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Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Top Girls”. Una rivoluzione al femminile.

gbopera - Gio, 22/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello, Stagione 2023 2024
TOP GIRLS
traduzione di Maggie Rose
con (in o.a.) Corinna Andreutti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Simona De Sarno, Monica Nappo, Sara Putignano
costumi Daniela Ciancio
scene Barbara Bessi
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Elvira Berarducci
regia Monica Nappo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Roma, 22 Febbraio 2024
L’opera di Caryl Churchill è come una tempesta che irrompe nel panorama teatrale , scuotendo le fondamenta delle convenzioni e dei preconcetti. Benché non sia una presenza costante sulle scene italiane, quando si presenta, lo fa con un impatto che non può essere ignorato. Il suo lavoro è una sfida, un viaggio attraverso territori sconosciuti, dove il disorientamento è il nostro compagno di viaggio. La Fondazione Teatro Due di Parma, insieme alla regista e attrice Monica Nappo, decide di affrontare l’opera più celebre di Churchill, “Top Girls”. Questo classico moderno del teatro femminista ci porta in un mondo dove le donne lottano con il potere e la femminilità si scontra con la leadership. La pièce si apre con una cena immaginaria, dove la protagonista, Marlene, celebra la sua promozione insieme a donne famose della storia. Eccole riunite, donne di potere e successo, intorno a una tavola imbandita, pronte a celebrare l’ascesa di Marlene, interpretata con maestria da Sara Putignano. Qui, tra le pareti di questo mondo immaginario, si mescolano le voci e le storie di donne straordinarie. Isabella Bird, la viaggiatrice audace del XIX secolo, racconta le sue avventure attraverso terre lontane, mentre Lady Nijo, la cortigiana giapponese del XIII secolo, rivela le sue struggenti esperienze di amore e perdita. Accanto a loro, la misteriosa figura di Giovanna, la papessa del IX secolo, svela i segreti del suo regno sotto mentite spoglie, mentre Griselda, la soldatessa medievale, esprime la sua forza e determinazione. Ma dietro ogni trionfo si nasconde un sacrificio, e queste donne non fanno eccezione. La papessa, costretta a negare la propria femminilità per mantenere il potere, e la cortigiana, relegata al convento dopo aver perso il favore del suo padrone, sono solo due esempi di come il successo possa essere accompagnato da rinunce dolorose. Eppure, nonostante le avversità, queste donne continuano a brillare con una luce propria, sfidando le convenzioni e conquistando il loro posto nel mondo. E mentre alzano i calici in onore di Marlene, sanno che il loro legame va oltre il tempo e lo spazio, unendole in un’eterna sororità di coraggio e determinazione. Questo banchetto distopico diventa un ritratto delle lotte e dei sacrifici delle donne attraverso i secoli, seppelliti sotto il peso di una società patriarcale. Nel presente, vediamo Marlene, una donna determinata e ambiziosa, costretta a confrontarsi con le scelte che ha fatto per raggiungere il successo. Il suo individualismo aggressivo la porta ad esplorare i compromessi che ha dovuto accettare per emergere in un mondo dominato dagli uomini. Il lavoro di Churchill non offre risposte facili; piuttosto, solleva domande e mette in discussione le convenzioni sociali. Attraverso un cast eccezionale e una regia audace, lo spettacolo ci trascina in un vortice di dialoghi intensi e scene suggestive. Mentre la storia si svolge davanti ai nostri occhi, ci rendiamo conto che le questioni affrontate in “Top Girls” non sono obsolete, ma piuttosto rimangono irrisolte nel nostro presente. Le lotte per l’uguaglianza di genere sono cambiate nel corso dei secoli, ma molte sfide rimangono le stesse. L’ impianto scenografico di Barbara Bessi è quanto di più semplice possa esserci: un lampadario di cristalli risplende, incorniciano una scena minimalista dominata da tavoli e sedie. Tuttavia, è importante sottolineare che le scene stesse non sono il fulcro dell’attenzione né rivestono particolare rilevanza estetica. Piuttosto, fungono da semplice supporto visivo, un mezzo attraverso il quale incarnare un principio fondamentale di verità. La piece è un viaggio avvincente attraverso la complessità delle relazioni di potere e dell’identità femminile. In “Top Girls”  l’assenza intenzionale di personaggi maschili non solo è una scelta drammaturgica, ma anche un’affermazione tematica che sottolinea la centralità delle donne nella narrazione. Gli uomini e i loro comportamenti non sono semplicemente assenti, ma vengono narrati e interpretati dalle protagoniste femminili, evidenziando così un ribaltamento delle convenzioni di genere e delle dinamiche di potere tradizionali. Tuttavia, l’approccio di Churchill a questa tematica non è caratterizzato da una visione unilaterale o dogmatica. Al contrario, la sua prospettiva è permeata da una complessità che abbraccia la compassione, la crudeltà, l’ironia e la lucidità. Churchill non si limita a privilegiare un sesso sull’altro o a fornire risposte semplicistiche; piuttosto, espone le relazioni umane in tutta la loro complessità, sia pubblica che privata, invitando il pubblico a interrogarsi sulle stesse questioni che lei stessa si pone. Nel mondo rappresentato da Churchill, non esistono categorie nette di buoni e cattivi, ma piuttosto individui che, per affermarsi, devono spesso sacrificare la propria autenticità. È una società disfunzionale e squilibrata, in cui il progresso di una parte comporta inevitabilmente la sofferenza dell’altra. Alla fine, nessuno è davvero salvato, poiché l’ottenimento della libertà o dell’emancipazione personale comporta sempre un costo per qualcun altro. Churchill solleva anche interrogativi profondi sul significato associato alle parole “Madre” e “Natura”, suggerendo che l’idea di una connessione intrinseca tra di esse potrebbe essere più complessa di quanto generalmente si creda. La sua scrittura teatrale sfida le convenzioni linguistiche e culturali, invitando il pubblico a esplorare concetti fondamentali e a mettere in discussione le proprie percezioni preconcette e ci riesce con grande efficacia. Nella suggestiva cornice del Vascello, il pubblico ha dimostrato il proprio apprezzamento per le protagoniste con calorosi applausi, manifestando un sentito coinvolgimento e un profondo senso di solidarietà. Qui per le altre date.

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Roma, Teatro Vascello: “4 5 6” dal 27 febbraio al 03 Marzo 2024

gbopera - Gio, 22/02/2024 - 16:04

Roma, Teatro Vascello
456
con Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino
e con Giordano Agrusta
scritto e diretto da Mattia Torre
produzione Marche Teatro / Nutrimenti Terrestri / Walsh
456 è la storia comica e violenta di una famiglia che, isolata e chiusa, vive in mezzo a una valle oltre la quale sente l’ignoto. Padre, madre e figlio sono ignoranti, diffidenti, nervosi. Si lanciano accuse, rabboccano un sugo di pomodoro lasciato dalla nonna morta anni prima, litigano, pregano, si odiano. Ognuno dei tre rappresenta per gli altri quanto di più detestabile ci sia al mondo. E tuttavia occorre una tregua, perché sta arrivando un ospite atteso da tempo, che può e deve cambiare il loro futuro. Tutto è pronto, tutto è perfetto. Ma la tregua non durerà. Qui per tutte le informazioni.

 

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Padova, Amici della Musica: Grande successo per Fazil Say

gbopera - Gio, 22/02/2024 - 13:55

Padova, Auditorium C. Pollini, Stagione Amici della Musica di Padova 2023/24
Pianoforte  Fazil Say
Johann Sebastian Bach: Chaconne da Partita n. 2 in re minore” BWV 1004 (arr. F. Busoni); Ludwig van Beethoven: Sonata in re minore op. 31 n. 2 “La tempesta”;  Claude Debussy: da Préludes – Premier livre VIII: La fille aux cheveux de lin (Très calme et doucement expressif) – X: La Cathédrale engloutie (Profondément calme, dans une brume doucement sonore) – XI: La danse de Puck (Capricieux et léger) – XII: Minstrels (Modéré, nerveux et avec humour), Clair de lune (da “Suite bergamasque”) Andante très expressif;  Fazil Say: À la carte
Padova,  20 febbraio 2024
Auditorium gremito per il concerto del pianista Fazil Say, un evento imperdibile e tanto atteso all’interno della 67° stagione concertistica degli Amici della Musica di Padova. Nel corso degli anni il talentuoso pianista turco ha conquistato sempre più spazio all’interno di una attività concertistica sia come solista sia a fianco delle più importanti orchestre, e numerosi sono stati i riconoscimenti sia della critica che del pubblico. Il maestro si distingue per la sua ampiezza del repertorio, che spazia dalla musica barocca alla musica contemporanea, come si può anche notare anche dalla sua ampia discografia, che comprende sia Bach che Gershwin; e il concerto del 20 febbraio è stata una grande dimostrazione di versatilità e ampiezza di vedute. Il linguaggio della sua interpretazione è universale, e dà credibilità all’affermazione dello stesso pianista che recita: “l’arte e la musica formano un ponte tra le culture dell’est e dell’ovest, mescolandole e trasformandole”. Un approccio alla tastiera alquanto singolare il suo, quasi da direttore d’orchestra: lo si vede impegnato nel dirigere il suono con le sue stesse mani, quasi a catturare gli armonici e direzionarli verso il pubblico e alla sua anima; un’esperienza visiva che cattura e commuove. Esordio del programma in grande stile. Say dimostra il suo grande talento suonando una delle più impegnative composizioni di Bach, rivisitata o meglio ricomposta su nuove e autonome basi dal genio di Busoni: la ciaccona nr. 2 in re minore. Esecuzione accattivante, che esalta il sentimento dell’abbandono (come recita il pezzo al quale è stato attribuito il titolo “sei solo”) con un’ampia, se non esagerata, alternanza tra il forte e il piano, ma che Say riesce a trasformare in maestoso e delicatissimo. Ottima la sua padronanza tecnica e la dinamica interpretativa permette a questo pezzo di evocare una grande gamma di emozioni. Si prosegue con la Sonata op.32 nr. 2 di Beethoven, compositore del quale il pianista ha inciso l’integrale delle sonate. Quest’opera, sotto la sua interpretazione, sembra assumere una forma più eterea e l’esecuzione è ben lontana da quelle classiche che questa sonata ci ha abituato a sentire. Forse un’eccessiva velocità metronomica può aver leggermente penalizzato il fraseggio e la rotondità del suono che in questa sonata meritano di emergere. La tensione continua dell’armonia e l’idea del timbro puro che avevano permeato l’idea musicale e culturale di Beethoven, si trasformano con Debussy in un esatto opposto. E questo improvviso cambio di atmosfera è subito percepibile nell’ascolto della selezione di preludi dal primo libro di Debussy. Suonati con un grandissimo rispetto della partitura, il pianista è stato in grado di catturare tutte le sonorità richieste da questo compositore, così difficile da interpretare; ma non solo: il ritmo sospeso e gli accordi spesso evanescenti, che creano quella tensione voluta dal maestro dell’impressionismo, sono stati rielaborati dall’interprete che ne ha estratto dei quadri finemente colorati. Molto delicata e poetica pure l’esecuzione de Clair de Lune (dalla Suite bergamasque). L’ultima parte del programma ha permesso di conoscere Fazil Say interprete di Fazil Say compositore. Ha suonato quattro sue composizioni, molto diverse tra loro, mettendo ancora di più in luce la sua indole eclettica. Nella prima, Black Earth, il pianista si diverte a creare un gioco di echi e di rimandi tematici chiaramente di origine orientale, intervenendo anche fisicamente sulle corde del pianoforte, creando una sonorità che potrebbe richiamare l’Oud turco. Il secondo pezzo è molto melodico, con un raffinato crescendo che esplode nel finale. A seguire un altro brano molto sostenibile, fruibile e leggero. In conclusione un pezzo virtuosistico che trasporta il classico dei classici alla temperatura jazz: un divertente arrangiamento del Capriccio n. 24 in la minore di Niccolò Paganini, esecuzione geniale. Ovazione finale, meritatissima. Il pianista regala un solo bis, una sua improvvisazione in stile jazzistico della Marcia alla turca di Mozart, esecuzione che ha divertito e allo stesso tempo commosso l’incredulo pubblico. Pensiamo  che per molti, compreso lo scrivente, l’ascoltare dal vivo questo artista sia stata non solo una grande opportunità, ma anche una rivelazione: la scoperta di un grande interprete capace di giocare con i sentimenti e arrivare diritto all’anima. Photo Marco Borggreve

