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Musica corale

Napoli, Teatro di San Carlo: “Il matrimonio segreto”

gbopera - Mar, 17/06/2025 - 12:41

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“IL MATRIMONIO SEGRETO”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Giovanni Bertati, dalla commedia “The clandestine marriage” di George Colman il Vecchio e David Garrick
Musica di Domenico Cimarosa
Solisti dell’Accademia di Canto Lirico del Teatro di San Carlo
Geronimo YUNHO ERIC KIM
Elisetta ANASTASIIA SAGAIDAK
Carolina MARIA KNIHNYTSKA
Fidalma SAYUMI KANEKO
Il conte Robinson ANTIMO DELL’OMO
Paolino SUN TIANXUEFEI
Orchestra del Teatro di San Carlo
Direttore Francesco Corti
Regia e Scene Stéphane Braunschweig
Costumi Thibault Vancraenenbroeck
Luci Marion Hewlett
Nuova produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 11 giugno 2025
Al Teatro di San Carlo, va in scena Il matrimonio segreto, fortunatissimo dramma giocoso dell’aversano Domenico Cimarosa, compositore emblematico della «Scuola napoletana» settecentesca. La regia è affidata a Stéphane Braunschweig. Egli effettua un’«attualizzazione» – estetica, soprattutto – dell’Opera, che di «buffo», almeno scenicamente, conserva effettivamente poco, ma quest’operazione avviene sempre nell’ottica di un già efficace ed «equilibrato gioco di simmetrie interne» (Paologiovanni Maione), la cui estrema «modernità» consente al regista di porre in evidenza la pregnanza drammatica dell’opera. Sei personaggi sono attraversati da una momentanea instabilità (un «lieto fine», però, consentirà la risoluzione dei conflitti relazionali). Fidalma, vedova, vorrebbe sposare Paolino, «giovane di negozio» di Geronimo, «ricco mercante»; Paolino è, invece, segretamente sposato con la figlia minore di Geronimo: Carolina; di lei, però, si innamora il Conte Robinson – che, invece, come da accordo, dovrebbe contrarre matrimonio con Elisetta, figlia maggiore del mercante. I personaggi si «rincorrono» a vicenda, incastrandosi in un «intrico» ordinato di incontri-scontri – che gli attori-cantanti riescono a risolvere con scenica «disinvoltura», determinante anche l’esposizione del materiale testuale del Bertati – costantemente investito di pregnanza teatrale, attraverso l’essenziale e accorto impiego di altri linguaggi: quello gestuale e, soprattutto, quello mimico-facciale. Avviene, però, un’eliminazione – scenica, soprattutto – degli elementi deliberatamente «comici» dell’Opera: la «sordità» di Geronimo viene convertita in sdegnosa «perplessità»; l’altro elemento eliminato è l’«avanzata» età scenica di Fidalma – eliminazione che neutralizza la comica «particolarità» della sua «passione» per il giovane garzone. Queste operazioni «neutralizzanti» consentono allo spettatore di osservare «seriamente», e con «maggior sospetto», il matrimonio tra Elisetta e il Conte, paradigmatico del carattere arrivistico di papà Geronimo e, in generale, del mondo borghese. L’integrazione del mondo borghese in quello aristocratico, progettata da papà Geronimo attraverso il «contratto» matrimoniale, appare metaforicamente rappresentata da una convivenza scenica di costumi – contemporanei e settecenteschi – stilisticamente contrastanti, disegnati da Thibault Vancraenenbroeck. Le scene – progettate dal regista medesimo e opportunamente illuminate da Marion Hewlett – restituiscono, in modo essenziale, gli appartamenti e le stanze entro cui accadono i fatti: «scatole sceniche», in varie tonalità di grigio, la cui movibilità consente una formazione «istantanea» degli spazi. Francesco Corti è alla testa dell’Orchestra del San Carlo (con Cristiano Gaudio, al clavicembalo, e vari Professori ospiti). Corti propone una lettura interessante del linguaggio strumentale cimarosiano, la cui pregnanza teatrale appare strettamente funzionale alla definizione «drammaturgica» dell’Opera. E, nella gestione della struttura di questa variegatissima costruzione operistica – anche tenendo conto dell’eliminazione di due numeri e recitativi vari, come viene precisato nel Programma di Sala –, Corti risulta essere perfettamente a suo agio. Gli attori-cantanti, nell’esposizione del materiale testuale, ricevono un costante sostegno «espressivo» dall’accompagnamento orchestrale – la cui ricercatezza e briosità emergono con estrema e commovente evidenza. Nel cast, figurano allievi dell’Accademia di Canto Lirico del San Carlo. Nel ruolo di Geronimo, Yunho Eric Kim. Il basso garantisce al «ricco mercante» un comportamento scenico non «artefatto»: la «comicità» del ruolo è tutta ravvisabile nella condotta vocale – e, per esempio, in quel suo espressivo «balbettare», nel travolgente Finale Primo Tu mi dici che del Conte. Occorre, qui, anche ricordare il momento della celebre Cavatina Udite, tutti udite – affrontata con sagace proprietà di stile. Carolina, invece, è interpretata da Maria Knihnytska. Il soprano affronta agilmente il ruolo: presta alla figlia minore di Geronimo un efficace temperamento teatrale – ravvisabile, per esempio, nel simpatico momento di dissimulazione e di infingimento dell’atto primo, l’Aria Perdonate, signor mio: un momento vocale, estremamente «grazioso» e di recitata «sprovvedutezza», funzionale alla determinazione scenica del personaggio. Appropriata «espressività» e sorprendente bellezza del colore timbrico concorrono, inoltre, alla caratterizzazione del ruolo. A dare corpo e voce a Fidalma è Sayumi Kaneko. Il mezzosoprano offre un garbato ritratto della zia, «esperta» vedova – senza, però, assumere un comportamento teatrale «grottesco» o «stereotipato»: un tono simpaticamente «maliziosetto» consente alla cantante un’opportuna restituzione dell’Aria dell’atto primo: È vero che in casa. Paolino è, invece, interpretato da Sun Tianxuefei. Il tenore offre un avvenente ritratto del «giovane di negozio», segreto sposo di Carolina. Il comportamento scenico prevede: momenti di tenera «irresolutezza» (come il Duetto, nell’atto primo, con il Conte: Signor, deh, concedete…) e momenti di amorevole soavità (come l’Aria, nell’atto secondo, Pria che spunti in ciel l’aurora). Nel restituire tutto ciò, il cantante appare perfetto – perché può contare su un valido strumento vocale, che – per «lucentezza» ed «espressività» – è in grado di convincere totalmente. Nel ruolo di Elisetta, Anastasiia Sagaidak. Il soprano riesce a garantire all’aspirante «contessina», figlia maggiore del mercante, una «risolutezza» comportamentale ed emotiva – attraverso cui riesce a dare forma al «risentimento» nutrito da Elisetta nei confronti della sorella. Un’inclinazione al canto virtuosistico consente alla cantante di affrontare l’Aria, nell’atto secondo, Se son vendicata – la cui lettura, agile e puntuale, assume un ruolo fondamentale – anche nella definizione scenica del personaggio. Antimo Dell’Omo interpreta, invece, il Conte Robinson. Il baritono offre un ritratto estremamente simpatico dell’aristocratico, impegnato in vari momenti di «buffo» infingimento – celato e no: dal comportamento, fintamente modesto – nella Cavatina Senza, senza cerimonie (atto primo) –, alle «finzioni», sul proprio conto, raccontate a Elisetta, attraverso l’Aria Son lunatico bilioso (atto secondo). Brillantezza vocale ed efficacia teatrale del fraseggio consentono al cantante un’opportuna creazione del ruolo. Un pubblico, tanto divertito, accoglie entusiasticamente questo Matrimonio. Foto Luciano Romano

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Torino, Teatro Regio. “Andrea Chénier” chiude la stagione lirica 2024-25 (in scena dal 17 al 29 giugno 2025).

gbopera - Lun, 16/06/2025 - 20:14

Andrea Chénier, l’opera più famosa di Umberto Giordano chiude la Stagione d’Opera 2024/2025. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio Andrea Battistoni, al suo primo impegno in veste di Direttore musicale, dopo oltre un decennio di collaborazioni con i complessi artistici del Teatro. Il nuovo allestimento  scenico è firmato da Giancarlo del Monaco. Protagonisti Gregory Kunde, Maria Agresta e Franco Vassallo. Il Coro è istruito, come di consueto, da Ulisse Trabacchin. L’opera è in scena dal 18 al 29 giugno.
Andrea Chénier segna il primo impegno sul podio torinese di Andrea Battistoni dopo la nomina a Direttore musicale del Teatro Regio. Il suo rapporto con i complessi artistici del Teatro è già consolidato: ha debuttato nel 2011 con il Concerto per la Festa della Repubblica in piazza San Carlo, e nel 2014 ha diretto L’elisir d’amore di Donizetti al Festival di Wiesbaden, portando il nome del Regio in una prestigiosa manifestazione internazionale. È poi tornato a Torino per La bohème, nell’ambito del progetto The Best of Italian Opera per l’EXPO 2015, e nel 2019 per il dittico La giara di Casella e Cavalleria rusticana di Mascagni, con la regia di Lavia.
«Andrea Chénier è un’opera che amo profondamente. – confida Giancarlo del Monaco intervistato da Susanna Franchi per il programma di sala – mio padre la cantò accanto a Callas e Tebaldi, e la studiò direttamente con Giordano: è un’opera vocale, potente, che richiede un grande cast. Nella mia carriera ho firmato molti Chénier, tra cui la prima francese al Théâtre de la Bastille. Ma ciò che più mi interessa oggi è guardare alla figura del poeta rivoluzionario come punto di partenza per una riflessione sulle rivoluzioni, sul sogno utopico che si trasforma in incubo. Le utopie non funzionano: generano mostri. La Rivoluzione francese ha aperto la strada a Napoleone, alle guerre, alla repressione, al Terrore. Da Marx a Mao, la storia ci insegna che l’idea di un mondo migliore può trasformarsi in tragedia. La parabola di Gérard è il cuore di questo crollo ideale: da servo a carnefice, poi a uomo distrutto dalla consapevolezza. E l’amore? In questa storia ha un valore salvifico. Chénier, come un Assange ante litteram, viene ucciso per aver detto la verità. Maddalena, da ragazza frivola, diventa eroina. Morire insieme, stretti in un ultimo abbraccio, è la loro apoteosi. In quel momento, l’amore diventa l’unica vera rivoluzione possibile».
Gregory Kunde è il poeta Chénier, tenore tra i più apprezzati del panorama lirico internazionale, affronta la sua undicesima produzione al Regio dopo il successo nel ruolo di Éléazar ne La Juive, dove ha conquistato pubblico e critica con la sua interpretazione intensa e magistrale. Maria Agresta dà voce alla dolente passione di Maddalena: il soprano ritrova il palcoscenico del Regio, dove si affermò con I Vespri siciliani di Giuseppe Verdi, avvio di una carriera che l’ha portata nei più grandi teatri del mondo. Franco Vassallo affronta la complessità del personaggio di Gérard, figura centrale e tormentata del dramma; baritono tra i più autorevoli del panorama internazionale, torna al Regio dopo i successi in ruoli verdiani, apprezzato per la sua forza scenica, il timbro nobile e l’intelligenza musicale. Nei ruoli dei protagonisti si alternano: Angelo Villari (Andrea Chénier), Aleksei Isaev (Carlo Gérard), Yolanda Auyanet e Vittoria Yeo (Maddalena). Completano il cast: Mara Gaudenzi (La mulatta Bersi), Federica Giansanti (La contessa di Coigny), Manuela Custer (Madelon), Adriano Gramigni (Roucher), Nicolò Ceriani (Pietro Fléville e Fouquier Tinville), Vincenzo Nizzardo (Il sanculotto Mathieu), Riccardo Rados (Un “Incredibile”); gli artisti del Regio Ensemble Daniel Umbelino (L’abate poeta), Tyler Zimmerman (Dumas), Janusz Nosek (Schmidt), Albina Tonkikh (La mulatta Bersi).

