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Musica corale

Napoli, Piccolo Bellini: “Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio” dall’8 al 13 aprile

gbopera - Ven, 04/04/2025 - 00:00

Napoli, Piccolo Bellini
“SOLO UNA COSA HO AVUTO NEL MONDO. L’ORECCHIO”
Operina drammatica dal film La Ricotta di Pasolini
Regia, drammaturgia, musiche e paesaggi sonori di e con Blastula.scarnoduo: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile
Voce ed effettistica Monica Demuru (voce, batteria, percussioni, strumentini e chitarra orizzontale)
Produzione Toscana Produzione Musica
Al Piccolo Bellini, dall’8 al 13 aprile, Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio.
«Nel rivedere La Ricotta – episodio filmico di Pasolini del 1963 – ci ha guidato l’idea che il sonoro del film, la sua complessa polifonia, “sfondasse le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita” (Pasolini, Atti impuri). […]
Non proveremo, con questo concerto, con le nostre sezioni improvvisate, ad omaggiare o musicare Pasolini ma a rispondere alla sua suggestione sonora, al suo pastiche per contrasti, alle parole-suono poetiche o della realtà brutale e incredula del mondo, con il nostro sgomento sonoro, il nostro affacciarci anche leggero, al mistero della domanda religiosa e storica, alla pietà per l’umanità persa, per l’intelletto vacillante, per la miseria del povero e quella dell’artista smascherato.
Protagonista de La Ricotta è Stracci, un poveraccio morto di fame che fa il figurante nel film sulla Passione di Cristo, che Welles, cinico regista alter-ego di Pasolini, sta girando al confine tra la Roma popolare e la campagna. Nell’indifferenza della macchina del cinema Stracci muore in croce, di indigestione.» Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Argentina: “Ho paura torero”

gbopera - Gio, 03/04/2025 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
HO PAURA TORERO
di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejando Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturgia Lino Guanciale
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
visual design Riccardo Frati
travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Roma, 03 aprile 2025
Ci sono spettacoli che chiedono allo spettatore di lasciare fuori dalla sala i propri strumenti di difesa, altri che invece li chiamano in causa, li interrogano, li costringono a farsi domande. Ho paura torero, portato in scena da Claudio Longhi al Teatro Argentina, riesce in un compito più sottile e forse ancora più teatrale: ci invita ad abitare un tempo sospeso – personale e collettivo – in cui il privato diventa politico e la tenerezza si fa atto di resistenza. Non c’è spettacolarizzazione, non c’è enfasi: c’è piuttosto un passo lento, poetico, meticoloso, che apre varchi, svela pieghe, suggerisce connessioni. L’adattamento scenico dell’unico romanzo di Pedro Lemebel, curato con sensibilità e rispetto da Alejandro Tantanian, affronta un tessuto drammaturgico denso e stratificato, dove l’intimità si scontra con la storia, e dove la marginalità – sociale, affettiva, sessuale – trova finalmente un centro. Non un centro estetico o ideologico, ma umano. Quello che pulsa nei gesti piccoli, negli sguardi mancati, nei sogni che si ostinano a sopravvivere anche tra i sacchi della clandestinità e le onde libere della radio ribelle. Il testo conserva l’andamento barocco, lirico e popolare del romanzo originale, ma lo piega alla grammatica della scena senza sacrificarne l’autenticità. Siamo a Santiago del Cile, nel 1986. Il regime di Pinochet scricchiola ma ancora fa paura. E in mezzo a una città sorvegliata e spietata, piena di occhi e informatori, vive la Fata dell’angolo, una “vecchia frocia persa” che si sente donna, artista, ricamatrice. Lei non milita, non protesta, ma ama. Ama Carlos, un giovane studente che dice di appartenere al Fronte patriottico Manuel Rodrìguez. Lo accoglie nella sua casa, lo ascolta, lo accudisce. Ricama per lui, sistema i suoi cuscini, canta canzoni malinconiche. Le casse misteriose che Carlos porta con sé, la Fata le adorna con merletti. Non vuole sapere cosa contengano. Le basta poter dire: “Mi fai stare bene“. Al cuore del racconto – e al centro del palco – c’è proprio lei, la Fata, interpretata da un Lino Guanciale che sorprende per delicatezza e rigore. La sua è una performance che rifugge ogni caricatura per abbracciare la profondità di una figura che esiste nell’interstizio tra identità e maschera, tra affetto e abbandono. La Fata è un corpo politico, ma non per militanza: per amore. Carlos, interpretato con misurata intensità da Francesco Centorame, è figura ambigua e sfuggente, oggetto di un sentimento che non potrà mai ricambiare del tutto. Ma in questa asimmetria si annida la forza drammatica del racconto. E’ un amore struggente e un po’ sonnambulo, disseminato di picnic improvvisati a Cajón del Maipo e feste di compleanno con torte colorate per i bambini curiosi del quartiere. Ma è anche un amore a senso unico, e perciò tenerissimo. La Fata cerca un “ti amo“, riceve un “ti voglio bene“. E lei lo sa che non è lo stesso. Ma resiste. La regia di Longhi orchestra tutto con mano ferma e consapevole. Non impone significati ma costruisce una condizione drammatica, una tensione costante tra desiderio e storia. Il ritmo è calibrato, a tratti contemplativo, ma mai statico. Le luci di Max Mugnai e i video di Riccardo Frati intervengono con misura, contribuendo a un’ambientazione visiva che richiama tanto la malinconia della memoria quanto l’elettricità di un’epoca sull’orlo del cambiamento. La musica – rielaborata da Davide Fasulo – alterna motivi latinoamericani a inserti pop colti con intelligenza, diventando voce narrante e paesaggio emotivo. Mario Pirrello e Sara Putignano, nei ruoli grotteschi e disturbanti di Pinochet e di sua moglie, incarnano il potere come parodia dell’umano. La loro presenza, collocata spesso su un livello superiore della scena, crea una dicotomia visiva e simbolica: da una parte l’alto, inaccessibile e violento; dall’altra il basso, vissuto e vulnerabile. La comicità surreale con cui sono trattati i dittatori non ne svuota l’orrore, ma lo espone nella sua disumanità farsesca. Il coro, composto da Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea e Giulia Trivero, agisce come un organismo fluido: ora è popolo, ora è memoria, ora è coscienza collettiva. Si muove con precisione, dando voce a quelle figure dimenticate che costituiscono la carne viva del romanzo e dello spettacolo. Non sono comparse: sono testimonianze incarnate, presenze vive, esistenze minute che si fanno racconto. Uno dei momenti più toccanti è l’irruzione finale dei manifestanti in sala: un gesto scenico che rompe la convenzione e trasforma la platea in agorà, in spazio condiviso. Sul fondale scorrono i volti dei desaparecidos, e la voce della Fata si fa canto di addio. “Ho paura torero“, dice, e nel dirlo non cede alla paura, ma la attraversa. È una parola d’ordine, certo, ma anche una confessione. Un’affermazione di vulnerabilità che si fa forza. C’è molto affetto in questo spettacolo. Un affetto verso il teatro come luogo di comprensione, verso il testo di Lemebel, trattato con rispetto e profondità, verso i personaggi, che vengono custoditi e non esibiti. Ma c’è anche una chiarezza etica: la chiarezza di chi non cerca il consenso facile, ma propone un’esperienza complessa, stratificata, necessaria. E così, nella penombra di un amore mai del tutto corrisposto e nell’eco di una rivoluzione che non trova compimento, resta impressa un’immagine fragile e potente: quella di una Fata che ricama tovaglie, canta boleri, ama senza garanzie, e sceglie di rischiare tutto per un’illusione. In quella figura precaria, marginale, ridicola e sublime, c’è forse la più potente allegoria del nostro tempo: un’umanità che non smette di desiderare, anche quando tutto intorno sembra suggerire il contrario. Da non perdere. Foto © Masiar Pasquali / Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

 

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Roma, Scuderie del Quirinale: “Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini” dal 04 aprile al 13 luglio 2025

gbopera - Gio, 03/04/2025 - 17:10

Roma, Scuderie del Quirinale
BAROCCO GLOBALE. IL MONDO A ROMA NEL SECOLO DI BERNINI
Dal 4 aprile al 13 luglio 2025 le Scuderie del Quirinale si trasformano in una macchina del tempo e dello spazio, un dispositivo critico che restituisce al Barocco la sua pulsazione originaria: quella di un mondo in transito, in tensione tra il locale e il globale. La mostra “Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, realizzata in collaborazione con la Galleria Borghese e con l’ausilio di istituzioni museali di respiro internazionale, mette in scena una geografia di scambi, viaggi e collisioni, capace di raccontare un’epoca che non fu mai chiusa in se stessa, ma centrifuga, aperta, irrequieta. Roma, nel Seicento, non è solo l’epicentro della Controriforma, ma una piattaforma dinamica, dove i flussi di uomini e idee non conoscono confini. Una città-laboratorio in cui l’immaginario artistico si nutre di ambasciatori persiani, missionari gesuiti reduci dalla Cina, artisti fiamminghi in cerca di gloria e mercanti d’oriente affamati di nuove opportunità. Il “Barocco Globale” non è semplice decorazione o sfarzo: è strategia di comunicazione universale, è estetica relazionale ante litteram, è teatro politico che si alimenta di alterità. Le sale delle Scuderie del Quirinale si offrono come spazi di attraversamento e di negoziazione culturale. Non una sequenza cronologica, ma un montaggio intellettuale in cui le opere si fanno agenti attivi di una narrazione multipla. Sculture, dipinti, oggetti rituali, mappe e codici diplomatici raccontano storie di pellegrini e di potenti, di esuli e di santi, di artisti nomadi e di funzionari imperiali. Ognuno con la sua biografia migrante, ognuno con il suo sguardo che sfida la centralità europea e apre alla complessità delle interazioni transculturali. Il Seicento barocco diventa così un palcoscenico del mondo, dove il viaggio si fa forma e la forma si fa viaggio. In un tempo che anticipa la globalizzazione contemporanea, Roma accoglie e rilancia, assorbe e restituisce, ingloba e decodifica. Non c’è identità fissa, ma un continuo scambio, un’osmosi di linguaggi, materiali e simbologie. Alcuni dei protagonisti di questa storia rimangono in pianta stabile nella città dei papi, attratti da un’energia che non è solo spirituale, ma geopolitica e culturale. Altri ripartono, portando via con sé un frammento di Roma, un codice iconografico, un lessico di forme che fiorirà altrove, in altri mondi, in altre estetiche. “Barocco Globale” non è dunque solo una mostra, ma un dispositivo critico che riflette sull’origine della modernità, sul concetto di scambio e sul destino delle immagini in un mondo che già allora si pensava senza confini. Alle Scuderie del Quirinale, il passato diventa un atlante aperto, un mosaico in movimento, in cui il Barocco si rivela come l’arte di un’epoca già consapevole che nessuna cultura è un’isola. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Moby Dick”

