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Musica corale

Roma, Piazza Pia: “Scoperte archeologiche rivoluzionano la realizzazione di Piazza Pia a Roma”

gbopera - Mar, 18/06/2024 - 12:33

Roma, Piazza Pia
SCOPERTE ARCHEOLOGICHE RIVOLUZIONANO LA REALIZZAZIONE DI PIAZZA PIA A ROMA
Durante i lavori per la riqualificazione e pedonalizzazione, emergono una fullonica del II secolo d.C., mosaici e reperti vari, offrendo nuove prospettive sulla storia antica della capitale.
Dal cantiere di Piazza Pia a Roma sono emersi straordinari reperti archeologici, tra cui una fullonica risalente al II secolo d.C. Questo antico impianto a cielo aperto veniva utilizzato per lavare, smacchiare e preparare panni e vestiti. Restano visibili alcune vasche per il lavaggio e la spremitura, insieme a grandi vasi interrati, i dolia, impiegati per immergere i panni nel detergente, solitamente costituito da urina. La vicinanza al Tevere garantiva un approvvigionamento rapido e abbondante di acqua, essenziale per il funzionamento dell’impianto. La struttura all’aperto permetteva la dispersione dei miasmi, che dovevano essere notevoli, motivo per cui queste attività erano solitamente situate in aree periferiche dei centri urbani antichi. Il progetto di riqualificazione e pedonalizzazione di Piazza Pia, situata tra Castel Sant’Angelo e via della Conciliazione, è stato finanziato con 79,5 milioni di euro stanziati per il Giubileo. Questa trasformazione convertirà la piazza in una vasta area pedonale, creando un collegamento diretto tra Castel Sant’Angelo, via della Conciliazione e la Basilica di San Pietro. L’iniziativa mira a garantire ai pedoni una zona sicura e a migliorare il traffico veicolare mediante la costruzione di un sottopassaggio che si connetterà con il Lungotevere in Sassia. L’opera, gestita da Anas in collaborazione con Roma Capitale, dovrebbe essere completata entro dicembre 2024. Durante i lavori per il sottopassaggio, le indagini archeologiche hanno portato alla luce nuove scoperte che offrono una visione inedita della storia e dei paesaggi urbani di Roma. L’area in questione, in epoca antica, ospitava prestigiose residenze imperiali suburbane come gli horti Agrippinae e gli horti Domitiae. Queste dimore, situate sulla riva destra del Tevere, si affacciavano sul fiume in modo spettacolare, con portici, passeggiate e giardini. I resti archeologici scoperti saranno accuratamente rimontati e musealizzati nell’area di Castel Sant’Angelo, garantendo una connessione diretta con il loro contesto di rinvenimento. Il progetto prevede la creazione di un’area archeologica nei giardini del Castello e la musealizzazione dei reperti all’interno degli spazi di Castel Sant’Angelo. L’obiettivo è quello di reintegrare e valorizzare il significato culturale delle scoperte, migliorando l’accessibilità e la fruibilità sia museale che digitale. Questo approccio integrato consentirà ai visitatori di comprendere meglio l’importanza storica dei reperti in relazione al loro ambiente originale. “Piazza Pia ne uscirà ulteriormente arricchita”, ha dichiarato il sindaco di Roma Capitale, Roberto Gualtieri. “Questo è un esempio emblematico di come la collaborazione istituzionale e la giusta visione della tutela e valorizzazione dei nostri beni culturali possa portare a soluzioni doppiamente positive: grazie al cantiere abbiamo scoperto questa bellissima fullonica e altri ritrovamenti, che riusciremo a rendere conoscibili e a valorizzare, ma allo stesso tempo riusciremo anche a realizzare nei tempi previsti il sottopassaggio”. Questa parte di Roma sarà di nuovo resa visibile a tutti, e come cittadino non posso che esprimere un senso di profonda gratitudine. È significativo che, mentre stiamo creando per il Giubileo uno spazio per l’incontro tra le persone, sia stata ritrovata proprio una lavanderia, un luogo d’incontro per le persone e le donne dell’epoca”, ha affermato Monsignor Rino Fisichella. “Ringrazio anche perché i tempi di consegna dei lavori saranno mantenuti, nonostante i ritrovamenti che un tempo bloccavano tutto”. “L’archeologia di emergenza per la realizzazione del sottopasso di Piazza Pia deve in ogni caso tutelare ritrovamenti e scoperte”, ha spiegato la Soprintendente Speciale di Roma Daniela Porro. “La conservazione dei reperti attraverso la loro delocalizzazione deve portare anche a una valorizzazione: la Soprintendenza ha proposto di ricollocarli a Castel Sant’Angelo, in origine il sepolcro di Adriano costruito negli Horti di Domitia, il contesto dove probabilmente sorgevano le strutture ritrovate”. “È fondamentale salvaguardare la nostra storia e trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di tutela e modernizzazione del tessuto urbano”, ha concluso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Ma cosa erano le fullonicae? Il termine latino fullonica indica l’officina artigianale o l’impianto industriale in cui venivano svolte le diverse fasi della lavorazione dei tessuti. Qui si eseguiva sia il lavaggio e la smacchiatura degli abiti già usati, come nelle moderne lavanderie, sia la preparazione e il trattamento dei tessuti nuovi. Nelle officine di trattamento della lana, le fasi di lavorazione, ben documentate in alcune pitture parietali pompeiane, comprendevano la follatura, il candeggio e la garzatura o cardatura. Durante la follatura, i tessuti di lana venivano immersi in ampie vasche contenenti sostanze alcaline con proprietà detergenti e sgrassanti, come soda, creta fullonica e soprattutto urina fermentata. Il lavaggio proseguiva con il pestaggio dei tessuti da parte dei fullones in apposite vaschette. Questo processo chiudeva le piccole intercapedini presenti nei punti di intersezione tra i fili, rendendo il tessuto compatto e talvolta impermeabile. Successivamente, le stoffe venivano stese su gabbie semisferiche di vimini sotto le quali si collocava un recipiente contenente zolfo acceso per favorire il candeggio. Al termine di queste operazioni, i tessuti venivano spazzolati energicamente con spazzole di spine vegetali o pelle di porcospino. Il processo lavorativo si concludeva con la stiratura mediante una pressa in legno. Un’altra pratica comune nelle fullonicae era la tintura delle vesti con sostanze coloranti organiche, sia vegetali che animali, spesso realizzata in officine specializzate chiamate officinae tinctoriae. Le scoperte archeologiche di Piazza Pia sono un chiaro segnale di come la capitale sappia valorizzare il proprio passato mentre guarda al futuro, dimostrando al mondo intero la sua capacità di innovare rispettando le proprie radici. Un esempio splendente di come storia, cultura e modernità possano convivere e prosperare insieme.

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Roma, Galleria Borghese: “Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria” dal 21 giugno al 15 settembre 2024

gbopera - Mar, 18/06/2024 - 08:00

Roma, Galleria Borghese
LOUISE BOURGEOIS. L’INCONSCIO DELLA MEMORIA
Ideata da Cloé Perrone
curata con Geraldine Leardi e Philip Larratt-Smith
Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria
 è la prima mostra dedicata a un’artista contemporanea donna alla Galleria Borghese, e la prima esposizione romana dell’artista franco-americana tra le più influenti del secolo scorso. Ideata da Cloé Perrone e curata con Geraldine Leardi e Philip Larratt-Smith, l’esposizione, realizzata in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, è incentrata sul grande contributo della Bourgeois alla scultura e la profonda connessione tra la sua pratica artistica e la Galleria Borghese. Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria intreccia la memoria personale dell’artista, a quella collettiva del museo pubblico: il percorso espositivo attraversa alcune sale, i Giardini segreti e il padiglione dell’Uccelliera – luoghi che Louise Bourgeois aveva esplorato con ammirazione durante la sua prima visita a Roma nel 1967. Circa 20 opere scultoree che dialogano con l’architettura unica del Casino Borghese e con la sua collezione, sono incentrate sui temi della metamorfosi, della memoria e sull’espressione di stati emotivi e psicologici. Queste tematiche, esplorate anche dagli artisti della collezione Borghese, sono rinvigorite dalla lente contemporanea di Bourgeois, che offre nuove prospettive sull’esperienza umana, grazie anche alla sua straordinaria diversità di forme, materiali e scale, che le hanno permesso di esprimere una gamma di stati emotivi. “La mostra su Louise Bourgeois fin dal titolo insegue due aspetti molti significativi del percorso dell’artista: l’inconscio e la memoria. Nella Galleria Borghese la conservazione della memoria del collezionista suo fondatore, Scipione Borghese, è per noi centrale e tutte le opere da lui raccolte raccontano la sua storia che è poi diventata la storia di uno dei musei più importanti al mondo. Le singole opere conservano la memoria dei loro autori e delle loro vite, a volte anche i loro ritratti nascosti come nel caso della Minerva di Lavinia Fontana, artista che all’inizio del Seicento usa la mitologia come suo specchio. Bourgeois sembra invece non nascondersi, ma esporsi il più possibile, cercando di raccontare anche il suo inconscio, i livelli di coscienza che sono poco dicibili. In questo rimando continuo fra memoria personale e collettiva, fra specchi e gabbie, risiede la forza estetica della mostra, che grazie alle opere della grande scultrice novecentesca attua la mise en abyme della collezione Borghese” afferma Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese. Con la mostra Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria la Galleria Borghese conferma l’importanza del rapporto tra arte antica e contemporanea, diventando luogo di incontro e dialogo tra Maestri di epoche e provenienze diverse. Le installazioni contemporanee di oggi riaffermano e attualizzano ciò che la Galleria incarnava per Scipione Borghese: uno scrigno di tesori personali e un luogo per custodire un’eredità che va costantemente rinnovata, favorendo nuove letture della sua storia e della storia dell’arte. La mostra è accompagnata da un catalogo che include installation views delle opere della Bourgeois contestualizzate nella Galleria, e da una guida breve. Entrambe le pubblicazioni sono edite da Marsilio Arte. In occasione della mostra, anche l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici ospita un’opera dell’artista, allestita negli appartamenti storici del Cardinale Ferdinando de’ Medici: No Exit, un’installazione formata da una scala incorniciata lateralmente da pannelli e da due grandi sfere situate alla sua base. Nella scala si trovano appese due forme di gomma a cuore, elementi ben celati e che possono essere sbirciati attraverso una piccola porta dietro la struttura. L’esposizione è stata realizzata grazie al supporto di FENDI, sponsor ufficiale della mostra.

