Roma, Palazzo Carpegna
Accademia Nazionale di San Luca
MICHAEL SWEERTS. REALTA’ E MISTERI NELLA ROMA DEL SEICENTO
Roma, 07 Novembre 2024
La mostra “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento”, ospitata presso l’Accademia Nazionale di San Luca a Palazzo Carpegna, rappresenta una rara opportunità di esplorare la produzione di un artista enigmatico come Michael Sweerts, la cui vicenda umana e artistica si colloca tra la Bruxelles fiamminga e la Roma seicentesca, fino a giungere alle coste lontane di Goa. L’esposizione, curata da Andrea G. De Marchi e Claudio Seccaroni, intende svelare la complessità e l’unicità della figura di Sweerts, il cui lavoro si è arricchito recentemente di nuove letture e importanti scoperte archivistiche e di restauro, che hanno permesso collegamenti fra opere e tracce documentali, nonché riesami tecnici. Michael Sweerts è uno dei pittori fiamminghi più enigmatici, complessi e intimamente internazionali, il cui percorso biografico sembra costantemente avvolto dal mistero, quasi come se la storia avesse voluto lasciarci solo frammenti di una vicenda complessa, fatta di sfide e di ambizioni. Nato a Bruxelles intorno al 1624, Sweerts è stato ignorato dagli storici della sua epoca, ma riscoperto dai critici nordeuropei attorno al 1900 e, a metà del secolo, da italiani come Giuliano Briganti e Roberto Longhi. Le ricerche hanno rivelato che Sweerts era di origini aristocratiche e che non seguì le maggiori correnti artistiche del suo tempo, grazie anche a un’indipendenza economica e intellettuale che lo ha reso libero dai capricci della committenza. Sweerts si forma artisticamente in un contesto in cui l’influenza della pittura fiamminga, con la sua attenzione al dettaglio e alla rappresentazione del reale, si mescola alla tradizione italiana del chiaroscuro e della teatralità. Soggiornò a Roma dal 1643 al 1653, vivendo in via Margutta dal 1646 al 1651 e sicuramente venne a contatto con l’indisciplinata comunità dei pittori olandesi e fiamminghi. Aprì uno studio dove raccolse calchi in gesso di frammenti scultorei antichi e moderni, ricorrenti nelle sue tele quali tracce classiciste di Roma e strumenti di una rivendicata pratica d’artista, contrapposta ai consueti approcci astratti e teoretici. La sua arte si è sviluppata in un’epoca in cui Roma — centro pulsante dell’arte e della cultura barocca — accoglieva artisti provenienti da ogni angolo d’Europa, in un fervente scambio di idee e tecniche. Influenzato dai Bamboccianti e dallo studio diretto dei dipinti del giovane Caravaggio, in particolare quelli Pamphilj, Sweerts conquistò in breve una chiara autonomia poetica, dedicandosi a pungenti rappresentazioni di atelier in cui è frequente la presenza di giovani allievi dediti alla copia dei modelli antichi. La Roma da lui narrata riunisce tutte le classi sociali, soprattutto quelle popolari, con giovani prostitute e vecchi bevitori situati in scorci urbani tra miseria e nobiltà. Sempre al periodo romano si può ricondurre l’interesse di Sweerts per le rappresentazioni del cielo, tema che svilupperà anche dopo il ritorno in patria. La mostra, allestita nelle sale storiche di Palazzo Carpegna, si sviluppa come un percorso di scoperta e riflessione sulla dualità del reale e del mistero, temi centrali nell’opera di Sweerts. Le sue tele sono caratterizzate da un’attenzione quasi ossessiva ai dettagli del quotidiano, ai volti di uomini e donne catturati nella loro realtà più autentica, e allo stesso tempo da un velo di ambiguità che lascia spazio all’invisibile, al non detto. Questa tensione tra realtà e mistero, tra chiarezza e opacità, emerge in ogni pennellata, trasformando le sue opere in un continuo dialogo tra il mondo tangibile e quello enigmatico, tra ciò che vediamo e ciò che resta celato. Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è la possibilità di osservare da vicino il lavoro di restauro e le recenti scoperte archivistiche che hanno gettato nuova luce su Sweerts e la sua attività. Tali scoperte hanno permesso di delineare con maggior precisione alcuni aspetti della sua produzione artistica e della sua vita, rivelando nuove connessioni tra la sua pittura e il contesto culturale e sociale del suo tempo. Le sue opere testimoniano una capacità unica di cogliere la dignità del quotidiano, con una sensibilità che sfida le convenzioni del tempo e anticipa una visione più intima e personale della realtà. La curatela di Andrea G. De Marchi e Claudio Seccaroni ha mirato a esaltare proprio questa tensione tra l’apparente semplicità della rappresentazione e la complessità del significato sottostante. Le opere di Sweerts sono disposte in un modo che invita il visitatore a riflettere sul dualismo che caratterizza il suo stile: scene di vita quotidiana, ritratti di giovani apprendisti, uomini al lavoro, ma anche momenti di raccoglimento spirituale, con figure avvolte in una luce che sembra provenire dall’interno piuttosto che dall’esterno. Questo contrasto è amplificato dall’allestimento, che utilizza la luce naturale filtrata dalle grandi finestre del Palazzo Carpegna per creare un’atmosfera di sospensione e introspezione. La scelta di ospitare la mostra all’Accademia Nazionale di San Luca — istituzione secolare che ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione e promozione degli artisti — non è casuale, ma vuole sottolineare il legame profondo tra la ricerca artistica di Sweerts e l’ambiente romano in cui operò. Roma non è solo lo scenario fisico delle sue opere, ma anche un luogo di trasformazione spirituale e intellettuale, dove l’artista ha potuto confrontarsi con i grandi maestri del passato e con la complessità culturale del Seicento. Divenuto profondamente religioso, Sweerts si imbarcò nel 1661 da Marsiglia verso l’Oriente, per seguire una missione lazzarista francese, trovando la morte probabilmente a Goa. La mostra è un’occasione straordinaria per scoprire e approfondire la sua assoluta singolarità e chiarire alcuni dei misteri che aleggiavano sul suo conto, tra cui la sua vocazione all’insegnamento e all’avvio professionale dei giovani artisti. Questo aspetto del suo lavoro, spesso ignorato, viene ora rivalutato come una vera e propria scuola di formazione, in cui non sembra aver imposto il proprio linguaggio. La mostra “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento” si presenta dunque come un viaggio attraverso il visibile e l’invisibile, in cui il visitatore è chiamato a interrogarsi sulla natura stessa della rappresentazione e sul ruolo dell’artista come mediatore tra realtà e immaginazione.
Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2023-2024
“IL ROSSO E IL NERO” DI UWE SCHOLTZ
Balletto in tre atti dall’omonimo romanzo di Stendhal
Musica Hector Berlioz
Direttore Martin Georgiev
Coreografia Uwe Scholz
Coreografo ripetitore Giovanni Di Palma
Julien Sorel MICHELE SATRIANO
Madame De Rénal REBECCA BIANCHI
Mathilde De La Mole MARIANNA SURIANO
Monsieur De Rénal ANTONELLO MASTRANGELO
Marquis De La Mole FRANCESCO MARZOLA
Orchestra, Étoiles, Primi ballerini, Solisti e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Scene Ignasi Monreal
Costumi Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Roma, Teatro Costanzi, 30 ottobre 2024
Grande il richiamo di un titolo come Il rosso e il nero, preso in prestito dall’opera letteraria di Stendhal. Sicuramente in molti avranno provato la curiosità nella loro vita di accostarsi al romanzo scritto dal letterato francese nel 1830, epoca del romanticismo nelle sue varie sfumature. Amato persino da Italo Calvino per la sua tensione morale e gli slanci vitali, in realtà Stendhal ci presenta una sorta di romanzo storico ravvivato dalle ambizioni del protagonista Julien Sorel e dai suoi amori travolgenti. La scrittura è lineare, anche se a tratti presenta frasi iconiche quali “l’amore crea le uguaglianze e non le cerca”. Può dare questo vita a un balletto di rilievo? In risposta a tale quesito, il Teatro dell’Opera di Roma ci ha offerto la visione del balletto omonimo, realizzato dal coreografo Uwe Scholz nel 1988 all’Opera di Zurigo. Il coreografo tedesco aveva studiato a Stuttgart con John Cranko, uno dei più grandi maestri del filone del balletto narrativo novecentesco. La produzione che oggi vediamo nella ripresa di Giovanni di Palma era nata come un omaggio al maestro scomparso in occasione della ricorrenza dei 60 anni dalla nascita. Tale eredità si associa qui però al tentativo di utilizzare la musica sinfonica del geniale compositore francese Hector Berlioz. Il clima respirato in Francia all’epoca della Restaurazione è qui reso in maniera simbolico-surreale dalle scenografie di Ignasi Monreal, giovane creativo spagnolo reduce da importanti collaborazioni con i più noti brand della moda. La difficoltà e l’interesse maggiore presentato dallo spettacolo è capire chi sia veramente Julien Sorel, se sia un’opportunista dedito alla scalata sociale tramite manipolative relazioni sentimentali o se mantenga fino alla fine fede ai propri ideali formatisi in lui fin dall’adolescenza grazie a ferventi letture. Per tradurre in danza gli spunti psicologici offerti dal romanzo, Uwe Scholtz parte dalla tradizione. Julien Sorel si presenta con il libro in mano, mentre il contesto contadino e la sua energia quasi scomposta richiama alla mente il balletto Giselle. Le grandi teste marmoree raffigurate in scena ricordano l’epoca del pittore neoclassico francese Jacques-Louis David, unendovi un particolare fascino che sembra derivare da De Chirico. Il reale incipit drammatico è però affidato alla raffinata scena ambientata nell’appartamento di Monsieur de Rȇnal, dove fin da subito si nota la ritrosia della moglie. Ella tenterebbe di abbandonarsi a qualche tiepido slancio verso il marito, ma la distrazione di lui ne limita i voli. Diversa la tensione espressa con un semplice sguardo nel notare la comparsa di Julien Sorel. Egli la ricambia all’istante. Attraverso baldanzosi grand jetés, attitudes e pirouettes il protagonista maschile esprime la potenza dei suoi sogni di affermazione che includono anche l’amore. Tutto sembra concretizzarsi nella camera da letto, quando l’étoile Rebecca Bianchi dopo infinite reticenze cede infine al corteggiamento di Sorel, abbandonandosi con lui a eloquenti slanci lirici sulla musica della Nuit sereine et scène d’amour da Roméo et Juliette di Berlioz. In lei pare di rivedere la Ferri nel Romeo e Giulietta di Cranko, ma nel continuo cercare di divincolarsi unito al grande impeto musicale ci sembra di ravvisare anche l’impronta lasciata da Galina Ulanova nella tradizione russa del drambalet. Il Julien Sorel del primo ballerino Michele Satriano si rivela anche qui energico, volitivo, gioioso, distinguendosi dalla romantica interpretazione di Claudio Cocino in altre serate, e questo fa capire il grande ruolo e la libertà offerti nella coreografia di Scholz ai protagonisti principali. L’intrigo è scoperto, e ad attendere Julien è l’oscurità del seminario con il trionfante simbolo della croce. Nel secondo tempo dello spettacolo è invece il rosso a campeggiare accompagnato da vistose passioni. Tra grandi candelabri ispirati al mondo di Versailles, Julien Sorel nell’interpretazione di Michele Satriano si mostra decisamente sognante in languide arabesques. La sua partner diviene adesso la capricciosa Mathilde de la Mole interpretata dalla nuova prima ballerina del teatro Marianna Suriano che non esita a coniugare fierezza e sensualità. Il nuovo duetto d’amore diviene adesso una sfida, un simbolico duello che riprende motivi tratti dalla follia di Giselle coniugandoli a un linguaggio coreografico particolarmente eccentrico. Necessariamente gli accenti delle pose femminili sono in fuori e non pare qui di ravvisare una reale sintonia amorosa, bensì solo l’accostamento di due imperiose individualità. Facile passare ai dinamici intrecci dell’esercito e al tentativo di omicidio. Al delitto segue il castigo, la condanna, l’esecuzione, ma i sentimenti non si estinguono e si rivela infine chi è Sorel per Uwe Scholtz. ..Quando le amanti vanno a salutarlo a prevalere è il rapporto con Madame de Rȇnal. La morte è accolta con eroismo (lo sfondo è qui significativamente illuminato di rosso), ma non desta particolari clamori. È la musica della Marche Funébre dalla Grande symphonie funèbre et triomphale a manifestare la gravità del momento. Il balletto si conclude in chiave gotica-biblica soffermandosi sulla folle visionarietà di Mathilde de la Mole. Un nuovo banco di prova per la compagnia che si mostra decisamente all’altezza. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Vittoriano e Palazzo Venezia
GUGLIELMO MARCONI. VEDERE L’INVISIBILE