https://www.teatroregio.torino.it/opera-e-balletto-2024-2025/andrea-chenier

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Firenze, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino & Amici della Musica: Il ritorno di Yo Yo Ma

gbopera - Lun, 16/06/2025 - 18:09

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 87° Festival del Maggio Musicale FiorentinoAmici della Musica di Firenze
Violoncello Yo Yo Ma
Zhao Jiping: “Summer in the High Grassland”; Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore BWV 1007; Ahmet Adnan Saygun: Partita per violoncello solo op. 31; Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello solo n. 6 in re maggiore BWV 1012; George Crumb: Sonata per violoncello; Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello solo n. 3 in do maggiore BWV 1009.
Firenze, 14 giugno 2025
Che Yo Yo Ma rappresenti un grande virtuoso del violoncello è talmente ovvio da indurre a riflessioni dalle argomentazioni più ampie. Il primo dato significativo, entrando in medias res, è stata la vista iniziale sul palco della Sala Metha di una sedia vuota al posto dell’orchestra, ove il silenzio sembrava annunciare l’incanto di un concerto che resterà nella memoria. Felice evento ed una delle tante fruttuose collaborazioni realizzate tra il Festival del Maggio Musicale Fiorentino e gli Amici della Musica. Oltre al sold out si segnala la presenza di molti giovani e musicisti venuti anche da fuori della Toscana. Il maestro, assente da Firenze da 17 anni, come riferito da Stefano Passigli, presidente degli Amici della Musica, è ritornato grazie all’amicizia che lega quest’ultimo al maestro, risultando una grande festa con interminabili standing ovation alla fine della prima parte nonché a conclusione del concerto.
Per molti dei presenti è stata l’occasione di conoscere non solo il valore del concertista ma anche dell’uomo aperto al dialogo tra culture diverse senza dimenticare, tra le varie onorificenze e ruoli, quello di Messaggero di pace delle Nazioni Unite. Yo Yo Ma, nato a Parigi da musicisti cinesi, vissuto e cresciuto a New York, incarna perfettamente la figura del raffinato musicista ma esprime anche il senso profondo di solidarietà con il mondo, fiducioso nel valore della cultura e della musica che travalica il mero senso estetico. Molto significativo, a questo proposito, il fuori programma con il melos pentatonico tratto dal Largo della Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Dvořák, originariamente eseguito dal corno inglese, in una bella trascrizione per violoncello che ha ricordato l’incontro tra vari popoli, auspicio favorevole di un futuro migliore.
Yo Yo Ma, abbracciato il suo strumento, ha iniziato ‘preludiando’ intorno al tema di Gabriel’s Oboe di Ennio Morricone, omaggio al nostro Paese, brano conosciuto dal grande pubblico come colonna sonora del film The Mission. Poi – evocando la visione della foresta sudamericana ove Padre Gabriel, missionario gesuita, riesce a farsi accettare dalla tribù con la struggente musica del suo oboe – si arriva alla contemporaneità con l’esecuzione di Summer in the High Grassland del compositore cinese Zhao Jiping, ricordando le grandi praterie della Mongolia. A tratti è sembrato di percepire la rinascita del ‘canto’ di quella regione asiatica insieme ad antiche ‘stratificazioni sonore’ ispirate dal suono di uno dei più importanti strumenti tradizionali, il morin khuur (violino a testa di cavallo), che per alcune caratteristiche (solo due corde, arco, ecc.), lo rende simile a l’erhu e, in una relazione più dialogica e organologica tra culture diverse, il violoncello è da considerarsi tra i suoi naturali discendenti. Proseguendo le Suites per violoncello solo nn. 1, 6, 3 (BWV 1007, 1012, 1009) di Bach tratte dalle Sei suites per violoncello solo intercalate dalla Partita op. 31 del compositore turco Ahmet Adnan Saygun, autore di musica classica occidentale, scomparso nel 1991, ed una Sonata per violoncello solo del 1955 dello statunitense George Crumb. Ascoltando le suites bachiane, considerato il modello che accomuna tutto il corpus, non è stato difficile seguire la successione alquanto simile dei movimenti delle suites in programma: Prélude, Allemande, Courante, Sarabande e, prima di concludere con la Gigue, Menuet I e II per la n.1, Gavotte I e II per la numero 6 e Bourrée I e II per la n. 3, godendo l’ascolto delle celeberrime pagine.
Riflettendo sulla nota espressione di Mischa Maisky: «Se dovessi pensare alla musica come alla mia religione, allora queste sei suites sarebbero la Bibbia» possiamo affermare che ci è sembrato di vedere Yo Yo Ma avvicinarsi a queste opere con grande ‘devozione’ rivelandosi un autentico ermeneuta e restituendo i principi del ‘contrappunto armonico’ anche di fronte ad una scrittura concepita per una sola voce. Il risultato in tutto il concerto – considerando anche il colore mutevole e le varie nuances ove in alcuni momenti non è stato difficile immaginare altri strumenti ad arco anche non occidentali – è stato l’ascolto e l’interpretazione di un musicista che con il suo strumento ancora oggi continua ad offrire una serie di sensazioni sfocianti nello stupore e nella ‘maraviglia’.
Per i più attenti o ‘navigati’ nella letteratura musicale barocca è stato possibile seguire, inoltre, l’ordito retorico che andava ad arricchire il significato e la feconda espressività bachiana. L’arpeggio dell’accordo di do maggiore oltre che concludere la Gigue dell’ultima suite in programma ha chiuso questo bellissimo concerto in cui Yo Yo Ma è riuscito a creare con ognuno dei presenti una profonda connessione, la stessa che il maestro ha dimostrato di costruire Firenze.

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Éduoard Lalo (1823 – 1892). “Le roi d’Ys” (1888)

gbopera - Dom, 15/06/2025 - 16:58

Opera in tre atti su libretto di Edourd Blau. Judith van Wanroij (Rozenn), Kate Aldrich (Margared), Cyrille Dubois (Mylio), Jérôme Boutillier (Karnac), Nicolas Courjal (Le Roi d’Ys), Christian Helmer (Jahel/ Saint Corentin). Hungarian National Choir, Csaba Somos (maestro del coro), Hungarian National Philarmonic Orchestra, György Vashegyi (direttore).Registrazione: Bela Bartok National Concert Hall, Budapest, 9-11 gennaio 2024. Fondazione Palazzetto Bru Zane Opéra francais vol. n. 43.
Le roi d’Ys” è l’opera più nota di Éduoard Lalo, musicalmente è piccolo capolavoro non ha mai ottenuto il successo che la qualità musicale meriterebbe. L’arrivo di una nuova registrazione discografica – all’interno del ciclo di opere francesi distribuite dalla fondazione Blu Zane – non può che essere accolta con interesse. L’opera fin dal debutto nel 1888 è stata al centro di un vivace dibattito tra wagneriani e anti-wagneriani, entrambe le parti intente ad arruolare il compositore tra le proprie schiere. In realtà l’opera sembra fatta apposta per sfuggire a qualunque definizione. L’ambientazione medioevale, l’uso dell’orchestra, alcuni palesi ricordi – il duetto tra Margared e Karnac sembra una versione “mignon” di quello tra Ortrud e Telramud – mostrano una sicura influenza wagneriana. Di contro la mancanza di un autentico sviluppo sinfonico e la concisione delle forme –l’opera dura circa un’ora e mezza – indicano una concezione del teatro musicale che non potrebbe essere più lontana da quella wagneriana.
La presente edizione discografica ha il suo punto di forza nell’Hungarian National Philarmonic Orchestra, orchestra magnifica per colori, pienezza e pulizia sonora e altrettanto buona è la prova dell’Hungarian National Choir compagine non solo di altissimo livello ma anche in possesso di un’ottima dizione francese. A dirigere i complessi magiari è György Vashegyi direttore che si è affermato come specialista del repertorio classico settecentesco ma che nel corso degli anni ha ampliato i propri interessi all’opera ottocentesca. Il direttore ungherese opta per una lettura contrastata, con sonorità marziali e squillanti così come non teme di lasciarsi andare all’abbandono lirico un po’ maniera dei momenti elegiaci. Manca forse un senso di senso ritmico nelle danze popolari e nei momenti che evocano il folklore bretone. Il direttore riesce a dare una buona coerenza a un’opera che soffre non poco la differenza tra un primo atto abbastanza frettoloso e i seguenti decisamente più ispirati.
La compagnia di canto non esente di difetti, però nel complesso funziona e permette di rendere i caratteri dei personaggi, magari un po’ generici ma efficaci nella loro stilizzazione.
Le vere protagoniste – nonostante il titolo – sono le due figlie del re d’Ys. L’angelica Rozenn dal canto lirico e liliale e la passionale e gelosa Margared che trascinata dalla passione con corrisposta per l’eroico Mylio arriva a tradire e a distruggere la propria patria per poi pentirsi e redimersi salvando la città con il suo autosacrificio.
Kate Aldrich non ha mai avuto una voce “classicamente” bella. Il trascorrere degli anni ora mostra una voce impoverita di armonici e un registro acuto sfogato. La sua forza è sicuramente quella interpretativa con uno spiccato temperamento e un accento di rara forza espressiva che le permettono di dare il giusto rilievo alla personalità estrema di Margared. La “liliale” sorella Rozenn è cantata con timbro di squisito lirismo da Judith van Wanroij che si fa apprezzare anche in un repertorio lontano da quello neoclassico in cui è più abituale ascoltarla. Qualche acuto può risultare non gradevolissimo ma la piacevolezza del timbro e l’eleganza del canto compensano qualche piccola imprecisione.
Decisamente bifronte il Mylio di Cyrille Dubois. La parte è  problematica nell’unire due tipi di vocalità contrastanti muovendo il personaggio tra lirismo e impeti epicheggianti. Dubois è più a suo agio nella prima componente. Il timbro morbido e luminoso e l’eleganza del canto si esaltano nell’Aubade del III atto e nei duetti con Rozenn. Di contro è innegabile che nelle scene dal taglio più drammatico ed eroico epiche la vocalità di Dubois appare più a disagio. Jérôme Boutillier  riesce a gestire, se pur con una voce non particolarmente gradevole, l’ingrata parte di Karnac che, escluso il drammatico duetto con Margared nell’atto terzo, si esprime sempre con un canto declamato un po’ manierato. Nicolas Courjal con la sua bella voce di basso cantante ha la nobile autorità richiesta dal ruolo del Re mentre Christian Helmer affronta con sicurezza e mestiere il doppio ruolo di Jahel e dell’apparizione di Saint Corentin.
Come sempre ricchissimo di testi – in francese e inglese – e splendidamente illustrato il volume di accompagnamento.

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Roma, Teatro di Roma: “Presentata la Stagione 2025/ 2026”