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Parco Archeologico del Colosseo, Tempio di Venere: ” Venere in musica ” dal 19 al 28 giugno 2024

gbopera - Dom, 16/06/2024 - 23:59

Parco Archeologico del Colosseo, Tempio di Venere
VENERE IN MUSICA
dal 19 al 28 giugno 2024
La musica più elegante, vitale e travolgente da ascoltare rapiti, sotto il cielo stellato, nelle prime serate d’estate, fra le meraviglie del patrimonio archeologico di Roma. Giunta alla sua III edizione, torna dal 19 al 23 giugno Venere in Musica, la rassegna musicale ideata dal Parco archeologico del Colosseo diretto da Alfonsina Russo, curata da Fabrizio Arcuri che firma la direzione artistica. Cinque imperdibili appuntamenti a ingresso gratuito in uno scenario unico al mondo: il Tempio di Venere e Roma, il più grande edificio sacro costruito dai romani (e uno dei più grandi dell’antichità), voluto da Adriano, costruito a partire dal 121 d.C. e dedicato alla dea Roma Aeterna e alla dea Venus Felix. Un programma nel segno della contaminazione sonora in un luogo simbolo dell’incontro fra culture e di quella realtà multietnica che caratterizzava l’Urbe. “Venere in musica promuove sempre più la musica a 360 gradi e si rivolge a pubblici diversi, intercettando artisti e artiste che hanno il concetto di contaminazione nel loro dna” afferma Arcuri. “L’avvio della terza edizione di Venere in Musica costituisce un importante risultato per il Parco archeologico del Colosseo che ha fortemente voluto offrire alla città un palcoscenico di eventi in una cornice storica, architettonica e archeologica unica al mondo” – dichiara Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo.  “L’ampia partecipazione di pubblico, composto da turisti/visitatori ma soprattutto da cittadini romani, ha sancito nelle scorse estati il successo del format che ha registrato il tutto esaurito in ciascuna delle serate proposte con oltre 5000 presenze. Per l’edizione 2024 l’offerta addirittura si rinnova e articola ulteriormente con una proposta artistica composita e ricercata, arricchita dall’attesa presenza di Russell Crowe e della sua band” – conclude il Direttore. Il programma di quest’anno miscela sonorità che provengono da ambienti musicali differenti, dallo smooth jazz dei Moorcheba al cantautorato d’autore di Diodato, in una nuova tappa site specific del suo tour; poi le atmosfere maliane di una delle voci più significative della world music, Rokia Traoré, e il progetto che incrocia la Babelnova Orchestra, l’orchestra delle donne arabe e del Mediterraneo Almar’à e un’icona della musica alternativa italiana, Ginevra Di Marco, storica voce dei CSI e dei PGR; fino ad arrivare alla travolgente energia rock-blues del “gladiatore” per eccellenza, Russell Crowe insieme ai suoi The Gentlemen Barbers. La rassegna si apre mercoledì 19 giugno con il concerto di Diodato, un cantautore intenso e ricercato, tra i più apprezzati del nuovo pop italiano, con sei album all’attivo e una carriera costellata di riconoscimenti, fino al recentissimo David di Donatello, vinto nel 2024 nella categoria Miglior Canzone Originale con La mia terra, presente nella colonna sonora di Palazzina Laf di Michele Riondino. L’artista tarantino inaugura Venere in Musica dopo una serie di date nelle principali città del Brasile e con una serie di sold out già registrati per il suo prossimo tour autunnale nei teatri. A Roma presenterà i brani del suo nuovo album Ho acceso un fuoco in cui reinterpreta in una nuova chiave, più vicina alla dimensione del live, alcuni brani fondamentali del suo repertorio.  Ripercorreranno il proprio universo musicale e i quasi trent’anni di carriera anche i Morcheeba, la band londinese che ha plasmato il trip-hop e che il 20 giugno a Venere in Musica si esibirà live con i brani dell’ultimo album, il decimo della sua discografia, Blackest Blue, un’elegante raccolta che mette in evidenza tutte le peculiarità: il mix di downbeat, nu-soul, electro-pop e smooth jazz, le atmosfere chill e un approccio alla scrittura sempre positivo e rilassato.  La sera seguente, 21 giugno, sul palco allestito davanti al Tempio di Venere e Roma che guarda il Colosseo, salirà una delle più affascinanti esponenti della world music, la cantante e chitarrista maliana Rokia Traoré. Compositrice, polistrumentista, artista a tutto tondo con interessi e collaborazioni interdisciplinari – dalla letteratura al teatro, passando per il cinema e l’impegno nella formazione di giovani musicisti africani attraverso la propria fondazione – Rokia Traorè è un’icona della musica africana che mescola continuamente le radici tradizionali alle sonorità jazz, pop e rock di matrice europea e statunitense. Il suo live è incentrato sulla canzone Djamako – Allégresse, vero cuore di un viaggio nel suo repertorio, fra composizioni inedite e reinterpretazioni di classici e standard. Un concerto intimo con una formazione essenziale, un’esperienza fondata sull’idea di limite come punto di incontro fra culture diverse che si incontrano e si amalgamo nel reciproco rispetto. Il 22 giugno appuntamento con un progetto che tiene insieme due formazioni centrali nel panorama della world music e una voce storica della scena alternativa e indie italiana: Ginevra Di Marco, fra le più raffinate interpreti del panorama musicale italiano, già voce dei CSI prima e dei PGR dopo, l’ensemble tutto al femminile Almar’à, l’Orchestra di donne arabe e del Mediterraneo, la BabelNova Orchestra, nata dall’esperienza dell’Orchestra di Piazza Vittorio e che ha appena pubblicato il debut album Magma.  Tutte e tutti uniti per “She هي Elle Lei. Voci di acqua e di terra suoni di mare e di sabbia”, un concerto dedicato a un universo femminile che evoca, con brani e canzoni più o meno note, storie e racconti di deserti, genti di terre vicine e lontane, danze, speranze, nascite, addii e nuovi inizi. Un tripudio di suoni, melodie e ritmi per una grande festa in musica. Venere in Musica si chiude domenica 23 giugno con il live di una star mondiale del cinema che il pubblico italiano ha conosciuto di recente nella versione di artista musicale, Russell Crowe, band leader della formazione The Gentlemen Barbers. Dopo il successo al Festival di Sanremo 2024, dove è stato ospite nella terza serata, Russell Crowe torna infatti in Italia per una serie di concerti in luoghi di particolare bellezza, fra cui il Tempio di Venere e Roma. Qui per tutti gli approfondimenti.

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Venezia, Teatro Malibran: Serata vivaldiana con Federico Maria Sardelli e Michela Antenucci