gbopera - Mer, 02/04/2025 - 00:15

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
MOBY DICK

di Herman Melville
Regia: Guglielmo Ferro
Adattamento drammaturgico: Micaela Miano
Con: Moni Ovadia , Giulio Corso 
e con Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi,
Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte
Scene Fabiana Di Marco
Costumi Alessandra Benaduce
Musiche Massimiliano Pace
Movimenti scenici Monica Codena
Light designer Pietro Sperduti
Produzione Compagnia Molière – Centro Teatrale Bresciano – Teatro QuirinoRoma, 01 aprile 2025
È un mare senza coordinate quello in cui ci si trova proiettati entrando in sala al Teatro Quirino, dove Moby Dick di Herman Melville prende forma scenica nella regia di Guglielmo Ferro. Il palco si trasforma sin da subito in un luogo di sospensione, tra sacro e profano, memoria e incubo: la nave Pequod non è soltanto il vascello della celebre baleniera, ma un’immagine potente del destino umano, una zattera tragica lanciata verso l’abisso. Lo spettacolo, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano, dal Teatro Quirino e dalla Compagnia Molière, si avvale dell’adattamento drammaturgico di Micaela Miano, che sceglie un impianto evocativo e frammentato, capace di restituire la tensione epica e metafisica del romanzo senza cadere nella mera riduzione narrativa. L’intento è chiaro: evocare, più che raccontare; suggestionare, più che spiegare. Eppure, nel cuore di questo mare agitato, le interpretazioni principali sembrano più naufraghi che nocchieri, travolte dal flusso scenico anziché capaci di governarlo. Moni Ovadia, chiamato a incarnare il terribile Achab, appare smarrito nella parte, come un comandante che ha perso la bussola e parla non alla sua ciurma, ma al vuoto. Il suo dire, più che profetico, suona svuotato: la voce che dovrebbe essere tuono diventa eco, e la fiamma dell’ossessione si riduce a brace spenta. Achab, che è fuoco divorante, diventa qui figura scolorita, incerta tra la declamazione rituale e l’inerzia. Il gesto non affonda, resta sulla superficie del personaggio come una fiocina lanciata con mano esitante: non colpisce il cuore della balena, né quello dello spettatore. La verticalità del personaggio, il suo titanismo tragico, si dissolve in una recitazione spenta, monotona, distante. Giulio Corso, nel ruolo di Starbuck, segue un destino simile, ma con esiti ancora più incerti: ufficiale di bordo senza rotta, pare inseguire le proprie battute più che abitarle. La sua recitazione soffre di una dizione alle volte imbarazzante, frammentata, priva di articolazione emotiva e spesso incapace di restituire al testo dignità drammatica. Le sue entrate sono sperdute, scanzonate, svincolate da qualsiasi logica scenica, come se venisse da un altro spettacolo o da un’altra epoca, con un fare leggero che stride con la gravità del personaggio e della situazione. Il corpo non ha tensione, la parola non ha necessità. L’accento è sradicato, fluttuante come zattera alla deriva, e il respiro teatrale irregolare, incapace di scandire i tempi interni della scena. Starbuck è la coscienza, il dubbio, il fragile argine alla follia del capitano: qui invece si riduce a figura secondaria, priva di mordente, il cui apporto resta più evocato che agito. Il confronto tra i due personaggi, che dovrebbe essere il cuore etico dello spettacolo, si scioglie come nebbia marina, senza tensione, senza reale urto. E così il dramma perde consistenza, il duello morale si affloscia, la tempesta si fa bonaccia. La resa fonica dello spettacolo risulta deludente: le voci degli attori, prive di armonici e profondità, si appiattiscono in sala fino a diventare un’eco lontana, spezzando la forza della parola scenica. Il suono non avvolge, ma si disperde, svuotando il teatro della sua vitalità. Un’occasione sprecata, soprattutto per un testo così ricco di abissi e risonanze. Peccato, davvero peccato: perché questa poteva essere un’occasione perfetta, l’occasione per far detonare sulla scena due archetipi tragici, e invece restano due sagome sfuocate, perse tra le onde. La regia di Guglielmo Ferro si muove in una dimensione astratta, dove il realismo è del tutto assente. La nave non è mai nave, ma spazio mentale. I suoni – tra percussioni, canti rituali e rumori naturali – amplificano la tensione, trasformando l’azione scenica in un viaggio iniziatico. Ma anche la regia, in alcuni passaggi, pare non del tutto a fuoco: il ritmo si spezza, la coralità si impasta, alcune scene sembrano più tappe decorative che stazioni drammatiche. Vi è una coerenza visiva, ma non sempre un senso teatrale nel montaggio delle immagini. A reggere lo spettacolo sono invece gli attori di contorno, capaci di creare una tessitura solida e coesa. La ciurma del Pequod – composta da Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese e Marco Delle Fratte – agisce come un corpo unico, più simbolico che individuale. I personaggi sono voci e ombre di un’umanità molteplice, immersa nella tempesta. I loro gesti e i loro canti, spesso di matrice rituale, rinviano a un teatro arcaico, comunitario, dove la coralità è specchio dell’anima collettiva. Particolarmente azzeccata, almeno in apparenza, la scelta di non mostrare mai la balena: Moby Dick resta presenza assente, evocazione, spettro. È ciò che si insegue e non si vede, ciò che sfugge alla presa ma non al pensiero. E proprio per questo, la sua ombra si estende su tutto lo spettacolo: simbolo dell’inconoscibile, dell’incommensurabile, dell’umano che, tentando di possedere, finisce col perdersi. L’allestimento prova a farsi riflessione sull’ossessione del potere, sull’antropocentrismo e sulla frattura tra uomo e natura. L’intento è nobile, il risultato – com’è accaduto a più di un vascello teatrale – si arena prima della meta. Alla fine, mentre la nave affonda, Achab perisce nella sua hybris e Ismaele resta solo a raccontare, la sala si risveglia in un applauso incerto, più cortese che convinto, come chi torna da una lunga navigazione con la sensazione di aver smarrito la mappa. Non c’è entusiasmo, ma una forma di rispetto sobrio, di quelli riservati alle imprese fallite con eleganza. Del resto, l’ambiziosa e visionaria regia di Guglielmo Ferro sfiora il mito ma non lo trafigge: la fiocina cade e la balena, ancora una volta, svanisce all’orizzonte, lasciando la scena in un silenzio inquieto.

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Pompei, Parco Archeologico: “Rilievo funebre monumentale a Porta Sarno”

gbopera - Mar, 01/04/2025 - 17:03

Pompei, Parco Archeologico
RITROVATO UN RILIEVO FUNEBRE MONUMENTALE
01 aprile 2025
La scoperta si colloca in un’area di straordinario interesse topografico e storico, al confine tra il tessuto urbano e il paesaggio sepolcrale esterno, dove la monumentalizzazione delle tombe divenne, tra la fine del II e il I secolo a.C., veicolo privilegiato per l’autocelebrazione delle élites locali. La tomba da cui proviene il rilievo pare inserirsi pienamente in questa dinamica di visibilità sociale, ponendosi non solo come luogo di memoria individuale o familiare, ma come affermazione tangibile di status e appartenenza civica. Il linguaggio formale adottato — arcaizzante ma non privo di accenti naturalistici — e la scelta della scala monumentale delle figure sembrano riflettere una volontà programmatica di ancorarsi a una romanitas ideale e antica, pur parlando a un pubblico coevo immerso in una realtà culturale profondamente contaminata da apporti italici, greci e orientali. In questo senso, la figura femminile riveste un interesse peculiare: la possibilità che si tratti di una sacerdotessa, identificabile grazie agli attributi scolpiti, apre nuove prospettive sulla partecipazione delle donne ai culti pubblici e sull’iconografia del potere rituale al femminile nella Pompei preromana e repubblicana. Il contesto della necropoli di Porta Sarno continua così a rivelarsi un laboratorio privilegiato per lo studio dei riti funerari, della stratificazione sociale e delle forme di autorappresentazione in età romana. Non è un caso che proprio nella medesima area sia stata rinvenuta, nel 2021, la tomba di Marco Venerio Secundio, altro importante tassello nel mosaico della Pompei multiculturale. L’approccio adottato, integrato tra ricerca archeologica, analisi antropologiche e tecnologie di indagine avanzate, risponde a una visione della tutela e valorizzazione del patrimonio come processo continuo, dove il dato materiale è costantemente interrogato alla luce di nuove domande storiografiche. L’inserimento del rilievo all’interno della mostra “Essere donna nell’antica Pompei” — la cui curatela si preannuncia attenta alle più recenti istanze di rilettura del mondo antico in chiave di genere — rappresenta un esempio virtuoso di connessione tra scavo e narrazione museale, tra ricerca sul campo e fruizione pubblica. La scelta di esporre l’opera in fase di restauro, inoltre, si colloca nel solco di una museologia partecipativa, che rende trasparenti le pratiche di conservazione e consente al visitatore di assistere in tempo reale alla restituzione di un bene alla sua leggibilità formale. La sinergia tra il Parco Archeologico di Pompei e l’Universitat de València si conferma, infine, modello operativo per la ricerca interdisciplinare e internazionale in ambito vesuviano. Il rilievo di Porta Sarno, nella sua imponenza e nel suo silenzioso dialogo tra memoria e materia, si candida a diventare una delle testimonianze più emblematiche della Pompei che fu e della Pompei che ancora oggi continua a essere indagata, interpretata, svelata.