Nelle sale del Vittoriano e di Palazzo Venezia, emerge un uomo complesso, quasi evanescente, come avvolto nel mistero di ciò che ha reso visibile l’invisibile. Guglielmo Marconi non è più il trionfatore celebrato sui manuali, ma appare qui in tutta la sua intimità, attraverso un itinerario che intreccia tecnologia e anima, ricerca e inquietudine. La mostra, “Guglielmo Marconi. Vedere l’invisibile,” si snoda tra due ambienti in apparente contrapposizione, quasi a suggerire la doppia natura dell’inventore e la sua incessante ricerca. Da un lato, la Sala Reale di Palazzo Venezia, ampia e luminosa, dove la luce naturale si riversa sugli oggetti esposti, sembra aprire uno spazio di respiro, di ammirazione silenziosa. Qui, radio d’epoca, strumenti tecnici complessi, cavi attorcigliati e raffinati congegni in ottone disposti in ordine, raccontano la dimensione pubblica di Marconi. Un pioniere, un visionario, colui che ha visto l’onda prima che esistesse. Osservare questi strumenti è come assistere alla materializzazione del progresso, un progresso che sembra respirare la stessa luce che li illumina. Dall’altro lato, nella Sala Zanardelli al Vittoriano, l’atmosfera cambia: uno spazio lungo e stretto, quasi soffocante, illuminato da faretti artificiali che creano ombre sui documenti e sugli oggetti personali, accentuandone i dettagli più intimi. È qui che emerge un Marconi più umano, un uomo di lettere, di relazioni e di scelte difficili. Le lettere di corrispondenza, alcune vergate a mano e altre battute a macchina, ci riportano a un tempo in cui comunicare era un gesto solenne, ponderato. I toni, le riflessioni, i dubbi su carta sono lì a mostrare il lato fragile e pensieroso di un uomo che, dietro alla sua genialità, custodiva anche timori e incertezze. Questi documenti, insieme agli oggetti personali – una penna, un paio di occhiali dalla montatura sottile, una vecchia cartolina ingiallita – sembrano sospesi in un silenzio che racconta, senza parole, il prezzo dell’isolamento. Il percorso espositivo, suddiviso in otto sezioni, accompagna il visitatore attraverso tappe che vanno dalla giovinezza del giovane curioso e visionario alla conquista delle onde radio. In ogni angolo, installazioni interattive e filmati animano la storia, portando alla luce il volto di un Marconi imprenditore e stratega, oltre che inventore. Una delle sezioni più suggestive include il documentario sull’Elettra, la “nave laboratorio” di Marconi, uno spazio fluttuante che divenne il suo rifugio scientifico e umano, un luogo dove poteva sperimentare e osservare in solitudine. È quasi palpabile la sensazione che, su quella nave, Marconi non cercasse solo risposte tecniche, ma un equilibrio interiore lontano dagli applausi e dal clamore. Con la collaborazione di Cinecittà, dell’Archivio Luce e di istituzioni prestigiose come le Bodleian Libraries di Oxford e il Museo Storico della Comunicazione di Roma, la mostra si arricchisce di materiale raro e prezioso. Cavi, strumentazioni tecniche, fotografie d’epoca e reperti provenienti da 34 enti prestatori sembrano narrare una storia in ogni piccolo dettaglio, come se il peso del passato continuasse a vibrare, offrendo al pubblico un viaggio che va oltre la semplice osservazione. Il supporto di sponsor come ENEL, Fincantieri e Terna e la collaborazione della Fondazione Leonardo, che ha contribuito con contenuti multimediali sviluppati con l’intelligenza artificiale, rende l’esperienza completa, senza mai cadere nel superfluo. In questa dicotomia di spazi – tra la solennità luminosa di Palazzo Venezia e l’ombra quasi claustrofobica del Vittoriano – emerge una narrazione che non si limita a celebrare un genio, ma ne mette in scena la tensione, la solitudine e il desiderio di comprendere ciò che agli occhi degli altri sfuggiva. Ogni strumento, ogni cavo e lettera, diventa una tessera che ricostruisce la personalità di Marconi, mostrandoci non solo un inventore acclamato, ma un uomo che ha pagato con la propria intimità il desiderio di esplorare l’invisibile. Marconi, in qualche modo, si allontana tra le ombre e la luce, come un’eco che vibra nell’etere, ricordandoci che il tentativo di afferrare l’invisibile richiede sacrifici di cui resta traccia solo tra le pieghe di una penombra, dietro le lenti di un paio di occhiali o nel riflesso di una radio d’epoca. Guglielmo Marconi fu non solo il pioniere delle trasmissioni radio, ma un rivoluzionario che aprì nuovi orizzonti, spingendo l’umanità oltre il visibile, verso un’era di comunicazioni senza confini. “Era da poco trascorso mezzogiorno, quel 12 dicembre 1901, quando portai la cuffia all’orecchio e mi misi all’ascolto. Il ricevitore appoggiato sul tavolo di fronte era molto rudimentale, con solo qualche bobina, senza valvole, né amplificatori, senza neanche un cristallo”. Queste parole evocano un momento storico: un giovane di appena 27 anni che sfida le convenzioni della fisica, dimostrando che la comunicazione poteva travalicare l’Oceano Atlantico, collegando il vecchio e il nuovo mondo in un simbolico abbraccio. Più di cento anni fa, alle 12.30 post-meridiane, a St. John’s, sull’isola di Terranova, il ricevitore di Marconi captò il messaggio del primo telegrafo senza fili che attraversò l’Atlantico. I tre punti della lettera S dell’alfabeto Morse, partiti dall’antenna di Poldhu in Cornovaglia, rappresentarono un punto di svolta nella storia delle comunicazioni. Un trionfo che non solo dimostrò il potere delle onde radio di curvare insieme alla Terra, ma gettò le basi per la radio moderna. Dopo quel successo, la radio iniziò a trasmettere musica e parole, diventando parte della quotidianità e trasformandosi in uno strumento di salvezza per molte vite, come nel caso del Titanic. Quando Marconi morì, nel 1937, il mondo gli rese omaggio con un gesto unico: tutte le stazioni radio si interruppero per un minuto, silenzio che risuonò come un tributo all’uomo che aveva rivoluzionato il modo di comunicare. La mostra “Vedere l’invisibile” è, dunque, più di un omaggio a un genio. È un viaggio attraverso i paradossi della modernità: tra la ricerca della connessione e il prezzo dell’isolamento, tra l’avanzamento tecnologico e le inquietudini di un uomo. Marconi ci invita a guardare oltre, a cercare la verità invisibile che vibra nell’etere, consapevoli che il progresso non è mai solo un accumulo di invenzioni, ma una tensione continua verso l’invisibile, un sacrificio umano che si cela dietro ogni grande conquista.
Roma, Teatro Sala Umberto
APPUNTAMENTO A LONDRA
Con Luigi Tabita e Lucia Lavia
Scene e costumi Anna Varaldo
Musiche originali nogravity4monks
Regia Carlo Sciaccaluga
Roma, 04 Novembre 2024
Dal 4 al 6 novembre, il Teatro Sala Umberto di Roma accoglie l’atteso spettacolo “Appuntamento a Londra”, ispirato all’opera del premio Nobel Mario Vargas Llosa, il quale ha dichiarato: “La scena teatrale è lo spazio privilegiato per rappresentare la magia di cui è intessuta anche la vita della gente: quell’altra vita che inventiamo perché non possiamo viverla davvero, ma solo sognarla grazie alle splendide menzogne della finzione”. Con una regia sensibile e attenta di Carlo Sciaccaluga, i personaggi Raquel e Chispas diventano Maddalena e Luca, magistralmente interpretati da Lucia Lavia e Luigi Tabita. La trama si svolge in una camera d’albergo, un luogo intimo e isolato dal resto del mondo, dove un uomo d’affari, Luca, riceve la visita di una donna che si presenta come la sorella di un vecchio amico, Nino. Ma la verità, ben più complessa, non tarda a emergere: è lei stessa Nino, che ha completato da poco il percorso di transizione. La scoperta scuote profondamente Luca, che, da inizialmente sicuro di sé, inizia a vacillare, rivelando insicurezze e paure finora celate dietro una maschera di apparente stabilità. In questo scambio intimo e serrato, il ricordo di schiaffi e baci non dati, riaprono ferite antiche e sentimenti mai risolti, dando vita a un viaggio introspettivo che tocca la scoperta di sé, tra l’amore e il tormento, il desiderio e il rimpianto. L’atmosfera si fa densa e sospesa, mentre il gioco di luci di Gaetano La Mela accentua i chiaroscuri della scena, creando un’ambientazione onirica che fonde sogno e realtà. Le scenografie, le luci e i suoi colori, richiamano le atmosfere del pittore Edward Hopper, con un realismo che evoca al contempo uno straniamento sottile, una sospensione temporale che amplifica il senso di isolamento umano e la complessità dell’anima. È un realismo che si perde, che sfuma i confini della stanza d’albergo come una bolla fuori dal tempo. La camera d’albergo appare così un microcosmo di tensioni emotive, capace di contenere tutte le sfumature dei personaggi, dalla fragilità alla forza, dall’amore al dolore. I costumi e le scene di Anna Varaldo contribuiscono a questa dicotomia, donando concretezza al mondo tangibile ma suggerendo, al tempo stesso, una dimensione sospesa. Lucia Lavia, nei panni di Maddalena, si distingue per la sua presenza scenica magnetica, dando vita a un personaggio complesso e sfaccettato. Con un linguaggio diretto e a tratti crudo, riesce a trasmettere l’intensità del ruolo che interpreta, mantenendo un distacco quasi onirico dalla realtà. In un momento di particolare forza emotiva, recita un monologo tratto da Io canto il corpo elettrico di Walt Whitman, un inno alle meraviglie del corpo sensuale. Il suo corpo diventa fluido, la sua voce riecheggia tra il pubblico, portando gli spettatori a interrogarsi su temi come identità, corporeità e ruolo sociale. Le sue parole richiamano il tormento e la tensione interiore dei personaggi di “Persona” di Ingmar Bergman, che si rivelano attraverso una dialettica di parole e silenzi. Come in quel film, emerge il desiderio profondo di “essere, non sembrare di essere,” oscillando tra ciò che si è per sé stessi e ciò che si è agli occhi degli altri. Luigi Tabita, nel ruolo di Luca, intraprende un viaggio di vulnerabilità e auto disvelamento altrettanto toccante. Tenta di liberarsi dalla maschera che ha deciso di indossare nella vita, e che gli altri gli hanno imposto, quella del “bravo ragazzo” reso felice dai soldi, dal lavoro; ora però non si riconosce più. Cerca di strapparsela, quella maschera, dall’inizio alla fine, in un gesto lento che parte dalla sua bocca e sembra gridare in un urlo silente. Ogni movimento e ogni parola rivelano progressivamente la fragilità del suo personaggio, evocando la vulnerabilità dei protagonisti dei film di Michelangelo Antonioni, in cui il desiderio di connessione si scontra con una solitudine profonda. I dialoghi tra Maddalena e Luca, intrisi di tensione e ambiguità, conducono il pubblico in un vortice di domande senza risposta. “Ci siamo mai davvero conosciuti? È stato amore, amicizia, o solo un gioco crudele? C’è mai stata violenza fisica?” Le loro conversazioni si intrecciano, sovrapponendo il confine tra verità e menzogna, tra ricordo e illusione. La narrazione si sviluppa in modo intrigante, per sottolineare questo filo che divide la realtà dal sogno. Il nastro della storia si riavvolge in loop, generando scene che si ripetono come un disco graffiato, che risuona di vecchie verità e nuove possibilità. Alcuni frammenti s’intrecciano con scenari alternativi, portando alla luce ciò che è accaduto, ciò che sarebbe potuto accadere e ciò che gli stessi personaggi avrebbero voluto che accadesse. Questo gioco di possibilità richiama le dinamiche di Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese. Verso la fine, la voce di figure esterne si inserisce nella vicenda, quasi come presenze fantasmatiche che, pur restando fuori campo hanno influenzato le vite dei protagonisti. Tra queste voci, quella della madre di Maddalena risuona, come un’eco lontana: “Ma che bel signorino che è Luca.” Questo richiamo pungente si diffonde tra il pubblico, ricordando la radice etimologica della parola “persona” – ciò che si cela dietro una maschera. Fino alla fine, la domanda centrale resta sospesa: siamo davvero ciò che diciamo di essere, o è soltanto nello sguardo dell’altro che scopriamo chi siamo veramente? In un momento culminante, sulle note malinconiche di “Vedrai, vedrai” di Luigi Tenco, Luca esprime il proprio tormento interiore. È forse nello sguardo di chi lo ama che per la prima volta comprende la sua inadeguatezza? È lì, forse, che riconosce le sue mancanze e avverte la distanza tra ciò che è e il sogno che ha inseguito durante la sua vita. “Appuntamento a Londra” si rivela un’indagine affascinante sull’essenza della verità, un thriller esistenziale in cui ogni parola scava nella profondità dell’animo. Ma quale verità? E a che prezzo? Ciò che resta è un dubbio sottile e persistente: cosa abbiamo davvero visto? La vita come un sogno, o un sogno che si è fatto realtà? Photocredit@AntonioParriniello
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ASPETTANDO RE LEAR
di Tommaso Mattei