gbopera - Dom, 16/06/2024 - 17:55

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2023-2024 del Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore, flautino e flauto traversiere Federico Maria Sardelli
Violino principale Roberto Baraldi
Soprano Michela Antenucci
Musiche di Antonio Vivaldi
Venezia, 14 giugno 2024
Uno spaccato di vita musicale veneziana nel Settecento – omaggio ad Antonio Vivaldi e ai luoghi legati alla sua arte – si è schiuso al Teatro Malibran nel recente concerto della Stagione Sinfonica 2023-2024, che ha avuto come protagonisti il maestro Federico Maria Sardelli, alla guida dell’Orchestra del Teatro La Fenice, e il soprano Michela Antenucci, oltre a Roberto Baraldi in qualità di violino principale. Reduce dal successo riportato, sempre alla Fenice, con Il Bajazet, il direttore toscano – interprete e studioso di riferimento per quanto riguarda il Prete Rosso: tra l’altro, membro dell’Istituto Vivaldi della Fondazione Giorgio Cini di Venezia e responsabile del catalogo vivaldiano (RV) – si è esibito nella doppia veste di direttore e solista (al flautino e al flauto traversiere). La serata ha avuto inizio con il Concerto in re minore per violino principale, organo, archi e basso continuo (RV 541), che ci ha idealmente trasportato all’Ospedale della Pietà – l’orfanotrofio femminile, dove Vivaldi lavorò per circa quarant’anni, tra il 1704 e il 1740 –, in quanto appartiene al gruppo di concerti per violino e organo concertante, che – a prescindere dal titolo, privo di indicazioni religiose – spesso servivano ad aprire o chiudere le celebrazioni liturgiche, che si svolgevano nell’Istituto, con una ‘putta’ al violino e un’altra all’organo. Impeccabile il violino di Roberto Baraldi, che ha sfoggiato un suono morbido e rotondo, una padronanza tecnica particolarmente evidente nelle agilità, un consapevole adeguamento al codice stilistico vivaldiano (complice verosimilmente il maestro Sardelli). Gli ha corrisposto un’orchestra – qui come altrove – scattante e sensibile, coesa nell’insieme, ineccepibile negli interventi delle varie sezioni o dei singoli strumenti come nel basso continuo.
Seguiva una serie di brani in prevalenza di musica liturgica, un genere che, insieme al teatro musicale, impegnò Vivaldi in modo assiduo: tra essi lo straordinario mottetto In furore giustissimæ iræ (RV 626), uno della dozzina di mottetti che ci sono rimasti dei circa cento composti e poi spediti per posta a varie corti. Brillante la prestazione di Michela Antenucci, che ha dimostrato di essere a suo agio in un ambito vocale lirico-leggero, segnalandosi per il timbro puro e squillante, la dizione diffusamente efficace, la nitida articolazione nelle agilità. Una vera e propria festa di colori orchestrali si è rivelato il Concerto per la Solennità di San Lorenzo (RV 556) – uno dei concerti scritti per solennizzare occasioni importanti, grandi eventi liturgici oppure la visita di un principe di passaggio –, in cui hanno primeggiato i violini, i flauti, i clarinetti e il fagotto. Come indica il titolo, l’occasione per cui è stato composto il Concerto è la festa di San Lorenzo; non conosciamo, invece, l’anno di composizione né quale istituzione abbia commissionato il lavoro; comunque non può trattarsi della Pietà, perché lì il fagotto non veniva utilizzato. Più probabile che la commissione sia pervenuta dal ricco convento femminile di San Lorenzo, che accoglieva rispettabili rampolle di famiglie patrizie venete, offrendo loro la possibilità di imparare a suonare una vasta gamma di strumenti.
Una parentesi ‘teatrale’ si è aperta con l’aria “Sempre copra notte oscura” (RV 738), un frammento dal celebre Tito Manlio, una di quelle opere in cui Vivaldi utilizza, nelle arie, un gran numero di strumenti concertanti: i corni, la tromba, la viola d’amore o, come nell’aria presentata in questa serata, il flautino, suonato da Sardelli con virtuosistica destrezza e compostezza stilistica ad accompagnare uno dei momenti più intimi dell’opera, in cui l’orchestra tace e lo strumento dialoga con il basso continuo e la voce. La quale – nel caso di Michela Antenucci – ha saputo efficacemente interagire con lo strumento solista dimostrando sensibilità e controllo dei mezzi tecnico-espressivi.
Ancora il parametro timbrico dominava nel Concerto in do maggiore per due clarinetti e due oboi (RV 559), dove Vivaldi – primo e unico in Italia – utilizza il clarinetto, strumento, all’epoca, piuttosto nuovo, costruito poco tempo prima a Norimberga da Johann Cristoph Denner. La scelta da parte di Vivaldi di inserirlo in partitura era una novità assoluta, un’operazione d’avanguardia, che proponeva un suono mai udito prima dal pubblico. Un vero piacere per le orecchie è stato ascoltare le due coppie di strumenti concertanti – due oboi e due clarinetti –, che si rispondevano, gareggiando a due voci.
Al Vivaldi sacro si è tornati con il conclusivo Laudate pueri (RV 601 ), scritto all’inizio degli anni Trenta ed inviato – insieme ad altri brani, che dovevano costituire un saggio di bravura – a Dresda, dove l’autore sperava che il nuovo Principe Elettore lo nominasse Kapellmeister o gli conferisse un incarico importante presso quella corte, dov’era molto stimato, in primis dal maestro dei concerti Johann Georg Pisendel, già suo allievo a Venezia. Entusiasmante, quanto a destrezza nelle ardue colorature e musicalità, la prestazione di Michela Antenucci – cui ha corrisposto quella di Federico Maria Sardelli, anche come solista al flauto traversiere – nell’affrontare questa bellissima versione intonata del Salmo 112, scritta per una voce di soprano estesa addirittura fino al re sovracuto. Magnifico questo Vivaldi della tarda maturità! Lo stesso che compone il Bajazet: un musicista moderno, che utilizza il traversiere come strumento concertante, anche perché sapeva che alla corte Dresda tale strumento era molto apprezzato. Nondimeno la sua speranza di trasferirsi nella città tedesca andrà delusa. Tutt’altro che deluso era invece, a fine serata, il pubblico del Malibran, che ha lungamente applaudito, meritandosi un bis: il pirotecnico Amen dal Laudate pueri.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Terza domenica dopo la Trinità

gbopera - Dom, 16/06/2024 - 01:29

Dopo la Cantata BWV 21, abbiamo un’unica ulteriore partitura prevista per la terza domenica dopo la festa della SS.Trinità è la nr.135, Ach Herr, mich armen Sünder eseguita la prima volta a Lipsia il 25 giugno 1724. Come per la Cantata della scora domenica, la nr.76, anche questa è basata su un Corale e precisamente quello con il testo di Cyriacus  Schneegass (1546-1597) del 1597 (ispirato al Salmo 6) che da il titolo alla Cantata e musicato da Hans Leo Hassler nel 1601. La melodia in questione viene esposta nella linea di canto dei bassi, un unico caso nella produzione bachiana, oltre a quello che si registra nella Cantata BWV 3. La Cantata BWV 135 deve inoltre essere osservata all’interno di un ciclo di 4 cantate che aprono la seconda annata di cantate, le nr. 20, 2, 7 e 135 nelle quali il “cantus firmus” viene affidato di volta in volta, in successione regolare ai soprani (nr.20), ai contralti (nr,2), ai tenori (nr.7) e ai bassi (N,135). Questo Coro che apre la partitura è dunque una “Fantasia” su Corale. Da notare inoltre che i “Continuo” non è previsto nella parte puramente strumentale, figurando solo quando parte quella vocale, come raddoppio del “cantus firmus”. In ogni caso tutto il tessuto strumentale a 3 parti è fortemente  improntato improntato alle conformazione melodica del Corale, così come lo sono le parti melodiche delle 2 arie, la prima delle quali (Nr.3) affidata al tenore, ha spunti di danza.
Nr.1 – Coro
Signore, sono un povero peccatore,
non punirmi nella tua collera,
addolcisci la tua terribile rabbia,
altrimenti sarò perduto.
Signore, se tu volessi perdonare
i miei peccati ed essere clemente con me,
potrei vivere per sempre
evitando i tormenti dell’inferno.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
Guariscimi, medico delle anime,
sono molto debole e malato;
posso persino contare le mie ossa,
pietosa è la mia sventura,
la sofferenza della croce mi colpisce;
i miei occhi sono gonfi di lacrime
che come torrenti scendono lungo le guance.
La mia anima è inquieta e piena di paura;
ah, Signore, perchè sei così lontano?
Nr.3 – Aria
(Tenore)
Gesù, conforta il mio spirito
altrimenti sprofonderò nella morte,
con la tua bontà aiutami, aiutami,
nella grande angoscia della mia anima!
Poiché nella morte tutto è silenzio,
non c’è più il ricordo di te,
caro Gesù, se questa è la tua volontà,
riempi di gioia il mio viso!
Nr.4 – Recitativo (Contralto)
Sono affaticato dai miei sospiri,
il mio spirito non ha né forza né potere
perchè tutta la notte,
senza pace e riposo per la mia anima,
mi avvolgo nel sudore e nelle lacrime.
Muoio dalle preoccupazioni e invecchio per il
dolore, essendo molteplici sono i miei timori.
Nr.5 – Aria (Basso)
Ecco, voi tutti scellerati,
il mio Gesù mi consola!
Dopo le lacrime e i pianti farà brillare
ancora il sole della gioia;
la tempesta della tristezza si calma,
i nemici dovranno presto cadere
e le loro armi si ritorceranno su loro stessi.
Nr.6 – Corale
Nel trono del cielo sia reso onore
con ogni lode e gloria
al Padre, al Figlio
e nello stesso modo
allo Spirito Santo
per tutta l’eternità,
affinchè possa concedere a noi tutti
perenne beatitudine.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S..Bach: Cantata “Ach Herr, mich armen Sünder” BWV 135
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Jules Massenet (1842 – 1912): “Ariane” (1909)

gbopera - Sab, 15/06/2024 - 10:56

Opera in cinque atti su libretto di Catulle Mendès. Amina Edris (Ariane), Kate Aldrich (Phèdre), Jean-François Borras (Thésée), Jean-Sébastien Bou (Pirithoüs), Julie Robard-Gendre (Perséphone), Marianne Croux (Eunoé, 1re Sirène), Judith van Wanroij (Chromis,  Cypris, 2e Sirène), Yoann Dubruque (Le Chef de la Nef, 1er Matelot), Philippe Estèphe (Phéréklos, 2e Matelot). Chor des Bayerischen Rundfunks, Stellario Fagone (Maestro del coro), Münchner Rundfunkorchester, Laurent Campellone (direttore). Registrazione: Prinzregententheater München, 27-29 gennaio 2023. 3 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane, BZ 1053.