 

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Roma, Spazio Diamante: “Il bambino dalle orecchie grandi” dal 03 al 06 aprile 2025

gbopera - Mar, 01/04/2025 - 11:35

Roma, Spazio Diamante, Sala White
IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI
scritto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Leonardo Maddalena
disegno luci Martin Emanuel Palma 
disegno suono Giuseppe D’Amato
scenografia Salgo Ingala
foto di Loris Zambelli
organizzazione Regina Piperno
produzione Teatrodilina Fondazione Teatro Toscana
regia Francesco Lagi
C’è una coppia, un uomo e una donna che si sono appena conosciuti. Sono due persone che si avviano a stare insieme tra note lievi e incerte in bilico tra il loro presente e il loro passato. Tra la sensazione di essere un amore tutto nuovo ma anche in qualche modo già vissuto. C’è lo stupore di avere a che fare con una persona e di non capire bene chi sia, lo straniamento e la grazia di questa sensazione. La possibilità di essere una coppia e la paura di scambiare il caso per il destino. C’è la raccolta punti della marmellata e la sindrome di non mettere mai i tappi alle cose. Ci sono alcune morti e la questione se i vegetariani possano mangiare il pesce oppure no. C’è il suono delle cose che si rompono e che quando sono rotte non si aggiustano più. L’ipotesi, improbabile ma possibile, di essersi già conosciuti prima, chissà quando in una vita precedente. E poi c’è il bambino, quello dalle orecchie grandi, che dichiara la sua esistenza. Quel bambino che potrebbe rimanere un’ipotesi ma anche nascere e diventare realtà. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Giornate di Studio, IX edizione Le Musiciste: Ensemble e Orchestre Femminili

gbopera - Mar, 01/04/2025 - 10:57

A Roma mercoledì 26 (Teatro Palladium) e giovedì 27 marzo (Dipartimento di Scienze della Formazione), all’interno del programma di ricerca CHANGES (Spoke 8) – Cultural Heritage Active Innovation for Next-Gen Sustainable Society, si sono tenute due Giornate di Studio sull’universo musicale femminile. Si è voluto ritornare sul problema dell’assenza dalla «storiografia musicale europea […delle] Molte donne che furono invece protagoniste, autorevoli professioniste e attente testimoni della società musicale a loro contemporanea». All’iniziativa hanno partecipato studiosi italiani e musicisti affermati nei vari settori portando, attraverso le loro ricerche ed esperienze, significativi contributi con riferimento al far musica collettivo all’interno di un ampio spazio cronologico con un’ottica musicologica e sociologica. L’iniziativa – sostenuta dai Dipartimenti di Scienze della Formazione, di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre e dalla Fondazione Teatro Palladium – ha avuto il patrocinio dell’Associazione fra docenti universitari Italiani di Musica, la Società Italiana di Musicologia, l’Associazione di Sociologia, Sezione studi di genere, e GIO Osservatorio Interuniversitario di Genere, Parità e Pari Opportunità, Associazione Toponomastica femminile. Dopo i saluti istituzionali ad aprire i lavori una bella performance di un gruppo di danzatori della Compagnia Teatrale del Dipartimento di scienze della Formazione, Università Roma Tre. La prima sessione, coordinata da Bianca Maria Antolini, ha trattato con rigore scientifico gli Ensemble musicali femminili dalla Grecia antica all’Ottocento:
Mariella De Simone, Saffo: la decima musa greca o la direttrice di cori?;
Salvatore Dell’Atti, La musica prattica dei complessi musicali femminili a Ferrara nelle fonti tra XVI e XVIII secolo;
Valentina Panzanaro, «Praecipue monialium accomodatae». Sacri e devoti esercizi di primo Seicento nel monastero femminile di Tor de’ Specchi a Roma;
Maria Cristina Paciello, Le due «eccellenti cantarine» della regina Cristina di Svezia Carla Conti, «Posto in musica per sole voci di Donne». Repertori e pratiche musicali del cenacolo femminile Capece Minutolo della Sonora, nella Napoli della prima metà dell’Ottocento.
A seguire un’importante Tavola rotonda dal titolo: Spazi di libertà. La direzione artistica femminile nella scena musicale contemporanea ove, con Luca Aversano e Paola Besutti in qualità di moderatori, hanno partecipato: Clara Iannotta, Cinzia Pennesi, Lucia Ronchetti e Mariangela Vacatello. Ognuna, attraverso la propria storia ed esperienza, oltre ad evidenziare alcune criticità, ha portato significativi contributi di speranza nel vedere le donne protagoniste nel mondo della musica e della direzione artistica. La serata si è conclusa con il Concerto Nata sulla luna dell’Ecoensemble con testi, disegni e musiche di Madeleine Dring.
La seconda Giornata si è aperta con un’introduzione di Milena Gammaitoni su Le Compositrici interpretate dagli studenti del Liceo Musicale Farnesina di Roma ove è stato offerto un apprezzabile momento musicale sottolineato dal numeroso pubblico presente. A seguire una rilevante conversazione curata da Orietta Caianiello e Milena Gammaitoni con la direttrice d’orchestra Cinzia Pennesi, segnalando una serie di problematiche intorno alla figura della donna sul podio. Durante l’intervento della musicista e attraverso le sue esperienze (compresa l’attività di assistente con Franco Mannino, uno tra i protagonisti del Novecento musicale italiano) sono emerse questioni riguardanti la situazione ancora molto difficile per tutti, non solo per le donne, per esercitare la professione della direzione d’orchestra in Italia. Significativa e curiosa coincidenza la proiezione di un video dell’Istituto Luce ove si vede Carmen Càmpori, quasi emblema per le giovani donne che intendono dedicarsi alla direzione d’orchestra, della quale Lucia Navarrini, presente come relatrice, è autrice di una monografia sulla direttrice d’orchestra modenese vissuta ad Incisa Valdarno (FI). Rimanendo in questo ambito ha fatto seguito l’altra interessante sessione Orchestre femminili nel contesto internazionale coordinato da Orietta Caianiello con gli interventi di:
Camilla Costa, Mariateresa Dellaborra, Le Dame viennesi: «un’orchestra fatta meglio per gli occhi che per le orecchie» ?;
Lucia Navarrini, La formazione di orchestre femminili negli USA tra il XIX e il XX secolo;
Federica Fortunato, La Women Symphony Orchestra di Mosca;
Annunziata Kiki Dellisanti, Ensemble femminili in Marocco: musica, tradizione e ruolo sociale;
Laura Simionato, L’ensemble Le Muse: un’orchestra d’archi al femminile.
I lavori, ripresi nel pomeriggio, hanno visto protagonisti gli studenti della classe 3d del Liceo Scienze Umane Sette Chiese/Rousseau di Roma con la proiezione di un Video e letture Conosci il mio nome? e il prosieguo di un altro gruppo di interventi specifici, coordinati da Anna Tedesco, dal titolo Gli ensemble femminili e i generi musicali:
Elena Oliva, Sorelle ‘duettiste’ nel café-chantant italiano: origini e sviluppo di un modello performativo;
Chiara Pelliccia, Ensemble femminili al Lyceum romano nella prima metà del Novecento;
Chiara Evola, Maria Giacchino Cusenza e il Quintetto Femminile Palermitano.
A chiudere la Giornata le variegate relazioni coordinate da Fridanna Maricchiolo:
Chiara Ferrari, Giovanna Marini e il Quartetto Vocale;
Christian Bevilacqua, Emanuele Raganato, Bande al femminile: storie di esclusione, transizione e leadership nel Meridione;
Mattia Cavoli, Arte e vita in strada: La rottura del diaframma nelle arti visive e musicali a Rieti (1968-1969);
Katiuscia Carnà, Zahia Ziouani, l’Orchestra interculturale come azione sociale.
Un sentito plauso a tutti i partecipanti e agli organizzatori, in primis al Comitato scientifico per la scelta dei temi e per aver individuato alcuni tra i più accreditati studiosi italiani che si occupano di studi di genere. Attraverso i vari interventi si è voluto sottolineare, per molti aspetti, quanto il mondo della musica nel nostro Paese, non solo per le donne, è ancora dominio di ‘monopoli’ tanto che in molti casi esiste realmente il rischio di scoraggiare i giovani nell’investire in determinate professioni. Tuttavia il dato incoraggiante, emerso anche durante la Tavola rotonda, è che i tempi stanno cambiando tanto che, nonostante tutto, di fronte alle competenze e alle eccellenze è pur sempre possibile veder realizzare i propri sogni.

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Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista: “Le docteur Miracle”di Georges Bizet

gbopera - Mar, 01/04/2025 - 08:12

Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, Festival Bizet “L’amore ribelle”, 29 marzo-16 maggio 2025
LE DOCTEUR MIRACLE”
Opéra-comique in un atto su libretto di Léon Battu e Ludovic Halévy
Musica di Georges Bizet
Versione da concerto con accompagnamento di pianoforte (trascrizione di Georges Bizet) e dialoghi parlati sostituiti da una Voce recitante.
Pianoforte Thomas Tacquet
Laurette, fille du Podestat DIMA BAWAB
Véronique, épouse du Podestat MARIE KALININE
Le Capitaine Silvio / Pasquin / Le Docteur Miracle MARC MAUILLON
Le Podestat de Padoue, THOMAS DOLIÉ
Récitant VINCENZO TOSETTO
Venezia, 30 marzo 2025
A centocinquat’anni dalla “creazione” di Carmen (Parigi, Opéra-comique, 3 marzo 1875) e dalla morte dell’autore avvenuta tre mesi dopo (il 3 giugno), il Palazzetto Bru Zane dedica a Georges Bizet un festival, che si sta svolgendo in varie sedi europee ed è ora sbarcato in laguna. Può sembrare un paradosso dedicare un ciclo di musica da camera a Bizet, universalmente noto per la sua produzione operistica, in particolare per capolavori come Carmen e Les pêcheurs de perles, mentre è in buona parte sconosciuto il suo catalogo cameristico, che pure comprende una cospicua serie di mélodies (63) e vari pezzi per pianoforte (tra cui alcune trascrizioni).Ma proprio questi aspetti poco indagati dell’autore di Carmen intende illuminare il Centre de Musique Romantique Française con la sua nuova iniziativa. Nel concerto inaugurale del festival veneziano (Il giovane Bizet, 29 marzo), il compositore è stato presentato più che altro in qualità di trascrittore – un’attività da lui svolta, in gioventù, per le Edizioni Choudens – o di autore trascritto da altri, attraverso una serie di pezzi pianistici interpretati da Nathanaël Gouin. Ancora la maestria di Bizet trascrittore – nella fattispecie di se stesso – si è potuta apprezzare nell’appuntamento immediatamente successivo (30 marzo), che proponeva l’esecuzione, in forma di concerto, dell’opéra-bouffe giovanile Le Docteur Miracle, piccolo capolavoro nel campo dell’operetta, per freschezza di scrittura, creatività e inventiva, che pure ben presto cadde nell’oblio delle biblioteche, dove rimase per oltre un secolo, per essere pubblicato solo nel 1962. Ma soffermiamoci sulla genesi della partitura. Il 17 luglio 1856, mentre il Théâtre des Bouffes-Parisiens, da lui diretto, sta riscuotendo un eccezionale successo nel suo primo anno di vita, Jacques Offenbach pubblica su Le Figaro un bando di “concorso per un’operetta in un atto”. Nell’articolo con cui lancia il suo concorso, Offenbach – dopo aver inserito l’operetta nella più pura tradizione dell’opéra-comique – lamenta che sul palcoscenico dell’omonimo teatro parigino si rappresentava ormai un numero sempre maggiore di opere serie, sottraendo spazio ai generi leggeri. Uno spazio, che questi ultimi potevano trovare proprio nel Théâtre des Bouffes-Parisiens, donde l’invito rivolto ai giovani compositori affinché scrivessero per questo nuovo teatro. La stesura del libretto viene commissionata a due collaboratori abituali di Offenbach: Léon Battu e Ludovic Halévy. Il protagonista, il Capitano Silvio – il classico “amoroso” che si fa in quattro pur di incontrare la fanciulla amata – si introduce in casa del Podestà di Padova, e della di lui moglie Véronique, spacciandosi per un servo sciocco, Pasquin (e poi per il Docteur Miracle), fa loro ingoiare un’omelette avvelenata e poi si fa concedere la mano della figlia (Laurette) in cambio dell’antidoto. Concepito nello spirito delle commedie di Molière, il libretto presenta personaggi ben caratterizzati. Su settantotto concorrenti, risultarono vincitori ex aequo Georges Bizet e Charles Lecocq, entrambi diplomatisi nella classe di composizione di Fromental Halévy al Conservatorio parigino. Con un’Ouverture e sei numeri cantati Le Docteur Miracle – l’unica operetta scritta da Bizet, diversamente da Lecoq, che invece ne firmò oltre cinquanta – prende in giro l’opera italiana: i travestimenti del Barbiere di Siviglia, il ciarlatano dell’Elisir d’amore, il medico miracoloso di Così fan tutte.
Di prim’ordine il giovane cast vocale, proposto dal Palazzetto Bru Zane, meravigliosamente sostenuto dal pianoforte di Thomas Tacquet, che si è subito segnalato per nitidezza di tocco e sapiente condotta delle parti nell’Ouverture, percorsa dal continuo intrecciarsi di due temi che, tra l’altro, non si ritrovano poi all’interno dell’operetta. Quanto alle voci – il canonico quartetto vocale: soprano (l’innamorata Laurette), mezzosoprano (la madre Véronique), tenore (l’innamorato Silvio), baritono (il padre Podestat) –, è risultata davvero encomiabile la loro capacità di caratterizzare i personaggi nelle numerose scene d’insieme come negli unici due pezzi solistici riservati alla coppia di “amorosi”. Nel Trio iniziale Dima Bawab – un soprano leggero dal timbro cristallino ed omogeneo – ha fatto emergere l’ingenuità spensierata di Laurette, contrastante rispetto al cattivo umore del Podestat – analogamente ben evidenziato da Thomas Dolié, ragguardevole voce di baritono dal bel timbro scuro – e di sua moglie Véronique, affidata alla voce nobilmente ambrata del mezzosoprano Marie Kalinine. Più oltre la Romance di Laurette Ne me grondez pas pour cela” si è dispiegata con qualche adorabile affettazione, mentre i Couplets de Pasquin, “Je sais monter les escaliers”, sono risuonati con irrefrenabile “vis comica”, grazie al timbro squillante e omogeneo del tenore Marc Mauillon. Vero “tour de force”, l’esilarante Quartetto dell’omelette, ha confermato l’affiatamento del cast, che ha brillato in questa grande scena in tre parti, parodia del grand opéra, in quanto serioso, prolisso, ridondante di vocalizzi. Una plausibile intensità espressiva si è, invece, colta nel Duo tra i giovani amanti, immediatamente seguito dal Trio, in cui il burbero Podestat de Padoue si è rivelato particolarmente ridicolo. Irresistibile il Quartetto conclusivo, in cui gli interpreti si rivolgevano al pubblico, come avveniva nei vaudevilles dell’Ancien Régime. Fine dicitore, Vincenzo Tosetto ha saputo stemperare nei suoi saporosi interventi una doverosa dose di teatralità. Successo pieno a fine serata, ma anche applausi “a scena aperta”.

