Roma, Museo Nazionale Romano
Palazzo Altemps
Piazza di S. Apollinare, 46
00186 Roma
SERGIO SARRA “NATURE”
a cura di Lorenzo Bruni e Ludovico Pratesi
20 settembre – 12 novembre 2023
Catalogo della mostra edito da Edizioni l’Obliquo
Testi di Stéphane Verger, Vittorio Sgarbi, Cecilia Casorati, Lorenzo Bruni, Ludovico Pratesi, Giorgio D’Orazio
Traduzioni di Angelica Federici
Il 19 settembre 2023 alle ore 19:00 si inaugura al Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps nature, la mostra personale di Sergio Sarra (Pescara, 1961), curata da Lorenzo Bruni e Ludovico Pratesi e appositamente concepita come un percorso all’interno dell’appartamento nobile del palazzo, dalla Sala isiaca alla Sala grande del Galata, dove le opere dell’artista si confrontano con le collezioni di scultura classica conservate nel museo, appartenenti ad importanti famiglie aristocratiche come i Ludovisi, gli Altemps, i Riario e i Brancaccio. Indicativo del progetto è il titolo della mostra, nature, inteso nella sua definizione di participio futuro del verbo latino nascor, come ciò che sarà generato, che si produrrà spontaneamente. È una dichiarazione che svela l’approccio creativo dell’artista che ha ideato una narrazione incentrata sul tema della figura nel suo rapporto con lo spazio, attraverso rarefatte relazioni tra tratto e colore. “Sono entrato nelle sale del palazzo – spiega l’artista – immaginando opere non invasive, che interpretassero la storia e gli stimoli visivi e simbolici che vi sono presenti”. L’intervento di Sergio Sarra è costituito da 24 opere che riflettono sull’oggetto quadro e sul ruolo dello spettatore sollecitato quotidianamente dall’iper-informazione attuale. “Il Museo Nazionale Romano è lieto di proseguire così una tradizione di mostre legate al rapporto tra classico e contemporaneo, che nella sede di Palazzo Altemps ha già visto gli interventi di Matthew Monahan (2016), Alfredo Pirri (2018) e Elisabetta Benassi (2019)”, dichiara il Direttore Stéphane Verger. I dipinti ad acrilico, su tavola e su carta, sono stati concepiti dall’artista come immagini azzerate, quasi icone contemporanee, in possesso di un’energia silente ma profonda, che aumenta la forza ieratica e solenne di figure concentrate nella loro assenza. Appesi alle pareti con l’antico sistema a cordicelle o appoggiati su consolle e supporti in legno, queste opere possiedono una particolare qualità evocativa, suggeriscono forme fantasmatiche, che intraprendono relazioni visive con le sculture presenti nelle sale, determinando rapporti inediti e inaspettati con capolavori di arte egizia, greca e romana, dal Torello Brancaccio al Trono Ludovisi. In un deposito di immagini stratificate e sovrapposte, ispirate a sorgenti iconografiche di diversa natura e valenza, l’intervento di un pittore contemporaneo come Sergio Sarra assume un carattere dialogico, in grado di sottolineare la continuità tra le diverse “nature” delle opere d’arte, dalle sculture funerarie egizie agli affreschi cinquecenteschi. Qui per tutte le informazioni.
100° Arena di Verona Opera Festival 2023
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Cori, Sinfonie e Ballabili di Giuseppe Verdi
Verona, 31 agosto 2023
Per la prima volta nella storia centenaria del suo Festival, l’Arena di Verona ha ospitato i complessi artistici del Teatro alla Scala che qui inizia la sua tournée europea per concluderla a Parigi il 12 settembre dopo aver toccato alcuni palcoscenici prestigiosi. Il programma proposto rappresenta la summa storica del massimo teatro milanese nel periodo che intreccia le sue vicende alla figura tutelare di Giuseppe Verdi e che muove dal tormentato anelito alla libertà durante le lotte risorgimentali alla ritrovata pace post unitaria che inizia a definire l’idea di un’Italia unita e finalmente affrancata dalla dominazione straniera. Partendo dal primo vero successo del compositore, Nabucco, così carico di paralleli storici con le vicende italiane dell’epoca (e di fatto bandiera musicale sulle barricate) per continuare con I lombardi, Ernani, Macbeth, Il trovatore, La forza del destino, Don Carlo e concludere con il Trionfo di Aida, omaggio elegante alle pietre millenarie e all’opera principe dell’anfiteatro veronese. Un ventaglio di titoli abbastanza familiari e facili all’ascolto del grande pubblico, sia esso italiano o europeo, di sicura coerenza cronologica con il lungo percorso artistico di Verdi che copre più di cinquant’anni di carriera e che si è ascoltato quasi tutto d’un fiato. Momenti particolarmente toccanti e sottolineati dagli applausi di un pubblico attento e per una volta ammutolito da un’atmosfera quasi mistica e sacrale. Sotto la bacchetta esperta e carismatica di Riccardo Chailly l’orchestra ed il coro scaligeri hanno offerto un’esecuzione impeccabile sotto il profilo tecnico ed espressivo; soprattutto il coro ha evidenziato delle dinamiche particolarmente ricche con tutte le possibilità espressive intermedie, dal pianissimo al fortissimo, mai urlato ma sempre declamato musicalmente con gusto. Così si è potuto ascoltare lo struggente O Signore, dal tetto natìo come la vibrante indignazione di Si ridesti il Leon di Castiglia ma anche l’intensità drammatica di Patria oppressa! (forse uno dei momenti più alti della serata) e il tono grandioso di Spuntato ecco il dì d’esultanza. Non da meno è stata ovviamente l’orchestra nei suoi interventi che hanno visto l’esecuzione delle sinfonie da Nabucco e La forza del destino, il preludio di Ernani, il Ballo della Regina dal Don Carlo e i ballabili di Aida inseriti nella scena del Trionfo. Nonostante i complessi milanesi non avessero mai messo piede in Arena è bastato loro un solo assestamento qualche ora prima del concerto per dimostrare dunque tutta la classe, il tasso tecnico e l’alto livello di preparazione che li distingue da tempo immemore. D’altronde si percepisce, in una realtà come quella meneghina, una gerenza proiettata a livello internazionale, con idee sempre rinnovate, un cartellone ricco di titoli, la presenza di un direttore principale stabile, di un maestro del coro altrettanto duraturo, di un corpo di ballo e di un coro di voci bianche. Pure un’Accademia per la formazione delle figure professionali. Decisamente un altro pianeta, lontano da spettacoli di cassetta confezionati ad uso turistico e di botteghino; questa, però, è un’altra storia. Foto Ennevi per Fondazione Arena
Victor Massé: “Que dis-tu ? Je t’écoute et ne puis…Que ton âme inspire la mienne” (“Galathée”); Giacomo Meyerbeer: “Ombre légère” (“Le pardon de Plöermel”); Ambroise Thomas: “Le voir ainsi ! mon âme en est brisée,” (“Le songe d’une nuit d’été”); Fromental Halévy: “À moi, ma cohorte guerrière!… Approchons, approchons ; voici,… Oui, dansez” (“Jaguarita l’indienne”); Adolphe Adam: “Pour rester en cette demeure” (“Le bijou perdu”); Daniel-François-Esprit Auber: “Plus de rêve qui m’enivre” (“Manon Lescaut”); “Le singulier récit qu’ici je viens d’entendre!” (“La part du Diable”); Giacomo Meyerbeer: “Veille sur eux toujours… Allons donc, plus de tristesse”(“L’étoile du nord”); Ambroise Thomas: “C’est un rêve” (“Le songe d’une nuit d’été”); “Oui, pour ce soir je suis reine des fées!… Je suis Titania la blonde” (“Mignon”); Jodie Devos (soprano), Pierre Bleuse (direttore); Brussels philarmonic, Flemish radio choir. Registrazione: Studio 4, Flagey, Bruxelles. Febbraio 2022. 1 CD Alfa 877
Marie Cabel è un nome oggi praticamente dimenticato eppure nella Parigi della metà del XIX secolo il soprano vallone – era nata a Liegi nel 1827 – era l’indiscussa regina dell’Opéra-Comique, il soprano che più di ogni altro incarnava un certo gusto brillante e virtuosistico che dominava sulle scene parigine alternative al grand-opéra. Legata per vincolo matrimoniale a una famiglia di musicisti – il marito era compositore e maestro di canto, il cognato Edmond era stato il creatore del ruolo di Hylas ne “Les troyens” di Berlioz – arrivò a Parigi nel 1848 trovando subito un proprio spazio sulla scena dell’Opéra-Comique fino al definitivo trionfo nel 1853 con “Le Bijou perdu” composta a sua misura da Adam.
Le testimonianze del tempo ci restituiscono l’immagine di una cantante dalla tecnica prodigiosa, capace di sfoggiare sopracuti con impressionante difficoltà e maestra assoluta nel canto di coloratura ma anche capace – nonostante alcuni detrattori al riguardo – di un canto lirico ed espressivo.
Per circa un ventennio la Cabel ha attirato l’attenzione non solo di entusiasti ammiratori – tra cui Berlioz e Pauline Viardot – ma soprattutto di compositori attratti dalla possibilità di scrivere per lei. Tra questi basti ricordare Meyerbeer che dopo averla voluta nel 1854 per una ripresa di “L’Étoile du nord” nel 1857 compose appositamente per lei la parte di Dinorah in “La pardon de Plöermel” destinato a restare uno dei suoi successi più clamorosi grazie soprattutto a un’aria come “Ombre légère” rimasta come pietra miliare per ogni soprano di coloratura. Appositamente per lei scrisse anche Halévy che nel 1855 le destinò il ruolo insolitamente drammatico della protagonista di “Jaguarita l’indienne”. La collaborazione più stabile e proficua fu però quella con Thomas prima come Elisabeth ne “Songe d’une nuit d’été” e poi soprattutto come Philine in “Mignon” (1866) con l’indimenticabile “Je suis Titania la blonde”.
La sorte però è spesso infida e per la Cabel ai trionfi sono seguiti l’oblio e la miseria, la diva che aveva ai suoi piedi a Parigi si spensa sola e dimenticata il 23 maggio 1885 internata alla Maisons-Laffitte.
A riportare in auge questa figura è ora una giovane connazionale Jodie Devos ennesimo prodotto di una nouvelle vague francofona che sempre capace di sfornare talenti come nessun’altra parte del mondo.Il nuovo CD edito da Alfa in collaborazione con la Fondazione Palazzetto Bru Zane offre una carrellata completa sui ruoli interpretati dalla Cabel con particolare attenzioni su titoli poco o punto conosciuti e con uniche escursioni nel repertorio più noto con le inevitabili arie di Dinorah e Philine. Le arie sono eseguite integralmente con partecipazione del coro dove richiesto secondo il rigoroso taglio filologico delle produzioni della Fondazione.
La Devos è accompagnata in questa carrellata dai connazionali della Brussels Philarmonic e del Vlaams Radiokoor diretti con eleganza e senso dello stile da Pierre Bleuse che fornisce il giusto velluto sonoro su cui la voce della Devos si staglia nitida e cristallina.
