Roma, Parco Archeologico del Colosseo
Tempio di Venere e Roma
MATTIA BOSCO. KORAI
A cura di Daniele Fortuna
Promosso dal Parco archeologico del Colosseo, dalla Galleria d’arte Atipografia, diretta da Elena dal Molin, e da ArtVerona.
Nell’antica Roma, sorgeva il più imponente tempio della città, inaugurato nel 136 d.C. Questa struttura maestosa, rivestita di marmi rari provenienti da ogni angolo dell’Impero, ha subito un progressivo degrado nel corso dei secoli. Oggi, il Tempio di Venere e Roma ritrova nuova vita grazie a 12 sculture esclusive, frutto della creatività dell’artista contemporaneo Mattia Bosco. Queste opere sono state commissionate dal Parco Archeologico del Colosseo per l’iniziativa Level 0 di ArtVerona2021. Il progetto, intitolato “Kòrai”, vede i materiali marmorei, un tempo simbolo dell’architettura romana, rivivere tra le rovine. In sintonia con lo spirito del luogo, Bosco evoca la sensazione di un passato che risorge, di antichi abitanti che ritornano sotto nuove forme, rivelando di appartenere a quel luogo. Le varie tipologie di marmo – Cipollino, Portoro, rosso Collemandina, Paonazzo, Fiordipesco e bianco di Carrara – un tempo utilizzate per colonne, pavimenti e rivestimenti, tornano sotto forma di sculture, creando un ponte tra passato, presente e futuro. Il tempio, suddiviso in due spazi adiacenti dedicati alla dea Roma e a Venere, è parte integrante del progetto. Nove sculture a grandezza umana, intitolate Kòrai, si trovano nella cella di Roma, disposte in cerchio come danzatrici. L’artista immagina queste figure come vestali che celebrano il culto della materia, elemento fondamentale del mondo e di noi stessi. Nella cella di Venere, le due Sezioni Auree rappresentano il tempo allo stato solido, un libro le cui pagine sono fuse insieme. La scultura svela l’essenza segreta e luminosa della materia, offrendo a chi la osserva un accesso al regno dell’immaginazione. La superficie riflettente della pietra rivela la bellezza che scorre attraverso ogni elemento come un filo d’oro. Alfonsina Russo, direttore del Parco Archeologico del Colosseo, ha riconosciuto nel lavoro di Bosco un equilibrio tra natura e arte, un dialogo tra il passato archeologico e la creatività contemporanea. Questo dialogo è allineato con la vocazione e le attività del Parco. Level 0 è il format di ArtVerona 2021 che ha invitato musei e fondazioni private a promuovere un artista presente in fiera all’interno della loro futura programmazione. Mattia Bosco è stato presentato in fiera dalla galleria Atipografia, mentre il progetto Kòrai al Parco Archeologico del Colosseo è curato da Daniele Fortuna. Qui per tutte le informazioni.
Festa della danza 2023, Fonderia CCN Aterballetto, Reggio Emilia
“SHOOT ME”
Coreografia Diego Tortelli
Musica Spiritualized
Costumi Marco De Vincenzo
Luci Roman Fliegel
Danzatori CCN / Aterballetto
“AU FIL DES TORSIONS”
Concept / Performance Lise Pauton
Musica Christian Paboeuf
Luci Jean-luc Maurs
Costumi Emelie Dessieux
“SOAC”
Coreografia Federica Galimberti, Cristiano Buzzi
Musica dal vivo Giuseppe Franchelucci (violoncello)
Danzatori Simone Panzera, Giovanni Leonarduzzi
“LONTANO”
solo di e con Marica Marinoni
Musica Estelle Lembert
Luci Jeremie Cusenier
Costumi Gwladys Duthil
“ISTANTE”
Solo di e con Juan Ignacio Tula
Musica Gildas Celeste
Luci Jeremie Cusenier
Costumi Sigolene Petey
Reggio Emilia, 16 e 17 settembre 2023
Anche quest’anno la Fonderia, sede della Fondazione Nazionale Danza / Aterballetto, si conferma luogo di confluenza-fusione-incontro dell’arte della danza e i suoi fedelissimi amanti. Un posto in cui si manifesta la magia, grazie al crogiolo di emozioni che scaturiscono dagli spettacoli di talentuosi coreografi. Shoot me di Diego Tortelli, sulle musiche degli Spiritualized e la voce narrante di Jim Morrison è un vero e proprio inno al corpo libero, libero di manifestare la propria indipendenza e unicità, pur rimanendo in un gruppo affiatato e ben orchestrato, per questo eterogeneo. Coreografie duetto che si innestano dando luogo a movimenti all’unisono in un pot-pourri di colori pastello e suadenti movenze. Tortelli si conferma essere quell’entità capace di trasmettere emozioni proprio perché le sa gestire. Shoot Me è un divertissement di gesti associati allo sguardo, e viceversa; un offrirsi senza riserve, senza freni inibitori perché esempio di commistioni in bilico tra sentimento e ragione. Dopotutto questo è reso possibile perché il Centro Coreografico Nazionale / Aterballetto offre la possibilità ai coreografi di potere avvalersi di giovani promesse della danza, per sperimentare mettendo in scena nuovi linguaggi tra teatro, musica dal vivo e light design. Ma la cultura dell’arte della danza sa coinvolgere anche interpreti diversamente abili e “over 65”. E questo valore di assoluto pregio, in occasione del Festival Aperto 2023, lo si vedrà il 4 novembre prossimo al Valli di Reggio Emilia, grazie a un duo coreografico (Over Dance) di Ouramdane e Preljocaj, in cui balleranno persone anziane (65-79 anni). E non puoi rimanere indifferente a tanta grazia quando davanti ai tuoi occhi c’è Lise Pauton. In Au fil des torsions, la contorsionista ed equilibrista francese, diplomata in Arte del Circo all’accademia di Chatellerault, dà letteralmente corpo alla poesia, perché se quest’ultima è formata da parole, lei ne rappresenta il senso figurato. Sotto un riflettore verticale a occhio di bue, non ci sono ombre che ne suggeriscano il peso. Lise si contorce in posizioni che potremmo definire composizioni che hanno, ora una parvenza di animale, ora di vegetale. Il pubblico siede per terra alla sua altezza, c’è un silenzio tombale, e sarà la musica così lieve e malinconica insieme alla luce così impietosa e chiara che si sta a bocca aperta per quel controllo così assoluto e allo stesso tempo possente che questa professionista circense ha del suo corpo. Uno spettacolo molto raro a vedersi da così vicino; né una smorfia o un segno di fatica nel suo viso. Nessuna incertezza o tremore. Magnifica. Poi il pubblico si sposta in un’altra sala e scarica la fatica di questa torsione con la danza hip hop di Soac. Accompagnati dal vivo da un violoncello che fa da contraltare ad un substrato sonoro tecno ambient, due danzatori si esibiscono in slanci di assoli in cui il loro corpo volteggia piroettando sottosopra. E la lunga serata si conclude come ipnotizzati dalle luci strobo e dagli infiniti giri su se stessi come dervisci di Juan Ignacio Tula e Marica Marinoni. In Lontano la Marinoni veste i panni di una pugilessa che in tenuta ginnica e guantoni lotta a lungo e vince contro un avversario piuttosto coriaceo, quanto imprevedibile: il suo corpo. La ruota metallica Cyr, dispositivo acrobatico già conosciuto nell’ambiente circense dal XIX secolo, non è che il pretesto, una sineddoche del corpo umano. Bravissima per la resistenza fisica, quanto fortunata nel considerarsi alla fine vincente nell’atavica sfida tra l’uomo e il divino; tra quell’uomo vitruviano iscritto tra cielo e terra, all’alba del mito. Juan Ignacio Tula, già noto agli affezionati della FND, si ripropone in Istante (creato per il Festival UtoPistes di Lyon e qui offerto da Dinamico Festival), uno spettacolo che somiglia ad una pellicola che scorre nell’occhio di un proiettore. I lampi di luce rasente della ruota Cyr, di cui è maestro, impressionano la retina e si è rapiti. Questa gli scorre sul collo, sui fianchi, sulla schiena e poi di nuovo, come la vita che ci gira attorno, ed entro la quale (il cerchio) ha un proprio posto la quotidianità, propriamente detta routine. Di questo giovane artista argentino, stabile a Parigi, non si può non ammirare la bravura e la creatività e, aggiungiamo noi, la generosità. Il suo Solo coreografico è tutto movimento ossessivo e vorticoso ripetuto allo sfinimento, e allo stesso tempo angosciante come un urlo munchiano. Lunghissimi applausi.