 

 

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Genova, Teatro Carlo Felice: “Idomeneo

gbopera - Gio, 22/02/2024 - 09:00

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2023-24.
“IDOMENEO”
Dramma per musica in tre atti su libretto di Giovanni Battista Varesco
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Idomeneo, Re di Creta ANTONIO POLI
Idamante CECILIA MOLINARI
Ilia BENEDETTA TORRE
Elettra LENNEKE RUITEN
Arbace GIORGIO MISSERI
Gran Sacerdote BLAGOJ NACOSKI
Voce di Nettuno UGO GUAGLIARDO
Due Cretesi LUCIA NICOTRA, MARIA LETIZIA POLTINI
Due Troiani DAMIANO PROFUMO, FRANCO RIOS CASTRO
Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Riccardo Minasi
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Matthias Hartmann
Scene Volker Hintermeier
Costumi Malte Lübben
Coreografia Reginaldo Oliveira
Luci Mathias Märker, Valerio Tiberi
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Genova 18 febbraio 2024.
L’Idomeneo del Carlo Felice ti immerge subito in un grande contrasto che dominerà tutta la recita: una scena all’eccesso corrusca e barbarica si scontra con un’orchestra che, controllatissima, naviga sui più razionali mari dell’illuminismo solidale. Bastano a Riccardo Minasi le prime rallentate battute dell’ouverture a segregare l’affanno drammatico e a promuovere la visione raziocinante ed umanitaria del dramma. All’opposto e in netto contrasto, sul palco, si staglia invasiva, aggettante su un plumbeo fondale, l’inquietante sagoma di uno scafo scheletrico accostato all’orrore di una gigantesca testa taurina, dalle enormi corna appuntite, con orbite svuotate e con spaventose froge fumanti. Non mancano poi sinistri trofei che inalberano, come fossero crocifissi, crani, presumibilmente anch’essi taurini, dalle lunghe corna distese, come braccia inchiodate. Se Riccardo Minasi è di casa al Carlo Felice come Direttore musicale della Fondazione, l’impianto scenico, ideato da Volker Hintermeier, sulle idnicazioni del regista Matthias Hartmann e arditamente illuminato da Mathias Märker e Valerio Tiberi, arriva a Genova da una produzione, per noi non felicissima, del milanese teatro alla Scala del 2019. Fissati così l’impostazione drammatica e lo spirito musicale della serata, ricordando che Malte Lübben ha positivamente contribuito, con costumi appropriati, allo spirito della recita, non si riescono ad evidenziare particolari idee della regia che possano ulteriormente illustrare l’azione ed emozionare. Lascia perplessi è comunque il finale in cui Idomeneo, deposto e ridotto a pezzente elemosinante, cerca di sottrarre, per scherno o per invidia, al popolo festante gli omaggi floreali destinati a celebrare le nozze e il nuovo regno di Idamante. Dalla regia non si è visto  uno spunto che valorizzi l’azione degli attori/cantanti né nei movimenti dell’ottimo Coro. Quest’ultimo trova, nella guida sagace del maestro Claudio Marino Moretti, efficaci suggerimenti e stimoli per imporsi tra i protagonisti indiscussi ed essenziali dell’opera mozartiana. Dal coro emergono poi i lodabili interventi solistici di  Lucia Nicotra e Maria letizia Poltini, (donne cretesi), e di Damiano Profumo e Franco Rios Castro (prigionieri troiani). Ben adattandosi ai sereni andamenti che Riccardo Minasi imposta, brilla, per l’ottima prestazione, l’Orchestra del Teatro genovese, che trova pure nel violoncello di Antonio Fantinuoli, e nel clavicembalo di Sirio Restani l’essenziale ed efficace sostegno per i numerosi recitativi. Il cast vocale è sicuramente un gran punto di forza delle recite genovesi e, a nostro parere, di qualità oggi difficilmente eguagliabile, non solo dai teatri italiani. In tutti e sette i protagonisti si evidenzia la proprietà della lingua in vocali ed accenti sempre corretti e sonori. Recitativi scanditi ed efficaci, come solo la madrelingua consente, garantiscono ai cantanti italiani un gran privilegio per un esito positivo delle recite. Antonio Poli è efficacissimo sia scenicamente che vocalmente. Il canto, facile, naturale e mai forzato, lo candida senza dubbi ad essere un Idomeneo di riferimento. Il fascinoso arioso ”Tranquillo è il mar” e la successiva aria “Vedrommi intorno” sono garanti della completa identificazione col personaggio che poi, la celeberrima “Fuor del mar”, con le sue complesse coloratureà, superate con facilità, conferma. Eccelle anche l’Idamante di Cecilia Molinari. Pur annunciata indisposta, la sua recita è stata impeccabile e coinvolgente. Timbro, figura, agire, voce, canto tutto le calza a pennello nel forgiare un personaggio che sta transitando dalla giovinezza alla maturità e che è l’immagine stessa del razionalismo e della tolleranza. La mancanza di realismo che potrebbe derivarle dal passaggio di una parte maschile, concepita per evirato, ad una cantante, viene superata dalla Molinari, che pur conservando il suo vellutato timbro inequivocabilmente femminile, sfodera un accento e un’azione scenica assolutamente appropriati alla parte. Altrettanto positiva la prestazione di Benedetta Torre la cui dolcezza nel porgere, unita ad un timbro particolarmente accattivante, trova una rara sintonia coi tempi dilatati e con le sonorità discrete esibite dall’orchestra. Meno univoco il giudizio per l’Elettra di Lenneke Ruiten, che pur disponendo di notevoli virtù vocali, appare in evidente difficoltà nell’asprezza dell’aria “D’Oreste, d’Aiace”. Sempre estranea agli accenti di forza e di rabbia, tipici del personaggio, non delude nel “Idol mio se ritroso” e negli sfoghi amorosi del secondo atto. Giorgio Misseri, Arbace, canta con buona tecnica e con voce dal timbro piacevole le sue due arie, di cui la seconda “Se colà ne’ fati è scritto” ha una durata infinita. I suoi numerosi recitativi, cruciali per l’azione, sono eseguiti impeccabilmente, per una piena riuscita dovrebbe forse evitare le troppo lunghe spericolate cadenze e i sovracuti non prescritti. Buona la prestazione di Blagoj Nakoski che con l’imponente figura e la voce sicura e ferma garantisce la solennità del Gran Sacerdote di Nettuno. Dalla balaustra della galleria arriva poi, potente alle spalle del pubblico, la voce di Ugo Guagliardo, efficacissimo Nettuno pacificato. A conferma della scelta interpretativa del Maestro Minasi che si colloca tra il tardo barocco e il neoclassico, il finale viene affidato alla suite di danze K367 a cui partecipano eccellenti mimi e ballerini che danzano con le coreografie di Reginaldo Oliveira. Pubblico, in platea, abbondante. Applausi contenuti, nel corso della recita, prolungati poi nel finale anche per un sipario che mai si chiude, per luci che mai si accendono e per i protagonisti che ripetutamente conquistano il proscenio.

