. I materiali sono spigolosi, ma la scrittura della Raphaël non è mai violenta: è piuttosto un grido scolpito, a tratti biblico, sempre necessario. Le sue opere non cercano il bello, ma il giusto. Viaggiano tra continenti, tra memorie e genealogie, e restituiscono una figura artistica che l’Italia ha troppo a lungo marginalizzato perché non conforme, non docile, non servile. Il finale è un duetto. Una piccola sala raccoglie due quadri, due epitaffi d’amore: Ritratto di Antonietta nello studio di scultura (1934) di Mafai e Mario nello studio (Omaggio a Mafai) del 1966 di Raphaël. Due gesti postumi che si cercano oltre la vita. Le lettere autografe, selezionate da Sara Scalia, nipote degli artisti, rendono questo epilogo ancora più toccante. Non parole estranee, ma tracce, residui di voce che affiorano come impronte su un terreno dissodato. Il catalogo, affidato a De Luca Editori d’Arte, non è un mero apparato didascalico, ma un prolungamento della mostra, quasi un controcanto. E ciò che resta – uscendo dal Casino dei Principi – non è solo la memoria di due artisti, ma il senso di una lezione più ampia: che l’arte è forse l’unico luogo in cui l’amore non conosce separazione. E se Roma ha avuto un cuore – un cuore viscerale, fragile, generoso – lo si ritrova qui, nelle crepe delle pietre di Antonietta, nei rossi spenti dei fiori di Mario, e in quell’intimo sussurro di chi ha trasformato il quotidiano in battaglia, e la battaglia in bellezza. Ph. Monkeys Video Lab

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Milano, Teatro fACTORy32: “Lettera di una sconosciuta”

gbopera - Gio, 22/05/2025 - 07:37

Milano, Teatro fACTORy32, Stagione 2024/25
“LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA”
da Stefan Zweig
La Sconosciuta CHIARA ARRIGONI
R. ENRICO BALLARDINI
Regia Alberto Oliva
Drammaturgia Chiara Arrigoni
Scene e Costumi Paola Arcuria
Luci Riccardo Italiano
Nuova produzione fACTORy32
Milano, 16 maggio 2025
Dalla passata stagione, il teatro fACTORy32 porta avanti un interessante progetto su Stephan Zweig, una trilogia tratta non dalle sparute sue opere teatrali, bensì da tre romanzi brevi che vengono appositamente adattati alla scena tramite un’attenta cura drammaturgica. L’anno scorso ha preso avvio con “Paura“, una vera gemma nella produzione dell’autore austriaco, che ha avuto tuttavia un esito teatrale forse ancora acerbo. Quest’anno, invece, con “Lettera di una sconosciuta“ siamo di fronte a uno spettacolo drammaturgicamente più compiuto, anche più godibile, grazie soprattutto a tre fattori: il primo è la drammaturgia di Chiara Arrigoni, che riesce a trovare, oltre a una coerenza interna, anche una chiara corrispondenza nel romanzo e nei suoi vari significati; il secondo fattore di successo di questa produzione sta proprio nel talento dei due interpreti: la già citata Chiara Arrigoni è una Sconosciuta elusiva e polimorfa, capace sia vocalmente che fisicamente di evolversi, differenziarsi, tratteggiando, comunque, una precisa identità dei personaggio; accanto a lei, Enrico Ballardini è un convincente R. (i personaggi del romanzo, infatti, non hanno mai nomi dichiarati): si muove con fascino tra la curiosa baldanza dell’artista e la maniera dell’attore, che comunque gli garantisce una ricca gamma espressiva, di mezzevoci e sottotesti, l’unica possibile per un testo simile. Il terzo fattore di successo sta nella regia di Alberto Oliva, perennemente giovane (almeno esteriormente) ma ormai non più promessa, quanto piccola certezza del panorama teatrale nostrano: la sua scelta di usare il tulle come sublimazione della carta, e quindi far muovere la sconosciuta sempre avvolta in questi strati bianchi evanescenti, è senza dubbio coraggiosa quanto riuscita, e anche dividere in due la già piccola scena tramite un altro tulle, sul quale si possano leggere dei passaggi rilevanti della lettera, è un’idea tutto sommato che funziona, che aiuta lo spettatore a entrare in contatto con la psicologia splendidamente ossessiva, castamente perversa della protagonista. La vicenda infatti, è semplice quanto spiazzante: uno scrittore (R.) riceve una lunga lettera senza mittente in cui una ragazza racconta del suo folle amore per lui sin dai tredici anni, di come essa sia riuscita a diciotto anni anche a trascorrere tre notti con lui, ad avere da lui un figlio a sua insaputa, a continuare ad amarlo senza rivelarsi mai per anni, fino alla morte del bimbo e, con tutta probabilità, anche della sua, poiché si confessa a uno stato terminale di polmonite. Portata sullo schermo in una mirabile quanto più mélo versione di Max Ophüls nel 1948 (con una Joan Fontaine e un Louis Jourdain belli e bravi da non credere), questa “Lettera di una sconosciuta” teatrale ha un grande merito: proprio quello di non naufragare mai nello sdolcinato, nel gratuitamente sentimentale, ma di mantenere viva la vena sottile quanto prolifica di crudeltà di cui si nutre sempre più, man mano che la storia si rivela al pubblico. Adesso siamo curiosi su quale testo verterà il terzo capitolo di questa coraggiosa quanto affascinante trilogia ideata da Valentina Pescetto: non dobbiamo fare altro che aspettare la prossima stagione.

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Roma, Teatro Argentina: “Il Giovane Camilleri”

gbopera - Mer, 21/05/2025 - 12:15

Roma, Teatro Argentina
Serata evento per celebrare il centenario della nascita di Andrea Camilleri
IL GIOVANE CAMILLERI

un progetto di Felice Laudadio
regia Ennio Coltorti
con la partecipazione di (in o.a.) Maria Luisa Bigai, Benedetta Buccellato, Margherita Buy, Giuseppe Dipasquale, Donatella Finocchiaro, Lorenza Indovina, Marco Presta, Enrico Protti, Sergio Rubini, Francesco Siciliano, Massimo Venturiello
musiche di e con Roberto Fabbriciani
a cura del Comitato Camilleri 100, del Fondo Andrea Camilleri e del Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 19 maggio 2025
Un palco nudo. Dodici voci. E le parole di un ragazzo che scrive da una stanza fredda di Roma, con l’acqua che cola dalle pareti e l’ambizione che pulsa sotto la pelle. Così si è aperta, senza proclami, la serata dedicata al centenario della nascita di Andrea Camilleri: Il giovane Camilleri – titolo semplice, affilato – ha mostrato ciò che spesso si dimentica di celebrare. Non il successo, ma la fatica di diventare. In quella scrittura piena di fame e di teatro, di debiti e audizioni, di rabbia e amore per le parole, si nascondeva la materia viva della scena. Le lettere scelte – tratte dal volume Vi scriverò ancora – non erano corrispondenza privata, ma drammaturgia inconsapevole. Più che raccontare, scolpivano. I giorni passati a contendersi una minestra, i pomeriggi di prova a guardare da dietro le quinte, le censure della scuola, gli innamoramenti per il teatro come fatto irriducibile e totalizzante. A chiunque abbia fatto teatro almeno una volta, quelle lettere dicevano qualcosa di molto personale. Parlavano di come si inizia, di quando non si è nessuno e si vuole tutto. Il giovane Camilleri non sapeva ancora dove sarebbe arrivato. Ma aveva già deciso di andare. Sul palco, dodici interpreti – tutti passati per le aule dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, come lo stesso Camilleri – si alternano con misura e precisione. Sono Maria Luisa Bigai, Benedetta Buccellato, Margherita Buy, Giuseppe Dipasquale, Donatella Finocchiaro, Lorenza Indovina, Marco Presta, Enrico Protti, Sergio Rubini, Francesco Siciliano, Massimo Venturiello. Non recitano. Prestano la voce, il corpo, l’ascolto. Leggono con pudore, quasi in punta di piedi, lasciando che le parole trovino da sole il proprio peso, la propria verità. La regia di Ennio Coltorti è tutta costruita sull’assenza di orpelli. Nessuna scenografia, nessun effetto. Solo luci sapientemente calibrate, ingressi cesellati, e le musiche dal vivo di Roberto Fabbriciani, che accompagnano senza interferire. È una regia di fiducia: fiducia nella parola, nei tempi, nella gravità che può nascere da un frammento di carta. Quel che accade, lentamente, è che lo spettatore smette di “ascoltare” per cominciare a ricordare. Ricorda qualcosa che forse non ha mai vissuto, ma che riconosce comunque. Il disagio della formazione. La solitudine. La fame. Il desiderio. E quel gesto così umano e così tragicamente teatrale: scrivere per non scomparire. In scena non c’è l’autore celebre. C’è l’allievo che sbaglia, che insiste, che si ostina a voler capire cos’è il teatro. Ed è proprio questa dimensione – non mitizzata, non compiuta – a fare dello spettacolo un gesto politico, oltre che poetico. Perché dice, con dolcezza e con fermezza, che il teatro non è un luogo dove si arriva, ma uno spazio dove si attraversa. E che ogni vocazione ha il suo prezzo, la sua fame, la sua paura. La sala del Teatro Argentina era piena, e non solo di corpi. Era piena di memoria condivisa, di attenzione sospesa. Qualcosa, lì dentro, accadeva davvero. Forse perché chi era sul palco non parlava di un passato, ma di un presente che ci riguarda ancora: quello di chi sceglie di vivere di arte senza sapere se sarà ascoltato, se basterà, se reggerà. Il giovane Camilleri è stato un atto di teatro necessario. Un piccolo miracolo di parola restituita. Un dispositivo sobrio e coraggioso che ha saputo restituire, senza retorica, il battito incerto dell’inizio. Perché è lì, nell’inizio, che tutto accade. Anche il teatro.