La Devos incarna alla perfezione il tipo di vocalità che doveva essere della Cabel. Soprano leggero ma non esangue, dal timbro morbido e carezzevole e sorretta da una tecnica esemplare che le permette di salire con disarmante facilità ai sovracuti di vocalizzaree con sublime leggerezza in tessiture iperuranie.
Il programma presenta tutti i ruoli creati dalla Cabel – oltre a quelli già ricordati Manon Lescaut nell’opera di Auber e Toinon in “Le Bijou perdu” di Adam – e quello che affascina e la scoperta di tante brani qualitativamente così apprezzabili capaci di far desiderare una riscoperta almeno di qualcuno di questi lavori.
Un programma così lungo di arie per soprano leggero può risultare alla lunga un po’ sdolcinato ma il gusto e l’espressività della Devos evitano questo eccesso. Difficile selezionare singoli brani da evidenziare, meglio forse lasciarsi andare al gusto della scoperta e della sorpresa, scartare uno alla volta questi piccoli pacchi regalo e lasciarsi incantare dal contenuto. Qualcosa bisogna però pur dire e allora ecco la coquetterie leggere e brillante di “Pour rester en cette demeure” da “Le bijou perdu” – l’opera cui occhieggia il titolo alla registrazione – oppure le due arie più celebri rese non solo in modo vocalmente esemplare ma con una capacità di renderne lo stile espressivo con delicata maestria. “Ombre légère” ha veramente una leggerezza incorporea mentre “Je suis Titania” trasmette una gioiosa energia semplicemente irresistibile.
Tra gli altri brani ci piace sottolineare l’eleganza di “Que ton âme inspire la mienne” dalla “Galathée” di Masse con il suo canto di radioso lirismo che si affianca all’accompagnamento arcaicizzante dell’arpa. L’aria dei gioielli “Plus de rêve qui m’enivre” dalla “Manon Lescaut” di Auber coglie come nessun’altra opera sullo stesso soggetto il carattere più autentico del ruolo sempre sospeso tra il civettuolo e il malinconico unito a un virtuosismo di impostazione ancora tutta rossiniana di cui la Devos fornisce un’interpretazione perfettamente centrata oltre a esibire la già ricordata sicurezza vocale. La grande scena con coro “À moi, ma cohorte guerrière” da “Jaguarita l’indienne” è un interessante esempio di come si possa adattare una vocalità leggera e di taglio virtuosistico ad un brano di carattere eroico e marziale senza però rinunciare alla delicatezza della tipologia vocale qui unita a misteriosi accordi di sapore esotico. I brani rimanenti meritano tutti un attento ascolto, altri gioielli perduti di quello scrigno meraviglioso e ancora in gran parte inesplorato che è l’opera francese.
È la parabola del buon Samaritano la lettura proposta alla meditazione dei fedeli nella tredicesima domenica dopo la Trinità. Narra Luca (cap.10 Vers.25-37):“…Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».
Di tutto questo passo di Luca, la parte più significativa è al vers.27 che in tedesco suona “Du sollt Gott, deinen Herren, lieben” (Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore), che è l’incipit della Cantata BWV 77, eseguita a Lipsia il 22 agosto 17123. Su questa frase Bach ha elaborato un brano in stile fugato di straordinaria potenza simbolica, fiducioso che il messaggio dei numeri e delle analogie fra creazione musicale e teologia, fra espressione poetica e concettualità liturgica potesse raggiungere i fedeli. Il tessuto contrappuntistico affidato al coro e concertato con gli strumenti, viene serrata e circonfusa della duplice sonata, sotto forma di Canone (la parola ha il significato di legge), della melodia del Corale “Dies sind die heilgen zehn Gebot” (Sono questi i dieci comandamenti), realizzata all’acuto da una Tromba da tirarsi, ripresa in grave dagli strumenti del Continuo. L’innesto di questa melodia che trasforma il brano da elaborazione su un Corale in Mottetto su Corale, si giustifica solamente con una profonda conoscenza dei rapporti tra i testi evangelici. Il citato passo di Luca è del tutto simile a quello di Matteo (cap.22 vers.36-40), che proclama “«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Tuttavia non è tanto la presenza della melodia del Corale a dare un diverso contenuto, ed una più vasta dimensione a questo Coro, quanto piuttosto l’elaborazione cui viene sottoposto. La tromba ha dieci interventi (i deci comandamenti), mentre il Basso Continuo esegue la melodia con valori di nota allargati (amerai il Signore Dio tuo è il comandamento fondamentale). Una pagina Corale veramente superba. Dopo un recitativo, del contralto (Nr.2), c’è una luminosa aria del soprano (nr.3) introdotta e accompagnata da una struggente melodia di due oboi. L’aria del contralto (Nr.5), che segue il recitativo del tenore (Nr.4), è più riflessiva che vede ancora un disegno strumentale della tromba.
Nr. 1 – Coro
Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima,
con tutta la tua forza
e con tutta la tua mente
ed il prossimo tuo
come te stesso.
Nr.2 – Recitativo (Contralto)
Così dev’essere!
Dio vuole avere i cuori solo per sè.
Dobbiamo scegliere il Signore con tutta
la nostra anima secondo il suo volere
e non gioire di nulla
finchè la nostra mente non
sarà infiammata dal suo Spirito,
poiché solo allora saremo certi
della sua misericordia e della sua bontà.
Nr.3 – Aria (Soprano)
Mio Dio, ti amo con tutto il mio cuore,
l’intera mia vita dipende da te.
Fammi comprendere i tuoi comandamenti
ed accendimi con la fiamma del tuo amore,
rendendomi capace di amore eterno.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Donami, mio Dio, il cuore del samaritano,
così da poter amare il mio prossimo
e di fronte alla sua sofferenza
averne compassione,
senza passare mai oltre
abbandonandolo in stato di necessità.
Fammi detestare l’amore di me stesso
concedendomi un giorno per la tua grazia
quella vita nella gioia a cui aspiro.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Ah, nel mio amore
quanta imperfezione!
Pur avendo la volontà
di compiere la Parola di Dio,
me ne manca la capacità.
Nr.6 – Corale
Signore, rinforza la fede che dimora in me,
Che sia fruttuosa e ricca di buone opere;
Viva attraverso l’amore,
E con gioia e pazienza
continuare a servire il prossimo.
È ancora e sempre la grande orchestra sinfonica la protagonista del “Settembre dell’Accademia”, giunto quest’anno alla 32esima edizione. Ma con l’imperativo di mantenersi vitale e sensibile alle istanze del rinnovamento e della diversificazione, quest’anno l’Accademia Filarmonica ha voluto allargare lo sguardo anche a generi, organici e repertori diversi: dalla seducente musica americana del primo Novecento che si contamina con il jazz, alla musica da film di Morricone e Rota, entrata ormai nel canone classico, alla multiforme musica barocca nel nome tutelare della venezianità settecentesca, Antonio Vivaldi, fino a un ensemble di dodici violoncellisti fuoriclasse dei Berliner Philharmoniker impegnati in trascrizioni di ogni tipo, compresi gli evergreen di Duke Ellington e Astor Piazzolla. Accanto a queste escursioni extraterritoriali brilla il grande romanticismo, quest’anno collocato a più nord-est rispetto alla tradizione austrotedesca: Dvořák, i russi Musorgskij, Čajkovskij, Rachmninov e Stravinskij e i nordici Rautavaara., Grieg e Pärt. Da qui il programma dettagliato
La biglietteria è aperta dal 21 agosto per la conferma degli abbonamenti in prelazione. I nuovi abbonamenti saranno in vendita dal 28 agosto, mentre i biglietti per gli spettacoli singoli sono a disposizione dal 4 settembre.
Verona Shakespeare Fringe Festival 2023, Teatro Camploy
“LADY MACBETH”
Coreografia Risima Risimkin
Musica Toni Kitanovski
Lady Macbeth ANASTASIJA DANCHEVSKA
Macbeth DEJAN BITROVSKI
Witch, Alter ego of Lady Macbeth BOBAN RUSESKI
Witch, Alter ego of Macbeth SARA CVETKOVSKA
Skopje Dance Theatre
Costumi Blagoj Micevski
Prima nazionale
Verona, 29 agosto 2023
È noto come il pubblico di tutto il mondo ami i personaggi delle tragedie di William Shakespeare, dal carattere imperfetto ma essenzialmente magnanimo, tranne uno: Lady Macbeth. Infatti, la consorte (senza un nome proprio) del re usurpatore del trono di Scozia, è la perfezione del male, forse il personaggio più perfido e sanguinario mai scritto nella storia della drammaturgia di tutti i tempi. Questo la rende estremamente interessante, nell’immaginario dello spettatore, ma non tanto da emanciparla a protagonista. In un dramma così cupo, come una cattedrale medievale, Shakespeare mantiene Lady Macbeth sapientemente nell’ombra di un marito di lei succube, quanto cieco arrivista. E allora le streghe danzano in cerchio, mentre gli oracoli e i fantasmi dei morti assassinati appaiono con lo scopo di destabilizzare l’architettura del potere, agendo sulla psiche di Lady Macbeth che ha le sembianze di una foresta, quella di Birnam, luogo in cui avviene la resa dei conti e il male viene scongiurato, realizzando il destino di chi vuole tutto senza merito. Le quinte sceniche mettono in controluce l’entrata in scena della perfida regina che si muove come un’odalisca ammaliatrice, uscendo da un cono in tulle. Attorno a lei danzano i suoi maligni pensieri, che nella penombra vivono finché non giunge il Macbeth dalla testa coronata che li fa propri. Solo allora la trama sonora prende il sopravvento, arricchendo le coreografie di un ben orchestrato esempio di teatro danza. Insomma, quello che la critica ha scritto di questo lavoro, definendolo un’indagine psicologica del personaggio di Lady Macbeth, non convince. Riteniamo che l’intendo di Risima Risimkin, della compagnia macedone Skopje Dance Theatre non sia affatto questo, ma una semplice quanto onesta messa in scena della redenzione di due spiriti indomiti fino alla loro metamorfosi in un rispettivo alter ego. Re Macbeth, piccolo, dalle movenze incerte e dal fisico per niente atletico (Dejan Bitrovski) ha in una danzatrice (Sara Cvetkovska) il suo alter ego, mentre la regina consorte ha nel corpo atletico e possente di un ballerino (Boban Ruseski) il proprio. C’è questa cosa dell’ossessivo guardarsi alle spalle, che fa da leitmotiv, ad affascinare. Tutto il balletto, concentrato in 40 minuti esatti, gira attorno a se stesso riuscendo a mettere in primo piano gli alter ego, quanto fossero esattamente la personificazione del maligno, che in un testo, finanche splendidamente scritto, non vediamo, perché non riusciamo a immaginare una così forte presenza, se non accontentandoci di uno sguardo di sottecchi, di un mezzo ghigno o di un passo furtivo. Quanto è speciale la drammaturgia shakespeariana da offrire una così variopinta quanto tenebrosa progenie dei più vividi istinti dell’esser umano? Basta lasciar spazio al talento di questi coreografi di fama internazionale per godere di quei giochi prospettici che solo la danza può rappresentare. Penombre ricche di volteggi di braccia e vesti e luci radenti come lasciate entrare da porte gigantesche di castelli immaginari. Un vero plauso va al Verona Shakespeare Fringe Festival che ogni anno reclama le compagnie di tutto il mondo a mettere in scena, ognuna a suo modo, non le opere del bardo inglese, ma la moralità, l’amore, i traumi, le seduzioni, le manie e gli infiniti affanni dei suoi personaggi primari e comprimari.
