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Musica corale

Roma, Teatro Mazoni: “Forbici & Follia” dal 29 Febbraio al 24 Marzo 2024

gbopera - Mar, 27/02/2024 - 10:15

Roma, Teatro Manzoni
FORBICI & FOLLIA
di Paul Portner
Regia di Marco Rampoldi
con Max Pisu, Nino Formicola, Giancarlo Ratti, Lucia Marinsalta, Roberta Petrozzi, Giorgio Verduci
Scene di Alessandro Chiti
Costumi di Adele Bargilli
allestimento originale americano Bruce JordanMarylin Abrams
versione italiana Marco RampoldiGianluca Ramazzotti
produzione ArtistiAssociati-Centro di produzione teatrale
in collaborazione con RARA produzione
Un salone da coiffeur di una città italiana. Il racconto di un giorno come tutti altri, in cui la tranquilla vita di pettegolezzi che scorre allegramente fra le avances del parrucchiere a tutti i clienti e i piccoli sogni della sua aiutante viene interrotta dall’assassinio della vecchia pianista che vive al piano di sopra. Tutti i presenti hanno un movente ed hanno avuto la possibilità di compierlo. Ma due clienti sono in realtà poliziotti in borghese e devono arrestare il colpevole… Come? Con la collaborazione degli spettatori/testimoni oculari, che possono risolvere il mistero, grazie a ciò che hanno visto accadere, e alle domande che sapranno porre. Uno spettacolo con due nature contrapposte che si rafforzano a vicenda: quella del racconto giallo e quella della comicità che scaturisce dal gioco di interazione col pubblico, che si appassiona progressivamente nel meccanismo, fino a diventare l’unico possibile giudice. Qui per tutte le informazioni.

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Milano, Teatro alla Scala: “Simon Boccanegra” (cast alternativo)

gbopera - Mar, 27/02/2024 - 10:15

Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
SIMON BOCCANEGRA” 
Melodramma in un prologo e tre atti su libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra LUCA SALSI
Jacopo Fiesco AIN ANGER
Paolo Albiani ROBERTO DE CANDIA
Pietro ANDREA PELLEGRINI
Amelia (Maria) IRINA LUNGU
Gabriele Adorno MATTEO LIPPI
Capitano dei Balestrieri HAIYANG GUO
Ancella di Amelia LAURA LOLITA PEREŠIVANA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Lorenzo Viotti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Daniele Abbado
Scene Daniele Abbado e Angelo Linzalata
Costumi Nanà Cecchi
Luci Alessandro Carletti
Movimento coreografici Simona Bucci
Nuovo allestimento
Milano, 24 febbraio 2024
Sebbene abbiamo già accuratamente già recensito questa produzione, cogliamo al balzo la possibilità di un cast alternativo per rivedere e scrivere un secondo pezzo sul “Simon Boccanegra “ scaligero. Abbiamo assistito all’ultima recita, che, tuttavia, trattandosi di un sabato e di altri due protagonisti, ha richiamato molti colleghi della stampa e molti appassionati, riempiendo quasi del tutto il teatro. Le ragioni di questo successo in extremis debbono essere ricercate di certo nelle entusiaste recensioni che abbastanza uniformemente sono apparse in rete e sui giornali: questo “Boccanegra” è una produzione che funziona, a volte forse un po’ generica, ma con dei chiarissimi picchi sul piano musicale, a partire da Lorenzo Viotti sul podio – bacchetta giovane, ma ormai espertissima, che affronta Versi con senso della misura, tutta tesa alla resa coloristica, alla coesione con la scena e alla morbida omogeneità dei suoni (forse in alcuni punti anche eccessivo languore, ma meglio così che col piglio del capobanda). Altro pregevole interprete è senz’altro l’estone Ain Anger, un Fiesco perfettamente fraseggiato, che si incarna nel suono limpido naturale del basso profondo capace al contempo di piacevolissima aderenza alle linee di canto. Le due new entry nel cast pure si distinguono per la bellezza delle linee vocali: Irina Lungu (chiamata all’ultimo per sostituire l’indisposta Anita Hartig) è una scelta forse non del tutto rassicurante, per il ruolo di Amelia, ma a nostro avviso comunque ben riuscita; la più italiana tra i soprani russi sfodera fin dal primo atto buona tecnica (filati e mezzevoci di prammatica), ma è senz’altro nel fascinoso fraseggio che si spende di più, talvolta a scapito dei centri lievemente sfocati. Matteo Lippi è stato un Adorno godibilissimo sul piano musicale: il tenore sembra aver superato certe emissioni nasali che altre volte lo avevano contraddistinto, proponendo un suono ben proiettato di grande naturalezza, dai colori vivaci e il nobile portamento; avrebbe forse giovato di più alla prova complessiva un minore staticità scenica, ma dato che anche la Lungu si è dimostrata un po’ rigida, sospettiamo che sia solo una questione di poche prove di regia con i nuovi arrivati; in ogni caso, la sua “Sento avvampar nell’anima” è cantata con ineccepibile musicalità e raccogliendo consensi a scena aperta. Roberto De Candia, professionista di riconosciuto talento, dà una resa preziosa dell’antagonista Paolo Albiani, lasciandone emergere aspetti inquietanti e sorprendenti, grazie al mezzo vocale potentissimo gestito con sapiente equilibrio. Luca Salsi, invece, nel ruolo del protagonista, ci è parso oltremodo stanco – e comprensibilmente, dopo tutte le repliche: beninteso, il talento e l’intelligenza musicali ci sono, con il colore bruno forgiato su eleganti portamenti; tuttavia i momenti più godibili della sua performance sono i duetti e i concertati – quello con Amelia del Primo Atto è senz’altro il punto più alto per entrambi gli interpreti coinvolti; nei momenti di sferza o di maggior eroismo, invece, è sembrato mancare di mordente. Funzionali alle parti le interpretazioni dei ruoli di lato (il Pietro di Andrea Pellegrini, l’ancella di Laura Lolita Perešivana, il capitano dei balestrieri di Haiyang Guo); all’altezza delle aspettative la prova del Coro, diretto dal Maestro Alberto Malazzi, soprattutto nel Primo Atto. L’impianto registico di Daniele Abbado (coadiuvato da Angelo Linzalata per le scene), come già è stato fatto notare, è di una linearità eccessivamente parca: siamo in una Genova purgatoriale, dominata da strutture monolitiche grigie (un po’ la cifra stilistica di Abbado), da lumicini colorati e suggestioni di mare, attrezzeria geometrica e lignea d’ispirazione nordeuropea. Altrettanto anonimi i costumi di Nanà Cecchi (con anche un plateale errore: il serto dogale, in mancanza di una corona, diventa il manto di Boccanegra), e piuttosto evanescente anche il lavoro attoriale, che non punta a eviscerare i personaggi dai loro ruoli stereotipati, né ad indagare davvero in scena il gioco delle relazioni e del potere – in pochissimi si toccano, ad esempio. A salvarci dal gelo che spira dal boccascena, provvidenziali allora arrivano le luci di Alesandro Carletti a dare effettiva tridimensionalità e profondità espressiva, a evocare un altrove magnifico e affascinante – pensiamo ad esempio all’apertura del Terzo Atto –, insomma a darci un pochino di quella magia, quel sogno, cui l’opera dovrebbe sempre provvedere. Foto Brescia & Amisano

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: Alpesh Chauhan interpreta l’Ottava di Bruckner

gbopera - Mar, 27/02/2024 - 08:15

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Alpesh Chauhan
Anton Bruckner: Sinfonia n.8 in do minore WAB108 (versione 1890, revisione Leopold Nowak)
In occasione del 200° anniversario della nascita di Anton Bruckner
Venezia, 23 febbraio 2024
L’ultimo decennio della vita di Bruckner è segnato da un progressivo affermarsi della sua musica sia in America – Theodore Thomas dirige a New York la Settima Sinfonia – sia in Europa: in particolare, nell’“ingrata” Vienna, dove Hanslick elogia il suo Te Deum, l’imperatore Francesco Giuseppe gli conferisce la croce di cavaliere e Brahms si riconcilia con lo schivo compositore. Solitario uomo d’altri tempi, fedele alla vecchia provincia, ancora legata a un patriottismo devoto e a un anacronistico ideale feudale, Bruckner si segnalava per i modi eccessivamente cerimoniosi (ne sapevano qualcosa Liszt e Wagner, fatti oggetto di una devozione esagerata), come per l’arrendevolezza spesso dimostrata di fronte a troppo zelanti allievi, pronti a dargli consigli riguardo alle sue composizioni: dati comportamentali, che si spiegano con la sua lunga frequentazione, in gioventù, dell’ambiente ecclesiastico, ma anche legati alla generale rilassatezza della società nell’“età giuseppina”, immersa in una quiete apparente, ad esorcizzare un sotterraneo imperativo: “Cupio dissolvi”. Una realtà che si rispecchia anche nell’Ottava sinfonia, non a caso dedicata al venerato imperatore Francesco Giuseppe.
Nel concerto di cui ci occupiamo la direzione dell’ultimo lavoro sinfonico compiuto di Anton Bruckner era affidata ad Alpesh Chauhan, tornato sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice in occasione del duecentesimo anniversario della nascita del compositore austriaco. Particolarmente pregnante la lettura offerta dal giovane maestro britannico, che ha saputo mettere in evidenza le macrostrutture come ogni dettaglio della più monumentale tra le partiture sinfoniche bruckneriane, oltre alla sua ricchezza di significati e climi espressivi: squarci lirici ed esplosioni di energia, momenti di esasperato intimismo e ingenue esternazioni di gioia, profonde meditazioni sul mistero dell’esistenza e fervide professioni di fede. Esemplare per intonazione, coesione, qualità del suono – nell’insieme come negli interventi di un determinato gruppo strumentale o di un singolo strumento – la compagine orchestrale, che ha pienamente assecondato l’autorevole – a tratti adorabilmente enfatico – gesto direttoriale. Un sentimento di ansiosa attesa ha percorso il primo movimento – dove ricorrono gli stessi elementi intervallari e soprattutto la cellula ritmica costituita da una duina seguita da una terzina – caratterizzato da tre aree tematiche. All’inizio della prima area, su un tremolo dei violini – tipico in Bruckner – i bassi hanno intonato sommessamente un tema cromatico, dal carattere misterioso, sulla stessa formula ritmica spezzata di quello che apre la Nona di Beethoven. Legni e archi, con i loro accostamenti timbrici, si sono segnalati nella seconda area più cantabile, iniziata da una linea ascendente in modo maggiore, mentre la terza area, culminata con grande energia in un climax, si è spenta in una coda con la ripetizione ossessiva di una cellula cromatica discendente, che era quasi un lamentoso glissando.
Nello Scherzo – anteposto all’Adagio come nella Nona di Beethoven – i violini hanno brillato nella ripetizione compulsiva, a livello delle prime battute, di un frammento della scala discendente di do minore, cui ha corrisposto l’intervento ascendente – subito seguito, nelle tre misure seguenti, da una brusca caduta – di viole e violoncelli: un materiale in apparenza tanto semplice, con cui Bruckner tratteggia affettuosamente il carattere del “Deutsche Michel” – il buon contadino tedesco – con tratti di acuta ironia (o forse autoironia). Nel Trio – una sorta di idillio campestre – hanno primeggiato le arpe (presenti per la prima volta in una sinfonia di Bruckner) e i corni, su un pizzicato degli archi. Ma Chauhan ha superato se stesso nell’Adagio, dove ha delineato con estrema espressività questo vero e proprio “flusso di coscienza”, dove il canto ha predominato in tre successive aree melodiche: nella prima, aperta dalla melodia del violino, su un fremito delicato dell’orchestra, cui ha risposto un tema in forma di corale, seguito da una cadenza con l’intervento dell’arpa, ad impreziosire il disegno degli archi; nella seconda, aperta dai violoncelli, percorsa da un soffuso lirismo; nella terza, in cui si è imposto con pacatezza il trombone, a cui hanno degnamente risposto gli archi. Nel punto culminante del movimento l’intervento dei piatti e del triangolo ha intensificato la potenza dell’intera orchestra e successivamente quattro corni hanno accennato, con nostalgia, il tema di Siegried, dal Ring di Wagner e lentamente tutto si è spento in un silenzio, da cui è nata una coda dai toni diffusamente raccolti, ma animata dal contrasto tra le sonorità degli archi e il timbro metallico dei corni e delle tube wagneriane, con effetto tanto efficace quanto raro.
Analogamente pregante è risultato il gesto direttoriale nel quarto movimento – anch’esso costruito in base a ragioni più di ordine psichico che musicale –, che è iniziato con una “cavalcata” scandita con furore dionisiaco dai timpani a sostenere l’intervento massiccio degli ottoni: una sorta di apoteosi che è finita nel nulla. Seguivano, in successione: un secondo elemento tematico più pacato, desunto dall’Adagio; un terzo elemento che, introdotto da un clima oscuro, si è poi rivelato inaspettatamente uno squarcio di struggente lirismo; un climax altrettanto imprevedibile. Potente la coda finale con i corni che hanno ripreso, verso la conclusione, l’elemento ascendente dello Scherzo: un gesto suggestivo a conclusione di un lungo viaggio sonoro, alla scoperta di territori sconosciuti. Come altre volte l’ascolto di queste battute finali, in cui tutto si ricompone in una superiore armonia, ci ha fatto tornare alla mente gli ultimi versi del Paradiso dantesco:A l’alta fantasia qui mancò possa;/ma già volgeva il mio disio e ’l velle,/sì come rota ch’igualmente è mossa,/l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Successo travolgente con reiterati applausi e qualche ovazione per il maestro e l’orchestra.