gbopera - Dom, 15/06/2025 - 16:27

Roma, Teatro di Roma
NUOVA STAGIONE 2025-2026
Il Teatro di Roma ha presentato oggi, nella prestigiosa cornice del Teatro Argentina, la nuova stagione 2025-2026. Il claim scelto è “Tutto il teatro”, un’espressione che non è solo slogan, ma dichiarazione programmatica di un’identità plurale, aperta, fortemente radicata nella città e, allo stesso tempo, proiettata verso l’internazionalità. La nuova stagione, che si articola tra i tre poli fondamentali della Fondazione – Argentina, India e Torlonia – si compone di oltre settanta titoli, tra produzioni, coproduzioni e ospitalità, arricchita da progetti per le nuove generazioni, percorsi formativi e cicli divulgativi. A presentare il cartellone sono stati il presidente Francesco Siciliano, il direttore generale Maurizio Roi e il direttore artistico Luca De Fusco, affiancati dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri e dal presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. La presenza delle istituzioni ha ribadito il ruolo centrale del Teatro di Roma nel panorama culturale nazionale e il rinnovato patto tra politica e cultura per rendere il teatro sempre più motore vivo della società. Il Teatro Argentina sarà, come sottolineato da De Fusco, “la casa del grande teatro”. Qui si alterneranno nomi storici e nuove visioni, come nel caso di “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo, nella nuova regia dello stesso De Fusco, e “Prima del temporale”, spettacolo che vedrà protagonista Umberto Orsini sotto la direzione di Massimo Popolizio. Il Teatro India continuerà a rappresentare lo spazio dell’esplorazione e della ricerca, dando voce alla scena contemporanea italiana e internazionale: tra i titoli più attesi “Festa”, progetto di Leonardo Manzan nato da un dialogo interculturale con la Georgia, che nella forma rituale del brindisi tradizionale georgiano intende costruire un ponte tra culture e generazioni, riflettendo sulle attuali tensioni geopolitiche e sulle aspirazioni europee. Sempre a India andrà in scena “Mi manca Van Gogh” di Francesca Astrei, dramma acuto e necessario sul tema del revenge porn, emblema di una stagione che non ha paura di interrogare il presente. Il Teatro Torlonia conferma la sua vocazione come spazio intimo e raffinato, luogo di narrazioni al femminile e approfondimenti introspettivi. Qui troveranno voce storie di donne, registe e attrici che racconteranno il mondo da una prospettiva inedita, spesso taciuta, con uno sguardo carico di forza e verità. La stagione si caratterizza inoltre per un’attenzione speciale ai giovani e alla formazione. Il Corso di perfezionamento per attori diplomati vedrà la partecipazione di importanti nomi del panorama teatrale, con laboratori che si concluderanno in saggi e spettacoli aperti al pubblico. Parallelamente, proseguono gli storici progetti inclusivi come il Laboratorio Piero Gabrielli, che unisce scuola, disabilità e teatro in un percorso di cittadinanza attiva e creatività condivisa. La programmazione per le nuove generazioni include 17 spettacoli, tre dei quali di produzione, e il Festival Contemporaneo Futuro, curato da Fabrizio Pallara, che mira a formare i pubblici di domani attraverso linguaggi scenici freschi, coinvolgenti e profondamente educativi. Accanto alla produzione teatrale, il Teatro di Roma prosegue con il suo impegno culturale nella divulgazione, attraverso format di grande successo che dialogano con la città e il sapere. Si confermano le nuove edizioni di “Luce sull’archeologia”, giunta al suo dodicesimo anno e dedicata a “Roma madre del mondo”, “Quando la scienza fa spettacolo”, “Tra psiche e mito. Dialoghi sull’essere” e “Lo spazio in versi”, ciclo che coniuga poesia e performance. In questi percorsi si riflette l’idea di un teatro che non è solo intrattenimento, ma luogo di riflessione civile, di confronto interdisciplinare, di partecipazione attiva alla vita culturale del paese. Il sindaco Roberto Gualtieri ha sottolineato come la stagione 2025-26 rappresenti un momento di rilancio per la cultura capitolina, non solo per la qualità e la quantità della proposta, ma per la visione articolata che valorizza le diverse missioni dei teatri coinvolti. Il primo cittadino ha ricordato la centralità del Teatro di Roma quale motore di produzione teatrale e ha annunciato con entusiasmo la riapertura del Teatro Valle, struttura storica finalmente restituita alla città. Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio, ha elogiato la coesione istituzionale che ha reso possibile una stagione così articolata, ribadendo la convinzione che la cultura debba essere il collante della società in un’epoca frammentata e divisiva. In questo spirito ha lanciato un “patto per il teatro” con il sindaco Gualtieri, nella prospettiva condivisa di rilanciare anche altre strutture come il Teatro Eliseo, simbolo di una memoria collettiva che merita attenzione e cura. Il Teatro di Roma si presenta così, in questa nuova stagione, come un organismo vivo, dinamico, attraversato da tensioni feconde e dialoghi trasversali. Un teatro che ha il coraggio di confrontarsi con il passato e di farsi attraversare dalle urgenze del presente, senza rinunciare alla bellezza, all’ascolto, alla comunità. Un teatro che è, finalmente, tutto. Qui per tutti i dettagli.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Domenica della SS.Trinità

gbopera - Dom, 15/06/2025 - 00:21

La terza delle quattro Cantate approntate da Bach per la festa della SS.Trinità è  Es ist ein trotzig und verzagt Ding BWV 176 eseguita la prima volta a Lipsia il 27 maggio 1725. La Cantata su testo di Marianne von Ziegler  e con il Corale finale  di Paul Gerhardt del 1653  (su testo di Martin Lutero) si apre con un riferimento al Profeta Geremia, “C’è qualcosa di ostinato e timoroso nel cuore di ogni essere umano”, impostato con la severità di un tempo di fuga snella ma  implacabile nel suo rigore in contrasto con  gli archi che suonano  frasi lunghe e morbide. La partitura prosegue con un recitativo del Contralto  (Nr.2) che presenta riferimenti biblici a Giosuè (10; 12-14) “Per Giosuè, il sole si dovette così a lungo fermare fino a quando la vittoria non fu certa” in contrasto con il riferimento a Giovanni  (Cap. 3, 2) che parla di Nicodemo il fariseo che si reca da Gesù di notte e, ammesso che intuisce che Gesù è “venuto da Dio”, rimane comunque turbato, ponendo varie domande. Questo elemento lo troviamo nell’aria del soprano (Nr.4) una graziosa gavotta che però non esprime musicalmente il senso del testo che tratta della timidezza di un cristiano (il riferimento al già citato Nicodemo) che si trova di fronte a Gesù, l’operatore di miracoli pieno della presenza di Dio.  Il nr.4 è un recitativo secco cantato dal basso che progressivamente si trasforma in arioso. Ancora dal sapore danzante è la seconda aria (Nr.5) cantata dal Contralto, in forma di trio sonato per una coppia di oboi, oboe da caccia e continuo. La partitura si conclude con un’armonizzazione a quattro voci del corale di Gerhardt per coro e orchestra completa colla parte.
Nr.1 – Coro
C’è qualcosa di ostinato e timoroso nel cuore di ogni essere umano.
Nr.2 – Recitativo (Contralto)
Credo fosse più che altro per paura,
Che Nicodemo di giorno non osava
Andare da Gesù, ma solo di notte.
Per Giosuè, il sole si dovette così a lungo fermare
Fino a quando la vittoria non fu certa;
Nicodemo invece aveva un altro desiderio:
Oh, se solo lo vedessi tramontare!
Nr.3 – Aria (Soprano)
La tua amata luce, di solito così sfolgorante
Deve essere offuscata per me,
perché io desidero interrogare il Maestro,
Ma non oso farlo di giorno.
Nessuno può compiere tali miracoli,
E visto che la sua onnipotenza e la sua natura
Sembrano venire da Dio,
Lo Spirito del Signore deve essere su di lui
Nr.4 – Recitativo (Basso)
E così non meravigliarti, Maestro,
Perché io ti interrogo la notte!
Io temo che durante il giorno
La mia debolezza non possa reggere la prova.
Perciò mi consola che tu accoglierai e innalzerai
Il mio cuore e la mia anima alla vita
Perché chiunque, solo che creda in te,
Non sarà perduto.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Fatevi coraggio, spiriti timorosi e impauriti,
Tornate in voi, ascoltate cosa promette Gesù:
Che per mezzo della fede io conquisterò il Paradiso.
Quando la promessa si compirà,
Da lassù
Renderò lode e gloria
A Padre, Figlio e Spirito Santo
Che sono uno e trino.
Nr.6 – Corale
Per questo tutti insieme
Passeremo le porte del cielo
E una volta nel tuo regno
Canteremo senza fine,
Che tu sei l’unico re,
Alto sopra tutti gli dei,
Dio Padre, Figlio e Spirito Santo,
Guardiano e salvatore dei giusti,
Un essere, tre persone.
Traduzione Alberto Lazzari

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Es ist ein trotzig und verzagt Ding” BWV 176

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Presentata la stagione 2025-2026”

gbopera - Sab, 14/06/2025 - 16:49

PRESENTATA LA STAGIONE 2025–2026 DEL TEATRO QUIRINO “VITTORIO GASSMAN”
Un cartellone d’eccellenza tra grandi classici e nuove sfide sceniche. Rosario Coppolino annuncia anche la prelazione sull’acquisto dell’immobile storico
Il Teatro Quirino “Vittorio Gassman” ha presentato ufficialmente la stagione teatrale 2025–2026, con una conferenza stampa guidata dal direttore Rosario Coppolino, che ha condiviso con il pubblico e la stampa un doppio annuncio: non solo un programma artistico d’altissimo profilo, ma anche la notizia dell’esercizio del diritto di prelazione sull’acquisto dell’immobile da parte della Quirino srl, che segna un passo decisivo verso la piena autonomia e continuità della storica istituzione romana. In un passaggio di testimone che ha visto nel 2023 la conclusione della direzione di Geppy Gleijeses (in carica dal 2009, dopo l’Ente Teatrale Italiano), il nuovo corso guidato da Coppolino si contraddistingue da subito per ambizione culturale e progettualità strutturale. Il direttore ha infatti ufficializzato il versamento della caparra per l’acquisto del teatro, esercitando il diritto di prelazione previsto per il conduttore dell’immobile, di proprietà statale dal 1871. Un’azione che blocca la precedente iniziativa di acquisto avviata dallo stesso Gleijeses e che garantisce al Quirino una prospettiva stabile e strategica nel panorama teatrale nazionale. Il sipario si alzerà il 30 settembre 2025 con “Titus – Why don’t you stop the show?” di William Shakespeare, un adattamento potente diretto da Davide Sacco e interpretato da Francesco Montanari e Marianella Bargilli. Seguirà “Indovina chi viene a cena?” di William Arthur Rose, per la regia di Guglielmo Ferro, con Cesare Bocci e Vittoria Belvedere, una riflessione teatrale sulla tolleranza e l’incontro tra differenze. A ottobre, “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello con Pippo Pattavina per la regia di Giampaolo Romania, lascerà spazio a una nuova produzione di “Sogno di una notte di mezza estate” diretta da Daniele Salvo con Melania Giglio, e al poliziesco “Tenente Colombo, analisi di un omicidio” con Gianluca Ramazzotti e la regia di Marcello Cotugno. Dal 25 novembre al 7 dicembre “La vedova scaltra” di Goldoni vedrà protagonisti Caterina Murino e Giulio Corso, diretti da Giancarlo Marinelli. Chiuderà l’anno “La vita davanti a sé” di Romain Gary con Silvio Orlando, in scena dal 10 al 21 dicembre, una storia di fragilità, accoglienza e redenzione. Dal 26 dicembre all’11 gennaio 2026, “Il medico dei pazzi” di Eduardo Scarpetta sarà affidato all’energia comica di Gianfelice Imparato e alla regia di Leo Muscato. A seguire, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo (21–25 gennaio), vedrà in scena Alessandro Haber diretto da Paolo Valerio. Laura Morante tornerà al teatro con “Insieme” (27 gennaio–1 febbraio), diretta da Fabio Marra, seguita da “L’amore non lo vede nessuno” (3–8 febbraio), con Stefania Rocca e Massimo Venturiello per la regia di Piero Maccarinelli. Dal 10 al 15 febbraio sarà la volta de “La rigenerazione” di Italo Svevo, con Nello Masdia e Roberta Caronia, diretti da Valerio Santoro. Dal 17 al 22 febbraio Vanessa Gravina e Nicola Rignanese interpreteranno il dramma psicologico “Pazza” di Tom Topor, con la regia di Fabrizio Coniglio. A marzo, “Gli innamorati” di Goldoni (24 febbraio–1 marzo) diretto da Roberto Valerio, e “Il Padrone” di Gianni Clementi (3–15 marzo), ambientato nella comunità ebraica degli anni ’50, con Nancy Brilli, Fabio Bussotti e Claudio Mazzenga, per la regia di Pierluigi Iorio. Dal 17 al 22 marzo, “Il berretto a sonagli” di Pirandello con Enrico Guarnieri e Nadia De Luca, sarà seguito da “La grande magia” di Eduardo De Filippo (24–29 marzo), con Natalino Balasso e Michele Di Mauro, regia di Gabriele Russo e musiche originali di Antonio Della Ragione. Aprile si apre con “La Mandragola” di Machiavelli (1–6 aprile), con Massimo Venturiello e Francesco Salvi, diretti da Guglielmo Ferro. Dal 21 al 26 aprile andrà in scena “Pignasecca Pignaverde” di Emerico Valentini, nella storica versione interpretata da Gilberto Govi, qui riletta da Tullio Solenghi e il Teatro Nazionale di Genova. La stagione si chiude con “Falstaff – l’arte di farla franca”, tratto da Shakespeare e adattato da Davide Sacco, interpretato da Emilio Solfrizzi: un’ode alla leggerezza e all’intelligenza teatrale, in scena dal 28 aprile al 3 maggio 2026. Le produzioni saranno in parte firmate dal Teatro Quirino, in collaborazione con importanti enti nazionali e compagnie private. La biglietteria del Teatro è attiva online e presso il botteghino. Sono previste riduzioni per studenti, over 65 e abbonamenti a scelta. Il Teatro Quirino, con questa nuova stagione, si conferma punto di riferimento della scena romana e italiana, proponendo un cartellone ricco, variegato e di alto profilo, in grado di parlare a pubblici diversi e alle generazioni future. Qui per tutte le informazioni: www.teatroquirino.it