L’ultima produzione massenetiana non ha mai goduto di particolare fortuna. Lavori  inizialmente accolti da un buon successo ma poi rapidamente dimenticati in ragione  delle vorticose evoluzioni del gusto di inizio ‘900.  Massenet rappresentava invece  simbolo stesso della tradizione e quindi oggetto di ostilità crescente. Il compositore aveva però molta fiducia almeno di alcuni di questi lavori che considerava tra i più riusciti della sua ampia produzione. È il caso di “Ariane” del 1909 ma poi scarsamente rappresentata, nei confronti della quale non venne mai a mancare l’entusiasmo del compositore.
La scelta di un soggetto mitologico non era così rara al tempo in un clima di generale riscoperta della classicità inoltre per l’occasione Massenet poteva puntare su un valente poeta come Catulle Mendès i cui versi di raffinatezza parnassiana si elevano non poco sulla qualità media dei libretti. Il testo di Mendès rielabora con grande libertà il mito di Arianna a Nasso inserendo episodi di pura invenzione – come il viaggio agli inferi e l’incontro con Persefone – e concentrandosi sulla caratterizzazione psicologica dei tre protagonisti: Arianna, Fedra e Teseo.
L’impianto del testo – in cinque atti con le prevedibili sezioni ballabili – ricorda in forme attualizzate gli stilemi del classicismo francese settecentesco e smentisce – come per altro la musica – l’idea di un simbolismo sensuale e decadente che spesso viene acriticamente associato all’ultima produzione di Massenet.
Musicalmente l’opera si caratterizzata da una grande ricchezza orchestrale e da un raffinato gusto per la ricreazione sonora dell’antichità con l’evidente l’influsso wagneriano sia nell’uso più sistematico dei leitmotiv così come in una certa grandiosità sonora che accompagna molti passaggi della partitura. Intimismo emotivo e imponenza ambientale, uno dei tanti giochi di contrasti su cui Massenet equilibra la partitura rendendola sempre varia e coinvolgente. L’ascolto rivela quindi un’opera di altissima fattura, intessuta di momenti splendidi, di cui davvero non si capiscono le ragioni di così lungo oblio.
La nuova registrazione testimonianza di una versione in forma di concerto al Prinzregententheater di Monaco di Baviera e distribuita – con il solito ricco allegato di testi e informazioni – dalla fondazione Palazzetto Bru Zane ci si augura possa essere l’inizio di una nuove primavera per Ariane con il pubblico nelle vesti di quel Dioniso salvatore che il libretto gli nega – qui Ariane si abbandona al mare cullata dalle sirene in un suicidio in cui gli echi wertheriani si stemperano in languide preziosità.
Laurent Campellone è un conoscitore profondi di questa musica e ne offre una lettura di particolare chiarezza. La sua è una visione capace di unire il quadro unitario della partitura con la cura sui singoli dettagli sonori ed espressivi, di essere languida ma non stucchevole, magniloquente ma non retorica. Vantaggio non trascurabile la possibilità di disporre di un’orchestra come la Münchner Rundfunkorchester ormai degna di stare ai vertici delle orchestre tedesche per qualità sonora e intensità espressiva. Quella offerta dalla compagine bavarese è una prova sontuosa capace di fondere la grandiosità wagneriana dei passaggi più drammatici con una pulizia quasi cameristica nei ripiegamenti lirici. La setosità degli archi, lo squillo degli ottoni, tutto contribuisce a creare un  affresco sonoro di rara suggestione. Al netto di qualche imprecisione di pronuncia altrettanto valida la prova del Coro della radio bavarese.
La compagnia di canto appare convincente in tutti i suoi componenti. I role titre è affidato ad Amina Edris che positivamente ci aveva sorpreso come Alice nel “Robert le diable”. Qui conferma tutte le sue qualità. Soprano lirico dalla voce chiara e agile ma ricca di armonici, sicura sugli acuti e facile nelle colorature esalta la chiarezza lirica di tanti momenti di Ariane ma quando richiesto sfoggia un temperamento appassionato e un accento di ardente autorevolezza. L’interprete riesce a cogliere tutti i moti dell’animo della principessa che dall’ingenuità della preghiera del primo atto passa alla piena consapevolezza del proprio sacrificio – quasi un’espiazione per l’aiuto fornito nell’uccisione di Asterio – attraverso il lutto per la sorella e l’esperienza iniziatica della Nékyia.
La Fedra di Kate Aldrich inizialmente sfoggia un colore assai simile alla sorella ma con il crescere della rivalità nei confronti di Teseo i caratteri vocali si fanno più contrastanti. La voce appare meno ricca rispetto al passato ma l’interprete è maturata trovando accenti di autentica tragicità e sfoggiando un settore grave di tutto rispetto.
Tesée si muove tra slanci eroici e abbandoni lirici con una prevalenza dei secondi. Jean-François Borras con il suo timbro chiaro e gli acuti cristallini è perfettamente a suo agio nei secondi mentre quando il canto si fa più eroico lavora di accento senza mai forzare inutilmente la voce e cogliendo la cifra di un eroismo araldico e stilizzato che si adatta perfettamente a questa musica.
Nell’economia dell’opera Pirithoüs sta a Thesée come Kurwenal sta a Tristan e Jean-Sébastien Bou lo affronta con voce solida e gran temperamento che fanno perdonare qualche rozzezza nel canto. Vera rivelazione è Julie Robard-Gendre contralto dalla voce calda e profonda che non solo canta splendidamente la parte di Perséphone ma nel coglie il carattere contrastante dove il gelo invernale dell’entrata si scioglie ai doni di Ariane e lascia subentrare la radiosità floreale dell’apportatrice della primavera.
Ottime le parti di fianco: Judith van Wanroij nelle triplici vesti di Cromys, Afrodite – come deus ex machina – e seconda sirena; la radiosa Eunoé (cui affianca la prima sirena) di Marianne Croux, Yoann Dubruque autorevole nei panni dei pirati di Nasso e Philippe Estèphe come Phéréklos (questi ultimi affiancano i loro personaggi alle parti soliste del coro dei marinai ateniesi).

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Il Bioparco di Roma: “Un Paradiso di Modernità e Innovazione nel Cuore della Capitale”

gbopera - Ven, 14/06/2024 - 09:00

Bioparco di Roma
UN PARADISO DI MODERNITA’ ED INNOVAZIONE NEL CUORE DELLA CAPITALE
Roma, 14 Giugno 2024
Il Giardino Zoologico di Roma fu inaugurato oltre 100 anni fa, il 5 gennaio 1911, ad opera dell’architetto Carl Hagenbeck. Questi rivoluzionò la concezione degli zoo sostituendo le gabbie con i fossati.
All’epoca gli zoo avevano uno scopo puramente ricreativo, l’unico obiettivo era il divertimento del pubblico attraverso l’esposizione di animali rari e esotici.  Nel 1935, lo il giardino zoologico di Roma venne ampliato ad opera dell’architetto Raffaele De Vico. In quell’anno raggiunse l’attuale superficie di 17 ettari che comprendeva anche un rettilario e una grande voliera a struttura geodetica, unica in Europa. Lo zoo di Roma divenne in poco tempo uno dei più importanti d’Europa superando in bellezza anche quelli di Parigi e Berlino costruiti con vecchi sistemi. Nel tempo però, anche in conseguenza degli avvenimenti bellici, la gestione del giardino zoologico diviene molto precaria e la sua decadenza sempre più evidente. Nel 1994 nasce l’idea di trasformare lo zoo in Bioparco e nel 1998 il progetto vede la luce, fino alla trasformazione nell’attuale Fondazione avvenuta nel 2004. Un cambiamento radicale che ha seguito il naturale evolversi del concetto di giardino zoologico. Da museo degli animali senza alcuna finalità, ora il Bioparco è una struttura in cui le parole d’ordine sono la conservazione delle specie minacciate di estinzione, l’educazione nei confronti della tutela della biodiversità e la ricerca scientifica. Tutto ciò in linea con la Strategia Mondiale degli Zoo per la Conservazione, redatta dalla WAZA (Organizzazione Mondiale degli Zoo e degli Acquari) insieme alla IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) e adottata dal WWF internazionale, che definisce le linee guida di uno Zoo cosiddetto “moderno”. Quando nacque il giardino zoologico di Roma, all’inizio del secolo scorso (1911), fu riconosciuto da tutti i visitatori come uno dei luoghi più incantevoli di Roma. I motivi non riguardavano solo le collezioni di animali ospitati ma l’effetto del mostrarli, senza gabbie e nell’orto botanico al centro della città , appunto Villa Borghese. Il primo master plan lo disegnò Hagenbeck con Lehmann ed Eggenschwiller che ne realizzarono le architetture. Che cosa ne è rimasto oggi, dopo quasi un secolo? Ecco il paradosso di Roma, città che tutto sedimenta ma nulla cancella. Le linee guida dell’assetto urbanistico appaiono pressoché invariate e l’architettura, intesa come quinta scenografica, è ancora lì, ad emozionare oggi i piccoli visitatori, come ieri i loro nonni, stimolati dalle letture di Emilio Salgari. Dopo 25 anni dalla sua apertura, nel ’33 arrivò il De Vico che, senza peccare di protagonismo, inventò l’architettura del Giardino Zoologico creando edifici armoniosi e ricchi di pregevoli dettagli. Dopo il De Vico scompare l’architettura. I corpi di fabbrica edificati successivamente, male si sono integrati nel dialogo tra natura, paesaggio ed architettura circostante, tant’è che oggi, appaiono dei corpi intrusi insieme ad una serie di altri piccoli volumi barbaramente aggiunti in epoche successive. “Quando il Bioparco, nell’aprile del ’98 mi chiamò per il riassetto del Giardino Zoologico,  uno dei tanti problemi che mi si posero, fu appunto quello di liberare, nel più attento rispetto del contenuto artistico originario, le gloriose vecchie volumetrie dalle citate superfetazioni e togliere quel tono di disfacimento che poteva apparire irreversibile. Certamente questo non voleva significare che l’obiettivo fosse unicamente quello di tutelare gli elementi del passato ma, in perfetta armonia con essi, occorreva ideare e realizzare nuove ed emozionanti strutture” (Arch. Giacomo Bessio). Il monumentale ingresso del Bioparco di Roma è stato recentemente restaurato dal Dipartimento capitolino Tutela Ambientale con la supervisione della Soprintendenza Speciale di Roma e la Sovrintendenza capitolina. Il restauro conservativo, necessario a causa del degrado causato dagli agenti atmosferici e dall’accumulo di polveri, ha coinvolto l’intero complesso, incluse le statue del cacciatore di coccodrilli, del cacciatore di aquile, del leone, della leonessa e delle teste di elefante. Un processo ecocompatibile è stato utilizzato per rimuovere muschi e muffe, impiegando biocidi a base di olii essenziali. Durante l’inaugurazione, l’assessora all’ambiente Sabrina Alfonsi ha presentato il “Sentiero della biodiversità”, un progetto per riqualificare circa due ettari del Bioparco con una foresta tropicale e specie animali tipiche di quell’habitat. Questo nuovo percorso, insieme alle recenti nascite di specie in via di estinzione come la zebra di Grevy e la tigre di Sumatra, contribuirà ad aumentare l’attrattiva del Bioparco, già noto per la conservazione delle specie e la ricerca scientifica, attirando centinaia di migliaia di visitatori ogni anno. Nei suoi oltre 100 anni di storia, il Bioparco ha subito drastici cambiamenti evolvendosi da semplice centro di esposizione di specie esotiche a promotore attivo della conservazione della biodiversità attraverso la conservazione delle specie minacciate di estinzione, l’educazione ambientale e la ricerca scientifica in linea con i dettami di uno Zoo “moderno”. Membro dell’EAZA (Unione Europea Zoo e Acquari) e della WAZA (Unione Mondiale Zoo e Acquari) collabora con altre strutture zoologiche internazionali per la salvaguardia delle specie minacciate di estinzione. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi: “Artiste a Roma. percorsi tra secessione, futurismo e ritorno all’ordine” dal 14 Giugno al 06 ottobre 2024