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Verona: al Teatro Nuovo, dal 27 febbraio al 3 marzo è di scena “L’uomo più crudele del mondo” di Davide Sacco

gbopera - Mar, 27/02/2024 - 00:28

Nell’ambito della rassegna “Il Grande Teatro” organizzata dal Comune di Verona e dal Teatro Stabile di Verona, è in programma, al Nuovo da martedì 27 febbraio a sabato 2 marzo alle 20.45 e domenica 3 marzo alle 16.00, “L’uomo più crudele del mondo” con, protagonisti, Lino Guanciale e Francesco Montanari. Il testo è di Davide Sacco che cura anche la regia. Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Bellini, da LVF e dal Teatro Manini di Narni. La vicenda si svolge in una stanza spoglia, in un capannone abbandonato con i rumori della fabbrica fuori e il silenzio totale all’interno. Seduto alla sua scrivania c’è Paolo Veres, considerato dalla gente l’uomo più crudele del mondo. Proprietario della più importante fabbrica di armi d’Europa, ha davanti a sé un giovane giornalista di una testata locale incaricato d’intervistarlo. In un susseguirsi di serrati dialoghi emergeranno le personalità dei due personaggi e il loro passato, con un finale che ribalterà ogni prospettiva. «Fino a dove – si chiede il regista e autore Davide Sacco – può spingersi la crudeltà dell’uomo? Qual è il limite che separa una brava persona da una bestia? A cosa possiamo arrivare se lasciamo prevalere l’istinto sulla ragione? Queste domande mi hanno guidato durante la stesura del testo e, successivamente, nella direzione degli attori. Volevamo che il pubblico fosse costantemente destabilizzato e non avesse certezze, che si calasse insieme ai personaggi in un viaggio in cui il rapporto tra vittima e carnefice è di volta in volta messo in discussione e ribaltato. La “feccia” di cui parlano i protagonisti non è visibile nella scena, fatta essenzialmente di luci fredde e asettiche, ma deve emergere gradualmente fino al finale, in cui speriamo che il titolo dello spettacolo possa diventare nella testa degli spettatori non più un’affermazione ma una domanda – conclude Sacco – per riflettere sulla natura del genere umano». Qui la nostra recensione.
Biglietti in vendita al Teatro Nuovo, a Box Office e on line su
www.boxofficelive.it e www.boxol.it/boxofficelive

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Bologna, Comunale Nouveau: “Il Trovatore”

gbopera - Lun, 26/02/2024 - 19:12

Bologna, Comunale Nouveau, Stagione d’Opera 2024
IL TROVATORE
Dramma lirico in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano, tratto dal dramma El Trovador di Antonio García Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Conte di Luna LUCAS MEACHEM
Leonora MARTA TORBIDONI
Azucena CHIARA MOGINI
Manrico ROBERTO ARONICA
Ferrando GIANLUCA BURATTO
Ines BENEDETTA MAZZETTO
Ruiz CRISTIANO OLIVIERI
Un vecchio zingaro SANDRO PUCCI
Un messo ANDREA TABOGA
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Davide Livermore ripresa da Carlo Sciaccaluga
Scene Giò Forma
Costumi Anna Verde
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna con Teatro Regio di Parma
Bologna, 23 febbraio 2024
Qui non c’è progresso tecnico, né novità, né riforme di procedure, né ricerche, né conquiste istruttive. La fattura è più che normale, anzi è ovvia addirittura”. Così, a proposito del Trovatore, si esprime Barilli nel tipico testo più citato che letto: arduo sottoscrivere, a meno che non ci si lasci ammaliare dall’ipnotico incedere della sua seducente prosa di sirena. Arduo ancor di più se si abbia appena esperito l’opera in questa direzione di Renato Palumbo: ci sono un certo disincanto, un’elasticità vigorosa, un gesto asciutto ma lubrificato, fluido. E un meccanismo orchestrale palpitante, che risponde con esattezza e poesia. Come assurge, allora, all’altezza che le appartiene, e che tuttavia non sempre le vien resa, ad esempio, la sublime introduzione alla quarta parte, alla scena della torre. Stile, garbo, eleganza: senza concessioni al popolaresco deteriore, che di Verdi, a dispetto del luogo comune, non è mai. E qui il coro. Accenta, sfuma, e si scioglie nelle più tenere e delicate possibilità dinamiche, da lasciar deliziati. Soldati sì, zingari sì, e pure gloriosi, e turgidi: ma sguaiati, stravaccati, questo no. Nel cast spicca su tutti Marta Torbidoni per la dimensione e la qualità del suo sontuoso mezzo vocale, limpidissimo a dispetto del nome, lucente, femminile, etereo ma dalla consistenza solidissima, corposa, muscolare. Un gran manto di voce può impacciarne i movimenti, e invece a lei consente agilità assai belle. Fatto non scontato, e che evoca alcuni mostri sacri del canto germogliati all’ombra del mitico García, che nel secolo scorso ci sono stati donati dalla Spagna e, più precisamente, dalla Catalogna. All’inizio del 2022 Lucas Meachem si è trovato nella scomodissima posizione di dover sostituire l’annunciato Tézier nel ruolo di Athanaël nella Thais alla Scala: le proporzioni vocali erano e sono differenti, ma la qualità, il pregio del timbro morbido, caldo e luminoso insieme sono ben comparabili, e nella sensibilità musicale, nella finezza d’accento e sfumature con Meachem si va anche oltre. Il Conte di Luna è, però, un’altra faccenda. Forse sarebbe stato più stimolante mettere da parte lo slancio aggressivo, che pure appartiene al personaggio, per accentuarne il lato melanconico, per farne un raffinatissimo aristocratico, un cuore nobile e offeso. Senza voler fare del Balen un Lied di Schubert: però guardando più a Fischer-Dieskau che a Guelfi, due nomi grandi tanto per capirci. Non sarebbe stato il Conte di Luna, ma sarebbe potuto essere un Conte di Luna di grande interesse. Sulla protagonista, Chiara Mogini (perché è nostra convinzione che la protagonista dell’opera sia Azucena), ci sono ben pochi appunti e considerazioni da fare: la voce è bella, non incontra difficoltà né fratture nell’ampia estensione, è perfettamente in ruolo. E per di più la presenza scenica è la più catturante, con un’interpretazione di valore: non una pazza scalmanata, ma un’angosciata nevrotica che vive nell’incubo del suo trauma. Anche Gianluca Buratto (Ferrando)sembra a suo agio, con una bella emissione proiettata in avanti e quindi una schietta voce di basso, senza trucchi per scurirsi. Roberto Aronica (Manrico) ha voce d’importanza, ma alterna fiammate squillanti a troppo frequenti accenti lamentosi, quasi singhiozzati, che non conferiscono grande interesse al fraseggio e che rischiano di velare il bel colore della voce di una evitabile opacità. Nelle parti di fianco:  Cristiano Olivieri (Ruiz), Sandro Pucci (un vecchio zingaro), Andrea Taboga (Un messo),si segnala la Ines di Benedetta Mazzetto. L’allestimento è quello parmense di Davide Livermore: rivedendolo ora, schiacciato nel palcoscenico del Nouveau, bisogna riconoscere che vi si è adattato con molta maggiore elasticità di altri colleghi spettacoli che, belli dov’erano nati, col trasferimento perdevano tanto o tutto. L’immaginario e l’estetica sono agli antipodi tanto dell’opera quanto dal gusto di chi scrive, ma lo spettacolo è condotto con grande mestiere, e questo va riconosciuto. Il genere dell’allestimento non è moderno, o nuovo, o contemporaneo, o d’avanguardia, o che dir si voglia: anzi è reazionario addirittura. I solisti sono sostanzialmente abbandonati alle loro personalità, qualora ne siano provvisti, mentre per le masse c’è la normale amministrazione, con acrobati e mimi che fanno il resto. Aleggia un manierismo zeffirelliano, complici i pagliacci: ma la differenza è che in Zeffirelli l’horror vacui produce scene e costumi di sfarzo esplosivo, in Livermore invece si traduce in movimento, quello eterno del girevole che fa di alcune sue produzioni stancanti trottole liriche.