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Roma, Teatro Sala Umberto: “Sei personaggi in cerca di autore” dal 27 Febbraio al 10 Marzo 2024

gbopera - Gio, 22/02/2024 - 08:00

Roma, Teatro Sala Umberto
SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE
Di Luigi Pirandello
drammaturgia Francesco M. Asselta, Michele Sinisi
regia Michele Sinisi
aiuto regia in scena Nicolò Valandro
con Stefano Braschi, Marco Cacciola, Gianni D’Addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Stefania Medri, Donato Paternoster, Marco Ripoldi, Michele Sinisi, Adele Tirante
scene Federico Biancalani
assistente alle scene Elisa Zammarchi
Direzione tecnica Rossano Siragusano
Con il contributo di NEXT-Laboratorio delle Idee & Festival Castel dei Mondi di Andria
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale
Quando lo spettacolo debuttò nel 1921, al Teatro Valle di Roma, la platea contestò la pièce al grido: “Manicomio! Manicomio!”. Il pubblico si trovò di fronte a qualcosa di completamente inedito, un assalto alla forma del teatro borghese, una non-storia in cui a essere messi sotto indagine non erano solo il meccanismo teatrale e la creazione artistica, ma lo stesso rapporto tra realtà e finzione. Nel tempo, però, i Sei Personaggi sono passati da essere una pietra di scandalo a testo “classico”, da matinée per le scuole, un pezzo da museo della letteratura italiana. Mettere in scena questo testo oggi significa muoversi in una mediasfera dove il confine tra vita privata, storytelling, informazione e manipolazione è sempre più labile. Senza contare che lo stesso concetto di “io” è profondamente mutato, moltiplicandosi e sfaccettandosi su tutti i nostri device e account social, in un’oscillazione continua tra realtà e rappresentazione. A quasi cento anni di distanza, Sei personaggi in cerca d’autore è ancora l’opera che meglio indaga il nostro rapporto tra vita e arte, reale e virtuale. Tra incursioni meta teatrali, prove aperte e nuovi ospiti ogni sera, l’opera di Pirandello è l’occasione per confrontarsi con la grande domanda: che cosa rimane dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale? Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello – il nome dell’autore in questo allestimento è diventato parte del titolo  è uno spettacolo matrioska, se così si può dire, in cui il piano meta-teatrale già presente nel testo viene portato all’estremo generando un cortocircuito dove attori, personaggi e pubblico convivono e si mescolano in un happening unico e irripetibile ogni sera. Ad ogni replica, infatti, fra gli attori del cast irromperanno sul palco altre persone/personaggi a sorpresa – protagonisti del panorama teatrale – che interpreteranno una scena dello spettacolo destinata poi ad essere riprodotta come in uno specchio riflesso all’infinito. In un gioco di rifrazioni che userà ogni mezzo tecnologico a disposizione per ricreare il qui e ora dello spettacolo. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: ” Arlecchino?” di Marco Baliani

gbopera - Mer, 21/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
ARLECCHINO?
scritto e diretto da Marco Baliani
con Andrea Pennacchi
e con Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, Anna Tringali
musiche eseguite dal vivo da Giorgio Gobbo, Riccardo Nicolin
scene e costumi Carlo Sala
luci Luca Barbati
aiuto regista Maria Celeste Carbone
Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo in coproduzione con TSV– teatro nazional
“In ogni epoca bisogna lottare per strappare la tradizione al conformismo che cerca di sopraffarla” Walter Benjamin
Roma, 21 Febbraio 2024
Nel suo ultimo spettacolo teatrale, Marco Baliani porta sul palcoscenico una rivisitazione audace e dissacrante del celebre personaggio dell’Arlecchino, incarnato con maestria da Andrea Pennacchi. Con una miriade di personaggi altrettanto bizzarri, interpretati da un cast eccezionale tra cui spiccano Marco Artusi, Federica Girardello e Miguel Gobbo Diaz, l’Arlecchino di Baliani si distingue per la sua goffaggine e inadeguatezza, incarnando un’icona della Commedia dell’arte proiettata nel contemporaneo. La regia di Baliani rivela la volontà di strappare l’Arlecchino dal passato e immergerlo nella modernità, generando un conflitto irresistibile che dà vita a situazioni esilaranti e visioni dissacranti. Attraverso le gesta maldestre ma astute di Arlecchino, lo spettacolo esplora i diversi territori dello spirito umano, mettendo in luce le eterne contraddizioni dell’umanità. Nella rielaborazione della commedia goldoniana, il testo e la sua struttura mantengono una solida fedeltà, mentre si aggiunge un intrigante strato narrativo che aggiunge una sorta di “voce armonica” secondaria. Questo elemento parallelo introduce una comicità contemporanea, arricchendo la trama con una serie di errori e equivoci che si sovrappongono alle burle di Arlecchino. Dal sipario che si alza prematuramente svelando gli attori ancora impreparati alla scena, al cellulare dell’impresario che interrompe il finale, ogni imprevisto contribuisce a un tessuto comico vivace e dinamico. Tuttavia, alcune battute dal sapore razzista e situazioni sessiste possono far storcere il naso, anche se vengono presentate con un chiaro intento caricaturale. L’intento è quello di contestualizzare queste sfumature discutibili all’interno di una comicità che si distacca nettamente dalla realtà, offrendo una visione più lieve e ironica. Particolarmente riuscito è il monologo “Servire o non servire”, che mescola abilmente l’estetica di Shakespeare con lo stile goldoniano, creando uno squarcio di contemporaneità che mette in luce i temi attuali con uno sguardo ironico e spregiudicato. Questo momento farsesco aggiunge profondità alla narrazione, offrendo una riflessione intelligente sulla società moderna attraverso il filtro della commedia classica. La produzione, frutto della collaborazione tra la compagnia Gli Ipocriti di Melina Balsamo e il TSV – Teatro Nazionale, si distingue per la sua energia travolgente e la capacità di reinventare la tradizione teatrale con uno sguardo fresco e provocatorio. Le scene e i costumi di Carlo Sala, insieme alle maschere realizzate da Officine Zorba di Andrea Cavarra, contribuiscono a creare un ambiente straordinario, mentre le luci curate da Luca Barbati conferiscono ulteriore profondità allo spettacolo. La performance degli attori, guidati da uno straordinario Andrea Pennacchi e supportati da una musica dal vivo coinvolgente di Giorgio Gobbo e Riccardo Nicolin, è eccezionale. La loro abilità nel passare da un ruolo all’altro e nel mantenere viva la tensione drammatica è fondamentale per il successo della produzione, che riesce a mescolare abilmente elementi di cabaret, burlesque, e commedia dell’arte classica in una miscela esplosiva. In questo tour de force teatrale, Baliani e il suo talentuoso cast riescono a restituire alla tradizione teatrale un nuovo vigore, reinventandola in una forma sorprendente e irresistibile. Con una narrazione febbrile e una creatività sfrenata, lo spettacolo riesce a catturare l’essenza della commedia goldoniana, offrendo al pubblico un’esperienza indimenticabile che riflette in modo brillante il caos e le contraddizioni del nostro tempo. In questo spettacolo si celebra il potere curativo della risata, anche quando è un po’ graffiante. Qui, ridere è più che un semplice piacere: è una medicina che rianima l’anima e rinvigorisce il corpo, stimolando la circolazione del sangue con un morso di energia. Lo spettacolo ha suscitato un’entusiastica reazione da parte del pubblico, che ha dimostrato il suo apprezzamento con applausi calorosi e sinceri, carichi di trasporto e gratitudine. PhotoCredit @SerenaPea Qui per le altre date.

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Roma, Gnam: “Reality Optional. Miaz Brothers con i maestri del XX secolo” dal 24 Febbraio al 26 maggio 2024

gbopera - Mer, 21/02/2024 - 14:32

Roma, Galleria d’Arte Moderna
REALITY OPTIONAL. MIAZ BROTHERS CON I MAESTRI DEL XX SECOLO
Dal 24 Febbraio al 26 Maggio 2024
Le opere dipinte dal duo artistico Miaz Brothers rappresentano immagini sfocate di personaggi indefiniti, che solo la memoria e l’immaginazione dello spettatore riescono a completare. I Miaz Brothers, i fratelli Roberto (1965) e Renato (1968), da anni impegnati sul tema della percezione e sulla relazione fra realtà e immaginazione, approdano alla Galleria d’Arte Moderna con un progetto espositivo concettuale in cui il loro approccio sperimentale alla ritrattistica si confronta per la prima volta in diretta con i grandi Maestri del Novecento presenti nella collezione d’arte pubblica della GAM.  Accanto a una selezione di capolavori della collezione permanente scelti in accordo con il curatore del museo i due artisti espongono alcune loro personalissime versioni dei dipinti individuati, insieme ad altre opere inedite in cui i soggetti originari sono riprodotti completamente fuori fuoco. In un mondo in cui la tecnologia insegue l’alta definizione delle immagini e veniamo continuamente stimolati da visioni preconfezionate, i Miaz Brothers danno vita, ponendosi anche in polemica culturale con l’attualità, a soggetti enigmatici, mai del tutto definibili, con lo scopo di creare un rapporto di continuità estetica e comunicativa tra il loro segno contemporaneo e lo stile delle opere originarie. In collaborazione con Wunderkammern Gallery. Qui per tutte le informazioni.

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Verona, Teatro Filarmonico: “La rondine”