Roma, Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti
OTELLO
di William Shakespeare
Regia, traduzione ed adattamento di Marco Carniti
Desdemona MARIA CHIARA CENTORAMI
Bianca ANTONELLA CIVALE
Othello MAURIZIO DONADONI
Graziano DARIO GUIDI
Iago PAOLO SASSANELLI
Ludovico SEBASTIAN GGIMELLI MOROSINI
Montano I Senatore MATTEO MILANI
Cassio MASSIMO NICOLINI
Roderigo GIGI PALLA
Emilia LOREDANA PIEDIMONTE
Musiche: David Barittoni, Giacomo De Caterini
Costumi: Maria Filippi
Disegno luci: Umile Vainieri
Disegno audio: Daniele Patriarca
Scene: Fabiana Di Marco
Produzione: Politeama s.r.l.
Roma, 31 Agosto 2023
“Nella tragedia di Othello, il male volge un’altra delle sue facce; e il sentimento che gli risponde è, questa volta, non la condanna mista di pietà, non l’orrore per l’ipocrisia e per la crudeltà, ma lo stupore. Jago non è il male commesso per un sogno di grandezza, non è il male per l’egoistico soddisfacimento delle proprie voglie, ma il male per il male, compiuto quasi per un bisogno artistico, per attuare il proprio essere e sentirlo potente e denominatore e distruttore anche nella subordinata condizione sociale in cui esso è posto.“ (William Shakespeare, Othello)
Oggi, Othello appare come una tragedia estremamente attuale, che delinea un conflitto personale e familiare. Un dramma psicologico dai contorni intensi. Otello è un individuo afflitto da una profonda solitudine, risultato della sua cultura e formazione militare. Come un automa bellico, si auto-annienta di fronte alle emozioni. Sprofondato in un universo di gerarchie e disciplina, i suoi sentimenti vengono messi alla prova. Affronta un crollo identitario, sia politico che culturale. Ma Othello è di pelle nera? Che significato ha ciò per noi, oggi? Shakespeare inizia affrontando questioni politiche e razziali, per poi sondare il labirinto della psicologia umana, illuminando la vera essenza dell’anima.L’aspetto oscuro che corrompe l’essere umano dall’interno. Quella parte che sfugge alla ragione, lasciando l’intuizione e l’istinto a determinare la conclusione. Quella parte animale che sopprime la ragione. Othello rappresenta una potente metafora dell’esistenza umana e della sua identità. Evidenzia una condizione di vulnerabilità che porta alla perdita del sé, senza possibilità di fuga. Ma siate prudenti, poiché tutti noi siamo Othello. L’oscurità è in ognuno di noi. Tutti noi siamo prede di un lato oscuro che ci rende vulnerabili e auto-distruttivi, portandoci a precipitare nel vuoto e nell’oscurità. Non ci vuole molto per ridurre una roccia in polvere. Basta poco per far emergere in un uomo un “dubbio” che, come una coscienza alternativa, lo spezza, facendolo precipitare nella schizofrenia. Othello si ritrova ad essere sia vittima che complice della sua auto-distruzione, seguendo un cammino da lui stesso sancito. Un piano di morte improvvisato dalla mente di un abile stratega politico che cerca di riconquistare la sua importanza agli occhi del mondo: Jago. Un “schiavo” che, come un preciso meccanismo d’orologio, pianifica la sua insurrezione politica e sociale, senza temere che la bomba da lui stesso costruita potrebbe esplodere tra le sue mani. Simile a un kamikaze dei tempi moderni, con chirurgica precisione, cerca e amplifica una frattura, un vuoto, una debolezza, già presenti in ciascuno dei personaggi della tragedia, precipitandoli nel caos politico e psicologico. Jago è l’architetto dell’opera e la macchina da lui costruita diventa un percorso inevitabile per tutti i protagonisti, trasformandosi in una trappola mortale anche per lui. Modella continuamente lo scenario per adattarlo alle necessità del suo piano malefico, delimitandolo con labirinti e cancelli, quasi a creare un lungo corridoio, un imbuto rovesciato, che progressivamente limita le possibilità d’azione, isolando personaggi e scene come frammenti cinematografici. Tutti sono burattini nelle mani di Jago, e il suo genio trionfa. L’approccio registico di Carniti esibisce un’attenta valutazione di ogni elemento scenico e interpretativo, con sprazzi intriganti che mettono in evidenza la contemporaneità del dramma, pur mantenendo un rispetto reverenziale per la tragedia originale, evitando così eccessi di autocompiacimento. I costumi ben curati di Maria Filippi e le luci suggestivamente progettate da Umile Vainieri meritano uno speciale riconoscimento, così come le evocative musiche originali composte da David Barittoni e Giacomo De Caterini. Il design scenico di Fabiana Di Marco assume un ruolo cruciale nella rappresentazione, con elementi che si muovono in perfetta sincronia con gli attori, svolgendo non solo un ruolo narrativo ma anche emozionale. Le emozioni infatti delineano gli spazi e saturano la scena, riflettendo i sentimenti convulsi dei protagonisti che pulsano incontrollabilmente attraverso le vene di un corpo animico mai completamente dominato. Nel primo atto, grandi piattaforme scorrono e ruotano incessantemente sul palco, mentre nel secondo atto, una grande gabbia simboleggia il potere tirannico di Iago sulle sue vittime. Otello è intrappolato come un leone in gabbia, sopraffatto dal suo addestratore che lo agita contro la sua preda, Desdemona, che incontrerà il suo destino tragico sul suo letto nuziale, circondata da barre di ferro. In un “tour de force” interpretativo, Maurizio Donadoni traccia una figura di Othello che è un colosso emotivo, imbattibile nella sua risolutezza ma tragicamente fragile nella sua capacità intellettiva. La sua potente presenza scenica si scontra con una crescente goffaggine nelle movenze, un disorientamento quasi tangibile che si riflette anche nel suo monologo. Il suo Othello è un personaggio che, pur esibendo un’aura di potenza, rivela un’anima tormentata e un’intellettualità tentennante. Donadoni, con la sua interpretazione, riesce a catturare l’essenza di un personaggio complesso, sfumato tra la forza e la fragilità, tra la risolutezza e la confusione, in un modo che solo un attore della sua bravura potrebbe fare. Paolo Sassanelli, con una maestria teatrale indiscussa, si cala nei panni di uno Jago che si svela sempre più perfido e subdolo, destando un senso di ripugnanza crescente nel pubblico. L’artista, con una padronanza della scena ed un’abilità recitativa impareggiabili, trae in inganno lo spettatore, trasformandosi gradualmente da un personaggio dall’aspetto iniziale innocuo ad una figura demoniaca. Questa metamorfosi avviene senza mai eccedere, sempre con una dose misurata di malignità, coniugata con un tocco di ironia che bilancia la rappresentazione dei sentimenti più basse, rendendo così la sua Jago una figura incredibilmente reale ed umana. L’interpretazione di Sassanelli è un esercizio di equilibrismo tra male e comicità, un gioco d’ombre e luci che cattura l’attenzione dello spettatore e lo trascina in un vortice di emozioni contrastanti. Maria Chiara Centorami emerge come una Desdemona incantevole, regalando un’interpretazione profondamente personale che oscilla tra una vivace esuberanza e un’angoscia drammatica. Con una presenza scenica sempre giusta e attenta, ogni gesto, ogni posa, ogni battuta di questa attrice, risuona con un’autenticità che amplifica la complessità emotiva del suo ruolo. Il resto del cast non si lascia affatto eclissare, contribuendo ad arricchire l’opera con momenti di rara intensità e cesellature artistiche di notevole interesse. Non mancano infatti interpretazioni di alto livello, che riescono a combinare talento e professionalità, conferendo alla rappresentazione un’emozionante complessità scenica. Un pubblico avvezzo allo spettacolo e all’allestimento non nuovo per Roma ma che riesce sempre a rinnovare la sua ammirazione per le belle realizzazioni, premiando gli attori con applausi calorosi e partecipati. Photo Credit: Chiara Calabrò. Qui per tutte le informazioni.
Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”, 69º Festival Puccini
“IL TABARRO”
Opera in un atto, su libretto di Giuseppe Adami tratto dal dramma “La houppelande” di Didier Gold
Musica di Giacomo Puccini
Michele LUCIO GALLO
Luigi, scaricatore AZER ZADA
Giorgetta, moglie di Michele MONICA ZANETTIN
Il Tinca ENRICO CASARI
Il Talpa FRANCESCO AURIEMMA
La Frugola, moglie del Talpa LORIANA CASTELLANO
Un venditore di canzonette GIANMARCO LATINI MASTINI
Due amanti FRANCESCA MANNINO, MARCO MONTAGNA
“IL CASTELLO DEL DUCA BARBABLÙ” (A kékszakállú herceg vára)
Opera in un atto su libretto di Béla Balász, tratto dal dramma “Ariane et Barbe Bleu” di Maurice Maeterlinck
Musica di Béla Bártok
Judit SZILVIA VÖRÖS
Barbablù ANDREA SILVESTRELLI
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Direttore Michele Gamba
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Regia Johannes Erath
Scene Katrin Connan
Costumi Noelle Blancpain
Luci Alessandro Carletti
Video Bibi Abel
Allestimento del Festival Puccini in coproduzione col Teatro dell’Opera di Roma nell’ambito del progetto “Il Trittico Ricomposto”
Torre del Lago (LU), 26 agosto 2023
Molto si è discusso e già scritto sul progetto di “Trittico ricomposto” portato avanti da Roma e Torre del Lago: ci approcciamo dunque alle esecuzioni al Festival con cautela e una giusta dose di curiosità, desiderosi sia di poter deplorare, ma anche di rimanere sorpresi. Come i più assidui dei miei lettori potranno immaginare, la sorpresa, in questo caso, ha preso il sopravvento sul piacere della critica: questo dittico Puccini vs Bártok funziona, sia nel senso estetico – giacché si percepisce l’unitarietà del progetto scenico -, sia in senso musicale: associare “Barbablù” al “Tabarro” mette in luce sia il carattere eminentemente narrativo e quasi pittorico dell’operina di Bártok, ma soprattutto evidenzia la grande modernità della partitura pucciniana, così lontana dalla precedente “Rondine” e ormai consapevole attante del XX secolo. Johannes Erath si approccia a questa inedita coppia operistica con sorprendenti lucidità e coerenza: costruisce una scena gelida, ma allo stesso tempo quasi aliena, dominata dai toni di blu e grigio, che a loro volta si trasformano in acqua e aria nelle interessanti proiezioni che dialogano costantemente con la scena (curate da Bibi Abel); essa, a sua volta, segue due direttrici narrative, quella della trama (grossomodo rispettata, per quanto manchi l’eponimo tabarro) e quella della chiave registica, che si esplicita in un massicio ricorso ad abili figuranti – invero apprezzati maggiormente su “Barbablù” che sul “Tabarro”, ma comunque sempre impegnati in una prova scenica simbolica e muscolare allo stesso tempo. Il corpo è al centro di questo dittico, e la violenza che esso può perpetrare o può subire, nelle sue diverse forme, dalla brutalità di Michele al sottile masochismo di Judit, dalla basica carnalità della coppia Giorgetta-Luigi all’amore tossico del Duca Barbablù, fino alle oppressioni della psiche che schiacciano i vari protagonisti e si incarnano nel lavoro degli attori in scena. Le scene raffinate e lineari di Katrin Connan interagiscono (quarto elemento di questa vera “rapsodia in blu”) e conferiscono significati più marcati all’azione, soprattutto la torre di scale nere che si sposta in continuazione e su cui si esplicitano i fantasmi di Judit come le Midinette parigine immaginate da Puccini, allo stesso tempo girone infernale e carcere delle pulsioni. Se l’assetto scenico ci colpisce – pur nell’inintelleggibilità di alcune scelte, che, tuttavia, rientra nell’atmosfera di sospensione onirica che si ricrea in scena – sul piano vocale assistiamo a delle prove generalmente valide, ma con pochi artisti in grado di distinguersi davvero. Lucio Gallo, ad esempio, trova in Michele probabilmente il suo ruolo-feticcio: dalla sua interpretazione traspare il lavoro profondo sul personaggio, che si esprime nella piena coincidenza di fraseggio e lavoro scenico. Quasi superfluo specificare che la voce è ampia, ricca di colori, sonora dai gravi agli acuti e che la linea di canto si costruisce sul naturale andamento dell’eloquio. Altro artista che si distingue – soprattutto poiché sostituisce all’ultimo il povero Johannes Martin Kränzle, finito in ospedale – è Andrea Silvestrelli, talentuoso basso di stanza pr lo più negli USA: il suo Barbablù ha un’intensità e dei colori forse troppo “italiani”, ma contemporaneamente conferisce al personaggio una tridimensionalità per nulla scontata. Il Duca si avvale della sua vocalità ampia e calda, tonitruante specie nei gravi – più approssimativa negli acuti –, e dell’imponente quanto elegante fisicità di Silvestrelli, che pure scenicamente si mette in discussione con la regia molto corporea. Accanto a lui, Szilvia Vörös si rivela la più brillante stella della serata, una Judit potente, incisiva, ma anche fragile e dolente, priva – vivaddio – dell’esasperazione di cui il ruolo è spesso caricato oltralpe: la voce della Vörös si sostiene con una solida tecnica che piega al fraseggio più attento e la prova scenica è sicura e consapevole. Fra le altre interpretazioni del “Tabarro”, si mettono in luce la Frugola di Loriana Castellano, soprattutto per la rotondità del suono e il bel colore smaltato, e il Venditore di Canzonette Gianmarco Mastini Latini, tenore chiaro ma non troppo leggero. Spiace constatare invece come Monica Zanettin – altrove distintasi positivamente – non trovi in Giorgetta un ruolo con il quale riesca ad entrare in contatto davvero: la voce è senz’altro interessante, sebbene emerge qualche debolezza nei centri; la Zanettin ci sembra spaesata nella regia simbolica ed immaginifica, e questo inficia anche la prova vocale. Infine, Azer Zada (Luigi) non ci pare proprio in serata: la linea di canto è disomogenea, il registro acuto forzato e il fraseggio sopra le righe. La concertazione del maestro Michele Gamba si dimostra più prudente su Puccini, senza comunque mostrare alcune discrasie tra buca e scena, ma è su Bártok che trova un’espressione più personale, orientata a illuminare i passaggi più impressionisti della ricca partitura – in pieno accordo con il suggestivo assetto scenico. Quando si arriva alla fine di questo dittico, si ha la chiarissima sensazione di aver assistito a qualcosa di potente e catartico; nondimeno più di una punta d’amarezza si insinua, quando ci accorgiamo di quanti hanno lasciato l’arena durante l’intervallo o durante la recita del “Barbablù”, credendo di mostrare chissà quale superiorità artistico-morale sull’opera dell’ungherese, e facendo invece chiaro sfoggio solo di cattivo gusto. C’è da chiedersi se si comporteranno con simile disprezzo anche ai prossimi capitoli di questo “Trittico ricomposto”, che prevederanno “Suor Angelica” accostata al “Prigioniero” di Della Piccola e “Gianni Schicchi” a “L’heure espagnole” di Maurice Ravel – due scelte che già stanno ingolosendo coloro che amano l’opera e non i pregiudizi.
Desideriamo ancora segnalare alcuni appuntamenti di RAI 5 nonostante una programmazione che poggia costantemente su repliche e con pochi appuntamenti degni di nota per gli appassionati. Decliniamo ogn responsabilità su variazioni di programmazione e di orari.
Venerdì 1 settembre
Ore 10.00
“LA BOHEME”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Valerio Galli
Regia Ettore Scola
Interpreti: Daniela Dessì, Alida Berti, Fabio Armiliato, Alessandro Luongo, Federico Longhi, Marco Spotti…
Torre del Lago, 2014
Sabato 2 settembre
Ore 10.35
“MOISE ET PHARAON”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Riccardo Muti
Regia Luca Ronconi
Interpreti:Ildar Abdrazakov, Erwin Schrott, Giuseppe Filianoti, Sonia Ganassi, Barbara Frittoli…
Domenica 3 settembre
Ore 10.00
64° Concorso Pianistico Internazionale Ferruccio Busoni 2023
In diretta dal Teatro Nuovo di Bolzano.Sul podio dell’Orchestra Haydn di Bolzano, il M° Arvo Volmer dirigerà i tre concerti per pianoforte e orchestra proposti dai finalisti. Alla conduzione Francesco Antonioni e Elena Biggioggero.
Ore 18.15
“AIDA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Marco Armiliato
Regia Stefano Poda
interpreti:Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Olesya Petrova, Roman Burdenko, Michele Pertusi…
Verona, 2023
Lunedì 4 settembre
Ore 10.00
“FRANCESCA DA RIMINI”
Musica Riccardo Zandonai
Direttore Maurizo Arena
Regia Pier Luigi Samaritani
Interpreti: Raina Kabaivanska, Felice Schiavi, Franco Tagliavini, Oslavio Di Credico…
Verona, 1980
Martedì 5 settembre
Ore 10.00
“ADRIANA LECOUVREUR”
Musica Francesco Cilea
Direttore Edoardo Muller
Regia Mauro Bolognini
Interpreti: Raina Kabaivanska, Eleonora Jankovic, Franco Tagliavini Guido Mazzini, Antonio Zerbini, Tullio Pane, Giovanna Santelli…
Verona, 1979
Mercoledì 6 settembre
Ore 10.02
“ORLANDO FURIOSO”
Musica Antonio Vivaldi
Direttore Claudio Scimone
Regia Pier Luigi Pizzi
nterpreti: Marilyn Horne, Sandra Browne, Anastasia Tomaszewska, Luisa Gallmetzer, Dano Raffanti, James Bowman, Nicola.
Verona, 1979
Giovedì 7 settembre
Ore 10.00
“NABUCCO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniel Oren
Regia Hugo de Ana
Interpreti: Renato Bruson, Sylvie Valayre, Ferruccio Furlanetto, Nazzareno Antinori, Gloria Scalchi.
Verona, 2000
Ore 21.15 replica Domenica 10 settembre
Ore 18.05
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Alessandro Bonato
Regia Hugo de Ana
Interpreti: Antonino Siragusa, Carlo Lepore, Vasilisa Berzhnanskaya, Davide Luciano, Michele Pertusi…
Verona, 2023
Venerdì 8 settembre
Ore 10.00
“AIDA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Diego Matheuz
Interpreti: Simon Lim, Anita Rachvelishvili, Angela Meade, Jorge de Leòn, Michele Pertusi, Luca Salsi, Riccardo Rados
Verona, 2021
Sabato 9 settembre
Ore 10.30
“L’ELISIR D’AMORE”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Niels Muus
Regia Saverio Marconi
Interpreti: Valeria Esposito, Aquiles Machado, Erwin Schrott,Enrico Marrucci, Roberta Canzian
Macerata, 2002
Domenica 10 settembre
Ore 10.00
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Claudio Scimone
Regia Tobias Richter
Interpreti: Leo Nucci, Cecilia Gasdia, Ramon Vargas, Enzo Dara, Ruggero Raimondi, Andrea Snarski, Daniella Streiff
Verona, 1996
Lunedì 11 settembre
Ore 10.02
“DON GIOVANNI”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Stefano Montanari
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti:Carlos Álvarez, Rafal Siwek, Irina Lungu, Saimir Pirgu, Maria Josè Siri, Alex Esposito, Christian Senn, Natalia Roman
Verona, 2015
Martedì 12 settembre
Ore 10.00
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Marcello Viotti
Regia Charles Roubaud
Interpreti: Leo Nucci, Aquiles Machado, Inva Mula, Mario Luperi, Sarah M’Punga…
Verona, 2001
Mercoledì 13 settembre
Ore 10.00
“CARMEN”
Musica Georges Bizet
Direttore Alain Lombard
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti: Marina Domashenko, Marco Berti, Maya Dashuk, Raymond Aceto…
Verona, 2003
Andrea Pennacchi è il protagonista e il regista di Shakespeare & Me – Ovvero come il bardo mi ha cambiato la vita. Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Romano di Verona, il 6 e 7 settembre (ore 21.15) per il Festival Shakespeariano, cuore pulsante dell’Estate Teatrale Veronese che quest’anno festeggia la sua 75ª edizione. Il testo teatrale è l’adattamento del libro omonimo, scritto dall’attore e pubblicato da People, con la produzione Teatro Boxer. Shakespeare ha aiutato Andrea Pennacchi, e altri come lui, a conoscere meglio l’umanità. Il corpus shakespeariano è una mappa delle relazioni umane di pronto utilizzo, a patto di continuare a lavorarci sopra, come curiosi artigiani e di non considerarlo un testo sacro immobile e inamovibile, la cui interpretazione va affidata a pochi, ma una matrice vivente, una lente con cui leggere la contemporaneità. Uno strumento a disposizione di chiunque. In questo spettacolo Pennacchi, accompagnato dalle note di Giorgio Gobbo, ci racconta come Shakespeare, le sue opere e i suoi personaggi gli abbiano cambiato la vita, perché «le storie che racconti modificano il mondo (una persona alla volta)». Un approccio originale verso l’opera del Bardo che parte dalla storia autobiografica di Pennacchi per raccontare le opere, lo spirito del tempo e l’universalità dell’opera shakespeariana.