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Il ritorno di Juraj Valčuha con l’orchestra RAI

gbopera - Dom, 25/02/2024 - 17:58

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino. Stagione Sinfonica 2023-24.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Pianoforte Dmytro Choni
Johannes Brahms:Concerto per pianoforte e orchestra in re minore n.1 op.15; Robert Schumann: Sinfonia n.2 in DO Maggiore op.61.
Torino, 22 febbraio 2024
Il rapporto artistico di Schumann con Brahms potrebbe essere assimilato a quello tra Johan Sebastian e Carl Philip Emanuel Bach, una continuità nell’evoluzione stilistica, se non ci fossero di mezzo, a renderlo meno lineare, altre ardite complicazioni dei rapporti interpersonali. Il primo concerto per pianoforte dell’amburghese è comunque strettamente connesso a “casa Schumann”. In origine c’erano gli abbozzi, gli sforzi, lo studio per completare una prima sinfonia che lo collegasse, lui ventenne, ai miti della musica germanica. Quattro anni di gestazione e di travagliate versioni alternative, con un parto sempre più dilazionato, lo convincono, o forse lo convince la grande pianista e (non solo) amica Clara Wieck-Schumann, la moglie di Robert, a metamorfizzare le pagine in un Concerto per pianoforte e orchestra. Vi rimane comunque, anche nella versione definitiva, soprattutto nel primo movimento Maestoso, il marchio sinfonico che, grazie ad un’orchestra con un percorso ben sviluppato, lascia spazi risicati all’estroversione del solista. Il pianista riconquista una certa centralità nei successivi Adagio e Rondò, ove condivide equamente il primato coi colleghi alle sue spalle. Anche in questa esecuzione, con la sempre eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, sotto la guida dell’amatissimo, in città, Juraj Valčuha, non è stato facile per il giovane pianista ucraino Dmytro Choni emergere. Nel primo tempo, valanghe di suono orchestrale gli incombevano possenti sulla tastiera. Emerso e rassicurato nell’Adagio mediano, trovandovi nella sua elegante classicità terreno propizio, ha poi brillato con divertita vivacità nel finale Rondò. Choni non era il pianista originariamente designato e ha sostituito, in ultima istanza, il titolare indisponibile. Si dice che sia la chiamata che il programma fossero per lui una sorpresa; se così fosse: diventano giustificabilissime le inevitabili timidezze e cautele iniziali. Al solista si richiede sempre un bis e Choni non vi si è sottratto eseguendo un brillante, salottiero e incantevole “Bel Danubio blu” di Strauss, in una trascrizione per pianoforte, con variazioni allegate, del non notissimo Adolf Schulz-Evler. Dita magiche, souplesse da atleta ed eleganza da dandy hanno scatenato applausi rivelatisi purtroppo inefficaci a costringerlo a un desiderato secondo “encore”. Ci si augura che, dopo questa rottura del ghiaccio, si trovi, nelle società musicali della città, chi di Dmytro Choni promuova un ritorno, meglio se con un programma solistico. Durante i sette anni in cui Valčuha è stato il Direttore Principale dell’OSN RAI, il pubblico torinese, oltre ad apprezzarne la profonda intesa con l’Orchestra, ha sempre ammirato le brillanti esecuzioni di musiche genericamente slave o comunque defilate dal classicismo austro-tedesco, nutrendo sulla resa di queste ultime delle caute riserve. I dubbi si ripresentano ora con la seconda sinfonia di Schumann in programma. Tra la Turingia di Schumann e la Slovacchia di Valčuha non c’è poi una grande distanza per cui potrebbe essere ritenuto non del tutto ingiustificato il volgersi più al colore orchestrale che alla struttura della forma, come appunto si trova nell’interpretazione di Valčuha. Anche in Schumann la vena melodica popolareggiante convive con l’accademismo formale e la ricerca d’altre strade che contemplino paesaggi venati da abbandoni e da turbative psicologiche. Grazie ad un’Orchestra che ormai ci siamo abituati a sentire sempre sopra le righe, sia per maestria tecnica che per bellezza di suono, la sinfonia si dispiega su pagine di splendore fonico, con melodie sia accennate che messe in bell’evidenza. Corni e legni fissano un clima, colto appieno da Valčuha, di racconto romantico che ben sopporta la messa in secondo piano dell’architettura formale della sinfonia. Spigliatezza e facilità esecutiva tengono il campo e promuovono questo accostamento disinibito che mai denuncia quelle debolezze di orchestrazione che un tempo venivano attribuite all’opera sinfonica schumanniana. Il buon successo era scontato e così è stato, senza indecisioni. Il numeroso pubblico ha espresso soddisfazione ed apprezzamento applaudendo con entusiasmo sia l’orchestra che le sue prime parti e, con rinforzata intensità, il Maestro Valčuha.

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Roma, Museo di Trastevere: La mostra ” Rino Gaetano”

gbopera - Dom, 25/02/2024 - 11:50

Roma, Museo di Trastevere
RINO GAETANO
A cura di Alessandro Nicosia e Alessandro Gaetano
Organizzata e realizzata da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare, con il patrocinio del Ministero della Cultura e la media partner di Rai, con la collaborazione di Universal Music Publishing Group
“Io cerco di scrivere canzoni ispirandomi ai discorsi che si possono fare sui tram, in mezzo alla gente, dove ti rendi subito conto dell’andazzo sociale. Non voglio dare insegnamenti, voglio soltanto fare il cronista.”
(Rino Gaetano)
Il Museo di Roma in Trastevere ha aperto le sue porte alla prima esposizione mai dedicata interamente a Rino Gaetano, iconico cantautore italiano offrendo al pubblico un’opportunità unica di immergersi nell’universo artistico e umano di uno dei più amati poeti della musica italiana. Attraverso un percorso espositivo che coniuga leggerezza e profondità, la mostra celebra la figura di Rino Gaetano, riconosciuto per il suo stile unico e incisivo. Con una voce ruvida e testi che mescolano apparente leggerezza con contenuti densi, Rino Gaetano ha lasciato un’impronta indelebile nella società e nella politica italiana, affrontando tematiche anche complesse ma sempre  con un pensiero anticonformista e parole semplici. Questo è probabilmente il motivo per cui Rino Gaetano continua ad essere ascoltato e apprezzato anche dopo tanto tempo, rimanendo rilevante per tutte le generazioni. La sua capacità di veicolare messaggi autentici e veritieri conferisce alle sue opere una potenza e un’impronta incisiva che non si attenuano nel tempo, mantenendo una rilevanza e una pertinenza che superano i contesti e le epoche. Quando un messaggio è intrinsecamente vero, conserva la sua forza e il suo impatto, indipendentemente dall’evolversi delle circostanze e delle tendenze culturali.Situata nel cuore di Trastevere, quartiere che ha abbracciato e ispirato il cantautore durante la sua permanenza a Roma, l’esposizione offre uno sguardo approfondito sulla vita e sull’eredità artistica di Gaetano, dalle sue origini a Crotone fino al tragico incidente che lo ha prematuramente allontanato dalla scena musicale. Curata con attenzione e dedizione, la mostra presenta una vasta selezione di materiali inediti, molti dei quali esposti per la prima volta al pubblico, gentilmente concessi dalla sorella Anna. Tra documenti, fotografie, cimeli artistici, raccolte di dischi e memorabilia, i visitatori avranno l’opportunità di immergersi completamente nell’universo di Gaetano, scoprendo la ricchezza e la diversità della sua produzione artistica. Questa mostra non si limita a esplorare l’arte di Rino Gaetano; si propone piuttosto di immergersi nell’animo del giovane uomo, nei suoi sogni, nelle sue prospettive e nella sua vita quotidiana. L’esposizione racconta le avventure e la dimensione personale e privata  dell’artista, andando oltre la sua sfera puramente artistica. In questo contesto, la mostra assume un carattere intimo, quasi come se fossimo invitati a svuotare i cassetti della nostra camera da letto e condividerne il contenuto su bacheche espositive. Sebbene gli spazi a Trastevere siano adeguati, il percorso risulta leggermente angusto e le ampie vetrate del chiostro, seppur suggestive, potrebbero non valorizzare appieno l’esperienza espositiva, rendendola sembrare quasi un passaggio fugace anziché un’immersione completa nell’universo di Gaetano. Ciò che veramente resta e che appaga fortemente il visitatore è  l’ esperienza multisensoriale, con proiezioni video delle performance più celebri di Gaetano, partecipazioni a talk show e concerti. Per coloro che desiderano vivere appieno la potenza della sua musica, sono previste performance live di Alessandro Gaetano (nipote di Rino Gaetano), accompagnato dalla Rino Gaetano Band e da Diana Tejera, che regaleranno al pubblico mini concerti acustici, amplificando l’impatto emotivo e artistico dell’esposizione. Le date dei concerti saranno comunicate attraverso il sito ufficiale del Museo di Roma in Trastevere, offrendo così a tutti gli appassionati l’opportunità di partecipare a questo straordinario tributo a uno dei più grandi cantautori della musica italiana.

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 Julien Dran et Jérôme Boutillier:”Freres”. Un nouveau duo vocal

gbopera - Dom, 25/02/2024 - 08:38
Echange croisé pour la présentation de “FRERES”, un nouveau Duo de deux voix masculines, plutôt rare. Souvent frères ennemis à la scène, les deux chanteurs Julien Dran, ténor, et Jérôme Boutillier, baryton, partagent une solide amitié dans la vie et une passion commune, la musique et la musique vocale en particulier. Ils profitent d’un moment de repos entre les répétitions de “La Traviata” où ils se retrouvent pour nous présenter ce nouveau Duo. Etrangement ils se sont connus pendant cette épouvantable période Covid. Contrats annulés, incertitudes, repos obligé, presque un vide sidéral. La production “Faust Nocturne” annulée les rapproche et ils se découvrent. Même âge, même envie de chanter, même culture musicale, jusqu’à cette envie d’évasion pour des balades à moto. Alors, pourquoi ne pas échanger sur scène et partager cet amour du chant ? Le choix est vaste et l’on peut piocher ici ou là suivant les époques et les compositeurs. Le temps de trouver un pianiste, le duo “Frères” était né.

Julien Dran nous dit combien il est enthousiasmé par ce projet : Nos timbres de voix s’accordent. A Limoges, pendant cette horrible période où le “Faust Nocturne” est annulé, où les salles sont vides où chanter à huis clos est un pis-aller, nous imaginons ce duo. Martin Kubich, le directeur de l’Opéra de Vichy nous donne le feu vert pour une représentation filmée à huis clos. C’est un plaisir immédiat, un bol d’oxygène dans cet arrêt anxiogène dont je n’imaginais pas la fin. – Je n’ai pas vécu cette période de façon aussi stressante nous dit Jérôme Boutillier. Un repos forcé, certes, mais avec des moments de réflexion puis, étant pianiste, j’ai eu le temps de perfectionner certaines choses, de continuer à chanter des Lieder en m’accompagnant. C’est vraiment un plaisir intense. Nous avons eu la chance de nous retrouver à Marseille en 2020 Julien et moi où Maurice Xiberras, le directeur de l’Opéra, avait maintenu une représentation des “Pêcheurs de perles” à huis clos toujours, mais en présence de quelques journalistes. Plaisir immédiat encore et confirmation de notre choix.
Amitié contrariée, rivalités mais très beaux duos dans cet opéra de Georges Bizet où nos voix s’unissent dans une même esthétique musicale. Julien Dran enchaîne : Dans “La Traviata” c’est différent, les rapports entre père et fils sont assez violents, je reçois même une gifle à laquelle je ne peux répondre. Vous imaginez ! Mais notre amitié résiste même à cela et, quoiqu’il se passe sur scène nous nous retrouvons devant un verre…de thé (dit-il avec humour, regardant sa théière), avec cette envie de plaisanter et des blagues potaches.