Categorie: Musica corale

Staatsoper Berlin:”Die Ausflüge des Herrn Brouček”

gbopera - Lun, 31/03/2025 - 23:45

Staatsoper Berlin, Season 2024/25
“DIE AUSFLÜGE DES HERRN BROUCEK”
Opera in two parts. Text and music from Leoš Janáček
Matěj Brouček PETER HOARE
Mazal, Blankytný, Petřík ALES BRISCEIN
Sakristan, Lunobor, Domšík von der Glocke GYULA ORENDT
Málinka, Etherea, Kunka LUCY CROWE
Würfl, Čaroskvoucí, Schöffe CARLES PACHON
Hilfskellner, Wunderkind, Student CLARA NADESHDIN
Keddruta NATALIA SKRYCKA
Dichter, Oblačný, Vacek ARTTU KATAJA
Maler, Stimme des Professors, Duhoslav, Vojta STEPHAN RUGAMER
Komponist, Harfoboj, Miroslav LINASRD VRIELINK
Svatopluk Čech GYULA ORENDT
Staastopernchor, Staatskapelle Berlin
Musical Director Simon Rattle
Chorus Master Gerhard Polifka
Director Robert Carsen
Set Design Radu Boruzescu
Costumes Annemarie Woods
Light Robert Carsen, Peter van Praet
Video Dominik Žižka
Choreography Rebecca Howell
Dramaturgy Elisabeth Kühne
Berlin, 27 march 2025
“A paean to Prague with a critical eye on it’s people. In this co-production with the National Theater of Brno, Janacek’s ‘Home Theater”, the Staatsoper Berlin and the Teatro Real of Madrid, director Robert Carsen has created a modern televised version of Janacek’s 1920 ‘Prague’ opera. Using much original television footage from the 1969 moon landing for the first part, as well as many televised clips from the tragic ‘Prague Spring’ of 1968-9, we are treated to an entertaining spectacle that is spiritually not distant from Janacek’s original settings. Intended by the composer as a biting social critique of a grasping small minded landlord, audiences, and even the original author never saw it that way, and were mildly amused by the antics of the main character, Broucek. Simon Rattle and the Berlin Staatskappelle, however, made this much more than a lighthearted evening. They expressed Janacek’s huge palette of musical sounds, structures and gestures – sometimes accompanying, sometimes commenting, sometimes lyrically – with clarity, subtlety and rich, surprising sound. Janacek’s music is largely based on short rhythmic motifs from the Czech language and resembles one of those remarkable Lego constructions. It consists of small blocks, put together in infinite combinations, and assembled into a coherent structure. Rattle and the orchestra thoroughly understood these structures, giving them all distinct character and dynamic. The Berlin evening started with a large video projection of an old Czechoslovakian TV test pattern, ad opens onto a tavern where Broucek and the other patrons are drinking beer, loudly socializing and watching the 1969 Apollo moon landing on the corner TV, as is the audience on a large video projection over the stage. Remaining true to the original concept of the opera and using original television footage of real events, Carsen draws the audience into Broucek’s inebriated fantasy. The unattractive title character swills too much beer and crawls into a large beer cask, which Carsen cleverly turns into a faux Saturn V rocket which, flames spouting from it’s engines, ends the scene by taking off for the moon. Again television videos of the approaching lunar landscape appear from the first moon landing, and Janacek’s fascinating and lovely music plays underneath. Broucek lands on a bare stage, which shortly morphs into a “Moonstock”, reflecting the “Summer of Love” which was taking place concurrently and whose values are embodied in Janacek’s original scene. Of course the tavern denizens reappear in different guises since this is really Broucek’s fantasy. Much singing, dancing and fascination with the exotic Earthling ensues, but Broucek’s boorishness repulses and he is repulsed in turn and returns to Earth in his rocket assisted beer barrel. Janacek’s return music, accompanied again by original footage of the return to Earth, is truly beautiful, and though written some 60 years before, captures the wonders of spaceflight. The second half of the opera originally involved Broucek’s time travel to the 15th century Prague resistance against foreign domination, known as the Hussite rebellion. Carsen has updated it to the heroic and tragic ‘Prague Spring’ of 1968. Here too he uses videos of original television footage of the uprising and subsequent Soviet led repression to vividly remind us that repression and resistance are not new to Central Europe. A video portrait of the young self immolator Jan Palach tells us that even in modern times this is a part of Prague’s history. Broucek, being a coward, hides in fear, but back in the safety of the tavern claims credit for bravery and heroic deeds. As craven and small minded as the character of Broucek is, the role is large, long and difficult. Very high for the tenor, it repeatedly centers around G# or A above the staff. Written for a character tenor with a high extension, Janacek offers few lyrical moments.The tenor Peter Hoare handled these demands handsomely all evening with a concentrated, penetrating sound and used the language well. He occasionally smeared some of the vocal lines, but pumped out full throated high notes when called upon. A very impressive performance. Lucy Crowe sang the roles of Malinka, Etherea and Kunka the women with whom Broucek is unsuccessfully involved, with a full rich soprano. The roles tended to make large vocal leaps which showed her strength and warmth, but she seemed more interested in displaying size than singing with line, although this may have been the result of the vocal writing. As her lover Mazel, tenor Aleš Briscein displayed an even, bright voice which also had no trouble with the high tessitura of his short role. As the Sacristan, as well as Čech the poet, baritone Gyula Orendt had the one extended lyric moment of the evening, showing off his warm slavic voice. The set by Radu Boruzescu, and lighting by Carsen himself and Peter van Praet, succeeded in recreating a cavernous, dimly lit tavern where Praguers of the time gathered. The cigarette smoke hanging over the stage at the beginning was a nice touch. Annemarie Woods’ Moonstock costumes were fanciful, and the grainy but clearly recognizable historic videos by Dominik Žižka gave content and form to otherwise abstract historical moments.The evening, whatever the flaws of the characters, brings us to a better understanding of this remarkable Czech composer and the city he loved. Photo Arno Declair

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Radio3 Suite Magazine: ” La vita che mi diedi: il maestro del coro Ciro Visco”

gbopera - Lun, 31/03/2025 - 22:13

Radio3 Suite Magazine
“LA VITA CHE MI DIEDI”
IL MAESTRO DEL CORO CIRO VISCO
Roma, 30 marzo 2025
Il maestro Ciro Visco attuale direttore del coro dell’Opera di Roma dall’ottobre 2022 dopo essere stato fra l’altro maestro del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia, del Carlo Felice di Genova, del San Carlo di Napoli e del Massimo di Palermo, viene intervistato da Monica D’Onofrio per il ciclo “La vita che mi diedi” di Radio3 Suite. Dall’incontro dai toni piacevoli e spontanei, lontani anni luce da qualsiasi tentazione divistica, emerge anche grazie alla bravura dell’intervistatrice, un ritratto completo ed a tutto spessore di questo interessante e autentico musicista per il quale la musica non rappresenta uno strumento per raggiungere la fama e la celebrità ma un modo per decifrare e affrontare l’esistenza. Qui per ascoltare l’intervista.