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio:”Hamlet” di Ambroise Thomas

gbopera - Mer, 21/05/2025 - 11:48

Torino, Teatro Regio, Stagione lirica 2024-25
HAMLET”
Opera in cinque atti di Michel Carré e Jules Barbier da William Shakespeare
Musica di Ambroise Thomas
Hamlet JOHN OSBORN
Ophélie SARA BLANCH
Gertrude CLÉMENTINE MARGAINE
Claudius RICCARDO ZANELLATO
Laërte JULIEN HENRIC
Lo spettro del defunto re ALASTAIR MILES
Marcellus ALEXANDER MAREV
Horatius TOMISLAV LAVOIE
Polonius NICOLÒ DONINI
Primo becchino JANUSZ NOSEK
Secondo becchino MACIEJ KWASNIKOWSKI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Jérémie Rhorer
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Jacopo Spirei
Scene Gary McCann
Costumi Giada Masi
Coreografia Ron Howell
Luci Fiammetta Baldiserri
Torino, 18 maggio 2025
Il Regio di Torino è un po’ la piccola Elsinore italiana almeno in relazione all’opera di Thomas. A Torino è andata in scena la prima edizione italiana in lingua originale (2001) e ora va in scena il primo allestimento scenico moderno della prima versione dell’opera con la parte del protagonista scritta per tenore come originariamente pensato. Solo in secondo tempo, non avendo trovato un interprete in linea con la propria visione del ruolo Thomas decisa di riscriverlo per baritono destinandolo a Jean-Baptiste Faure. Un ideale legame tra Torino e l’opera di Thomas che ha arriso benevolo a questa produzione, a parere dello scrivente non solo il miglior titolo dell’intera stagione ma una produzione destinata a restare nella storia – almeno recente – del teatro torinese.Merito della riuscita la piena sintonia d’intenti di tutte le componenti coinvolte in una visione estremamente coerente. L’allestimento Jacopo Spirei deve fare i conti con l’ambiguità di un lavoro sospeso tra fedeltà alla tragedia originale e decorativismo di maniera spesso mal fusi tra loro. Limite non solo di questo titolo ma di molto grand’opéra parigino successivo alla morte di Scribe e privo di quell’infallibile senso narrativo del maestro del genere. Spirei opta decisamente sul versante della tragedia. Le parti più leggere sono come incorniciate, tableaux che fanno cornice al dramma che risulta dominante. L’ambientazione è trasposta al secondo Ottocento, coeva alla composizione dell’opera e non ignora di quanto fatto da Kenneth Branagh nella trasposizione cinematografica del dramma shakespeariano. Branagh per l’ambientazione ma l’immaginario visivo è più cupo, più gotico e strizza l’occhio – in modo esplicito nella pantomima della morte di Gonzago – all’immaginario estetico di Tim Burton. La reggia è sontuosa ma ovunque compaiono segni di decadenza, raggelante il cimitero trasformato in uno squallido obitorio i cui i becchini giocano con i cadaveri ridotti a tetre marionette. Centrali i temi dell’innocenza perduta – incarnati dai doppi infantili dei protagonisti – e della parola tradita che accompagnano l’intero scorrere dell’opera con la sempre frustrata volontà del protagonista di ritornare a quei tempi sereni per poi ritrovarsi a regnare su un mondo in totale rovina, ormai mera larva manovrata da forze superiori. In quest’ottica acquista un senso il taglio della scena pastorale che apre il IV atto che tutto si concentra nella follia di Ofelia, trasformata dal regista in un incubo popolato di fantasmi. La direzione di Jérémie Rhorer si muove nella stessa direzione. Il giovane maestro francese dirige con mano fermissima e ha dell’opera una visione drammatica e contrastata. Prevalgono sonorità dense, ricche, ombre oscure su cui domina un senso tragico e arcano. Una visione che sacrifica in parte le oasi più liriche ma da all’incostante partitura una forza espressiva innegabile anche nei momenti dove ci si aspetterebbe un tono più elegiaco, come nella follia di Ofelia in cui un senso di gelo spettrale s’insinua nelle visioni bucoliche della sventura fanciulla. Rhorer esalta al meglio la ricca scrittura di Thomas che fa ampio uso di strumenti solistici sempre perfettamente valorizzati senza mai perdere il senso complessivo dell’andamento orchestrale. Così ben diretta l’orchestra del Regio suona al suo meglio così come magistrale è la prova del coro, sempre una garanzia di qualità musicale e di capacità sceniche. La versione tenorile dona al protagonista un carattere più giovanile e irruento. Difficile pensare a interprete migliore di John Osborn la cui voce forse non sarà tra quelle più belle per timbro e colore ma sfoggia sicurezza vocale assoluta. Conoscitore attento del grand’opéra e delle sue peculiarità stilistiche affronta Hamlet fondendo la robustezza del settore centrale – la parte insiste molto su quella parte della tessitura – ad acuti facili e sicuri resi con suono misto secondo la più pure tradizione francese. Il canto è nobile, elegantissimo, arricchito da un gioco chiaroscurale attendo e preciso. Musicista raffinato e interprete sensibile Osborn coglie ogni sfumatura del personaggio dandone una lettura a tutto tondo di straordinaria ricchezza. L’altro elemento di forza del cast è la Gertrude di Clémentine Margaine. Mezzosoprano dalla voce ampia e ricchissima di armonici, splendidamente proiettata e interprete capace di rendere tutte le sfumature di un personaggio particolarmente ricco nel gioco degli affetti e delle emozioni. Vocalmente meno in forma il suo sposo. Riccardo Zanellato canta Claudius con grande sensibilità interpretativa e trova accenti di autentica sincerità nella preghiera del III atto ma in questo titolo la voce ci è parsa meno duttile che in altre occasioni. Sara Blanch è un’Ophélie di trepidante lirismo. La voce non è grande ma ben emessa e ottimamente controllata, del personaggio vengono evidenziati i tratti più lirici e cantabili rispetto a quelli più virtuosistici. Qualche acuto suona teso (in particolare la puntatura al termine della prima aria) ma nella scena della follia trova accenti di autentica commozione. Una lettura seria e sofferta del ruolo che si inserisce perfettamente nel taglio registico e direttoriale. Julien Henric dona a Laërte una voce di bella freschezza tenorile unita a un canto pulito ed elegante. Alastair Miles, veterano di tante registrazioni Opera Rara, trova accenti di grande autorevolezza nei panni dello Spettro ma la voce appare ormai arrochita e l’emissione faticosa. Perfettamente centrate le numerose parti di fianco. Nicolò Donini è scenicamente perfetto come Polonius oltre che cantarlo con gusto e proprietà, considerazioni analoghe per Alexander Marev (Marcellus), Tomislav Lavoie (Horatio) mentre Maciej Kwaśnikowski e Janusz Nosek danno il giusto rilievo alla sguaiata canzone dei becchini così teatralmente efficacie nello stridente contrasto con l’atmosfera del momento. Foto Daniele Ratti/Mattia Gaido