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Roma, Villa di Massenzio: “Viaggi nel passato”

gbopera - Sab, 14/06/2025 - 15:54

Roma, Villa di Massenzio
VIAGGI NEL PASSATO
promossI dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
C’è un punto lungo la via Appia in cui il tempo non è mai passato del tutto. Un tratto di campagna solitaria, sospesa tra il silenzio delle pietre e il richiamo lontano dei pini, dove la città si ritira e affida alla memoria il compito di farsi voce. È qui, tra il secondo e il terzo miglio dell’antica strada consolare, che sorge la Villa di Massenzio, luogo di malinconica bellezza e teatro di una delle iniziative più evocative del Giubileo 2025: le aperture serali intitolate Viaggi nel passato, promosse dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Il progetto si sviluppa attraverso due serate principali – sabato 14 e sabato 28 giugno – in cui il sito archeologico resterà aperto dalle 19.00 alle 22.00 (con ultimo ingresso alle 21.30), offrendo ai visitatori la possibilità di esplorare l’area monumentale accompagnati da punti informativi in italiano e in inglese. Il tutto incorniciato dalla luce dorata del tramonto e da un sapiente sistema di illuminazione che ridisegna i profili dell’antico. Non si tratta, dunque, di una semplice visita, ma di un vero e proprio attraversamento poetico della storia, guidato da voci competenti e da un’atmosfera che tende naturalmente alla riflessione. Al centro dell’itinerario si staglia la figura tragica di Massenzio, imperatore per breve tempo, caduto nella celebre battaglia del Ponte Milvio nel 312 d.C. contro Costantino. Figlio di Massimiano, Massenzio scelse di costruire in questo lembo di Agro Romano una residenza monumentale che potesse fungere da dichiarazione dinastica, da rifugio del potere e da spazio sacro per la memoria del figlio Romolo, morto in giovane età. L’architettura della villa riflette questa duplice vocazione: da un lato la monumentalità del circo e del palazzo, dall’altro la funzione commemorativa del mausoleo. Il complesso è articolato in tre corpi principali. Il primo, il palazzo, oggi parzialmente leggibile nei suoi ambienti di base, doveva offrire all’imperatore una vista privilegiata sul paesaggio circostante. Il secondo, il circo, sorprende per la sua conservazione: lungo oltre 500 metri, è uno dei pochissimi esempi ancora ben leggibili di impianto da corse dei carri, con tanto di spina centrale e torri laterali. Infine, il terzo elemento è il mausoleo dinastico dedicato a Romolo, il giovane figlio dell’imperatore: una struttura circolare, racchiusa da un quadriportico, eretta lungo la via Appia affinché tutti i viandanti potessero vederla e, in qualche modo, condividerne il lutto. Non è difficile, attraversando questi spazi nelle ore del crepuscolo, percepire il sentimento profondo che li attraversa: una tensione tra gloria e rovina, tra affermazione e fine, tra eternità e impermanenza. Ed è proprio in questa cornice che si inserisce l’evento musicale previsto per sabato 21 giugno, in occasione della Festa della Musica. Il Mausoleo di Romolo accoglierà L’Amor che move il sole e l’altre stelle, concerto corale curato dall’Associazione Jubilus Ensemble, ispirato all’ultimo verso della Commedia di Dante. La scelta del luogo e del repertorio non è casuale: in quello spazio circolare che fu pensato per onorare un figlio perduto, si leveranno voci a celebrare l’armonia dell’universo, a cantare l’amore come forza generatrice e trasfigurante. L’ingresso è gratuito e senza prenotazione, fino a esaurimento posti. Tutte le attività inserite nel programma sono a titolo gratuito e proseguiranno anche nei mesi estivi. Le informazioni complete sono disponibili sul sito della Sovrintendenza e al numero 060608. Al di là della fruizione immediata, l’iniziativa assume un valore simbolico: quello di restituire attenzione e centralità a una figura imperiale spesso trascurata, e di farlo in uno spazio che non è museo, ma territorio. La Villa di Massenzio non si visita, si attraversa. Non si osserva soltanto, ma si ascolta. Tra le sue pietre, l’eco della storia non è didascalica, ma emotiva. In una Roma che si prepara a ricevere milioni di pellegrini, questi appuntamenti restituiscono alla città un volto più intimo e meditativo, dove la cultura si unisce alla bellezza e il sapere si accompagna alla lentezza. Forse è proprio questo, oggi, il vero lusso: concedersi un’ora di luce tra le rovine, in ascolto delle cose che non passano. Ph.Monkeys Video Lab

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Roma, Teatro dell’Opera: “Carmen” dal 21 al 28 giugno 2025

gbopera - Sab, 14/06/2025 - 08:00

Roma, Teatro dell’Opera
CARMEN
Il Teatro dell’Opera di Roma è lieto di annunciare, per la stagione 2024/2025, la ripresa di uno degli allestimenti più iconici del suo repertorio: Carmen di Georges Bizet, nella leggendaria messinscena del 1970 con le scene e i costumi firmati da Renato Guttuso. Un ritorno atteso e carico di valore storico e artistico, che restituisce al pubblico la vibrante materia teatrale di uno spettacolo divenuto parte integrante della memoria visiva dell’istituzione capitolina. Opera in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratto dall’omonimo romanzo di Prosper Mérimée, Carmen rappresenta uno degli esempi più alti della drammaturgia musicale ottocentesca, dove l’ardore dell’Espagne rêvée si fonde con una scrittura orchestrale di raffinata precisione e con una caratterizzazione vocale di straordinaria modernità psicologica. Alla direzione dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma sarà Omer Meir Wellber, tra i più incisivi direttori della scena internazionale, capace di unire rigore strutturale e libertà interpretativa. La regia è firmata da Fabio Ceresa, che si confronta per la prima volta con la messa in scena guttusiana, curandone la ripresa con sensibilità filologica e apertura contemporanea. Nel ruolo eponimo si alterneranno Gaëlle Arquez e Ketevan Kemoklidze, mezzosoprani di caratura internazionale già applauditi nei più importanti teatri europei. Al loro fianco, Don José sarà interpretato da Joshua Guerrero e Jorge de León, due tenori dalla vocalità appassionata e duttile. Escamillo vedrà protagonisti Erwin Schrott e Andrei Bondarenko, mentre il ruolo di Micaëla sarà affidato alle voci liriche di Mariangela Sicilia ed Ekaterina Bakanova. Completano il cast Meghan Picerno (Frasquita), Anna Pennisi (Mercedes), Alessio Verna (Dancairo), Blagoj Nacoski (Remendado), Nicolas Brooymans (Zuniga) e Matteo Torcaso (Morales). Il Coro, preparato dal maestro Ciro Visco, e il Coro di Voci Bianche diretto dal maestro Alberto De Sanctis, daranno piena voce a quella coralità drammatica che rende Carmen un’opera tanto spettacolare quanto intimamente politica, portatrice di un’inquietudine moderna sul destino, il desiderio e la libertà. L’allestimento, che fa parte del patrimonio scenografico del Teatro dell’Opera di Roma, conserva intatta la potenza evocativa della visione di Renato Guttuso, capace di sublimare la tradizione figurativa spagnola in una sintesi espressionista densa di simboli e materia pittorica. In questa ripresa, il recupero filologico si intreccia con un rinnovato sguardo registico che ne evidenzia i tratti universali, facendone non un reperto, ma una testimonianza viva di un teatro in perpetua trasformazione. Le recite di Carmen si terranno nei giorni 22, 25 e 27 giugno 2025.
Per informazioni:
www.operaroma.it
Ufficio Stampa – Teatro dell’Opera di Roma
stampa@operaroma.it
06 48160255
Ufficio Comunicazione
Teatro dell’Opera di Roma

 

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Cremona, Monteverdi Festival 2025: “Orfeo ed Euridice”

gbopera - Ven, 13/06/2025 - 23:36

Cremona, Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2025
“ORFEO ED EURIDICE”
Azione teatrale in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck
Orfeo CECILIA BARTOLI
Euridice e Amore MÉLISSA PETIT
Les Musiciens du Prince – Monaco
Il Canto di Orfeo
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del Coro Jacopo Facchini
Cremona, 11 giugno 2025
Leggere il nome di Gluck nel programma di un Festival dedicato a Monteverdi potrebbe destare qualche perplessità. Ma se persino il rivoluzionario, col suo voler uccidere i padri, finisce per resuscitare i nonni, a maggior ragione farà lo stesso il più moderato riformatore. In fondo, la cosiddetta «riforma gluckiana» (in verità un fine progetto diplomatico del Principe Kaunitz, con la complicità del conte Durazzo, e gli ingegni compositivo di Gluck, letterario di de’ Calzabigi e coreografico dell’ingiustamente marginalizzato Angiolini) altro non fa che sfrondare l’opera italiana del sovraccresciuto baroccume, e riportarla, per dir così, all’originario ceppo monteverdiano. D’altro canto però, se l’opera italiana ha da esser riformata, è necessariamente al suo contraltare francese, la Tragédie Lyrique, che bisogna guardare. E non soltanto per ragioni puramente artistiche (su tutte, la preminenza del testo poetico sul virtuosismo canoro e l’essenzialità narrativa) ma anche produttive: il sistema impresariale italiano mal si presta ad intellettualistiche sperimentazioni, mentre a Corte non valgono le leggi del mercato (e in Francia l’opera è, da sempre, questione di Stato). Sicché non stupisce che dopo l’internazionale viennese, sua culla, l’Orfeo abbia raggiunto quella parmense, di corti, avamposto della parigina. Difatti, roccaforte della cultura francese nella penisola, già con Guillaume du Tillot e, tramite il solito Algarotti, con il napoletano Tommaso Traetta, a Parma il vento del teatro francese aveva preso prepotentemente a spirare.
Per l’occasione Gluck rivede la troppo esigente orchestrazione viennese, e sfoltisce leggermente perché la sua «azione teatrale» in tre atti deve diventare il terzo ed ultimo atto di uno spettacolo composito, «Le feste d’Apollo, celebrate sul Teatro di Corte nell’agosto del MDCCLXIX per le auguste seguite nozze tra il Real Infante Don Ferdinando e la R. Arciduchessa Infanta Maria Amalia».Ma soprattutto riscrive la parte del protagonista per un nuovo interprete: sempre un castrato, Giuseppe Millico, questa volta però dalla voce non di contralto, com’era quella di Gaetano Guadagni a Vienna nel 1762, ma di soprano. È questo il tratto saliente della versione parmense del 1769, ed è questo il motivo dell’insolita scelta: la riscrittura per Millico calzando splendidamente alla voce di Cecilia Bartoli. La ripresa del Coro iniziale “Ah! Se intorno a quest’urna funesta” in chiusura dell’opera è una soluzione drammaturgica di indubbio effetto e sottile sagacia. Così si ripristina rettamente secondo le fonti antiche la «catastrofe» da de’ Calzabigi a malincuore sacrificata all’assolutismo del lieto fine, e si evita quel terzetto che, per pochi minuti di musica, imporrebbe un’interprete di più. Si tratta, è vero, di un arbitrio: mai un finale tragico avrebbe potuto coronare un festeggiamento nuziale. Ma cosa c’è di più lontano dalla prassi esecutiva originale del ligio rispetto di una particolare versione dell’opera?
Gianluca Capuano, fra i massimi esperti di pratiche esecutive antiche, già al Festival di Salisburgo 2023, con gli stessi complessi e lo stesso cast, aveva messo a punto questa nuova versione dell’Orfeo: basata su quella parmense, ma con l’aggiunta dell’«Air» (il numero di danza) delle furie dalla successiva versione parigina del 1774, e con l’inedito finale che s’è detto. Con la differenza che a Cremona l’Ouverture è ritornata al suo posto, laddove a Salisburgo ne faceva le veci un numero dal balletto Don Juan del 1761. Per dire che un approccio libertario, anzi libertino, volto al piacere del fare ed ascoltare musica, è forse il più congeniale al repertorio settecentesco.
Con Les Musiciens du Prince – Monaco l’intesa è perfetta. Laccio alla libertà esecutiva è solo la squisita sensibilità del concertatore accortissimo. Ne risulta una sterminata varietà, sia nell’articolazione della frase sia nella produzione timbrica di tinte diversissime. Il Canto di Orfeo, diretto da Jacopo Facchini, è del pari un complesso affiatato di finissimi musicisti, capaci di trattare le proprie voci quali strumenti: come suggeriscono i trattatisti antichi e come, forse, dovrebbe esser sempre. Dolcissima nel ruolo d’Euridice, in quello d’Amore un filo caricaturale nell’espressione, Mélissa Petit ha voce deliziosa e timbratissima, morbida e luminosa, che mette al servizio del testo. Del resto, nel saper far brillare una cantante, Capuano è formidabile. Cecilia Bartoli è, come tutti sanno, musicista, cantante, impresaria; e tutt’e tre ai massimi livelli. Voce personalissima ed immediatamente riconoscibile, vitalità ed esuberanza irresistibili fanno della grande cantante più che una diva una vera icona o, se si può dire così, una «maschera vocale». Quelli che potrebbero sembrare eccessi espressivi in realtà non lo sono, perché appartengono al suo carisma naturale: non si tratta di effetti, né di forzature, ma della sua spontanea, e straordinaria, disposizione. Al contempo, la Bartoli è ormai una tipologia vocale: come la Falcon con il «soprano Falcon», così la Bartoli potrebbe dare il nome ad un «soprano Bartoli». Che si distinguerebbe per la bellezza e la corposità del timbro più che per la vastità di proporzioni della voce; e soprattutto per la straordinaria versatilità, sia prettamente musicale sia espressiva in senso lato, e l’attitudine scenica. Il sommesso finale, con quel suo pianissimo sospeso nell’irrealtà, ha scatenato quasi un minuto intero di estatico silenzio, cui è seguito un festoso ed interminabile delirio d’applausi.