da William Shakespeare
opere in scena Michelangelo Pistoletto
Regia di Alessandro Preziosi
Re Lear ALESSANDRO PREZIOSI
Gloucester NANDO PAONE
Kent ROBERTO MANZI
Cordelia ARIANNA PRIMAVERA
Edgar VALERIA AMELI
costumi Città dell’arte/Fashion B.E.S.T
Olga Pirazzi, Flavia La Rocca, Tiziano Guardini
musiche Giacomo Vezzani
supervisione artistica Alessandro Maggi
PATO srl, Teatro Stabile del Veneto e Teatro della Toscana
Roma, 05 Novembre 2024
“As flies to wanton boys are we to the gods; they kill us for their sport.” William Shakespeare, Re Lear
Alessandro Preziosi ritorna al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma con Aspettando Re Lear, un’opera densa di suggestioni e rimandi, che si colloca al culmine di una lunga tournée costellata di successi dal Napoli Festival Teatrale al Teatro Romano di Verona. Non è una mera trasposizione contemporanea dell’omonima tragedia shakespeariana, bensì una meditazione raffinata e dolorosa, un atto di scavo nelle vene più intime del dramma umano, che esplora con lucida disperazione il fragile equilibrio tra padri e figli, i limiti del potere e il declino inesorabile dell’umana pretesa di dominare il proprio destino. Preziosi si avvale di una drammaturgia che disegna con tratti profondi un Lear il cui affanno sembra ricalcare quello dell’umanità intera: un sovrano senza più corona, che non cerca una fine quieta, ma un compimento sofferto nel nodo irriducibile della maturità. La regia, calibrata con un’intelligenza visionaria e un gusto per la sottrazione, incastona lo spettacolo in uno spazio scenico che sfugge alla realtà e si addentra nei territori dell’astrazione. Le opere di Michelangelo Pistoletto non sono un semplice sfondo, ma un contrappunto, una forma di dialogo materico che si muove in simbiosi con gli attori, componendo un universo immaginario, una scacchiera concettuale dove ogni figura sembra inscriversi nella tela imperscrutabile del caso. Il pubblico non si limita a osservare, ma è chiamato a immergersi in questa dimensione sospesa, dove il limite tra la verità e l’illusione si fa sottilissimo, rendendo ogni gesto, ogni silenzio e ogni sguardo parte integrante di un linguaggio enigmatico. La musica di Giacomo Vezzani, fedele compagna di questo viaggio, segna ogni passo della discesa di Lear verso la follia con un pathos che diventa quasi liturgico, una lenta e inesorabile caduta scandita da ritmi ossessivi e struggenti, come un’eco profondo che pare emergere dal ventre stesso della tragedia. Le note tracciano una spirale sonora che avvolge il patriarca, restituendo al pubblico l’impressione di un vortice senza uscita, dove ogni cosa sembra sgretolarsi per poi ricomporsi nel compimento dell’inevitabile. Preziosi e Vezzani orchestrano una discesa che appare senza ritorno, dove la corte fedele, accettata da se stessa, diventa spettatrice e vittima di un disastro che è anche interiore. Al fianco di Preziosi, Nando Paone – nel ruolo del tormentato Gloucester – è il contraltare tragico che, nella sua sofferenza, amplifica la solitudine del sovrano incarnando un’umanità ferita e priva di appigli. Altrettanto intensi sono Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia, Roberto Manzi nel ruolo di Kent e Valerio Ameli come Edgar, interpreti che animano, con una tensione quasi palpabile, l’intreccio di relazioni e destini che fa di Aspettando Re Lear un’opera corale e profonda. La filosofia di Pistoletto si intreccia con il percorso teatrale di Preziosi in una commissione multidisciplinare che non è solo estetica, ma concettuale. Il “Terzo Paradiso” di Pistoletto, simbolo di una nuova armonia tra artificio e natura, si traduce in scena in una dinamica di costumi e scenografie che invita il pubblico a una riflessione sottile e inquietante. I costumi, realizzati dal collettivo Fashion BEST con materiali sostenibili, rappresentano l’essenza di ogni personaggio, evocando una pelle secondaria, che si consuma e si rinnova, in una metafora silente della vita stessa. Il denim, simbolo di resilienza, si mescola con il nero della mussola, un non colore che assume la funzione di richiamare l’origine, l’essenza, il punto zero da cui riemerge l’essere. Preziosi non si limita a interpretare Lear; lo vive, lo attraversa, in una rappresentazione che diviene esistenziale e che riecheggia le intuizioni di Beckett in Aspettando Godot, rendendo il suo re un uomo sospeso, che assiste impotente allo sgretolamento dell’ordine naturale. In questa rilettura, il dramma shakespeariano diviene più che mai una metafora di decadenza e rinascita, una riflessione sulla caducità dell’ordine umano e sul bisogno di riemergere da quell’inesorabile vuoto che accompagna ogni tentativo di dominio sul reale. L’incontro tra l’arte contemporanea di Pistoletto e la parola classica di Shakespeare si fonde in un’opera che interroga e scuote, un grido di caduta e insieme di rigenerazione, che si specchia nel tempo e si rivolge, in modo muto e inesorabile , alla coscienza di chi guarda. Così aspettando Re Lear non è solo spettacolo, ma un invito a riconsiderare i legami che ci citiamo, le gerarchie e gli abissi che ci dividono. Un’opera che, come il Lear di Preziosi, vaga nella tempesta dell’indifferenza contemporanea, ricordandoci che l’umanità, come quel re senza corona, è destinata a confrontarsi con il nulla – e forse a scoprire, nel suo cuore oscuro, una nuova possibilità di senso.un non-colore che assume la funzione di richiamare l’origine, l’essenza, il punto zero da cui riemerge l’essere. Nel silenzio assorto della messinscena, il pubblico ha dimostrato un’attenzione rara, quasi reverenziale, che ha reso ogni gesto, ogni sussurro della scena ancora più vivido e pregnante. È stato uno spettatore vigile, capace di abbandonarsi al ritmo interno dello spettacolo, senza mai interromperlo, ma anzi alimentandone la tensione e la suggestione. E nel finale, come in un’esplosione trattenuta, quell’energia accumulata è sfociata in un applauso che non era solo un tributo agli interpreti, ma una partecipazione sentita, autentica, di chi aveva condiviso un viaggio profondo e intenso.
Roma, Museo di Roma in Trastevere
TESTIMONI DI UNA GUERRA
Memoria grafica della Rivoluzione Messicana
Roma, 05 Novembre 2024
Il Museo di Roma in Trastevere, nel cuore pulsante di uno dei quartieri più caratteristici della capitale, ospita una mostra che celebra i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Messico e Italia. In collaborazione con l’Ambasciata del Messico in Italia, la mostra offre al pubblico un viaggio fotografico unico, attraverso l’obiettivo di Agustín Víctor Casasola e Miguel Casasola, pionieri del reportage in America Latina. L’evento mette in scena 40 fotografie provenienti dall’Archivio Casasola, un patrimonio inestimabile per comprendere una delle più importanti rivoluzioni sociali del XX secolo: la Rivoluzione Messicana, che ebbe luogo tra il 1910 e il 1920. La selezione di scatti, in rigoroso bianco e nero, fa immergere lo spettatore nelle atmosfere ribollenti di un decennio in cui il popolo messicano lottò per giustizia sociale e cambiamento politico, dando vita a figure eroiche come Francisco I. Madero, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Venustiano Carranza. Questi nomi riecheggiano ancora oggi come simboli di una lotta che ha risuonato ben oltre i confini del Messico. Le fotografie non sono solo immagini fisse di un passato remoto, ma veri e propri documenti storici che raccontano l’evoluzione di un’intera società, unendo la narrazione dei leader della rivoluzione al vissuto quotidiano delle masse. La prospettiva dei Casasola si distingue per la capacità di cogliere la tensione sociale, la dignità dei campesinos, la determinazione delle donne messicane, e le celebrazioni nelle piazze improvvisate che diventavano scenario di resistenza. Le immagini mostrano le trincee improvvisate, i volti segnati dalla fatica e dalla speranza, e le espressioni dei leader politici, rendendo la Rivoluzione Messicana non solo un evento storico, ma un racconto epico di vite trasformate dal desiderio di giustizia. Agustín Víctor Casasola, insieme a suo fratello Miguel, ha dato vita a uno dei più vasti archivi fotografici mai realizzati in America Latina. Il Governo del Messico, conscio dell’importanza di tale eredità storica, acquisì l’intero archivio nel 1976, garantendone la conservazione presso l’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH). Attualmente, l’Archivio è custodito presso l’ex Convento di San Francisco, a Pachuca, e conta un totale di 484.004 immagini. Queste fotografie, che documentano un’ampia gamma di aspetti della società messicana di inizio XX secolo, rappresentano una testimonianza viva delle aspirazioni e delle lotte del popolo messicano. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è anche un’occasione per riflettere sul ruolo della fotografia come strumento di memoria e denuncia sociale. L’Archivio Casasola è un esempio straordinario di come l’immagine fotografica possa diventare veicolo di verità storica, uno sguardo onesto su una realtà spesso distorta dalla propaganda ufficiale. Attraverso le lenti dei fotografi Casasola, il visitatore viene accompagnato a comprendere i lati umani della rivoluzione: la povertà, la speranza, la violenza, ma anche il coraggio e la determinazione di chi credeva in un futuro migliore. Il contesto del Museo di Roma in Trastevere, con il suo fascino senza tempo e le sue sale suggestive, fa da perfetto scenario per queste fotografie. Trastevere, con il suo carattere popolare e la sua storia di resilienza, sembra rispecchiare l’anima stessa della Rivoluzione Messicana, fatta di gente comune che si ribella ai potenti per rivendicare la propria dignità. Visitare questa mostra significa non solo esplorare un capitolo di storia messicana, ma anche riflettere sulle lotte per la giustizia che, sebbene cambino epoca e contesto, rimangono universali. Le immagini sono esposte nelle sale del museo in modo tale da valorizzare al massimo il loro impatto visivo ed emotivo. L’allestimento è stato curato con grande attenzione, con l’obiettivo di creare un percorso narrativo che accompagni il visitatore attraverso le diverse fasi della Rivoluzione Messicana. Ogni sala è stata progettata per trasmettere un senso di immersione, utilizzando un’illuminazione sapientemente dosata che evidenzia i dettagli delle fotografie, esaltando i contrasti tra luci e ombre. Le luci, soffuse ma mirate, giocano un ruolo fondamentale nel creare un’atmosfera intima e riflessiva, che invita il pubblico a fermarsi davanti alle immagini, a coglierne ogni sfumatura e a riflettere sulle storie che raccontano. L’uso delle luci è stato studiato per evocare la drammaticità e la forza del momento storico immortalato dagli scatti dei Casasola. Le fotografie, spesso caratterizzate da un forte contrasto tra chiari e scuri, sono illuminate in modo tale da far emergere la profondità delle emozioni sui volti dei protagonisti. Le ombre create dall’illuminazione contribuiscono a dare un senso di tridimensionalità alle immagini, come se i personaggi potessero quasi uscire dalla carta per raccontare la propria storia. L’effetto complessivo è quello di una mostra che non si limita a esporre delle immagini, ma che riesce a creare un dialogo tra passato e presente, tra il visitatore e i protagonisti della storia. Le immagini esposte parlano di una rivoluzione che è stata, in primo luogo, un fenomeno popolare. La Rivoluzione Messicana non è stata guidata da ideologie astratte, ma è nata dall’esigenza concreta di migliorare la vita del popolo. Francisco I. Madero, con il suo appello alla democrazia, e figure come Emiliano Zapata, che lottò per la riforma agraria, rappresentano lo spirito di una nazione che rivendicava il diritto di essere padrona del proprio destino. La narrazione visiva dei Casasola riesce a catturare proprio questo: l’essenza del cambiamento che parte dalle persone comuni. Un altro aspetto significativo della mostra è l’attenzione dedicata alle donne della Rivoluzione Messicana. Le “Adelitas”, come venivano chiamate, hanno avuto un ruolo fondamentale nelle battaglie e nella logistica rivoluzionaria, e alcune delle fotografie in mostra restituiscono un ritratto intenso di queste combattenti, madri, sorelle e compagne che non si sono tirate indietro di fronte al conflitto. In un’epoca in cui la donna era spesso relegata ai margini della società, la Rivoluzione Messicana vide emergere figure femminili di straordinaria forza e determinazione, e l’obiettivo dei Casasola non mancò di onorarle. Grazie alla collaborazione con l’Ambasciata del Messico, il pubblico italiano può ora immergersi in questa narrazione potente, in cui ogni fotografia è una finestra su un passato che continua a parlare al nostro presente.
Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2024
Orchestra, Coro, Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Marco Angius
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Voci Bianche preparate da Alhambra Superchi
Soprano Maria Eleonora Caminada
Tenore Marco Ciaponi
Baritono Tamon Inque
Video Innovio Arts
Carl Orff: “Carmina Burana” , Cantata scenica basata su 24 dei poemi trovati nei testi poetici medievali che portano il medesimo nome
Bologna, 3 novembre 2024
L’autunno del Nouveau riprende con questi Carmina Burana: “cantata scenica”, recita la didascalia, ma qui, benché inseriti nella stagione Opera, eseguiti in forma di concerto. A dispetto dell’accompagnamento video curato da Innovio Arts: il problema della reinvenzione delle radici germaniche è ben posto, ma nonostante la perizia grafica e l’opportuna pertinenza dei riferimenti (oltre le ovvie miniature, il cinema di Lang, Wegener e Pabst), l’animazione di immagini dalle tinte pop-fluo fa molto screensaver, e risulta serenamente rinunciabile per l’ascolto. Ascolto ch’è di altissima qualità. La direzione di Marco Angius nulla ha di teatrale, anzi è analitica fino alla spietatezza. Senza indulgere mai all’effettaccio, tentazione in cui, con un siffatto organico fra le mani, è facile (s)cadere. Del resto già il titolo, per la sua popolarità (tutta concentrata in pochi minuti), mette in sospetto il conoscitore, che può tollerarne l’ascolto soltanto in esecuzioni tecnicamente irreprensibili. L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna ha assecondato magnificamente la lettura asciutta e severa di Angius, restituendo alla partitura il suo impressionante rigore ritmico, le sue taglienti sonorità, il suo incedere inquieto e intimamente novecentesco, senza il benché minimo compiacimento. Per fare un solo esempio: quella della Tanz che introduce la seconda parte Uf dem anger è un’esecuzione veramente mirabile. E il Nouveau, dal canto suo, non sarà suggestivo quanto ad architettura, ma garantisce senz’altro una buona acustica. Il Coro di Gea Garatti Ansini si conferma ottimo, ma a brillare qui sono specialmente le voci maschili che trovano nel celebre In taberna quando sumus il luogo ideale per esibire il loro virtuosismo. Sempre del Teatro Comunale è il Coro di Voci Bianche, diretto da Alhambra Superchi che ne ricava un bel suono compatto, pieno, disciplinato. Va ora introdotto un breve inciso sulla dizione. L’ascoltatore italiano non può trovare completa soddisfazione nell’ascolto delle grandi, mitiche incisioni dei Carmina che, com’è naturale, sono di area tedesca, per via della pronuncia latina che gli suona innaturale. Cominciando dall’inizio, già è arduo il “semper crescis aut decrescis”, ma poi la cosa diventa lampante sul “stillantibus ocellis“, che i cori di lingua tedesca scandiscono normalmente “ozellis”. Il che può mandare in crisi il liceale italiano che, se pure sa orientarsi fra pronuncia ecclesiastica e restituta, non può che restare interdetto dinnanzi a questa variante romagnola. Ma probabilmente è più corretto, trattandosi di un testo che poco oltre sconfina nell’alto tedesco, che la pronuncia sia quella germanofona. In ogni caso, conviene trovare un accordo: qui invece l’unico ad adottare una dizione tedescheggiante è il cigno arrostito di Marco Ciaponi, che pronuncia “iazio” il iaceo di “Nunc in scutella iaceo”. Per il resto, canta assai bene quel suo breve e scomodo intervento con squillo e bella omogeneità di timbro; e l’effetto, qui sì, teatrale, insito nella scrittura, funziona. Meno a suo agio Maria Eleonora Caminada, che dispone di timbro gradevole e corposo, ma difetta di sicurezza nell’impervio “Dulcissime! Ah! Totam tibi subdo me!”. Il più impegnato dei solisti è Tamon Inoue, baritono luminosissimo e snello, dal volume non immenso ma dalla dizione ben limpida, che se la cava discretamente anche con quella sorta di falsettone necessario in Dies, nox et omnia, brano che getta nel ridicolo anche i nomi più illustri. Ancora oggi il MedioEvo, nel nostro immaginario, è quello lì, così codificato da Orff, Wagner e Walt Disney. Peccato però che gli altri due pannelli del Trittico I Trionfi (Catulli Carmina e Trionfo di Afrodite) non vengano illuminati, neanche di luce riflessa, da questi famosi Carmina Burana.
Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2024
“TOSCA”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal dramma “La Tosca” di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca MARTA MARI
Mario Cavaradossi OTAR JORJIKIA
Il barone Scarpia MARCO CARIA
Cesare Angelotti TIZIANO ROSATI
Il Sagrestano ANDREA PORTA
Spoletta NICOLAS RESINELLI
Sciarrone- Un Carceriere MICHAEL ZENI
Un pastorello VIOLA NURCHIS, LAURA CHILI, AURORA CADDEO
orchestra e Coro e voci bianche dell’ Ente Marialisa de Carolis
Direttore Gianluca Martinenghi
Maestro del coro Francesca Tosi
Voci bianche preparate da Salvatore Rizzu
Regia Renato Bonajuto
Scene Danilo Coppola, Giovanni Gasparro
Costumi Artemio Cabassi
Disegno luci Tony Grandi
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Coccia Novara
Sassari, 1 novembre 2024
Buon successo al Teatro Comunale per la ripresa autunnale della stagione lirica di Sassari, organizzata dall’Ente de Carolis, dopo le produzioni estive. La riproposizione di Tosca dopo soli sette anni dall’ultima ripresa appare giustificata dall’anniversario pucciniano (anche se Puccini ha scritto altre belle opere oltre Tosca e Bohème) ma soprattutto dal favore del pubblico, sempre affezionato alla truce storia di ambientazione papalina. Tosca può essere letta così oppure, in maniera più approfondita, come un grande capolavoro di teatro musicale in cui la tensione drammaturgica è insita nella partitura, più che nel plot narrativo, con una raffinatezza nella costruzione chiaramente influenzata dai leitmotiv wagneriani e dal loro sviluppo (Puccini, anche negli ultimi giorni di vita mentre scriveva Turandot, fu sempre ossessionato dal Tristan und Isolde) e che ha il suo culmine nello straordinario secondo atto. La recente esecuzione di Tosca in forma di concerto diretta da Daniel Harding, in apertura della stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia, è stata efficacissima non a caso proprio nel mettere in luce la densità della scrittura musicale e la sua capacità evocativa, pur senza il supporto visivo della messa in scena. L’allestimento sassarese invece è sembrato interessarsi soprattutto all’aspetto didascalico della vicenda, illustrando ma senza andare al di là di una lettura puramente convenzionale dell’opera. Gianluca Martinenghi dirige con mestiere e dimostra un’interessante sensibilità timbrica tirando fuori un suono levigato e amalgamato dalla buona orchestra del de Carolis, ma si sono notate varie incomprensioni col palcoscenico, sia dal punto di vista ritmico, che dell’insieme dinamico e dell’espressione. Soprattutto è mancato l’approfondimento di cui sopra che avrebbe inserito in maniera più organica le voci “dentro” la partitura e alle sue tensioni con una maggiore cura nella concertazione. L’interprete che ha compreso meglio la necessità di questa esigenza è stato sicuramente Marco Caria, uno Scarpia raffinato, senza certe gigionerie veristiche, più portato dalle sue caratteristiche vocali a costruire un personaggio insinuante, ricco di sfumature, gelidamente calcolatore, lontano dal rozzo poliziotto vociante di certe interpretazioni. Non a caso più della protervia della sua entrata, è stato veramente ammirevole un secondo atto perfettamente addentro nei meccanismi musicali e drammaturgici, costruito con vocalità sicura, omogenea e varietà di accenti espressivi. Varietà non così evidenti nella protagonista: Marta Mari ha una vocalità scura e importante, ricca di armonici, canta molto bene e dimostra una buona presenza scenica, ma è apparsa meno interessante nella differenziazione dei piani dinamici. Veramente bella comunque l’esecuzione di Vissi d’arte proprio per le scelte di colore e di pronuncia espressiva che non sempre ha utilizzato in tutto il ruolo. Su un piano inferiore il Cavaradossi di Otar Jorjikia che, pur dotato di un bel timbro e di discreti mezzi vocali, mostra spesso un’emissione influenzata da un’eccessiva copertura dei suoni che opacizza l’emissione e lo fa apparire in difficoltà nel registro acuto: alcuni incidenti (uno proprio al culmine di E lucevan le stelle) e imperfezioni nell’intonazione hanno mostrato dei problemi tecnici che, visto il materiale, val la pena risolvere. Ben inseriti nella parte tutti gli altri interpreti, con una segnalazione per il bel timbro di Tiziano Rosati, la vivacità di Andrea Porta e la suggestiva realizzazione fuori scena, a più voci, della parte del Pastorello. Buona la prestazione dei cori del de Carolis, ben preparati da Francesca Tosi e Salvatore Rizzu e dell’orchestra, a suo agio anche nei passi più delicati, come il quartetto dei violoncelli nel terzo atto. La regia di Renato Bonajuto è coerente con l’impostazione della direzione e si limita al corretto racconto della vicenda senza intuizioni o approfondimenti psicologici particolari; non appare neanche ben sfruttata la vera novità della scenografia, altrimenti molto tradizionale, di Danilo Coppola, ripresa da un allestimento del Teatro Coccia di Novara, con l’utilizzo della particolare arte “neocaravaggesca” di Giovanni Gasparro e della sua abilità tecnica nel ricostruire le cupe ma sensuali atmosfere controriformiste: non è infatti sufficientemente efficace, a distanza, l’apporto visivo delle immagini utilizzate che avrebbero avuto, con le luci di Tony Grandi, una presenza ben maggiore in un’impostazione nelle proporzioni più visionaria e meno realistica. Applausi alla fine per tutti. Foto Elisa Casula
Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON LESCAUT”
Opéra comique in tre atti su libretto di Eugène Scribe
Musica di Daniel François Esprit Auber
Manon Lescaut MARIE-EVE MUNGER
Il marchese d’Hérigny EDWARD NELSON
Lescaut FRANCESCO SALVADORI
Des Grieux MARCO CIAPONI
Madame Bancelin MANUELA CUSTER
Renaud GUILLAUME ANDRIEUX
Marguerite LAMIA BEUQUE
Gervais ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Monsieur Durozeau PAOLO BATTAGLIA
Un sergente TYLER ZIMMERMAN
Un borghese JUAN JOSÉ MEDINA
Zaby ALBINA TOKHIKH
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Video Marcello Alonghi
Torino, 27 ottobre 2024
Manon, la donna, il cinema. La triade ideale che sorregge la serie di spettacoli firmata da Arnaud Bernard ritorna anche in questo allestimento della “Manon Lescaut” di Auber, la più remota delle trasposizioni operistiche dell’eroina di Prevost andata in scena la prima volta nel 1856.
Questa precocità del titolo ispira il regista che ci riporta all’alba stessa della settima arte. La scena riproduce i primi teatri di posa costruiti da Méliès a Montreuil. Quello cui assistiamo è il retroscena del cinema, in pesa diretta vediamo girare – in piena belle époque – un film su Manon Lescaut. Se gli estratti cinematografici proiettati sono più tardi – tratti da “When a man loves” del 1927 con John Barrymore e Dolores Costello – il mondo che si vuole trasmettere è quello delle prime sperimentazioni cinematografiche quando grazie a Méliès il cinema supera la dimensione prettamente documentaria dei Lumière per farsi forma d’arte e strumento narrativo.
La scena è a doppio livello: il grande teatro di posa in ferro-cemento e al suo interno i fondali in cui viene girata la vicenda di Manon. Anche i costumi giocano sui due piani mischiando un Settecento di cartapesta ad abiti – spesso eleganti – di fine Ottocento. Uno spettacolo che pur attraverso un’ottica francese ha una sua evidente cifra di torinesità. Capace di ricordare quando le rive del Po si coprivano di teatri di posa e grazie a Pastrone e altri la città subalpina era una delle capitali mondiali del nuovo mondo dei sogni in celluloide. Curatissimi tutti i dettagli e strepitoso il gioco attoriale – possibile grazie alle ottime doti di tutti: solisti, coro e figuranti – anch’esso sfalsato si due piani tra la naturalezza del mondo moderno fuori scena e l’imitazione di quella recitazione enfatica e caricata tipica dell’epoca sulla scena.
Guillaume Tourniaire dirige con proprietà e senso stilistico la diseguale partitura. Esprime tutta la brillantezza delle pagine più ispirate e riesce a mantenere il giusto controllo nei momenti più stanchi – che non mancano – evitando il più possibile che una certa noia cominci ad aleggiare. Purtroppo una drammaturgia fin troppo imborghesita e l’assenza di autentici contrasti tendono a essere il punto più debole di un lavoro che invece sprizza freschezza e vivacità dalle arie più leggere e dai pezzi d’assieme, mirabilmente concepiti. Molto buona la prova dell’orchestra e superlativa quella dell’impegnatissimo coro, fondamentale anche per la riuscita scenica dello spettacolo.
Marie Eve-Munger (Manon) ha il gusto e il senso dello stile perfetti per questo repertorio. Vocalmente è brillante, facile nei passaggi di coloratura anche se qualche durezza si nota sugli estremi acuti. La voce non è piccola e risuona bene in sala e nei momenti più patetici dimostra un’emissione elegante e ben controllata. Scenicamente forse non ha il fascino di Manon ma è simpatica e comunicativa.
Marco Ciaponi è un Des Grieux che prende corpo con il prosieguo della recita. Inizialmente quando la scrittura è più brillante e svagata sembra fin troppo prudente mentre nel terzo atto quando il dramma fa capolino e il canto si fa più sincero e intenso esce con convinzione mostrando una sincera partecipazione al dramma del personaggio. La voce è fresca e squillante, leggera ma non esangue. La tessitura e retta con sicurezza e gli acuti non mancano di bello squillo.