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La gatta sul tetto che scotta”

gbopera - Mar, 20/05/2025 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA
di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
assistente regia Alba Maria Porto
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennesee.
Roma, 20 maggio 2025
Una gatta, un tetto, il calore insopportabile della verità. Ogni elemento del titolo di Tennessee Williams – La gatta sul tetto che scotta – è già tutto. È già teatro. È già sconfitta e desiderio, ossessione e sogno. Leonardo Lidi non lo addolcisce, non lo neutralizza, non lo rende “presentabile”. Lo prende di petto. Lo lascia contorcersi. Gli toglie le imbottiture. E lo fa bruciare. Dopo Lo zoo di vetro, il regista piacentino torna su Williams, attraversando quel corpus lacerato e luminoso in cui la famiglia – americana o universale – si dimostra per quello che è: fabbrica di ipocrisie, officina del dolore, teatro per antonomasia. Il luogo dove il non detto si sedimenta fino a esplodere. Lidi incastona la vicenda dei Pollitt dentro uno spazio marmoreo, candido e cimiteriale: una camera ardente per affetti in decomposizione. Le scene di Nicolas Bovey trasformano il palcoscenico del Teatro Vascello in un mausoleo post-funzionale: quattro pareti impenetrabili, levigate, anonime, simbolo di un silenzio domestico che diventa sarcofago. Uno specchio – maneggiato con ambiguità performativa dallo spettro di Skipper – funge da varco simbolico, da filtro tra interno ed esterno, tra apparenza e rovello. È in quella superficie riflettente che si misura la distanza tra ciò che si è e ciò che si dice di essere. Il testo, nella traduzione precisa e asciutta di Monica Capuani, si svolge tra i tagli della menzogna. Qui tutto si dice senza mai dirlo. L’alcolismo è dolore, la sterilità è disfatta sociale, l’omosessualità è colpa, la maternità è ossessione. Non esiste innocenza. Non esiste catarsi. Solo una lenta e implacabile resa dei conti che avviene – significativamente – nel giorno del compleanno di Big Daddy, il patriarca morente che crede ancora di poter governare le vite dei suoi. Nicola Pannelli è un Big Daddy che si muove tra sberleffo e disincanto. Uomo che si è fatto da sé, dominatore di un microcosmo che lo teme e lo idolatra, incarna il declino maschile con tutta la sua virulenza reazionaria. Lo affianca una Orietta Notari intensa e dolorosa, madre ormai ridotta al ruolo di comparsa nella grande messa in scena familiare. Ma il cuore pulsante dello spettacolo è la Margaret di Valentina Picello: una “gatta” che sa di essere sul punto di cadere, ma che si aggrappa a ogni singola parola, a ogni sorriso stirato, a ogni menzogna. L’attrice non la interpreta: la consuma. La lascia graffiare e supplicare, la fa scivolare da diva sgangherata a creatura disperata senza mai perdere quella sottile dignità che si acquista solo nel dolore. È lei a reggere la prima parte dello spettacolo, trascinandoci nel suo monologo da camera, in cui la ferocia si mischia al bisogno disperato di essere vista. Di fronte a lei, il Brick di Fausto Cabra: enigmatico, attonito, spettrale. È un corpo che si nega, un’identità che si frantuma. Cammina zoppo, metafora vivente di una virilità ferita, amputata. Lidi lo circonda di fantasmi, lo incastra tra lo spettro dell’amico morto e lo specchio della propria impotenza. Il dolore per Skipper non è più solo allusione: Riccardo Micheletti lo incarna con presenza discreta eppure costante. Non è più solo un passato da rimuovere, ma un presente con cui convivere. Tra le note di questo dramma lancinante, spiccano anche le interpretazioni di Giuliana Vigogna (una Mae famelica e volgare al punto giusto), di Giordano Agrusta (un Gooper meschino e frustrato), e della piccola Greta Petronillo, icona muta e perturbante di una generazione cresciuta tra le rovine. La regia gioca con i simboli, li manipola fino al limite. Le bottiglie che invadono la scena, portate ossessivamente da Skipper, diventano trappole visive e sonore, ostacoli fisici e psichici. Ma proprio nel loro accumulo – e nella loro banale rimozione finale – si sfiora il rischio dell’incoerenza. Il segno, potentissimo all’inizio, viene via via neutralizzato. Idem lo specchio, strumento drammaturgico denso, ma sovraccaricato di funzioni fino alla saturazione. Eppure, è proprio nel disordine di questi simboli che Lidi trova la sua chiave: un teatro in bilico, dove la regia non ha paura di esporsi, dove l’eccesso può diventare slancio poetico, dove il troppo non è mai abbastanza quando si parla di dolore. Certo, non tutto fila liscio. Alcune uscite di scena restano goffe, la presenza del reverendo (Nicolò Tomassini) è marginale e inutilmente diluita. La danza del “dottor morte”, che chiude la pièce con una nota farsesca, risulta posticcia. Ma tutto questo conta poco davanti alla forza complessiva dello spettacolo, alla sua tensione etica, alla volontà di non indorare nulla. La gatta sul tetto che scotta secondo Leonardo Lidi è un teatro della ferita. Una ferita che pulsa, che non si rimargina, che non cerca empatia. È un teatro che parla di famiglie per parlare di tutto il resto. Un teatro scomodo, che ci costringe a guardarci dentro, e a capire che nessuno – nemmeno noi – si salva davvero. Photocredit Luigi De Palma

Categorie: Musica corale

Novara, Teatro Coccia. “Prima della scala” è “La scala di seta” (progetto DNA Italia).

gbopera - Mar, 20/05/2025 - 23:27

Novara, Fondazione Teatro Carlo Coccia, Stagione lirica 2025
PRIMA DELLA SCALA”
Opera in un atto su libretto di Stefano Valanzuolo
Musica di Federico Gon
Zabatta DAVIDE LANDO
Nina ALINA TKACHUK
Ezio PAOLO NEVI
Lucilla YO OTAHARA
Silvano DOGUKAN OZKAN
Germano EMMANUEL FRANCO
“LA SCALA DI SETA”
Farsa in un atto su libretto di Giuseppe Maria Foppa
Musica di Gioachino Rossini
Dormont DAVIDE LANDO
Giulia ALINA TKACHUK
Dorvil PAOLO NEVI
Lucilla YO OTAHARA
Blansac DOGUKAN OZKAN
Germano EMMANUEL FRANCO
Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Francesco Pasqualetti
Regia Deda Cristina Colonna
Scene e Costumi Matteo Capobianco
Luci Ivan Pastrovicchio
Novara, 11 maggio 2025
In una primavera novarese povera di titoli operistici – il grosso delle produzioni si concentrerà in autunno – l’unico appuntamento è con l’ormai tradizionale progetto “DNA Italia” destinato all’allestimento delle farse rossiniane affidate in gran parte a cantanti dell’Accademia novarese. Si tratta quindi di produzioni destinate a giovani interpreti che vanno valutate tenendo conto del particolare contesto.
Il titolo rossiniano è preceduto – come ormai da tradizione nel progetto – da una breve opera appositamente commissionata con funzioni di prologo. In questo caso “Prima della scala” è soprattutto un’introduzione all’allestimento scenico su cui si tornerà. Vediamo un gruppo di circensi in lutto per la morte dell’impresario ma intenti a contendersi con ogni mezzo l’eredità. In realtà l’impresario Zabatta si è finto morto per mettere alla prova i suoi sottoposti e disgustato dal loro cinismo decide di vendere il circo e iniziare un’attività d’impresario teatrale ma in mancanza d personale si trova costretto a riassumere i suoi vecchi artisti per mettere in scena “La scala di seta”. La musica del nuovo lavoro è di Federico Gon è nel complesso risulta piacevole. Sfruttando bene un libretto di buona freschezza ritmica – di Stefano Valanzuolo – il compositore propone una partitura d’impianto tradizionale. La musica è tonale e guarda a modelli ben definiti – Nino Rota in primis – e gioca con richiami e citazioni operistiche. Il lavoro è breve, teatralmente vivace e nel complesso si ascolta con tranquillità ma manca di autentica personalità e non riesce a imprimersi. Con i due titoli eseguiti senza soluzione di continuità bastano poche note della sinfonia rossiniana per segnare uno iato incolmabile. Elemento unificatore è come accennato l’allestimento di Deda Cristina Colonna con scene e costumi di Matteo Capobianco che non solo rappresenta l’elemento di gran lunga più riuscito ma conferma l’alta qualità esecutiva ormai raggiunta dai laboratori novaresi. L’ambientazione è circense – quasi metafora del funambolismo della musica rossiniana – e sostanzialmente atemporale. Manca infatti una collocazione cronologica precisa ed elementi di varia epoca si fondo con sostanziale naturalezza. Le bellissime scene riprendono la cartellonistica circense d’inizio Novecento ma anche le proiezioni delle lanterne magiche e non manca qualche ricordo felliniano. Tutto in bianco e nero nel prologo, di vividi colori nell’opera ma senza mai tradire l’unitarietà della cifra stilistica di fondo. Preciso e curato il lavoro attorale, fattore ancor più utile disponendo di una compagnia di cantanti nel complesso giovani e di scarsa esperienza.
Francesco Pasqualetti alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana offre una lettura brillante e dal buon ritmo teatrale ma manca di leggerezza di tocco confermandoci quanto sia difficile l’equilibrio formale della scrittura rossiniana. I cantanti vanno ovviamente valutati nell’ottica di un progetto formativo con le specificità che esso impone. Paolo Nevi subentrato al previsto Michele Angelini affronta Dorvil con una voce dal bel timbro squillante e con buona proiezione. E’ però ancora acerbo sul versante espressivo – manca soprattutto un po’ di abbandono lirico – e gli acuti tradiscono qualche durezza – forse dovuta alla stanchezza di due recite a neppure un giorno di distanza. Alina Tkachuk ci è parsa ancora immatura per Giulia. La voce è da soprano leggero e soffre in una parte di mezzo carattere come questa è purtroppo soverchiata dalle altre voci nei pezzi d’assieme. La dizione è perfettibile e sul versante interpretativo risulta manierata nonostante l’impegno. Emmanuel Franco nonostante la giovane età vanta un’esperienza che manca ai colleghi. Presenza abituale su palcoscenici a Wexford e Bad Wildbad ha già affrontato il ruolo di Germano nell’edizione 2021 del festival tedesco – esiste registrazione discografica – e sia sulla quadratura stilistica sia sulle capacità interpretative si muove su un altro livello qualitativo che trova la miglior conferma nella facilità con cui snocciola i passaggi sillabati. Dogukan Ozkan dispone di una voce di basso potenzialmente interessante per robustezza e colore. Deve migliore sul piano dell’emissione – un po’ grezza – e su quello interpretativo. Manca ancora in lui una più profonda sintonia con lo stile rossiniano mentre il solido materiale gli permette di emergere nella scrittura più declamatoria dell’opera Gon con la sua spassosissima scena d’incantesimo. Timbricamente un po’ chiara ma musicalmente corretta e scenicamente simpatica la Lucilla di Yo Otahara mentre nelle brevi parti di Zabatta e Dormont Davide Lando si fa apprezzare per la chiarezza della dizione e la sensibilità dell’accento.