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“Die Zauberflöte”: ultimo appuntamento con la stagione lirica dell’Opera Carlo Felice di Genova

gbopera - Ven, 13/06/2025 - 17:38

Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Wolfgang Amadeus Mozart, l’ultimo appuntamento con la stagione lirica dell’Opera Carlo Felice 2024-25, è in programma da venerdì 13 fino a domenica 22 giugno 2025.
Direttore Giancarlo Andretta, regia di Daniele Abbado,scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Calì, coreografie DEOS, luci di Luciano Novelli.
Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini. Con i Solisti dell’Accademia di alto perfezionamento e inserimento professionale dell’Opera Carlo Felice Genova diretta da Francesco Meli. Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Sarastro: Antonino Arcilesi, Giovanni Augelli (14,20, 22)
Tamino: Samuele Di Leo, Yiyan Gong (14,20, 22)
Oratore/Primo sacerdote: Luca Romano
Secondo sacerdote/Primo armigero: Gianluca Moro
Regina della Notte: Martina Saviano, Sona Gogyan* (14,20, 22)
Pamina: Gabriella Ingenito, Ilaria Monteverdi (14,20, 22)
Prima dama: Gesua Gallifoco
Seconda dama: Silvia Caliò
Terza dama: Alena Sautier
Tre geni: Arianna Russo, Vittoria Trapasso, Eliana Uscidda, Denise Colla, Michela Gorini, Lucilla Romano
(Solisti del Coro di voci bianche del Teatro Carlo Felice)
Una vecchia (Papagena): Giada Venturini, Eleonora Marras* (14,20, 22)
Papageno: Ernesto de Nittis, Willingerd Giménez (14,20, 22)
Monostatos: Davide Zaccherini, Timóteo Bene Júnior (14,20, 22)
Secondo armigero: Davide Canepa
Tre schiavi: Thomas Angarola, Federico Benvenuto, Stefano Pavone

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Pompei, Parco Archeologico: “La Casa del Giardino di Ercole o Domus del Profumiere”

gbopera - Gio, 12/06/2025 - 23:59

Pompei, Parco Archeologico
CASA DEL GIARDINO DI ERCOLE O DOMUS DEL PROFUMIERE
Pompei, 11 giugno 2025
La recente riapertura della cosiddetta Casa del Giardino di Ercole, situata nell’Insula 8 della Regio VI di Pompei, rappresenta un momento significativo nel panorama degli interventi di valorizzazione e di studio congiunto tra archeologia, botanica storica e cultura materiale. L’edificio, noto anche come Casa del Profumiere, in virtù della presenza di numerosi unguentari e strumenti legati alla lavorazione di essenze, è oggetto di un’operazione di restituzione filologica del giardino antistante, interpretato non come semplice spazio decorativo, ma quale struttura produttiva attivamente inserita nel sistema economico della domus. Il progetto, inaugurato l’11 giugno 2025, ha visto la messa a dimora di oltre 800 rose antiche, 1.200 viole, 1.000 esemplari di Ruscus, nonché varietà arboree come Prunus avium, Malus cydonia e Vitis vinifera, ricollocate secondo principi di stratificazione paleoambientale in coerenza con i dati pollinici, fitoliti e macroresti analizzati fin dagli anni Cinquanta da Wilhelmina Jashemski. Tale azione di ripristino è stata resa possibile grazie a una sponsorizzazione tecnica dell’Associazione Rosantiqua, in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli e sotto la supervisione scientifica di studiosi quali Antonio De Simone, Salvatore Ciro Nappo, Luigi Frusciante e Gaetano Di Pasquale. L’abitazione, databile nella sua prima configurazione al III secolo a.C., mostra, secondo le evidenze stratigrafiche rilevate nei cicli di scavo del 1953–1954, 1971–1972 e 1985–1988, una serie di trasformazioni edilizie tipiche del processo di ristrutturazione tardo-repubblicano delle unità abitative pompeiane. A partire dalla metà del I secolo a.C., l’insula risulta oggetto di una razionalizzazione degli spazi abitativi, con demolizioni selettive e accorpamenti funzionali alla riconversione produttiva di alcune domus. Nel caso specifico della Casa del Giardino di Ercole, il sisma del 62 d.C. rappresenta uno spartiacque cronologico per l’ampliamento e la conversione dell’area ortiva in hortus specializzato nella coltivazione di essenze floreali e arboree destinate alla lavorazione di profumi e unguenti. L’identificazione funzionale del sito si basa sul rinvenimento di contenitori vitrei (ampullae), pestelli, recipienti in ceramica e resti di apparati di triturazione, associabili a un’attività di trasformazione e commercializzazione. Il giardino, indagato secondo criteri archeobotanici, si caratterizza per la presenza di un sistema di irrigazione antico, raramente documentato in altri contesti pompeiani, e per una canalizzazione del flusso idrico coerente con l’organizzazione orticola descritta da Columella e Plinio il Vecchio. Il ripristino di tale sistema ha comportato una rilettura integrata del piano di campagna originario, con attenzione all’orientamento solare, alla disposizione dei pergolati e alla corretta collocazione dei tralci di vite secondo i modelli agronomici antichi. Il valore simbolico e devozionale del giardino si manifesta nella ricostruzione del larario, dove è stata riposizionata – in forma di copia in terracotta – la statua di Ercole ritrovata durante gli scavi, già considerata elemento distintivo dell’edificio. Adiacente al larario si colloca il triclinio estivo, ricostruito sulla base delle impronte negative dei pali lignei rinvenute durante le indagini, e con una resa prospettica che riprende l’originaria scenografia vegetale. L’iscrizione cras credo (“domani si fa credito”), posta sull’ingresso dell’abitazione, è stata oggetto di analisi epigrafica e semantica: interpretata in passato come formula scherzosa o proverbiale, si inserisce più verosimilmente in un contesto commerciale e pubblico, suggerendo una funzione ibrida della domus, oscillante tra spazio privato e luogo di transazione. L’operazione di valorizzazione della Casa del Giardino di Ercole non si limita a un intervento estetico o didattico. Essa costituisce un modello di archeologia paesaggistica, capace di restituire non soltanto la volumetria degli ambienti ma anche la funzione produttiva e rituale del giardino antico, in un’ottica di archeologia sensoriale e culturale. La rinnovata fruizione – prevista ogni martedì come “casa del giorno” – consente ai visitatori di attraversare un contesto immersivo, in cui lo spazio domestico si fonde con il paesaggio odoroso e vegetale, secondo una prassi che i Romani non concepivano come separabile. L’intervento, esemplare nella convergenza tra fonti materiali e ricostruzione documentaria, dimostra come l’archeologia possa restituire significato a quelle componenti “mute” del paesaggio antico – terra, acqua, piante – che solo uno sguardo interdisciplinare è in grado di far parlare. Non più soltanto pietre e muri, ma forme di vita e modelli economici, sistemi di gestione delle risorse e conoscenze agronomiche tradotte in scelte spaziali. Infine, la collaborazione tra enti pubblici e soggetti privati, come Rosantiqua, testimonia la crescente importanza delle sinergie tra ricerca e mecenatismo culturale. In questo contesto, Pompei si conferma non solo sito archeologico, ma laboratorio vivo per la sperimentazione di un’archeologia inclusiva, capace di integrare la precisione dello scavo stratigrafico con la dimensione emozionale e paesaggistica della restituzione storica.

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Con “Nabucco” da domani si alza il sipario sul 102° Arena di Verona Opera Festival

gbopera - Gio, 12/06/2025 - 19:53

Venerdì 13 giugno si alza il sipario sul 102° Arena di Verona Opera Festival: Nabucco di Verdi, intenso affresco corale di ispirazione biblica, diventato “colonna sonora” del Risorgimento italiano, rivive in una produzione tutta nuova firmata in ogni aspetto dal visionario Stefano Poda. L’opera diventa un viaggio senza tempo dal conflitto alla riconciliazione, dalla superbia alla speranza, tra umanesimo e tecnologia: i popoli in conflitto di Nabucco sono tutti gli uomini, tutti i popoli, di ieri, di oggi, e forse di domani, che scoprono sé stessi attraverso la separazione, violenta e dolorosa ma con la speranza di un nuovo ricongiungimento. Una produzione che è anche una grandissima sfida tecnica per le maestranze areniane e per i numerosi laboratori coinvolti, con inedite soluzioni per i 3.000 costumi e spettacolari effetti scenici. In scena 400 tra artisti, mimi, figuranti, Ballo, impegnati in inedite coreografie di battaglia di scherma, e naturalmente il Coro, vero protagonista dell’opera.
È il nuovo Nabucco  che Rai Cultura propone sabato 21 giugno alle 21.20 su Rai 3, in occasione della Giornata Mondiale della Musica, in collaborazione con il Ministero della Cultura. In scena Amartuvshin Enkhbat. Accanto a lui Anna Pirozzi come Abigaille, Vasilisa Berzhanskaya (Fenena), Francesco Meli (Ismaele), Roberto Tagliavini (Zaccaria), Carlo Bosi (Abdallo), Gabriele Sagona (gran sacerdote di Belo) e Daniela Cappiello (Anna). Oltre 160 gli artisti del Coro diretti da Roberto Gabbiani, e 120 i professori dell’Orchestra di Fondazione Arena, diretti dall’esperto maestro Pinchas Steinberg, che fa il suo atteso ritorno a Verona a 25 anni dal suo esordio areniano.
L’opera replica anche sabato 14 giugno, con nuovi debutti nel cast: Maria Josè Siri, Galeano Salas, Alexander Vinogradov, Matteo Macchioni, Elisabetta Zizzo.  Nelle  successive recite dell’opera troveremo Anna Netrebko interpreta per la prima volta in Italia la parte di Abigaille, (17, 24, 31/7), con Olga Maslova (dal 9 agosto) accanto alla Fenena di Aigul Akhmetshina. Baritoni titolari saranno Luca Salsi e Youngjun Park, mentre nei panni di Zaccaria si avvicendano anche Christian Van Horn e Simon LimNabucco è solo la prima delle 51 serate di spettacolo del Festival 2025, che comprende 5 titoli d’opera e 5 fra concerti e balletti fino al 6 settembre. Confermati gli orari d’inizio spettacolo già in vigore la scorsa estate: le rappresentazioni di giugno iniziano alle 21.30, quelle di luglio alle 21.15 e in agosto e settembre il sipario si alza alle 21. I biglietti per tutte le date sono già in vendita su arena.it, sui canali social dell’Arena di Verona e su Ticketone. Speciali riduzioni sono riservate agli under 30 e agli over 65. 