gbopera - Mer, 21/02/2024 - 08:48

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2024
“LA RONDINE”
Commedia lirica in tre atti su libretto di Giuseppe Adami, A. M. Willner e H. Reichert
Musica di Giacomo Puccini
Magda MARIANGELA SICILIA
Lisette ELEONORA BELLOCCI
Ruggero GALEANO SALAS
Prunier MATTEO ROMA
Rambaldo GËZIM MYSHKETA
Yvette/Georgette AMÉLIE HOIS
Bianca/Lolette SARA ROSSINI
Suzy/Gabrielle MARTA PLUDA
Gobin/Adolfo GILLEN MUNGUIA
Perichaud/Rabonnier RENZO RAN
Crebillon/Maggiordomo CARLO FEOLA
Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Alvise Casellati
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Stefano Vizioli
Scene Cristian Taraborrelli
Costumi Angela Buscemi
Luci Vincenzo Raponi
Coreografia Pierluigi Vanelli
Nuovo allestimento in coproduzione tra Fondazione Arena di Verona e Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara
Verona, 18 febbraio 2024
A ventidue anni dall’edizione curata da Luca De Fusco con la direzione d’orchestra di Maurizio Arena, torna al Filarmonico il tormentato capolavoro di Puccini le cui vicissitudini nella genesi ne testimoniano la sofferta creazione e trasformazione in corso d’opera. Nata in origine dalla commissione del Carltheater di Vienna nel 1913, La rondine aveva tutti i connotati dell’operetta con numeri musicali alternati ai dialoghi parlati; Puccini accettò, forse assai più lusingato dal compenso finanziario che dalla sfida artistica in una forma che in fondo non gli era affatto congeniale. Se Mascagni e Leoncavallo si erano cimentati agevolmente con il genere che spopolava oltralpe, Puccini faticò non poco a lavorare sull’impianto operettistico a numeri chiusi al punto di lamentare insofferenza e mancanza di ispirazione, arrivando a definire il progetto originale “una solenne porcheria” maledicendo lo stile e la moda viennese. Una serie di circostanze, non ultima lo scoppio del primo conflitto mondiale, lo aiutarono a svincolarsi dal contratto e a riconvertire l’opera musicandola per intero e presentandola quindi come commedia lirica affidandone il libretto in italiano a Giuseppe Adami. Gli attriti con il librettista viennese Willner, che in una lettera a Puccini lo accusava di diffondere giudizi negativi sul libretto originale, e il rapporto non proprio idilliaco con Tito Ricordi che non voleva rischiare in quella che definì “una cattiva imitazione di Lehár” portarono all’accordo con l’editore rivale Sonzogno che si assicurò così l’esclusiva mondiale della partitura ma non ne favorì con efficacia la diffusione commerciale. La prima, slittata al 1917 e nel frattempo spostata a Montecarlo con disappunto dei francesi che la vedevano come un’invasione musicale della nemica Austria, fu un successo grandioso anche se la critica si mantenne prudente nel valutare la partitura. Una partitura che Victor De Sabata, tra i pochi a saperne trarre la pura essenza pucciniana, definì come una delle più eleganti e raffinate del lucchese e che conserva modi ed atteggiamenti mutuati dalle tendenze d’oltralpe, non ultima la presenza di ballabili allora in voga come il valzer, la polka, lo slow fox e l’one-step. La vicenda richiama quella dell’amore tra Violetta ed Alfredo, anche se alla fine “non ci scappa il morto”: Magda preferisce tornare alla vita lussuosa e agli agi della mantenuta rinunciando dunque alla morale catartica. Nonostante l’ambientazione originale voluta da Puccini abbia luogo nella Parigi secondo Impero, il regista Stefano Vizioli sceglie di posticiparla negli anni ’50 per dare un tocco glamour ed accarezzare i corpi femminili senza appesantirli con abiti “haute couture”; la Parigi delle grandi sartorie e della moda ma anche quella dei locali fumosi dove trionfano i balli apaches. Nel terzo atto il regista mette a fuoco l’illusione di un amore insostenibile tra i due ragazzi squattrinati, destinato a soccombere al cospetto del vil denaro che spingerà Magda ad una decisione definitiva e giusta per entrambi. Tutte le buone intenzioni di Vizioli rimangono sulla carta svaniscono però in una bolla di sapone perchè lo spettacolo appare privo di una reale atmosfera (a parte il suggestivo profilo di Parigi, alla fine dell’atto primo) e non suscita emozioni particolari; non aiutano le scarne scenografie di Cristian Taraborrelli e i costumi di Angela Buscemi come del resto l’inconsistenza della coreografia di Pierluigi Vannelli. Buone, ma senza guizzi, luci di Vincenzo Raponi. Sul versante musicale dobbiamo rilevare un’ottima compagnia di canto con la magnifica Magda di Mariangela Sicilia, brilla già  in Chi il bel sogno di Doretta dove sfodera una linea di canto ed un fraseggio quasi strumentale creando e mantenendo sempre vivo il suo personaggio in bilico tra felicità, dubbio e angosce interiori. Da parte sua, Galeano Salas conferma il giudizio già espresso per il suo Rodolfo pucciniano nel 2022: la sua voce è di bel colore, luminosa e libera nell’emissione su tutta la gamma. Accanto ai due amanti, la Lisette di Eleonora Bellocci e il poeta Prunier di Matteo Roma muovono con efficacia vocale e teatrale gli ingranaggi di una vicenda di per sé leggera, con tutta la malizia richiesta ma con una linea di canto sempre convincente e sul pezzo. Nel ruolo di Rambaldo Gëzim Myshketa non delude le aspettative a cui ci ha abituati tanto al Filarmonico quanto in Arena con una bella linea vocale e un timbro sempre a fuoco. Buono il resto del cast con Amélie Hois, Sara Rossini, Marta Pluda, Gillen Munguia, Renzo Ran e Carlo Feola, impegnati nei ruoli minori. Se la prestazione della compagnia di canto è stata univocamente ottimale, lo stesso non si può dire della direzione di Alvise Casellati che oltre a non cogliere le finezze strumentali di una partitura lussureggiante appare talvolta in difficoltà nella gestione degli assiemi e dei piani sonori con l’orchestra ancora una volta soverchiante le voci – tutto il canto di conversazione ne risulta compromesso. Il coro, chiamato ad una parte sicuramente non all’altezza di quella delle opere consorelle di Puccini, risulta sempre (per quanto lo dovremo ripetere ancora?) soffocato sul palcoscenico con il suono che arriva in sala sordo e privo di colore rendendo la prestazione anonima e spesso confusa. Uno spettacolo nel complesso senza luci né ombre, onesto ma non di più sul piano visivo e della direzione d’orchestra con dei bagliori nel settore vocale. Pubblico numeroso, ma non da “tutto esaurito”, che ha comunque tributato un caloroso successo a tutti gli interpreti. Repliche il 21, 23 e 25 febbraio. Foto Ennevi per Fondazione Arena

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Storia di una Capinera”

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
STORIA DI UNA CAPINERA
di Giovanni Verga
adattamento Micaela Miano
Con Enrico Guarnieri 
e Nadia De Luca
regia Guglielmo Ferro
con la partecipazione straordinaria di Emanuela Muni
e con 
Rosario Marco Amato, Verdiana Barbagallo, Federica Breci, Alessandra Falci, Elisa Franco, Loredana Marino, Liborio Natali
scene Salvo Manciagli
musiche Massimiliano Pace
Costumi Sartoria Pipi
Produzione Progetto Teatrando
Roma, 20 Febbraio 2024
Sapresti dirmi perché il rumore di taluni passi si senta col cuore come se il cuore udisse? e perché scuota tutti i nervi, e faccia gelare tutto il sangue?
La riduzione di “Storia di una capinera” firmata da Rosario Minardi nasce come spettacolo, con grande successo di pubblico e di critica, poi diventa una pubblicazione editoriale del copione integrale (col supporto della colonna sonora) tratto dal romanzo verghiano, e adesso ritorna a teatro con un nuovo importante allestimento. La vicenda si concentra su un unico nucleo narrativo: la storia della povera Maria (Nadia De Luca), raccontata attraverso le lettere che essa scrive ad una compagna di convento Marianna. Il cambiamento interiore di Maria nasce da una sua provvisoria liberazione, dal contatto con la natura, dal suo ritrovarsi con la famiglia nelle terre di Monte Ilice mentre a Catania infuria il contagio del colera.“ Il mio pensiero non è imprigiona-to sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte…”. La storia si snoda tutta sul filo di un progressivo itinerario spirituale: quella esperienza fa sorgere in lei il senso d’una vita più libera e aperta, e l’avvia a concepire una crescente avversione per l’ambiente conventuale dove ha trascorso da educanda gli anni dell’adolescenza. Di qui, scopre l’amore. Il giovane Nino è l’idolo un po’ sfocato che accende nella protagonista la fiamma di una passione inestinguibile. Ma il rapporto è troncato sul nascere dall’intervento dei familiari: Nino sposerà la sorella di Maria (Giuditta), acconciandosi a un matrimonio giudizioso e senza fantasticherie. Maria sarà costretta a rientrare in convento dove si spegnerà dopo lunga e penosa agonia. La scansione epistolare e monologante di Maria con l’amica Marianna diventa azione scenica coi personaggi che prendono vita e si muovono all’interno della narrazione, intorno alla protagonista. Maria è la piccola capinera in gabbia. Lo spettacolo cattura immediatamente l’attenzione dello spettatore sin dalle prime battute. Le scelte musicali di Massimiliano Pace, che oscillano tra canti sacri e suoni naturali, insieme alle bellissime ed evocative ambientazioni sceniche di Salvo Manciagli, che bilanciano sapientemente passato e presente, costruendo un’armonia visiva tra ciò che è stato ed è proiettato, si rivelano un elemento fondamentale. La scelta innovativa di utilizzare poi proiezioni su sottili fili di tende dona al palcoscenico un senso di movimento e fluidità, creando un’atmosfera che richiama l’equilibrio tra forze opposte, tra il bene e il male, come un tao teatrale. I costumi, curati nei minimi dettagli dalla Sartoria Pipi e perfettamente in sintonia con l’epoca storica rappresentata, aggiungono un tocco di classe e autenticità all’insieme. Enrico Guarneri, erede della ricca tradizione drammaturgica siciliana, si conferma oggi come un interprete di grande talento dei personaggi creati da Verga. Fin dal primo monologo, l’attore dimostra immediatamente le sue capacità e la sua sensibilità nel trasmettere ogni parola con profondità, modulando e dando un ritmo musicale ad ogni frase. La sua performance trova una risposta altrettanto delicata e profonda in Nadia De Luca che interpreta il ruolo con una freschezza e una reattività sorprendenti, sintonizzandosi perfettamente con l’armonia proposta da Guarneri. Ma non solo i due protagonisti si distinguono: l’intero cast agisce come un’orchestra perfettamente sincronizzata, contribuendo a mettere in risalto questo straordinario duetto di attori con grande maestria e precisione. Guglielmo Ferro offre nella sua regia una prospettiva penetrante dell’opera, osservando che se Maria è una vittima, non lo è dell’amore peccaminoso per Nino, che mette in discussione la sua vocazione, ma piuttosto della figura paterna di Giuseppe Vizzini. Quest’ultimo è il vero peccatore secondo la visione di Verga, poiché, mosso dall’amore, dalla paura e dal rispetto delle convenzioni sociali, è responsabile della morte sia fisica che spirituale di Maria. Ed è proprio sul drammatico rapporto tra padre e figlia, sulle loro ambiguità e tormenti, che si concentra la narrazione di “Storia di una capinera”. La stanza del convento diventa il fulcro della scena, con Maria imprigionata in quella prigione e il padre Giuseppe agendo come suo carceriere. Entrambi sono dolorosamente vittime e carnefici al tempo stesso. L’opera, pertanto, si configura come un racconto di legami infelici, privi di redenzione. Né Maria, né suo padre Giuseppe, né lo spettatore possono trovare la redenzione, poiché questo concetto non appartiene alla crudele realtà della Sicilia di Giovanni Verga. L’esibizione è stata un’esperienza intensa e allo stesso tempo delicata, ma anche tagliente, catturando l’attenzione del pubblico presente al Teatro Quirino. Ogni attore è stato ricompensato dall’entusiasmo del pubblico, che ha risposto con applausi calorosi e consensi vibranti. Qui per le atre date.