 

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Torino: La Belle Époque secondo Orozco-Estrada con l’Orchestra RAI

gbopera - Mar, 20/05/2025 - 16:05

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione sinfonica 2024-25.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrés Orozco-Estrada
Soprano Laura Verrecchia
Tenore Marco Ciaponi
Basso Mirco Palazzi
Igor Stravinskij: “Pulcinella”, balletto in un atto per piccola orchestra con tre voci soliste, su musiche di Giovanni Battista Pergolesi;   Maurice Ravel: “Daphnis et Chloe”, suite n.1 e n.2 dal balletto
Torino, 16 maggio 2025.
Siamo a pochi mesi dalla fine della grande guerra del 14-18 e, a Parigi, nonostante tutto, si tenta il riaggancio con gli estremi scampoli residui della belle époque. A dominare le scene e a condizionare gli artisti rimangono i Ballets Russes, con il genio artistico ed imprenditoriale del loro fondatore, manager e indiscusso dominatore: Sergej Pavlovič Djaghilev. Fokine, il coreografo, Nijinskij, il grande danzatore e Igor Stravinskij, il musicista, tutti russi fuggiti dalla rivoluzione, sono ancora della partita. Stravinskij che, residente fin dal 1909 a Parigi, aveva già illustrato i Ballets Russes con le sue opere “barbariche”, nel 1918 si vede consegnare, da Djaghilev in persona, dei fogli con musiche presunte, ma allora non lo si sapeva che fossero tali, di Pergolesi. Pareva allora che la richiesta del mercato fosse per esibizioni che riportassero alla quiete dopo la grande tempesta. Non barbarici riti pagani, non vergini sacrificate in sanguinari sacrifici rurali, ma piacevolezze settecentesche, come si ipotizzava lo fossero state quelle della corte e dei vicoli partenopei. Assai probabile che Stravinskij conoscesse ben poco di Pergolesi e ancor meno delle galanterie delle mascherate napoletane, ma l’ordine del boss era tassativo e a nulla valsero i suoi tentativi di cambiar soggetto con la proposta di una ripresa dell’Histoire du soldat, spettacolo con cui si era mantenuto negli anni di guerra. Animato da una fantasia e da un mestiere fuori misura, ne ricava 18 numeri, che alternano piccole suite baroccheggianti ad accattivanti cantatine affidate, in singolo o in duo, a un (mezzo)soprano, a un tenore e a un basso. Riconfermandosi, se mai ce ne fosse stato bisogno, il grande orchestratore, allievo di Rimskij, sono tutte meraviglie quelle che affida a un’orchestra molto contenuta sia nei timbri che nel numero. Fokine imbastisce la coreografia, Nijinskij danza e Picasso disegna e allestisce la scena dell’Opera. La critica tende a fissare con Pulcinella l’inizio della fase neoclassica di Stravinskij, ma forse più che un inizio consapevole, Stravinskij qui coglie lo spunto per riconsiderare il suo stile ed affrontare al meglio le emergenti preferenze del pubblico. Altre opere barbariche, come Les Noces ci furono ancora e per un neoclassicismo conclamato mancheranno ancora una decina d’anni. Nelle esecuzioni odierne tutto dipende dal taglio che l’interprete vuol dare alla partitura. L’ultima volta che si diede a Torino alla RAI, nel 2021, Ottavio Dantone offrì un barocco rivisitato “alla moderna”, ora Orozco-Estrada e la magnifica OSNRAI, con vivaci dinamiche di suono e con strappi bruschi di ritmo, riportano l’opera ad una zona molto più dubbia di passaggio che, per molti aspetti, ancora suona come il Sacre. I solisti orchestrali non si risparmiano, al chiacchiericcio rococò fanno prevalere un franco, scattante e ben timbrato disegno ritmico. Ugualmente franca e soddisfacente la prova delle tre voci, Laura Verrecchia, Marco Ciaponi e Mirko Palazzi, (subentrato all’ultimo al previsto Pablo Ruiz), che, con buona efficacia, si sono adeguati più al cantare dei vicoli che agli scimmiottamenti dei salotti.
La stessa linea interpretativa Orozco-Estrada e l’OSNRAI, l’hanno adottata per le due suites raveliane di Daphnis et Chloé. Opera anch’essa commissionata a Ravel, come base per un balletto, dall’onnipossente Djaghilev. Era il 1911, 3 anni prima dello scoppio di una guerra non prevista e 10 prima del Pulcinella di Stravinskij. Con Ravel si danno la Belle époque e l’impressionismo delle arti visive applicati agli amori pastorali descritti da Longo Sofista, autore greco del III° secolo, ancora trasponibili ad argomento per un poemetto della settecentesca Arcadia o a soggetto per un dipinto di Watteau. Con Orozco-Estrada, come già in Pulcinella, si abbandonano quasi completamente i sentieri dell’Idillio campestre da Imbarco per Citera, per addentrarci tra il fogliame e le belve delle foreste fauve del Doganiere Rousseau. L’orchestra al gran completo (12 percussionisti, due arpe, 18 legni, 13 ottoni, 30 leggii di archi di cui 4 di contrabbassisti) ha abbondanza di tutti i timbri che Ravel, il più sorprendente orchestratore della storia della musica, avrebbe potuto desiderare. L’effetto è magnifico fin dal borbottare iniziale dei contrabbassi, per proseguire con la valanga travolgente di colori che la compagine formidabile dei legni sa sovrapporre al mareggiare più o meno tranquillo degli archi. La foresta amazzonica colombiana, patria di Orozco-Estrada, irrompe prepotente con lamate e fendenti di raggi di sole che abbagliano e fanno risplendere il verde smeraldo del lucido fogliame. Tanti strali fiammeggianti che, drammaticamente, illuminano un sottobosco che si immagina popolato dal piumaggio multicolore di uccelli esotici e dal mantello maculato di belve nascoste e forse anche da striscianti e argentei serpenti. L’effetto, sicuramente carico di fascino e di incanto, conquista il pubblico che inesorabilmente si abbandona al meraviglioso caleidoscopio di suoni che fa più sognare avventure ero-esotiche che non artefatti giardini tropicali di una Costa Azzurra della Belle Époque.

Categorie: Musica corale

Roma, Pavart Gallery: “Tra Battiti e Segni”