Êtes-vous toujours d’accord sur le choix des morceaux ? En principe oui nous dit Jérôme, nous connaissons bien nos voix, la nôtre et celle de l’autre. Notre programme peut évoluer tout en gardant une certaine cohérence mais en restant surtout dans nos possibilités vocales du moment. Nous nous interdisons les ouvrages trop lourds ; un air peut-être, mais avec modération… Avez-vous des projets précis ? Julien tient à préciser. Des envies nous en avons plein la tête. Il faut un certain temps pour se faire connaître, les directeurs de théâtres sont souvent frileux, surtout en ce moment où les restrictions budgétaires sont monnaie courante. Nous aimerions pouvoir chanter avec orchestre. Pour un chanteur, l’orchestre est un soutien, il donne du relief et même de l’ampleur à la voix. Il faut aussi que le public suive ; il est habitué aux récitals et, pour un certain public un peu rebuté par la longueur de certains opéras, l’écoute de ces airs connus est un moment de réel plaisir. Avez-vous remarqué combien sont prisés maintenant ces opéras donnés en version concert ? J’ai eu le plaisir d’interpréter ici même, en novembre 2022, le rôle de Leicester au côté de Karine Deshayes (Elisabetta d’Inghilterra, de Gioacchino Rossini). Le public réagit bien en immédiateté, concentré sur le chant et les voix, sans doute lassé de certaines mises en scène. Le choix d’un pianiste a-t-il été évident ? Les choix ne sont pas toujours évidents nous dit Jérôme mais là, notre duo s’est transformé en trio musical. Mathieu Pordoy excellent pianiste, chef de chant connaissant parfaitement les voix et les accompagnant avec un plaisir évident a tout de suite adhéré à notre projet et à cette nouvelle aventure, élaborant un programme en très peu de temps. Pas toujours évident. Chanter devant une salle vide est totalement mortifère. Ce sont des expériences que nous n’aimerions pas renouveler. Mais nous remercions vivement Martin Kubich qui nous a immédiatement fait confiance pour cette captation à Vichy en remplacement du “Faust Nocturne” musique de Lionel Ginoux sur un texte d’Olivier Py dans lequel nous devions chanter. Nous avions déjà répété et nous avons décidé avec Julien de passer du négatif de cette annulation au positif de ce projet enthousiasmant.
Est-il aisé techniquement d’enchaîner des rôles parfois très différents ?
Julien Dran nous répond immédiatement (sans doute est-ce moins évident pour un ténor) : Au-delà de la technique il y a le côté émotionnel. Les sentiments changent et la voix doit aussi s’adapter à ces nouvelles émotions. Cela demande une certaine souplesse mais pas que, il faut aussi une réelle réactivité. Nous adaptons le programme en fonction nous dit Jérôme. Nous intercalons certains morceaux pour une voix, le temps de laisser redescendre la tension. Avez-vous pensé à l’évolution des voix ? Certes oui reprend Jérôme, nous sommes très attentifs aux morceaux programmés et nous pensons qu’en faisant très attention à l’évolution de nos carrières, à la technique, mais surtout à l’esthétique musicale que nous avons en commun, l’évolution se fera dans le bon sens. Et avec cette amitié qui, malgré nos affrontements virils, laisse intact le plaisir de chanter enchaîne Julien avec un sourire malicieux et l’œil qui frise. Difficile de concilier vos agendas ? Nous faisons le maximum et comptons aussi sur les programmations qui pourraient nous réunir comme ici avec “La Traviata”. Les directeurs de théâtres y veilleront peut-être. Alors unis ? Unis ! Répondent-ils dans un bel unisson qui promet de beaux moments vocaux.

Categorie: Musica corale

“Aux étoiles”: French Symphonic Poems

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 22:35

CD 1: César Franck (1822-1890): Le Chasseur maudit; Ernest Guiraud (1837-1892): Ouverture d’Arteveld; Lili Boulanger (1893-1918): D’un matin de printemps; Vincent D’Indy (1851-1931): Istar; Paul Dukas (1865-1935): L’Apprenti Sorcier; Alfred Bruneau: La Belle au bois dormant; Augusta Holmès (1874-1903): La Nuit et l’Amour,
CD 2: Mel Bonis (1858-1937): Le Rêve de Cléopâtre; Henri Duparc (1848-1933): Aux étoiles; Ernest Chausson (1855- 1899): Viviane; Charlotte Sohy (1887-1955): Danse mystique (Sohy); Emmanuel Chabrier (1841-1894): España; Victorin Joncières (1839-1903): La Toussaint; Camille Saint-Saëns (1835 -1921) Danse macabre; Henri Rabaud (1873-1949): La Procession nocturne. Orchestre National de Lyon. Nikolaj Szeps-Znaider (direttore). Registrazione: Auditorium di Lione, 3-7 maggio 2021 e 6-9 settembre 2022. 2CD BZ2007

Aux Étoiles, con chiaro riferimento al titolo del poema sinfonico di Duparc, uno dei 15 brani in programma in questo doppio album, costituisce l’ennesima ottima proposta discografica del Palazzetto Bru Zane di Venezia, che, dedito alla riscoperta e alla promozione della musica romantica francese, ha tracciato per l’ascoltatore un meraviglioso itinerario di viaggio nel mondo dei poemi sinfonici composti in Francia tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Tappe di questo viaggio sono pagine giustamente celebri e rimaste nel repertorio come L’Apprenti Sorcier di Paul Dukas, la Danse macabre di Camille Saint-Saëns, España di Emmanuel Chabrier e La Belle au bois dormant di Alfred Brumeau, insieme ad altre quasi del tutto sconosciute, nonostante siano di grandi compositori come Le Chasseur maudit di Franck o Istar di Vincent d’Indy o ancora Viviane di Ernest Chausson. Accanto a questi nomi figurano quelli di altri compositori meno noti a un pubblico di non addetti ai lavori, tra cui quelli di donne come Lili Boulanger, Augusta Holmès, Mel Bonis e Charlotte Sohy,  che avrebbero meritato e meriterebbero anche oggi una maggiore fortuna. Sorella minore della più famosa Nadia, Lili Boulanger, stroncata alla giovanissima età di 21 anni dalla tubercolosi, aveva, comunque, già dato prova del suo talento che non era sfuggito a Ricordi e del quale un fulgido esempio è D’un matin de printemps,
composto originariamente tra il 1917 e il 1918 per violino (o flauto) e pianoforte insieme a un altro pezzo, D’un soir triste, con il quale forma un dittico. Figlia di Alfred De Vigny, Augusta Holmès, che fu allieva di Franck, fu vittima anche di una certa misoginia evidente nella tiepida accoglienza tributata alla sua opera La Montagne Noire alla prima rappresentazione all’Opéra nel 1895 e nel fatto che altre sue opere non videro la scena mentre era ancora in vita. Della sua produzione è qui proposto l’Interludio dell’ode sinfonica Ludus pro patria, ispirata a un quadro omonimo del pittore Pierre Puvis de Chavannes. Allieva di D’Indy, Charlotte Sohy, che, insieme al marito Marcel Labey, compositore e direttore d’orchestra, costituì una singolare coppia nella storia della musica dando vita a una collaborazione di un certo valore, si firmò, come aveva fatto prima di lei la poetessa George Sand, con un nome maschile, che in questo caso fu quello di suo nonno “Charles Sohy”. La Danse mystique, qui proposta, che è una delle sue rare composizioni per orchestra, alla prima esecuzione, avvenuta il 14 gennaio 1923, fu oggetto degli strali della stampa ad eccezione de “L’Écho de Paris” sul quale si lesse a proposito dei due temi che erano “abilmente presentati e sostenuti da un’orchestrazione che suona bene”. Tra le compositrici, che figurano in questa proposta discografica, quella che ebbe maggiore successo fu certamente Mel Bonis, che divenne membro della Société des compositeurs de Musique nel 1910. Un anno prima aveva composto Le Rêve de Cléopâtre, versione orchestrale del brano per pianoforte a quattro mani intitolato Le songe de Cléopâtre, nel quale in una scrittura di matrice debussiana, è evocato il sogno premonitore della regina che vede la sua prossima morte. Completano il ricco programma: l’Ouverture d’Arteveld di Ernest Guiraud, famoso per aver composto i recitativi della Carmen di Bizet; La Toussaint di Victorin Joncières, il cui carattere triste esprime il dolore del compositore per la perdita della moglie; Aux étoiles di Henri Duparc, frammento sinfonico dell’incompiuta opera Roussalka, e, infine, La Procession nocturne di Henri Rabaud, una pagina che denuncia la sua influenza wagneriana. Si tratta, dunque, di un ricco corpus di opere, molto bene affrontato dall’Orchestre National de Lyon sotto la direzione di Nikolaj Szeps-Znaider il quale, di queste partiture finemente orchestrate, ha ben evidenziato la varietà dei colori orchestrali attraverso la scelta dei tempi e delle sonorità, quest’ultime mai eccessive, e anzi estremamente morbide nei momenti di carattere lirico. Completa la proposta discografica il Booklet di Étienne Jardin che si configura come un sintetico, ma completo saggio di musicologia, nel quale sono svelati tutti i segreti delle opere, dei compositori e delle compositrici. 

 

Categorie: Musica corale

Roma, Galleria d’Arte Moderna: “Reality Optional. Miaz Brothers con i Maestri del XX secolo”