gbopera - Gio, 13/06/2024 - 18:56

Musei di Villa Torlonia,  Casino dei Principi
ARTISTE A ROMA. PERCORSI TRA SECESSIONE, FUTURISMO E RITORNO
ALL’ORDINE
Attraverso una selezione di quasi 100 opere tra dipinti, sculture e fotografie, la mostra documenta l’impegno artistico di molte pittrici e scultrici attive nella vita culturale capitolina nella prima metà del Novecento, esponenti di quelle avanguardie e di quei movimenti che, dal futurismo all’espressionismo, hanno attraversato gli anni del Ventennio fino al secondo dopoguerra. MArtiste spesso sottostimate dalla storiografia ufficiale nonostante siano state protagoniste di una vasta produzione artistica che ha lasciato un segno significativo nella storia dell’arte italiana del XX secolo. Tra le artiste italiane e internazionali presenti in mostra figurano i nomi di Evangelina Alciati, Teresa Berring, Wanda Biagini, Edita Broglio, Benedetta Cappa Marinetti, Ghitta Carell, Katy Castellucci, Leonetta Cecchi Pieraccini, Angela Cuneo Jacoangeli, Deiva De Angelis, Emilia de Divitiis, Maria Grandinetti Mancuso, Bice Lazzari, Pasquarosa Marcelli Bertoletti, Costanza Mennyey, Vittoria Morelli, Marisa Mori, Adriana Pincherle, Milena Pavlovic Barilli, Eva Quajotto, Mimì Quilici Buzzacchi, Antonietta Raphael, Virginia Tomescu Scrocco, Maria Immacolata Zaffuto, Emilia Zampetti Nava, Rouzena Zatkova. Figure che provengono da esperienze, formazioni e contesti diversi, ma tutte pienamente integrate nel tessuto artistico di Roma, altra vera protagonista di questo progetto espositivo, una città che è stata crocevia privilegiato e luogo di incontro durante il Ventennio, sapendo accogliere e amalgamare le tendenze artistiche più diverse divenendo luogo nevralgico per lo sviluppo dell’arte contemporanea. L’esposizione, articolata in sei sezioni (Tra Simbolismo e Secessione; Attraverso il futurismo; L’eredità del colore; Linguaggi del quotidiano tra Metafisica e Ritorno all’Ordine; Altri realismi; Nello sguardo di Ghitta Carell), propone un percorso che attraversa cinquant’anni densissimi di avvenimenti: gli anni Dieci con le Secessioni romane, in cui prevalgono stili diversi come l’espressionismo, il divisionismo, lo jugendstil, che incontrano dopo il 1916, anche il futurismo; segue la prima guerra mondiale che introduce al Ventennio e in cui si afferma il cosiddetto “ritorno all’ordine”: anni caratterizzati dalla ripresa di canoni e temi classici mediati dal primo Rinascimento e promossi dalla rivista «Valori Plastici» in cui è presente anche la metafisica dei fratelli de Chirico. Ancora durante il Ventennio, e sempre all’interno dei cosiddetti “ritorni”, s’incontra la Scuola di Via Cavour che propone un’arte fortemente espressiva e spesso in “silenzioso disaccordo” con il regime. Il percorso si chiude con gli anni che precedono e seguono la seconda guerra mondiale. L’esposizione è promossa da Roma CapitaleSovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e organizzata in collaborazione con Sapienza Università di Roma, Dipartimento SARAS e con Zètema Progetto Cultura.

 

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RAI 5: “Le creature di Prometeo – Le creature di Capucci”

gbopera - Gio, 13/06/2024 - 16:51

RAI 5
LE CREATURE DI PROMETEO – LE CREATURE DI CAPUCCI
Stasera, 13 giugno, va in onda su RAI 5 alle ore 22.05 il film Le Creature di Prometeo – Le Creature di Capucci, realizzato con il contributo del MIC, Direzione Generale Cinema e Audiovisivo. Si tratta della testimonianza video di un progetto realizzato dal produttore di danza Daniele Cipriani per il 63° Festival di Spoleto, durante uno dei pochi spiragli lasciati vivibili dalla pandemia COVID del 2020. Sposando un’idea del Sovrintendente del Teatro Carlo Felice di Genova, Claudio Orazi, a Daniele venne in mente che la musica del balletto di Ludwig van Beethoven Le Creature di Prometeo (1801) si potesse felicemente coniugare al frutto del “fuoco” creativo di Roberto Capucci, geniale creatore di moda e autore di una serie di bozzetti che nella loro plasticità architettonica arricchita dall’uso espressivo del colore si prestavano a divenire “fantasmagoriche creature danzanti”. Nel film diretto con grande sensibilità dal giovane figlio d’arte Maxim Derevianko si seguono i passaggi creativi del progetto, che coinvolge non solo Capucci e Cipriani, ma anche la costumista Anna Biagiotti e Paola D’Inzillo, responsabile dell’omonima sartoria. La coreografia è invece affida alla coreografa Simona Bucci, che si pone “in ascolto dei costumi” con l’intento di tradurli in sculture danzabili. Ecco che di conseguenza uno stesso movimento sarà ripetuto anche quattro volte di seguito prima di passare oltre, per l’esigenza di renderne incisivo il disegno grafico. Alle urgenze del dinamismo si sostituirà l’obiettivo primario di costruire un’illusione teatrale che non si interrompe. E la coreografia dei costumi si incastonerà sul lavoro dei musicisti dell’orchestra del Carlo Felice diretti dal Maestro Andrea Battistoni. L’aspetto più difficile sarà in ogni caso realizzare gli stessi geniali costumi di Capucci, adattandone le girandole e gli sbuffi alle esigenze dei danzatori. In questo la sartoria prescelta mostra una cura assoluta, ma è soprattutto aiutata dalla disposizione d’animo estremamente bonaria di Capucci, entusiasta che le sue creature prendano vita sul palcoscenico. Come ha raccontato Capucci durante l’anteprima tenutasi il 6 giugno scorso presso l’Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati, il lavoro con Cipriani lo ha allontanato per un attimo dalle clienti, permettendogli di vivere il lavoro come uno sfogo creativo e una necessità spirituale, come del resto da sempre lui stesso lo ha inteso. Nella tenerezza dei suoi 93 anni non inizia una giornata senza disegnare, dimostrando un’infinita gioia di vivere. Fin dall’inizio della sua attività negli anni Cinquanta, quando aprì il primo atelier in via Sistina, ha sempre saputo che un grande couturier deve essere libero, ed ha perseguito questa strada non temendo di inimicarsi le giornaliste di moda. Ad amarlo sono stati i critici d’arte, ma anche le principesse, intellettuali come Oriana Fallaci, e finanche Rita Levi Montalcini che proprio da Capucci si fece disegnare l’abito da sera quando vinse il premio Nobel per la medicina nel 1986. La Musa personale di Capucci è stata l’attrice Silvana Mangano. Non sono mancate allo stilista le collaborazioni a produzioni teatrali del Teatro San Carlo o dell’Arena di Verona. E le sue esposizioni internazionali sono divenute grandi eventi artistici. In fondo, come afferma alla fine del film, “nella vita si può fare di tutto, l’importante è farlo con amore”. Foto Massimo Danza, Cristiano Minichiello, Enrico Ripari