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“Il Figlio” di Florian Zeller in scena al Franco Parenti di Milano, dal 21 febbraio al 3 marzo 2024

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 19:10

Da Florian Zeller, sceneggiatore premio Oscar di “The father” (film con un meraviglioso Antony Hopkins), in scena il capitolo dedicato a “Il figlio”. Tradotto e messo in scena da Piero Maccarinelli questo è uno spettacolo che mette davanti allo specchio tutti i genitori di un figlio adolescente – con colpo di scena finale. Nicola, che vive con sua madre Anna, da tre mesi non frequenta più il liceo. Sospettando una depressione adolescenziale, il padre accoglie il figlio a vivere con lui impegnandosi a fargli ritrovare il gusto di vivere. La trama è semplice ma non il tessuto di emozioni, la voglia di svelare quel che spesso si cela nel nostro animo.
Un testo lucido, intelligente e carico di emozioni, che esplora i rapporti familiari: le incomprensioni generazionali, le relazioni di coppia, il dramma delle separazioni. Sul palco del Franco Parenti Giulio Pranno, già protagonista al cinema in “Tutto il mio folle amore” e “La Scuola cattolica”, Cesare Bocci, volto noto di cinema e tv, Galatea Ranzi (“La grande bellezza”) e Marta Gastini, protagonista della serie internazionale “I Borgia” e nel cast di “The Rite” con Anthony Hopkins. 

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Venezia, Teatro La Fenice: La Quarta di Bruckner secondo Hartmut Haenchen

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 11:49

Venezia, Teato La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Hartmut Haenchen
Anton Bruckner:Sinfonia n. 4 in mi bemolle maggiore “Romantica” (Seconda versione 1878-1880, revisione Korstvedt)
In occasione del 200° anniversario della nascita di Anton Bruckner
Venezia, 17 febbraio 2024
Un rilievo particolare viene assegnato, nell’ambito della presente Stagione Sinfonica del Teatro La Fenice ad Anton Bruckner, in occasione del 200° anniversario della nascita: all’esecuzione della Quarta Sinfonia, in programma nel concerto di cui ci occupiamo, farà seguito, nel concerto successivo, quella della monumentale Ottava. Giusto riconoscimento a un compositore – insopprimibile tramite tra Wagner e Mahler, oltre che personalità di spicco, insieme al coevo Brahms, nella fase conclusiva del tardo-romanticismo musicale –, che per molti anni – almeno in Italia – è stato valutato con scetticismo, nonché tacciato di intellettualismo, e che solo da qualche decennio sta conoscendo l’apprezzamento di un pubblico sempre più vasto. Ma un’élite di intellettuali come Luchino Visconti – che utilizzò la Settima Sinfonia come colonna sonora in Senso (1954) – , Sergio Martinotti – cui si deve un saggio sul compositore austriaco, con prefazione di Luigi Rognoni (1973) – e pochi altri ne compresero la grandezza fin dagli anni Cinquanta del Novecento.
La Quarta sinfonia, che l’autore stesso volle indicare come “Romantica”, costituisce uno dei titoli più famosi di Bruckner, un compositore passato alla storia anche per il suo incessante sforzo di perfezionare le proprie partiture, sottoponendole – con una frequenza che rasenta il parossismo – a un numero “esagerato” revisioni, così da rendere piuttosto arduo individuare per molte di esse una versione di riferimento: un destino cui non sfuggì neanche la Sinfonia n. 4. Fortunatamente la nuova edizione critica della seconda versione, realizzata da Benjamin Korstvedt, mettendo a confronto tutte le fonti manoscritte disponibili, rappresenta un contributo fondamentale a fare chiarezza su un capolavoro ben noto agli appassionati di musica, ma che per gli studiosi ha costituito per anni una “vexata quaestio”. Tale edizione ripristina, tra l’altro, il Finale – più volte riscritto, in quanto ritenuto da Bruckner debole sul piano costruttivo –, così come fu proposto, nella prima esecuzione assoluta della sinfonia, il 20 febbraio 1881, con Hans Richter sul podio dei Wiener Philarmoniker.
Nonostante la sua travagliata genesi, la Quarta Sinfonia incontrò subito il favore del pubblico, se non altro per l’innegabile fascino che emana il carattere romantico della partitura. Un carattere che l’autore stesso esplicitò, grazie ad alcune indicazioni programmatiche, con cui intendeva aiutare l’ascoltatore a immergersi totalmente in questa musica, che è anche un vasto affresco sonoro. In questo la rappresentazione di una città medievale all’alba – tra segnali di sveglia delle trombe e il galoppare di un gruppo di cavalieri, che si precipitano fuori dalle mura – si coniuga alla magica evocazione della natura incontaminata, così cara alla sensibilità ottocentesca; il tutto introdotto, nelle prime battute, dal richiamo del corno, strumento boschivo per eccellenza, che intona un motivo – modellato sull’intervallo di quinta e quello di sesta minore –, dal quale germina gran parte del materiale tematico dell’intera sinfonia.
Una grande esecuzione del capolavoro bruckneriano è stata offerta da Hartmut Haenchen, che ha guidato con mano sicura e chiarezza di intenti l’Orchestra del Teatro La Fenice, confermatasi ancora una volta una compagine che nulla ha da invidiare ad analoghe formazioni a livello internazionale, anche quando si cimenta in un repertorio, un tempo ritenuto prerogativa pressoché esclusiva delle maggiori orchestre d’oltralpe. Tutte le sezioni orchestrali hanno brillato nel movimento iniziale, che rivela tre gruppi tematici: il primo aperto con eleganza di suono e d’accento, sul tremolo in pianissimo degli archi, dall’appena citato assolo del corno; il secondo corrispondente a un episodio naturalistico, in cui si soni imposti i violini nell’imitare il verso della cinciallegra e le viole nell’esprimere la felicità che nasce dall’ascoltare le voci della natura; il terzo caratterizzato da un motivo discendente di fanfara, basato sul tipico schema ritmico bruckneriano, che unisce un metro binario a uno ternario (2+3 o 3+2). Dopo il breve sviluppo, la coda si è degnamente conclusa con la riproposizione del tema d’esordio. Gli interventi degli archi – in particolare la scansione ritmica di violini e viole sul lamento dei violoncelli; un corale dell’intera sezione con armonie modali; un lungo tema delle viole, derivato da quello dei violoncelli – hanno primeggiato nellAndante, che è una sorta di marcia funebre, la cui ripresa è, nel tempo lento, un passaggio che accumula la tensione verso il punto culminante, un trionfale accordo di do maggiore. Nello Scherzo suggestivi richiami dei corni e incalzanti fanfare – sempre più insistenti e in crescendo ad esprimere l’avvicinarsi dei cacciatori – hanno ceduto al ritmo danzante del Trio con la sua melodia popolare austriaca, per poi riprendere con vigore. Imponente il Finale che si basa su reminiscenze tematiche del primo tempo. Immerso inizialmente in un’atmosfera sospesa, il movimento è cresciuto d’intensità sfociando, in un fortissimo dell’intera orchestra all’unisono. È seguito un richiamo al motivo iniziale del primo movimento, prima che uno sviluppo di proporzioni vastissime, ripresentasse le singole cellule motiviche nelle fogge più varie in un alternarsi di esplosioni sonore, suadenti figurazioni dei violini e ardite sospensioni della tonalità. Dopo la ricomparsa del tema dell’Andante, al quale si intrecciavano un poderoso corale e un grazioso motivo di carattere popolare, si è giunti alla coda conclusiva, in cui tutti gli ottoni hanno ripreso il motivo di quinta discendente, affidato in origine al corno solo, unendo così i due estremi dell’intera sinfonia. Applausi ed ovazioni, a fine serata, per il Direttore e l’Orchestra.

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ParmaDanza 2024: “Rhapsody in Blue”