Informazioni e aggiornamenti:
teatroboxer.com e www.spettacoloverona.it.
Biglietti in prevendita su www.boxol.it.
Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”, 69º Festival Puccini
“LA BOHÈME”
Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal romanzo Scenès de la vie de bohème di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo ORESTE COSIMO
Mimì CLAUDIA PAVONE
Marcello ALESSANDRO LUONGO
Musetta FEDERICA GUIDA
Colline ANTONIO DI MATTEO
Schaunard SERGIO BOLOGNA
Benoît ANGELO NARDINOCCHI
Alcindoro ALESSANDRO CECCARINI
Parpignol MARCO MONTAGNA
Segente dei doganieri FRANCESCO AURIEMMA
Orchestra, Coro e Coro delle Voci Bianche del Festival Puccini
Direttore Manlio Benzi
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Maestro del Coro delle Voci Bianche Viviana Apicella
Regia Christophe Gayral
Scene Christophe Ouvrard
Costumi Tiziano Musetti da un’idea di Edoardo Russo
Luci Peter Van Praet
Nuovo allestimento Fondazione Festival Puccini
Torre del Lago, 25 agosto 2023
Il primo Puccini è il più insidioso sul piano della messa in scena: ama ambientazioni estremamente specifiche e i diversi librettisti cui si affida si sprecano nell’infarcire i testi di riferimenti metatestuali; così la generica bella vita di Manon Lescaut diventa “trine morbide”, il regalino di Rodolfo a Mimì è una ”cuffietta rosa” e via fino a “Madama Butterfly” compresa. Questa semplice verità dovrebbe sempre venire ricordata ai registi – specie a quelli con meno dimestichezza con la lingua italiana del tempo – quando si accostano a queste opere; poi starà a loro scegliere se consapevolmente spezzare il legame tra scena, parola e partitura, o cercare linee più coerenti; più specificamente, nell’ambito del 69º Festival Puccini, ci riferiamo a Gayral e Ouvrard (entrambi Christophe), che non ci hanno offerto né una “Bohème” nuova (giacché abbiamo almeno la produzione Premio Abbiati 2012 già ambientata all’epoca del Maggio Francese), né una scandalosa (ben più forte quella di Ken Russell dell’84, o anche la recente di Graham Vick), né interessante, poiché tendenzialmente rimane alla superficie della vicenda, invece che sondare interpretazioni profonde. Insomma, una “Bohème” sbagliata, su tutta la linea: le scene di Christophe Ouvrard sono ben fatte, sì, ma scollate dalla narrazione; le luci di Peter Van Praet talvolta arbitrarie (e la luce è un elemento importante in “Bohème”: il lume del primo atto, l’abbagliante rutilio del Momus, il rapporto luce-calore che Mimì non sente più); i costumi poi hanno un che di paradossale, con una Mimì sempre pronta a spogliarsi e una Musetta prima impellicciata, poi a collo alto infine in spolverino bourgeois – e c’è da domandarsi se davvero, per questi costumi, ci sia stato bisogno di un ideatore (Edoardo Russo) e un esecutore (Tiziano Musetti); la regia di Christophe Gayral, infine, trascina l’intero cast in una serie di trovate talvolta non riuscite (tutta la scena con Benoît, confusa, pasticciata e appesantita dalla presenza di sei bambini figuranti), talaltra di dubbio gusto (Mimì che si rolla una sigaretta su “Sì, mi chiamano Mimì” e beve da una fiaschetta per tutto il tempo, Musetta che maltratta un Alcindoro in sedia a rotelle, sfiorando l’abilismo), quando non si arriva al vero delirio: l’ingresso di Schaunard in cui si sparpagliano per la scena mille oggetti che il cast deve recuperare, e che distraggono il baritono dall’attaccare; la folla di Parigi organizzata in una serie di manifestazioni di Destra (con tanto di suore che reggendo uno striscione su cui c’è scritto “Dieu” cantano i notori slogan fascio-cattolici “Latte di cocco! Giubbe! Carote!”); Musetta e Marcello che lavorano in un ristorante cinese; l’ostensione in scena, dopo la morte di Mimì, di cartelli sul cambiamento climatico, con tanto di coro che entra senza costumi appositamente. Purtroppo anche sul piano musicale la produzione solleva molte perplessità, a cominciare dalla direzione del maestro Michele Benzi, che pare tutto impegnato sulla partitura, quasi mai alza la testa: ne risultano parecchie scollature tra scena e buca, oltre che una sostanziale disomogeneità tra i cantanti, che esacerba le notevoli differenze che già presentano. A Claudia Pavone sembra che Mimì non le sia particolarmente congeniale: nei primi due atti il fraseggio è assai generico, nei successivi la linea di canto poco varia nei colori, costatentemente sul “forte”. La regia, poi, non aiuta l’interprete, che costruisce una Mimì ingenua e disinvolta, quanto tabagista ed alcolista. Anche Oreste Cosimo è più intrappolato in Rodolfo che padrone del personaggio: una gestualità francamente incomprensibile rovina tutto il duetto del primo atto (con il Do cantato da Rodolfo aggrappato a una scala a pioli), nel secondo sparisce per riapparire squatter in un ristorante cinese e sul finale la sua straziante battuta finale a Mimì si perde nella distribuzione dei cartelli ambientalisti ai vari personaggi. Musicalmente Cosimo c’è: il colore è forse un po’ chiaro per il ruolo, ma il fraseggio è abbastanza curato e gli acuti sicuri – ogni tanto, soprattutto nel primo e nel terzo atto, si abbandona a portamenti poco nobili, ma visto il contesto, non si sa se siano fuori luogo o no. Il Marcello di Alessandro Luongo si contraddistingue per un suono qua e la un po’ opaco, un fiati a volte un po’ in affanno, ma comunque una cura del fraseggio interessante. Riuscitissime invece le prove di Federica Guida e Antonio di Matteo: lei una Musetta limpida e fascinosa, dalla morbidissima linea di canto, lui un Colline dalla voce importante, timbricamente calda (strappa giustamente l’applauso per la “Vecchia zimarra”), entrambi anche scenicamente piacevolmente presenti. Il coro e le voci bianche del Festival, sempre ben rodati, forniscono pure performance coese e di bell’impatto. Una piccola nota conclusiva su Schaunard: conciato come una specie di beatle mendicante e sobbarcato di oggetti nella sua entrata, occorre tributare un piccolo plauso a Sergio Bologna, professionista di lunga e comprovata carriera, che non solo sostiene perfettamente il ruolo sul piano tecnico-vocale (come ci aspetteremmo), ma si presta alle eccentricità della regia come meglio può (tra le quali rientra anche fumare una sigaretta, durante il “Sono andati” del quarto quadro), da vero “veterano” in grado di tenere il passo con un cast di dieci o venti anni più giovane. Ci resta, tuttavia, il dubbio sull’effettivo senso di rispetto (nei suoi riguardi, ma più generalmente anche in quelli di Puccini) che una simile messinscena esprima, giacché questo rilancio in diminutio che sembra assillare taluni registi (per lo più d’oltralpe, ma pure nostrani) non giova agli artisti, all’arte e men che meno a noi, che in quest’arte andiamo cercando spinte elevanti, non sabbie mobili nel quale impantanarci.
Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”– 69° Festival Puccini
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa dal dramma omonimo di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-cio-san) CAROLINA LOPEZ MORENO
Suzuki ALESSANDRA VOLPE
Kate Pinkerton LORIANA CASTELLANO
B. F. Pinketon LUCIANO GANCI
Sharpless BRUNO TADDIA
Goro ENRICO CASARI
Lo zio Bonzo SEUNG PIL CHOI
Il Principe Yamadori ITALO PROFERISCE
Il Commissario Imperiale FRANCESCO AURIEMMA
L’Ufficiale del Registro ALESSANDRO CECCARINI
La Madre TAISIIA GUREVA
La Zia YO OTAHARA
Yakuside MARCO MONTAGNA
La Cugina ROMINA CICOLI
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Direttore Francesco Cilluffo
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Regia, Scene e Costumi Pier Luigi Pizzi
Light Design Massimo Gasparon
Allestimento Associazione Arena Sferisterio e Fondazione Festival Pucciniano
Torre del Lago, 24 agosto 2023
Il Festival Puccini di Torre del Lago è in grado di riservare sempre una serie di piccoli o grandi colpi di scena all’avventore: quest’anno si è trattato dell’improvvisa dipartita del direttore artistico Alberto Veronesi, proprio alle porte del centenario della scomparsa di Giacomo Puccini. Pazienza, il Festival insegna da ormai sessantanove anni a tutti la sua grande capacità di galleggiare, sopravvivere, nei casi migliori, rigenerarsi – e di certo ci aspettiamo un cartellone comunque ricchissimo e di livello per le celebrazioni del 2024. La proposta di quest’anno, invece, risente di una certa stanchezza generale, a partire dalla nuova produzione di “Madama Butterfly”, per la regia di Pier Luigi Pizzi e diretta da Francesco Cilluffo. La concertazione di Cilluffo, per quanto tutta orientata alla resa espressiva, ci è parsa eccessivamente largheggiante e magniloquente: il cast talvolta morde il freno, e in generale la sensazione è quella di una dilatazione di cui anche le parti orchestrali soffrono. Carolina Lopez Moreno è una Cio-Cio-San fascinosa, insolitamente sensuale, tutta spesa scenicamente; vocalmente il bel colore del soprano si perde in una tecnica per lo meno dubbia, che trasforma in filati e mezzevoci anche i passaggi più virulenti, minando la credibilità di un personaggio sì delicato, ma anche risoluto depositario di una millenaria tradizione vendicativa e autodistruttiva. Luciano Ganci è un solido Pinkerton: presenza scenica e solidità della linea di canto, uniti a buon fraseggio, ne restituiscono il carattere beffardo e accalorato; crediamo però che il colore vocale di vocalità di Ganci sia più adatta ad altro repertorio, ma comunque la sua è una prova brillantemente superata. Misuratissima e dolente la Suzuki di Alessandra Volpe, che sfodera centri ben sostenuti e grande trasporto scenico; meno a fuoco lo Sharpless di Bruno Taddia, dai suoni non sempre controllati e un fraseggio un po’ generico. Tra i ruoli di lato senz’altro spiccano positivamente il Goro di Enrico Casari (voce quasi troppo bella per un ruolo tanto meschino) e il chiaro e nobile Yamadori di Italo Proferisce. Il Coro del Festival Puccini, dal canto suo, si riconferma una solida certezza, tanto nel primo atto quanto nell’iconico “a bocca chiusa” – un plauso al maestro Roberto Ardigò. L’impianto scenico di Pizzi è di algida tradizione, con la “casa a soffietto” al centro e varie passerelle bianche che ad essa conducono: lascia intuire una sospensione sull’acqua, ma che nella pratica non è rispettata da diversi personaggi, che nelle aree senza passerelle entrano e camminano. Inoltre i pochi elementi scenografici sono scarsamente coerenti – perché un Buddha d’oro in un contesto dichiaratamente shintoista? Perché l’assenza di qualsiasi pianta o vegetale, quando nel secondo atto c’è un “duetto dei fiori”? I costumi, essenziali, sono semplicemente funzionali alla scena. Le luci di Massimo Gasparon sono senz’altro suggestive, ma di anch’esse si ha l’impressione che avrebbero potuto dare di più (specialmente in termini di movimentazione della scena) e non limitarsi a un calligrafismo certo patinato, ma anche polveroso. La regia, infine, non convince quando sembra voler cercare per forza l’éclat: la notte d’amore dei protagonisti discinti nel primo atto, il coro degli spettri di Cio-Cio-San vestiti come apicoltori bianchi, il suicidio della protagonista adiuvato da una Suzuki killer che le taglia la gola sul finale. Certamente non la regia migliore di Pizzi, che già altre volte ha dichiarato il suo rapporto burrascoso con “Madama Butterfly” (e il verismo in generale), e che già troppe volte ha giocato questa carta del total white – ormai più una “coperta di Linus” che una scelta effettiva del regista o una cifra di stile. Peccato.