Torino, Auditorio del Lingotto, MITO 2023
“TRA GRANADA, MADRID E ARANJUEZ”
Orchestra Sinfonica di Milano
Direttore Josep Vicent
Chitarra Pablo Sainz-Villegas
Manuel de Falla: Danza da “La vida breve”; Joaquin Rodrigo: Concerto di Aranjuez; Nikolaj Rimskij-Korsakov: “Capriccio spagnolo”; Manuel de Falla: “El sombrero de tres picos” (selezione di Josep Vicent)
Torino, 17 settembre 2023
A metà di MITO 2023 ci si può concedere una tappa di tutta evasione e compiacersene. Al Lingotto, nella serata del 17 settembre, ci stiamo come quei turisti che hanno scoperto la Spagna in una vacanza estiva degli anni 70, accolti da ritmi e melodie sincopate, arricchite da glissandi, portamenti e tintinnii di castagnette che profumano di gitano e di Albaicin. C’è l’assolato sud della Vida Breve, con la sua brillante musica di danza. Si passa poi alle molli e fascinose melodie del secondo movimento del Concerto di Aranjuez che succedono a un primo tempo tutto fanfare e tamburi. Il terzo movimento dà uno sguardo, a ritroso, all’introduzione al quart’atto di Carmen. Assai simile la brillante atmosfera che precedono l’accattivante melodia, sostenuta dalla chitarra prestigiosa di Pablo Sainz-Villegas e dal corno inglese, che trasforma il tutto in un’allegra e giocosa ronda. Il concerto di Joaquim Rodrigo, del 1939, suonò troppo distante dalle avanguardie di quegli anni, venne quindi giudicato con eccessiva diffidenza e sospetto dal mondo musicale contemporaneo che lo accusò di sentimentalismo smodato, come fosse un raccoglitore di sprovveduti favori popolari. Non se ne trova quasi traccia nei libri e nei rapporti della critica musicale, gli stessi foglietti di sala lo snobbano dandone scarsissimo rilievo e nessuna analisi approfondita. È stato tenuto in vita e in repertorio dai grandi virtuosi di chitarra classica che ne hanno graziato l’indubbio semplicismo con uno sfavillante gioco dello strumento. Il pezzo è di grande piacevolezza, il pubblico lo ama e, senza pregiudizi e riserve, l’applaude sempre con calore. Così è avvenuto anche al Lingotto. Pablo Sainz-Villegas, di conseguenza, ha concesso uno scatenato bis. Il chitarrista, nativo della Rioja, regione del Nord della Spagna, ha interpretato una sua rielaborazione di una Jota che ha presentato son sue parole di presentazione, per far festa si suona, si canta e si balla. Tutte le magie del tocar di chitarra sono state dispiegate e il successo, con scroscianti applausi. Da questa parentesi festosa si è passati al Capriccio Spagnolo di Rimskij-Korsakov. L’orchestra Sinfonica di Milano è straordinaria sia per l’insieme che per gli interventi solistici delle prime parti, vedi come esempio quelli ammiratissimi del primo corno e del corno inglese. Purtroppo, la Spagna trasportata da Rimskij in Russia si appesantisce e, a tratti, si colora di icone e di cori monacali. L’orchestra fa del suo meglio ma quando il problema sta all’origine non è sempre possibile emendarlo. Il direttore Josep Vincent, dal gesto chiaro e sicuro, ha ben saputo regolare colori e sfumature che riducessero al minimo gli effetti dell’ineludibile russicità di fondo. Falla, andaluso di Cadice, a Parigi negli anni ’20 per assorbirne le forti influenze culturali, venne avvicinato e poi ingaggiato da Diaghilev per comporre le musiche di un balletto per la stagione dei Ballets Russes. Il Sombrero de tres picos tratta del solito ricco vecchietto, da opera buffa, che concupisce una povera ma scaltrissima mugnaia, che alla fine, burlandolo, lo scarica esponendolo al ridicolo generale. La musica è costruita con una serie di danze, prevalentemente andaluse, che anche nella denominazione riportano alla tradizione e al folclore locale. Dal balletto, per esecuzioni concertistiche, furono tratte, da Falla stesso, due suite di danze. Il direttore Josep Vicent ne ha presentato, per questi concerti di MITO, una terza che pesca da ambedue le precedenti; dopo una vivace introduzione, la mugnaia danza un fandango, seguita dalle danze del corregidor e del mugnaio. La suite si chiude poi con una jota, danza diffusa e variamente ornata e ballata in tutta la penisola, quasi un emblema nazionale. Musica intrigante, esecuzione brillantissima per timbri e vivacità di ritmi. L’Orchestra si diverte e il foltissimo pubblico che occupa l’auditorio Giovanni Agnelli del Lingotto si unisce alla festa. È inevitabile sottolineare come a tutte le manifestazioni di MITO 2023, a cui personalmente abbiamo partecipato, in difformità con quel che accade nelle serate dei concerti di stagione, fortunatamente sia intervenuto un foltissimo pubblico, anche di giovani. L’entusiasmo e gli applausi che hanno accolto le suite di Falla, coinvolgendo, con grande opportunità e merito, l’Orchestra sinfonica di Milano col direttore Josep Vincent ci hanno fornito l’occasione di ascoltare, come fuori programma, suonato da par loro, Oblivion: il notissimo melanconico e struggente tango di Astor Piazzolla.
Roma, Teatro Vittoria Stagione 2023/2024
Piazza di S Maria Liberatrice, 10
00153 Roma RM
RISATE DI GIOIA Storie di gente di teatro
Ispirato alle opere Il teatro all’antica italiana di Sergio Tofano
Antologia del grande attore di Vito Pandolfi e Follie del varietà a cura di Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè
da un’idea di Elena Bucci
drammaturgia, scene, costumi, interpretazione e regia di Elena Bucci e Marco Sgrosso
Roma, 19 Settembre 2023
“Dal cielo venni, la terra visitai, era talmente bella e quindi vi restai.” (Elio Pandolfi)
Il teatro è un mondo affascinante che ha visto passare numerosi artisti, ognuno con la sua unica esperienza sul palcoscenico. Elena Bucci e Marco Sgrosso ci conducono in questo mondo attraverso un piccolo gioiello teatrale intitolato “Le Risate di Gioia”. Questo spettacolo è un prezioso sunto della storia del teatro e dell’arte attoriale, che ci invita a riflettere sul senso dell’arte e sul mestiere dell’attore. Nel corso di una vita trascorsa nell’anonimato, Gioia detta Tortorella ed Umberto detto Infortunio, due artisti di seconda o terza fila, rimangono chiusi all’interno di un teatro durante la notte di Capodanno. Mentre fuori imperversano botti e festeggiamenti, essi assistono alla sognante processione di alcuni spiriti del passato. Queste luminose ombre, che fanno capolino nel buio di una sala impolverata e deserta, includono grandi nomi come Giovanni Emmanuel, Gustavo Modena, Giacinta Pezzana, Antonio Petito, Maria Melato, i fratelli De Rege e persino Renato Rascel, Anna Magnani e Totò. Le apparizioni di questi grandi artisti coincidono con siparietti e monologhi che ci offrono riflessioni e provocazioni sul mondo del teatro. Le parole pronunciate diventano pretesti per sollevare questioni sulla professione artistica e criticare un sistema che spesso non riconosce l’importanza del ruolo dell’artista e delle figure che gli sono vicine, come suggeritori, tappabuchi e portaceste. Nonostante la trama non brilli per originalità, l’architettura della sceneggiatura riesce a sorprendere, costituendo un valido supporto alle prestazioni notevoli degli attori. Le interpretazioni, infatti, emergono con una forza che trascende l’apparente banalità del plot, creando un’atmosfera coinvolgente e affascinante. La sobrietà scenica, quasi un non luogo, scompare dietro l’uso magistrale delle luci. Queste ultime, infatti, costruiscono un ambiente di intimità e profondità, perfettamente sintonizzato con i dialoghi. Il loro utilizzo non è casuale, ma studiato per amplificare le emozioni, trasformando il palcoscenico in un luogo dove la parola prende corpo e volume. La sceneggiatura, pur muovendosi su un terreno poco innovativo ed in alcuni momenti eccessivamente ridondante dunque, riesce a sorprendere e a mantenere alta l’attenzione dello spettatore, grazie al talento degli artisti. I due protagonisti infatti con straordinaria versatilità, danno vita a situazioni che spaziano nel tempo. Attraverso la loro interpretazione, ci immergono in un mondo immaginario che ci spinge a interrogarci sul senso del fare teatro, sul ruolo dell’artista e sull’urgenza di vestire maschere. “Le Risate di Gioia” è uno spettacolo che enfatizza con fervore il ruolo vitale svolto dagli artisti di secondo e terzo piano nel contesto teatrale. Nonostante non siano costantemente al centro dell’attenzione, questi talenti sono imprescindibili per il trionfo delle produzioni di grande scala, tessendo con maestria il complicato reticolo che sta dietro ogni rappresentazione. Lo spettacolo ci rivela inoltre come il palcoscenico possa agire da riflesso della nostra società, mettendo in evidenza le sue incongruenze, le intricate relazioni e le inevitabili disuguaglianze che spesso si generano e la caratterizzano. Le figure chiave e le narrazioni che vivacizzano la scena teatrale diventano però anche un punto di riferimento per l’esame di questioni che si intrecciano con la nostra esistenza quotidiana. Esse stimolano una riflessione sulla fragilità del successo mediatico e sulla genuinità dell’arte. Il teatro, in passato, ha fornito un terreno fertile per gli eroi che hanno visto in quest’arte il luogo ideale per esercitare il loro impegno politico. Allo stesso modo, il palcoscenico è diventato una decisione di vita sociale impegnativa, spesso contrassegnata da sacrifici di grande entità. Nell’incessante gioco di contrasti tra passato e presente, il teatro si erge come un palcoscenico di luci e ombre, dove l’eco delle ovazioni si mescola al silenzio dei sacrifici nascosti. In quest’epoca in cui il successo è spesso misurato in termini di ‘like’ e visualizzazioni, l’appello finale è un invito a oltrepassare l’abbagliante superficie delle luci della ribalta. Per esaminare a fondo la scena, bisogna guardare oltre la brillantezza superficiale del successo, per riconoscere l’autentico valore del teatro e dell’arte. Questi non si misurano solamente nei plausi o nella visibilità, ma anche nel modo in cui riescono a dialogare con le nostre vite, a interrogarci, a farci riflettere sui grandi temi dell’esistenza. È necessario riconoscere l’importanza di ogni manifestazione artistica, celebrare la sua intrinseca bellezza e il suo potere di veicolare messaggi profondi. Il pubblico del Teatro Vittoria ha esibito un omaggio discreto ma caloroso alla competenza di tutti gli attori e del personale partecipante, esprimendo il loro apprezzamento attraverso un applauso profondo e autentico.