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 22:12

Roma, GAM Galleria d’Arte Moderna
REALITY OPTIONAL. MIAZ BROTHERS CON I MAESTRI DEL XX SECOLO
In collaborazione con Wunderkammern Gallery 
Roma, 23 Febbraio 2024
L’esposizione inaugura un percorso artistico e culturale per celebrare il centenario della Galleria d’Arte Moderna, unendo i capolavori della Gam al linguaggio innovativo dei Miaz Brothers. Con circa 60 opere, coinvolge lo spettatore in un gioco di percezione e reinterpretazione dei grandi maestri, in cui i soggetti appaiono sfocati. I Miaz Brothers, esperti nel tema della percezione e della realtà, esplorano la “post-verità” attraverso uno stile ritrattistico unico, in un punto d’arrivo significativo del loro percorso artistico. l concetto di Post-verità si riferisce a notizie false accettate come vere da molti, basate su emozioni e pregiudizi anziché su fatti oggettivi. La manipolazione avviene attraverso il linguaggio, trasformato in arte da due artisti che esplorano da vent’anni la percezione e la relazione tra realtà e immaginazione. Le loro opere non predeterminano una verità da rivelare, lasciando la realtà aperta e inafferrabile. I due fratelli spiccano nell’ambito artistico per un approccio rivoluzionario al ritratto, che abbraccia l’aerografo e la pittura acrilica come strumenti primari. Il loro lavoro si distingue per la creazione di immagini enigmatiche, caratterizzate da contorni sfumati che sfidano la nostra percezione stessa. In un mondo dove la nitidezza e la precisione dominano, essi abbracciano la sfocatura come mezzo per esplorare l’ambiguità e la complessità dell’esistenza umana. I dipinti dei Miaz Brothers sono un invito a un viaggio emozionale e intellettuale, poiché provocano stimoli e associazioni differenti in ciascun osservatore. La loro opera si presta a una vasta gamma di interpretazioni, senza mai consentire una definizione definitiva. Ogni individuo è libero di immergersi nel mondo suggestivo e surreale che essi creano, trovando significati personali e connessioni uniche. Attraverso il loro uso innovativo della tecnica e della forma, i Miaz Brothers sfidano i confini tradizionali dell’arte del ritratto, spingendo gli spettatori a interrogarsi sul significato e sulla natura stessa della rappresentazione. Le loro opere sono dei veri e propri enigmi visivi, che invitano gli osservatori a esplorare l’intersezione tra realtà e sogno, tra forma e sfocatura, tra certezza e incertezza. Il percorso espositivo si articola in quattro sezioni. “OLD MASTERS” presenta opere reinterpretate attraverso la tecnica della sfocatura, confrontandole con capolavori della collezione capitolina. In “FAKE DUETS”, ritratti femminili della collezione entrano in dialogo con la riproduzione fuori fuoco dei due artisti. “BLURRED PERSONALITIES” espone ritratti deformi o parzialmente cancellati, accanto a opere di ispirazione provenienti dal museo. Infine, “NEW TREND AND EXPERIMENTS” presenta figure sfocate che osservano opere di grandi artisti contemporanei, con riflessi su opere della collezione Gam, evidenziando un gioco di ispirazioni visive tra passato e presente. La mostra si dispiega attraverso gli intricati spazi del GAM su due piani, offrendo una suggestiva esperienza labirintica. Due imponenti sfere metalliche fungono da elementi riflettenti, creando un’atmosfera in cui il visitatore e le opere si fondono in suggestivi giochi di luce, spesso regalando riflessi insoliti e onirici. Pur non rappresentando una novità assoluta nell’ambito espositivo, essendo già state impiegate in diverse mostre o istallazioni (ricordiamo quella di Escher a Palazzo Bonaparte e quella su Copernico ai Fori Romani) la presenza delle sfere non perde di impatto, contribuendo ad arricchire l’esperienza visiva complessiva. Le didascalie, seppur esaustive, potrebbero beneficiare di un impatto più efficace, specialmente considerando la stampa su pannelli di considerevole altezza senza un’adeguata disposizione per agevolare la lettura ed in presenza di superfici riflettenti. Le pareti grigio antracite fungono da sfondo ideale per mettere in risalto le opere esposte, mentre quelle colorate risultano meno efficaci nel valorizzare lo spazio espositivo nel suo complesso, rischiando di rendere la mostra meno caratterizzata. Purtroppo, le luci non sempre sono direzionate con la necessaria precisione e mancano talvolta di incisività. Il taglio dell’illuminazione, infatti, in alcuni casi troppo generico e diffuso, può interferire con l’osservazione delle opere, riflettendo e disturbando gli osservatori. Nonostante queste criticità, l’impatto complessivo della mostra è più che accettabile, mantenendo un’interessante proposta. I dipinti dei due artisti contemporanei arricchiscono la collezione permanente, stabilendo un dialogo fluido che esalta forme e contenuti delle opere esposte. Tale approccio potrebbe costituire un valido strumento per aumentare la visibilità e l’apprezzamento del museo tra il pubblico romano e non solo, contribuendo a consolidarne l’identità e l’attrattività, in un contesto dove spesso si punta esclusivamente sulle strutture museali più conosciute. Pertanto, la visita è consigliata per gli amanti dell’arte e per coloro che desiderano scoprire nuove prospettive nel panorama culturale della Capitale. Qui per le date.

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Franco Parenti: “Il figlio”

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 20:45

Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2023/24
“IL FIGLIO”
di Florian Zeller
Nicola GIULIO PRANNO
Piero CESARE BOCCI
Anna GALATEA RANZI
Sofia MARTA GASTINI
Dottor Cohen RICCARDO FLORIS
Vincenzo MANUEL DI MARTINO
Traduzione e Regia Piero Maccarinelli
Scene Carlo de Marino
Costumi Gianluca Sbicca
Musiche Antonio di Pofi
Luci Javier Delle Monache
Produzione Il Parioli / Fondazione Teatro della Toscana
Milano, 21 febbraio 2024
Ci sono alcune cose di cui uno spettatore attento dovrebbe diffidare: la prima, è l’esplosione dei “casi” teatrali (o mediatici, più in generale), ossia quegli autori che fino a un giorno prima non si erano quasi mai sentiti nominare, e dal giorno dopo sono coperti da sperticati encomi e urla al miracolo; la seconda (per oggi, giacché la lista sarebbe ben più lunga) è quando, nella descrizione – non la recensione, beninteso – di uno spettacolo, si usa l’aggettivo “necessario”: “uno spettacolo necessario”, “un testo necessario” eccetera; di questo occorre diffidare per due ordini di ragioni: il primo è che “necessario” è un aggettivo di per sé vuoto (tutto può essere “necessario”, a seconda della necessità), il secondo è che il teatro è lungi dall’essere “necessario” a questo mondo – semplicemente perché, a rigor di logica, si profila come “necessario” ciò la cui presenza può venire meno, e non è il caso del teatro, che ha la sua radice impiantata nei più elementari processi socio-culturali del genere umano. Ci accostiamo, quindi, a “Il figlio” di Florian Zeller con qualche riserva: lui è il drammaturgo quarantacinquenne francese di cui il mondo si è accorto negli ultimi tre anni (due film, un Oscar, traduzioni in decine di lingue e via così), il testo è a più riprese definito “necessario”, anche dall’ufficio stampa del teatro che lo ospita, il Franco Parenti di Milano. Tuttavia mi ha convinto a vederlo il cast davvero stellare coinvolto nella produzione, quattro cavalli di razza (chi più, chi meno giovane) del nostro panorama teatrale e cinematografico. La recita è perfettamente corrisposta alle mie aspettative, con qualche bella sorpresa in più: “Il figlio” di Florian Zeller, lungi dall’essere un testo perfetto – tantomeno “necessario” – dispone di una drammaturgia piuttosto semplice che però conosce momenti di grande intensità e impressività; non si tratta di un testo debole, questo è certo: il gioco delle relazioni che mette in tavola è complesso, non si abbandona a stereotipie di bassa lega, non ha paura del basso come dell’alto. Insomma, un buon testo, che non manca, tuttavia, di alcune forzature – una su tutte, la scarsa credibilità del rapporto tra genitori e disagio filiale: a nessuno viene in mente mai di consultare uno psicologo, un sito internet, un’enciclopedia medica, ma si pensa che ad un ragazzo di buona famiglia che dice frasi come “sono stanco di vivere”, “mi fa schifo tutto”, o che urla al padre “sei uno stronzo” o si taglia le braccia per lenire “l’angoscia della vita”, basti dire “non devi farlo più”, come se si mettesse le dita nel naso. Fortunatamente a smussare queste ingenuità interviene un cast effettivamente in stato di grazia: Giulio Pranno è senza dubbio il golden boy della recitazione italiana degli ultimi anni, e alla prova di palco si presenta con la leggerezza dell’attore cinematografico ma la consapevolezza della complessità del personaggio che gli tocca interpretare; è fragile e animalesco, ambiguo, disperato e fanciullesco allo stesso tempo. È scenicamente più maturo e interessante di molti attori celebratissimi che potrebbero essere suoi padri. Non è questo il caso di Cesare Bocci, che tiene perfettamente testa al giovane talento, senza darci l’immagine di un ruolo macchiettistico o incompiuto: siamo di fronte a un padre vero, a un buon padre, un uomo cui è difficile non voler bene – e questo è pienamente funzionale alla strategia drammatica del testo. Bocci è un interprete fascinoso, dalla vocalità calda e il fraseggio burbero, pienamente focalizzato e di una disarmante naturalezza. Accanto a lui Marta Gastini è un po’ la rivelazione della produzione: giovane matrigna distante sia da Fedra che da Grimilde, la sua performance brilla per la disarmante nonchalance con cui passa dal più esile sermo cotidianus agli accessi selvaggi che puntualmente reprime nel corpo, nel respiro, nella mimica facciale. Conclude il quartetto Galatea Ranzi, semplicemente una delle più grandi attrici italiane viventi, interprete ronconiana, con quella formazione accademica che ancora traspare nelle sonorità modulate del recitato, nei movimenti degli occhi asincroni con il capo, nelle gestualità fluide che si cristallizzano in posizioni naturalmente plastiche. Il suo personaggio, per quanto non protagonista, sa farsi ricordare, grazie anche al magnetismo della sua interprete. Ben recitate e funzionali ai loro ruoli anche le performance di Riccardo Floris (il Dottor Cohen) e Manuel Di Martino (l’infermiere Vincenzo). Anche l’impianto scenico è convincente, per quanto la regia di Piero Maccarinelli si veda solo in controluce – certamente con simili interpreti basta dare un piccolo avvio e si gestiscono da sé, ma avremmo apprezzato almeno qualche costruzione più ardita dell’avanti/indietro, a destra/a sinistra. La scenografia di Carlo De Marino è un interno borghese forse fin troppo essenziale (ad esempio nell’ultima scena la tavola potrebbe essere apparecchiata, dato che si aspettano ospiti a cena), tutto giocato sul contrasto tra fondi scuri e due divanetti bianchi in proscenio, ma considerato che anche i costumi di Gianluca Sbica si attestano quasi tutti sulla scala di grigi e beige, l’insieme conferisce un efficace senso di ordinarietà, omogeneità, tipico della vita borghese dalla quale il personaggio di Nicola vorrebbe scappare; convincenti anche le luci di Javier Delle Monache, specie quelle interne alla scena, nelle cornici dei quadri astratti che cambiano toni di colori. A detta della direttrice del teatro Andrée Ruth Shammah – che ha preso la parola all’inizio – il pubblico meneghino sembra avere ben accolto questo spettacolo, con tutte le date già sold out; siamo certi che anche il resto della tournée (qui gli altri appuntamenti) saprà attirarsi lo stesso calore – come peraltro già ha fatto con le molte date che han preceduto queste recite milanesi. Foto Achille La Pera

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Palladium: “Denti” di Piergiorgio Milano / “Fàtico” di Irene Russolillo