Edward Nelson affronta il marchese d’Hérigny con voce forse un po’ piccola ma ottima musicalità e accento nobile ed elegante. La parte del “rivale” e qui più lunga e più sfumata del solido, facendo emergere un personaggio in fondo sincero e di anima nobile che il canto di Nelson riesce a cogliere con eleganza.
Veramente ottime tutte le parti di fianco. Francesco Salvadori è un Lescaut di solidissima voce e ben centrato sul piano dello spettacolo. Nel ruolo – assente in Prevost – di Marguerite, amica di Manon e incarnazione del buon senso di cui latita la protagonista, si fa apprezzare per radiosa vocalità e sincerità d’accento Lamia Beuque. Il suo fidanzato Gervais ha la voce lirica e morbida di Anicio Zorzi Giustiniani che riesce a trasmettere anche il carattere idealista di questo civilizzatore delle Americhe. Manuela Custer con la sua personalità riesce a dare rilievo al ruolo di per se anonimo di Madame Bancelin. Guillaume Andrieux ha la giusta irruenza per lo schiavista Renaud mentre Paolo Battaglia è un po’ anonimo nei panni del commissario di quartiere Monsieur Durozeau.Sala non gremita ma buona presenza di pubblico – buon segno per un titolo così desueto – e caloroso successo per tutti gli interpreti. Foto Daniele Ratti
La seconda, in ordine cronologico, delle tre Cantate bachiane previste per questo giorno festivo è Wohl dem, der sich auf seinen Gott BWV 139 eseguita la prima volta a Lipsia il 12 novembre 1724 per essere poi ripresa, sempre a Lipsia, nel 1735 e nel 1747, L’opera utilizza un Inno di recente creazione (1714) di Johann Cristian Rube (1645-1746) predisposto per la Cantata da un ignoto versificatore che ha utilizzato le strofe da 2 a 4 del Corale, che conta complessivamente di 5 strofe nei numeri 1,2, 4 e 5, mentre il nr.3 è di libera invenzione e si riallaccia al tema evangelico del tributo a Cesare. Il Coro iniziale (Nr.1) costituisce un altro di quei formidabili esempi di ideazione strutturale preordinata che sono frequentissimi nella produzione bachiana. Un’altra pagina geniale che colpisce immediatamente all’ascolto. Il resto della cantata segue il consueto alternarsi di recitativo, aria, recitativo, aria, recitativo e corale finale. La prima aria (nr.2), cantata dal tenore, ha un bell’accompagnamento di violino concertante e scorre via piacevolmente. La seconda aria (Nr.4), questa volta per il basso solista, è forse la più interessante. Una forma di “rondò” che presenta diverse sezioni e stati d’animo contrastanti, resi dalle mutazioni di tempo. In entrambe le arie è stata necessaria una certa ricostruzione della parte strumentale poiché la cantata è giunta a noi solo come un insieme di parti apparentemente incomplete. La cantata si conclude con un semplice corale.
Nr. 1- Coro
Beato chi si affida al suo Dio
come un bambino!
Anche se il peccato, il mondo, la morte
e tutti i demoni lo odiassero,
egli si accontenterebbe
di aver conquistato l’amicizia di Dio.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Dio è mio amico: cosa può la rabbia che
un nemico solleva contro di me?
Io sono sicuro anche in mezzo a odio ed invidia.
Sì, anche se raramente dite la verità,
se siete sempre falsi, che m’importa?
Voi dileggiatori non siete una minaccia per me.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Il Signora manda i suoi
proprio in mezzo ai lupi furiosi.1
Tutt’intorno l’empia moltitudine
si è riunita con astuzia
per recare offesa e scherno;
ma se la sua bocca pronuncia parole di saggezza,
egli mi protegge persino dal mondo.
Nr.4 – Aria (Basso)
Da ogni lato la sventura
avvolge intorno a me pesanti catene.
Ma subito mi soccorre la sua mano.
Da lontano la luce del conforto brilla su di me;
allora imparo che Dio solo
è il miglior amico dell’uomo.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Anche se porto il mio peggior nemico in me,
il pesante fardello dei miei peccati,
il mio Salvatore mi permetterà di trovare pace.
Rendo a Dio ciò che è di Dio,2
la parte più intima della mia anima,
se Lui ora la sceglie, la colpa del peccato
svanisce, l’inganno di Satana è vinto.
Nr.6 – Corale
Perciò sfido le legioni infernali!
Sfido persino le fauci della morte!
Sfido il mondo intero! I suoi colpi
non possono più turbarmi!
Dio è mia protezione, mio aiuto, mio consiglio;
beato chi ha Dio come amico!
Traduzione Emanuele Antonacci
Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON LESCAUT”
Opéra-comique in tre atti su libretto di Eugène Scribe, dal romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine-François Prévost
Musica di Daniel Auber
Manon Lescaut ROCÍO PÉREZ
Il marchese d’Hérigny ARMANDO NOGUERA
Des Grieux SÉBASTIEN GUÈZE
Lescaut FRANCESCO SALVADORI
Madame Bancelin MANUELA CUSTER
Renaud GUILLAUME ANDRIEUX
Marguerite LAMIA BEUQUE
Gervais ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Monsieur Durozeau PAOLO BATTAGLIA
Un sergente TYLER ZIMMERMANN
Un borghese JUAN JOSÉ-MEDINA
Zaby ALBINA TONKIKH
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 24 ottobre 2024
Manon Lescaut di Daniel Auber è sicuramente la meno eseguita e conosciuta tra le tre versioni operistiche delle vicende narrate dall’abbé Prévost, che in ottobre il Teatro Regio ha presentato sul proprio palcoscenico per il progetto “Manon Manon Manon”. E la conseguenza è che ‒ nonostante la presenza dei partecipanti al congresso di Opera Europa, e dei melomani accorsi a Torino per la possibilità di seguire i tre titoli in giorni consecutivi ‒ la sala di piazza Castello era tutt’altro che gremita. Ogni commento sulla pigrizia mentale dei torinesi sarebbe ridondante. Il progetto registico di Arnaud Bernard ‒ che ha scelto di far dialogare le tre opere con il cinema, leggendo ciascuna con gli occhi di un’epoca della cinematografia storica del Novecento francese ‒ ha forse avuto nel titolo di Auber la sua manifestazione più nitida e intelligibile. In questo caso è infatti chiaro che in scena viene portato il set cinematografico di un film muto (il riferimento cronologico per Auber è infatti l’epoca del cinema muto, e il titolo messo direttamente in dialogo con l’opera è When a man loves di Alan Crosland), e che i solisti incarnano gli attori impegnati nelle riprese. Dato che When a man loves è un film in costume settecentesco tratto dal romanzo di Prévost, gli stessi principali protagonisti dell’opera recitano in costume, cosicché le contaminazioni di epoche e di media convivono con un aspetto visivo da allestimento tradizionale, e alcuni spezzoni del film, proiettati durante ouverture, entr’acte e interludi, integrano la drammaturgia di Auber con episodi del romanzo esclusi dalla trasposizione operistica. Il dialogo con il cinema viene quindi ad essere funzionale alla comprensione dell’opera, e aggiunge qualche stimolo di riflessione che non guasta, come quello sul rapporto tra personaggio e interprete (come nei couplets di Manon del I atto, dove la protagonista canta la prima strofa in veste di attrice, ed entra nel personaggio prima di intonare la seconda strofa) e sull’eternità dei drammi interiori dell’essere umano. La direzione di Guillaume Tourniaire ha assicurato alla partitura di Auber un’esecuzione abbastanza completa, sia pure non integrale, e ha permesso al pubblico di coglierne la peculiare natura di opéra-comique di epoca relativamente tarda (1856), quando il genere, senza rinnegare i propri riferimenti rossiniano-donizettiani (evidenti nell’ouverture), era ormai pronto ad evolversi verso, da un lato, la nascente operetta, e, dall’altro, l’opéra-lyrique: se all’operetta guardano i primi due atti di Auber, all’opéra-lyrique volge lo sguardo il terzo. Con il direttore, e con l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio, si è resa protagonista di questa lettura il soprano Rocío Pérez, dalla voce di dimensione contenuta, ma precisa e svettante, che nei primi atti dà vita, con una bella brillantezza e un fraseggio molto curato, al carattere spontaneamente frivolo di Manon, e nel terzo non manca di portare sulla scena una figura estenuata dalla sofferenza e che pur tuttavia non perde delicatezza e grazia. Nella versione di Auber, il ruolo maschile più impegnativo dal punto di vista vocale è quello del Marchese d’Hérigny; e il baritono Armando Noguera, dopo una partenza lievemente sfocata, dà il meglio di sé nel II atto, che inizia con due sue arie in forma di couplets, separate da un duetto con Manon in cui lui fa la parte del leone: i colori, il fraseggio, l’uso della mezzavoce, tutto concorre a tratteggiare con espressività il carattere dell’uomo lascivo e sarcastico ma sempre contegnoso. La figura di Des Grieux emerge davvero solo nel finale II e nell’ultimo atto, in particolare nel lungo duetto conclusivo, dove il tenore Sébastien Guèze tratteggia con proprietà di linguaggio una disperazione non priva di dignità. Auber non conferisce particolare rilievo al personaggio di Lescaut, professionalmente impersonato dal basso Francesco Salvadori. Si distinguono maggiormente altre figure di contorno, come Marguerite (il soprano Lamia Beuque), protagonista di un duetto con Manon nel quale si è stagliata la contrapposizione di carattere tra la frivola rôle-titre e la brava ragazza tutta virtù domestiche. O come il suo fidanzato Gervais, cui il tenore Anicio Zorzi Giustiniani presta una delicata voce di grazia con qualche inflessione un po’ nasale. O, ancora, come il rude Renaud (il baritono Guillaume Andrieux), guardiano delle prigioni in Louisiana. Se era di lusso la presenza del mezzosoprano Manuela Custer quale Madame Bancelin, è giusto ricordare anche gli interpreti delle altre seconde parti: il basso Paolo Battaglia (Monsieur Durozeau), il basso Tyler Zimmermann (Un sergente), il tenore Juan José-Medina (Un borghese) e il soprano Albina Tonkikh (Zaby, privata della sua ballata). Tutti hanno contribuito al buon successo di questo spettacolo, che corona uno dei progetti artistici più interessanti proposti in anni recenti dai teatri d’opera italiani. Foto Daniele Ratti
Roma, Teatro Vascello
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
co-creazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
Roma, 01 Novembre 2024
«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi. La regia di Daria Deflorian è essenziale e tagliente, un esercizio di disciplina che si riflette nella scelta di uno spazio scenico volutamente spoglio, quasi ascetico. La scenografia, curata da Daniele Spanò, diventa una cassa di risonanza per l’alienazione della protagonista: un ambiente neutro, con pochi elementi, che suggerisce l’idea di uno svuotamento progressivo, di una realtà che si fa sempre più rarefatta man mano che Yeong-hye si allontana dalla società e dalle sue regole. La luce, disegnata da Giulia Pastore, è utilizzata come strumento narrativo: tagli netti e spazi ombrosi accompagnano il percorso della protagonista, sottolineando i momenti di crisi, il suo senso di perdita e, al tempo stesso, la sua ricerca di una nuova dimensione. L’atmosfera sonora, curata da Emanuele Pontecorvo, è una presenza costante, quasi ossessiva, che scandisce il tempo del dramma. Suoni ripetitivi, a tratti disturbanti, contribuiscono a creare un ambiente sospeso tra sogno e realtà, in cui lo spettatore si trova immerso nelle stesse inquietudini della protagonista. È un’esperienza sensoriale totalizzante, in cui la dimensione sonora diventa parte integrante della narrazione, amplificando l’effetto straniante della messa in scena. Gli attori non sono solo interpreti dei loro personaggi, ma diventano veicolo di simboli. La loro presenza è misurata, calibrata nei movimenti e nelle espressioni, come a voler sottolineare l’inevitabilità degli eventi. La ribellione di Yeong-hye è un atto che non può essere compreso da chi le sta attorno, ma che ha il potere di scuotere le fondamenta della loro esistenza. Le reazioni degli altri personaggi sono variegate: incredulità, desiderio, dolore. In ogni reazione, tuttavia, vi è l’incapacità di accettare l’altro nella sua unicità, di riconoscere la scelta di Yeong-hye come legittima e necessaria. La regia riesce a rendere palpabile questo conflitto interiore e collettivo, creando una tensione che cresce progressivamente, fino a esplodere nella scena finale. Le piantine deposte sul proscenio dai personaggi non sono solo simboli di crescita e rinnovamento, ma rappresentano anche il fallimento di una società che non riesce a comprendere la scelta di chi decide di non conformarsi. Sono un atto di resa, ma al tempo stesso un segno di speranza, un tentativo di ristabilire un contatto con quella natura da cui Yeong-hye cerca di trarre nuova linfa vitale. Il percorso di Yeong-hye è una discesa verso una forma di libertà assoluta, una libertà che passa attraverso la negazione di tutto ciò che è umano, di tutto ciò che la lega al mondo. Il rifiuto della carne, il rifiuto del corpo come veicolo di piacere e di sofferenza, sono passi verso una condizione di purezza che ha il sapore dell’annullamento. È una ricerca di pace, ma è anche una fuga dalla realtà, un tentativo di sottrarsi alle regole e alle imposizioni di una società che non lascia spazio alla differenza. Il simbolismo della rinuncia attraversa l’intera messa in scena: la carne gettata via, la nudità esposta senza pudore, il corpo che si fa sempre più leggero, quasi evanescente. Yeong-hye diventa il simbolo di una ribellione che non si accontenta di sfidare le convenzioni, ma che vuole distruggerle, andare oltre, raggiungere un punto di non ritorno. E in questo processo di autodistruzione c’è una bellezza conturbante, una forza che spaventa e affascina al tempo stesso. La scelta di Yeong-hye non coinvolge solo se stessa, ma investe anche tutti coloro che le stanno attorno. La famiglia, incapace di comprendere il suo rifiuto, reagisce con rabbia, con violenza, con un desiderio crescente di riportarla all’ordine. Il marito, la sorella, il cognato: ognuno di loro vede nella scelta di Yeong-hye una minaccia alla propria stabilità, un attacco al proprio mondo. E così, il rifiuto di mangiare carne diventa il punto di partenza per un conflitto che non riguarda solo il cibo, ma tocca le corde più intime dell’esistenza, mettendo in discussione l’identità, il desiderio, il bisogno di appartenenza. La relazione con il cognato, che vede in Yeong-hye un corpo da usare per la propria arte, è forse l’esempio più evidente di come la scelta della protagonista venga fraintesa e strumentalizzata. Il corpo di Yeong-hye, che lei cerca di liberare da ogni vincolo, diventa per gli altri un oggetto, uno strumento di controllo, un mezzo per soddisfare i propri desideri. La scena in cui il cognato dipinge il corpo di Yeong-hye, trasformandola in un’opera d’arte vivente, è una rappresentazione potente di questo conflitto: da un lato, il desiderio di Yeong-hye di essere libera, di non appartenere a nessuno; dall’altro, il tentativo del cognato di possederla, di renderla parte del proprio mondo. ‘La Vegetariana’ è uno spettacolo che colpisce per la sua intensità emotiva, per la capacità di portare sulla scena un conflitto che non riguarda solo la protagonista, ma che investe ogni spettatore, chiamandolo a riflettere sul significato della libertà, sul prezzo da pagare per essere veramente se stessi. Yeong-hye, con il suo rifiuto radicale, con la sua scelta estrema, ci mostra la bellezza e il terrore di una libertà totale, di una vita vissuta senza compromessi, senza paura. Una vita che, forse, non è fatta per essere vissuta, ma solo per essere sognata.