Parte dall’Arena di Verona l’importante tournée europea dell’Orchestra e del Coro del Teatro alla Scala che, con il Direttore Musicale Riccardo Chailly e il Maestro del Coro Alberto Malazzi, debuttano nell’anfiteatro romano in occasione del 100° Festival areniano. Unica tappa italiana, in programma giovedì 31 agosto alle 21, vedrà i complessi artistici del prestigioso Teatro milanese protagonisti di un concerto interamente dedicato a Giuseppe Verdi.
Nel concerto si ascoltano infatti alcune delle pagine più rappresentative del percorso corale compiuto da Verdi, presenti anche nel recente album di Cori scaligero pubblicato da Decca: dal “Va’, pensiero” del Nabucco al Trionfo dell’Aida, passando per il celebre “O Signore, dal tetto natio” dai Lombardi alla prima crociata fino al “Si ridesti il leon di Castiglia” da Ernani. Non mancano, poi, il coro delle streghe e il commovente “Patria oppressa” da Macbeth, il famoso “Vedi le fosche notturne spoglie” dal Trovatore, la Tarantella dalla Forza del destino e “Spuntato ecco il dì d’esultanza” da Don Carlo. Durante la serata si alternano momenti corali e sinfonici, fra questi Sinfonie e Preludi da Nabucco, Macbeth, Ernani, Il trovatore e La forza del destino.
Fondazione Arena di Verona in collaborazione con Comune di Verona, Estate Teatrale Veronese
“ZORBA IL GRECO”
Balletto in due atti
Musica Mikis Theodorakis
Zorba DENYS CHEREVYCHKO
Marina ELEANA ANDREOUDI
John DAVIDE DATO
Madame Hortense LUDMILA KONOVALOVA
Manolios DANILO NOTARO
Ballo della Fondazione Arena di Verona
Coreografia Lorca Massine
Assistente alla coreografia Anna Krzyskow
Scene Filippo Tonon
Coordinamento costumi Silvia Bonetti
Luci Sergio Toffali
Verona, 27 agosto 2023
Il ritorno del balletto Zorba il Greco e soprattutto della danza al Teatro Romano con un corpo di ballo della Fondazione Arena di Verona è stata sicuramente la “sorpresa” di questa estate veronese. Uno spettacolo che non era nel cartellone ufficiale, annunciato giusto un mese dalla serata del 27 agosto. Una notizia che ha avuto subito l’effetto di un “tutto esaurito” in brevissimo tempo. Un altro lato positivo di questa serata evento. Non dilunghiamoci troppo sulla cronistoria di questo balletto che è stato la “punta di diamante” delle stagioni areniane della fine degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Al 1990 la consacrazione: la direzione di Theodorakis e la presenza in scena di Vladimir Vassiliev, Gheorge Jancu, Luciana Savignano. E qui, lo scrivente, può dire “io c’ero” tra i fortunati a vivere (e rivivere, correndo ad acquistare subito la videocassetta, vhs, dello spettacolo!) le emozioni di una creazione che, fin da subito, si era dimostrata una scelta azzeccata che aveva portato se non il “tutto esaurito” un numero considerevole di pubblico per un balletto “nuovo”, fuori dal repertorio dei grandi classici proposti in quegli anni (“Lago dei cigni, “Don Chisciotte”, “Lo schiaccianoci”, ecc.). Insomma uno spettacolo “fortunato”. Tralasciamo quanto avvenuto dopo allo Zorba in Arena e ancora peggio al corpo di ballo stabile, fatto “morire” nel 2016, negli anni più cupi della vita dell’istituzione veronese. Da allora, abbiamo assistuto alla creazione di un corpo di ballo per le stagioni estive e solo coinvolto per le varie Aide, Traviate, Carmen…ecc. Zorba al Teatro Romano rappresenta, speriamo, un punto svolta per tornare a valorizzare e auguriamoci, a far rinascere il corpo di ballo come realtà autentica e creativa della Fondazione Arena. Questo è sicuramente l’aspetto più importante della serata dello scorso 27 agosto. Un valore, se vogliamo anche un po’ “politico”, visto che al Romano sono confluite pressochè tutte le istituzioni della politica veronese: sindaco, assessori vari, ecc. Tutto ciò non va a precludere al valore artistico dello spettacolo. Chi scrive ha fatto un po’ fatica a resettare i ricordi areniani, con i suoi grandi spazi, la musica dal vivo, il ricordo di aver visto Theodorakis, il carismatico Vassiliev. Entrare in una logica del “qui è un’altra cosa” non è stato facilissimo. Le ovvie dimensioni ridotte del Romano, hanno un po’ tolto del respiro al linguaggio coreografico di Massine che mescola classico, moderno e popolare. Questo è sicuramente un pensiero, una riflessione condizionata da un precedente che, molto del pubblico presente il 27 non poteva avere e che ha tributato un successo travolgente al rito collettivo del finale, con la catartica “Danza di Zorba” (bissata, a “furor di popolo” se non ho perso il conto, ben cinque volte!). Ammirevole il corpo di ballo areniano, per omogeneità tecnica e partecipazione teatrale, così come tutti i protagonisi, a partire da Denys Cherevychko che ha saputo dare una connotazione personale, solida al personaggio di Zorba. Accanto a lui, l’inappuntabile e svettante Davide Dato (Johnny) sicuramente il più penalizzato dalle dimensioni del palcoscenico. La sua presenza autenticamente “classica” ha potuto solo in parte librarsi sulla scena. Ne abbiamo comunque apprezzato la sensibilità interpretativa, così come per Liudmila Konovalova (Hortense), Eleana Andreoudi (Marina) e di Danilo Notaro (Manolis). Efficace il “classico” allestimento scenico. Le statue in scena hanno in questo caso un po’ supplico alla mancanza del Coro, altro elemento importante e presente in scena nella versione areniana di Zorba.Cosa altro aggiungere?…Aspettiamo sviluppi futuri! Foto Tommasoli
Dopo il grande successo di “Ifigenia #generazionesacrificio” nel 2021, Spazio Teatro Giovani(centro di ricerca e di formazione teatrale per i giovani a Verona) torna sul palcoscenico del Teatro Romano con “Romeo e Giulietta #generazionesacrificio”. Lo spettacolo, tratto da William Shakespeare, sarà in scena venerdì 1 e sabato 2 settembre, alle 21.15, in prima assoluta. Prodotto dal Teatro Stabile di Verona e dall’Estate Teatrale Veronese, è frutto di un intenso laboratorio di otto mesi durante il quale le esperienze e il vissuto di ogni singolo partecipante hanno dialogato con i temi, il linguaggio e le metafore proposti dall’inesauribile testo shakespeariano. In scena venticinque ragazze e ragazzi dai diciotto ai ventotto anni e Giuseppe Sartori, attore diplomato alla scuola del Piccolo di Milano, nel ruolo del principe di Verona. La rielaborazione drammaturgica e la regia sono di Silvia Masotti e Camilla Zorzi. Questo “Romeo e Giulietta” è un’amara riflessione, da una prospettiva diversa, su temi come l’amore, il ruolo della famiglia, l’odio e la guerra tra bande. Perché Romeo e Giulietta, oltre a una storia d’amore, è una storia d’odio e di morte. Verona è lo scenario di una lotta fratricida: le due famiglie che si scontrano, i Montecchi e i Capuleti, hanno educato i loro figli all’odio, allo scontro fisico, all’insulto verbale e tutto quest’odio non può che generare morte. Nel corso della vicenda muoiono tantissimi personaggi, l’uno ammazzato dall’altro: sono tutti ragazzi sotto i diciott’anni e quando infine muoiono i due innamorati, Romeo e Giulietta, che si suicidano perché non possono vivere la loro storia d’amore, la città rimane senza un futuro, perché ha perso chi quel futuro lo può costruire.
Informazioni www.spettacoloverona.it e www.teatrostabileverona.it
Biglietti in vendita al Box Office di via Pallone, così come online sui siti www.boxofficelive.it e www.boxol.it. Oppure la sera dello spettacolo, direttamente al botteghino del Teatro Romano dalle ore 20.
Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2022-2023
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Melodramma in un atto su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, dal dramma omonimo di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza SILVIA BELTRAMI
Turiddu JEAN-FRANÇOIS BORRAS
Lucia ANNA MALAVASI
Alfio DALIBOR JENIS
Lola MARTINA BELLI
Una donna VALERIA ARRIVO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Regia Italo Nunziata
Regista collaboratore e movimenti coreografici Danilo Rubeca
Light designer Fabio Barettin
Scene e costumi Scuola di Scenografia e Costume per lo Spettacolo dell’Accademia di Belle Arti di Venezia
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Venezia
Venezia, 25 agosto 2023
Il rapporto di Gustav Mahler con la produzione operistica italiana coeva non lasciò in lui tracce profonde. Resta memorabile, a tal proposito, la stroncatura che riservò alla Tosca di Puccini. Nondimeno, è nota la sua infatuazione per Cavalleria rusticana, in cui probabilmente coglieva più di qualche affinità rispetto alla propria poetica musicale: l’ispirarsi ai suoni della vita reale – dall’ambiente naturale a quello sociale di un’immota Sicilia –; una scrittura che faceva convivere, come i suoi lavori sinfonici, il sacro col profano, la musica colta con quella popolare. Ma certamente lo colpiva positivamente anche il fatto che fosse un atto unico, proprio come quella Salome di Richard Strauss, che – forse sola opera del suo tempo – considerava un capolavoro. Ebbene, il capolavoro di Pietro Mascagni torna alla Fenice, dopo quindici anni di assenza, in un nuovo allestimento, nato dalla collaborazione fra il teatro di Campo San Fantin e l’Accademia di Belle Arti di Venezia, di cui un gruppo di allievi – attinti dalla Scuola di Scenografia e da quella di Costume per lo Spettacolo – hanno ideato e realizzato, appunto, scene e costumi, sotto la supervisione di Italo Nunziata, che si è avvalso, per il light design, del collaudatissimo Fabio Barettin. Il regista cosentino punta con la sua messinscena, per certi versi abbastanza tradizionale, a uno spettacolo scevro da ogni bozzettismo oleografico: la sua Sicilia è una realtà molto cruda, collocata nel contesto degli anni Cinquanta del Novecento; un luogo dove una luce inesorabile si abbatte su muri, non del tutto costruiti o semidistrutti da una guerra, entro i quali si compie una tragedia antica, che Nunziata, nella sua messinscena, si propone di depurare da certi eccessi, più che mai datati, del Verismo musicale, per farla assurgere alla dignità, all’intramontabile potenza espressiva della tragedia greca. In questa prospettiva, particolare rilievo assumono, nella rappresentazione, i rituali: oltre alla vestizione per la Pasqua all’inizio dell’azione scenica, la preparazione al funerale di Turiddu, il compianto per il defunto, la processione verso il camposanto, che Santuzza rievoca mentre risuona il Preludio. A questo proposito, è utile precisare che la vicenda è concepita – non proprio una novità nelle odierne regie operistiche – come un lungo Flash-back, elaborato dalla mente di Santuzza, che rivive, a posteriori, le tragiche vicende che l’hanno coinvolta. Particolarmente interessante ci è parsa, invece, l’idea di prevedere – complici gli encomiabili studenti dell’Accademia – non una scena fissa, bensì uno spazio in grado di interagire con l’azione drammatica. Sulla scena la campagna si intravede appena e l’azione si concentra nella piazza del paese ma, grazie a delle mura che si spostano intorno ai protagonisti, si definisce ogni volta un’inquadratura adatta a quel particolare momento della vicenda. Si tratta di una tecnica simile a quella del montaggio nel cinema – spiega Nunziata – con particolare riferimento a La terra trema di Visconti, la cui sceneggiatura ricalca i tagli netti e improvvisi, presenti nella narrazione verghiana. Una soluzione davvero efficace! Semplici i costumi: abiti sul nero o sul grigio, frequentemente accompagnati, nei personaggi maschili, dalla tradizionale coppola. Sapiente l’uso delle luci: assenti, fioche o fredde, a sottolineare la tragedia dei singoli personaggi; intense e calde nei momenti “corali”. Sobri, ma funzionali allo svolgimento del dramma, i movimenti coreografici. In sintonia con la concezione registica è risultata la direzione musicale dell’esperto Donato Renzetti, che ha guidato l’orchestra e i cantanti lungo questa partitura con equilibrio e compostezza stilistica senza mai indulgere a facili effetti o a slanci troppo irruenti, per quanto non sempre assecondato dalle voci – spesso sospinte da Mascagni verso il registro acuto –, che in qualche caso si sono lasciate un po’ andare in senso opposto. Tuttavia, nel complesso – anche con il determinante contributo del Coro, che qui ha un ruolo di primo piano – l’esecuzione si è svolta entro limiti accettabili di buon gusto. Una particolare menzione si meritano i brani orchestrali, in particolare l’Intermezzo, dove il Maestro e l’Orchestra hanno respirato insieme, ad esprimere con finezza interpretativa, senza affettazione, il genuino fervore popolare. Ma veniamo ai cantanti. Silvia Beltrami era una Santuzza fortemente combattuta tra il risentimento e l’amore verso Turiddu, per cui ha rifiutato le regole di una società patriarcale, che per questo l’ha messa al bando. Nondimeno la sua interpretazione, appassionata e generosa, è stata parzialmente penalizzata da un’eccessiva vibrazione della sua voce, oltre che – ci sembra – da qualche scivolata nel Verismo di maniera, come nella fatidica imprecazione: “A te la mala Pasqua”. Pienamente positiva è apparsa la prova di Jean-François Borras, che con voce omogenea, dal timbro puro, ci ha offerto un Turiddu “macho” e sprezzante, capace di commuoversi di fronte alla madre ma ligio rispetto agli inflessibili dettami del codice d’onore. Ben delineato – pur con qualche forzatura nell’emissione – il personaggio di Alfio da parte di Dalibor Jenis, che ha saputo rendere la mutazione del carrettiere da sposo felice a implacabile vendicatore. Convincente Martina Belli nei panni di Lola, che ha sfoggiato una voce gradevolmente timbrata senza mai fare un uso pesante del petto. Impassibile verso i tormenti di Santuzza – di cui non accetta la ribellione – si è rivelata giustamente mamma Lucia, nell’interpretazione, ora gelida ora corrucciata, di Anna Malavasi. Una menzione positiva anche per Valeria Arrivo (Una donna). Successo pieno con numerose chiamate, alla fine, per tutti.
Psalm 100: Jauchzet dem Herrn, alle Welt, MWV B 45, for 4-part mixed choir and 8 soloists; Three Psalm Motets, Op. 78; No. 1, Psalm 2: Warum toben die Heiden, MWV B 41 (revised version), for 8-part mixed double choir and 8 soloists; No. 2, Psalm 43: Richte mich, Gott, MWV B 46 (revised version), for 8-part mixed choir; No. 3, Psalm 22: Mein Gott, warum hast du mich verlassen, MWV B 51, for 8-part mixed double choir and 6 soloists; Two sacred choruses, Op. 115; No. 1, Beati mortui, for 4-part male choir and 4 soloists; No. 2, Periti autem, for 4-part male choir from Die Deutsche Liturgie, MWV B 57; No. 3, Kyrie, for 8-part mixed double choir; No. 4, Ehre sei Gott in der Höhe, for 8-part mixed double choir and 4 soloist; No. 10, Heilig for 8-part mixed double choir; Zum Abendsegen: Herr, sei gnädig, MWV B 12, for 4-part mixed choir; Hebe deine Augen auf from Elias, Op.70, for 3-part women’s choir; Denn er hat seinen Engeln befohlen über dir, MWV B 53, for 8-part mixed choir; Three Motets, Op. 69: No. 1, Herr, nun lässest du deinen Diener in Frieden fahren, MWV B 60, for 4-part mixed choir and 4 soloists; No. 2, Jauchzet dem Herrn, alle Welt, MWV B 58, for 4- and 8-part mixed choir; No. 3, Mein Herz erhebet Gott, den Herrn, MWV B 59, for 4-part mixed choir and 4 soloists;Heilig, MWV B 47, for 8-part mixed choir (World premiere recording). MDR Leipzig Radio Choir. Philipp Ahmann (direttore). Registrazione: Settembre 2022 presso la Paul-Gerhardt-Kirche, Leipzig, Germany. Total Time: 67′ 36″; 1CD Pentatone PTC5187064
Felix Mendelssohn Bartholdy nasce ad Amburgo nel 1809 da una famiglia di origini ebraiche che si converte alla fede protestante quando egli ha sette anni. Considerando inoltre la sua parabola di vita segnata da una salute molto cagionevole, ivi compresa la depressione per la scomparsa della sorella Fanny, egli morirà il 4 novembre del 1847 a soli 38 anni con la convinzione che «arte e vita non sono due cose diverse». Com’è noto, è un musicista tra i più eclettici e rappresentativi del romanticismo tedesco e la sua attività compositrice, decisamente feconda, si caratterizza per opere ascrivibili a generi diversi quali: il sinfonico (la Sinfonia n. 5 in re minore, op. 107, detta “Riforma”, composta nel 1830 per il 300mo anniversario della Confessione augustana, conserva ancora rilevanza all’interno della Riforma protestante), Concerti per pianoforte solista e orchestra ma anche con il violino (famoso quello in mi minore op. 64), musica di scena, da camera, per pianoforte, organo, ecc. Si ricorda inoltre il suo soggiorno a Roma (1830-’31) vicino Piazza di Spagna e alla chiesa della SS. Trinità dei Monti ove ascolta piacevolmente cantare le suore francesi «qui allora ho concepito un’idea particolare;compongo qualcosa per le loro voci, […] Mi piace molto, il testo è latino, una preghiera a Maria» e la composizione della Sinfonia n. 4 in la maggiore (Italiana), op. 90 abbozzata ed ispirata proprio durante il suo soggiorno in Italia. Meno diffusa e frequentata dal grosso pubblico risulta la musica sacra di cui il catalogo comprende due Oratori (Paulus, op. 36, ed Elias, op. 70), Cantate, Salmi, ecc. Un altro aspetto interessante da sottolineare è il suo impegno nel ‘riscoprire’ la musica di Johann Sebastian Bach, attraverso la sua interpretazione della Passione secondo Matteo (1829), prodromo della Bach-Renaissance. Mendelssohn è un compositore ben strutturato intellettualmente e attraverso il suo maestro di composizione Zelter ben presto conosce Goethe; qualcuno non ha esitato a definirlo conservatore ed influenzato dall’influsso del Cantor della Thomasschule: «Da diverse parti è stata espressa l’opinione che la grandezza di Mendelssohn sia da ricercarsi nel campo della composizione sacra. E questa opinione appare quella esatta» (Hermann Kretzschmar, Führer durch den Konzertsaal, Lipsia, 1887–90). Con tali premesse presentiamo e accogliamo favorevolmente questo recente lavoro discografico pubblicato dall’etichetta Pentatone che, come illustra il libretto, si evince che si tratta di una monografia miscellanea di brani a cappella ascrivibili al genere sacro. Trattasi di ricercate pagine corali che vanno ascoltate senza distrazioni con durate che oscillano da un tempo breve (1’19”), giusto per invocare «Signore, pietà!» (Kyrie) ad uno più ampio (10′ 04″) per l’episodio del Vangelo di Luca in cui Maria è protagonista con il Magnificat (Mein Herz erhebet Gott, den Herrn).
Gli interpreti (solisti e coro), nel mettere insieme relazioni e sollecitazioni ben dichiarate nelle partiture, diventano ‘personaggi’ di una teologia strutturata che si pongono l’obiettivo, anche grazie alle note accluse al CD redatte da Markus Schwering, di avvicinare l’ascoltatore al fascino di questi repertori. Con grande attenzione emergono le belle voci dei solisti e l’omogeneità del coro. La varietà della scrittura musicale restituisce cliché standardizzati e pur sempre significativi come, per esempio, in Warum toben die Heiden (Salmo 2) in cui si possono ascoltare diverse tipologie d’intervento delle voci (Coro I e Coro II) sia in un rapporto di alternanza o con interventi di una o più sezioni come nell’Andante centrale o nei belli effetti di unisono. Particolarmente toccante il primo dei due mottetti dell’op. 115 in cui il coro maschile (due tenori e due bassi) intona il testo «Beati mortui qui in Domino moriuntur» tratto dal libro dell’Apocalisse. Sia per la ben scandita pronuncia del testo, unitamente ad una scrittura quasi sempre omoritmica, si può ben comprendere ad sensum che chi muore nel Signore verrà risuscitato a nuova vita. L’esecuzione offre anche belle sonorità e colori come nel suggestivo diminuendo dell’Amen finale Herr, nun lässest du deinen Diener in Frieden fahren, il n. 1 dei mottetti op. 69. A guidare con spirito esegetico il MDR Leipzig Radio Choir è Philipp Ahmann, musicista che in questo CD evidenzia una direzione particolarmente ispirata e curata in ogni dettaglio. Ritornando ai brani presenti suggerisco all’ascoltatore di non disgiungere mai il significato dei testi dalla musica, ricordando altresì che la varietà della scrittura musicale (solistica, a 4 o 8 parti, ecc.) se da un lato restituisce la ferrea dottrina compositiva di Mendelssohn, dall’altro aiutano il pensiero contemporaneo all’approccio con certa musica liturgica e alla teologia protestante (Lutero e Calvino in primis) dei primi decenni dell’Ottocento. Certo è che ascoltando queste pagine non sfugge quanto il suo carattere teologico-liturgico perduri nell’alveo della “musica d’arte” che per sua natura ha bisogno di silenzio e di una percezione ancora più profonda per saper cogliere l’osmosi tra Verba e la Musica eterna.