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 19:30

Roma, Teatro Palladium, Orbita/Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza in collaborazione con Fondazione Musica per Roma/Festival Equilibrio 2024
DENTI”
Coreografo e inteprete  Piergiorgio Milano
Consulenti artistici Brune Campos, Claudio Stellato
Georges Bizet: ““Les pêcheurs des perles”, Gian Maria Testa: Il walzer di un giorno
FÀTICO”
Progetto, coreografia, scrittura vocale e performance Irene Russolillo
Composizione, disegno del suono, scrittura vocale e performance Edoardo Sansonne/Kawabate
Disegno luci, direzione tecnica Valeria Foti
Testi: Ladan Osmn, Annamaria Ortese, David Thoreau, Adam Zagajewski, Irene Russolillo
Costumi Marta Genovese
Produzione Orbita/Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza
Roma, 18 febbraio 2024
Solo quindici minuti. È questa la durata del pezzo Denti creato e danzato da Piergiorgio Milano al Teatro Palladium di Roma nel contesto di una collaborazione tra Vertigine, la stagione danza di Orbita/Spellbound curata da Valentina Marini, e il Festival Equilibrio, curato da Emanuele Masi. I denti sono una delle barriere più visibili tra interno ed esterno del corpo, filtrano le nostre parole e le nostre aspirazioni facendole scontrare con la loro ruvida solidità, così come permettono a ciò di cui ci nutriamo di divenire più malleabile e assimilabile. Ciò che colpisce realmente il coreografo e performer Piergiorgio Milano è però la dimensione onirica che accosta la perdita dei denti al preannuncio di un lutto, di una devastante perdita. L’immagine dei denti è del resto associabile a una rocciosità che è sì peso, ma capace di interagire sensibilmente con la gravità. Il morso nasce dal desiderio di trattenere qualcosa, ma solitamente subito dopo viene seguito dal lasciare andare il temporaneo oggetto del nostro desiderio. Il ringhiare è in realtà il voler metter paura a qualcosa che incute timore a noi stessi. E la soluzione è sempre guardarci dentro, per poi volare alto. Ciò si traduce scenicamente nella potenza del gesto di Piergiorgio Milano e della sua metaforicità che da concreta si fa sempre più sottile per poi legarsi a una poetica acrobaticità. Sulla musica di Mi par d’udire ancora cantata da Caruso, il performer indaga lo spazio e le sue possibilità, lasciando che il peso lo faccia affondare e lo trascini a terra, per poi reagire rialzandosi e roteando su se stesso. Movimenti più decisi sono seguiti da un dolce ondeggiare delle forme, e il rimbalzo diviene l’arte di opporsi alle cadute. Il tutto con l’aiuto di una giacca che definisce il confine tra l’interprete e il mondo circostante. Con la sua comica tragicità l’assolo è stato già presentato più di cento volte in Europa, Inghilterra e Russia. L’accento grave sulla prima sillaba di Fàtico distingue l’aggettivo relativo alla funzione del linguaggio propria dei messaggi che hanno il puro scopo di stabilire un contatto tra il mittente e il destinatario dal verbo che indica il sottoporsi alla fatica. Con grande agilità nel pezzo omonimo prodotto da Orbita/Spellbound la coreografa ed interprete Irene Russolillo coniuga la materia fisica a una vocalità che tal volta si presenta come pura emissione di suoni, talaltra diviene testo simbolico che suggerisce allo spettatore scenari di una vita quasi primordiale. “Siamo assetati, ma siamo al sicuro”. “Il mare ci cade addosso”. L’evocazione della notte, della luce, della sapienza. Il definire “le mani sul petto”. Il cullarsi in un respiro che si trasmette sulla scena. A metà tra essere umano ed animale, la Russolillo passa dallo sprofondare nella sonnolenza al richiamare tratti ferini di una signorile leonessa. Il gioco delle luci accompagna una danza dapprima delicata e poi sempre più intensa, quasi tribale. Il canto si alterna ai semplici versi e la figura maschile in secondo piano serve a suscitare una ruota di inesauribili emozioni. Foto Giuseppe Follacchio

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Milano, Teatro Elfo Puccini: “I corpi di Elizabeth”

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 17:16

Milano, Teatro Elfo Puccini, Stagione 2023/24
I CORPI DI ELIZABETH”
di Ella Hickson traduzione Monica Capuani
Catherine Parr, Mary Tudor, Elizabeth Regina ELENA RUSSO ARMAN
Elizabeth Principessa, Katherine Gray, Lavandaia MARIA CAGGIANELLI VILLANI Seymour, Dudley ENZO CURCURÙ
Cecil CRISTIAN GIAMMARINI
Regia Cristina Crippa e Elio De Capitani
Scene Carlo Sala
Costumi Ferdinando Bruni
Luci Giacomo Marettelli Priorelli
Suono Gianfranco Turco
Nuovo Allestimento in coproduzione Teatro dell’Elfo, Teatro Stabile del Veneto con il contributo di Next – Laboratorio delle idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo
Milano, 11 febbraio 2024
È molto apprezzabile l’iniziativa del Teatro dell’Elfo di Milano di dare ampio risalto anche a giovani drammaturghi internazionali, novero cui Ella Hickson appartiene: fellow della Royal Society of Literature a soli trentatré anni, la drammaturga britannica ha saputo imporsi in Inghilterra e negli Stati Uniti con una serie di opere piuttosto diversificate per tematiche e genere (dalla riscrittura dei classici a drammi di natura più sperimentale). Sorprende, inoltre, che il teatro milanese abbia scelto uno dei testi meno frequentati della Hickson, nonché dei più recenti, “Swive [Elizabeth]” (saggiamente tradotto da Monica Capuani come “I corpi di Elizabeth” piuttosto che letteralmente in “Scopa [Elizabeth]”), che si propone, oltre alla sfida drammaturgica, anche il necessario confronto con l’ingombrante realtà storica della figura di Elisabetta I Tudor e del suo entourage. Sia l’una che l’altro vedono il testo uscire vincitore, grazie a dialoghi ben congegnati, quasi mai banali, credibili nel contesto storico che li vorrebbe vedere accadere, oltre che nel momento presente; la caratterizzazione dei personaggi, tutta volta a svelarne gli aspetti più umani e meno istituzionali, funziona soprattutto coi caratteri femminili: forse avrebbe meritato un’indagine maggiore il personaggio di Lord Cecil, mentre soprattutto Dudley sembra un po’ appiattirsi sul triste fuco di corte che la storia ci ha consegnato. La regia di Cristina Crippa e Elio De Capitani, senza avere nulla di particolarmente impressionante, sa però ben mettere in luce i punti di forza di questa drammaturgia, coadiuvata puntualmente dalle suggestive scene di Carlo Sala e dagli opulenti costumi di Ferdinando Bruni. Vera anima del cast è Elena Russo Arman, in ognuno dei ruoli che interpreta: è una Catherine Parr giudiziosa e distaccata, una Mary Tudor nevrotica e attaccata al potere, un’adulta Elizabeth consapevole, tormentata, vittima e carnefice di se stessa. Proprio l’immagine della celebre sovrana britannica emerge nella maniera più originale – e la Russo Arman questa originalità sa coglierla in pieno: non è né l’algida vergine votata alla ragion di Stato, né l’appassionata eroina scespiriana che tanta cinematografia ha inteso mostrarci, ma una donna tutto sommato comune, con le sue piccole ossessioni, i suoi dubbi sull’amore, i suoi drammi da niente; molto interessante, quindi, l’idea drammaturgica di anteporle la se stessa adolescente, ancora speranzosa, ma già dotata di quello sguardo tagliente sulla vita che sfiorerà il cinismo nell’età adulta: Maria Caggianelli Villani, in questo ruolo, comunica soprattutto lo straniamento della ragazzina sradicata al suo naturale contesto per venir santificata (o martirizzata, a seconda dei punti di vista) sul trono inglese. Tuttavia, il confronto che c’è parso più riuscito è quello tra la matura Elisabetta e Katherine Grey, sua dama personale sedotta dallo stesso Dudley favorito della regina: Katherine è giovane, carina, spigliata, sebbene abbia visto sua sorella nel giro di sei giorni incoronata e decapitata; ella è lo spirito vitale che in Elizabeth forse già in giovane età cominciava a rarefarsi (e anche l’interpretazione della Caggianelli Villani in questo ruolo si impreziosisce di qualche nota in più, di un realismo più vibrante). Bravi e ben in parte anche gli interpreti maschili, Enzo Curcurù e Cristian Giammarini: tra le loro prove abbiamo apprezzato soprattutto il Simone di Enzo Curcurù, giustamente tutto giocato tra madido erotismo virile e l’ambiguità dei giochi di potere dell’aristocratico. Bel coronamento di questa produzione è anche l’attento commento sonoro curata da Gianfranco Turco, che gioca con suggestioni rinascimentali, suoni d’ambiente ed elettronica. Il pubblico meneghino ha mostrato di apprezzare particolarmente la produzione, che ha registrato sold out praticamente per tutte le venti repliche; ci auguriamo anche per la tournée lo stesso successo (link qui). Foto Laila Pozzo

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Litta: “Baccanti. Il regno del dio che danza” da Euripide. Dal 27 febbraio al 24 marzo. Debutto Nazionale

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 11:09

Drammaturgia e regia Filippo Renda – produzione Manifatture Teatrali Milanesi
Baccanti, il regno del dio che danza è un viaggio oltre il semplice spettacolo teatrale per esplorare una fusione fra mito antico e riscoperta del rito con una visione contemporanea della liberazione e dell’espressione corporea. Un inno alla potenza del corpo femminile come strumento di rivoluzione e cambiamento. In un mondo dominato e plasmato da norme e ideali maschili, le donne diventano un simbolo di resistenza e di forza collettiva sfidando e ridefinendo il tessuto sociale, trasformando il mito in una potente metafora della lotta per l’emancipazione e l’affermazione di sé in un contesto di predominanza maschile. La fonte di partenza è la contrapposizione tra ordine civile ed estasi rituale, in un conflitto tra Dioniso e Apollo che è conflitto tra dominati e dominanti. Nel despota Penteo, che cerca di liberare Tebe dal culto dionisiaco, rivediamo l’azione di chi ha recentemente dichiarato illegali i rave, perseguendo un’opera di disciplinamento delle membra e addomesticamento degli impulsi. La nostra rilettura attinge sia dalla tragedia di Euripide che dalla tradizione più antica ponendo particolare enfasi sui baccanali che, come i moderni rave, sono una risposta all’oppressione della società. Il baccanale diventa il fulcro narrativo dello spettacolo, sviluppandosi per tutta la sua durata. La nostra reinterpretazione dei riti dionisiaci, influenzata dagli studi di Lapassade e Zolla sull’esoterismo, vuole creare un’esperienza teatrale in cui gli spettatori possano sperimentare una forma di trance attraverso la potenza della performance scenica.
Esperienza che passa anche dallo spazio scenico, metafora per il cambiamento emotivo e spirituale. La scelta di adottare una disposizione circolare è un invito alla creazione di uno spazio comune dove si possono intrecciare emozioni, pensieri e reazioni. Il cerchio ha una lunga storia sia nell’arte che nell’esoterismo, simboleggiando l’unità, l’infinito e il ciclo della vita. In questo ambiente il pubblico potrà scegliere di vivere lo spettacolo dall’interno, trasformando lo spazio fisico in un luogo di condivisione emotiva e di riflessione, o di rimanere semplice osservatore. Cuore pulsante dello spettacolo è la musica, i cui ritmi e melodie sono un potente veicolo catartico capace di trasportare il pubblico in un viaggio emotivo e spirituale in parallelo con la narrazione scenica. La psytrance, con le sue radici profonde nella cultura della trance e della musica elettronica, incarna in modo perfetto l’essenza del progetto, un connubio tra l’antico e il moderno, tra il rituale e l’innovazione. Le sue linee di basso pulsanti, gli arpeggi incalzanti e le melodie che si intrecciano creano un ambiente sonoro che invita alla liberazione emotiva e spirituale.