Verona, Teatro Filarmonico, Il Settembre dell’Accademia 2023
“FRAU MUSIKA” – Antonio Vivaldi maestro del colore veneziano
Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza
Direttore Andrea Marcon
Antonio Vivaldi: Concerto in sol minore RV 577 “Per l’orchestra di Dresda”; Concerto in fa maggiore RV 538; Concerto in sol minore RV 439 “La notte”; Concerto in sol minore RV 531; Concerto in do maggiore RV 443; Concerto in fa maggiore RV 569; Concerto in si minore op. 3 n. 10 RV 580; Concerto in sol minore RV 576 per l’orchestra di Dresda”
Verona, 15 settembre 2023
Nel secondo appuntamento del Festival Internazionale settembrino, le note di Antonio Vivaldi e del suo corpus di concerti hanno trovato degna collocazione in quel Teatro Filarmonico che proprio con un’opera del veneziano, “La fida ninfa” (su libretto del marchese Scipione Maffei) inaugurò la sua attività la sera del 6 gennaio 1732. A rendere ancora più speciale questo appuntamento vi era l’orchestra Frau Musika, una formazione giovanile di talentuosi strumentisti nata da un progetto artistico e formativo ideato da Andrea Marcon e sostenuto dall’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza con il sostegno finanziario della Fondazione Cariverona. L’orchestra, che suona su strumenti originali, prepara i propri concerti attraverso gruppi di lavoro con docenti qualificati, immersi in un ambiente totalmente dedicato alla musica dove oltre all’attività strumentale hanno anche la possibilità di condividere tutti i momenti della giornata creando quelle affinità relazionali utili al raggiungimento di un’identità orchestrale. Il risultato si è potuto vedere e soprattutto ascoltare: una bella sonorità nell’insieme, accanto ad altre qualità peculiari come la perfetta intesa tra le sezioni degli archi, l’equilibrio con i fiati e soprattutto il basso continuo mai invasivo, realizzato da due clavicembali ed un’organo positivo. In circa due ore di musica si sono potute ascoltare alcune soluzioni timbriche scelte da Vivaldi per gli organici di cui poteva disporre o frutto della richiesta di committenti anche stranieri. Accanto alla formazione base di soli archi, impegnata nel concerto per due violoncelli RV 531 e in quello per 4 violini op. 3 n. 10 abbiamo potuto udire la piena e calda sonorità dei due corni (eccellenti i giovanissimi esecutori nel padroneggiare uno strumento così complesso e privo di pistoni), il timbro pungente e penetrante del flauto dolce sopranino, del flauto traverso e degli oboi. Tessere le lodi di ogni singolo strumentista richiederebbe molto spazio che non abbiamo, tuttavia va sottolineata la disinvoltura con cui l’orchestra passa da pochi elementi al gruppo nutrito, con i fiati, del concerto RV 569 e dei due concerti RV 576 e RV 577 scritti per l’Orchestra di Dresda. Andrea Marcon, fondatore e direttore del gruppo, conduce la musica come la maggior parte dei musicisti dediti a questo repertorio: sicuro del proprio lavoro preliminare di studio si limita ad imprimere la sua energia comunicativa con pochi ma efficaci sguardi, qualche movimento del braccio e partecipando spesso alla realizzazione del continuo al clavicembalo con l’entusiasmo di chi crede nel proprio lavoro, soprattutto con musicisti delle ultime generazioni. Va sottolineato infatti che questa non solo è un’orchestra formata da giovani ma essa stessa è giovane essendo nata da un progetto di circa due anni fa, con una sostanziale parità di genere tra gli iscritti selezionati a livello internazionale. Una bella serata, dunque, apprezzata ed ampiamente applaudita da un pubblico ancora una volta numeroso, anche se questo festival ha sempre registrato presenze massicce; è bello inoltre vedere, accanto a signori incravattati e signore in décolleté, anche molti bambini e ragazzi approcciarsi alla grande musica. E chissà che vedere degli artisti un po’ più grandi non possa instillare loro il desiderio di cimentarsi nello studio di uno strumento o quantomeno imparare ad amare quanto il nostro glorioso passato ci consegna. Foto Brenzoni
Grand-opéra in cinque atti su libretto di Giacomo Meyerbeer, Eugène Scribe e Germain Delavigne. John Osborn (Robert), Nicolas Courjal (Bertram), Amina Edris (Alice), Erin Morley (Isabelle), Nico Darmanin (Raimbaut), Joel Allison (Alberti, Un Prêtre), Paco Garcia (Un Héraut d’armes), Marjolaine Horreaux (Première Choryphée), Lena Orye (Deuxième Choryphée), Olivier Bekretaoui (Chevalier), Luc Seignette (Chevalier, Troisième Joueur), Jean-Philippe Fourcade (Chevalier, Premier Joueur), Simon Solas (Chevalier, Deuxième Joueur). Orchestra National Bordeaux Aquitaine, Choeur de l’Opéra National de Bordeaux, Salvatore Caputo (maestro del coro), Marc Minkowski (direttore). Registrazione: Auditorium de l’Opéra National de Bordeaux, 20-27 settembre 2021. 3 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane BZ 1049.
“Robert le diable” opera mitica e pur quasi dimenticata, titolo seminale di tutto il melodramma – non solo francese – dagli anni 30 del XIX secolo eppure oggi praticamente scomparso dai palcoscenici. Riflettere oggi sul primo dei grand-opéra di Meyerbeer è farlo su tutta la cultura musicale dal Secondo Ottocento e non solo e la nuova registrazione della Fondazione Palazzetto Bru Zane che dell’opera propone una versione quasi integrale – di certo la più completa oggi a disposizione mancando solo alcune sezioni di recitativo e alcune riprese – offre l’occasione di tornare a ragionare su questo titolo.
Accolta trionfalmente nel 1831 l’opera ha rappresentato un modello e un termine di confronto imprescindibile per generazioni di musicisti. Da un lato a fissato uno schema formale – ambientazione storica, cinque atti, ballabili inseriti narrativamente nella trama, uso dei cori e dei personaggi di contorno per creare un colore ambientale ben definito – che avrebbe monopolizzato il principale palcoscenico parigino per decenni dall’altra si è imposta con tale forza da rappresentare un confronto imprescindibile per tutti i compositori successivi per imitazione o per opposizione.
Il successo della prima – e non solo se si considera che l’opera fu tra le più rappresentate al mondo almeno fino al 1870 – fu dovuto sicuramente alla qualità della scrittura di Meyerbeer che qui raggiunge livelli di assoluta perfezione formale mostrando un linguaggio cosmopolita in cui un senso melodico di pretta matrice italiana si unisce al valore prosodico del canto francese e a una ricchezza orchestrale di stampo germanico ma anche alla sontuosità dello spettacolo in cui musica, scenografia, danza – i celebri balletti coreografati da Taglioni – e uso di tecnologie all’epoca all’avanguardia come l’illuminazione a petrolio garantirono una sorta di prodromo all’idea di opera d’arte totale che si svilupperà nella seconda metà del secolo.
Il calo della fortuna di quest’opera – come in genere della produzione di Meyerbeer – è in gran parte da attribuire a questioni che prescindono la qualità musicale. Nella sua posizione di autentico dittatore della vita musicale parigina il compositore si era attirato molte inimicizie che alla sua morte – avvenuta nel 1864 – esplosero con violenza. Ancora più importante fu il mutare del contesto storico. Ebreo e di origine tedesca Meyerbeer incarnava il nemico pubblico ideale in un paese che dopo Sedan al tradizionale antisemitismo si fondeva un sentimento antitedesco che faceva di ogni ebreo un possibile traditore al servizio del Kaiser, non il clima migliore per apprezzare la musica di Meyerbeer il cui stesso cosmopolitismo formale veniva guardato con sospetto dal crescente nazionalismo.
Lasciati alle spalle gli accidenti della storia possiamo concentrarci sul solo dato musicale. Registrata dal vivo a Bordeaux con ottimo suono la registrazione consente di farsi un’idea quanto mai precisa delle qualità musicali del titolo.
Merito principale della riuscita spetta alla direzione di Marc Minkowski. Maestro di solido formazione filologica passato al repertorio ottocentesco dopo una lunga frequentazione di quello antico e barocco porta anche qui tutta l’esperienza maturata. L’orchestra utilizzata è moderna ma si nota una ricerca di sonorità, di colori e di tinte che sono quelli dell’epoca. Una direzione che rinuncia ai tratti muscolari che spesso hanno caratterizzato le riprese delle opere di Meyerbeer per ricondurci a un universo musicale in cui ancora assolutamente vitale è la tradizione tardo classica in cui la lezione del Rossini serio si arricchisce dei nuovi sentori romantici. La ritmica brillante e sostenuta, i colori tersi e luminosi, la leggerezza di fondo che si ritrova anche nei momenti più intensi rievocano al meglio la cifra stilistica più autentica di questo repertorio. Particolarmente efficacie il gioco cromatico tra cielo e terra, tra redenzione e dannazione che attraversa tutta l’opera è che Minkowski realizza con ammirevole delicatezza di tocco.
La direzione ovviamente non basta in un’opera come questa dove le voci sono autentiche protagoniste e il cast messo insieme per l’occasione è quanto di meglio si possa oggi desiderare. John Osborn affronta un ruolo “mitico” del tenorismo ottocentesco con la sicurezza e il senso stilistico che solo lui oggi sembra possedere. La parte di Robert è una sorta di spartiacque nella storia della vocalità tenorile a cavallo tra una matrice ancora rossiniana e l’impellenza dell’espressività romantica che si traduce in una scrittura vocale ibrida dove il canto misto alla Rubini si fonde con le nuove esigenze di un canto di forza. Osborn possiede queste caratteristiche:squillo eroico, accento epicheggiante ma sempre con un perfetto controllo dell’emissione che gli permette squarci di sublime dolcezza quando richiesto.
Ottima prova anche per Erin Morley (Isabelle). Soprano leggero dalla voce agilissima ma non esangue, dal timbro bello e morbido e dalla tecnica esemplare che le permette di far sembrare naturali e facili i più impervi passaggi di coloratura. Acuti e sopracuti sono facilissimi così come impeccabile è il controllo del fiato. Il suo è un canto sempre espressivo che non risulta mai meccanico neppure nei passaggi più estremi. Timbricamente la sua voce è quella di Osborn si fondono alla perfezione creando momenti di autentica magia come nel grande duetto del IV atto.
Autentica rivelazione Amina Edris come Alice. La voce è forse un po’ chiara ma il volume è significativo e l’intera – scomoda – tessitura è dominata con naturalezza. Nonostante una pronuncia francese un po’ costruita l’interprete è convinta e appassionata costruendo un personaggio di forte spicco. Nicolas Courjal è un ottimo Bertand. Voce non enorme ma sicura e omogenea e caratterizzata da una linea raffinata senza cadute di stile e da un accento curato e partecipe capace di dare al diavolo un ritratto più ricco e sofferto. Nico Darmanin è un valido Raimbaut dal timbro piacevole e dalla linea sicura. Ottima la prova del coro notevolmente impegnato e funzionali le numerose parti di fianco.