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Roma, Teatro India: “Ferdinando” dal 01 al 06 aprile 2025

gbopera - Lun, 31/03/2025 - 18:56

Roma, Teatro India
FERDINANDO
di Annibale Ruccello
Con Arturo CirilloSabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Riccardo Ciccarelli
regia Arturo Cirillo
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
musiche Francesco De Melis
luci Paolo Manti
regista collaboratore Roberto Capasso
assistente alla regia Luciano Dell’Aglio
produzione MARCHE TEATRO, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
QUI LA NOSTRA RECENSIONE
Arturo Cirillo riporta in scena FERDINANDO, capolavoro della drammaturgia di Annibale Ruccello (1956-1986). Con questo allestimento, Arturo Cirillo, dopo le fortunate prove dello stesso autore Le cinque rose di Jennifer e L’ereditiera (Premio Ubu), firma un altro classico e allo stesso tempo contemporaneo capolavoro. Agosto 1870: il Regno delle Due Sicilie è caduto e la baronessa borbonica Donna Clotilde nella sua villa vesuviana si è “ammalata” di disprezzo per il re sabaudo e per l’Italia piccolo-borghese nata dalla recente unificazione. A fare da infermiera all’ipocondriaca nobildonna è Gesualda, cugina povera e inacidita dal nubilato, ma segreta amante di Don Catellino, prete di famiglia corrotto e vizioso. I giorni passano tutti uguali, tra pasticche, decotti, rancori e bugie. A sconvolgere lo stagnante equilibrio domestico è l’arrivo di un sedicenne dalla bellezza efebica che, rimasto orfano, viene mandato a vivere da Donna Clotilde, di cui risulta essere un lontano nipote. Sarà lui a gettare lo scompiglio nella casa, riaccendendo passioni sopite e smascherando vecchi delitti. Ma chi è davvero Ferdinando? Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

RAI 5. Aprile 2025

gbopera - Lun, 31/03/2025 - 17:00

Martedì 1 aprile
Ore 10.00
“FRANCESCA DA RIMINI”
Musica Riccardo Zandonai
Direttore Maurizio Arena
Regia Pierluigi Samaritani
Interpreti: Raina Kabaivanska, Felice Schiavi, Franco Tagliavini, Oslavio Di Credico…
Verona, 1980
Mercoledì 2 aprile
Ore 10.00
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Musica Pietro Mascagni
Direttore Arturo Basile
Interpreti: Carla Gavazzi, Rosita Gilardi, Mario Ortica, Giuseppe Valdengo, Maria Amadini.
RAI, 1956
Giovedì 3 aprile
Ore 10.00
“ARMIDA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Carlo Rizzi
Regia Luca Ronconi
Interpreti: Carmen Romeu, Randall Bills, Antonino Siragusa, Carlo Lepore, Dmitry Korchak, Vassili kavyas
Pesaro, 2014
Venerdì 4 aprile
Ore 10.00
“LA CIOCIARA”
Musica Marco Tutino
Direttore Giuseppe Finzi
Regia Francesca Zambello.
Interpreti: Anna Caterina Antonacci, Lavinia Bini, Aquiles Machado, Sebastian Catana, Roberto Scandiuzzi…
Cagliari, 2017
Ore 21.15 – Domenica 6 aprile – ore 18.15
“NORMA”
Musica Vincenzo Bellini
Direttore Gaetano D’Espinosa
Regia Kara Walker
Interpreti: Carmela Remigio, Gregory Kunde, Dmitry Beloselskiy, Veronica Simeoni, Anna Bordignon, Emanuele Giannino.
Venezia, 2015
Sabato 5 aprile
Ore 10.09
“I DUE TIMIDI”
Musica Nino Rota
Direttore Ettore Gracis
Regia Vito Molinari
Interpreti: Leonardo Monreale, Bruna Rizzoli, Alvinio Misciano, Giuseppina Salvi…
Ore 10.59
“IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE”
Musica Nino Rota
Direttore Bruno Campanella
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Juan Diego Flórez, Giovanni Furlanetto, Alfonso Antoniozzi, Elizabeth Norberg-Schulz, Adelina Scarabelli…
Milano, 1998
Domenica 6 aprile /Sabato 12 aprile
Ore 10.00 / 10.10
“SALOME”
Musica Richard Strauss
Direttore Nicola Luisotti
Regia Gabriele Lavia
Interpreti: Erika Sunnegardh, Mark S. Doss, Robert Brubaker, Dalia Schaechter
Bologna, 2010
Lunedì 7 aprile
Ore 10.00
“MARIA STUARDA”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Antonino Fogliani
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Mariella Devia, Anna Caterina Antonacci, Francesco Meli…
Milano, 2008
Martedì 8 aprile
Ore 10.00

“I MASNADIERI”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Michele Mariotti
Regia David McVicar
Interpreti: Lisette Oropesa, Fabio Sartori, Michele Pertusi, Massimo Cavalletti…
Milano, 2019
Mercoledì 9 aprile
Ore 10.00

“DON CARLO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Zubin Mehta
Regia Giancarlo Del Monaco
Interpreti: Roberto Aronica, Dmitry Beloselskiy, Julianna Di Giacomo, Massimo Cavalletti, Ekaterina Gubanova, Eric Halfvarson
Firenze, 2017
Giovedì 10 aprile
ore 10.00 
“GIOVANNA D’ARCO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Moshe Leiser e Patrice Caurier
Interpreti: Anna Netrebko, Francesco Meli, Carlos Alvarez….
Milano, 2015
Venerdì 11 aprile
Ore 10.00
“LUISA MILLER”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Gianandrea Gavazzeni
Regia Filippo Crivelli
Interpreti: Cecilia Gasdia, Anna Maria Fichera, Nazareno Antinori, Simone Alaimo…
Ore 21.15
“MEFISTOFELE”
Musica Arrigo Boito
Direttore Michele Mariotti
Regia Simon Stone
Interpreti: John Relyea, Joshua Guerrero, Maria Agresta…
Roma, 2023
Sabato 12 aprile
Ore 10.55
“SUOR ANGELICA”

Musica Giacomo Puccini
Direttore Oliviero De Fabritiis
Interpreti: Edda Vincenzi, Jolanda Gardino, Ortensia Beggiato, Stefania Malagù, Cecilia Fusco, Angela Rocco, Mietta Sighele….
RAI, 1958

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Roma, Sala Umberto: “A Mirror: spettacolo falso e non autorizzato”

gbopera - Lun, 31/03/2025 - 12:53

Roma, Sala Umberto
A MIRROR
SPETTACOLO FALSO E NON AUTORIZZATO
di Sam Holcroft
con NINNI BRUSCHETTA, CLAUDIO ‘GREG’ GREGORI, FABRIZIO COLICA,  PAOLA MICHELINI, GIANLUCA MUSIU
Scene Alessandro Chiti
Costumi Giulia Pagliarulo
Musiche Mario Incudine
Disegno Luci Sofia Xella
Aiuto regia Giuditta Vasile
per gentile concessione dell’Agenzia Danesi Tolnay
Una coproduzione Altra Scena | Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale
Regia di Giancarlo Nicoletti
Roma, 25 marzo 2025
Entro in sala con quella sensazione sospesa di chi sa di stare per assistere a qualcosa che non dovrebbe vedere, ed è proprio questo a renderlo irresistibilmente attraente. Capisco subito che si tratterà di un matrimonio, ma basta un’occhiata alle guardie armate, ai loro volti fin troppo composti, per intuire che sì, sarà una cerimonia… ma ben lontana dal solito “vissero felici e contenti”. “Spettacolo falso e non autorizzato” — il titolo è una dichiarazione d’intenti in sé — è una piccola bomba teatrale. Gioca con il meccanismo del teatro-nel-teatro-nel-teatro, mescolando Pirandello, distopia e satira in un mix esplosivo e sorprendentemente leggero. Parla di censura, libertà d’espressione, regimi, arte e potere, ma lo fa con una risata in tasca e una mano tesa verso lo spettatore, che da subito capisce di non poter restare passivo. Il cast è perfettamente calibrato, con prove attoriali che restano sempre semplici e mai fuori luogo come quella di Ninni Bruschetta. Greg (Claudio Gregori) spiazza con la sua capacità di maneggiare voci e sguardi da cartoon colto e disilluso. Fabrizio Colica porta una ventata fresca, Paola Michelini è vibrante e precisa, mentre Gianluca Musiu, che chiude il cerchio, cattura la scena con grande presenza. Ognuno di loro regala al pubblico un pezzo di verità e follia, tutti con quella luce negli occhi da attori-ribelli, anche quando interpretano i “cattivi”. La regia di Giancarlo Nicoletti è attenta ai dettagli e si destreggia con eleganza tra i continui effetti sorpresa. Mantenere il ritmo in un’opera così imprevedibile non è semplice, ma Nicoletti riesce sempre a restituire vitalità e forza. Qualche piccolo calo c’è, ma viene prontamente compensato da colpi di scena che riportano subito lo spettatore dentro la storia. Le luci di Sofia Xella sono molto realistiche, modellano spazio ed eventi. La scenografia di Alessandro Chiti, imponente e funzionale, fa da cornice alla vicenda con grande impatto. Le musiche originali sii fondono perfettamente al respiro della scena, mentre i costumi sobri ed eleganti di Giulia Pagliarulo completano il quadro con coerenza estetica. A Mirror è un esperimento teatrale ben riuscito. Ti fa sedere a un matrimonio e poi ti trascina in un gioco di specchi dove tutto è doppio, finto e vero allo stesso tempo. Ti fa ridere mentre parla di controllo, ti intrattiene mentre ti mette in discussione. E alla fine ti chiede: da che parte stai? Con chi racconta le storie o con chi le silenzia? Quale spettacolo sceglierai di vedere da ora in poi? Chi ti racconta la verità, e chi invece ti propone la verità mascherata della società? Questo è uno spettacolo sincero. Se decidi di restare fino all’ultima battuta — e te lo consiglio vivamente— sappi che un po’ te la giochi. L’omertà non è ammessa. Ma se resci ad uscirne sano e salvo avrai una bella storia da raccontare, e sì, con gli applausi ancora nelle orecchie. Photocredit Altrascena

 

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Roma, Teatro Argentina: “Ho paura Torero” dal 03 al 17 aprile 2025

gbopera - Dom, 30/03/2025 - 18:16

Roma, Teatro Argentina
HO PAURA TORERO
di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejando Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturgia Lino Guanciale
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
visual design Riccardo Frati
travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo
assistente alla regia Giulia Sangiorgio
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Ho paura torero è un testo dello scrittore cileno Pedro Lemebel romanziere pungente, strenuo difensore dei diritti di ogni essere umano, scomparso nel 2015 e ricordato per essere uno dei più convinti critici della dittatura di Pinochet. Claudio Longhi ne firma la regia, che è la prima per il Teatro Piccolo di Milano da quando è direttore, mentre Lino Guanciale ne è il dramaturg e interprete della sarcastica e struggente Fata dell’angolo. Sullo sfondo di una Santiago schiacciata dai pattugliamenti – anno 1986 – la Fata, lo studente Carlos, il generale Pinochet e la sua fedelissima doña Lucia, persi nel coro scomposto della città indolente e febbricitante, danzano, sinuosi o impettiti, il loro fatale e grottesco bolero col destino. Lo spettacolo, in bilico tra sogno e storia, fuga fantastica e violenta quotidianità, eros e politica, racconta la parabola ineluttabile del desiderio, porgendo un omaggio alla penna ironica e appassionata, graffiante e visionaria, scandalosa e sovversiva di Pedro Lemebel. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Parioli Costanzo: “La Prospettiva”