Due sono le versioni della Cantata “Lobe den Herrn, meine Seele” (Benedici il Signore, anima mia) BWV 69a e 69. La prima stesura, eseguita a Lipsia il 15 agosto 1723, per la dodicesima domenica dopo la Trinità, la seconda versione venne presentata sempre a Lipsia si suppone attorno al 1748, nel corso della cerimonia di insediamento del nuovo consiglio comunale. In questo caso Bach apporto delle modifiche alla strumentazione e alle parti vocali. Si suppone che l’autore del testo sia Christian Weiss, Sr. che, nei due recitativi, inserisce dei riferimenti dal Vangelo di Marco (cap.7 vers. 31-37): “Di nuovo partito dalla regione di Tiro, andò per la via di Sidone verso il mare di Galilea, nel territorio della Decapoli. Gli conducono un sordomuto e lo pregano di imporgli la mano. Ed egli, trattolo in disparte dalla folla, gli mise le dita sugli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; poi, guardando il cielo, sospirò e gli disse: Effatà, cioè apriti. E subito gli si aprirono gli orecchi, gli si sciolse il nodo della lingua, e parlava bene. Gesù ordinò che non lo dicessero a nessuno. Ma quanto più lo proibiva, tanto più lo divulgavano, e pieni di ammirazione, dicevano: Egli ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti.” Il riferimento al Vangelo furono omessi nella versione successiva (BWV 69). L’unica citazione biblica appare nel coro d’apertura – Salmo 103, 2. Il coro d’apertura (nr.1) e l’aria del basso (nr.5) sono rimasti uguali per entrambe le versioni. La parte vocale dell’aria per tenore (nr. 3) nella prima versione è sostituita da una per voce di contralto nella seconda. Il corale conclusivo della BWV 69a di Samuel Rodrigast, fu sostituito nella BWV 69 con un corale di Martin Lutero e, musicato ex-novo da Bach. Se le arie sono pregevoli, ma non di grande originalità, il punto di forza di entrambe le versioni della cantata, è il magnifico coro di apertura. Qui emerge ancora una volta la maestria compositiva di Bach: una brillante e potente doppia fuga elaborata su ampie proporzioni con un’apertura quasi come in un’aria.
Nr.1 – Coro
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tanti suoi benefici.
Nr.2 – Recitativo (Soprano)
Ah, se avessi mille lingue!
Ah, se la mia bocca
evitasse le parole vane!
Ah, se io non pronunciassi niente
che non fosse destinato a lodare Dio!
Cosi’ proclamerei la bontà dell’Altissimo;
egli mi ha dato tanto nella vita che
l’eternità non sarà sufficiente per ringraziarlo.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Anima mia,
sù, proclama
ciò che Dio ti ha mostrato!
Loda la sua opera meravigliosa,
un canto gradito a Dio
si innalzi dalla tue labbra gioiose!
Nr.4 – Recitativo (Contralto)
Se solamente ripenso,
mio Dio, a tutto ciò che dalla tenera giovinezza
sino a questo momento
hai compiuto per me,
riesco a contare i tuoi miracoli, Signore,
con la stessa difficoltà con cui conto le stelle.
Delle grazie di cui ricolmi la mia anima
in ogni istante,
senza mai interrompere il tuo amore,
non potrò ringraziarti abbastanza.
La mia bocca è impotente, la mia lingua muta
per celebrare la tua lode e la tua gloria.
Ah! Avvicinati
e pronuncia il tuo potente “Effatà”,
così la mia bocca sarà colma di lode.
Nr.5 – Aria (Basso)
Mio redentore e mio sostegno, prendimi
sempre sotto la tua protezione e il tuo sguardo!
Resta con me nella croce e nella sofferenza,
e allora la mia bocca canterà con gioia:
Dio ha fatto bene ogni cosa!
Nr.6 – Corale
Ciò che Dio fa, è ben fatto,
a questo voglio attenermi.
Se anche fossi spinto sull’aspra via
del pericolo, della morte, della miseria,
allora Dio
come un padre
mi prenderà tra le sue braccia;
perciò a lui voglio affidarmi.
Traduzione Emanuele Antonacci
Pesaro, Teatro Sperimentale, Rossini Opera Festival, XLIV Edizione
Concerto di belcanto (22 agosto)
Soprano Anastasia Bartoli
Pianoforte Cecilia Gasdia
Musiche di G. Verdi, A. Skrjabin, M. Castelnuovo-Tedesco, F. Liszt, R. Wagner, G. Rossini
Concerto conclusivo (23 agosto)
Soprano Rosa Feola
Mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya
Tenore Dmitry Korchak
Basso Giorgi Manoshvili
Direttore Michele Mariotti
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del Coro Giovanni Farina
Rossini: Petite Messe Solennelle per soli, coro e orchestra. Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Davide Daolmi
L’ultimo concerto di belcanto del Rossini Opera Festival 2023 intreccia in realtà un doppio programma: oltre alle pagine vocali di Verdi, Wagner e Rossini interpretate dal soprano Anastasia Bartoli, alla sua prima esperienza pesarese e ormai reduce dalle recite di Eduardo e Cristina, si apprezza anche un cripto-programma per pianoforte solo a base di Skrjabin, Liszt e Rossini, con una solista che si chiama Cecilia Gasdia. Due primedonne, quindi, che cooperano alla realizzazione di un concerto molto originale e ben riuscito, scambiandosi, per certi aspetti, il testimone dello studio della vocalità rossiniana (e non solo). Della, oggi come sempre, quanto mai poliedrica Gasdia va ricordato che fu protagonista di un decennio straordinario della Rossini renaissance pesarese, in particolare dal 1984, anno in cui diede voce a Corinna nell’irripetibile Viaggio a Reims di Abbado-Ronconi (di cui il festival celebrerà i quarant’anni proprio nel corso della prossima stagione); la sua ultima apparizione come cantante negli annali del ROF risale al 1994, in un altro celebre allestimento, come fu la ripresa di Semiramide. La Bartoli apre il concerto con una carta di visita verdiana molto impegnativa: recita la lettera «Nel dì della vittoria io le incontrai…», seguita da cavatina «Vieni! T’affretta!» e cabaletta «Or tutti sorgete», dal Macbeth di Verdi. Voce generosa e sicura, la Bartoli procede con enfasi (anch’ella cade nella tentazione di cantare troppo forte!) e con fraseggio marcato (ma anche con qualche portamento di troppo), giovandosi di un timbro pregevole e di una linea di canto abbastanza uniforme. La parte più godibile del concerto è forse una triplice versione rossiniana dell’arietta «Mi lagnerò tacendo» (Péchés de vieillesse, XI, Miscellanée de musique vocale 7. Arietta all’antica da O salutaris hostia; 3. Il risentimento; Péchés de vieillesse, I, Album italiano 3. Tirana alla spagnola rossinizzata), in cui il soprano è veramente brillante, ironica e spiritosa. Trascorrere da Wagner al belcanto (e non il contrario) è segno di maturità tecnica e duttilità che fanno onore alla cantante; e così, da «Einsam in trüben Tagen» (Lohengrin) si passa all’ultimo pezzo in programma, la cavatina di Rosina da Il barbiere di Siviglia, tra l’altro dedicata alla madrina di battesimo della Bartoli, ossia Lucia Valentini Terrani. La esegue bene, anche se a volte le riesce difficile alleggerire l’emissione o sostenere pienamente tutte le note del registro basso. Il pubblico pesarese festeggia, con pari ammirazione e affetto, quando non con commozione, entrambe le artiste. Il bis è adeguato alla temperie emotiva creatasi: «O mio babbino caro».
A proposito di emozioni puramente musicali, quelle che si vivono durante il concerto di chiusura del ROF 2023 superano, per intensità e qualità, tutte le precedenti, dei tre titoli teatrali. Dopo aver diretto due volte lo Stabat mater a Pesaro, Michele Mariotti approda alla Petite Messe Solennelle, dimostrando, come di consueto, una profondità di studio ricca di eccellenti risultati esecutivi. Nell’interazione con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, il direttore rispetta con scrupolo maniacale un limite sonoro oltre il quale non vuole spingersi, come per timore di eccedere rispetto alla volontà del pauvre mélodiste nell’orchestrare la prima versione della messa. La conseguenza straordinaria è che Mariotti abbia imposto tali limiti di sonorità anche ai cantanti, i quali eseguono le parti solistiche in piano, con mezze voci e piccoli crescendo, nel cui effetto generale si riconosce l’abile mano di una guida ordinatrice (finalmente un direttore capace di rendere coerente un quartetto vocale di musica sacra!). Se il volume sonoro è come trattenuto da un rispetto reverenziale, al fine di non scavalcare la parola della liturgia, ogni attacco dei singoli numeri è un capolavoro di precisione. Nel contempo, Mariotti persegue un suono compatto e omogeneo, che gradatamente lascia percepire tinte e colori in corrispondenza delle variazioni agogiche: il risultato è di una bellezza musicale commovente. Per questo, il «Gratias agimus tibi» eseguito dal basso Giorgi Manoshvili risuona con una leggerezza speciale, al pari della cadenza rilassata, di quieta grandezza, del «Domine Deus» cantato dal tenore Dmitry Korchak. Il vibrato e la delicatezza di emissione del soprano Rosa Feola fanno dei versetti del «Crucifixus» uno dei punti vocali più alti di tutta l’esecuzione. Icastico, da ultimo, il contrasto delle due voci femminili, soprattutto grazie al timbro scuro e omogeneo del mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya. Il Coro del Teatro Ventidio Basso, ancora istruito da Giovanni Farina, riunisce tutte le migliori virtù di cui ha dato prova nei giorni scorsi, per sublimare le proprie capacità interpretative in ogni sezione dell’opera, salutata al termine da applausi senza fine. In calce alla partitura della versione da camera, Rossini appose il commovente appello al Bon Dieu, perché come premio della messa gli concedesse il paradiso («Soit donc Beni, et accorde moi Le Paradis»). Certamente, a suo tempo egli l’avrà ottenuto; ma anche noi, a Pesaro, lo abbiamo sperimentato per un’ora abbondante. Foto Amati-Bacciardi © ROF