Categorie: Musica corale

Milano, MTM Teatro Litta: “Ricino”

gbopera - Sab, 24/02/2024 - 09:31

Milano, MTM – Teatro Litta, Stagione 2023/24
RICINO”
di Antonio Mocciola e Pasquale Marrazzo
con: Antonio D’Avino, Diego Sommaripa, Vincenzo Coppola
Regia, scene e suono Pasquale Marrazzo
Disegno luci Emanuele Iovino
Costumi Lucia La Polla
Produzione Noi Film
Milano, 6 febbraio 2024
Spesso, quando ci rechiamo a vedere uno spettacolo, conoscere in precedenza l’autore o la tematica crea delle involontarie aspettative, con cui poi dobbiamo fare i conti nel momento di scrivere la critica. Il tema di “Ricino“ è tra i più interessanti nell’ambito degli studi sul fascismo: il rapporto tra regime e sessualità, in particolar modo la persecuzione degli omosessuali da parte della dittatura, è un argomento che ancora propone margini di interpretazione e chiavi di lettura spesso interessanti. Lo spettacolo di Antonio Mocciola e Pasquale Marrazzo, tuttavia, rimane al di qua della dimensione di interesse, limitandosi a proporre la storia di uno strano triangolo amoroso (lui-lui-il poliziotto dell’OVRA che li perseguita) sviluppato in una drammaturgia deboluccia, che si vorrebbe cinematografica, ma finisce con l’essere più credibilmente televisiva. Non sappiamo nemmeno se ci troviamo di fronte a un’effettiva storia unitaria, quanto, piuttosto, a una serie di flash, episodi intervallati dall’onnipresente musica extradiegetica, il cui tono è sempre quello alla lunga stucchevole dello small talking, del commento superficiale, che si vorrebbe rimandasse a un più profondo non detto, ma che di fatto rimane quello che è. L’assenza assoluta di pretesa documentaria, apprezzabile nel caso ci fosse proposta una densa e solida struttura drammaturgica, in questo caso fa sentire il suo peso, giacché avrebbe potuto conferire perlomeno qualche coordinata spazio-temporale in più per coinvolgere lo spettatore. Qui, invece, in fin dei conti, capiamo che si tratta del ventennio solo per alcuni riferimenti interni e citazioni, ma che rimangono tali, senza toccare corde più profonde, perché annegate nell’ameno mare di sentimenti più o meno ordinari che il testo esprime, e che l’impianto scenico non implementa esteticamente – la regia di Marrazzo è manierata, piena di gestualità “telefonate “, la scena si regge fondamentalmente su due soli elementi (un piano inclinato e una serie di panni bianchi appesi), peraltro utilizzati poco e in maniera convenzionale. Lo spettacolo, dunque, si regge unicamente sull’apporto dei tre interpreti: Antonio d’Avino, Diego Sommariva e Vincenzo Coppola, tre interpreti senza dubbio di talento, coinvolti e in grado di trasmettere tutto quello che si può trarre dal testo, senza tuttavia eccedere in qualcosa che ci avrebbe potuto far gridare al miracolo; l’attività dei tre è senz’altro ben calibrata sui colori dei personaggi che interpretano, ma, detto fuori dei denti, più di un guizzo attoriale sarebbe stato necessario per sottrarre il pubblico allo scivolare lentamente dalla noia al torpore. Repliche alla Sala Assoli di Napoli  dal 19 al 21 aprile 2024. Foto Giovanna Marrazzo

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro India: “Storia di un oblio” con un intenso Vincenzo Pirrotta

gbopera - Ven, 23/02/2024 - 21:48

Roma, Teatro India
STORIA DI UN OBLIO

di Laurent Mauvignier
©Les Editions Minuit
traduzione Yasmina Melaouah Ed. Feltrinelli
regia Roberto Andò
con Vincenzo Pirrotta
Roma, 23 Febbraio 2024
“Storia di un oblio” ricostruisce i tragici minuti del pestaggio fino alla morte di un giovane di colore da parte di 4 vigilantes, reo di aver rubato e bevuto una birra.
Uno spettacolo eccezionale portato in scena per la prima volta in Italia nel giugno del 2018 da Roberto Andò in una Chiesa di Catania e da allora accolto con enorme successo da pubblico e critica. “Storia di un oblio” è la versione italiana firmata da Yasmina Melaouah è di Ce que j’appelle oubli del 2011 del pluripremiato 57enne scrittore francese Laurent Mauvignier, presentato nel 2012 al Teatro della Comédie-Française a Parigi. Il protagonista per la regia di Roberto Andò è l’attore Vincenzo Pirrotta, che da solo, seduto su una sedia, in attesa che tutto intorno il pubblico prende via via posto, veglia in silenzio il cadavere di suo fratello. Un intimo raccoglimento che piano piano si trasforma nel racconto di una assurda morte e del suo perché. La storia narra di un uomo che in un supermercato di un grande centro commerciale di una città francese ruba una lattina di birra e viene bloccato da quattro addetti alla sicurezza che lo trascinano nel magazzino e lo ammazzano di botte. Un fatto di cronaca eccezionalmente restituito da Laurent Mauvignier in un lungo racconto che ricostruisce la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. La performance di Vincenzo Pirrotta si distingue per la sua intensità e la sua versatilità, manifestandosi attraverso una vasta gamma di sfumature vocali. Con una maestria indiscussa, l’attore articolato offre una rappresentazione coinvolgente e autentica, modulando la sua voce dall’intimo sussurro alla rabbia aggressiva, coinvolgendo il pubblico in un dialogo emotivo e potente. Attraverso grida disperate e momenti di raccoglimento, Pirrotta trasmette la complessità del suo personaggio, immergendosi completamente nel ruolo e creando un legame immediato con gli spettatori. La sua capacità di liberarsi delle barriere fisiche, come giacca e camicia, e di restare a busto nudo, aggiunge un elemento di vulnerabilità e autenticità alla sua performance, permettendo al pubblico di percepire la sua presenza fisica in modo più tangibile. La regia di Roberto Andò rappresenta un’audace sfida ai canoni teatrali convenzionali, con un protagonista che esplora una gamma ampia di azioni, incluso un coinvolgente immaginario narrativo e gesti provocatori come interazioni con il pubblico e momenti di tensione. La decisione di mostrare immagini violente, come quelle di Stefano Cucchi morto, ha suscitato reazioni divergenti tra gli spettatori, alcuni dei quali hanno apprezzato la sensibilizzazione, mentre altri l’hanno trovata impositiva. Tuttavia, nonostante le controversie, la performance ha ricevuto applausi calorosi, evidenziando il rispetto per l’impegno dell’ensemble artistico. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Milano, Piccolo Teatro Strehler: “La Locandiera” di Goldoni dal 20 febbraio al 3 marzo 2024

gbopera - Ven, 23/02/2024 - 18:52

Testo tra i più fortunati e rappresentati di Carlo Goldoni, “La locandiera” secondo Antonio Latella verte intorno al «tema dell’eredità che è il punto cardine di tutto. Mirandolina seduta sul letto di morte del padre riceve in eredità la Locanda, ma anche l’ordine di sposarsi con Fabrizio, il primo servitore della Locanda. Credo che Goldoni con questo testo abbia fatto un gesto artistico potente ed estremo, un gesto di sconvolgente contemporaneità: innanzitutto siamo davanti al primo testo italiano con protagonista una donna, ma Goldoni va oltre, scardina ogni tipo di meccanismo, eleva una donna formalmente a servizio dei suoi clienti a donna capace di sconfiggere tutto l’universo maschile, soprattutto una donna che annienta con la sua abilità tutta l’aristocrazia. Di fatto Mirandolina riesce in un solo colpo a sbarazzarsi di un cavaliere, di un conte e di un marchese.

Scegliendo alla fine il suo servitore come marito fa una scelta politica, mette a capo di tutto la servitù, nobilita i commercianti e gli artisti, facendo diventare la Locanda il luogo da dove tutta la storia teatrale del nostro paese si riscriverà, la storia che in qualche modo ci riguarda tutti». Sonia Bergamasco dà vita a una Mirandolina differente da quella che la tradizione ha spesso proposto, sottolineando la profondità dell’approccio goldoniano. «Spesso noi registi – continua Latella – abbiamo sminuito il lavoro artistico culturale che il grande Goldoni ha fatto con questa opera, la abbiamo ridimensionata, cadendo nell’ovvio e riportando il femminile a ciò che gli uomini vogliono vedere: il gioco della seduzione. Goldoni, invece, ha fatto con questo suo testamento, una grande operazione civile e culturale. La nostra mediocrità non è mai stata all’altezza dell’opera di Goldoni e, molto probabilmente, non lo sarò nemmeno io. Spero, però, di rendere omaggio a un maestro che proprio con Goldoni ha saputo riscrivere parte della storia teatrale italiana: parlo di Massimo Castri.» Qui per tutti i dettagli

Categorie: Musica corale

Roberto Favaro: “Parola, spazio, suono. Il teatro musicale di Adriano Guarnieri”

gbopera - Ven, 23/02/2024 - 08:50

Prefazione di Paolo Petazzi
Saggi, Marsilio, 2022
Volume di 272 pagine. ISBN 978-88-297-1599-2
€ 27,00
Parola, spazio e suono rappresentano il trittico attorno al quale è possibile avvicinarsi ad una ‘percezione’ della musica di Guarnieri con intrinseche relazioni tra arti diverse. Il risultato potrebbe definirsi una lettura interdisciplinare e nello stesso tempo caleidoscopica ove attraverso lo sguardo interiore e curioso del compositore è possibile scorgere il fascino e la suggestione del colore che irrompe fino all’utilizzo di tecnologie atte alla spazializzazione del suono ivi compresi gli apparati video. Se per alcuni aspetti è evidente un’apertura al mondo esteriore tanto da assorbirne gli influssi, dall’altro è proprio questo modus operandi del compositore a guidare e stimolare ‘pensieri’ che confluiscono in un teatro musicale fantastico e visionario i quali si traducono in vibrazioni sonore atte a traghettare l’ascoltatore verso un attraente itinerario sonoro. Per i non addetti ai lavori potrebbe trattarsi di musica complessa ove, si badi bene, il concetto di ‘complessità’ è già insito nell’essenza e natura della musica tanto da giustificare l’assenza di univocità sul termine ‘musica contemporanea’, continuando a generare nuove ipotesi fino ad allontanarsi dai cliché standardizzati. Come accade per il significato delle parole ai linguisti, per i quali a volte risulta difficile fornire delle risposte, allo stesso modo anche per la musica di Guarnieri c’è bisogno di una mente pensante. L’ INDICE chiarisce l’itinerarium mentis della pubblicazione di Favaro. PAROLA (Dalla musica il testo. Guarnieri librettista; Le parole di Pasolini, Parole antiche: Poliziano, Euripide, Dante; Altra spiritualità, spiritualità altra. Tra rivelazione, erotismo e impegno civile) – SPAZIO (Dallo spazio sonoro la vera drammaturgia teatrale; Live Elettronics. Per uno spazio sonoro mobile e molteplice; Uno spazio interiore e immaginario; Spazi sonori altri. Le chiese per Quare Tristis e Passione secondo Matteo) – SUONO (Timbro-materia; Voci; Forme) forniscono al lettore, nell’interessante esposizione ed approfondimento dell’autore del volume, gli strumenti necessari ovvero «delle chiavi […] per aprire delle porte, per varcare delle soglie» al cospetto di un’espressività capace anche di sedurre. Il risalto dato da Paolo Petazzi nel definire la pubblicazione «primo libro interamente dedicato ad Adriano Guarnieri» lascia sperare almeno in una seconda ove la continuazione di questo viaggio possa contribuire a garantire maggiore diffusione e accoglienza della musica di un compositore dotato di poetica e originalità decisamente singolari. La metafora del viaggio è altresì utile per segnalare, all’interno del volume, l’incontro con tanti personaggi (compositori, filosofi, letterati, pittori, architetti, ecc.) sia del passato che contemporanei dai quali trovare ‘risposte’ necessarie per potere soppesare ed illustrare l’opera del compositore.
Si segnala che la presenza di varie citazioni, immagini (foto che ritraggono il compositore, scene d’opera, autografi, partiture compresi esempi di scrittura con live elettronics), unitamente alla Prefazione di Paolo Petazzi, la Nota biografica del compositore, Gli spettacoli, le locandine e l’Indice delle opere di Adriano Guarnieri citate, arricchiscono e rendono più fruibile la lettura pur lasciando sempre l’ultima parola al compositore. Egli ci rivela che il suo testo assume compiutezza soltanto dopo aver composto la musica, tanto da non stupire la sua comprensione di alcuni Lieder di Schubert pur senza aver letto prima i testi: «Al contrario, mi accorsi che senza conoscere la poesia, ne avevo afferrato il contenuto vero, forse più profondamente che se fossi restato aderente alla superficie dei veri e propri pensieri espressi dalle parole». Curioso, anche se può risultare strano a molti, è sapere che in tutte le sue opere Guarnieri inizia «dallo spazio prima ancora delle note» riservando ad un momento successivo l’organizzazione della composizione. Altrettanto interessante risulta l’ultima parte dedicata al suono in cui lo stesso compositore chiarisce che: «Mi piace pensare al timbro come un impasto sonoro sta a un impasto di malta […]. Il timbro è frutto di un impasto sonologico […] non fisso, materico, sinuoso, insomma un “grumo” di suoni in movimento [ma anche] somma materica di sonorità, che si fa via via volume, e spessore quantitativo. Cioè una massa verticale di suoni o di agglomerati ruotanti su se stessi». Tanti i rimandi sia ad opere del passato che ad altre più ‘contemporanee’. In Guarnieri dall’iniziale e vicino Strutturalismo, al concetto materico e della spazialità del suono, alla passione, in primis per la poesia di Pasolini (Trionfo nella notte, 1987 e Premio Abbiati), alla successiva lunga collaborazione con Giovanni Raboni e all’impiego del live elettronics riaffiora quella ‘emancipazione’ tout court debitrice oltre che dell’inventio anche dell’intelletto.