Il cofanetto presenta una serie di interessanti saggi – in inglese e francese – che fanno luce sull’importanza storica e sulla fortuna di quest’opera.
Nell’amplissimo arco delle Feste dopo la Trinità, la Liturgia propone più volte i temi lelaborati da Cristo nel cosiddetto “discorso della montagna”, una volta seguendo il racconto di Luca ( quarta domenica) e tre volte seguendo Matteo (sesta, ottava e quindicesima domenica) Nella quindicesima domenica, il passo preso in considerazione, tratta della Provvidenza Divina. Dice Matteo al capitolo VI, versetti 24-34: Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Delle tre cantate superstiti approntate da Bach per la quindicesima domenica dopo la Trinità, la prima, in ordine di tempo è “Warum betrübst du dich, mein Herz? (Perchè ti rattristi, mio cuore) BWV 138, eseguita per la prima volta a Lipsia il 5 settembre 1723. Essa fornisce una interessante anticipazione di quella che sarà poi la “Choral-Kantate”, la Cantata su Corale, ampiamante usata da Bach nella seconda annata di Cantate. Nella 138, i nr.1,3 e 7 sono costruiti sulle prime tre strofe di un “Lied” pubblicato anonimo a Norimberga nel 1561, da taluni attribuito a Hans Sachs, il celebre “Maesto Cantore”. Mentre la terza strofa è utilizzata come Corale conclusivo della Cantata, le altre 2 sono state “farcite” dall’inserimento di recitatvi ispirati al citato passo di Matteo, richiamando anche altre immagini estratte da altri versetti della Sacra Scritura. I primi 3 numeri della Cantata vanno dunque a costruire un momento unitario che mostra un’elaborazione poetica, madrigalistica, accostando un antico “Lied” la cui melodia viene affidata ai soprani, ma che risuona anche nei passi strumentali di 2 oboi d’amore. Nella cantata troviamo un’unica aria (nr.4) affidata al basso, con archi “obbligati”, che sarà poi “parodiata” da Bach nella Messa BWV 236 (“Gratias agimus tibi”), improntata su un ritmo di “minuetto”, mentre appare sorprendente la realizzazione della terza strofa del citato “lied”, qui rivestita di un apparato strumentale in cui gli oboi d’amore e i violini si alternano regolarmente in valori di tempo diversi, ricamando sontuosamente la stoffa melodica del Corale.
Nr.1 – Corale recitativo
Coro
Perchè ti rattristi, mio cuore?
Ti tormenti, sei in pena
solamente per i beni terreni?
Contralto
Ah, povero me,
pesanti preoccupazioni mi opprimono.
Dalla sera alla mattina
dura la mia gravosa pena.
O Dio, pietà!
Chi verrà a liberarmi
da questo malvagio
e crudele mondo?
La disgrazia è intorno a me,
ah, se solo fossi morto!
Coro
Confida in Dio, tuo Signore,
che ha creato tutte le cose.
Nr.2 – Recitativo – Coro
Basso
Sono disperato,
il Signore mi ha creato per soffrire
nel giorno della sua ira;
ciò che ho per nutrirmi
è ben poco;
mi è dato, invece del vino di gioia,
l’aspro calice delle lacrime.
Come posso mantenermi in pace,
quando lamenti sono il mio cibo e lacrime la mia bevanda?
Coro
Egli non può abbandonarti,
sa bene cosa ti manca,
egli è il cielo e la terra!
Soprano
Ah, come?
Dio tratta bene gli animali selvaggi,
dà da mangiare agli uccelli,
nutre i giovani corvi,
solo io, non so in che modo,
povero bambino,
posso avere un pezzo di pane;
dov’è qualcuno che verrà a soccorrermi?
Coro
Tuo Padre e tuo Signore Dio
Ti sostiene in ogni necessità.
Contralto
Sono abbandonato,
sembra che
persino Dio mi odia
nella mia povertà, benché egli abbia sempre pensato
bene di me.
Ah angosce sarete ogni mattino
ed ogni giornata rinnovate?
Perciò mi lamento di continuo;
ah, povertà, crudele parola,
chi mi sosterrà in tutte le mie angustie?
Coro
Tuo Padre e tuo Signore Dio
ti sosterrà in ogni necessità.
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
Ah, dolce speranza! Se Dio non vuole lasciarmi
e abbandonarmi,
posso con calma
e pazienza rasserenarmi.
Il mondo può sempre odiarmi,
ma io rivolgo le mie attese
con gioia verso il Padre,
se egli non mi aiuta oggi mi aiuterà domani.
E rimetto volentieri
le mie preoccupazioni sotto il cuscino
e non mi occorre altro per essere riconfortato:
Nr.4 – Aria (Basso)
In Dio riposa la mia speranza,
la mia fede lo lascia regnare.
Nessun timore può assillarmi,
la povertà non può tormentarmi.
E anche nelle più grandi pene
egli resta il mio Padre, la mia gioia,
meravigliosamente mi sostiene.
Nr.5 – Recitativo (Contralto)
Bene!
Voglio restare sereno.
Voi, angosce, ecco il vostro licenziamento!
Allora posso vivere come in cielo.
Nr.6 – Corale
Essendo tu mio Dio e Padre,
non abbandonerai il tuo figlio,
o cuore paterno!
Sono una povera zolla di terra,
sulla terra non ho speranza.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Sala Umberto, Stagione 2023/ 2024
UN GIORNO COME UN ALTRO
scritto e diretto da GIACOMO CIARRAPICO
Con LUCA AMOROSINO e CARLO DE RUGGERI
musiche Giuliano Taviani e Carmelo Travia
aiuto regia Maria Chiara Di Mitri
scene Andrea Quattropani
produzione Viola Produzioni Centro di Produzione Teatrale
scritto e diretto da GIACOMO CIARRAPICO
Un seggio elettorale è a modo suo un luogo simbolo di una democrazia. Quel semplice gesto, ossia votare, per anni è stato considerato quasi sacro da molti italiani, ma con il passare degli anni c’è stato uno scollamento sempre maggiore tra Paese reale e classe dirigente. E questo fenomeno ha provocato un disinteresse dilagante da parte dei cittadini nei confronti di quel gesto sacro: a ogni tornata elettorale, la prima vera notizia è la crescente astensione degli aventi diritto. È, secondo gli analisti, una malattia irreversibile. Qui si racconta quel giorno in cui l’astensione raggiungerà livelli quasi assoluti e solo il quattro per cento della popolazione andrà a votare. Ma un seggio elettorale è anche un luogo dove alcuni cittadini, gli scrutatori, sono costretti a passare un’intera giornata uno accanto all’altro. Non sapendo nulla uno dell’altro e spesso avendo visioni diverse del mondo e quindi, non di rado, mal sopportandosi vicendevolmente. Ed è così che Ranuccio e Marco si ritroveranno fianco a fianco nella sezione 4607 (un seggio alle porte di Roma) ad aspettare gli elettori che non arriveranno mai. Uno spettacolo sospeso dove Godot sono gli italiani. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Argentina Stagione 2023- 2024
Roma Europafestival 2023
LO ZOO DI VETRO
di Tennessee Williams
traduzione in francese Isabelle Famchon
drammaturgia Koen Tachelet
diretto da Ivo van Hove
Amanda ISABELLE HUPPERT
Laura JUSTINE BACHELET
Jim CYRIL GUEI
Tom ANTOINE REINARTZ
scenografia e luci Jan Versweyveld
costumi An D’huys
suono, musica George Dhauw
Produzione Odéon – Théâtre De L’europe
È uno spazio sotterraneo e terroso, nido familiare per fragili creature umane, quello in cui il celebre regista Ivo van Hove ambienta il suo riallestimento de Lo zoo di vetro di Tennessee Williams. A governare questo rifugio sotterraneo è una delle attrici più premiate al mondo, icona di indimenticabili film d’autore e delle scene internazionali: Isabelle Huppert. A lei, infatti, van Hove ha affidato il ruolo di Amanda, donna determinata a far sposare sua figlia Laura, così timida e fragile con la sua collezione di animali di vetro capace di portarla via dalla realtà. Al loro fianco il figlio Tom, che provvede alla famiglia e corre al cinema appena può. Ecco tre solitudini, fragili e belle come altrettanti giocattoli di vetro, il loro sognare un’altra vita. Perché, con la forza di Isabelle Huppert e di un altrettanto eccezionale cast d’attori, van Hove sembra esplorare l’agire del ricordo e della memoria, il teatro che li mette in scena, il loro essere conforto e limite, tana e confine; il contrario tendere verso il futuro. «È una sfida artistica e allo stesso tempo un sogno che si avvera lavorare con Isabelle Huppert all’adattamento di questa pièce, tra le più personali e autobiografiche di Tennessee Williams» ha affermato il regista. Qui per tutte le informazioni.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Autunno 2023
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Soprano Rosalia Cíd
Mezzosoprano Xenia Tasiouvaras
Tenore Lorenzo Martelli
Basso Lodovico Filippo Ravizza
Wolfgang Amadeus Mozart: “Le nozze di Figaro”, Ouverture; Sinfonia in re maggiore K. 385 Haffner; Krönungsmesse in do maggiore K. 317 per soli, coro e orchestra
Firenze, 13 settembre 2023