Tragédie lyrique in quattro atti su libretto di Camille Saint-Saëns. Kate Aldrich (Déjanire), Julien Dran ( Hercule), Anaïs Constans (Iole), Jérôme Boutillier (Philoctète), Anna Dowsley (Phénice). Choeur de l’Opéra de Monte-Carlo, Stefano Visconti (maestro del coro), Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, Kazuki Yamada (direttore). Registrazione: Auditorium Rainier III, Montecarlo 12-16 ottobre 2022. 2 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane Opéra français n. 39.
La riscoperta del catalogo di Saint-Saëns da parte della fondazione Palazzetto Bru Zane prosegue con l’ultimo lavoro del compositore: “Dejanire” originariamente pensata per les Arénes di Béziers nel 1898 e rivista nelle sue forme definitive per Montecarlo nel 1911. L’opera voleva rappresentare un tentativo di dramma musicale ancorato alla tradizione classica – la tragedia di Gallet che fornisce spunto all’opera è di fatto un rifacimento di Sofocle – in funzione anti-wagneriana. Le scelte musicale rientrato in un recupero erudito della tradizione francese. La prevalenza per un declamato aulico che affonda le sue radici in Berlioz e Spontini fino a risalire alla tragedia musicale sei e settecentesca, l’ampio uso di cori e ballabili, un continuo travasare delle forme sono tutti figli di una precisa volontà stilista. Grande impegno non sempre però retto da un’ispirazione all’altezza così che il lavoro risulta alquanto discontinuo tra momenti decisamente riusciti – soprattutto nei frangenti più lirici – in cui già si anticipano i futuri sviluppi dell’opera francese, il monologo di Iole del II atto sembra già aprire la strada a Mélisande – è brani in cui il compositore si salva con mestiere più che con ispirazione, come tanti brani d’atmosfera dal sapore decisamente pompier. Anche la tensione drammaturgica appare spesso ineguale anche in conseguenza di un libretto che al riguardo lascia non poco a desiderare, si veda solo con quale fretta viene di fatto bruciata tutta la forza espressiva della follia di Ercole, della sua morte e della sua ascesa all’Olimpo, risolte in pochi minuti privi di ogni autentica ispirazione.
Sul piano musicale l’esecuzione è decisamente valida e riserva alcune interessanti sorprese. Kazuki Yamada guida per l’occasione i complessi dell’Opéra di Montecarlo quasi a volersi ricollegare anche fisicamente al luogo dove l’opera vide la luce. Il maestro giapponese opta per una lettura molto rigorosa e per una grande chiarezza espressiva che punta a valorizzare le caratteristiche della scrittura riuscendo a cogliere il luminoso lirismo quasi massenetiano dei momenti più ispirati e cercando di dare una coerenza formale anche alle parti più generiche. La coerenza della lettura di Yamada è sicuramente l’elemento centrale per la riuscita della registrazione anche grazie alle ottime prestazioni dei complessi monegaschi che si mostrano in perfetta sintonia con quest’universo musicale. Una particolare menzione al coro che trova accenti di aulica grandezza come nell’intenso “Comme la Ménade en délire” che annuncia l’entrata della protagonista.
Quest’ultima è Kate Aldrich, mezzosoprano statunitense che ha trovato in Francia il proprio contesto ideale. La Aldrich è una solida professionista è un’interprete appassionata che compensa con l’autorevolezza dell’accento e l’impeto drammatico una voce che non è mai stata classicamente bella e che nel corso degli anni si è ulteriormente inaridita. Sul piano tecnico gli si può impuntare un uso fin eccessivo del vibrato ma fortunatamente il personaggio, sempre estremo nei suoi atteggiamenti, gli risulta interpretativamente assai congeniale.
Una prosodia francese non sempre perfetta non sorprende nell’Aldrich, lascia invece alquanto sgomenti la dizione veramente pessima di Anaïs Constans che è provenzale di Montauban – luogo di reminiscenze operistiche – e da cui si aspetterebbe miglior dizione. Per fortuna la voce è molto bella e il ruolo di Iole con il suo luminoso lirismo esalta le qualità della cantante. Iole ha forse i momenti più ispirati dell’opera come l’aria “Ce n’est pas comme vous” del secondo atto e l’intensa preghiera ad Atena “Pallas, vierge prudente et sage” e la Costans li canta con grazia invantevole.
Una cattiva dizione sembra una costante per le cantanti di questa è accomuna anche l’australiana Anna Dowsley che si fa comunque apprezzare per piacevolezza timbrica e musicalità nel breve ruolo di Phénice.
Dizione che invece risulta elemento di forza per la componente maschile del cast. Praticamente sconosciuto in Italia Julien Dran è la vera rivelazione di questa registrazione. Tenore eroico dalla voce solida e squillante, autorevole nella declamazione e di forte comunicativa è un Hercule veramente apprezzabile al netto di qualche piccola forzatura in acuto. Musicalmente la parte non è tra le più entusiasmanti, anzi è forse la più banale dell’opera nel suo taglio retorico e declamatorio – quanto i duetti con Dejanire sono qualitativamente lontani da quelli da quelli del “Samson et Dalila”– ma nonostante questo riesce a emergere con sicurezza.
La parte dell’amico e poi rivale Philoctète è più interessante nel suo delicato lirismo. Jérôme Boutillier incarna alla perfezione quel tipo di baritono dal timbro chiaro e dal canto nobile così tipico del repertorio francese. La coppia Hercule – Philoctète è un altro interessante esempio nel suo plasmarsi idealmente – nonostante le maggiori tensioni – su quella Licinio – Cinna della “Vestale” di Spontini che a suo volta guardava a Gluck – della precisa volontà di recupero arcaistico portata avanti da Saint-Saëns in quest’opera.
Terminato l’ascolto non si grida al miracolo però si è ascoltato un lavoro interessante e non inutile da conoscere oltre alla scoperta d’interessanti interpreti della senza assai vivace scena lirica francese.
Venerdì 1 novembre
Ore 10.00
“MOISE ET PHARAON”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Riccardo Muti
Regia Luca Ronconi
Interpreti:Ildar Abdrazakov, Erwin Schrott, Giuseppe Filianoti, Sonia Ganassi, Barbara Frittoli…
Sabato 2 novembre
Ore 10.03
“CECCHINA, OSSIA LA BUONA FIGLIOLA”
Musica Niccolò Piccinni
Direttore Franco Caracciolo
Regia Virginio Puecher
Interpreti: Mirella Freni, Sesto Bruscantini, Werner Hollweg, Rita Talarico, Valeria Mariconda, Gloria Trillo, Bianca Maria Casoni.
Domenica 3 novembre / Sabato 9 novembre
Ore 10.00 /10.10
“L’ELISIR D’AMORE”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Mario Rossi
Regia Alessandro Bissoni
Interpreti: Mirella Freni, Renzo Casellato, Sesto Bruscantini, Mario Basiola, Elena Zilio.
RAI, 1968
Ore 11.57
Recital del tenore Renzo Casellato con la partecipazione del soprano Edda Vincenzi. Pagine da Mozart, Donizetti, Bizet e Massenet. Direttore Gennaro D’Angelo
Lunedì 4 novembre
Ore 10.00
“DAS RHEINGOLD”
Musica Richard Wagner.
Direttore Daniel Berenboim.
Regia Guy Cassiers
Interpreti: René Pape, Jan Buchwald…
Martedì 5 novembre
Ore 10.00
“DER FLIEGENDE HOLLANDER”
Musica Richard Wagner
Direttore Christian Badea
Regia Franz Marijnen.
Interpreti: Wolfgang Lenz, Dieter Brencke, Magdalena Cononovici, Robert Schunk, Silvana Mazzieri, Francesco Memeo…
Mercoledì 6 novembre
“SIEGFRIED”
Musica Richard Wagner
Direttore Daniel Barenboim
Regia Guy Cassiers
Interpreti: Lance Ryan, Peter Bronder, Terje Stensvold, Johannes Martin Kränzle, Alexander Tsymbalyuk, Anna Larsson. Nina Stemme, Rinnat Moriah, Viviana Guadalupi…
Giovedì 7 novembre
Ore 10.00
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Bruno Campanella
Regia Joan Font
Interpreti: Marianna Pizzolato, Pietro Spagnoli, Marko Mimica, Boyd Owen, Omar Montanari, Sergio Vitale..