gbopera - Mar, 20/05/2025 - 12:22

Roma, Studio di Architettura Francesco Anzuini & Sara Edalatkhah
Via Statilia 18, Roma
Artisti: Davide Cocozza e Igor Grigoletto
Curatrice: Velia Littera
TRA BATTITI E SEGNI
Roma, 14 maggio 2025
Nell’orizzonte instabile del contemporaneo, dove il linguaggio dell’arte muta pelle ogni giorno, Tra Battiti e Segni non si presenta come mostra, ma come esperienza incisa, come zona di attraversamento sensoriale e teorico, un cortocircuito visivo che prende corpo nello spazio pulsante dello Studio Anzuini & Edalatkhah, luogo architettonico e mentale, atelier d’idee più che contenitore di opere. Due artisti, Davide Cocozza e Igor Grigoletto, si confrontano senza sfiorarsi, eppure in dialogo serrato, quasi un montaggio alternato tra corporeità pittorica e sospensione segnica, tra corpi totemici e linee che sembrano emerse da un sonno profondo della mente. A tessere l’incontro, la curatela consapevole di Velia Littera, che orchestra il confronto come un duello rituale: l’uno affonda il pennello nella carne simbolica del vivente, l’altro graffia lo spazio con tracce disabitate, ridotte all’osso del pensiero. Cocozza porta in scena un bestiario umanizzato, una teoria di animali guardiani, testimoni muti della disgregazione ecologica ed etica. Ma attenzione: qui non vi è alcuna elegia naturalista, nessun sentimentalismo da calendario. I suoi animali — tigri, asini, ghepardi — sono icone mutanti, creature poste sull’orlo tra innocenza e condanna. I titoli stessi (Light My Fire, Like a Thoughtful Cheetah) sono formule magiche, aperture immaginali su un universo che mescola rock, rituale e invocazione. I loro occhi, carichi di uno sguardo quasi sacrale, non interpellano lo spettatore: lo inchiodano. Queste figure non imitano il reale, ma lo giudicano. Nel suo gesto pittorico si coglie la volontà di reintrodurre l’animale nel cuore della cultura, di ribaltare l’ordine simbolico che ha espulso la natura dal tempio della rappresentazione per sostituirla con l’umano come misura di tutte le cose. L’asino che vola non è una favola, è un’eresia iconica. La tela diventa manifesto. Il colore, attivismo. Dall’altro versante, Igor Grigoletto traccia sentieri nella nebbia. Le sue superfici, spesso in vetro, si offrono come membrane semantiche su cui si depositano segni minimi, quasi un battito di ciglia del pensiero. Il suo è un lavoro che si sottrae all’urgenza del dire: Sign, nella sua iterazione monocroma, non afferma nulla. Semplicemente è. Non rappresenta, ma convoca. Grigoletto non cerca l’effetto. Lavora nella zona cieca della visione, là dove la linea diventa rivelazione e il bianco non è sfondo, ma materia del silenzio. Il suo è un codice post-verbale, dove l’estetica si ritira per lasciare posto a una fenomenologia dell’assenza. Il vetro è superficie e insieme confine, è soglia tra mondo e mente. Nulla da leggere: solo da ascoltare. Eppure, nonostante la distanza formale tra i due, Tra Battiti e Segni si fa corpo unitario, sistema respiratorio a due polmoni. È una mostra che dichiara con eleganza e decisione il proprio j’accuse verso un mondo che ha smarrito la grammatica della convivenza: la coabitazione tra specie, tra linguaggi, tra segni. Se Cocozza espone il trauma della separazione dalla natura, Grigoletto ne decanta l’eco più sottile, quella che si insinua nei meandri dell’interiorità. In questa convergenza inattesa, l’empatia e la sottrazione non si annullano, ma si sostengono. Il primo invita a sentire, il secondo a disimparare. Entrambi, con strumenti differenti, rimettono al centro l’urgenza di tornare alla forma, non come puro esercizio estetico, ma come gesto etico, come atto fondativo. A rendere fertile questo incontro è lo spazio stesso: lo Studio di Architettura Francesco Anzuini & Sara Edalatkhah non è una semplice cornice, ma co-autore dell’evento. Architettura e arte, in questa circostanza, non convivono: dialogano, si interrogano, si contaminano. I segni di Grigoletto galleggiano nelle superfici, le creature di Cocozza sembrano varcare soglie, attraversare volumi, disturbare gli assi cartesiani dell’ambiente. È un’installazione relazionale, mai autoreferenziale. Un’intuizione curatoriale che si completa nella sinestesia di un wine tasting offerto da Cantina Menol, ulteriore soglia percettiva che invita il pubblico non alla fruizione passiva, ma a una presenza consapevole, multisensoriale, quasi liturgica. Tra Battiti e Segni è dunque una mostra necessaria, perché necessaria è oggi la riflessione su cosa significhi ancora vedere, sentire, abitare. È un attraversamento. Un esercizio di lucidità. Un grido sommesso che, nel silenzio rarefatto del vetro e nella presenza incantata degli animali, chiede all’arte di tornare a essere corpo, coscienza, eco. E di lasciare traccia.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Mario Giacomelli. Il Fotografo e l’Artista”

gbopera - Lun, 19/05/2025 - 18:36

Roma, Palazzo delle Esposizioni
MARIO GIACOMELLI. IL FOTOGRAFO E L’ARTISTA
a cura di
Bartolomeo Pietromarchi
Katiuscia Biondi Giacomelli
Roma, 19 maggio 2025
La fotografia non è mai stata uno specchio passivo del mondo. Quando funziona, la fotografia pensa. Se ci troviamo oggi davanti alle immagini di Mario Giacomelli, è perché queste immagini non soltanto hanno guardato la realtà, ma l’hanno interrogata, piegata, ri-scritta. In questa mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma – tra le più vaste mai dedicate al maestro marchigiano – non ci troviamo di fronte a una semplice retrospettiva, ma a una verifica dell’assunto che ho spesso sostenuto: il fotografo è un artista non per la qualità tecnica del suo mezzo, ma per la qualità spirituale della sua visione. Nel caso di Giacomelli, quella visione è intrinsecamente duale: lirica e cruda, poetica e brutale. Egli ha visto nel nero e nel bianco non una grammatica, ma un destino. Lo capiamo sin dall’apertura del percorso, dove l’installazione immersiva restituisce la voce, il ritmo e la pelle stessa del suo sguardo. L’autore, che non ha mai lasciato davvero Senigallia – e che ha saputo fare del proprio vicolo il centro del mondo – viene qui proposto in dialogo con Afro, Burri, Kounellis, Cucchi, Ballen. Eppure, con una verità che può sorprendere solo chi non ha mai davvero osservato le sue stampe, Giacomelli non scompare mai nel confronto: regge il peso del paragone, lo trasforma, lo eccede. Ci sono tre assi portanti lungo i quali si struttura questa mostra: la materia, il linguaggio, la presenza umana. Nel primo segmento, l’accostamento con Afro e Burri si rivela subito efficace. Le superfici fotografiche di Giacomelli – rugose, bruciate, lavorate in camera oscura come se fossero tele da incidere – sembrano sorgere da una stessa matrice tellurica. Quella materia (che Burri cauterizza, che Afro dissolve) viene da Giacomelli scritta con luce e acidi, in una pratica fotografica che è al tempo stesso pittorica e alchemica. Le serie paesaggistiche, da Motivo suggerito dal taglio dell’albero a Territorio del linguaggio, sono esposte non per documentare un territorio ma per evocare una memoria sedimentata nella terra, nei solchi, nella neve come scrittura. Il secondo segmento – dedicato al linguaggio – si articola nel dialogo con Cucchi e con Kounellis. Nel primo caso, si riconosce un comune sentire simbolico: il paesaggio non è un luogo, è una proiezione psichica. Le fotografie esposte vibrano di un’energia visionaria che si distanzia dal realismo documentario: sono visioni. Nel secondo caso, con Kounellis, emerge invece il Giacomelli più etico e radicale. Mattatoio, Lourdes, E io ti vidi fanciulla – titoli che sembrano già versi – sono fotografie dove la materia ritorna, ma come traccia della carne, come testimonianza del dolore, come eco della morte. Con Kounellis, Giacomelli condivide un’antropologia povera, scavata, residuale. È qui che il fotografo mostra la sua più alta tensione tragica. Il terzo asse – quello della presenza umana – trova il suo vertice nella celeberrima serie Io non ho mani che mi accarezzino il volto, esposta per la prima volta nella sua interezza e accompagnata da provini e materiali di lavoro. Le fotografie dei seminaristi non sono immagini di ragazzi. Sono, piuttosto, corpi in movimento spirituale. Come ho scritto a proposito di altri maestri del mezzo – Weston, Evans, Arbus – la grande fotografia è quella che, nel fissare un istante, lo trasforma in eternità. Questo Giacomelli lo fa con una semplicità che sfiora il miracolo. Le sue immagini non descrivono, rivelano. In questa stanza circolare, installativa, quasi liturgica, la serie si trasforma in un canto visivo. Non va dimenticato che Giacomelli è un artista autodidatta, che ha trovato nella fotografia – e solo in essa – la propria lingua. In questo senso, il dialogo finale con Roger Ballen, che lo ha apertamente riconosciuto come maestro, chiude perfettamente il cerchio: è un passaggio di testimone tra due artisti che hanno fatto del bianco e nero uno strumento di psicoanalisi visiva. Le opere conclusive – Questo ricordo lo vorrei raccontare, La domenica prima, Per poesie (ferri e lenzuola) – sono pagine di diario, frammenti di sogno, lampi di coscienza. Eppure mai estetizzanti. Giacomelli non fotografa per piacere. Fotografa perché deve. L’ultima sala – la ricostruzione del suo studio – è un atto di rispetto e di amore. Non c’è spettacolarizzazione. Solo i suoi strumenti: l’ingranditore, la Kobell, le pareti tappezzate di fogli. È un tempio laico, un laboratorio della visione. Ed è giusto che il visitatore vi entri dopo aver attraversato l’universo del suo autore. Perché è solo qui, nello spazio più intimo, che si può davvero comprendere quanto il lavoro di Giacomelli sia stato totale. Ossessivo. Necessario. Con questa mostra – la più completa mai vista a Roma – Giacomelli viene restituito non come un fotografo italiano. Ma come uno dei grandi artisti visivi del secolo breve, capace di rendere la fotografia uno strumento per dire l’indicibile. E come ogni grande artista, non ha lasciato immagini. Ha lasciato domande.