Con il concerto inaugurale «Bentornati al Maggio!» è iniziata la stagione autunnale del Teatro fiorentino. Protagonista la musica di Wolfgang Amadeus Mozart nell’interpretazione dell’Orchestra e del Coro diretti dal maestro Zubin Metha. Un programma monografico che annunciava una serata all’insegna della bellezza ideale di raffaelliana memoria. Nella Sala grande, gremitissima di pubblico delle grandi occasioni, si notavano presenze significative come quella di Gianmarco Mazzi (sottosegretario alla Cultura), di Dario Nardella (sindaco della città), di Eike Schmidt (direttore degli Uffizi) e di altre personalità del mondo della politica e della cultura. Spente le luci, nel pianissimo dell’orchestra e in un Presto elettrizzante, già dalle prime battute l’uditorio si è lasciato coinvolgere dall’Ouverture da Le nozze di Figaro (prima opera della trilogia, insieme al Don Giovanni e al Così fan tutte). L’impatto percettivo, restituendo stratificazioni trasparenti dei suoni, è stato un’alternanza di luci e ombre, simile a quella nell’opera e nella vita di Mozart. I fagotti all’unisono, insieme ai violoncelli, contrappuntati dalle brevi linee degli altri legni e avvolti dagli archi, oltre a consegnare un colore particolare hanno dato occasione di poter apprezzare il raffinato equilibrio di un’orchestra capace di stupire. L’Ouverture, oltre ad ‘aprire’ il concerto, rappresentava anche un implicito riferimento al riuscito connubio Mozart-Da Ponte senza nascondere l’intenzione di offrire un caleidoscopio di sentimenti e di emozioni che trasuda in un’opera che non nasconde anche istanze rivoluzionarie. Ecco allora che lo stesso titolo augurale del concerto, autentico contrappunto di sentimenti, può ricordare l’amore descritto nella ballata «Ben venga maggio» (Poliziano) in cui, nel giorno di Calendimaggio a Firenze i giovani, per conquistare le loro innamorate, offrivano rami fioriti. Il «Ben venga primavera, /che vuol l’uom s’innamori», poteva anche intendersi come invito, dopo un periodo di criticità, ad ‘innamorarsi’ nuovamente dell’istituzione teatrale, ritornando ai concerti. Dopo la prima ‘perla’ mozartiana è stata la volta della Sinfonia in re maggiore K 385 (Haffner). Stesso organico orchestrale (coppia dei legni, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi), stessa tonalità ma con destinazione diversa. La genesi della composizione risale al luglio 1782 quando Wolfgang riceve l’invito da suo padre a comporre rapidamente un’altra Serenata per la famiglia Haffner. L’occasione di scrivere in gran fretta spinge Mozart (febbraio 1783) a riprendere la precedente Serenata e ‘rimaneggiarla’ (elimina la Marcia ed uno dei due Minuetti) tanto che il mese successivo è già pronta per l’esecuzione nella forma di Sinfonia. È sempre l’incipit a colpire l’attenzione del pubblico: l’avvio dell’Allegro con spirito, a piena orchestra, è un’esplosione di suoni con i violini che, dal primo salto di due ottave, continuano l’esposizione di un tema che, grazie al ritmo puntato, traghetta l’ascoltatore verso quell’idea francese del ‘700 che vuole sorprendere. Tema talmente funzionale per la sua destinazione che, secondo molti commentatori, non vi era necessità di presentare l’altro tema elegiaco (in realtà non mancano altre brevi idee transitorie di carattere diverso) preferendo rimanere per l’intero movimento all’interno di un’elaborazione più contrappuntistica. Nella lettura caleidoscopica della partitura da parte di Mehta non è sfuggita l’intenzione di continuità nel carattere del movimento da eseguire, secondo una lettera di Mozart, «con fuoco». Nell’Andante, unico movimento in cui cambia tonalità (sol maggiore), è emersa una bella cantabilità dei primi violini nel guidare l’elegante melos accompagnato dalla precisa pulsazione delle semicrome dei secondi; poi il passaggio del testimone ai secondi e alle viole per la seconda idea, più gioiosa e serena. Non è passata inosservata la perfetta intonazione nella fascia sonora dei legni, insieme ai corni, sia all’inizio che nella parte centrale e il bellissimo poco ritenuto sull’armonia di dominante (ultimo ‘ricamo’ di 4 semicrome dei violini primi) prima della Ripresa. Al Menuetto di chiara derivazione haydniana seguiva la leggerezza del Trio ove il calibrato connubio di oboi, fagotti, primi violini e viole dei musicisti riusciva ad offrire un colore suggestivo di elegiaco ‘restauro’ sonoro. Il successivo reinserimento di trombe e timpani, oltre a dichiarare la consueta forma (A-B-A), annunciava il ritorno al Menuetto da capo, di una lettura elegante della partitura. Il Finale è stato una commistione di stupore e sorpresa. Tenendo conto dell’indicazione dello stesso Mozart a «eseguirlo il più presto possibile» poteva esserci il rischio di qualche ‘sbavatura’ dell’orchestra che invece non c’è stata. A tenere alta l’attenzione del pubblico, grazie all’ipnotico controllo dell’orchestra da parte di Metha, è il tema iniziale all’unisono e in ottave (come accade nel I movimento), ora solo negli archi. Il piano del suggestivo esordio, senza cedere alla tentazione di un crescendo, è divenuto attesa enfatizzante per l’imminente esplosione a tutta orchestra. Quasi piccoli tableaux vivants sono apparsi in itinere i vari episodi, tanto da identificarsi in una sorta di Giano bifronte (forma sonata-rondò). Ad ammaliare i presenti la magia della moltitudine dei suoni, le luminose sonorità dei fiati e l’intervento dei timpani nel sottolineare la precisa punteggiatura tra tonica e dominante della tonalità d’impianto mentre, soprattutto ai cultori mozartiani, non è sfuggito l’inizio con reminiscenze dell’aria di Osmin in Entführung, (III atto). A chiudere il programma la Krönung-Messe in do maggiore K. 317 per soli, coro e orchestra composta nel 1779 quando il musicista aveva 23 anni e viveva a Salisburgo. Chiaro riferimento alla messa in latino con la classica successione Kyrie – Gloria – Credo – Sanctus – Benedictus – Agnus Dei, probabilmente venne concepita per la liturgia pasquale e, nella poca chiarezza relativa all’occasione della scrittura, riportiamo la tesi di molti studiosi nell’attribuire il titolo come anniversario dell’Incoronazione (1751) dell’immagine miracolosa della Vergine. L’opera, dai forti connotati corali, ha evidenziato duttilità vocale, varietà di colori unitamente a particolari sfumature grazie all’interpretazione del maestro del coro Lorenzo Fratini. Altrettanto positiva la prova delle giovani voci soliste dell’Accademia del Maggio (soprano: Rosalia Cíd, mezzosoprano: Xenia Tsiouvaras, tenore: Lorenzo Martelli, basso: Lodovico Filippo Ravizza), particolarmente apprezzate nel canto sotto voce del Benedictus, senza tralasciare la leggerezza vocale e l’incantevole ispirazione nell’Agnus Dei del soprano. Anche in questa occasione è emersa la lezione di Metha, dominus della concertazione ove, di volta in volta, è riuscito a dosare e a valorizzare ogni musicista che in questo contesto è diventato personaggio della mutevole religiosità e teatralità mozartiana. Alla maestosità del Tutti contribuiva anche l’organico strumentale con la coppia di oboi, corni e trombe ai quali si aggiungevano 3 tromboni, timpani, organo e archi. Lo stesso posizionamento di alcuni strumenti (ottoni al centro dietro gli oboi, il fagotto nell’area degli strumenti gravi necessari per assolvere il ruolo di basso continuo) corrispondeva ad una concezione acustico-spaziale del suono intuita dalla partitura. Il risultato della serata è stato un grande evento culturale firmato dalla versatile bacchetta del maestro Metha in cui lo stupore e l’ammirazione ben si armonizzavano con la bellezza della città toscana, la stessa che ritorna ‘in eco’ nelle parole del padre di Mozart: «Vorrei che tu potessi vedere Firenze, i suoi dintorni e la posizione di questa città, diresti che è qui che si deve vivere e morire» (da una lettera alla moglie).
Roma, Romaeuropa Festival 2023 Cavea – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone
“EXIT ABOVE – AFTER THE TEMPEST”
Coreografia Anne Teresa De Keersmaeker
Creato con e danzato da Abigail Aleksander, Jean Pierre Buré, Lav Crnčević, José Paulo dos Santos, Rafa Galdino, Carlos Garbin, Nina Godderis, Solal Mariotte, Meskerem Mees, Mariana Miranda, Ariadna Navarrete Valverde, Cintia Sebők, Jacob Storer
Musica Meskerem Mees, Jean-Marie Aerts, Carlos Garbin
Musica eseguita da Meskerem Mees, Carlos Garbin
Scene Michel François
Disegno luci Max Adams
Costumi Aouatif Boulaich, Alexandra Verschueren
Testo e liriche Meskerem Mees, Wannes Gyselinck
Drammaturgia Wannes Gyselinck
Produzione Rosas
In coproduzione con Concertgebouw Brugge, De Munt/La Monnaie, Internationaal Theater Amsterdam, Le Théâtre Garonne (Toulouse), GIE FONDOC OCCITANIE (Le Parvis tarbes, Scène nationale ALBI Tarn, Le Cratère Alès, Scène nationale Grand Narbonne, Théâtre Garonne).