 

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Napoli, Teatro Bellini: la Stagione 2025/26

gbopera - Gio, 12/06/2025 - 17:19

È stata presentata la Stagione 2025/26 del Teatro Bellini di Napoli. «[…] Abbiamo costruito una programmazione che sfida le convenzioni, che intreccia classico e contemporaneo, che mette in dialogo voci diverse per raccontare il nostro tempo con intensità e verità […]»: Gabriele Russo, direttore artistico del Bellini.
La Stagione riprenderà, a settembre, con Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo e Franca Rame, che torna in scena dal 26 settembre al 12 ottobre 2025 (regia di Antonio Latella). Dal 14 al 19 ottobre 2025, andrà in scena Finale di Familie Flöz (regia di Hajo Schüler), spettacolo con cui verrà inaugurata la Stagione – che proseguirà con Donald. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man di e con Stefano Massini, in scena dal 21 al 26 ottobre 2025. A novembre, invece, dal 4 al 9, andrà in scena L’Empireo (The Welkin) di Lucy Kirkwood (traduzione di Monica Capuani, Francesco Bianchi; regia di Serena Sinigaglia). Un altro importante appuntamento teatrale è Finale di partita di Samuel Beckett (traduzione di Carlo Fruttero; regia di Gabriele Russo), in scena dal 13 al 30 novembre 2025: «[…] Il cuore del dramma beckettiano resta lo stesso: una famiglia chiusa in un eterno gioco al massacro. Ma oggi, dopo il trauma collettivo della Pandemia, il senso di questa segregazione assume nuove sfumature. […]» (Gabriele Russo). Dal 2 al 7 dicembre 2025, andrà in scena Amleto², uno spettacolo di e con Filippo Timi: «[…] L’artista stravolge il testo shakespeariano, rovescia passioni e personaggi nella stessa gabbia da circo all’interno della quale si consuma un elogio della follia. […]». La Stagione 2025/26 proseguirà con un appuntamento dedicato alla danza, “Dance&Performance”: May B, con coreografia di Maguy Marin, in scena dal 10 al 14 dicembre 2025. E poi: «[…] A grande richiesta torna a Napoli Dignità Autonome di Prostituzione, lo spettacolo che ha decisamente scardinato le convenzioni classiche del Teatro […]», dal 26 dicembre 2025 all’11 gennaio 2026 (spettacolo e regia di Luciano Melchionna, dal format di Betta Cianchini e Luciano Melchionna). Dal 13 al 18 gennaio 2026, invece, andrà in scena Migliore, scritto e diretto da Mattia Torre, con Valerio Mastandrea – e dal 22 al 25 gennaio 2026, THE WALL LIVE Pink Floyd Legend: «Dopo il grande successo della Pink Floyd Legend Week dello scorso anno, i Pink Floyd Legend tornano al Teatro Bellini di Napoli con un evento unico: la messa in scena integrale di The Wall, il celebre concept album dei Pink Floyd. […]». La Stagione 2025/26 proseguirà con: La città dei vivi, liberamente tratto dal romanzo di Nicola Lagioia – con regia, video e drammaturgia di Ivonne Capece, dal 27 gennaio al 1 febbraio 2026: «[…] Lo spettacolo La città dei vivi porta in scena la discesa in un inferno morale che appartiene non solo ai protagonisti, ma a un’intera società. Roma diventa un personaggio […]»; Tre modi per non morire. Baudelaire, Dante, i Greci di Giuseppe Montesano, con Toni Servillo (dal 4 all’8 febbraio 2026); Come gli uccelli di Wajdi Mouawad (traduzione di Monica Capuani; regia di Marco Lorenzi. Dal 10 al 15 febbraio 2026); La rigenerazione di Italo Svevo, con regia di Valerio Santoro, in scena dal 17 al 22 febbraio 2026. La Stagione proseguirà con la commedia in tre atti di Eduardo De Filippo: Sabato, domenica e lunedì – in scena, con la regia di Luca De Fusco, dal 24 febbraio all’8 marzo 2026: «Dei massimi capolavori del Teatro di Eduardo Sabato, domenica e lunedì è il testo più borghese, quasi cechoviano; la sua conclusione lieta sembra la meno agrodolce, la più sinceramente solare. […]» (Luca De Fusco). Torna al Bellini, il 6 e il 7 marzo 2026, Massimo Recalcati, «con due lectio magistralis sulla psicoanalisi». E poi: Odissea, con Stefano Accorsi, dal 10 al 15 marzo 2026; Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill (traduzione di Bruno Fonzi; regia di Gabriele Lavia), dal 17 al 22 marzo 2026. Ci sarà, dal 26 al 29 marzo 2026, un altro appuntamento di “Dance&Performance”: Pite/Preljocaj/Tortelli – Trittico Solo Echo, Reconciliatio, Glory Hall. Gli ultimi due appuntamenti teatrali saranno: Giu-Ro. Libera Gioventù Bannata dal Tempo, dall’11 al 26 aprile 2026: versi, canti e testi, drammaturgia di Mimmo Borrelli, liberamente “shak-ispirati” al dramma del Bardo (Romeo e Giulietta); regia di Mimmo Borrelli; Stato contro Nolan (un posto tranquillo) di Stefano Massini, con regia di Alessandro Gassmann, dal 7 al 24 maggio 2026.
Qui, per tutte le altre informazioni riguardanti il Programma del Bellini; qui, invece, per conoscere la Stagione 2025/26 del Piccolo Bellini.

Categorie: Musica corale

La stagione artica 2025-26 del Teatro La Fenice di Venezia

gbopera - Gio, 12/06/2025 - 16:36
Venezia, 12 giugno 2025
Questa mattina il Sovrintendente e Direttore Artistico Nicola Colabianchi, la Consigliera Delegata alle Attività Culturali, Cinema e Teatro del Comune di Venezia Giorgia Pea, il Responsabile Artistico e Organizzativo delle Attività di Danza Franco Bolletta e il Direttore Generale Andrea Erri hanno presentato la Stagione 2025/2026. Un programma ricco e articolato: la stagione lirica proporrà grandi capolavori del repertorio accanto a titoli da tempo assenti dal palcoscenico veneziano, tra affascinanti riscoperte e opere della contemporaneità; la stagione sinfonica ospiterà alcuni tra i più celebri direttori d’orchestra a livello internazionale, con attesi ritorni e interessanti debutti. Scopri in allegato i programmi completi della prossima stagione veneziana Allegati
Categorie: Musica corale

Città del Vaticano, Musei Vaticani: “Paolo VI e Jacques Maritain: il rinnovamento dell’arte sacra tra Francia e Italia (1945-1973)”

gbopera - Gio, 12/06/2025 - 15:48

Città del Vaticano, Musei Vaticani
PAOLO VI E JACQUES MARITAIN: IL RINNOVAMENTO DELL’ARTE TRA FRANCIA E ITALIA (1945-1973)
in collaborazione con i Musei Vaticani, Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, Centro Culturale San Luigi dei Francesi/ Institut français – Centre Saint-Louis e Bibliothèque Nationale et Universitaire de Strasbourg 
Roma,12 giugno 2025
Un dipinto sacro non si guarda mai da soli. Anche quando si è fisicamente soli di fronte a un’opera, ci sono sempre altri sguardi che ci accompagnano: lo sguardo di chi l’ha creata, lo sguardo di chi l’ha amata prima di noi, lo sguardo di chi ha creduto che lì, tra il silenzio della materia e il fremito dell’invisibile, potesse trovare una risposta. Forse per questo, in fondo, Jacques Maritain non ha mai scritto “sull’arte”, ma per l’arte: come se l’arte fosse una persona da difendere, da consolare, da far parlare. La mostra “Paolo VI e Jacques Maritain: il rinnovamento dell’arte sacra tra Francia e Italia (1945-1973)”, ai Musei Vaticani, è tutto fuorché una semplice esposizione. È un racconto sussurrato tra le mura di pietra di due uomini che si sono cercati attraverso parole, opere e destini. È anche un modo per chiedersi: che cosa deve essere oggi l’arte religiosa? Un ornamento? Un’illustrazione? O una lotta, un’urgenza, una necessità di incarnare lo spirituale quando tutto intorno ci spinge verso il rumore? Nel cuore dei Musei Vaticani, là dove le stanze di Raffaello cercano ancora di parlare al cielo e la Cappella Sistina grava con la sua onniscienza michelangiolesca, questa piccola mostra è un’introspezione. Ci si muove tra lettere, disegni, pitture, ma in realtà ci si muove tra voci. E la voce che più vibra, che più risuona, non è quella di un artista, ma quella di un filosofo che ha saputo farsi “ponte”, non soltanto tra Chiesa e cultura, ma tra l’umano e il divino. Quando Maritain fu inviato a Roma come ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, nel 1945, portava con sé un’idea di cristianesimo che non voleva essere rifugio, ma fermento. Non cercava nelle stanze vaticane una quiete diplomatica, ma un dialogo che sapesse farsi carne. A quell’epoca Roma era una città sventrata dalla guerra, eppure nei suoi caffè e nei suoi chiostri si respirava l’inizio di un’altra battaglia, quella per dare forma al sacro in un mondo secolarizzato. E proprio lì, tra i marmi antichi e la polvere dei codici, si rinsaldò la sua amicizia con Giovanni Battista Montini. Un’amicizia che non si nutriva solo di parole — anche se le lettere tra i due potrebbero essere lette come un romanzo sull’utopia cristiana — ma di progetti concreti: su tutti, la volontà di restituire all’arte sacra quella tensione spirituale che la modernità sembrava aver disinnescato. Quello che colpisce nel percorso della mostra non è tanto la bellezza delle opere — da Maurice Denis a Georges Rouault, da Chagall a Matisse, da Severini a Congdon — quanto la fragilità che esse contengono. Fragilità nel senso di apertura, di desiderio di ascolto. Queste non sono opere che impongono, che predicano. Sono opere che domandano. Che pongono un problema: come si dipinge Dio dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo il Concilio? È qui che l’influenza di Maritain, e soprattutto del suo “umanesimo integrale”, diventa centrale. Perché l’arte, per lui, non è mai fine a se stessa. Non è mai autonoma nel senso di autarchica. Ma lo è nella misura in cui si fa libera di seguire un’ispirazione che viene da altrove. C’è un passaggio nei suoi scritti in cui dice che il compito dell’artista non è rappresentare il mondo, ma lasciare che il mondo lo attraversi. Questa idea è visibile nella selezione esposta, anche nei tratti più lievi: un disegno, una fotografia, una dedica. E poi ci sono le presenze-assenze. Come quella di Raïssa, compagna di vita e di fede, il cui sguardo aleggia in ogni stanza pur non essendo mai al centro. Fu lei a guidare il filosofo verso la conversione, fu lei a costruire attorno a lui un cenacolo silenzioso ma operoso, popolato da artisti e poeti, da credenti e scettici, da cercatori di senso che non avevano paura del dubbio. Ogni opera presente sembra portare con sé una preghiera incompiuta. La cappella di Vence di Matisse non è solo un capolavoro: è una dichiarazione d’amore per la luce. I crocifissi di Rouault non consolano, ma inquietano. Le forme di Chagall sembrano cercare un linguaggio per dire l’ineffabile, ma lo fanno con la leggerezza del sogno. Nulla, in questa mostra, è “spiegato”. Nulla è chiuso. Ogni teca è una soglia. Ogni tela è un’invocazione. Eppure, la mostra ha anche un sottotesto più urgente: quello della responsabilità dell’arte oggi. In un tempo in cui il sacro è ridotto a souvenir, e la spiritualità a performance estetica, questo percorso espositivo ci interroga su cosa significhi credere nella bellezza come via della verità. E ci ricorda che l’arte sacra, se vuole sopravvivere, non deve essere né nostalgica né decorativa, ma capace di ferire e guarire allo stesso tempo. Il fatto che Paolo VI abbia voluto una Collezione di Arte Religiosa Moderna nei Musei Vaticani — contro molte resistenze, e in un tempo di grandi incertezze — è di per sé un atto profetico. Non una collezione di santi con l’aureola, ma di artisti che, pur non dichiarandosi credenti, hanno saputo toccare il mistero con onestà. La presenza, in mostra, anche del domenicano Marie-Alain Couturier, teorico di un’arte sacra “liberata” dalla committenza ecclesiastica e più radicale del suo stesso amico Maritain, aggiunge complessità. I due si opposero più volte. Ma non nel nome della verità, bensì dell’urgenza. Due modi diversi di invocare lo stesso Dio. Forse è proprio questo che ci insegna questa piccola, intensa mostra: che Dio non è dove lo cerchiamo, ma dove siamo disposti ad ascoltarlo. Anche in un segno incerto, in una pennellata sbagliata, in una stanza in penombra dei Musei Vaticani, mentre fuori Roma brulica di turisti e di selfie. Lì, dove l’arte non pretende di convertire ma solo di farsi attraversare dal sacro, nasce la vera spiritualità. E chi guarda non resta mai davvero solo.