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Roma, Teatro Argentina: “Il Giovane Camilleri” 19 maggio 2025

gbopera - Dom, 18/05/2025 - 18:12

Roma, Teatro Argentina
Serata evento per celebrare il centenario della nascita di Andrea Camilleri
IL GIOVANE CAMILLERI

un progetto di Felice Laudadio
regia Ennio Coltorti
con la partecipazione di (in o.a.) Maria Luisa Bigai, Benedetta Buccellato, Margherita Buy, Giuseppe Dipasquale, Donatella Finocchiaro, Lorenza Indovina, Marco Presta, Enrico Protti, Sergio Rubini, Francesco Siciliano, Massimo Venturiello
musiche di e con Roberto Fabbriciani
a cura del Comitato Camilleri 100, del Fondo Andrea Camilleri e del Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Molto tempo prima di diventare il popolare scrittore tradotto in oltre 40 lingue in tutto il mondo Andrea Camilleri fu allievo di regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Le sue prime esperienze di studente fuorisede sono puntualmente narrate nelle lettere che, fin dal 1949, inviava alla sua famiglia, ora raccolte nel volume edito da Sellerio Vi scriverò ancora curato da Salvatore Silvano Nigro che lo ritrae come «un moderno Robinson Crusoe che di continuo deve inventarsi un alloggio sempre provvisorio, le suppellettili necessarie, tutti i gesti della giornata tra il lavaggio della biancheria e la ricerca di un ristorantino alla portata delle sue tasche semivuote. C’è qualcosa di picaresco nella narrazione epistolare, spesso autoironica e spettacolare: anche nel caso di quel convulso correre, qua e là, senza sosta, alla ricerca di un lavoretto. E intanto Camilleri studia, studia, studia». Fino a diventare egli stesso docente di regia e recitazione in Accademia ove ebbe innumerevoli allievi alcuni dei quali, al Teatro Argentina, lo racconteranno tramite quelle lettere che narrano le stesse picaresche avventure da loro vissute. Qui per tutte le informazioni.

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Jules Massenet (1842 – 1912). “Grisélidis” (1901)

gbopera - Dom, 18/05/2025 - 13:31

Contes lyriques in un prologo e tre atti su libretto di Armand Silvestre e Eugène Morand. Vannina Santoni (Grisélidis), Julien Dran (Alain), Thomas Dolié (Le Marquis), Tassis Christoyannis (Le Diable), Antoinette Dennefeld (Fiamina), Adèle Charvet (Bertrade), Adrien Fournaison (Gondebaud), Thibault de Damas (Le Prieur). Choer de l’Opéra National Montpellier – Occitanie, Noëlle Gény (Maestro del coro), Orchestre de l’Opéra National Montpellier – Occitanie, Jean-Marie Zeitouni (Direttore). Registrazione: Corum – Opéra Berlioz di Montpellier, 30 maggio – 2 giugno 2023. Fondazione Bru Zane OF n. 42.
La Fondazione Palazzetto Bru Zane recupera un altro tassello dell’ampio e poco noto catalogo massenetiano, questa volta si tratta di “Griselidis” andata in scena nel 1901 all’Opéra-Comique. Tratta da una novella del Boccaccio la patetica vicenda di Griselda di Saluzzo aveva già avuto trasposizioni operistiche in epoca barocca – forse la più nota è quella di Vivaldi – ma con questa versione Massenet e i suoi librettisti si allontanano non poco dall’originale sia come vicenda sia – e soprattutto – come carattere. A contare non è tanto lo spostamento geografico dal Piemonte alla Provenza quanto lo slittamento verso toni più leggeri e per molti aspetti più superficiali. Determinante è l’inserimento della figura di un Diavolo come tentatore del Marchese e causa delle sventure di Griselda. Parte diabolica caratterizzata da spiccati tratti comici e caricaturali, da modi giullareschi che introducono una nota totalmente sconosciuta alla vicenda originale ma che veniva incontro al gusto proprio dell’Opéra-Comique. Aldilà di questo aspetto il libretto non riesce a definire le psicologie dei personaggi che appaiono ridotte a figurine decorative. Massenet è sempre un musicista di alto mestiere e di grande cultura e riesce comunque a giocare con maestria con formule e stilemi ( certi temi del Diavolo occhieggiano volutamente a quelle del Mephistopheles di Gounod, modello imprescindibile per tutti i satanassi d’Oltralpe) forte anche dell’inarrivabile facilità melodica.
Passati il prologo e il primo atto – assai frettolosi, l’opera non manca di belle pagine e soprattutto le arie della protagonista, ma anche il lungo duetto finale non mancano d’ispirazione, anche se rimane il senso di incompiutezza tra la reale  qualità melodica e la dimensione piatta dei personaggi. Nel complesso un’opera che si ascolta con piacere ma non riesce a suscitare emozioni durature. Un certo gusto spettacolare – come nella diablerie del II atto – renderebbe forse il titolo più efficacie in una fruizione scenica che al solo ascolto.
L’edizione musicale cerca di fare quanto di meglio l’opera conceda. Jean-Marie Zietouni dirige con gusto e sensibilità l’Orchestre National Montpellier Occitanie puntando su una lettura trasparente e luminosa. Una lettura fluida, attenta ai colori orchestrali ma non priva di una certa tensione drammatica nei limiti concessi dal lavoro, forse non a caso sono i momenti strumentali come il preludio al terzo atto quelli più convincenti al riguardo. L’ottima qualità della registrazione contribuisce a evidenziare le doti della direzione e la prova dell’orchestra e del coro che con la musica di Massenet hanno una sintonia semplicemente perfetta.
Il cast è complessivamente valido. Vannina Santoni è una Grisélidis incantevole. La voce è molto bella, il canto nobile ed elegantissimo, davvero magistrali le mezzevoci, come interprete trova forse la via più autentica per un ruolo di questo tipo. Un patetismo elegante e raffinato in cui le trepidazioni dell’anima si stemperano in preziosismi art nouveau che il timbro perlaceo e luminoso della Santoni rende come decori di Gallet fatti suono. Tassis Christoyannis è il magnifico dicitore che ben conosciamo. La parte del Diavolo è spinosa ma lui riesce a coglierne perfettamente la duplice essenza. Rende molto bene i tratti scopertamente buffi del personaggio – anche sul piano della vocalità – e anche certe componenti un po’ grossier che il ruolo richiede senza però mai compromettere una linea di canto di classicamente tornita e che non potrebbe essere più francese.
Thomas Dolié ha una bella voce di baritono nobile, nella miglior tradizione francese, e canta con gusto ed eleganza. Purtroppo la parte concede davvero poco nella sua genericità ma viene affrontata al meglio di quanto conceda e nell’unico momento riuscito – il duetto finale – non sfigura in nulla al fianco della Santoni.
Julien Dran (Alain) ha una notevole voce tenorile. Bel timbro, materiale solido e  squillo da heldentenorer che si fanno sicuramente apprezzare al netto di qualche durezza nella zona di passaggio. Purtroppo il personaggio di Alain è forse il meno risolto sul piano drammaturgico e il suo canto così schietto e sincero sembra quasi stridere in un’opera così manierata. Adèle Charvet ha la giusta autorevolezza nei panni dell’ancella Bertrade cui è affidato – nel melologo che chiude il primo atto – il ruolo di commentatore quasi esterno alla vicenda. Antoinette Dennefeld nei panni della diavolessa Fiamina è ottima spalla a Christoyannis nella scena diabolica del II atto. Pienamente funzionali nelle loro parti Adrien Fournasion (Gondebaud) e Thibault de Damas (Le Prieur). Ricchissimo come sempre – e splendidamente illustrato con immagini e preziose foto d’epoca – il libretto di accompagnamento a cura di Alexandre Dratwicki.