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Milano, Teatro alla Scala: “La Bayadère”

gbopera - Gio, 13/06/2024 - 10:00

Miilano, Teatro alla Scala, Stagione lirica e di balletti 2023/24
“LA BAYADÈRE”
Balletto in tre atti su Libretto di Marius Petipa e Sergej Kudekov.
Coreografia Rudolf Nureyev da Marius Petipa
Musica Ludwig Minkus con orchestrazione di John Lanchbery
Nikiya VIRNA TOPPI
Solor NICOLA DEL FREO
Gamzatti GAIA ANDREANÒ
Lo Schiavo GABRIELE CORRADO
L’Idolo d’oro DOMENICO DI CRISTO
Danza “Manou” BENEDETTA MONTEFIORE
Tre ombre soliste AGNESE DI CLEMENTE, CATERINA BIANCHI, ASIA MATTEAZZI
Solisti, Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Kevin Rhodes
Scene e Costumi Luisa Spinatelli
Luci Marco Filibeck
Milano, 11 giugno 2024
Torna in Scala Bayadère con la coreografia di Nureyev. L’ultima volta che è andata in scena, l’organizzazione soffriva dei fastidiosi effetti della pandemia, come posticipi di date e ballerine-ombre ridotte al minimo a causa della diffusione del contagio nel corpo di ballo. Oggi, per fortuna, tutto ciò evoca solo brutti ricordi – anche se, a dire il vero, sostituiti da un’odierna situazione geopolitica non confortante. Difatti, ricordiamo di aver visto in quell’occasione una serata da tutto esaurito con l’allora étoile ospite Svetlana Zakharova, sparita in seguito a queste tensioni internazionali; e con Jacopo Tissi, appena nominato principal a Mosca, e poi dovuto fuggire all’Ovest, peregrinando per troppo tempo senza una compagnia (con effetti negativi sulle sue capacità, almeno a nostro giudizio). Fatto curioso, considerato il contesto in cui nacque la coreografia di Nureyev, che trafugò gli spartiti di Minkus, all’epoca blindati dalla Cortina di Ferro di una cadente Unione Sovietica sulla via del tramonto. Ad ogni modo, per quanto riguarda la coreografia di Nureyev, essa fu rappresentata qui in Scala per la prima volta due anni fa, rompendo una sorta di esclusiva che l’Opera di Parigi aveva. Sulla sua costruzione estetica, non ripetiamo quanto già detto e rimandiamo alle considerazioni fatte all’epoca nell’approfondimento disponibile a questo link. Concentriamoci sulla serata a cui abbiamo assistito. Siamo tornati in occasione di un Invito alla Scala per giovani e Anziani. Si tratta di importanti spettacoli dedicati soprattutto alle scolaresche, ma coinvolgenti il cast della prima, tra i cui alunni forse qualcuno potrà poi interessarsi di danza. Successe anche per chi vi scrive: nell’aprile del 2001 assistette per la prima volta a un balletto, la Carmen di Roland Petit, che fu galeotta. Questa Bayadère ha visto come protagonisti Virna Toppi e Nicola Del Freo. Virna Toppi torna proprio in questa serata al repertorio classico dopo la maternità e un graduale reinserimento. Tutto è andato bene tecnicamente, anche il delicato pezzo di Nikiya del secondo atto (per cui ci permettiamo un piccolo appunto sul costume, non proprio tra i migliori disegnati per questo ruolo). A latere, possiamo solo sottolineare una resa forse un po’ troppo scarna delle braccia di Toppi, che in balletti come questi aggiungono un tocco di poesia alla rappresentazione. Riguardo a Nicola Del Freo non possiamo che registrare il meritato successo del suo Solor a suon di “bravo” alla fine dei suoi pezzi solistici. Notiamo, in questo ultimo periodo (come abbiamo già riscontrato in Coppelia, o nel Gala Fracci, in cui aveva strappato applausi a scena aperta), un quid in più, un qualcosa di risolto nella sua presenza in scena, più sciolta ma controllata, e giocata sull’esecuzione brillante dei movimenti e sulla cura nella loro chiusura. Ad maiora! Gaia Andreanò è stata una Gamzatti sufficientemente pulita tecnicamente, ma un po’ meno convincente da un punto di vista espressivo (ad esempio, nei fouettés finali del II atto – ben compiuti, e seguiti con partecipazione dal pubblico – non sappiamo se fosse impassibile per questioni legate al personaggio, o se si stesse divertendo, essendo quella la sua festa di fidanzamento, ma tutto ciò trasparisse poco). Gabriele Corrado, danzatore veterano del palco scaligero, ha condotto in maniera sostenuta ed elegante il passo a due dello schiavo con Nikiya, mentre Domenico di Cristo si conferma solista di valore nella sua variazione dell’idolo d’oro, seppur non perfettissimo nei difficili atterraggi dei pas de chat en tournant. Molto graziosa Benedetta Montefiore nella Danza “Manou”. Non sempre impeccabili, infine, sono invece state le tre ombre soliste. Lo spettacolo è stato molto applaudito ed apprezzato, con commenti favorevoli in sala su Del Freo. Prossime repliche  il 13, 14, 17, 18 e 21 giugno. Il 12 e 14 giugno prevedono come artista ospite Kimin Kim, ottimo danzatore che abbiamo visto protagonista in un Gala dedicato a Nureyev agli Arcimboldi lo scorso anno. La Bayadére rappresenta uno dei suoi cavalli di battaglia, dove mette in luce  la grande forza nei salti e nei giri. Foto Brescia & Amisano

 

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Roma, Teatro Argentina: “Accabadora”

gbopera - Mer, 12/06/2024 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
“ACCABADORA”
dal romanzo di Michela Murgia edito da Giulio Einaudi Editore
drammaturgia Carlotta Corradi
regia Veronica Cruciani
con Anna Della Rosa
luci Gianni Staropoli
Produzione Savà Produzioni Creative, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Roma, 12 Giugno 2024
Da qualche anno, “Accabadora” ha trovato nuova vita come monologo teatrale, magistralmente diretto da Veronica Cruciani. Recentemente, lo spettacolo ha fatto tappa al Teatro Argentina di Roma, presentato fuori cartellone ma riscuotendo un grande successo di pubblico. “Accabadora” di Michela Murgia emerge come un testo che non soltanto narra una storia, ma si immerge profondamente nelle complesse dinamiche delle relazioni umane attraverso la lente della cultura sarda. La narrazione si avvolge attorno alla figura di Maria, l’ultima nata in una famiglia troppo grande per darle attenzioni e cura adeguata. È in questo contesto che entra in scena Bonaria Urrai, una donna avvolta in un’aura di mistero, che adotta Maria non solo per aiutarla, ma anche per seguire un bisogno intimo e profondo di maternità tardiva. Il concetto di “figlialità elettiva” che Murgia esplora nel romanzo è un riflesso acuto delle dinamiche di accettazione e di alienazione, dove la comunità, con le sue voci bisbiglianti e giudicanti, gioca un ruolo chiave nella definizione dell’identità di Maria. Le figure materne in “Accabadora” sono poliedriche: da una parte c’è la madre biologica di Maria, incapace di fornire un ambiente di crescita stabile, dall’altra Bonaria, che offre a Maria una nuova vita ma con un senso di distacco emotivo. La narrativa si addentra poi nelle profondità psicologiche del rifiuto e dell’accettazione. Maria cresce percepita come un “errore”, un sentimento che permea la sua concezione di sé e delle sue relazioni con gli altri. La scelta di Bonaria di non integrare completamente Maria come una figlia “di casa” riflette una profonda comprensione della realtà di Maria come ‘altro’ da sé, un riconoscimento doloroso ma necessario della loro separazione intrinseca. Il personaggio di Bonaria è complesso e contraddittorio. Svolge il ruolo di “accabadora“, una figura tradizionale in alcune comunità sarde, responsabile di concedere una morte misericordiosa agli incurabili. Questa pratica, radicata in un profondo senso di pietà e in una comprensione intima della sofferenza, si contrappone alla percezione esterna di Bonaria come una figura quasi mitologica, oscillando tra il rispetto e il sospetto. Il ritorno di Maria, adulta e cambiata, per accudire Bonaria morente, simboleggia un completo ribaltamento dei ruoli e un apprendimento delle lezioni più profonde su vita, morte, e accettazione. Maria, che per tutta la vita ha lottato contro l’ombra dell’abbandono e del rifiuto, trova nella cura dell’anziana una possibilità di riconciliazione, non solo con Bonaria, ma anche con se stessa. “Accabadora” è un’indagine delicata e intensa sulle ferite nascoste dell’animo umano, sul potere trasformativo della cura e sull’ineludibile ricerca di riconoscimento e appartenenza. Michela Murgia, con uno stile incisivo e sensibile, riesce a tessere un’affascinante rete di relazioni e simbolismi, facendo del testo una meditazione profonda sulla vita e sulla morte, arricchita dalla potente evocazione del paesaggio sardo, che diventa, a sua volta, un personaggio vivente e respirante nella storia. L’adattamento scenico del romanzo “Accabadora” di Michela Murgia, curato da Carlotta Corradi, rappresenta un notevole esempio di come il teatro possa estendere e reinterpretare la letteratura.  Sebbene l’adattamento utilizzi esclusivamente le parole dell’autrice, le impiega in maniere innovative, attribuendo così al testo una nuova dimensione di originalità autoriale. Tuttavia, l’adattamento scenico si confronta con sfide significative legate al trascorrere del tempo, una tematica centrale sia nella regia che nella ricezione dell’opera. La direzione teatrale, orientata a sottolineare la performance solistica di Anna Della Rosa, dimostra un’eccellenza nel rendere autonomia alla recitazione, ma tale scelta non riesce pienamente a liberarsi dalle restrizioni di uno spettacolo che combatte per rimanere attuale. In particolare, le tensioni emergono quando si considera l’evoluzione del discorso sull’immaginario femminile, oggi caratterizzato da una fluidità e un impegno all’emancipazione da legami sessuali, filiali e territoriali che differiscono marcatamente dalle impostazioni più statiche e definite del romanzo. Nello specifico, i personaggi di Maria e Bonaria sembrano ancorati al loro contesto letterario, senza trovare un adeguato senso di urgenza o una rilevanza immediata nel contesto teatrale attuale. Ciò solleva questioni riguardo alla capacità del linguaggio teatrale di attualizzare e trasmettere efficacemente il messaggio originale del romanzo in modo da dialogare con le correnti socio-politiche e religiose contemporanee. In questo senso, la messinscena necessita di un’interpretazione più dinamica e contestualmente rilevante che possa trascendere il testo originario, facilitando un dialogo più incisivo e pertinente con il pubblico odierno. L’adattamento teatrale, quindi, si trova di fronte alla sfida di bilanciare fedeltà e innovazione, cercando di armonizzare la potente narrativa di Murgia con le mutevoli esigenze espressive e tematiche del teatro contemporaneo. Nella messa in scena dello spettacolo, la narrazione e l’evoluzione personale dei personaggi sono magnificamente enfatizzate dalle luci soffuse e multicolori di Gianni Staropoli, che modulano l’atmosfera in perfetta armonia con i cambiamenti emotivi della storia. Il design scenico, che varia di colore in risposta alla drammaturgia intensifica la connessione tra spazio scenico e narrazione. L’incontro con la morte viene evocato attraverso una musica delicata e eterea, che a tratti si contorce in suoni che ricordano rantoli e latrati, suggerendo la tensione e il disagio del momento finale. La resa sonora permette agli spettatori di percepire quasi fisicamente l’affanno del trapasso, evocando persino il tanfo della morte. L’esibizione, nonostante la complessità della trama e l’approccio quasi didascalico, si distingue per la linearità e la precisione nell’interpretazione di Della Rosa, la cui performance è autentica e misurata, senza mai esagerare l’accento sardo. Tuttavia, ciò che sembra mancare sono gli strati più profondi di disperazione, quegli sguardi che potrebbero riflettere pienamente le travagliate vicissitudini di una storia tanto tormentata e di un personaggio così profondamente segnato dalle avversità. Nel romanzo di Michela Murgia, il finale è lasciato alla libera interpretazione del pubblico. Tuttavia, nell’adattamento teatrale, le frasi conclusive pronunciate dall’attrice, avvolta in un manto nero, sono cariche di un’intensità emotiva così potente da guidare inequivocabilmente il pubblico verso un’unica interpretazione del finale. Photocredit@MarinaAlessi