Prima nazionale
Roma, 11 settembre 2023
Uno spettacolo complesso e ingegnoso quello presentato da Anne Teresa De Keersmaeker nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone di Roma per la trentottesima edizione del Romaeuropa Festival. Il titolo rimanda a una didascalia de The Tempest di William Shakespeare. L’intento annunciato nel comunicato stampa è quello di proseguire la ricerca sul rapporto tra musica e movimento che da sempre interessa la coreografa belga. Dopo la musica classica di Bach o quella contemporanea di Reich, è la volta del blues, di Robert Johnson, in un percorso che arriva al pop, al rock, all’elettronica e alla dance. In attesa del confronto con la nuova produzione, lo spettatore è accolto dall’intricato groviglio di cerchi e figure geometriche disegnati sul pavimento scenico e da quattro chitarre elettriche. A presentarsi per primi al pubblico non sono i danzatori, bensì il chitarrista blues Carlos Garbin e la cantautrice fiamminga di origini etiopi Meskerem Mees. Il riferimento all’opera teatrale shakesperiana si disvela poco a poco. Sullo sfondo viene proiettata la descrizione che il filosofo tedesco Walter Benjamin fece del dipinto Angelus Novus di Paul Klee, da lui acquistato nel 1921. Un angelo che, riflettendo la concezione metafisica del pittore astrattista, guarda con occhi fissi una catastrofe che ha luogo davanti ai suoi occhi. Alle sue spalle il passato. Innanzi a lui la tempesta del progresso che si innalza verso il Paradiso. Il rimando si fa concreto grazie a un enorme velo di colore bianco argento che turbina in alto sulla scena, mentre in basso il primo danzatore risponde alla musica elettronica con gli impulsi del suo corpo che terminano in una sorta di headspin derivato dalla breakdance. La poesia si rompe, la drammaturgia si destruttura, il rimando al Prospero shakespeariano e al suo potere sulla natura passa ora nel campo di un’analisi creativa che coinvolge danza, canto e musica. Un gruppo compatto di performers, fermo al centro della scena, comincia ad effettuare dei piegamenti sincopati. Inizia il tema della camminata che si ispira alla canzone Walking Blues di Robert Johnson, nonché a uno dei principi guida della stessa De Keersmaeker (“My walking is my dancing”). Seguendo le figure geometriche del pavimento, gli interpreti cominciano ad esplorare le varie direzioni, in un moto verso il fondo o il proscenio, in orizzontale e in verticale, nonché in diagonale. Si disperdono per poi ritrovarsi. La presenza scenica di Meskerem Mees diventa parte integrante della coreografia, la sua performance unisce il canto alla danza. Dopo un’esplorazione quasi matematica della dimensione cinetica si avverte l’affiorare di un’analisi sulle radici del blues e delle sue liriche. Le parole proiettate sullo sfondo comunicano stati d’animo o introducono gli elementi della natura. I danzatori rispondono con movimenti delle braccia che imitano il volo di un uccello, mentre alla musica sembra mischiarsi un reale cinguettìo. E se il blues deriva il suo nome da quello stato malinconico che segue un’ubriacatura, i danzatori sembrano intenti in un gioco che coinvolge idealmente anche il pubblico e che pone a confronto il singolo, i piccoli gruppi e la collettività. La loro danza sembra riflettere la contaminazione di vari generi, non ultimo l’hip hop e il suo tipico footwork o i suoi salti. Ma è proprio questo il punto. Secondo il programma di sala, “il vagare, il marciare, l’isolarsi e il ritrovarsi uniti in un gruppo di persone per muoversi insieme sono per De Keersmaeker azioni di resistenza contro l’efficienza dell’iper-produttività odierna”. Lo spettacolo è anche secondo il nostro punto di vista un atto politico che non rifiuta l’avanzare verso il progresso, né in campo musicale, né in campo coreografico, né metaforicamente nella nostra società. È vero però che la coreografia acquista vera potenza, quando nell’unirsi alla musica i passi riflettono una grande energia interiore, rappresentata inoltre per un attimo dall’illusione scenica del fuoco. Avanzare, dunque, si può, ma solo se lo si fa senza rinunciare al proprio fuoco interiore e al contatto con la natura, oltre che a quello con il proprio sé. Per questo, dopo il momento dell’euforia, arriva chiarificante un finale rigorosamente in chiave blues. Foto Anne Van Aerschot
Il pubblico dell’Arena di Verona Opera Festival 2023 ha premiato la centesima edizione – in programma dal 16 giugno al 9 settembre con 49 recite, 8 produzioni d’opera e 5 eventi speciali – facendo registrare il miglior incasso di sempre per un totale di 33.048.000 euro e un aumento di presenze pari a 59.584 spettatori rispetto al 2022, raggiungendo quota 402.722. Si conferma l’internazionalità della maggior parte del pubblico e quest’anno sono 125 i Paesi di provenienza diversi dall’Italia.
Anche le trasmissioni televisive delle opere di questa edizione – proposte su Rai1, Rai3 e Rai5 – hanno coinvolto un ampio numero di telespettatori, come nel caso dell’Aida inaugurale del 16 giugno trasmessa da Rai Cultura su Rai1, che è stata seguita in diretta da quasi 1.800.000 spettatori con oltre il 13% di share in media. A ulteriore conferma dell’interesse suscitato da questa nuova produzione, la parola “Aida” secondo Google Trend è stata cercata in Italia su Google il 430% di volte in più nella prima settimana del Festival rispetto alla media del numero di ricerche per lo stesso termine negli ultimi 5 anni. Il risultato di biglietteria di questa nuova produzione è stato straordinario: sold-out per tutti i 20.000 posti a disposizione nelle due recite del 16 e 17 giugno. Quest’ultima data ha registrato inoltre un incasso da medaglia d’argento nella storia del Festival, secondo solo al Gala di Plácido Domingo del 2009.
Dato migliore ad oggi anche per quanto riguarda i media nazionali e internazionali: le testate ed emittenti accreditate sono state infatti 285, per un totale di 1434 presenze. E sono stati più di 6.000 gli articoli e i servizi dedicati al Festival n. 100 (solo fra quelli riscontrati) tra web, carta stampata, radio e tv. Per quanto riguarda l’estero, significativa è stata la copertura mediatica sulle principali testate in Francia e nei Paesi di area germanica. Mai così tanti gli eventi speciali proposti, che hanno ottenuto un grande apprezzamento grazie in particolare alla qualità artistica che ha visto anche i debutti di Juan Diego Flórez, impegnato in un Gala, e di Orchestra e Coro del Teatro alla Scala diretti dal maestro Riccardo Chailly. L’edizione 2023 ha poi ottenuto risultati mai visti prima per l’Arena sui social: a fine Festival, i canali Facebook e Instagram hanno raggiunto quasi 47 milioni di contatti, con 16 mila ore di visualizzazioni dei video: la sola pagina Instagram ha raggiunto più di 12 milioni di account, crescendo del 166% rispetto al 2022. Nel corso del 100° Opera Festival, l’Arena ha inoltre sperimentato con successo l’innovativo progetto di accessibilità e inclusione “Arena per tutti”, sviluppato in collaborazione con l’Accessibility Partner Müller, che ha permesso ad oltre 700 persone con disabilità di fruire degli spettacoli. Il 100° Festival all’Arena di Verona si è svolto con il doppio patrocinio della Regione del Veneto e del Ministero della Cultura, il quale ha anche stanziato un contributo straordinario di 1 milione di euro per la storica ricorrenza delle cento stagioni d’opera in Arena.
I Lombardi alla prima Crociata, quarta opera di Giuseppe Verdi, debutta al il XXIII Festival Verdi dove torna in scena dopo 14 anni giovedì 21 settembre 2023, ore 20.00, al Teatro Regio di Parma (recite venerdì 29 settembre, sabato 7 ottobre, ore 20.00, e domenica 15 ottobre 2023, ore 15.30).
Il nuovo allestimento è affidato alla regia di Pier Luigi Pizzi, che firma anche le scene, i costumi e i video, con le luci di Massimo Gasparon, le coreografie di Marco Berriel. Francesco Lanzillotta, per la prima volta al Teatro Regio di Parma e al Festival Verdi, sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, che eseguirà le parti in scena, e del Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani, dirige l’opera nell’edizione critica della partitura curata da David R. B. Kimbell (in preparazione per The University of Chicago Press e Casa Ricordi), presentata per la prima volta a Parma. Il cast vede protagonisti Lidia Fridman (al debutto nel ruolo di Giselda), Antonio Poli (Oronte), Michele Pertusi (Pagano), Antonio Corianò (Arvino), Giulia Mazzola (Viclinda), Luca Dall’Amico (Pirro), William Corrò/Lorenzo Mazzucchelli (15) (Acciano) e gli allievi dell’Accademia Verdiana Zizhao Chen (Un Priore) e Galina Ovchinnikova (Sofia). Violino solista Mihaela Costea.. Illustrazione di Pierpaolo Gaballo
Se l’idealismo platonico relegava l’arte al ruolo di “imitazione dell’imitazione”, il Romanticismo – inteso in senso lato, lungi da certe semplificazioni ad uso didattico – ha portato avanti una visione diametralmente diversa, considerando l’artista alla stregua di un demiurgo, il quale, più che imitare la realtà, la ricrea e la nobilita, anche quando il suo rapporto con essa può sembrare scontato o è esplicitamente dichiarato. Tale concezione estetica sta alla base anche della produzione musicale francese del XIX secolo (e oltre), nata in un contesto storico – quello delle rivoluzioni industriali –, in cui gli orizzonti geopolitici e culturali si andavano allargando, grazie alla possibilità di conoscere paesi stranieri più o meno lontani. Questo si riflette anche sul repertorio operistico e strumentale di quel periodo, che trova spesso alimento in danze attinte da altre culture musicali. Un esempio tra tanti è la celeberrima “habanera” da Carmen. A questi “Mondi riflessi” dalla musica francese nel periodo romantico il Palazzetto Bru Zane dedica il Festival d’autunno 2023 – sette concerti e due conferenze, dal 23 settembre al 27 ottobre –, nel corso del quale ricorreranno formule modali e ritmi esotici: più che un segno di interesse per i paesi stranieri, un mezzo, da parte dei compositori e delle compositrici – anche questa volta ben rappresentate, confermando la particolare sensibilità sempre dimostrata in proposito dal Palazzetto Bru Zane – per rinnovare l’arte nazionale.
La conferenza di presentazione del Festival veneziano – e della programmazione relativa al biennio 2023-2024 – si è svolta nel pomeriggio di martedì 12 settembre, al Palazzetto Bru Zane. Presenti: Alexandre Dratwicki, direttore artistico; Rosa Giglio, coordinatrice artistica; Camille Merlin, coordinatrice per Bru Zane Label e partenariati discografici. Oltre a “Mondi riflessi”, avrà luogo a Venezia, in primavera, un altro ciclo, “Il filo di Fauré”, che proporrà composizioni dell’apprezzato autore del Requiem – mélodies e musica da camera –, ponendole a confronto con pagine più intime, firmate dai suoi discepoli, così da dare il giusto risalto a un musicista, che la generazione di Ravel scelse come vero e proprio patrono di una nuova modernità.