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 08:38

Teatro Regio di Parma, ParmaDanza 2024
“RHAPSODY IN BLUE” – CCN/ATERBALLETTO
“YELED
Coreografia e musica Eyal Dadon
Pianoforte Samuel van der Veer
Scene e luci Fabiana Piccioli
Costumi Bregje van Balen
produzione CCN, Teatro Regione, Ambasciata di Israele
“RHAPSODY IN BLUE”
Coreografia Iratxe Ansa, Igor Bacovich
Musica George Gershwin e Bessie Jones
Scene e costumi Fabio Cherstich
Luci Eric Soyer
Prima assoluta
“SECUS”
Coreografia Ohad Naharin
Musiche di Autori Vari
sound design ed editing Ohad Fishof
Costumi Rakefet Levy
Luci Avi Yona Bueno
Parma, 17 febbraio 2024
Insomma c’è quella cosa che ti aspetti e sei sempre accontentato quando assisti alle performance del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto. Il fatto che la compagnia non manca mai di lasciarti impressa negli occhi la meraviglia dei colori dei costumi dei suoi balletti. Non c’è coreografia che non sia una tavolozza, o meglio un “pantone” di tonalità, alle volte marcate, altre sfumate, dal pennarello al pastello: un insieme di grafica del movimento e dosaggio delle luci. Già questo è spettacolo che entusiasma, e il pubblico del Regio, esigente e competente, non ha mancato di esprimere gratitudine con prolungati applausi. In “Yeled” una porticina apre al mondo dell’infanzia; il luogo che conserviamo dentro di noi, che non è esattamente abitato dal fanciullo che per Giovanni Pascoli sa meravigliarsi delle cose, ma uno spazio-tempo in cui guardiamo a come abbiamo appreso ciò che siamo. Per l’israeliano Eyal Dadon, il bambino (yeled, in ebraico) è un’entità che porta con sé ciò che impara e lo forma, negli atteggiamenti e nelle relazioni. In scena, contrapposta al pertugio sta la porta che dà sulla vita adulta; un’apertura dalla quale entrano i nostri sguardi nostalgici e indagatori. Ciò che vediamo dentro questo spazio scenico, che il sottofondo musicale carica di aspettative, sono gesti: il braccio col pungo chiuso, qui inteso come simbolo di forza e sfida, i musi lunghi, gli sberleffi e le interminabili urla di pianto, ma anche rappresentazioni di reminiscenze, quando la TV ci faceva da baby-sitter, per cui i danzatori si raggruppano a (ri)comporre ciò che all’interno delle porte degli armadi appiccicavamo: i ritagli dei giornaletti per ragazzi a creare una sorta di totem dei nostri miti. Poi se vogliamo, in “Rhapsody in blue” ritroviamo ancora questo spirito triste ma agitato, introverso ma altruista del fanciullo, stavolta “recitato” in musica dall’inconfondibile sinfonia di Gershwin. Quel celeberrimo assolo iniziale di clarinetto (agitazione) che viene accolto da un’orchestra di archi (tristezza) e di seguito da un potente fraseggio sincopato di pianoforte (introspezione), che si evolve in un via vai di alti e bassi, moderati e veloci (altruismo), fino all’epico ensemble finale. Sul palco 16 ballerini riproducono pedissequamente l’espressionismo lirico di quest’opera, con composizioni coreografiche molto plastiche e astratte, affatto minimaliste, che in alcuni momenti assomigliano ai veloci movimenti dei martelletti del pianoforte. Quel cerchio luminoso che sovrasta la scena e abbaglia, cambiando colore, è il punto statico di Kandinsky e i danzatori, che sotto di esso si agitano in controluce, non sono che la manifestazione dei nostri stati d’animo: costume giallo per la rabbia, rosso per la forza, blu per la tranquillità (che per Gershwin è “Blues”, per la sonorità). Tuttavia, dal bellissimo booklet per la stampa, apprendiamo che il disco luminoso di “Rhapsody” è ispirato alle opere di Olafur Eliasson, un artista danese-islandese, in cerca di connettere l’uomo e la natura, famoso per le istallazioni permanenti in luoghi pubblici (Bilbao). Infatti, tutta questa coreografia ha un gusto ancestrale: un’ominazione del comportamento, che è il processo evolutivo della nostra psiche, dall’infante all’adulto. L’impegno sociale dei coreografi, la coppia Iratxe Ansa e Igor Bacovich, è tutta svelata, anzi offerta, anzitempo alla prima del Regio, con una dimostrazione aperta agli allievi delle scuole di danza, in omaggio a ParmaDanza. Chiude “Secus” creato da Ohad Naharin per la Batsheva Dance Company, qui riallestito dalla compagnia di Reggio Emilia. Un prezioso e ricco potpourri di virtuosismi tecnici su un martellante mash-up techno, tra cui spicca per bellezza ed eleganza un duo maschile, quest’ultimo accompagnato dal melodico “Na Tum Jano Na Hum” (dall’Hindi: “né tu né io lo sappiamo”) di Lucky Ali. Vera meraviglia per l’azzardo delle prese possenti, alternate a slanci a peso morto: quando la fiducia nell’altro va oltre l’intesa di coppia, ma giustamente risiede nell’aiuto solidale al cospetto delle avversità. Foto Christian Bernard

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Roma, Teatro India: “Storia di un oblio” dal 21 al 25 Febbraio 2024

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 08:00

Roma, Teatro India
STORIA DI UN OBLIO

di Laurent Mauvignier
©Les Editions Minuit
traduzione Yasmina Melaouah Ed. Feltrinelli
regia Roberto Andò
con Vincenzo Pirrotta
Un uomo entra in un supermercato all’interno di un grande centro commerciale di una città francese. Ruba una lattina di birra e viene bloccato da quattro addetti alla sicurezza che lo trascinano nel magazzino e lo ammazzano di botte. Questo scarno fatto di cronaca è raccontato da Laurent Mauvignier in un lungo racconto, una sola frase che ricostruisce la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. Teso quasi allo spasimo nel resoconto minuzioso di una morte assurda, il flusso di parole raduna impercettibilmente tutti i temi cari a Mauvignier. E torna così il suo sguardo purissimo su un universo di “umili” che la scrittura rigorosissima accoglie senza una briciola di retorica, senza un’ombra di furbizia. Raro, oggi, nel trionfo dei format narrativi nei quali la realtà diventa un reality, uno stile così impeccabilmente morale, una prosa così pudica e vera. “Quel che io chiamo oblio” è il titolo originale di questo monologo, scritto in un’unica frase, senza un vero inizio, senza una vera fine, senza punteggiatura ma con una prosa perfetta che in un crescendo emozionante risveglia in noi sentimenti di pietà e indignazione. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Arlecchino?” dal 21 Febbraio al 03 Marzo 2024

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 08:00

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
ARLECCHINO?
scritto e diretto da Marco Baliani
con Andrea Pennacchi
e con Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, Anna Tringali
musiche eseguite dal vivo da Giorgio Gobbo, Riccardo Nicolin
scene e costumi Carlo Sala
luci Luca Barbati
aiuto regista Maria Celeste Carbone
Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo in coproduzione con TSV– teatro nazional
“In ogni epoca bisogna lottare per strappare la tradizione al conformismo che cerca di sopraffarla”
Walter Benjamin
L’Arlecchino che Andrea Pennacchi porta in scena farà forse sussultare i tanti Arlecchini che nel tempo hanno fatto grande questa maschera della commedia dell’arte. Lui cerca in tutti i modi di essere all’altezza del ruolo, ma non ne azzecca una, é goffo, sovrappeso, del tutto improbabile, ma è in buona compagnia: gli altri attori, che, come lui, sono stati assoldati, con misere paghe, dall’imprenditore Pantalone, sono, al pari di Arlecchino, debordanti, fuori orario, catastroficamente inadeguati. Eppure tutti questi sbandamenti, queste uscite di scena e fughe dal copione, che sono anche uscite nella contemporaneità dell’oggi, queste assurde prestazioni, queste cadute di stile e cadute al suolo di corpi sciamannati, tutte queste parole affastellate, tutto questo turbinio di azioni e gesti, stanno proprio rifacendo il miracolo della grande commedia goldoniana, in una forma non prevista, una commedia dirompente, straniante, che ricostruisce la tradizione dopo averla intelligentemente tradita. Ed ecco allora che la storia, nonostante tutto, anzi proprio grazie a questo tutto invadente, si dipana nella sua narrazione e ne esce un Arlecchino mai visto che riunisce stilemi diversi, frammenti di cabaret, burlesque, avanspettacolo, commedia, dramma, un gran calderone ultra postmoderno che inanella via via pezzi di memoria della storia del teatro. Per riuscire a creare un simile guazzabuglio di intenzioni, per riuscire a renderlo eccezionalmente vivo, occorrevano attori capaci di seguirmi in un simile delirio. Ed eccoli qui, una compagnia di compagni e complici, Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, e Anna Tringali, capaci di interpretare contemporaneamente più ruoli, di passare dalle proteste borbottanti degli attori sottopagati, alle vorticose azioni dei personaggi della commedia che pur devono rappresentare. In questo incessante salto mortale di identità è il loro talento a tenere insieme ciò che di continuo sembra sfuggire alla presa. Appartengono di diritto alla grande tradizione del teatro veneto, grande perché sempre capace di rischiare per rinnovarsi, come accade su queste tavole sceniche imbandite di follia arlecchinesca. Durante le prove immaginavo di avere Carlo Goldoni seduto in terza fila, e dovevo dirgli di fare silenzio tanto si sganasciava dalle risate, con gli occhi stupiti di bambino mai cresciuto di fronte a questa sua opera divenuta così inverosimile da essere ancor più sua. E quando poi le musiche di Giorgio Gobbo accompagnate dalla batteria di Riccardo Nicolin si infilavano come blitz sorprendenti costringendo gli attori a divenire anche danzanti e cantanti il Goldoni là dietro non si teneva più. Infine che dire delle scene fluttuanti di Carlo Sala, una scenografia semovente, mobile, semplice come lo è la creatività quando si dimentica di dover fare bella figura e si lascia andare al gioco infantile, grazie agli stessi attori che si fanno operai macchinisti modificando la scena di continuo come avvenissero improvvise folate di vento, a volte in forma di bufera a volte come zefiro primaverile. Il testo febbrilmente rimaneggiato ogni giorno, a partire dalle intuizioni che sorgevano in me, vedendo all’opera la creatività degli attori, e trascritto con solerzia da Maria Celeste Carobene, è proprio quello che fin dall’inizio avevo immaginato. Le parole che vengono fatte volare sono anch’esse leggere, eppure, eppure, come accade davvero nella vera commedia, arrivano stilettate e spifferi lancinanti che parlano dei nostri giornalieri disastri di paese e di popolo, così che i terremoti scenici ci ricordano il traballare quotidiano delle nostre esistenze. Qui per tutte le informazioni.

 

 

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Roma, Festival Equilibrio: “Universe: A Dark Crystal Odyssey” di Wayne McGregor

gbopera - Mar, 20/02/2024 - 00:10

Roma, Auditorium Sala della Musica Ennio Morricone, Sala Petrassi, Festival Equilibrio 2024
“UNIVERSE: A DARK CRYSTAL ODYSSEY”
Coreografia Wayne McGregor
Musica Joel Cadbury
Film Design Ravi Deepres
Drammaturgia Uzma Hameed
Lighting Design Lucy Carter
Costumi e copricapi Philip Delamore e Alex Box
Poesia orale Isaiah Hull
Company Wayne McGregor
Coproduzione The Royal Ballet e Studio Wayne McGregor in associazione con The Jim Henson Company
Roma, 15 febbraio 2024
Immagini potenti che avvolgono lo spettatore e sembrano uscire dalla scatola teatrale quelle usate dal coreografo Wayne McGregor nel suo spettacolo Universe: A Dark Crystal Odyssey, presentato con grande richiamo al Festival Equilibrio curato da Emanuele Masi e del tutto consonante con l’invito di quest’ultimo a “guardare con acume e speranza nell’oscurità di un cielo che è rappresentazione del nostro presente inquieto”. Il pluripremiato coreografo britannico, già noto come autore di produzioni che coinvolgono danza, cinema, arti visive, moda, scienza e tecnologia, riflette questa volta sulla crisi climatica ispirandosi al film fantasy The Dark Crystal di Jim Henson. L’impatto iniziale è oltremodo avvincente. In un’ambiente marino distinto dal rumore dell’acqua e dall’imponente apparizione di un pesce rosso in movimento, i danzatori nel loro riverberante movimento riflesso nelle tute fluo si fondono con la natura liquida circostante, diventandone parte integrante ed esprimendone armonie e disequilibri. Ci si perde per non necessariamente ritrovarsi in quest’Odissea scura fatta di “sfruttamento”, “distruzione” e “apatia”. Il divampare di una gigantesca cartolina, il colore scuro della contaminazione, le lamine taglienti dello stile di movimento destinato ad alcuni passaggi coreografici rispondono a una tensione narrativa di fondo che si nutre del confronto con la musica elettronica di Joel Cadbury e con parole che rimandano alle catastrofi ambientali. Nel suo essere concettuale, la danza di McGregor si qualifica come un’arte che parte da motivi reali per pervenire a vette universali, facendo rinascere in chi la osserva un lume di speranza. Il luccichio delle stelle si riflette negli abiti dei performers, che si abbandonano a momenti a una danza pura intrisa dal rapporto con forme geometriche circolari. Alla base dell’ispirazione di McGregor si può intravedere l’idea della metamorfosi. Quello che inizialmente può apparire come l’immagine di una medusa si trasforma gradualmente ampliandosi ed evolvendo verso l’immagine di un bosco con alberi o di una struttura architettonica, per poi dissolversi davanti agli occhi dello spettatore. Lo stesso vale per la danza e lo spettacolo nel suo complesso, costituito dall’alternarsi e dal dissolversi di diverse scene. Occorre dunque comprendere chi siano davvero gli interpreti, che linguaggio parlino e quale sia il loro ruolo ultimo in questa continua transizione. Il suggerimento verbale riferito all’essenza dell’esistenza umana si relaziona al dialogo visuale tra la solidità di un albero frondoso radicato nella terra e la nobile perfezione del cosmo, rendendo i danzatori in quanto esseri umani dei fari potenti, oltre che degli strumenti di una comunicazione soprannaturale che nel fluido ondeggiare delle forme si propaga come luce nello spazio, raggiungendo l’infinito. Foto Fondazione Musica per Roma/MUSA