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Roma, Teatro Brancaccio: “Il Mare Fuori. Il musical.” dal 01 al 10 Marzo 2024

gbopera - Ven, 23/02/2024 - 08:00

Roma, Teatro Brancaccio
MARE FUORI. IL MUSICAL
Con Antonio Orefice, Maria Esposito, Mattia Zenzola, Giuseppe Pirozzi, Enrico Tijani, Antonio D’Aquino, Giulia Luzi, Carmen Pommella, Emanuele Palumbo, Leandro Amato,Antonio Rocco, Christian Roberto, Giulia Molino, Bianca Moccia, Angelo Caianiello, Pasquale Brunetti, Yuri Pascale Langer, Sveva Petruzzellis, Anna Capasso, Fabio Alterio, Benedetta Vari
Coreografie Marcello e Mommo Sacchetta
Scenografie Roberto Crea
Costumi Eleonora Rella
colonna sonora originale tratta dalla serie “Mare fuori”
Sceneggiatura: Maurizio Careddu e Cristina Farina
produzione Best live
Regia di Alessandro Siani
Quando si parla di Mare fuori, seppure una serie nata da pochi anni, si parla già di una serie cult, oggi più che mai le puntate si stanno spezzettando in frasi e tormentoni che il grande pubblico ripete, tagga e condivide. Un fenomeno! Un successo esplosivo che ha colpito l’interesse di molti, tutti, me compreso. L’ingrediente di questa serie è sicuramente la semplicità della trama. La location è il carcere minorile di Nisida, si narra in modo profondo e crudo la vita di un gruppo di ragazzi all’interno di un istituto penitenziario. Dietro le sbarre, guardando oltre, si affaccia un mare libero e immenso, una sorta di sogno, di miraggio. La detenzione è ancora più dura guardando il “Mare fuori”. La versione teatrale sicuramente aveva bisogno di non perdere dei temi fondamentali: le motivazioni che hanno portato in carcere i ragazzi, la famiglia distrutta nei suoi valori primordiali, la lotta fra bande, la delinquenza beffarda che trascina una persona non “adulta” a fare determinate scelte. Si tratta di riflettere su una sorta di gioventù bruciata, figlia di un destino amaro e inaccettabile. Il tema che pervade questa trasposizione teatrale è il “momento”. Trovarsi nel momento sbagliato! Perdere sempre il momento giusto, perché confusi e avviliti dall’ambiente che li circonda, crescere male e continuare a sbagliare. Ma da una morte può nascere una vita nuova? Si può sopravvivere e poi rinascere per sempre. L’amicizia, la fratellanza e soprattutto l’amore copriranno il dolore, ma nessuno sarà mai sereno, perché tutto potrebbe cambiare da un “momento” all’altro. Gli occhi dei ragazzi, le loro voci, la musica, l’anima e le risate amare, tingono l’anima. Questo dramedy non vede l’ora di abbracciare e stringere il pubblico che guarderà dalla platea e per gli attori dal palco la gente rappresenterà la speranza, la vita pura, il loro mare fuori! Note di Regia. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Vascello: “Top Girls”. Una rivoluzione al femminile.

gbopera - Gio, 22/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello, Stagione 2023 2024
TOP GIRLS
traduzione di Maggie Rose
con (in o.a.) Corinna Andreutti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Simona De Sarno, Monica Nappo, Sara Putignano
costumi Daniela Ciancio
scene Barbara Bessi
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Elvira Berarducci
regia Monica Nappo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Roma, 22 Febbraio 2024
L’opera di Caryl Churchill è come una tempesta che irrompe nel panorama teatrale , scuotendo le fondamenta delle convenzioni e dei preconcetti. Benché non sia una presenza costante sulle scene italiane, quando si presenta, lo fa con un impatto che non può essere ignorato. Il suo lavoro è una sfida, un viaggio attraverso territori sconosciuti, dove il disorientamento è il nostro compagno di viaggio. La Fondazione Teatro Due di Parma, insieme alla regista e attrice Monica Nappo, decide di affrontare l’opera più celebre di Churchill, “Top Girls”. Questo classico moderno del teatro femminista ci porta in un mondo dove le donne lottano con il potere e la femminilità si scontra con la leadership. La pièce si apre con una cena immaginaria, dove la protagonista, Marlene, celebra la sua promozione insieme a donne famose della storia. Eccole riunite, donne di potere e successo, intorno a una tavola imbandita, pronte a celebrare l’ascesa di Marlene, interpretata con maestria da Sara Putignano. Qui, tra le pareti di questo mondo immaginario, si mescolano le voci e le storie di donne straordinarie. Isabella Bird, la viaggiatrice audace del XIX secolo, racconta le sue avventure attraverso terre lontane, mentre Lady Nijo, la cortigiana giapponese del XIII secolo, rivela le sue struggenti esperienze di amore e perdita. Accanto a loro, la misteriosa figura di Giovanna, la papessa del IX secolo, svela i segreti del suo regno sotto mentite spoglie, mentre Griselda, la soldatessa medievale, esprime la sua forza e determinazione. Ma dietro ogni trionfo si nasconde un sacrificio, e queste donne non fanno eccezione. La papessa, costretta a negare la propria femminilità per mantenere il potere, e la cortigiana, relegata al convento dopo aver perso il favore del suo padrone, sono solo due esempi di come il successo possa essere accompagnato da rinunce dolorose. Eppure, nonostante le avversità, queste donne continuano a brillare con una luce propria, sfidando le convenzioni e conquistando il loro posto nel mondo. E mentre alzano i calici in onore di Marlene, sanno che il loro legame va oltre il tempo e lo spazio, unendole in un’eterna sororità di coraggio e determinazione. Questo banchetto distopico diventa un ritratto delle lotte e dei sacrifici delle donne attraverso i secoli, seppelliti sotto il peso di una società patriarcale. Nel presente, vediamo Marlene, una donna determinata e ambiziosa, costretta a confrontarsi con le scelte che ha fatto per raggiungere il successo. Il suo individualismo aggressivo la porta ad esplorare i compromessi che ha dovuto accettare per emergere in un mondo dominato dagli uomini. Il lavoro di Churchill non offre risposte facili; piuttosto, solleva domande e mette in discussione le convenzioni sociali. Attraverso un cast eccezionale e una regia audace, lo spettacolo ci trascina in un vortice di dialoghi intensi e scene suggestive. Mentre la storia si svolge davanti ai nostri occhi, ci rendiamo conto che le questioni affrontate in “Top Girls” non sono obsolete, ma piuttosto rimangono irrisolte nel nostro presente. Le lotte per l’uguaglianza di genere sono cambiate nel corso dei secoli, ma molte sfide rimangono le stesse. L’ impianto scenografico di Barbara Bessi è quanto di più semplice possa esserci: un lampadario di cristalli risplende, incorniciano una scena minimalista dominata da tavoli e sedie. Tuttavia, è importante sottolineare che le scene stesse non sono il fulcro dell’attenzione né rivestono particolare rilevanza estetica. Piuttosto, fungono da semplice supporto visivo, un mezzo attraverso il quale incarnare un principio fondamentale di verità. La piece è un viaggio avvincente attraverso la complessità delle relazioni di potere e dell’identità femminile. In “Top Girls”  l’assenza intenzionale di personaggi maschili non solo è una scelta drammaturgica, ma anche un’affermazione tematica che sottolinea la centralità delle donne nella narrazione. Gli uomini e i loro comportamenti non sono semplicemente assenti, ma vengono narrati e interpretati dalle protagoniste femminili, evidenziando così un ribaltamento delle convenzioni di genere e delle dinamiche di potere tradizionali. Tuttavia, l’approccio di Churchill a questa tematica non è caratterizzato da una visione unilaterale o dogmatica. Al contrario, la sua prospettiva è permeata da una complessità che abbraccia la compassione, la crudeltà, l’ironia e la lucidità. Churchill non si limita a privilegiare un sesso sull’altro o a fornire risposte semplicistiche; piuttosto, espone le relazioni umane in tutta la loro complessità, sia pubblica che privata, invitando il pubblico a interrogarsi sulle stesse questioni che lei stessa si pone. Nel mondo rappresentato da Churchill, non esistono categorie nette di buoni e cattivi, ma piuttosto individui che, per affermarsi, devono spesso sacrificare la propria autenticità. È una società disfunzionale e squilibrata, in cui il progresso di una parte comporta inevitabilmente la sofferenza dell’altra. Alla fine, nessuno è davvero salvato, poiché l’ottenimento della libertà o dell’emancipazione personale comporta sempre un costo per qualcun altro. Churchill solleva anche interrogativi profondi sul significato associato alle parole “Madre” e “Natura”, suggerendo che l’idea di una connessione intrinseca tra di esse potrebbe essere più complessa di quanto generalmente si creda. La sua scrittura teatrale sfida le convenzioni linguistiche e culturali, invitando il pubblico a esplorare concetti fondamentali e a mettere in discussione le proprie percezioni preconcette e ci riesce con grande efficacia. Nella suggestiva cornice del Vascello, il pubblico ha dimostrato il proprio apprezzamento per le protagoniste con calorosi applausi, manifestando un sentito coinvolgimento e un profondo senso di solidarietà. Qui per le altre date.

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