Di grande interesse musicologico risultano le iniziative, a livello internazionale. Tra esse spicca la rappresentazione di Carmen di Georges Bizet con i costumi, la scenografia e la messinscena della sua prima rappresentazione nel 1875 (Rouen, settembre-ottobre 2023). Verranno inoltre riproposte alcune opere dimenticate: La Montagne Noire della “wagneriana” Augusta Holmès (Dortmund, gennaio-maggio 2024); Le Tribut De Zamora, utima opera compiuta di Charles Gounod (Saint-Étienne, maggio 2024); Le Roi D’ys di Édouard Lalo (Budapest, gennaio 2024; Amsterdam, febbraio 2024). A Lalo, nel bicentenario della nascita, sarà dedicata (ottobre 2023) una serie di concerti, che si svolgeranno a Parigi, Vienna, Monaco di Baviera, Amburgo, Colonia, Düsseldorf, Francoforte.
L‘immaginazione orientalista di alcuni compositori francesi verrà indagata in un concerto, che prende il titolo da quello della prima composizione in programma: Suite orientale di Mel Bonis (Lione, maggio 2024). In Québec, le celebrazioni dedicate a Fauré (luglio 2023-maggio 2024) comprendono anche Dubois, suo predecessore alla testa del Conservatorio di Parigi. Nella capitale francese le compositrici, al centro di un ciclo tematico nella scorsa stagione veneziana, saranno protagoniste di un festival (giugno 2024) con i Contes fantastiques di Juliette Dillon e le opere sinfoniche di Rita Strohl, mentre Fausto di Louise Bertin andrà in scena a Essen (gennaio-maggio 2024).
Alla conferenza di presentazione è seguito un breve concerto della pianista Célia Oneto Bensaid, che ci ha regalato un allettante assaggio di quello che sentiremo esplorando i “Mondi riflessi”, in cui ci condurrà l’imminente festival d’autunno. Se il buongiorno si vede dal mattino, il primo approccio a questa nuova avventura musicale è stato davvero promettente. Piena di fascino, raffinata nell’interpretazione e nel tocco, magistrale nei passaggi veloci è apparsa l’affermata concertista che, dopo i suggestivi brani di David, Bonis e Godard, ha concluso con un mirabolante fuoriprogramma: Dans les flammes, IV brano del primo quaderno, “Ce qu’on entend dans l’Enfer”, che fa parte delle Dix-Huit Pièces pour piano d’après la lecture de Dante di Marie Jaëll. Esecuzione assolutamente strepitosa!
Notizie particolareggiate sul sito
Verona, Teatro Romano, 75a Estate Teatrale Veronese 2023
“MEDEA”
Tragedia di Euripide, traduzione di Massimo Fusillo.
Medea LAURA MARINONI
Nutrice DEBORA ZUIN
Pedagogo RICCARDO LIVERMORE
Creonte ROBERTO LATINI
Giasone ALESSANDRO AVERONE
Egeo LUIGI TABITA
Il Nunzio SANDRA TOFFOLATTI
Prima corifea FRANCESCA CIOCCHETTI
Prima coreuta e direttrice del Coro SIMONETTA CARTIA
Coro ALESSANDRA GIGLI, ANNA CHARLOTTE BARBERA, VALENTINA CORRAO, VALENTINA ELIA, CATERINA FONTANA, IRENE MORI, AUROARA MIRIAM SCALA, MADDALENA SERRATORE, GiULIA VALENTINI, CLAUDIA ZAPPIA
Portatore di Medea SEBASTIANO CARUSO
Figli di Medea MATTEO PAGUNI, FRANCESCO CUTALE.
Regia Federico Tiezzi
Scene Marco Rossi
Costumi Giovanna Buzzi
Disegno luci Gianni Pollini
Mestra del coro Francesca Della Monica
Arrangiatore coro e voci Ernani Maletta,
Regista assistente Giovanni Scandella
Musiche originali del coro e del prologo Silvia Colasanti
Verona, 12 settembre 2023
Come ormai entrato come una sorte di tradizione da qualche anno a chiudere l’estate teatrale veronese al teatro romano è uno spettacolo classico proveniente dal Teatro Greco di Siracusa. Proprio da questo magico luogo arriva la produzione della Medea di Euripide, con la regia di Federico Tiezzi, andata in scena lo scorso maggio. Un lavoro celebre, forse la tragedia per eccellenza, sicuramente un punto di riferimento per la storia del teatro, ma non solo, visto che il mito euripideo della donna-maga è stato è stato oggetto dell’ispirazione e rivisitazione di moltissimi altri autori letterari, di teatro, compositori e quant’altro. Di certo è uno dei lavori più noti del mondo del teatro classico, di sicura presa. E il publico ha risposto con un “sold-out” (o poco ci mancava). Non crediamo sia compito del recensore lanciarsi in disquisizioni storico-teatrali sulla Medea di Euripide, il web ne è pieno e si correrebbe il rischio di ripetersi…senza ombra di dubbio. Meglio porre attenzione allo spettacolo. Non si può non sottacere che gli spazi del teatro romano non sono certo quelli, assai ampi, del teatro greco di Siracusa e di conseguenza la parte scenografica deve gioco forza essere riadattata, perdendo in spettacolarità, nel forte contrasto coloristico tra piani inclinati, il bianco della scena (ma con un ampio pavimento lucido, mancante qui al romano). Qui a Verona, la scenografia è ridotta all’essenziale e forse porta ancora di più sulla tragedia. Il contrasto visivo è accentuato dai colori definiti dei costumi che vanno dal blu cobalto, al grigio e bianco. Chiaramente questo rientra nella cifra stilistica di Tiezzi che nel caso di Medea “Ho impostato la tragedia non come una rappresaglia individuale, ma come uno scontro fra due diverse concezioni della forza. Uno scontro fra una società arcaica e una società post industriale. Tra Ordine e Disordine. Medea è un campo di forze, dove si scontrano due modalità della violenza”. In scena vediamo una sorta di elegante salotto con delle colonnine sormontate da busti classici, molte sedie, dei tavoli. Questa è la reggia di Creonte, un signore borghese, che si presenta in un formale abito grigio, primi ‘900 che, indossando una maschera di coccodrillo, si scontra con Medea, che in abito classicheggiande blu cobalto, ma anch’esso con richiami liberty, indossa una maschera d’aquila. Un rapace contro un mondo di coccodrilli e in mezzo, due fragili conigli bianchi, queste sono le maschere che indossano i figli di Medea. La forza del colore della maga, contro il grigio omologato di Creonte, Giasone, il Pedagogo. Tiezzi parla di “scontro fra due diverse concezioni della forza”. Questo emerge anche nel taglio interpretativo dei personaggi. La solitudine, ma anche la forza, della Medea di Laura Marinoni, si esprime attraverso un’uso della parola, ma anche del corpo mai sopra le righe, anzi, i momenti di statica “assenza” diventano ancor più espressione di forza contro gli “altri” che sembrano esprimersi, in particolare il Giasone di Alessandro Averone, con accenti di un uomo banalmente arrivista, che solo nel finale, nella disperazione, appare anche lui desolatamente solo. Tutti i personaggi appaiono ben caratterizzati, a partire dal Nunzio/Messaggiera di Sandra Toffolatti. Applausi in scena per la sua partecipe e intensa narrazione a una Medea “lontana”, distaccata, della straziante morte di Glauce e di Creonte. Non meno efficaci la Nutrice di Debora Zuin, la prima Corifea di Francesca Ciocchetti e via, via tutti gli altri: Roberto Latini (Creonte), Riccardo Livermore (Pegagogo), Luigi Tabita, un Egeo, ambiguamente dandy. Di grande rilievo la parte musicale (con musiche di Silvia Colasanti) che valorizza la forza drammatica e teatrale di un doppio coro (ci è parsa forse un po’ troppo carica di grida l’uccisione dei figli di Medea) che alla fine, davanti a un desolato Giasone, “sporcare” di rosso-sangue la parete di fondo di questo salone che ora, con le sedie, colonnine accatastate, appare anch’esso espressione dei tragici eventi. Lunghi applausi hanno saluto tutti gli interpreti.
Museo di Roma – Palazzo Braschi
Piazza Navona 2; piazza San Pantaleo 10
VIS A VIS. TENERARI SPINA. DIALOGHI IN IMMAGINI.
Organizzatore: Zètema Progetto Cultura
L’attuale mostra al Museo di Roma mette in luce l’opera di due artisti distinti eppure strettamente connessi: Pietro Tenerani, importante scultore italiano del XIX secolo e Mostra Roma, rinomato interprete della fotografia d’arte contemporanea. Venticinque ritratti in gesso di Tenerani sono esposti, molti dei quali non sono mai stati mostrati prima, offrendo agli spettatori un’esperienza unica. Attraverso le fotografie in bianco e nero di Spina, questi ritratti sono raffigurati in un modo che rivela dettagli che potrebbero sfuggire anche all’occhio più attento. La gipsoteca di Tenerani, parte integrante del Museo di Roma, ospita modelli, bozzetti e studi che riflettono l’intera produzione artistica dello scultore. Questa collezione è paragonabile a quelle di Canova a Possagno e di Thorvaldsen a Copenaghen, rappresentando uno dei più importanti esempi di raccolte di gessi dell’Ottocento. Per ulteriormente valorizzare la gipsoteca, è stata organizzata questa mostra che mette a confronto i ritratti in gesso di Tenerani con le immagini realizzate da Luigi Spina. Nonostante la differenza di epoca e medium, Tenerani e Spina condividono un comune interesse per la figura umana, risultando in un dialogo tra la capacità di Tenerani di catturare i dettagli minuti di un volto nel gesso e l’abilità di Spina di evidenziare quei dettagli attraverso la luce. La mostra è stata curata da Fabio Benedettucci. Qui per tutte le informazioni.