 

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Milano, Teatro alla Scala: “Simon Boccanegra”

gbopera - Lun, 19/02/2024 - 17:38

Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti, Libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra LUCA SALSI
Jacopo Fiesco AIN ANGER
Poalo Albiani ROBERTO DE CANDIA
Pietro ANDREA PELLEGRINI
Amelia (Maria) ELEONORA BURATTO
Gabriele Adorno CHARLES CASTRONOVO
Capitano dei Balestrieri HAIYANG GUO
Ancella di Amelia LAURA LOLITA PEREŠIVANA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Lorenzo Viotti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Daniele Abbado
Scene Daniele Abbado e Angelo Linzalata
Costumi Nanà Cecchi
Luci Alessandro Carletti
Movimento coreografici Simona Bucci
Nuovo allestimento
Milano, 17 febbraio 2024
Va nuovamente in scena alla Scala il Verdi maturo di Simon Boccanegra, riproposto l’ultima volta nel 2018 sulle tavole del Piermarini e di cui conserviamo il ricordo storico del leggendario allestimento firmato da Strehler esattamente quarant’anni prima, sotto la bacchetta di Claudio Abbado. Oggi la regia proposta è proprio del figlio, Daniele Abbado, ed è costruita sulla pretesa di una lettura ridotta all’osso che punti all’essenziale e a un’astrazione senza tempo, quasi un’immagine dell’assoluto, quando in realtà rivela una generica scarsità di idee concrete in un cosmo teatrale esageratamente asettico ed insipido. Una cornice anonima che ha il solo pregio di permettere allo spettatore di focalizzarsi interamente sulla musica, avendo poco altro da assimilare da questa proposta di allestimento. Questa impostazione si riflette anche nelle scarne scene disegnate dallo stesso Abbado – supportato da Angelo Linzalata – costituite da ampie superfici spoglie, blocchi di pareti semoventi, fondali neutri, pochi altri elementi di carattere illustrativo (un albero, delle vele, una barca, del mobilio spoglio). All’interno di questi ampi spazi vuoti brancolano smarriti protagonisti e masse, vestiti degli altrettanto confusi costumi di Nanà Cecchi, né di grande impatto e né coerenti tra loro nell’attingere da indefinite epoche diverse. Unico elemento a reggere visivamente un palcoscenico tanto desolato sono le belle luci di Alessandro Carletti, in grado di costruire intorno ai solisti una pregevole intensità drammatica, con suggestivi tagli e potenti proiezioni d’ombra sulle fredde superfici circostanti. Lorenzo Viotti torna a guidare l’Orchestra del Teatro alla Scala forte dei due precedenti successi qui debuttati in ambito comédie/tragédie lirique, che sappiamo padroneggiare alla perfezione dopo il suo Gounod del 2020 e del suo Massenet del 2022, nonché a valle dei suoi numerosi impegni internazionali. Primo approccio a una partitura italiana nel tempio italiano dell’opera dunque, un appuntamento non banale cui il giovane maestro risponde al solito con una lettura di grande profondità, variegata nelle dinamiche e sublime nella ricercatezza dei colori. Unico vizio di forma è forse la tendenza a trascinare inconsciamente la concertazione verso il suo proprio repertorio d’elezione, dandole un sapore più affine ad un romanticismo francese fortemente sbilanciato sul lirismo melodico, che quasi rinuncia alla spinta incandescente di quella pregnanza e di quel turgore tragico tipico verdiano. Nel ruolo del titolo troviamo un Luca Salsi in grande spolvero, una scelta da includere in cartellone a colpo sicuro e che non delude le aspettative. Salvo qualche consueta sporadica forzatura d’emissione nel registro più acuto, il baritono parmigiano presta al Doge una linea vocale corposa e compatta, sempre in bolla sul fiato, impreziosita in questo ruolo da una cura attenta e sentita del fraseggio con sapiente uso di accenti e mezzevoci, senza tuttavia eccedere mai in quell’impeto interpretativo quasi verista che abbiamo ascoltato in altre occasioni passate e che comprometteva quello che è oggettivamente un validissimo materiale vocale. Emerge dunque un Simone nobile, altero ma fortemente umano, ben costruito nella sua evoluzione emotiva e drammaturgica. Eleonora Buratto è un’Amelia di lusso, pregevole per ricchezza d’armonici e delicatezza nella gestione degli assottigliamenti. Il soprano mantovano disegna una linea di canto di piacevole morbidezza, spesso quasi sospesa ma sempre omogenea e sostenuta, senza rinunciare alla corposità di suono nella sezione medio-grave e agli acuti al contempo di costante lucentezza. Estatica la sua cavatina “Come in quest’ora bruna”, come maiuscolo è per gusto e misura ogni suo contributo nei duetti e terzetti. Gabriele Adorno ha la vigorosa voce di Charles Castronovo, più propenso a dare accento alla spinta eroica rispetto all’afflato lirico, pur cantando con varietà d’accenti e un buon ventaglio di colori. Meritati gli entusiastici applausi a scena aperta per la sua “Sento avvampar nell’anima”, di gran trasporto per gestione delle dinamiche e intenzione scenica. Unica eccezione in un cast omogeneamente ben assortito è il Fiesco di Ain Anger che, sebbene sia piacevolmente solido e tonante nella tessitura grave, mostra più di un’incertezza nei passaggi di registro così come nella costruzione del personaggio, non aiutata da un fraseggio approssimativo e da una dizione perfettibile. Sugli scudi invece Roberto de Candia, viscidamente sinistro nell’interpretazione del perfido Paolo Albiani sia dal punto di vista scenico sia nella performance vocale. Buona la prova degli altri ruoli: Andrea Pellegrini (Pietro), Haiyang Guo (Capitano dei balestrieri) e Laura Lolita Perešivana (Ancella di Amelia), come anche l’apporto del Coro istruito da Alberto Malazzi. Al termine gran successo di pubblico per Salsi (aldilà di qualche isolata contestazione dal loggione) ed entusiastici applausi per Buratto, Castronovo e Viotti. Foto Brescia & Amisano

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Roma, Teatro Vascello:” Top Girls” dal 20 al 25 Febbraio 2024

gbopera - Lun, 19/02/2024 - 08:00

Roma, Teatro Vascello
TOP GIRLS
traduzione di Maggie Rose
con (in o.a.) Corinna Andreutti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Simona De Sarno, Monica Nappo, Sara Putignano
costumi Daniela Ciancio
scene Barbara Bessi
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Elvira Berarducci
regia Monica Nappo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Quale sia la relazione della donna con il potere e quanto sia possibile avere una posizione di comando senza perdere il proprio femminile sono due domande cruciali di Top Girls. Il testo di Caryl Churchill, una delle più grandi drammaturghe inglesi viventi, è diretto dall’attrice e regista napoletana Monica Nappo che lo interpreta insieme a un cast femminile di grande talento composto da Sara Putignano, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Martina De Santis, Paola De Crescenzo, Corinna Andreutti, Simona De Sarno. Produzione di Fondazione Teatro Due, Top Girls affronta in modo strutturale e teatrale molti temi diversi, fra cui l’ineludibilità del confronto con il modello maschile nell’esercizio del potere e le sue contraddizioni. La riflessione che Churchill mette in atto attraverso la sua opera risuona in particolare sintonia con lo spirito che guida il lavoro del Teatro Due: problematizzare e non semplificare. La pièce si concentra sul personaggio di Marlene, responsabile di un’agenzia di collocamento londinese, e racconta i compromessi che ha dovuto accettare per raggiungere una carriera costellata di successi; un racconto che l’autrice ottiene con l’utilizzo di tecniche insolite, tra cui una costruzione non lineare, dialoghi incalzanti e un visionario mix di fantasia e realtà.   Celeberrima è la scena della cena di promozione di Marlene che apre il testo; invitate cinque donne, figure iconiche di epoche diverse nella storia, nella letteratura e nell’arte: la scrittrice e esploratrice scozzese del XIX secolo Isabella Bird; Lady Nijo, cortigiana giapponese del XIII secolo e in seguito monaca buddista errante; la papessa Giovanna che nel IX secolo travestita da uomo raggiunse il grado ecclesiastico più alto dell’Impero; Dull Gret, figura centrale di un quadro di Bruegel e la Paziente Griselda, un personaggio delle storie di Boccaccio e Chaucer, la cui obbedienza al marito di fronte a orribili maltrattamenti l’ha resa leggenda. Le scene successive, saltando avanti e indietro nel tempo, smascherano lacerazioni profonde, rivelando che il successo professionale ha danneggiato irreparabilmente la vita personale di Marlene. L’universo di Top Girls è disegnato dai costumi di Daniela Ciancio, dalle scene Barbara Bessi e dalle luci di Luca Bronzo. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Museo di Roma: “Ukiyoe. Il mondo fluttuante. Visioni dal Giappone” dal 20 Febbraio al 23 Giugno 2024