gbopera - Dom, 30/03/2025 - 13:57

Roma, Teatro Parioli Costanzo
LA PROSPETTIVA
con Massimiliano Bruno e Gianmarco Tognazzi
Scritto e diretto da Massimiliano Bruno
Con Sara Baccarini, Maurizio Lops, Malvina Ruggiano e Alessandra Scalabrini
Musiche Roberto Procaccini
Costumi Monica Rosini
Scenografia Andrea Cecchini
Aiuto regia Filippo Gentile
Assistente alla regia Dafne Montalbano
Disegno luci Beatrice Mitruccio
Organizzazione Giulia Angelini
Produzione Il Parioli Costanzo
Produzione esecutiva Enzo Gentile
Roma, 26 marzo 2025
La prima nazionale di “La Prospettiva” al Teatro Parioli Costanzo ha convinto il pubblico con uno spettacolo che mescola dramma, ironia e una sottile malinconia. La trama, che inizialmente potrebbe sembrare la solita storia di famiglia di cugini che si trovano a fare i conti con un cambiamento improvviso, nasconde temi profondi come il valore del tempo, la paura del cambiamento e il nostro rapporto con il mondo che ci circonda. Con una scrittura che alterna tagliente ironia e tenerezza, Massimiliano Bruno ci regala un’opera che ci fa riflettere sul fatto che, alla fine, cambiare—idee, mondi, prospettive—bpuò fare paura. La drammaturgia di Bruno gioca tra realismo e ironia. I personaggi, familiari ma non troppo, vengono tratteggiati con semplicità, affetto e una giusta dose di cinismo, creando un’atmosfera che ti fa ridere ma anche pensare. Il conflitto principale, ovvero il rifiuto della modernità in favore della terra e della tradizione, si dipana lentamente, ma non senza qualche colpo di scena. Certo, alcuni passaggi sono un po’ troppo rapidi, lasciando la sensazione di voler soffermarsi di più su certe dinamiche, ma nel complesso la trama riesce a coinvolgere ed emozionare. La regia di Massimiliano Bruno è leggera e dolce, capace di mostrarci il mondo attraverso una lente ottimista e serena. Ogni scena sembra accarezzare lo spettatore, trasmettendo una sensazione di leggerezza. Bruno ci invita a guardare la realtà con occhi positivi, come se ogni difficoltà potesse essere superata con un sorriso e una buona dose di umanità. Scenografia e luci, vero punto di forza dello spettacolo, non si limitano a illuminare, ma raccontano visivamente il passaggio dal giorno alla notte, dal presente al passato, dalla vita tranquilla alla tempesta di emozioni che sta per travolgere i personaggi. Particolarmente apprezzate le proiezioni artistiche sulle pareti della casa dei Jorio, che spazzano da Van Gogh a Picasso fino ad Antonioni. Non ci si aspettava un viaggio nell’arte. Qui entra in gioco il concetto di otium: il tempo libero che ti fa apprezzare l’arte e la bellezza, proprio come i Jorio, che si troveranno a vivere un “sogno artistico”. La scenografia continua a sorprendere fino alla fine, lasciandoci senza fiato. La parte finale mi ha ricordato la scenografia di Ronconi per Il Pasticciaccio del 1996, con la sua capacità di creare un ambiente che evolve e travolge, mantenendo il pubblico completamente coinvolto. Ogni attore ha catturato l’essenza del proprio personaggio. Gianmarco Tognazzi, nei panni di Sasà, si fa sorridere e commuovere con ogni battuta, dando vita a un personaggio che mescola tragicità e comicità in un perfetto equilibrio. Maurizio Lops, nel ruolo di Zì Prete, è il solitario che non si smentisce mai, rifugiandosi nelle lamentele e nelle preghiere. Massimiliano Bruno, non si risparmia nemmeno nella recitazione, apparendo delicato con battute semplici e realistiche. E poi c’è Malvina Ruggiano, nei panni di Belinda, la donna misteriosa che arriva con la sua proposta di cambiamento. Il suo tailleur rosso non passa certo inosservato: la scelta cromatica del rosso è un chiaro segnale che qualcosa sta per scuotere l’equilibrio della famiglia Jorio. E se questo non sarà abbastanza, il suo personaggio si rivelerà il catalizzatore di un cambiamento che nessuno si aspettava. Anche Donna, interpretata da Sara Baccarini, come gli altri personaggi, è alla ricerca di un riscatto. La sua salvezza giunge attraverso lo studio e l’arte, che la aiuteranno a scoprire sé stessa e a liberarsi da un matrimonio “cieco”. La vera sorpresa arriva con Belinda, che con il suo abito rosso ed elegante, quasi diabolico, sembra sconvolgere l’equilibrio familiare. Ma forse è proprio lei a far scattare in Donna la fiamma, il desiderio di cambiare davvero. E anche grazie a lei, Donna inizia a sognare un viaggio che la porterà a Bilbao, New York, Amsterdam… Dove finalmente avrà l’opportunità di vedere i suoi studi d’arte dal vivo, di iniziare a “vedere”. La sua trasformazione non è solo esteriore, ma soprattutto interiore: Donna comincerà a vedersi bella, attraente e meritevole di felicità, prima di tutto per sé stessa. Curiosa la scelta del nome, che, inizialmente, attraverso l’abbigliamento di Donna, sembra spersonalizzarla, ma che, nel corso della trama, diventa il simbolo di una vera e propria evoluzione del suo personaggio. E poi c’è la musica. Quando si sentono le note di “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” dei The Smiths e “One Love” di Bob Marley, si pensa già che qualcosa sta per scatenarsi. Forse non sempre in sintonia con il resto della narrazione, ma l’energia delle canzoni rispecchia bene la freschezza giovanile della messinscena. Il momento più toccante arriva quando Sol canta “Volta la carta” di Fabrizio De André, facendo esplodere un’intimità che ti fa sentire come se stessi entrando in contatto con la loro anima. La scrittura, la regia, la scenografia e le performance ci invitano a guardare il cambiamento da una nuova prospettiva (appunto) e, chissà, magari a decidere di cambiare anche noi un po’ di più. O, almeno, a guardare la vita da un angolo differente. Applausi sinceri fino alla fine. Lo spettacolo è in scena al Teatro Parioli Costanzo fino al 6 aprile. Photocredit Teatro Parioli Costanzo

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Sonya Yoncheva: “George”

gbopera - Sab, 29/03/2025 - 13:10

Frédéric Chopin: “Casta Diva” (da Vincenzo Bellini); Ruggero Leoncavallo: “Nuit de décembre”; Léo Delibes: “Les filles de cadix”, Frédéric Chopin: “3 nocturnes, op. 9, B. 54”; Jacques Offenbach: “Voyez dans la nuit brune” (“Fantasio”); Pauline Viardot: “Madrid, princesse des Espagnes” (“6 mélodies”), “Romanza in La maggiore” (6 morceaux, VWV 3003); Francesco Paolo Tosti: “Ninon”; Pauline Viardot: ““Prépare-toi, faible cœur” (da Chopin), “Pars, et nous oublie … Reste, ô mon amie” (da Chopin);  Franz Liszt: “Liebesträume, S. 541”; Pauline Viardot: “Les bohémiennes” (da Brahms). Sonya Yoncheva (soprano), Marina Viotti (mezzosoprano), Olga Zado (pianoforte), Adam Taubitz (violino).Registrazione: Théâtre Populaire Romand, La Chaux-de-Fonds, 12-14 marzo 2024. 1 CD SY11 productions/Naïve
George Sand è sicuramente una figura affascinante e per molti aspetti una precorritrice della modernità. Scrittrice, poetessa, animatrice di uno dei più importanti cenacoli culturali della Parigi ottocentesca ha fatto della propria opera e ancor più della propria vita una bandiera delle nuove sensibilità che maturavano sotto la coltre del perbenismo borghese. Nata Amantine Lucile Aurore Dupin abbandona appena ventisettenne il proprio nome per quello pseudonimo George Sand, volutamente ambiguo sul piano del genere, che è già una scelta programmatica di una vita capace di rompere i confini sociali tra maschile e femminile che sarà la sua cifra esistenziale.
Non sorprende che questa eroina del proto-femminismo affascini ancora e che proprio a lei il  soprano bulgaro Sonya Yoncheva dedichi il nuovo prodotto della sua nuova etichetta SY11 Productions per la prima volta in collaborazione con un importante editore come Naïve Records.
L’interesse della Yoncheva per la Sand è probabilmente sincero e le accorate parole con cui la cantante accompagna la registrazione sembrano confermarlo. Meno presente ci è parsa la volontà di ricostruire quello che autenticamente era il tessuto sonoro delle serate nel Chateau de Nohant, residenza prediletta della Sand e luogo d’elezione del suo salotto. I brani proposti sono tutti in qualche modo collegati a lei ma in alcuni casi in modo molto indiretto. Alcune composizioni – come quelle di Tosti e Leoncavallo – sono postume alla Sand e l’unico legame sono i testi poetici di De Musset usati dai due compositori. In altri casi – come il Notturno n. 2 op. 9 di Chopin – risalgono a un periodo precedente la frequentazione dell’autore con la scrittrice e probabilmente mai eseguite a Nohant. Quello che invece è pienamente colto – al netto delle precisazioni filologiche – è la cifra stilistica di quei salotti, l’atmosfera di fondo che doveva caratterizzare quelle serate e in questo il risultato è perfettamente compiuto.
Il programma ci presenta romanze da salotto per canto e pianoforte interpretate dalla Yoncheva affiancata in due brani da Marina Viotti, composizioni pianistiche ed estratti da lettere e diari della Sand o di suoi amici recitati con intensità e ottima dizione francese dalla stessa Yoncheva. Questi ultimi sono interpretati con accompagnamento pianistico riprendendo la forma tipicamente francese del melologue.
La Yoncheva si muove in un terreno che le è particolarmente congeniale. I brani proposti non presentano grandi difficoltà vocali e la mettono al riparo da quelle problematiche che emergono quando l’artista è impegnata in ruoli troppo drammatici. Qui l’attenzione è tutta sul dato espressivo e la Yoncheva al riguardo è esemplare – anche grazie a un francese impeccabile – a cogliere il carattere di ciascun brano fino alle minime sfumature. Il timbro, è noto, è molto bello, la linea di canto elegante, morbida, ricca di sfumature. Solo quando la voce sale si nota un controllo non sempre impeccabile con un vibrato che tende a farsi evidente. E’ il caso di un brano estroverso e molto teatrale come “Nuit de décembre” di Leoncavallo che ricorda in certe cellule melodiche la ballata di Nedda in “Pagliaci”. Considerazioni simili per l’unico brano operistico del programma – eseguito nella versione per canto e pianoforte – “Voyez dans la nuit brune” dal “Fantasio” di Offenbach – ispirato a un dramma di De Musset – che forse è il brano che più porta al limite la vocalità della Yoncheva.
Gli altri brani sono piccoli cammei perfettamente cesellati. Sia l’ironia garbata e salottiera della “Ninon” di Tosti, l’abbandono lirico di “Prépare-toi, faible cœur” della Viardot – da un  tema di Chopin – o gli spagnolismo più o meno autentici di “Les filles de Cadiz” di Delibes – assai apprezzabile anche la precisione dei passaggi di coloratura – e di “Madrid” della Viardot.
Pauline Viardot legata alla Sand da un profondo legame di amicizia e stima è l’autrice dei due duetti presenti. Come nel caso della romanza precedente si tratta di rielaborazioni di tempi altrui – ancora Chopin e Brahms con le sue danze ungheresi liberamente smontate e ricomposte in “Les bohémiennes”. In questi duetti la Yoncheva è affiancata da una Marina Viotti non solo stilisticamente raffinata ma capace di trovare con la Yoncheva un perfetto amalgama timbrico.
Il canto è accompagnato con tocca caldo ed elegante dalla giovane pianista ucraina Olga Zado che ha anche occasione di farsi valere in proprio nella bellissima trascrizione fatta da Chopin di “Casta diva” e nel “Liebestraum” di Liszt, unico brano del compositore ungherese pur così importante nella vita della Sand. Completa il lotto degli interpreti Adam Taubitz che con il suo violino duetta con la Zado nella breve ma assai ispirata “Romanza in la maggiore” della Viardot.