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Madrid, Teatro Real: “Attila”

gbopera - Dom, 18/05/2025 - 11:25

Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“ATTILA”
Dramma lirico in un prologo e tre atti su libretto di Temistocle Solera, ispirato alla tragedia Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner
Musica di Giuseppe Verdi
Attila CHRISTIAN VAN HORN
Ezio ARTUR RUCIŃSKI
Odabella SONDRA RADVANOVSKY
Foresto MICHAEL FABIANO
Uldino KOISÉS MARÍN
Leone INSUNG SIM
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro José Luis Basso
Esecuzione in forma di concerto, in memoria di Ángeles Gulín, nel 50o anniversario della sua interpretazione di Attila presso il Teatro de la Zarzuela di Madrid, insieme a Bonaldo Giaiotti e Francisco Ortiz
Madrid, 14 maggio 2025

Come il baldo corsier che il protagonista evoca, così corre la partitura di Attila, eseguita in forma di concerto al Teatro Real di Madrid con la direzione di Nicola Luisotti, che dal 2017 è il Direttore Principale Invitato di questa istituzione. Senza l’apparato scenografico e registico, è ovviamente più semplice per il pubblico concentrarsi sugli aspetti musicali; al contrario, il direttore deve lavorare sulla qualità di quegli stessi aspetti, che da soli devono esprimere il senso drammaturgico dell’opera. Questo vale in particolare nel caso di Attila, di cui si suole rilevare certa discontinuità interna, dovuta soprattutto al libretto di Solera (con finale rabberciato da Francesco Maria Piave, visto che il primo librettista era partito per la Spagna, lasciando Verdi in una situazione un po’ imbarazzante). Rivivere la riduzione del poliedrico e incostante Temistocle Solera proprio nel Teatro Real (della cui seconda stagione, 1851-1852, fu l’impresario generale), permette invece di apprezzare le scelte che, dalla farraginosa e cruenta tragedia di Zacharias Werner, hanno confezionato l’asciutto libretto per Verdi, centrato su due grandi fuochi narrativi (nonché miti italici: la fondazione di Venezia e l’incontro di Leone Magno con Attila), a loro volta circondati da scene secondarie, sulle vicende personali degli altri personaggi d’invenzione. Negli ultimi anni Luisotti ha diretto altri sette titoli del catalogo verdiano presso il Teatro Real (detenendo quasi l’esclusiva della direzione di opere di Verdi: si vedano almeno, a ritroso, Aida, Nabucco, Un ballo in maschera, Don Carlo), ottenendo sempre buoni risultati. Anche questa volta va elogiata una concertazione attenta ed equilibrata, interessante soprattutto per due motivi: il gusto del “legato” nella connessione delle frasi e il rispetto di una fascia di sonorità mai eccessiva o fragorosa, ma anzi delimitata a priori, forse anche per non pregiudicare la prestazione dei cantanti. L’Orquesta Titular del Teatro Real risponde assai bene alle richieste del direttore, in particolare per mezzo di colori vividi e impressionistici, magnifici nell’introduzione al I atto (quando è riassunta la distruzione di Aquileia). La compagnia vocale è sicuramente all’altezza del compito: Christian Van Horn è un basso dal timbro non bello e dall’emissione alquanto di gola, ma autorevole nel porgere e tecnicamente corretto. Il suo protagonista riesce convincente e il pubblico apprezza soprattutto la grande scena del I atto, con aria e cabaletta. Sondra Radvanovsky è addirittura osannata dal pubblico di Madrid, e si può dire che sia la trionfatrice della serata. Tuttavia, è da dimostrare che abbia cantato in modo impeccabile; al contrario, all’inizio la voce raggiunge la pienezza dell’emissione a costo di qualche forzatura, con un registro diviso e qualche colpo di glottide; dizione affaticata e quasi completo disinteresse per la varietà della linea di canto accompagnano poi tutta la prestazione. Il baritono Artur Ruciński è un Ezio dalla voce chiara, con qualche inflessione nasale e una dizione poco curata nel corso delle prime scene, ma capace di entusiasmare il pubblico con l’aria e cabaletta del II atto (momento per cui, evidentemente, si era risparmiato in precedenza). Il miglior cantante della compagnia, per uniformità di emissione, tecnica e attenzione stilistica, è senza dubbio il tenore Michael Fabiano, che in Europa ha cantato soprattutto a Madrid, presentando al pubblico del Real un percorso di crescita artistica molto interessante: il suo Foresto è un personaggio vocalmente elegante, capace tanto di smorzature del suono come di squillo eroico (non sempre del tutto naturale, ma simulato con arte). Corretti l’Uldino di Moisés Marín e il Leone di Insung Sim, magnifico il Coro del Teatro Real (preparato da José Luis Basso), che brilla sia nella sezione femminile sia in quella maschile, visto che Verdi divide le parti corali nel corso di più numeri. I numeri d’insieme sono stati i momenti meglio riusciti della serata: il concertato del finale I e la progressione del III atto, in cui un duetto si amplia progressivamente in terzetto e poi in quartetto finale, vincono qualunque perplessità su un Verdi a torto ritenuto “minore”: della bontà del congegno drammaturgico era perfettamente consapevole il compositore stesso quando elogiava il bel libretto, musicabile!   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid

Categorie: Musica corale

Le cantate di Johann Sebastian Bach: Quarta domenica dopo la Pasqua

gbopera - Dom, 18/05/2025 - 00:20

Rivolgiamo ora l’attenzione alle opere scritte da Bach  per Quarta domenica dopo la Pasqua, quella che nella liturgia d’un tempo veniva denominata “Dominica Cantata” dalla prima parola dell’Introito. Occorre rilevare che questa è la seconda domenica di un ciclo  di quattro domenice  che precedono la Pentecoste, la festa che segna la discesa dello Spirito Santo e insime il coronamento della Pasqua di resurrezione. Conseguentemente, le letture evangeliche di queste quattro domeniche che sono rispettivamente “Jubilate” (30 aprile), “Cantate” (7 maggio), “Rogate” (14 maggio) e “Exaudi” (21 maggio), sono tutte incentrate su passi del Vangelo di Giovanni che preparano l’intervento del Paraclito. In questa Quarta Domenica il passo evangelico è tratto dal Capitolo 16, vers.5-15: “Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: «Dove vai?». 6Anzi, perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore. 7Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi. 8E quando sarà venuto, dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio. 9Riguardo al peccato, perché non credono in me; 10riguardo alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; 11riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato.
12Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
All’inizio di questo passo evangelico troviamo la domanda “Nessuno di voi mi domanda:”Dove vai?”. E su questo “Dove vai?”, viene impostato tutto il primo brano  della Cantata BWV 166 “Wo gehest du hin?” eseguita la prima volta a Lipsia il 7 maggio 1724. L’inquieto intterrogativo viene realizzato da Bach in uno stile che sta tra l’aria e e l’arioso, comunque bipartita, affidata alla voce di basso che qui personifica, come avviene di frequente, la “vox Christi”. La pagina successiva è un’aria tripartita per tenore “Penserò al Paradiso”, nota anche nella trasposizione strumentale per organo (BWV 584). Delle altre pagine della Cantata si noterà la nr. 3 “Ti supplico, mio Gesù Cristo” un’elaborazione di Corale, con la melodia affidata al soprano, con il supporto contrappuntistico di violino e viola, mentre l’ultima aria, nr.5 (“Prenditi cura di te”)cantata dal contralto, ha parvenze di danza.
Nr.1 – Aria (Basso)
“Dove vai dunque?”
Nr.2 – Aria (Tenore)
Penserò al paradiso
e a non dare il mio cuore al mondo.
Sia che vado sia che resto,
resta sempre questa domanda:
uomo, oh uomo, dove vai?
Nr.3 – Corale (Soprano)
Ti supplico, mio Gesù Cristo,
conservami nei tuoi pensieri
e non lasciarmi in nessun caso
nell’incertezza,
ma piuttosto che io perseveri
fino a che la mia anima esca dal nido
e raggiunga il Cielo.
Nr.4 – Recitativo (Basso)
Come la pioggia che presto passa
e subito lava via molti colori,
così accade per le gioie del mondo,
che sono disperse tra tanta gente;
e se a volte uno vede
che la felicità sperata arriva,
persino nelle giornate migliori
del tutto imprevista suona l’ultima ora.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Prenditi cura di te
quando la fortuna ti arride.
poiché sulla terra all’improvviso
tutto può cambiare, prima di sera
avviene ciò che al mattino non era previsto.
Nr.6 – Corale
Chi sa quanto vicina è la fine?
Il tempo passa, la morte si avvicina;
ah, quanto velocemente, rapidamente
può venire l’ora della morte.
Mio Dio, ti prego per il sangue di Cristo:
donami una buona fine!
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wo gehest du hin?” BWV 166

 