Venerdì 8 novembre
Ore 10.00
“LA FILLE DU REGIMENT”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Riccardo Frizza
Regia Emilio Sagi
Interpreti: Patrizia Ciofi, Juan Diego Florez, Francesca Franci, Nicola Ulivieri
Genova, 2005
Ore 21.15 – Domenica 10 novembre
Ore 17.55
“L’HISTOIRE DE MANON”
Musica Jules Massenet
Coreografia Kenneth McMillan
Direttore Paul Connelly
Interpreti: Nicoletta Manni, Reece Clarke, Nicola Del Freo, Gabriele Corrado, Martina Arduino, Francesca Podini, Gioacchino Starace…
Domenica 10 novembre
Ore 10.00
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Jean-Christophe Spinosi
Regia Moshe Leiser, Patrice Caurier
Interpreti: Cecilia Bartoli, Ildar Abdrazakov, Edgardo Rocha, Alessandro Corbelli, Rebeca Olvera, José Coca Loza,, Rosa Bove
Lunedì 11 novembre
Ore 10.00
“PETER GRIMES”
Musica Benjamin Britten
Direttore Robin Ticciati
Regia Richard Jones
Interpreti:John Graham-Hall, Susan Gritton, Felicity Palmer,Ida Falk Winland, Simona Mihai, George Von Bergen…
Milano, 2012
Martedì 12 novembre
Ore 10.00
“DER ROSENKAVALIER”
Musica Richard Strauss
Direttore Richard Hickox
Regia Keith Warner
Interpreti: Anne Bolstad, Kurt Link, Palema Helen Stephen, Laura Claycomb, Jonathan Green, Adria Firestone…
Spoleto, 2000
Mercoledì 13 novembre
Ore 10.00
“L’ORFEO”
Musica Claudio Monteverdi
Direttore Rinaldo Alessandrini
Regia Bob Wilson
Interpreti: Georg Nigl, Sara Mingardo, Roberta Invernizzi, Giovanni Battista Parodi, Luigi De Donato…
Milano, 2009
Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2024 “STIFFELIO”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Stiffelio STEFANO SECCO
Lina DANIELA SCHILLACI
Stankar VLADIMIR STOYANOV
Raffaele CARLO RAFFAELLI
Jorg GABRIELE SAGONA
Federico FRANCESCO PITTARI
Dorotea SARA ROSSINI
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Leonardo Sini
Maestro del CoroRoberto Gabbiani
Regia e Luci Guy Montavon
Scene e Costumi Francesco Calcagnini
Allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Opéra de Monte-Carlo
Prima rappresentazione a Verona
Verona, 29 ottobre 2024
In linea con le scelte degli ultimi anni la Fondazione Arena presenta al Filarmonico alcune prime interessanti: dopo Il segreto di Susanna e Il campiello di Wolf Ferrari e Amleto di Faccio, ecco approdare a Verona l’inedito Stiffelio di Verdi in un allestimento del Regio di Parma del 2012 e di seguito ripreso all’Opéra di Montecarlo. Il soggetto di Stiffelio è un apologo morale, chiaro e semplice ma soprattutto realistico e contemporaneo per l’epoca (siamo nel 1850): allo stesso tempo, tuttavia, presenta dei limiti poiché manca il classico intreccio amoroso, non abbiamo quella varietà emotiva dei singoli personaggi tanto cara al comporre verdiano, il celebre fraseggio latita e il finale è debole perché lo stesso facile perdono non è nelle corde drammaturgiche di Verdi. Persino l’omicidio, l’unico episodio violento di tutta la vicenda, avviene fuori scena. A bilanciare le sorti dell’opera vi è però la musica interessante dove alcuni numeri, abbandonando i canoni belcantistici, anticipano già la maturità della Trilogia popolare che prenderà forma di lì a poco. La stessa scrittura orchestrale, inoltre, non si limita ad un mero accompagnamento delle voci ma racconta l’azione e vive direttamente il dramma in scena. Sta di fatto, purtroppo, che a detta dello stesso Verdi, pur accolto abbastanza bene alla prima triestina, Stiffelio non poté comunque camminare con le proprie gambe, né gli giovò il rimaneggiamento in Aroldo dato a Rimini nel 1857. Lo spettacolo di Guy Montavon si mantiene prudente ed essenziale, sostanzialmente rispettoso della tradizione, coadiuvato dalle scene e i costumi di Francesco Calcagnini impostati sulla ieraticità del colore grigio, un richiamo all’ambiente austero assasveriano. Unico elemento di contrasto, il costume di Raffaele, dai colori caldi, quasi a sottolineare la sua estraneità alla sfera religiosa e morale della vicenda, oltre alla macchia dell’adulterio, e quello bianco di Lina che aspira al perdono finale che avrà da Stiffelio in quanto pastore, ma forse non dal marito. L’impianto scenico è teso ad immagini didascaliche, un lungo tavolo con crocifisso nel primo atto, un grande cancello per il secondo, una grande Bibbia nel finale catartico della pericope dell’adultera, episodio sottolineato dalle pietre sospese sulle teste dei peccatori; il lato negativo, tuttavia, è la profondità dello spazio scenico che tende a fagocitare le voci dei solisti e del coro. Di ottima fattura il disegno luci, firmato dallo stesso Montavon. Interprete del ruolo eponimo era Stefano Secco il quale, pur non godendo di pagine mirabili o delle sfumature psicologiche di cui è ricco il teatro verdiano, riesce a giocare sul contrasto tra la protervia dell’autorità religiosa e l’intima sofferenza della sua condizione di uomo tradito. La voce è più da lirico, adatta più al primo Verdi che a quello dei ruoli posteriori e talune forzature ne hanno talvolta compromessa l’intonazione ma la sua prova è stata comunque all’altezza della situazione. Daniela Schillaci, pur non brillando particolarmente, ha offerto una Lina sospesa tra il rimorso del tradimento e il desiderio di ricongiungersi allo sposo, con buona vocalità, anch’essa però privata di pagine che ne sottolineino la lotta interiore emotiva. Il migliore della compagnia di canto è stato Vladimir Stoyanov, in grande forma vocale, efficace nell’aria del terzo atto, che ha reso il ruolo di Stankar ossessionato dall’onta e il disonore accentuandone benissimo la durezza inflessibile. Nei ruoli minori, puntuali e ben disegnati l’altero (ma non di grande spessore drammatico) Raffaele di Carlo Raffaelli, lo Jorg nobile e solenne di Gabriele Sagona, Federico e Dorotea interpretati rispettivamente da Francesco Pittari e Sara Rossini. Dal podio il giovane Leonardo Sini gioca sui contrasti dinamici del tessuto orchestrale, (l’elemento più evidente della partitura) con direzione energica e calibrata, tesa ad esaltare la cantabilità, assecondato dall’Orchestra della Fondazione Arena in forma smagliante (eccellente la prima tromba nella sinfonia). Ottimo come sempre l’apporto del coro della Fondazione preparato da Roberto Gabbiani, purtroppo ancora una volta acusticamente penalizzato dalla profondità siderale del palcoscenico. Pubblico non numeroso, ma si trattava pur sempre di una recita infrasettimanale, comunque unanime nel manifestare il proprio consenso. In conclusione, uno Stiffelio ottimale, opera minore di Verdi quantunque di straordinaria modernità per l’epoca in cui fu scritta: vi si tratta il tema del divorzio, per di più chiesto da un pastore protestante. Repliche il 31 ottobre e il 3 novembre. Foto Ennevi per Fondazione Arena.
Gott der Herr ist Sonn und Schild BWV 79 è, in ordine cronologico, la prima nuova partitura per questa festa. La Cantata BWV80 (Ein feste burg) era stata riadattata per la Festa della Riforma, ma era originariamente nata per la “Dominica Oculi”. La BWV 79 è invece la prima partitura espressivamente scritta per questa importante celebrazione luterana eseguita la prima volta a Lipsia il 31 ottobre 1725 e successivamente ripresa sempre a Lipsia tra il 1728 e il 1731 con la modifica di alcuni strumenti nell’organico strumentale. Da notare inoltre che i nr.1, 2 e 5 hanno fornito a Bach il materiale musicale per due delle Messe luterane, la BWV 234 e la 236. La partitura si apre con una citazione dal Salmo 84, versetto 12: “Il Signore Dio è sole e scudo; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine”, un Coro (Nr.1)supportato da un ricco apparato strumentale, cui emergono le scintillanti sonorità di una coppia di corni, sulla cadenzata percussione dei timpani in funzione “concertante” con gli oboi e gli archi. Su questo gioco di alterni spessori sonori cui corrisponde anche una diversa situazione tematica (in particolare quello espresso dalla tromba), si innesta il movimento fugato delle parti corali a struttura tripartita con un’ultima sezione la prima sezione corale e la parte iniziale e finale dell’introduzione strumentale. Una porzione del materiale di quest’ultima, quella affidata ai corni e ai timpani ritorna nei 2 Corale Nr.3 e 6. La Cantata è completata da un’aria per contralto con oboe concertante (Nr.2), un recitativo del basso (Nr.4) e un’aria-duetto per soprano e basso (Nr.5) caratterizzato da una forte carica ritmica.
Nr.1 – Coro
Il Signore Dio è sole e scudo;
il Signore concede grazia e gloria,
non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine
Nr.2 – Aria (Contralto)
Dio è nostro sole e scudo!
Perciò il nostro cuore riconoscente
lo loda per la bontà
con cui protegge il suo piccolo gregge.
E infatti continuerà a proteggerci,
anche se i nemici affilano le loro frecce
e il cane dell’empietà sempre abbaia.
Nr.3 – Corale
Rendete grazie a Dio
con il cuore, la bocca e le mani,
Egli fa grandi cose
per noi e in tutti i modi,
per noi sino dal seno materno
e dalla nostra infanzia
ha compiuto innumerevoli cose buone
e tante continua a farne.
Nr.4 – Recitativo (Basso)
Dio sia lodato, noi conosciamo
il giusto cammino verso la felicità;
poiché tu, Gesù, ce lo hai rivelato con la tua Parola,
e dunque il tuo nome sia sempre lodato.
Eppure visto che tanti
in questo tempo
un giogo ingannatore
per cecità devono portare,
ah!, abbi pietà
anche di loro nella tua grazia,
affinché possano riconoscere il giusto cammino
e chiamarti loro mediatore.
Nr.5 – Aria/Duetto (Soprano, Basso)
Dio, o Dio, non abbandonare i tuoi
mai più!
Fai splendere su di noi la tua Parola;
per quanto furiosamente
i nostri nemici si scaglino contro di noi,
la nostra bocca proclami la tua lode.
Nr.6 – Corale
Conservaci nella verità,
donaci la libertà eterna,
perché il tuo nome sia glorificato
per Gesù Cristo. Amen.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi
ROMA PITTRICE. ARTISTE AL LAVORO TRA XVI E XIX SECOLO
A cura di Ilaria Miarelli Mariani (direttrice della Direzione Musei Civici Sovrintendenza capitolina) e Raffaella Morselli (Sapienza, Università di Roma)
Con la collaborazione di Ilaria Arcangeli (Ph.D Università di Chieti Gabriele D’Annunzio).
Organizzazione Zètema Progetto Cultura
Roma, 30 Ottobre 2024
“L’arte non può essere moderna. L’arte è eterna.” – Marina Abramović
Il progetto espositivo “Roma Pittrice” presso il Museo di Roma celebra il talento artistico femminile che, dal XVI al XIX secolo, ha contribuito a tessere il ricco arazzo dell’arte occidentale, spesso celato tra le pieghe di una storiografia omissiva e androcentrica. La mostra, aperta dal 25 ottobre 2024 al 23 marzo 2025, si configura come un viaggio nella Roma delle artiste: una città-laboratorio che ha visto il fiorire di talenti femminili spesso ignorati o attribuiti erroneamente a maestri maschi. Attraverso circa 130 opere di cinquantasei artiste, “Roma Pittrice” è un omaggio tardivo ma necessario al lavoro delle donne che hanno sfidato i confini del contesto sociale e culturale del loro tempo, partecipando alla costruzione della fisionomia estetica della Roma moderna. La visione curatoriale della mostra si ispira alla storiografia sei-settecentesca, evocando il titolo della “Felsina Pittrice” di Carlo Cesare Malvasia, in cui le scuole pittoriche italiane cercavano di definire la propria autonomia rispetto all’egemonia fiorentina. “Roma Pittrice” si propone di restituire voce alle artiste, rivendicando il loro ruolo nella Roma Capitale delle Arti, non più come comprimarie, ma come protagoniste capaci di esprimere una specificità creativa irriducibile. Il viaggio inizia con Lavinia Fontana, figura centrale del tardo Cinquecento, bolognese di origine, che a Roma trovò terreno fertile per la sua produzione artistica. Il suo autoritratto su rame, mai esposto prima, è il simbolo della consapevolezza di sé come artista e donna. Questa coscienza individuale si manifesta poi nelle opere di Artemisia Gentileschi, che incarnò il tormento e l’emancipazione della condizione femminile. Le sue tele esposte – Cleopatra, L’Aurora e Giuditta – segnano il percorso esistenziale e artistico della pittrice, in una tensione tra drammaticità e sensualità che eleva il corpo femminile a strumento di potere e riscatto. Un altro tassello del mosaico è rappresentato dalle nature morte, genere che trovò un terreno di espressione inaspettato per molte artiste, quali Laura Bernasconi e Anna Stanchi. La loro capacità di rappresentare oggetti quotidiani con precisione scientifica si colloca tra arte e botanica, in un gioco di contrasti tra il microcosmo naturale e il macrocosmo umano, richiamando il connubio tra arte e scienza tipico dell’epoca barocca. Particolarmente significativo è il prestito dall’Accademia di San Luca: un album di miniature di Giovanna Garzoni, dove il dettaglio diviene strumento di affermazione artistica e di appropriazione del sapere naturalistico. Nel corso del Seicento, Roma si conferma luogo di apprendistato e mercato per le artiste, nonché spazio di consolidamento della loro presenza in accademie e istituzioni come l’Accademia di San Luca e quella dei Virtuosi al Pantheon. La mostra documenta il lento ma inesorabile ingresso delle donne nelle istituzioni tradizionalmente riservate agli uomini, come testimonia la presenza delle opere di Plautilla Bricci, figura singolare, architettrice e pittrice, il cui progetto per la Villa del Vascello – rappresentato da prospetti ottocenteschi – è il segno tangibile di una volontà creativa che non conosce limiti di genere. Nell’esposizione emerge anche la figura di Angelika Kauffmann, artista di origine svizzera che a Roma trovò un ambiente propizio per la sua affermazione. La sua casa-atelier divenne punto d’incontro per intellettuali e artisti, e le sue opere, intrise di classicismo e sensibilità preromantica, segnano un momento di transizione fondamentale verso il gusto neoclassico. La sua carriera internazionale è simbolo del riconoscimento di Roma come crocevia di culture e luogo di elezione per l’arte femminile. Il percorso della mostra si estende anche al XIX secolo, quando la situazione delle artiste inizia a mutare sensibilmente, non solo per un crescente riconoscimento pubblico ma anche per la possibilità di accedere a una formazione più strutturata. Louise Seidler ed Emma Gaggiotti rappresentano questa evoluzione. Di Gaggiotti sono esposti per la prima volta il Ritratto di famiglia e due opere provenienti dai depositi degli Uffizi e dei Vaticani, finalmente riportate alla luce grazie a un accurato restauro. Queste opere, insieme all’Autoritratto degli Uffizi, testimoniano la crescita di un nuovo protagonismo femminile nella scena artistica internazionale, in cui l’autoritratto diviene strumento di affermazione identitaria. La mostra si conclude con una riflessione sul rapporto tra le artiste e la città di Roma: un legame che non è solo geografico, ma profondamente esistenziale. La capitale, con i suoi monumenti, i suoi salotti e le sue accademie, si fa non solo sfondo, ma vera e propria “personificazione” del genio femminile, che in essa trova ispirazione e riconoscimento. Roma diventa, in un certo senso, pittrice essa stessa, non più solo luogo fisico ma entità vivente che accoglie e restituisce il riflesso delle vite e delle opere di coloro che l’hanno abitata e amata. Il valore simbolico della mostra è ulteriormente rafforzato dalla presenza di opere che ci restituiscono l’immagine delle artiste, non più solo come produttrici di arte, ma anche come soggetti ritratti, spesso in contesti di vita quotidiana o in pose che evocano una nuova consapevolezza del loro ruolo nella società. I ritratti di cantanti, attrici e salonnière rappresentano il volto moderno della donna-artista, capace di attraversare i confini tra le diverse forme di espressione culturale, contribuendo a ridefinire il ruolo stesso dell’arte nella società del XIX secolo. “Roma Pittrice” non si limita a raccontare un passato glorioso e spesso dimenticato, ma invita il visitatore a proseguire idealmente il percorso tra le vie della città. Una mappa delle opere di artiste esposte nei luoghi pubblici di Roma, disponibile in formato sia espositivo che cartaceo, consente di estendere l’esperienza della visita, facendo della città stessa un museo diffuso. La mostra rende omaggio al ruolo delle donne nella storia dell’arte, proponendo una fruizione che supera la mera osservazione per creare un dialogo tra passato e presente. È un viaggio storiografico che riscopre opere dimenticate e figure marginalizzate, affermando Roma come centro culturale che valorizza il contributo femminile.