gbopera - Dom, 18/02/2024 - 23:59

Roma, Museo di Roma
Palazzo Braschi

UKIYOE. IL MONDO FLUTTUANTE. VISIONI DAL GIAPPONE
a cura di Rossella Menegazzo
La mostra rappresenta un viaggio affascinante nell’arte giapponese di epoca Edo, attraverso una selezione di 150 capolavori tra il XVII e il XIX secolo tra dipinti, rotoli, ventagli e stampe, e oggetti della tradizione giapponese, come kimono e strumenti musicali. L’esposizione, a cura di Rossella Menegazzo, propone un percorso nell’arte giapponese tra il XVII e il XIX secolo attraverso centocinquanta capolavori provenienti dal Museo d’Arte Orientale E. Chiossone di Genova dal Museo delle Civiltà di Roma, firmati dai maestri del periodo Edo, tra cui Kitagawa Utamaro, Katsushika Hokusai, di cui verrà presentata anche la Grande Onda di Kanagawa, Keisai Eisen e la grande scuola Utagawa con Toyokuni, Toyoharu, Hiroshige, Kuniyoshi, Kunisada. Filo conduttore del percorso espositivo è il filone artistico conosciuto come ukiyoe, parola giapponese che letteralmente significa “immagini del mondo fluttuante”. Affermatosi a partire dalla metà del Seicento, l’ukiyoe porta al centro dell’attenzione il mondo contemporaneo giapponese del tempo legato alla nascita delle città, di nuove classi sociali, gusti e mode, che i maestri contribuiscono a diffondere insieme a nuovi valori estetici, educativi e culturali omogenei in tutto il Paese. La forte influenza esercitata dall’arte giapponese e dall’ukiyoe sulla cultura occidentale di fine Ottocento e inizio Novecento è restituita in mostra attraverso il racconto dell’esperienza unica di due artisti italiani, lo scultore Vincenzo Ragusa e l’incisore Edoardo Chiossone, che furono invitati dal governo giapponese Meiji di fine Ottocento come formatori e specialisti nei primi istituti di grafica e arte. Essi furono figure-chiave nello sviluppo delle prime professioni artistiche di stampo occidentale, insieme ad Antonio Fontanesi per la pittura e Giovanni Vincenzo Cappelletti per l’architettura. La conoscenza profonda del Giappone nei lunghi anni di permanenza permise loro di diventare anche collezionisti, formando due tra i più importanti nuclei di arte orientale in Italia, oggi conservati presso il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova e al Museo delle Civiltà di Roma. In mostra la presenza italiana in Giappone di fine Ottocento e l’affascinante aspetto del collezionismo orientale in Italia sono anche testimoniati da alcuni pezzi appartenenti al Museo delle Civiltà di Roma, acquisiti da Luigi Pigorini e appartenuti al primo Console italiano in Giappone Cristoforo Robecchi e al conte Enrico di Borbone, conte di Bardi, gran parte della cui collezione è oggi al Museo d’Arte Orientale di Venezia. Ukiyoe. Il mondo fluttuante. Visioni dal Giappone restituisce un ritratto culturale del Giappone tra Seicento e Ottocento e testimonia lo scambio artistico tra Italia e Giappone, la cui influenza sopravvive ancora oggi attraverso manga, anime e un’estetica che ha trasformato il nostro vivere contemporaneo. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Storia di una capinera” dal 20 Febbraio al 03 Marzo 2024

gbopera - Dom, 18/02/2024 - 11:08

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
STORIA DI UNA CAPINERA
di Giovanni Verga
Con Enrico Guarnieri
e Nadia De Luca
Regia Guglielmo Ferro
Produzione Progetto Teatrando
La vicenda si concentra su un unico nucleo narrativo: la storia della povera Maria, raccontata attraverso le lettere che essa scrive ad una compagna di convento (Marianna). Il cambiamento interiore di Maria nasce da una sua provvisoria liberazione, dal contatto con la natura, dal suo ritrovarsi con la famiglia nelle terre di Monte Ilice mentre a Catania infuria il contagio del colera. “Il mio pensiero non è imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte…” La storia si snoda tutta sul filo di un progressivo itinerario spirituale: quella esperienza fa sorgere in lei il senso d’una vita più libera e aperta, e l’avvia a concepire una crescente avversione per l’ambiente conventuale dove ha trascorso da educanda gli anni dell’adolescenza. Di qui, scopre l’amore. Il giovane Nino è l’idolo un po’ sfocato che accende nella protagonista la fiamma di una passione inestinguibile. Ma il rapporto è troncato sul nascere dall’intervento dei familiari: Nino sposerà la sorella di Maria (Giuditta), acconciandosi a un matrimonio giudizioso e senza fantasticherie. Maria sarà costretta a rientrare in convento dove si spegnerà dopo lunga e penosa agonia. Storia di una Capinera nasce come spettacolo, con grande successo di pubblico e di critica, poi diventa una pubblicazione editoriale del copione integrale (col supporto della colonna sonora) tratto dal romanzo verghiano. La scansione epistolare e monologante di Maria con l’amica Marianna diventa azione scenica coi personaggi che prendono vita e si muovono all’interno della narrazione, intorno alla protagonista. Maria è la piccola capinera in gabbia. Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro Sistina: “Natale in casa Cupiello” con Vincenzo Salemme

gbopera - Sab, 17/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Sistina
NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo De Filippo
Regia di Vincenzo Salemme
con Vincenzo SalemmeAntonio Guerriero, Fernanda Pinto, Franco Pinelli, Teresa Del Vecchio
scene Luigi Ferrigno
costumi Francesca Romana Scudiero
luci Cesare Accetta
musiche Nicola Piovani
Produzione Chi è di scena e Teatro Diana 
Roma, 15 Febbraio 2024
La collaborazione tra Vincenzo Salemme ed Eduardo De Filippo rappresenta un connubio intriso di passione e rispetto per l’eredità artistica e culturale partenopea. Salemme, celebre per il suo carisma e la sua abilità nel coinvolgere il pubblico attraverso la risata e l’emozione, ha radici profonde nel teatro napoletano, che ha permeato la sua crescita artistica sin dall’infanzia. È nell’ombra e nell’insegnamento del grande Eduardo De Filippo che Salemme ha trovato non solo ispirazione, ma anche una guida preziosa per la sua carriera. Il maestro ha lasciato un’impronta indelebile sul talento di Salemme, trasmettendogli non solo le tecniche della recitazione, ma anche un profondo attaccamento e rispetto per la ricca tradizione teatrale partenopea. La straordinaria magia di “Natale in Casa Cupiello” persiste come un capolavoro senza tempo, capace di suscitare emozioni profonde e di rievocare la tradizione natalizia napoletana. Ambientata nella Napoli degli anni ’40, tra i suggestivi vicoli e i pittoreschi cortili, la trama ruota attorno alla famiglia Cupiello mentre si prepara a celebrare il Natale. Attraverso dialoghi brillanti e personaggi indimenticabili, questa commedia rivela il complesso intreccio delle relazioni familiari, permeato da amori, gelosie e segreti, offrendo così una narrazione universale capace di commuovere il cuore di ogni spettatore. La decisione di Vincenzo Salemme di portare in scena “Natale in Casa Cupiello” rappresenta un atto di coraggio e di amore per la tradizione teatrale napoletana. Questo omaggio al passato, incanalato attraverso il celebre lavoro di De Filippo, è una testimonianza della profonda consapevolezza dell’eredità culturale che Salemme ha ereditato. La sua interpretazione non solo riporta in vita un classico amato da molte generazioni, ma funge anche da veicolo per preservare e valorizzare il patrimonio artistico di Napoli, arricchendolo con una moderna prospettiva. La rappresentazione di Salemme crea un ponte tra passato e presente, invitando il pubblico a immergersi in un’atmosfera di nostalgia e di modernità allo stesso tempo. Napoli, con la sua vibrante anima culturale, fornisce lo sfondo ideale per questa interpretazione, trasformando le strade e i vicoli in scenari vividi che raccontano la storia della città. In definitiva, “Natale in Casa Cupiello” non è solo uno spettacolo teatrale, ma un tributo appassionato alla bellezza del passato e alla ricchezza culturale di Napoli, che continua a ispirare e ad emozionare il pubblico di oggi. L’interpretazione di Vincenzo Salemme nel ruolo di Luca Cupiello si distingue per la sua profondità emotiva e la capacità di suscitare un forte senso di empatia nell’audience. La sua chimica con Antonella Cioli nel ruolo di Concetta aggiunge ulteriore spessore allo spettacolo, rendendo tangibili le complesse dinamiche familiari. La brava attrice, ereditando il ruolo precedentemente interpretato da Pupella Maggio, offre una performance toccante e intensa, trasportando gli spettatori nelle profondità dell’animo umano. Il cast nel suo complesso dimostra un alto livello di talento e versatilità, con interpretazioni impeccabili che conferiscono al dramma una vitalità e una risonanza emotiva senza pari. Le scenografie di Luigi Ferrigno catturano con maestria l’atmosfera degli anni ’40, mentre i costumi di Francesca Romana Scudiero contribuiscono a caratterizzare i personaggi in modo efficace. Cesare Accetta, con il suo disegno luci pregevole, sottolinea l’atmosfera e l’emozione di ogni scena, mentre la colonna sonora di Nicola Piovani aggiunge un tocco magico e coinvolgente, arricchendo l’esperienza teatrale complessiva. In definitiva, “Natale in Casa Cupiello” rappresenta un trionfo della tradizione teatrale napoletana, celebrato con passione e maestria da un cast e una troupe di talento. Dopo i convenevoli, Vincenzo Salemme si rivolge direttamente al pubblico presente, con parole cariche di sincerità e rispetto.  In un gesto di sincera gratitudine, egli abbraccia virtualmente le persone in sala come il vero catalizzatore del mondo teatrale, conferendogli un ruolo primario e insostituibile. L’accoglienza calorosa da parte del pubblico dimostra che questo amore è stato elargito con grande passione e sensibilità, ottenendo un riscontro positivo e tangibile. PhotoCredit Teatro Diana Napoli .Qui per tutte le altre date.

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