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Roma, Teatro Nazionale: ” Il Re Pastore”

gbopera - Ven, 16/05/2025 - 16:43

Teatro dell’Opera di Roma Stagione Lirica 2024/25
Teatro Nazionale
“IL RE PASTORE”
Serenata in due atti, K 208
Libretto di Pietro Metastasio
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Alessandro Re di Macedonia JUAN FRANCISCO GATELL
Aminta MIRIAM ALBANO
Elisa FRANCESCA PIA VITALE
Tamiri BENEDETTA TORRE
Agenore KRYSTIAN ADAM
Orchestra del Teatro dell’Opera
Direttore Manlio Benzi
Regia Cecilia Ligorio
Scene Gregorio Zurla
Costumi Vera Pierantoni Giua
Luci Fabio Barettin
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Teatro Nazionale 14 maggio 2025
Prosegue il progetto del Teatro dell’Opera di Roma di riproporre titoli meno frequentati con allestimenti pensati proprio per essere messi in scena al Teatro Nazionale.L’attenzione questa volta è caduta sul Re Pastore, in occasione dei 250 anni dalla prima esecuzione, rappresentato in precedenza in teatro una sola volta e composto da un diciannovenne Mozart su commissione del Principe Arcivescovo Colloredo per festeggiare il passaggio alla corte arcivescovile dell’arciduca Massimiliano, ultimo figlio dell’imperatrice Maria Teresa, in viaggio verso l’Italia. La direzione di questa splendida serenata scenica di rara esecuzione è stata affidata per l’occasione al maestro Manlio Benzi e vede il debutto al Teatro dell’Opera della regista Cecilia Ligorio. Il tema della vicenda, assai semplice, ripropone il conflitto tra sentimenti e ragion di stato, tra dovere e amore di due coppie di amanti con un lieto fine garantito da Alessandro, immagine del sovrano illuminato. Il testo di Metastasio musicato al tempo più volte da autorevoli musicisti contiene in embrione molti spunti che poi ritroveremo sviluppati nella produzione mozartiana degli anni successivi. La regista immagina il primo atto immerso in una atmosfera forse più ispirata al mondo verde che non agli idilli dell’Arcadia metastasiana, contrapposta ad un secondo atto viceversa ambientato in un interno architettonico dalle forme squadrate e  geometriche, razionale ed elegante nel quale in una sorta di continuo movimento a tratti un po’ eccessivo e non sempre in armonia con la musica diversi figuranti vagano in modo non sempre comprensibile o funzionale al fluire delle note. Molto riuscita è apparsa la realizzazione del brano più celebre della composizione, il rondò “L’amerò sarò costante” che però, costretta ad uscire velocemente alla fine dell’esecuzione, priva inspiegabilmente l’interprete del meritato applauso ed il pubblico del godersi il momento più atteso della serata. Lo spettacolo comunque è nel complesso assai piacevole e le varie arie, ciascuna con un suo carattere ben definito, ed i diversi momenti vengono illustrati con l’eleganza necessaria. Buona la direzione del maestro Manlio Benzi soprattutto nel saper sostenere i cinque solisti nelle rispettive impegnative parti vocali. Juan Francisco Gatell impersona un Alessandro autorevole e nobile con voce estesa, ampia e una elegante presenza scenica. Miriam Albano presta la sua voce agile, chiara e espressiva ad un Aminta innamorato e virtuoso. Francesca Pia Vitale pur avendo fatto annunciare una indisposizione ha affrontato la parte di Elisa con la necessaria levità. Tamiri è stata impersonata da Benedetta Torre con aristocratica decisione ed infine la remissiva prudenza di Agenore ha trovato i giusti accenti nella bella voce di Krystian Adam. Alla fine lunghi e calorosi applausi per tutti gli interpreti da parte di un pubblico attento ed evidentemente grato per questa interessante proposta. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma.

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Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Noi giuda”

gbopera - Mer, 14/05/2025 - 23:59

Roma, Teatro Parioli Costanzo
NOI GIUDA
con Massimo Ghini
scritto e diretto da Angelo Longoni
Musiche originali composte da Paolo Vivaldi in collaborazione con Aldina Vitelli
aiuto regia di Lorenzo Rossi
video di Gianni Del Popolo
produzione Il Parioli
produttore esecutivo Enzo Gentile
Roma, 14 maggio 2025
Non ci sono colpe. O, se ci sono, sono troppo umane per essere condannate. “Noi Giuda”, scritto e diretto da Angelo Longoni, con un Massimo Ghini solo in scena ma mai solo nell’intenzione, è una lezione teatrale che scava, provoca, disorienta. Non è un monologo: è un interrogatorio senza tempo, un confronto impossibile tra memoria e presente, tra giustizia e necessità, tra condanna e compassione. Un attore, un testo, una voce che si fa carne: non per difendere, ma per farci ascoltare ciò che da secoli ignoriamo. Ghini non interpreta semplicemente Giuda. Glielo lascia dire. Lo accoglie, lo assorbe, lo restituisce. E in questo dialogo impossibile tra il tempo del Vangelo e il nostro presente secolarizzato e incerto, la figura più vilipesa della tradizione cristiana torna in scena con tutta la sua complessità. Non più solo il traditore, ma l’umano in frantumi, l’uomo che porta addosso il peso di un gesto che è al contempo necessario e inaccettabile. Si può essere colpevoli eseguendo un disegno divino? È la domanda che attraversa lo spettacolo come un fiume carsico, mai espressa davvero, ma continuamente evocata. Il testo, costruito come una lunga deposizione postuma, lavora sulle crepe della narrazione evangelica con il rispetto inquieto del dubbio. Longoni, drammaturgo fine e regista accorto, non cerca lo scandalo, ma lo slittamento di prospettiva. Non contesta il Vangelo, lo mette in tensione con l’esperienza umana. Giuda parla con ironia, a volte con dolcezza, più spesso con un dolore trattenuto che non cerca compassione ma verità. I trenta denari, il bacio, il suicidio: ogni dettaglio è interrogato, smontato, riletto come indizio di una versione alternativa. La conferenza diventa via via più confessione, più richiesta, più sfida. L’espediente registico della “conferenza” funziona perché non vincola, ma apre. Ghini ha il ritmo, il respiro, l’ascolto. Sa rallentare e poi colpire. La sua recitazione è tutta nei dettagli: nel peso dato a una parola, nella variazione di tono, nel silenzio che improvvisamente si allunga. Non c’è nessuna compiacenza, nessuna volontà istrionica. Ghini costruisce un personaggio che non ha bisogno di trasformismi ma di onestà. E la sua forza è proprio lì: nel non chiedere nulla allo spettatore, se non attenzione. In certi momenti, un sorriso appena accennato può ferire più di mille grida. In altri, una pausa prolungata dice più di qualsiasi lamento. Ghini domina il tempo della scena come un musicista che conosce il valore del silenzio. I video di Gianni Del Popolo, proiettati alle spalle dell’attore, non invadono, ma suggeriscono. Non illustrano, ma come giusto che sia disturbano. Si insinuano nella parola e la sporcano. Paesaggi biblici, deserti, volti moderni, brandelli di guerra: è come se il mondo attorno a Giuda si disgregasse e poi si ricomponesse in nuove forme. La musica di Paolo Vivaldi, con Aldina Vitelli, è sommessa, a tratti quasi impercettibile. Ma c’è. Accompagna, non commenta. Le luci di Desideria Angeloni creano un’atmosfera ovattata, intima, quasi domestica. Un altare spoglio dove il peccatore è anche sacerdote. La regia è minimalista, ma non arida. La scena è nuda, come il personaggio. Ogni elemento è funzionale a far emergere il testo e l’attore. Non ci sono effetti, ma affetti. La parola è regina. E la voce di Ghini la rende precisa, mai enfatica. Il suo Giuda è stanco, disilluso, ma non rassegnato. Vuole parlare, ancora una volta, prima di scomparire. Non chiede perdono, chiede di essere ascoltato. Longoni costruisce uno spettacolo che è più di una provocazione. È una carezza ruvida sul volto del dogma. Una riflessione sulla responsabilità, sulla colpa, sulla libertà. Ma anche sul potere della narrazione. Perché, ci suggerisce Giuda, chi racconta la storia ha sempre ragione. E allora, forse, vale la pena ascoltare anche chi la storia l’ha subita. “Noi Giuda” è teatro civile nel senso più alto. Non perché faccia prediche, ma perché prende sul serio lo spettatore. Gli affida domande, non slogan. Lo invita a pensare, non a reagire. E se alla fine usciamo dalla sala con un moto di simpatia per questo personaggio così odiato, allora qualcosa è successo davvero. Qualcosa che il teatro, quando è necessario, sa ancora fare: restituirci all’umano, anche quello più imperdonabile. Photocredit Massimiliano Fusco

 

Categorie: Musica corale

Genova, Teatro Carlo Felice: “Carmen” di Bizet dal 16 al 25 maggio 2025

gbopera - Mer, 14/05/2025 - 19:37

Carmen di Georges Bizet, il penultimo appuntamento con la stagione lirica dell’Opera Carlo Felice 2024-25, è in programma da venerdì 16 fino a domenica 25 maggio 2025.
Maestro concertatore e direttore Donato Renzetti, regia di Emilio Sagi ripresa da Nuria Castejón, scene di Daniel Bianco, costumi di Renata Schussheim, coreografie di Nuria Castejón, luci di Eduardo Bravo.
Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini. Allestimento della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma.
A dare vita ai protagonisti: Francesco MeliAmadi Lagha (17, 24) (Don José), Luca Tittoto, Abramo Rosalen (17, 24) (Escamillo), Armando Gabba (Le Dancaire), Saverio Fiore (Le Remendado), Paolo Ingrasciotta (Morales), Luca Dall’Amico (Zuniga), Annalisa Stroppa, Caterina Piva (17,24) (Carmen), Giuliana Gianfaldoni, Angela Nisi (17,24) (Micaela), Vittoriana De Amicis (Frasquita), Alessandra Della Croce (Mercédes).

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