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Staatsoper Stuttgart: “Il Trovatore”

gbopera - Mer, 12/06/2024 - 20:07
Staatsoper Stuttgart, Stagione Lirica 2023/2024 “IL TROVATORE” Dramma in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano e Leone Emanuele Bardare, da una tragedia di Antonio Garcia Gutiérrez Musica di Giuseppe Verdi Il Conte di Luna ERNESTO PETTI Leonora SELENE ZANETTI Azucena KRISTINA STANEK Manrico ATALLA AYAN
Ferrando
 MICHAEL NAGL
Inez
 ITZELI JÁREGUI
Ruiz
 PIOTR GRYNIEWICKI
Un vecchio zingaro WILLIAM DAVID HALBERT
Un messo RUBÉN MORA Orchestra e Coro della Staatsoper  Stuttgart Direttore Antonello Manacorda Maestro del Coro Manuel Pujol Maestro del Coro di voci bianche Bernhard Moncado Regia Paul-Georg Dittrich Scene Christof Hetzer Costumi Mona Ulrich Luci Alex Blok Drammaturgia Ingo Gerlach Stuttgart, 9 giugno 2024

l sipario si apre con una pantomima dal significato oscuro, prima del rullo di timpani che anticipa la fanfara introduttiva in mi maggiore (speculare agli accordi di mi bemolle minore che concludono la partitura: in Verdi, la discesa di un semitono significa immancabilmente sventura avvenuta) poi ripetuta dagli archi soli. La scena ci mostra una Spielplatz in rovina nella quale un coro di bambini intona le parole che dovrebbero essere affidate ai soldati, e il perché di questo rimane ignoto. Proseguendo, sulla scena appaiono Leonora e Manrico vestiti da cow-boys al primo atto e in seguito come Barbie e Ken nella scena della Pira, acrobati, ballerini di break dance che si agitano freneticamente nei momenti più drammatici di un’ azione scenica che la regia interrompe a suo piacimento con letture di versi in tedesco, declamati in stile da film Horror. Questo è solo una piccola parte di ciò che si è visto nell’ allestimento del Trovatore alla Staatsoper Stuttgart, ultima nuova produzione della stagione che sta per concludersi. L’ideatore di questa specie di Hellzapoppin’ era Paul-Georg Dittrich, quarantunenne regista originario del Brandeburg, che nel 2019 aveva provocato uno scandalo a Damstadt con una produzione del Fidelio in cui aveva fatto riscrivere la musica della scena finale. Come nel caso del controverso Boris Godunov allestito nel 2020 qui a Stuttgart, anche questa produzione ha dimostrato che la specialità del regista brandeburghese è quella di stravolgere e manomettere i testi per adattarli alle idee che vuole esprimere. al contrario di lui, anche a costo di sembrare conservatore, io continuo a pensare che il compito di un’ interpretazione musicale o scenica sia quello di mettere in evidenza ciò che l’ autore ha voluto dirci e non quello di usare il suo lavoro come pretesto per diffondere le idee del regista. In definitiva, questo spettacolo era la perfetta dimostrazione dell’ equivoco di fondo che invalida quasi tutto il cosiddetto Regietheater. Il problema più grosso della maggior parte dei registi di oggi è a mio avviso l’ incapacità di confrontarsi col mito e con le storie del passato. Loro vedono il teatro solo come dramma borghese e/o groviglio di conflitti psicologici, oppure come esibizione puramente estetica di installazioni artistiche. Una simile mentalità induce a riflettere sulla “moda” attuale del dramma borghese a tutti i costi, sulla rinuncia alla fabula come metafora (sostituita dalle valenze metaforiche della realtà) e sull’ insistenza – spesso davvero eccessiva – a visualizzare tutto secondo gli elementi di uno junghianismo da quattro soldi. A questo proposito diceva bene Emil Cioran quando affermava che mille anni di guerre hanno plasmato l’ Occidente ma è bastato un secolo di psicologia per ridurlo in frantumi.
In casi come questo, lo spettatore frastornato da quello che vede cerca conforto nella prova dei cantanti. Purtroppo, questa esecuzione offriva poco di pregevole anche sotto questo aspetto. Antonello Manacorda ha diretto in maniera pulita, precisa e ordinata ma anche terribilmente carente di senso del teatro e di tensione. Non basta far suonare bene l’orchestra per interpretare bene un’ opera come il Trovatore che si basa su contrasti drammatici estremizzati al massimo, e quindi tutta l’ esecuzione suonava terribilmente pallida e smorta. In due parole, un Verdi che sembrava Mozart. Per quanto riguarda la compagnia di canto, l’unica prestazione pienamente sufficiente era quella del tenore brasiliano Atalla Ayan, che possiede i requisiti vocali necessari alla parte di Manrico e ha messo in mostra un canto sicuro e note alte di buono squillo. Il soprano vicentino Selene Zanetti, che debuttava scenicamente Leonora dopo aver cantato il ruolo in forma di concerto a Budapest, ha una voce insufficiente per reggere le difficoltà  vocali della parte, nelle note gravi della prima scena del quarto atto il suono si stimbra e la voce nell’ ottava alta suona sotto sforzo, con tutte le vocali che diventano “I”. Gravemente insufficiente era anche l’ Azucena del mezzosoprano renano Kristina Steifeld, che nell’ ottava bassa annaspava ed era costretta a sforzi tremendi per tirare fuori note che, puramente e semplicemente, non possiede in natura. Il baritono siciliano Ernesto Petti ha una voce di bel colore gestita in modo tecnicamante abbastanza corretto, ma per un ruolo come quello del Conte di Luna dovrebbe curare molto di più le sfumature dinamiche e l’ eleganza del fraseggio, che qui appariva abbastanza trascurata. Semplicemente fuori parte il Ferrando di Michael Nagl, che essendo un baritono mozartiano non possiede la consistenza del suono e la cavata nelle note centrali necessaria per le parti verdiane di basso. Alla fine il pubblico della Staatsoper ha applaudito molto cordialmente i protagonisti della parte musicale e poi ha riservato una violenta ondata di fischi ai responsabili della parte scenica. Verdetto ineccepibile. Sei vendicato, o Verdi! Foto Matthias Baus
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101° Arena di Verona Opera Festival 2024: dal 14 giugno torna l'”Aida” firmata da Stefano Poda

gbopera - Mer, 12/06/2024 - 17:13

Aida torna in Arena per la 750a volta. Dopo un weekend da tutto esaurito, con la grande inaugurazione del 7 giugno e la première di Turandot, l’anfiteatro è pronto ad alzare il sipario su una nuova prima. Venerdì 14 giugno, alle 21.30, Aida ‘di cristallo’ preannuncia un nuovo sold out. E conferma l’opera verdiana regina incontrastata della scena areniana dal 1913 ad oggi. Il programma 2024 prevede ben due diversi allestimenti per il capolavoro di Giuseppe Verdi: il primo, in scena per 10 rappresentazioni fino al 1° agosto, è quello originale firmato per il 100° Festival dal visionario regista Stefano Poda. Una produzione che è stata definita ‘di cristallo’ per il grande impatto visivo sul bimillenario anfiteatro areniano, di cui valorizza le linee originali con inediti effetti di luce, raggi laser, un grande palcoscenico trasparente animato su diverse altezze e una ricca simbologia che, tanto per i costumi quanto per l’attrezzeria, unisce in modo originale elementi dell’Antico Egitto, arte contemporanea, alta moda, ammiccando alle creazioni di Capucci, Hirst, Rabanne. Il 14 giugno sul podio farà il suo esordio stagionale Marco Armiliato, esperto maestro molto applaudito in Anfiteatro nelle ultime edizioni, alla guida di Orchestra e Coro di Fondazione Arena e di un cast internazionale di prestigio: protagonista, al debutto areniano, sarà Marta Torbidoni accanto a Gregory Kunde come Radames. Amneris sarà interpretata da Clémentine Margaine, come Amonasro debutta a Verona Igor Golovatenko,  Ramfis e il  re degli egizi, sono affidati rispettivamente ai bassi Alexander Vinogradov e Riccardo Fassi. Completano il cast i Riccardo Rados e Francesca Maionchi quali messaggero e sacerdotessa.
Molti grandi interpreti del panorama lirico internazionale si alterneranno nelle recite successive, tra graditi ritorni e attesi debutti: Maria Josè Siri ed Elena Stikhina come Aida, i tenori Yusif Eyvazov, Martin Muehle, Carlo Ventre, Ivan Magrì; Ekaterina Semenchuk e Agnieszka Rehlis come Amneris, i bassi Giorgi Manoshvili, Marko Mimica, Simon Lim, Rafał Siwek e i baritoni Amartuvshin Enkhbat, Youngjun Park e Ludovic Tézier. Alternanza anche sul podio, per le recite di 7 e 11 luglio dirette da Alvise Casellati, e per quelle di 26 luglio e 1 agosto affidate a Daniel Oren.
In questa veste, Aida replica anche il 20, 23 e 28 giugno (sempre alle 21.30), il 7, 11, 18, 21, 26 luglio (alle 21.15) e il 1° agosto (alle 21).