Verona, Teatro Filarmonico, Il Settembre dell’Accademia 2023
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Direttore Juraj Valčuha
Pianoforte Stefano Bollani
Leonard Bernstein: “Candide”, ouverture; Anna Clyne: “Red” (da Color Field); George Gershwin: “Rhapsody in Blue”; Antonin Dvorak: Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 “Dal Nuovo Mondo”
Verona, 10 settembre 2023
Apertura pirotecnica per il XXXII Settembre dell’Accademia: di scena l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Juraj Valčuha ed il versatile ed eclettico Stefano Bollani, uno degli interpreti musicali più amati dal grande pubblico grazie anche alle sua azione divulgatrice attraverso le trasmissioni televisive e radiofoniche, la saggistica e la narrativa. Il suo multiforme ingegno musicale lo ha portato negli anni ad esprimersi nell’affascinante mondo del jazz pur non rinnegando del tutto le origini classiche che lo hanno portato alla collaborazione con grandi direttori ed orchestre blasonate. A Verona si è presentato con uno dei suoi cavalli di battaglia, quella Rhapsody in Blue che fin dal momento in cui fu scritta ha sempre costituito uno spartiacque tra la musica colta e le contaminazioni con la musica di strada, quel blues che Gershwin respirò nella sua infanzia e che entrò subito nel suo stile di scrittura. L’approccio di Bollani è dunque spiccatamente jazzistico ancor prima che classico, con una visione prospettica che prende le distanze dalle esecuzioni composte a cui siamo abituati per filtrare la composizione nel setaccio del suo estro creativo ed istrionico. L’impressione è tuttavia quella di un soliloquio autoreferenziale anziché un dialogo con l’orchestra, con frequenti interpolazioni personali che integrano la scrittura pianistica originale per vestirla di luce nuova; la sua linea interpretativa, pur partendo dal concetto stesso di rapsodia come canovaccio musicale, non si muove alla ricerca di un’interazione con la dimensione sinfonica preoccupandosi invece di mantenere lo strumento solista autonomo ed indipendente. Il risultato è quello di un compiacimento personale, quasi narcisistico e vanitoso che ha talvolta disorientato l’orchestra e il direttore in balìa dell’estro creativo del solista, alla costante ricerca anche di sonorità nuove ed insolite. Lampi di luce nella penombra sinfonica, posta quindi in secondo piano. Gli immancabili bis hanno restituito il Bollani che ci è più familiare, quello della creazione ora studiata, ora improvvisata: si va dal medley su New York, New York di Kander e America di Bernstein ad una rilettura di I got rhythm di Gershwin, il tutto condito dai consueti siparietti che coinvolgono anche il pubblico. Il resto del programma riportava il Filarmonico entro gli ambiti consueti, dall’ouverture da Candide di Bernstein, all’interessante Red di Anna Clyne (movimento centrale del trittico Color field) fino alla celebre Sinfonia n. 9 “Dal Nuovo Mondo” di Dvořák, composizione che unisce il folklore americano alla tradizione sinfonica europea. L’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai è uno strumento favoloso, dotato di bel suono e di un particolare calore musicale (ne ha ben donde visto che la sua costituzione è costata lo scioglimento delle storiche quattro compagini precedenti), duttile e a suo agio tanto nella classicità rossiniana di Bernstein quanto nella contemporaneità musicale della Clyne. Il fatto poi di avere nel proprio repertorio stabile il grande affresco sinfonico e paesaggistico di Dvorak ha regalato al pubblico veronese un’interpretazione viva ed appassionata con dei pianissimi di rarefatta sostanza sonora. Juraj Valčuha, già direttore principale dell’orchestra dal 2009 al 2016, ha diretto con autorevolezza e solida volontà interpretativa respirando e vivendo la partitura del compositore ceco, traendone sonorità e tinte sinfoniche ora brillanti, ora tenui e fino al limite dell’udibile. Teatro vicino all’esaurito, con un pubblico attento ed emotivamente coinvolto; lo stesso festival del resto, per l’alta qualità delle proposte, lo richiede. Foto Brenzoni
Roma, Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti
VENERE ED ADONE
di William Shakespeare
Con Gianluigi Fogacci, Melania Giglio, Riccardo Parravicini
Regia: Daniele Salvo
Prodotto: Politeama s.r.l.
Dal 20 al 24 Settembre 2023
Venere e Adone di Shakespeare, fu composto nel 1593. È uno dei poemi più lunghi di William Shakespeare, costituito da 1194 versi e dedicato a Henry Wriothesly, terzo conte di Southampton, in cui il poeta descrive la poesia come “il primo erede della mia invenzione”. La città è infestata dalla peste e deve chiudere i battenti di tutti i suoi teatri per evitare il diffondersi dell’epidemia. Shakespeare si ispira al decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio e definisce Venere e Adone “il primo parto della mia fantasia”. Quando l’amico di scuola di Shakespeare, Richard Field, pubblica “Venere e Adone” è, da subito, un grande successo. Si può affermare che sia stato il poema più popolare dell’età elisabettiana. Tutti lo leggono. Tutti lo citano. Troviamo citazioni anche in altri poemi. Ci sono riferimenti ad esso anche in lavori di prosa. Ci sono scene, in alcune opere, in cui i personaggi parlano della lettura di “Venere e Adone”, dicono di averne una copia sotto il cuscino e di usarne le parole per sedurre le giovani donne. Apprezzatissimo fra gentiluomini e cortigiani, in breve divenne una sorta di vademecum dell’amatore, ugualmente popolare nella biblioteca, nel boudoir e nel bordello. Viene ristampato più e più volte. Field sembra abbia stampato 1000 copie della prima edizione. Il poema è in egual misura comico, erotico e commovente: la Venere di Shakespeare è passionale, una dea innamorata e pazza di desiderio. Adone è un giovane bellissimo che le sfugge e preferisce i piaceri della caccia a quelli dell’amore, sia pur divino. Nonostante gli abbracci, le carezze e gli avvertimenti della dea, il giovane parte per una battuta di caccia al cinghiale che lo azzanna provocandogli una mortale ferita all’inguine. Venere accorre, ma è troppo tardi: non le resta che trasformare il sangue dell’amato esanime nei rossi fiori dell’anemone…Ma da quel momento la Dea giura su quanto vi è di più sacro che mai più per i mortali l’amore sarà privo di ogni sorta di tormento e sofferenza. L’esercizio della Poesia è una prova di resistenza alle difficoltà quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Chi parla in Poesia spesso deve fare i conti con una società che non comprende un pensiero puro, sganciato dalle logiche commerciali o produttive ritenute così importanti ai nostri giorni. Le vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della Poesia perché essa, di fronte alle epidemie, alle guerre, alle decapitazioni, al terrorismo, alle violenze inaudite, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. “La poesia è magnificamente superflua, come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione.” Ci sono uomini come William Shakespeare che hanno combattuto la superficialità, la stupidità, l’arbitrio e la violenza quotidiana, con la forza della Parola. E di questa parola “luminosa” vogliamo godere, attraverso questo privilegio unico, sonoro e poetico, tentando di superare le assurdità della vita contemporanea. Questo mondo di versi è distillato prezioso di poesia e altissima letteratura. Il tentativo è quello di entrare direttamente nelle menti e nei cuori dei personaggi, nei loro desideri, nei loro affanni, nelle loro ansie e speranze disattese o soddisfatte. L’equilibrio delicatissimo in cui si muovono tutte le figure del poema, compone un affresco di una potenza espressiva straordinaria. La febbre del nostro tempo ci porta a vivere in una realtà anestetizzata, un mondo fittizio in cui l’emozione è bandita, al servizio di un intellettualismo sterile e desolante. I nostri occhi sono quotidianamente accecati da immagini provenienti dai media. La legge del mercato non perdona: si vendono cadaveri, posizioni sociali, incarichi pubblici, armi, sesso, infanzia, organi. Restiamo indifferenti. La dimensione borghese soffoca i nostri migliori istinti, la nostra sensibilità (che brutta parola oggi, considerata quasi scandalosa), la nostra sincerità e si porta via ogni forma di creatività, ogni volo, ogni fede. La nostra dimensione irrazionale viene completamente annientata. Il senso dell’affermazione dell’Io divora i nostri giorni. L’arte è svuotata della sua dimensione spirituale: siamo in un momento di emergenza assoluta. Il vero virus è dentro le nostre anime. La cultura attraversa una crisi epocale: mancano la necessità, la fede, la fiducia in qualcosa di superiore, la luce di un angelo che possa elevare i nostri destini. Santa Teresa d’Avila scriveva “Noi non siamo angeli, ma abbiamo un corpo”. Ma oggi il nostro corpo è divenuto merce, moneta di scambio, non più sede inviolabile della bellezza e dell’estasi. I media, persuasori occulti, agiscono sui nostri cuori e sulle nostre menti addomesticando anche gli spiriti più ribelli, sigillando gli occhi più attenti. La dimensione spirituale è irrimediabilmente perduta. Il senso del sacro è ormai sconosciuto. Siamo ormai definitivamente trasformati in consumatori e, nel medesimo istante, prodotti, sconvolti da una guerra mediatica senza precedenti nella storia. Illusi della nostra unicità, della nostra peculiarità, in realtà pensiamo tutti nello stesso modo, diciamo le stesse parole, abbiamo tutti le stesse esigenze, le stesse speranze, le stesse ansie, la stessa quotidianità fabbricata in serie. Ci illudiamo di essere liberi. I personaggi di Venere e Adone divengono testimonianze di un mondo perduto e dimenticato, un mondo cristallino, sospeso sul filo dell’orizzonte. Il ‘900 ha razionalizzato irrimediabilmente le pulsioni dell’animo umano, le ha ingabbiate, catalogate ed educate. Shakespeare riesce ancora a comunicare in modo diretto,” puro”; ci fa entrare nel vivo della disperazione, della rabbia, dell’amore, della dolcezza, della sensualità. Non descrive, non applica filtri letterari. Semplicemente “è” Shakespeare nostro contemporaneo. Quando i teatri riaprirono, Shakespeare fece tesoro di questo suo spericolato tuffo nelle insidie dell’amore e compose Romeo e Giulietta, simbolo di gioia e tormento per tutti gli innamorati dei secoli a venire. Daniele Salvo Qui per tutte le informazioni.