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Oper Frankfurt: “Parsifal”

gbopera - Gio, 12/06/2025 - 07:38
Oper Frankfurt, Stagione 2024/2025 “PARSIFAL”
Dramma sacro in tre atti, libretto e musica di Richard Wagner
Amfortas NICHOLAS BROWNLEE
Titurel ALFRED REITER
Gurnemanz ANDREAS BAUER KANABAS
Parsifal IAN KOZIARA
Klingsor SIMON BAILEY
Kundry JENNIFER HOLLOWAY
Cavalieri del Graal KUDAIBERGER ABILDIN, SAKHIWE MKOSANA
Quattro scudieri IDIL KUTAY, NINA TARANDEK, ANDREW BIDLACK, ANDREW KIM Fanciulle Fiore CLARA KIM, IDIL KUTAY, NINA TARANDEK, NONBUMELO YENDE, JULIA STUART, JUDITA HAGYOVÀ  Una voce lontana KATHARINA MAGIERA
Frankfurter Opern- und Museumsorchester  Chor der Oper Frankfurt Direttore Thomas Guggeis Maestro del Coro Gerhard Polifka Regia Brigitte Fassbaender Scene e Costumi Johannes Leiacker Coreografia Katharina Wiedenhofer Luci Jan Hartmann Drammaturgia Konrad Kuhn Frankfurt, 9 giugno 2025 Thomas Guggeis ha concluso la sua seconda stagione come Generalmusikdirektor dell’ Oper Frankfurt con la sua prima interpretazione del Parsifal. Dopo le sue assai convincenti prove del Ring alla Staatsoper di Berlino e del Tannhäuser di un anno fa a Frankfurt, il primo approccio del trentaduenne maestro bavarese a una partitura ricca e complessa, che appartiene ai capolavori assoluti non solo della musica ma di tutta l’ arte occidentale, ha confermato la sua statura di interprete wagneriano completo e maturo oltre che di talento direttoriale fra i migliori della giovane generazione. La sua lettura era basata su tempi in genere abbastanza stretti e sonorità assolutamente affascinanti, splendidamente realizzate dalla Frankfurter Opern- und Museumsorchester che ha suonato davvero da grande complesso di livello internazionale. I colori strumentali cangianti e trasparenti del Preludio, la fluidità della narrazione, la perfetta realizzazione delle complesse architettute nelle scene corali, la squisita tornitura delle linee melodiche nel secondo atto e l’ atmosfera misteriosamente malinconica della scena iniziale del terzo che gradualmente trapassava nella luminosità strumentale del Karfreitagszauber seguito da una scena finale ammirevole per la leggerezza e trasparenza dei colori orchestrali erano i tratti più significativi di un’ interpretazione di altissimo livello, con la quale Thomas Guggeis si pone senza il minimo dubbio fra i migliori e più significativi interpreti wagneriani della nostra epoca. Dopo una prestazione del genere, aspettiamo un invito al giovane musicista di Dachau da parte del festival di Bayreuth, che deve assolutamente assicurarsi un talento direttoriale in grado di offrire cose di grande interesse nell’ interpretazione delle opere di Wagner. Nell’ attesa che questo avvenga, seguiremo il debutto di Guggeis sul podio dei Berliner Philharmoniker nella prossima stagione. La realizzazione scenica e drammaturgica della nuova produzione era affidata a Brigitte Fassbaender, che dopo essere stata una tra le maggiori cantanti del dopoguerra ha intrapreso una fortunata carriera da regista, durante la quale ha messo in scena circa novanta opere. Dopo il suo acclamatissimo allestimento del Ring a Erl, l’ artista berlinese ha affrontato il Parsifal a 85 anni di età. Le belle scene e i costumi ideati da Johannes Leiacker creavano un clima di sobria drammaticità nel quale la Fassbaender calibrava perfettamente sino ai minimi dettagli la condotta scenica dei personaggi. Il Preludio era accompagnato visivamente dal succedersi delle immagini della “serie des cathédrales de Rouen” di Claude Monet, le decorazioni delle scene del Graal e di quelle del secondo atto erano ispirate a quelle della Tropfsteinhöhle nello Schloss Linderdorf, fatta costruire dal re di Baviera Ludwig II. Molto interessante appariva anche la successione dei costumi di Parsifal, vestito nel primo atto come un monello impertinente, nel secondo in abito da cavaliere e nel terzo con la lancia in mano, indossando cappello e mantello scuri quasi come Wotan travestito da Der Wanderer nel Siegfried. Nell’ insieme quella della Fassbaender era una notevole regia, molto rispettosa del racconto scenico ideato da Wagner, lineare e dotata di logica e stile, senza cercare nel testo quello che non c’ è e senza inseguire estetismi assurdi. Guidati con grande sicurezza dal punto di vista scenico e musicale, i cantanti hanno offerto una prova complessiva di livello davvero elevato. Su tutti spiccava il formidabile Gurnemanz del basso Andreas Bauer Kanabas, nativo di Jena e da dodici anni membro dell’ ensemble dell’ Oper Frankfurt, che ha dominato un ruolo lungo e difficile come pochi altri imponendosi per l’ autorità vocale, la plasticità della declamazione e il fraseggio minuziosamente curato sino ai minimi dettagli. Un’ interpretazione senza dubbio di gran classe, all’ altezza di quelle di artisti come René Pape e Georg Zeppenfeld, i più accreditati intepreti odierni della parte. Eccellente era anche la raffigurazione di Kundry del quarantasettenne mezzosoprano americano Jennifer Holloway, per la voce risonante e perfettamente omogenea in tutta la gamma. Il trentaseienne basso-baritono Nicholas Brownlee, che avevo ascoltato in convincenti interpretazioni di Hans Sachs a Frankfurt e di Wotan e dell’ Holländer alla Bayerische Staatsoper, ha delineato un Amfortas oppresso dal dolore e dal rimorso, con un fraseggio di grande intensità e maturità espressiva. Il tenore statunitense Ian Koziara, che impersonava il protagonista, ha una voce di colore leggermente torbido al centro ma sonora e squilante nel registro acuto, e ha delineato con sufficiente sicurezza e personalità interpretativa la progressiva evoluzione psicologica del personaggio. Molto buono anche il Klingsor del baritono Simon Bailey, subentrato all’ ultimo momento per sostituire un collega indisposto, e impeccabile anche la prova di tutti gli interpreti delle parti di fianco. Il pubblico ha applaudito a lungo e calorosamente tutti i componenti di una recita davvero di alta qualità. Foto Monika Rittershaus
Categorie: Musica corale

Firenze, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino: Omaggio a Luigi Dallapiccola

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 19:55

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Sala Zubin Mehta
Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”
Direttore Lorenzo Donati
Soprano Livia Rado
Pianoforti Aldo Orvieto, Anna D’Errico
Arpe Emanuela Battigelli, Stefania Scapin
Percussioni Antonio Caggiano
Chigiana Percussion Ensemble
Giulio Ancarani, Francesco Conforti, Carol Di Vito, Davide Fabrizio, Roberto Iemma, Matteo Lelli, Davide Soro
Chigiana Live Elettronics Ensemble
Live elettronics Alvise Vidolin, Nicola Bernardini, Julian Scordato
Filippo Perocco: “Disegnare rami” per soprano, doppio coro, due pianoforti ed elettronica – 2025; Luigi Dallapiccola: “Canti di prigionia” per coro misto e piccolo ensemble strumentale.
Firenze, 7 giugno 2025
Nella Sala Zubin Mehta, davanti ad un pubblico molto attento, l’omaggio a Luigi Dallapiccola in occasione del 50mo della sua dipartita attraverso i Canti di prigionia (1938-1941), attingendo a testi in lingua latina di prigionieri «di uomini che avevano lottato e creduto» come specifica il compositore e basati su una serie di dodici suoni che costituiscono la base dell’intero corpus. Lavoro originale e tra i più significativi della sua produzione che prende vita, come dichiara egli stesso, dalla circolazione delle voci che il fascismo seguisse l’esempio hitleriano promuovendo una campagna antisemita, esprimendo così la sua protesta ed indignazione attraverso quest’opera. Nella prima parte è stata eseguita in prima assoluta Disegnare rami per soprano, doppio coro, due pianoforti ed elettronica di Filippo Perocco, commissionata dall’Accademia Chigiana di Siena. Sul palco il Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini” nella disposizione a doppio coro, compagine che si caratterizza per ampio repertorio e significative collaborazioni. A completare l’organico musicisti attivi nei circuiti della musica contemporanea: Livia Rado, soprano dotato di appropriata vocalità e grande sensibilità per questo tipo di repertorio, i pianisti Aldo Orvieto e Anna D’Errico, Alvise Vidolin con Nicola Bernardini, Julian Scordato alla regia del suono. Sul podio Lorenzo Donati che, per tutto il programma, ha evidenziato una concertazione ben strutturata, volta alla ricostruzione delle partiture, nell’intenzione di raggiungere un’interpretazione più vicina possibile all’inventio e al pensiero dei compositori.  Il pubblico, nella composizione di Perocco, catapultato nella materialità della voce in una sorta di esplorazione aperta, includendo l’elettronica, ha assistito ad un edificante sviluppo germinale volto alla trasmissione di un cangiante paesaggio sonoro (anche allusivo ed evocativo) che include la riorganizzazione di ogni minima vibrazione che può riferirsi altresì a concetti multipli ed estetici. Organizzata in quattro movimenti: Veglia, Carillon, Sogno-Metamorfosi-Seme, Congedo, fin dall’inizio con l’intonazione del soprano «non è ombra sulle mie fredde radici» si è intuito quanto Disegnare rami evochi atmosfere magiche ove immaginare l’arbor all’interno dell’ecosistema e della vita sul pianeta terra. Tuttavia la dichiarazione del soprano non trova riscontro nella percezione umana del coro, il quale si oppone affermando, con vocalità fascinosa, che proprio a causa del tintinnamento dell’ombra la voce «oscilla» e «sussurra fino all’ultima foglia tremula».
Conseguenza di ciò è che dalla proiezione dell’ombra scaturisce un senso di freddo tale da colpire le radici dell’albero, rischiando la sua vulnerabilità e precarietà o l’assenza di armonia con la natura. Al pubblico non è rimasto che ascoltare «gli alberi che parlano» e vivere questa esperienza soggettivamente ed emotivamente. Pur di fronte alla ‘frantumazione’ del testo cantato e della «sventurata musica che muore nel nascere» (Leonardo) non è stato fondamentale comprendere, considerando che l’«impenetrabile legno» è la stessa impenetrabilità della materia di una partitura che Bauman definirebbe ‘liquida’. A ferire le radici dell’albero, attingendo alla metafora, come ha sottolineato Donati, è la natura distruttiva delle guerre.
Ecco allora che i Canti di prigionia, in tale contesto, manifestano ancor più un’autentica potenza emotiva radicata nella storia e nell’esperienza di vita collettiva affidando ai musicisti l’interpretazione del dolore e allo stesso tempo l’imprecazione «O Domine Deus! Speravi in Te […] nunc libera me». Organizzati per esprimere una narrazione complessa, sono ‘trittico sonoro’ nella seguente successione: I. Preghiera di Maria Stuarda (O domine Deus! Speravi in Te); II Invocazione di Boezio (Felix qui potuit boni / fontem visere lucidum); III Congedo di Girolamo Savonarola (Premat mundus, insurgant hostes, / nihil timeo) ove la massa corale è vista come insieme di individui in cui le singole voci si fondono in un unico e potente suono.
È bastato ascoltare nell’ Introduzionemolto lento la reiterazione scolpita delle prime quattro note del Dies Irae dalle due arpe e timpani, all’interno di una sonorità grave e profonda prodotta dai due pianoforti e alcuni strumenti a percussione, per entrare in una dimensione meditativa ed escatologica del destino umano. Oltre a ricordare il «Dies Irae, dies illa /solvet saeculum in favilla» per l’ascoltatore più attento poteva rappresentare metaforicamente la ‘lanterna di Dioniso alla ricerca dell’uomo’ congiuntamente al cantus firmus su cui Dallapiccola costruisce le diverse relazioni contrappuntistiche che prendono vita dal sistema delle dodici note presenti in tutta la composizione. Si è così avvertita la necessità di un’illuminazione spirituale ma si sono percepiti, anche quando le voci cantano a bocca chiusa, lontani echi, amplificati dal buio della notte, di una società disorientata e della «cronaca, in forma di poesia, di un dramma che ha colpito l’intera umanità, in un abisso di ferocia in cui cominciarono cose che, purtroppo, non hanno ancora finito di cominciare» (Mario Ruffini).
Il Coro, la Chigiana Percussion Ensemble, la Chigiana Live Elettronics Ensemble, le percussioni di Antonio Caggiano, unitamente agli altri musicisti che hanno collaborato al concerto, sono risultati importanti tasselli che hanno contribuito al successo della serata che ha visto Lorenzo Donati autentica e solida guida nel laborioso processo creativo delle due composizioni. Applausi per Perocco, presente in sala, all’intera compagine musicale e a coloro che hanno reso possibile l’iniziativa: il Maggio Musicale Fiorentino, in coproduzione con l’Accademia Musicale Chigiana, con il patrocinio dell’Associazione Nazionale ex Deportati nei Campi nazisti (IT ANED) sezione di Firenze, Memorie delle deportazioni, il Centro Studi Luigi Dallapiccola e l’Accademia delle Arti e del disegno di Firenze.