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Ercolano, Villa Campolieto: “Dall’ uovo alle mele. La civiltà del cibo ed i piaceri della tavola ad Ercolano”

gbopera - Sab, 29/03/2025 - 12:15

Ercolano, Villa Campolieto
DALL’UOVO ALLE MELE. LA CIVILTA’ DEL CIBO ED I PIACERI DELLA TAVOLA AD ERCOLANO
allestita dal Parco Archeologico in collaborazione con la Fondazione Ente Ville Vesuviane
Ercolano, 28 marzo 2025
«Ab ovo usque ad mala», scrive Orazio, e con quella formula ci consegna non solo la sequenza canonica di un pasto romano — dalle uova agli acini — ma un’idea precisa di civiltà: ordinata, completa, consapevole. Il cibo non come necessità, ma come linguaggio. La mostra Dall’uovo alle mele, allestita nella Villa Campolieto di Ercolano dal Parco Archeologico in collaborazione con la Fondazione Ente Ville Vesuviane, si presenta come molto più di un’esposizione. È un’opera di pensiero. L’arte del mangiare, per i Romani, era arte del vivere, e vivere significava comporre l’esistenza secondo un ordine morale, simbolico, estetico. Nelle stanze affrescate della villa settecentesca — già in sé emblema di un’idea alta di residenza — i reperti antichi non sono messi in fila, ma messi in dialogo. Pane, fichi, datteri, legumi, uova, olive, miele, pesci, formaggi, frutti di mare. I resti carbonizzati, custoditi per due millenni dalla furia del Vesuvio, tornano oggi a dirci non solo cosa si mangiava, ma come si pensava attraverso il cibo. L’attenzione alla qualità della materia prima, spesso proveniente da remote province dell’Impero (grano egiziano, spezie indiane, garum ispanico), rivela una cultura culinaria profondamente globalizzata, seppure sorretta da un gusto identitario e rituale. Si mangiava con intelligenza, e si cucinava con rispetto: verso gli dei, verso gli ospiti, verso il tempo. L’alimentazione romana, lo dimostra chiaramente questa mostra, era una sofisticata architettura sociale. La mensa non era solo luogo di nutrimento, ma teatro della conversatio, palcoscenico della gerarchia, veicolo di relazioni. L’aristocrazia si distingueva per le raffinatezze del triclinio, mentre le classi subalterne mangiavano nei popinae, taverne affollate e fragranti, i cui banchi marmorei e pentole annerite riemergono ora come reliquie della vita minuta. Non meno affascinanti sono gli strumenti: pentole di bronzo, coltelli di ferro, paioli, grattugie, mestoli, colini e formelle per modellare i pani. Oggetti che ci parlano di mani, di gesti, di sapere tacito tramandato tra generazioni. Ogni coccio, ogni mestolo, ogni cucchiaio in osso o bronzo è testimonianza della sapienza domestica, un sapere tecnico e poetico insieme. Il cibo si tagliava, si bolliva, si frigeva, si tritava, si pestava nel mortarium con pazienza; le spezie si dosavano con cura, perché anche l’equilibrio dei sapori era, per i Romani, un modo di imitare l’armonia del cosmo. Il garum, la famosa salsa di pesce fermentato, simbolo della cucina imperiale, dice molto della capacità romana di trasformare l’umile in eccelso. Così come i dolci, preparati con fichi secchi, miele e ricotta, anticipano quella raffinatezza che oggi consideriamo nostra, ma che ha lì la sua radice. Il piacere della gola non era un vizio, bensì un esercizio spirituale, una misura di virtù. Ne parla Seneca, che ammonisce contro gli eccessi, ma riconosce la dignità del cibo sobrio; ne parla Apicio, il gastronomo imperiale, che raccolse le sue De re coquinaria come un trattato scientifico della cucina. Ecco allora che la mostra non è solo narrazione visiva, ma anche proposta etica. In un tempo in cui la filiera alimentare è dominata dalla logica industriale, Dall’uovo alle mele ci chiede di riflettere. Se nel 79 d.C. si moriva, ma si cucinava con rispetto, oggi che viviamo più a lungo siamo forse più lontani dal cibo che ci nutre davvero. L’alimentazione, oggi come allora, è gesto culturale e responsabilità politica: nel piatto che scegliamo, nella spesa che facciamo, nella convivialità che sappiamo costruire. Come ben ricorda il direttore del Parco Francesco Sirano, questa mostra completa un trittico: dagli ori del lusso a Ercolano, ai legni della Reggia di Portici, fino a questo menu dell’identità. L’idea che i reperti siano ambasciatori di senso in luoghi diversi dal Parco è non solo intelligente, ma necessaria. L’archeologia non deve essere custodita, ma distribuita, condivisa, fatta vivere. In conclusione, Dall’uovo alle mele è una mostra che si gusta come un banchetto romano: in cui ogni portata è un frammento di civiltà, ogni utensile un’eco di gesti antichi, ogni spazio della Villa Campolieto un invito alla memoria attiva. Non celebra soltanto ciò che è stato, ma ciò che può ancora essere. Perché ogni cultura che si rispetti comincia — e finisce — a tavola.

Categorie: Musica corale

Città del Vaticano, Cappella Sistina-Palazzo Apostolico: “Palestrina 500”

gbopera - Sab, 29/03/2025 - 11:02

Cappella Sistina-Palazzo Apostolico, Città del Vaticano
PALESTRINA 500: Concerto per il 500° anniversario della nascita di Giovanni Pierluigi da Palestrina
Musiche di Giovanni Pierluigi da Palestrina e
Variazioni Organistiche del m Theo Flury
Surge, Petre a 5 voci
(Quarto libro dei mottetti, 1584)
Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Benedictus e Agnus Dei dalla Missa Papae Marcelli a sei voci
(Secondo libro delle messe, 1567)
Tu es Petrus- I e II parte a 6 voci
(Secondo libro dei Mottetti, 1572)
Cappella Musicale Pontificia “Sistina”
Maestro dei Pueri Cantores: MICHELE MARINELLI
Maestro Direttore: MARCOS PAVAN
Pontificio Istituto di Musica Sacra
Maestro p THEO FLURY OSB, Professore Ordinario di Organo ed Improvvisazione Organistica 
Città del Vaticano, 28 marzo 2025
In collaborazione con la Cappella Musicale Pontificia “Sistina” e con la Biblioteca Apostolica Vaticana, il Pontificio Istituto di Musica Sacra ha celebrato il cinquecentesimo anniversario della nascita di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594) attraverso una serie di iniziative. Evento culminante di queste manifestazioni tra le quali si annoverano concerti, masterclass, un concorso di composizione ed un convegno scientifico è stato il concerto tenutosi ieri sera nella cappella Sistina, luogo fondamentale per la cristianità e centro musicale della Chiesa per secoli, nel quale e per il quale le note di Palestrina furono concepite. In particolare l’attività di quello che può a ragione essere considerato uno dei più grandi compositori del Rinascimento è stata strettamente associata alla produzione ed alla esecuzione liturgica della musica nella Cappella Sistina. Le sue composizioni hanno infatti rispecchiato un ideale di perfezione musicale che ben rispondeva alle richieste della Chiesa di un’espressione musicale sacra più austera e spirituale in linea con le indicazioni per le riforme liturgiche del Concilio di Trento (1545-1563) soprattutto per quanto riguardava l’intelligibilità dei testi e l’essenzialità delle linee vocali. L’esecuzione di questa preziosa ed emozionante serata è stata affidata al coro della Cappella Sistina diretto dal maestro Marcos Pavan, istituzione attualmente responsabile del servizio musicale nelle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, le cui origini risalgono alla Schola Cantorum Romana fin dal VII secolo. Morbido, rotondo ed omogeneo è stato il suono trovato dal Coro e chiarissimo il dipanarsi delle varie linee vocali nell’illustrare i testi della Missa Papae Marcelli e dei brani tratti dai Mottetti. Ugualmente raffinate ed in sintonia con le intenzioni compositive palestriniane e potremmo dire speculari alle linee dello spazio architettonico della Sistina sono risultate le Variazioni organistiche del maestro Theo Flury al quale fra l’altro si deve l’inaugurazione nel 2002 dell’organo attualmente in uso in Sistina. Le diverse progressioni ed i diversi temi infatti sembravano riflettere le linee architettoniche della cappella nella loro essenzialità ma anche illuminate dalla brillantezza dei colori delle pitture. Alla fine, dopo aver ascoltato questa splendida musica in assoluto e concentrato silenzio in una sorta di collettiva preghiera, il pubblico intervenuto ha tributato un lungo e sentito applauso agli interpreti di questa magnifica serata. 