Roma, Scuderie del Quirinale
GUERCINO. L’ERA LUDOVISI A ROMA
Giovanni Francesco Barbieri, detto Guercino (Cento 1591 – Bologna 1666), è stato uno dei più grandi esponenti della pittura barocca italiana. La sua arte si distingue per l’uso magistrale della luce e del colore, capace di creare una narrazione intensa e vibrante, pur evitando il realismo crudo di Caravaggio. Guercino fu influenzato da Ludovico Carracci, che gli insegnò l’uso del chiaroscuro e una tecnica pittorica fluida e dinamica. Cresciuto nel contesto della tradizione padana, l’artista arricchì il suo linguaggio con elementi della pittura veneziana del Cinquecento e con l’influenza ferrarese di Dosso Dossi e Scarsellino, sviluppando così uno stile unico che univa esuberanza cromatica e ricerca luministica. La chiamata a Roma da parte del cardinale Alessandro Ludovisi, che divenne papa Gregorio XV nel 1621, segnò un punto di svolta per Guercino. Roma era allora il centro di un vivace fermento artistico, dove tradizione e innovazione si incontravano. Guercino, anziché seguire i modelli di Guido Reni o Annibale Carracci, sviluppò uno stile personale che combinava classicismo e una sensibilità moderna. Le pitture ad olio del Casino Ludovisi, in particolare l’Aurora, sono un esempio di questo approccio innovativo: le figure sono animate da una vitalità espressiva che contrasta con la compostezza formale del Reni, mentre la sua tavolozza esplosiva dissolve i contorni, donando alle opere un’immediatezza unica. La luce nelle opere di Guercino è un elemento narrativo, simbolico e poetico. Negli affreschi del Casino Ludovisi, l’Aurora diventa allegoria della rinascita, resa attraverso una luce che crea un’atmosfera di speranza e meraviglia. Questo uso evocativo della luce è uno degli elementi distintivi del suo linguaggio pittorico. Durante il suo soggiorno romano, Guercino realizzò anche il grande dipinto “Sepoltura e Assunzione di Santa Petronilla” per la Basilica di San Pietro, oggi conservato nella Pinacoteca Capitolina ed in copia in questo allestimento. In quest’opera, l’artista riuscì a combinare la grandiosità della scena sacra con un toccante realismo popolare. Le figure nella parte inferiore richiamano il naturalismo di Caravaggio, ma con un tono più lirico e meno drammatico. Guercino cercava sempre un equilibrio tra il divino e l’umano, rendendo le scene sacre accessibili e profonde. La mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma”, alle Scuderie del Quirinale dal 31 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025, celebra questo periodo cruciale della carriera dell’artista. Curata da Raffaella Morselli e Caterina Volpi, la mostra è il frutto di un lungo lavoro di preparazione e di una visione straordinaria. Con oltre 120 opere provenienti da importanti musei italiani, europei e americani, l’esposizione ricostruisce il contesto culturale della Roma degli anni Venti del Seicento, mettendo Guercino a confronto con maestri come Guido Reni, Domenichino, Albani, Lanfranco, Van Dyck, Bernini, Pietro da Cortona e Poussin. La mostra si articola in diverse sezioni che esplorano i vari aspetti della produzione artistica del Guercino a Roma, dalle opere realizzate per papa Gregorio XV agli affreschi del Casino Ludovisi. L’esposizione mette in luce come Guercino sia riuscito a reinterpretare le influenze dei grandi maestri dell’epoca, fondendo queste ispirazioni in uno stile personale e innovativo. Le opere in mostra permettono di seguire da vicino l’evoluzione artistica del maestro, mostrando come egli abbia saputo coniugare una forte narrazione con una profonda sensibilità atmosferica. Un tema centrale della mostra è il dialogo tra Guercino e gli altri artisti del suo tempo. Questo confronto è reso possibile dall’accostamento delle sue opere con quelle di Annibale e Ludovico Carracci, Guido Reni, Domenichino, Bernini e Van Dyck. Il visitatore è immerso in un’esperienza visiva straordinaria, arricchita dalla presenza di capolavori cinquecenteschi appartenenti alla collezione Ludovisi, che influenzarono la nascita di una corrente neo-veneta nella pittura romana del Seicento. Inoltre, l’esposizione è accompagnata da un apparato critico che analizza nel dettaglio la tecnica pittorica di Guercino, il suo uso del colore e della luce, e la sua capacità di trasmettere emozioni profonde. Durante il suo periodo romano, Guercino affrontò le sfide di una committenza ambiziosa e sofisticata, sperimentando audaci soluzioni spaziali e cromatiche che superavano i limiti del classicismo tradizionale e integrando la tradizione decorativa romana con elementi innovativi della scuola veneziana. La mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma” offre non solo l’opportunità di ammirare le opere del maestro, ma anche di comprendere il contesto storico e culturale che ha plasmato il suo stile. L’arte di Guercino riflette un periodo di grande trasformazione per Roma, un momento in cui l’eredità del Rinascimento veniva reinterpretata alla luce delle nuove sensibilità barocche. Il pontificato di Gregorio XV e il ruolo del cardinale Ludovisi furono determinanti nel promuovere un’arte capace di emozionare e coinvolgere il pubblico, rendendola uno strumento al servizio della Chiesa. La committenza Ludovisi rappresentò per Guercino una straordinaria opportunità di crescita, permettendogli di affermarsi in un ambiente in cui l’arte era uno strumento di potere e di persuasione. La presenza in mostra di opere di Bernini, Pietro da Cortona e Van Dyck, accanto a quelle di Guercino, permette di ricostruire un quadro completo della scena artistica romana degli anni Venti del Seicento. In quel periodo, gli artisti partecipavano a una competizione serrata per ottenere le commissioni più prestigiose, contribuendo a plasmare l’estetica del Barocco. Un altro aspetto di grande interesse è il ruolo del mecenatismo Ludovisi. La famiglia Ludovisi, con la sua passione per l’arte e l’antichità, creò un ambiente stimolante per artisti come Guercino, offrendo loro l’opportunità di lavorare a stretto contatto con capolavori del passato. Il collezionismo Ludovisi, con la sua attenzione per le opere di artisti veneziani e ferraresi, favorì il dialogo tra passato e presente, influenzando profondamente lo sviluppo dell’arte barocca. Questo elemento è ben rappresentato nella mostra, che include opere di Dosso Dossi, Paris Bordon e Jacopo Bassano, evidenziando come la tradizione cinquecentesca sia stata una fonte di ispirazione per Guercino e i suoi contemporanei. L’esposizione “Guercino. L’era Ludovisi a Roma” rappresenta quindi un’occasione unica per esplorare la complessità e la ricchezza di un periodo straordinario, in cui l’arte divenne uno strumento di espressione politica, religiosa e culturale.
Girolamo Frescobaldi (1583-1643) : Toccata prima, dal 2° libro; Johann Pachelbel (1653-1706): Ciaccona in Fa minore; Nicolaus Bruhns (1665-1697): Preludio in Mi minore; Georg Böhm (1661-1733): Vater unser im Himmelreich; Johann Sebastian Bach (1685-1750): Toccata e fuga in Re minore BWV 565; Guy Bovet (1942): Salamanca; Felix Mendelssohn (1809-1847): Sonata V op. 65; Leon Boellmann (1862-1897): Suite Gothique op.25; Franz Liszt (1811-1886): Preludio e Fuga su B-A-C-H. Giovanni Solinas (organo). Registrazione: dal 4 al 23 febbraio 2024 all’organo Stockmann della Chiesa di St Cornelius Dülken. Durata: 88’16’’. 2 Cd Motette Psallite CD MOT 15095
Pur in epoca di progetti discografici coerenti, è assolutamente benvenuta questa bella registrazione che nella sua eterogeneità (ma nella quale non mancano evidenti rimandi) ha la sua ragione unificante prima di tutto nell’accurato restauro dell’organo Stockmann nella Chiesa di St Cornelius a Viersen-Dülken, in Renania, costruito nei primi anni 60 del secolo scorso e che, dopo vari aggiornamenti, ha conosciuto ora un radicale rinnovo. Si tratta quindi di un repertorio scelto, nella sua varietà stilistica e cronologica, per mettere in evidenza le qualità timbriche e dinamiche di un bellissimo strumento, testimone di una grande civiltà musicale passata ma per fortuna ancora presente; il restauro è stato infatti finanziato dal Consiglio Parrocchiale col contributo della Diocesi di Aquisgrana. Ogni commento è superfluo: stiamo parlando di una cittadina di ventimila abitanti ma con un Kantor e organista titolare vincitore di concorso. Proprio l’organista titolare è ovviamente l’altro elemento unificante in questa registrazione: Giovanni Solinas, allievo di Adriano Falcioni ed emigrato da tempo in Germania, unisce le sue doti di naturale cantabilità italiana, tipicamente vocale, a un rigore tecnico che non cade mai nella rigidità agogica o nel virtuosismo fine a se stesso. Questo è un aspetto particolarmente importante perché un evidente filo conduttore tra tutti i brani, rappresentativi dell’arte organistica praticamente dall’origine fino ai nostri giorni, è la derivazione estemporaneo-improvvisativa, non certo rara nel repertorio organistico ma qui presente anche nelle forme di tradizione più strutturata, come la Sonata V di Mendelssohn (di cui Solinas da una bella ed espressiva lettura, soprattutto nell’andante centrale) o la celeberrima Toccata e Fuga in Re minore, da Bach già utilizzata come brano-test nella sua attività di collaudatore di organi, che ben testimonia la sua origine nell’alternanza di formule consuete e di contrasti espressivi e dinamici.
Il test è passato dallo strumento a pieni voti: magnifici soprattutto i ripieni e l’equilibrio nelle mutazioni, con una menzione riservata alla perfetta intonazione, persino in tutte le ance. Si tratta insomma, pur col filtro dell’incisione, di uno strumento erede di una grande tradizione organaria, dalla registrazione completa e ben progettata, di cui non si avvertono difetti tranne il fisiologico lieve ritardo nei registri più gravi dei pedali. Chiaramente, per quanto versatile, non è un organo fatto per eseguire Frescobaldi, ma la condotta espressiva dell’esecutore nelle parti e il collegamento “vocale” degli episodi nella Toccata danno un’esecuzione assolutamente convincente pur se non strettamente filologica. Bella e ben condotta anche la Ciaccona di Pachelbel, apprezzabile nella varietà della registrazione, fondamentale in brani simili, e nell’evidenza delle poderose ance della pedaliera. Da segnalare inoltre, nella parte antica, la precisa esecuzione del Preludio di Bruhns, specialmente nell’ampio fugato cromatico, e l’interessante esposizione di Vater unser im Himmelreich di Böhm, classico corale con canto fiorito al soprano su un’evidente talea ritmica. È comunque soprattutto nella parte romantico-moderna, nel secondo CD, che lo strumento dà il meglio di se: dagli umoristici effetti di Salamanca di Bovet alla bella proposta integrale dell’arcaizzante Suite Gotica di Boellmann, fino al grandioso monumento bachiano eretto da Liszt, Solinas sfrutta abilmente le risorse a disposizione, con una convincente tavolozza timbrica e dinamica dove l’alternanza di passi virtuosistici ed espressivi sono sempre funzionali al disegno globale e inseriti in maniera equilibrata nell’architettura strutturale dei brani. Da segnalare infine la curata veste grafica e il booklet completo e interessante.