Categorie: Musica corale

Fabio Luisi dirige l’ultimo concerto di stagione per l’Orchestra RAI

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 16:52

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Fabio Luisi
Franz Schubert: Sinfonia n. 8 in si minore, D 759 “Incompiuta”; Anton Bruckner: Sinfonia n. 7 in mi maggiore
Torino, 6 giugno 2025
Nell’Ultimo concerto della stagione, il Direttore Emerito Fabio Luisi risale sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Programmate in locandina sono due opere fondamentali della storia della musica ed essenziali per l’asse austriaco della sinfonia che, oltre a Schubert e Bruckner, annovera il capostipite Franz Josef Haydn. Gli altri, Beethoven e Brahms in testa, pur fondamentali innovatori, si ritengono su linee parallele e non strettamente appartenenti e conseguenti ai 3 grandi indigeni. Le due opere presentate, fatta salva l’incompletezza della sinfonia schubertiana, hanno trovato una linea fortemente unificante nella direzione di Fabio Luisi che, probabilmente, alla congruità della matrice austriaca, anche se non prettamente viennese, ci crede. Schubert nel 1822, data riportata sul manoscritto, aveva 25 anni, pochi successi e scarsa notorietà alle spalle. Nessuna sua composizione aveva ancora goduto di un’esecuzione pubblica in un’accademia a pagamento e nessun editore si era fatto avanti per pubblicargli alcunché. Cosciente della sua arte, si ostinava comunque a mettere giù partiture di una certa consistenza, opere e sinfonie che rimanevano a giacere disperse in qualche cassetto. Non avendo una casa propria e dormendo dove capitava, presso amici che temporaneamente l’ospitavano, i mobili e i relativi cassetti non erano beni che lo seguissero nel suo peregrinare. Viste le circostanze, che la sinfonia si sia bloccata dopo i primi stratosferici, per valenza artistica, due tempi non ci può stupire, non ci deve neppure meravigliare che il manoscritto sia ricomparso e poi eseguito, per la prima volta, il 17 dicembre del 1865, ben 36 anni dopo la morte del povero Franz. Luisi sceglie di accentuarne la tragicità e l’insita sofferenza. Il lirismo, sempre presente in Schubert, viene soffocato sul nascere dai repentini interventi sia dai formidabili archi bassi, violoncelli e contrabbassi, dell’orchestra RAI che dagli ottoni. Le melodie, ancorché ostacolate, rimangono appannaggio di ineffabili legni. Il tempo, assolutamente non affrettato, accentua il versante pessimistico dell’opera, che seppur legittimo è in contrasto con la visione consueta che per Schubert suggerisce l’immagine di una sofferenza attenuata da un sorriso o di una gioia con lacrime a stento trattenute. Sfumature e colori che dall’interpretazione, essenzialmente monodirezionale, di Luisi non pare di poter cogliere. Questa impostazione, che attenua il lirismo dell’Incompiuta, l’avvicina a quanto Luisi e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI fanno con la Sinfonia n.7 di Bruckner, in cui le sonorità attutite e la sbrigatività del ritmo alleggeriscono l’impasto tradizionalmente adottato. Risultano accentuate le aree liricheggianti al confronto con fanfare e con “tutti” orchestrali tutt’altro che travolgenti. Le 9 sinfonie bruckneriane non fanno parte del repertorio più frequentato dall’orchestra, come si è potuto anche constatare nel corso del 2024, anno bicentenario dalla nascita del compositore, in cui, diversamente da quanto avveniva in tutta Europa, ben poco si è potuto ascoltare in Auditorio. Impervia la scrittura, non c’è quasi nota che non sia alterata e che non cozzi con le altre innumerevoli linee parallele, instancabilmente differenziate e iperbolicamente cromatizzate. Per Luisi, avvezzo alla conduzione delle grandi orchestre del Nord, per cui Bruckner è esercizio quotidiano, non deve essere stato facile condurre a termine positivamente l’esecuzione. Facendo grazia a qualche attacco impreciso degli ottoni, ma queste difficoltà sono fisiologiche in quasi tutte le orchestre e non devono dar adito a giudizi troppo assertivi, forse qualche prova supplettiva, rispetto al consueto regime adottato, avrebbe potuto rafforzare la sicurezza e la coordinazione tra le file degli strumenti. L’Auditorio non contava il tutto esaurito, ma ormai fa caldo e il venerdì diventa il giorno prescelto per abbandonare le vie cittadine e correre a ricercare la frescura delle onde o delle cime. Chi c’era ha applaudito, si può quindi, con ragione, dedurne cha abbia ampiamente apprezzato quanto gli è stato proposto.

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Roma, Musei Capitolini: “Una Regina Polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la Famiglia Reale Sobieski a Roma”

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 15:38

Roma, Musei Capitolini
Palazzo Caffarelli
UNA REGINA POLACCA IN CAMPIDIGLIO: MARIA CASIMIRA E LA FAMIGLIA REALE SOBIESKI A ROMA
A cura di Francesca Ceci, Jerzy Miziołek con Francesca De Caprio.
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla CulturaSovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia, dell’Istituto Polacco di Roma e dell’Accademia Polacca delle Scienze a Roma
Organizzazione di Zètema Progetto Cultura
Roma, 10 giugno 2025
Non esistono solo monarchie, ma anche le messe in scena del loro fantasma. È precisamente questo il fulcro concettuale della mostra Una Regina polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la famiglia reale Sobieski a Roma: non tanto la restituzione documentaria di una presenza storica quanto l’analisi – silenziosa ma precisa – di un immaginario dinastico costruito attraverso strategie visive, dispositivi di memoria e articolazioni spaziali. Più che narrare un passato, l’esposizione lo modella, lo organizza, lo mette in scena: Maria Casimira e la sua discendenza vengono così traslate da soggetti storici a figure sintomatiche, specchianti un’intera epistemologia del potere in esilio. A questo titolo, ciò che si espone non è una semplice regina vedova né un casato disperso: è un’intera grammatica di rappresentazione che investe il corpo regale, le sue derive simboliche, le sue modalità di sopravvivenza iconografica all’interno di una Roma che da secoli funziona come archivio visivo e semantico della sovranità europea. Il progetto, articolato in cinque sezioni e ospitato al terzo piano di Palazzo Caffarelli ai Musei Capitolini, evita la trappola della cronaca lineare. La mostra funziona piuttosto come un palinsesto iconologico: ogni sala è un nodo concettuale, ogni oggetto un segno che rinvia non solo alla figura di Maria Casimira ma all’intero campo semantico che la circonda – esilio, alterità, cerimoniale, patriottismo, teatro. La regina, d’altronde, non viene soltanto “esposta”: viene costruita. Le sue immagini non sono riproduzioni ma atti di enunciazione. Dai ritratti alle epigrafi, dalle lettere autografe ai busti bronzei, ogni oggetto è carico di funzioni discorsive. Il corpo di Maria Casimira – e poi quello di Maria Clementina Sobieska – è un corpo “parlante”, sempre al centro di un dispositivo performativo: basti pensare alla cappella ricreata del Palazzetto Zuccari, che ospita la riproduzione della volta affrescata con i suoi monogrammi coronati. Non si tratta qui di filologia decorativa, ma della mise-en-scène di una identità che non trova posto nelle carte diplomatiche ma si incarna negli interstizi culturali della città. L’esilio polacco si trasforma in racconto per immagini, e Roma – città-palinsesto per eccellenza – ne diventa il medium. Non è un caso che molte opere, epigrafi e iscrizioni siano testimonianze “in situ” di questa presenza regale dislocata. Il percorso sobieschiano che dalla Basilica dei Santi Apostoli passa per San Luigi dei Francesi, Santa Maria degli Angeli e via fino a Trinità dei Monti non è solo topografico, ma anche semiotico: è un percorso attraverso monumenti come atti linguistici, gesti di reinscrizione del potere nello spazio urbano. In questa rete di tracce, la sezione più potente resta quella dedicata alla regina “senza regno” Maria Clementina Sobieska Stuart. La sua presenza – evocata attraverso busti, stampe, ma soprattutto suoni – diventa figura paradigmatica di una regalità interdetta, confinata alla rappresentazione. La sua assenza di potere reale è inversamente proporzionale all’intensità con cui il suo corpo è stato iconizzato. Le arie barocche, appositamente registrate per la mostra e tratte da opere che la vedevano celebrata come destinataria simbolica, offrono un ulteriore livello di significazione: il suono qui è forma di sopravvivenza. La voce, sospesa nel tempo, ricrea la regina come figura acustica del desiderio politico. Il catalogo dell’esposizione, coeditato con l’Università di Varsavia, non tenta di nascondere questa strategia. Lungi dal limitarsi alla descrizione delle opere, propone una lettura critica che affronta la presenza sobieschiana come sintomo della tensione tra identità nazionale e cosmopolitismo romano, tra mitologia dinastica e pratiche urbane. La sezione conclusiva, centrata sull’apoteosi di Giovanni III Sobieski come trionfatore della battaglia di Vienna, agisce come contrappunto a questa riflessione. La monumentalità virile del sovrano – il busto d’armatura ussara, le grandi tele eroiche – si pone in tensione con la fragilità delle regine. Qui si innesta una lettura differenziale del potere: il corpo del re è affermativo; quello delle donne Sobieski è fluido, disseminato, diasporico. L’uno agisce nel campo della retorica bellica, l’altro in quello della diplomazia culturale. La mostra si configura come un laboratorio critico su cosa significhi “appartenere” a una città. Maria Casimira non è romana, eppure Roma la riassorbe; non ha un regno, eppure è ospite del Campidoglio. La sua figura destabilizza il binarismo centro/periferia, ospite/ospitante, e ci costringe a rivedere le modalità con cui una capitale costruisce il proprio racconto attraverso le presenze estranee. L’esposizione trova nei prestiti – dal Castello Reale di Varsavia, dal Museo di Roma, dalla Dom Polska, dall’Educandato della SS. Annunziata di Firenze – un ulteriore dispositivo di destabilizzazione. Il sapere artistico non è più chiuso entro le mura cittadine, ma transita, migra, si contamina. Anche il materiale sonoro, curato con rigore filologico dall’ensemble Giardino di Delizie, agisce in questa logica rizomatica: la musica barocca diventa il vettore acustico di una memoria che sopravvive nel corpo, non nei confini. Infine, le repliche tattili delle tre opere-chiave (i ritratti di Giovanni III, Maria Casimira e Maria Clementina) e le didascalie plurilingue rendono esplicita la volontà di una fruizione plurale. Non è un atto di inclusione formale, ma un’estensione epistemologica: il sapere non è più verticale, ma orizzontale, accessibile, condivisibile. La regina senza regno parla così anche a chi, oggi, si muove nei margini del potere. Una Regina polacca in Campidoglio è dunque una mostra profondamente politica: non per i contenuti, ma per la forma che dà loro. In un’epoca che tende a fossilizzare le identità, essa interroga le dinamiche della rappresentazione, mette in crisi i limiti tra centro e margine, e riconsegna al pubblico una lettura complessa, stratificata, non lineare della storia. È un esercizio di critica visiva, un saggio in forma di esposizione. E come ogni saggio efficace, lascia una domanda sospesa: cosa resta oggi del potere, se non le sue immagini?

Categorie: Musica corale

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