Categorie: Musica corale

Bayerische Staatsoper: “Der Fliegende Holländer”

gbopera - Sab, 29/03/2025 - 08:35
Bayerische Staatsoper München, Stagione 2024-2025 “DER FLIEGENDE HOLLÄNDER”
Opera romantica in tre atti
Libretto e Musica di Richard Wagner Daland FRANZ-JOSEF SELIG Senta CAMILLA NYLUND
Erik BENJAMIN BRUNS
Mary NATALIE LEWIS
Der Steuermann Dalands TANSEL AKZEYBEK
Der Holländer NICHOLAS BROWNLEE
Bayerische Staatsorchester & Coro Extrachor derBayerischen Staatsoper Direttore Patrick Lange Maestro del Coro Christoph Heil Regia Peter Konwitschny Scene e Costumi Johannes Leiacker Luci Michael Bauer Drammaturgia Werner Hintze Produzione della Bayerische Staatsoper  München, 25 marzo 2025
La messinscena del Fliegende Holländer realizzata nel 2006 da Peter Konwitschny è diventata nel corso degli anni una vera e propria icona della Bayerische Staatsoper, viene riproposta quasi ogni stagione e il pubblico accorre sempre numerosissimo ad assistervi. Si tratta di uno tra i migliori spettacoli wagneriani allestiti dal regista sassone, ancora oggi notevole per la realizzazione visiva che unisce elementi classici e moderni per raccontare la trama in maniera efficace e convincente. Del resto il regista, una delle icone del mondo teatrale tedesco, figlio del leggendario direttore d’ orchestra Franz Konwitschny, è tra i pochi nel suo campo a conoscere bene la musica anche a livello tecnico e i suoi spettacoli, anche quelli che forzano la drammaturgia in modo pesante, non vanno mai contro le ragioni musicali della partitura. Come nella sua messinscena della Götterdämmerung realizzata per la Staatsoper Stuttgart, anche in questo caso l’ ambientazione del primo atto ideata da Konwitschny è di stile assolutamente tradizionale anche se i marinai del vascello fantasma vestono abiti seicenteschi, in contrasto con l’ abbigliamento moderno degli olandesi. Una figura angelica femminile vestita di bianco appare durante il monologo di entrata dell’ Holländer, per simboleggiare il suo desiderio inappagato di redenzione. Nel secondo atto assistiamo a uno spettacolare cambio di atmosfera e la Spinnstube diventa una palestra in cui le ragazze pedalano su numerose cyclettes mentre Senta rimane in disparte tenendo in mano il ritratto dell’ Holländer, che successivamente viene distrutto da Erik in un accesso di gelosia. Lo sviluppo del racconto evidenzia progressivamente il carattere ribelle di Senta, che vuole accettare il matrimonio con lo sconosciuto presentatole dal padre per sottrarsi a un ambiente oppressivo. Nel terzo atto la protagonista, disperata perché sta vedendo svanire il suo sogno di emancipazione in quanto l’ Holländer rifiuta le nozze, scaglia una torcia contro un barile provocando un’ esplosione che uccide tutti, mentre la sala si oscura completamente e le ultime battute della musica, che sono quelle della versione originale del 1845, provengono da un nastro registrato. Riassumendo, una messinscena che dopo quasi vent’ anni non ha perduto nulla della sua carica teatrale e ancora oggi impressiona lo spettatore per la sua forza espressiva. Tra l’ altro va sottolineato come Konwitschny non costringa mai i cantanti a recitare assumendo posizioni innaturali, stesi per terra o contorcendosi in simulazioni sessuali di dubbio gusto, come tanti suoi colleghi odierni. Dopo tante decine di repliche, la messinscena scorre in modo perfettamente rodato anche nel caso di una distribuzione del cast totalmente rinnovata, come in questo caso. Per questa ripresa la Bayerische Staatsoper ha riunito alcuni tra i migliori cantanti wagneriani del momento sotto la direzione del quarantaquattrenne Patrick Lange, ex Generalmusikdirektor dello Staatstheater di Wiesbaden e ospite regolare nelle stagioni monacensi. La sua direzione era ricca di carica teatrale, impostata su ritmi sostenuti e intensa sottolineatura delle linee melodiche anche se a tratti si avvertiva un equillibrio lievemente imperfetto delle sezioni strumentali, con gli ottoni che sembravano soverchiare il resto dell’ orchestra. Per quanto riguarda il cast vocale, la miglior prova mi è sembrata quella di Nicholas Brownlee, trentacinquenne basso-baritono statunitense appartenente all’ ensemble dell’ Oper Frankfurt dove lo avevo ascoltato in pregevoli interpretazioni di Hans Sachs e Macbeth, che ritornava alla Bayerische Staatsoper dopo la sua ottima prova come Wotan in Das Rheingold dello scorso novembre. Brownlee ha debuttato la parte dell’ Holländer solo due anni fa alla Santa Fe Opera ma ha messo in mostra un fraseggio di grande intensità e maturità espressiva, raffigurando molto bene il carattere tormentato e cupo del protagonista. Il soprano finlandese Camilla Nylund ha dominato senza problemi la vocalità aspra e tesa di Senta anche se la sua pronuncia risulta sempre poco comprensibile. Professionalmente impeccabile era il Daland de sessantaduenne basso renano Franz-Josef Selig, dalla voce scura e imponente che conserva ancora autorevolezza timbrica a dispetto dell’ età avanzata del cantante. Il quarantacinquenne tenore tedesco Benjamin Bruns impersonava Erik con una voce abbastanza sonora e una buona sicurezza vocale. Adeguate erano anche le prestazioni di Natalie Lewis come Mary e Tansel Akzeybek nella parte dello Steuermann. Successo vivissimo e lunghi applausi da parte del pubblico di Monaco che, come disse una volta l’ ex Intendant Nikolaus Bachler, ha davvero Wagner nel DNA. Foto ©Geoffroy Schied
Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo Merulana: “Nelle tue mani: Gesto, Arte, Materia” mostra personale di Matteo Pugliese

gbopera - Sab, 29/03/2025 - 08:00

Roma, Palazzo Merulana
sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi 
gestito e valorizzato da CoopCulture
NELLE TUE MANI: GESTO, ARTE, MATERIA
mostra personale di Matteo Pugliese
Roma, 28 marzo 2025
Matteo Pugliese non inventa: dissotterra. Non costruisce visioni, ma interroga la materia, ne scava i silenzi, ne ascolta le resistenze. Nelle tue mani, la mostra che Palazzo Merulana dedica all’artista milanese dal 29 marzo al 6 luglio 2025, non è un’antologica come le altre, né si risolve in una semplice raccolta di opere: è un atto di fede nella scultura come linguaggio primo, come forma antica di teologia visiva. E non è un caso che la sede dell’esposizione, Palazzo Merulana, affacci proprio sulla via che unisce due basiliche giubilari, Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano. In questo tempo in cui tutto è effimero, fluido, senza peso, Pugliese restituisce alla forma la sua carne, e alla carne la sua sacralità. Il titolo della mostra, Nelle tue mani, non è un richiamo sentimentale ma una dichiarazione di poetica. È nelle mani che la vita prende forma. Mani che plasmano, che sostengono, che pregano, che tradiscono. Mani che parlano quando il corpo tace. L’opera che dà il titolo alla mostra – una grande installazione ispirata al Cenacolo di Leonardo – è di fatto una riscrittura radicale di uno dei fulcri iconografici della tradizione occidentale. Gli apostoli non sono rappresentati nei loro volti o nelle posture, ma unicamente attraverso le mani, scolpite in bronzo con tale tensione plastica da restituire l’intera gamma emotiva di quella frase che spezza la cena e la storia: “Uno di voi mi tradirà”. Cristo è al centro, le mani dei discepoli si alzano, si irrigidiscono, si contraggono. È un teatro muto, essenziale, e proprio per questo vertiginoso. Nessuna enfasi, nessun patetismo: solo il gesto, colto nel suo momento di massima verità. Pugliese non cerca la forma perfetta, né insegue l’armonia: egli dà corpo alla frattura. La sua scultura non è decorazione, ma incisione. Non è bellezza, ma urgenza. E proprio per questo trova il suo posto naturale in un museo che custodisce la collezione Cerasi, tra le opere di Donghi, Casorati, Cambellotti: una galleria di sguardi che, pur differenti, condividono con Pugliese la volontà di riportare l’uomo al centro, non come idolo, ma come enigma. Il percorso si articola in quattro sezioni, ciascuna delle quali affronta una delle polarità dell’umano: lotta, protezione, rinascita, origine. La prima, Extra Moenia, è forse la più drammatica. Le figure, spezzate, sembrano emergere da pareti di roccia. Non sono intere, non sono eroi classici: sono corpi feriti, corpi che si dibattono contro il limite, contro la superficie. L’umanità che qui ci viene mostrata è priva di trionfo, ma non di dignità. Opere come E.V.A, dedicata alla violenza sulle donne, mostrano quanto la scultura possa ancora essere un linguaggio politico senza diventare ideologico. Qui la materia non illustra: denuncia. Ma lo fa con il pudore della grande arte. La seconda sezione, I Custodi, è il contrappunto spirituale della prima. Qui le figure si ergono in piedi, verticali, ieratiche. Sono esseri senza tempo, presenze che sembrano emerse da un passato mitico, ma che ci guardano con occhi del presente. Pugliese scolpisce questi guardiani come fossero testimoni di un’umanità perduta. Il loro volto non racconta, ma custodisce. Non spiegano: proteggono. Sono statue che appartengono al territorio del sacro, ma senza riferimenti religiosi espliciti. È un sacro arcaico, tellurico, che ha la forza degli archetipi e la nudità delle cose autentiche. Con Scarabei si entra in un registro diverso, ma non meno profondo. Qui la forma si fa più minuta, più giocosa. Ma attenzione: sotto l’apparente leggerezza si nasconde un pensiero preciso. Lo scarabeo, simbolo egizio di rinascita, diventa per Pugliese metafora dell’adolescenza, dell’innocenza perduta, ma anche del ciclo naturale delle cose. Ogni pezzo è cesellato con un gusto entomologico che ricorda certe tavole scientifiche ottocentesche, ma il rigore del dettaglio non soffoca mai l’invenzione poetica. Anzi, la esalta. Ogni scarabeo porta con sé un oggetto simbolico: un cuore, un libro, una chiave. È un bestiario intimo, una forma di autoritratto frammentato, nascosto nei recessi dell’infanzia. Infine, la sezione Pachamama, dedicata alla Madre Terra, segna il ritorno alle origini. Qui il legno di noce – materiale vivo, venato, respirante – diventa il veicolo di un’energia primigenia. Le sculture evocano la fertilità, la ciclicità, la generazione. Ma non si tratta di un ritorno romantico alla natura: Pugliese restituisce alla madre il suo volto ambiguo, potente, talora spaventoso. La Terra non accoglie soltanto: impone. Nutrimento e legge, carezza e abisso. Anche in questo, l’artista dimostra di non cedere mai alla semplificazione. Il mito, per lui, non è rifugio ma campo di battaglia. Chiude il percorso – e lo sospende – l’opera A Matter of Trust, posta in dialogo con L’uomo che dirige le stelle di Jan Fabre. Due titani si fronteggiano: uno afferra l’universo, l’altro si abbandona al vuoto. L’uno è razionalità prometeica, l’altro è fede cieca. Ma il confronto non è un duello, è un’inquietudine. Il visitatore è chiamato a scegliere, o forse a non scegliere affatto. Perché il vero punto della mostra, in fondo, è questo: mostrarci che l’arte non consola, ma inquieta. Non rassicura, ma interroga. E quando lo fa con strumenti tanto antichi quanto veri – la forma, il corpo, la materia – allora riesce ancora a toccare il cuore del nostro tempo. Matteo Pugliese, in questo, è uno scultore fuori dal tempo. Non perché ignori il presente, ma perché lo attraversa senza farsene schiacciare. Le sue opere parlano all’uomo di oggi con il linguaggio dell’eternità: quello delle mani che tremano, dei corpi che resistono, delle forme che restano. E nel farlo, ci ricorda che, forse, è ancora possibile cercare nella bellezza una forma di verità. Non effimera, non retorica, ma essenziale. Come la creta che si lascia plasmare, solo per diventare altro. Solo per diventare, appunto, vita.

 

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