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Opéra de Marseille: “Un ballo in maschera”

gbopera - Mar, 11/06/2024 - 23:33
Marseille, Opéra municipal saison 2023/2024 UN BALLO IN MASCHERA Opéra en 3 actes, livret de Antonio Somma Musique Giuseppe Verdi Amelia CHIARA ISOTTON Oscar SHEVA TEHOVAL Ulrica ENKELEJDA SHKOZA Gustave III ENEA SCALA Comte Anckarström GEZIM MYSHKETA Comte Ribbing MAUREL ENDONG Comte Horn THOMAS DEAR Cristiano GILEN GOICOECHEA Le serviteur d’Amelia REMI CHIORBOLI Le juge NORBERT DOL Orchestre et Chœur de l’Opéra de Marseille Direction musicale Paolo Arrivabeni Chef de Chœur Florent Mayet Mise en scène Waut Koeken Chorégraphie Jean-Philippe Guilois Décors/costumes Luis F. Carvalho Lumières Nathalie Perrier Marseille, le 4 juin 2024 Pour clôturer sa saison 2023/2024, l’Opéra de Marseille avait programmé l’opéra de Giuseppe Verdi “Un ballo in maschera” et le public marseillais, toujours amateur de grande voix, était venu nombreux en ce soir de première. Cette coproduction dans la mise en scène de Waut Koeken est une réussite totale et a remporté tous les suffrages. Initialement écrit pour le Théâtre San Carlo de Naples, dans un livret d’Antonio Somma d’après Scribe, le sujet délicat d’un régicide sur scène sera refusé par la censure et ce n’est qu’après de multiples changements que l’opéra sera enfin créé à Rome en 1859 après avoir transporté l’action à Boston. C’est la version originelle qui nous est donnée à voir ici avec l’assassinat du roi Gustave III de Suède. Waut Koeken conçoit sa mise en scène de façon spectaculaire représentant un théâtre dans le théâtre avec une scène tournante qui laisse parfois apparaître les coulisses. Une mise en abyme réussie pour un assassinat en direct lors d’un bal masqué donné à l’Opéra Royal de Stockholm en 1792. En principe nous ne sommes pas fans des mises en scène qui investissent les ouvertures mais ici le côté somptueux des rideaux rouges, qui s’ouvrent sur un roi en pleine introspection nous laissant goûter les mélodies et les thèmes qui composent l’ouvrage, nous plonge au cœur de l’histoire avec les couleurs enveloppantes et les jeux de lumières conçues par Nathalie Perrier. Le rouge, les ors de la royauté, le bleu sombre et froid d’un lieu où se dresse le gibet… La conception de ce petit théâtre tournant permet de changer de décor avec facilité, passant de la scène théâtrale à l’antre de la devineresse. Peu de mobilier mais des effets de lumières qui créent les espaces. Une grande cohérence visuelle qui séduit, dans les décors et costumes signés par Luis F. Carvalho, et qui finit en apothéose avec la prise de vue particulière de l’intérieur du Théâtre San Carlo, où l’opéra aurait dû être créé, avec en fond de scène le plafond peint par Giuseppe Cammarano. Effet spectaculaire réussi pour ce Bal masqué où les choristes évoluent dans des robes magnifiques et colorées. Superbe ! L’on aime, l’on n’aime pas (très rare), l’on est ébloui. Evidemment, au-delà des décors et de la chorégraphie de Jean-Philippe Guilois qui utilise deux couples de danseurs avec talent et à-propos, le succès viendra des voix pour un plateau homogène dans un cast très bien choisi, chanteurs connus ou découvertes. Enea Scala (Gustave III). Toujours très apprécié du public marseillais, le ténor italien habitué des colorature Rossiniennes développe sa voix vers des côtés plus lyriques avec une ligne de chant irréprochable aux accents verdiens. Chanteur investi, Enea Scala séduit dans ses trois airs, passant du sentiment amoureux à plus de légèreté ou de dramatique, changeant les couleurs de sa voix avec un sotto voce mélodieux ou des aigus éclatants et faciles. Rondeur du timbre, soutien du souffle et énergie vocale rendent le personnage convaincant. Une réussite ! L’Amelia de Chiara Isotton, fait  preuve ici d’une grande sensibilité dans une voix ductile et pleine qui allie noblesse et tendresse. Dans un vibrato qui laisse percevoir l’émotion, accompagnée par le son nostalgique du cor anglais à l’acte II, sa voix homogène et suave séduit par son style et ses prises de notes délicates. La sincérité contenue dans sa voix réussira à émouvoir son mari et un public conquis. Le Comte Anckarström, le solide baryton Gezim Myshketa, voix énergique d’une grande puissance. Le timbre est rond avec des aigus affirmés dans une projection efficace malgré une légère raideur effacée par des phrases musicales. Le baryton nous propose un Renato aux émotions contrastées où la jalousie l’emporte dans un superbe trio aux accents de vengeance. La voix profonde et chaleureuse de la mezzo-soprano Enkelejda  Shkoza nous propose une Ulrica d’une grande crédibilité, avec un vibrato qui laisse résonner des harmoniques de contralto très sombres qui séduisent. Les aigus pleins sont projetés dans un air puissant qui appelle les ténèbres. Superbe interprétation !  Espiègle, joyeuse  l’Oscar de Sheva Tehoval fait merveille dans cette production. Vive dans son jeu et dans les rythmes elle anime avec talent ce drame dans une voix fraîche et claire aux aigus cristallins faisant de ses interventions et de son air des moments de plaisir joyeux, de ceux que Verdi aime à parsemer ses drames. La soprano belge est une artiste dont le talent mérite d’être suivi. Maurel Endong et Thomas Dear proposent les rôles des deux conspirateurs dans des voix de basses aux accents sombres et inquiétants. On remarque aussi la voix solide et projetée du Cristiano de Gilen Coicoechea ainsi que celles de Remi Chiorboli et Norbert Dol bien dans leur rôle et dans leur voix. Toujours bien préparé par Florent Mayet, le Chœur participe du succès avec ces ensembles d’hommes aux voix homogènes dans des attaques nettes et des rires sarcastiques. Belle homogénéité aussi dans les interventions mixtes ou féminines, avec puissance et musicalité. Paolo Arrivabeni était à la baguette. Le maestro a su trouver les nuances et les tempi spécifiques à cet ouvrage qui allie mélodies, dramatique et puissance dans un savant dosage. Ne couvrant jamais les voix, les soutenant ou laissant ressortir les instruments solistes, le chef d’orchestre italien a laissé écouter les solos de la harpe, la flûte, la clarinette et le violoncelle, mais aussi de la trompette et du violon solo dans des effets chambristes pour créer des atmosphères ou accompagner les chanteurs. Une direction toute musicale très applaudie qui a su mettre l’orchestre à en valeur. Au final…un immense succès.
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Torino, Auditorium RAI: “American Landscapes” con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI diretta da David Greilsammer

gbopera - Mar, 11/06/2024 - 16:34

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini””
“AMERICAN LANDSCAPES”
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore David Greilsammer
Charles Ives :Three places in New England;  Ferde Grofé: “Mississippi suite”;  Aaron Copland: “Appalachian Spring”. Suite, versione per orchestra sinfonica, dal balletto in un atto; Michael Daugherty: (1954) Route 66 (1998)
Torino, 7 giugno 2024
È consuetudine dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, terminata la programmazione concertistica stagionale, proseguire con alcune serate “più leggere” che, in questo mese di giugno, vengono etichettate “pop”. L’Orchestra al super completo, prima della trasferta a Pesaro, per il Festival Rossini, si cimenta con: Paesaggi Americani, per poi fare una crociera da Napoli a Buenos Ayres con successivo ritorno europeo suddiviso tra le operette viennesi e le zarzuelas madrilene. A dirigere la tappa statunitense doveva esserci l’apprezzatissimo, almeno nei programmi a stelle e strisce, John Axelrod che un qualche disguido ha purtroppo tenuto lontano da Torino. Gli è subentrato, pare su sua indicazione, il giovane David Greilsammer che le note di sala garantiscono dotato di prestigioso curriculum, sia direttoriale che pianistico. Tutti i pezzi in programma richiedono, sia all’orchestra che al direttore, spiccate doti virtuosistiche. I ritmi e i tempi sono mobilissimi, si intrecciano, si sovrappongono e si contrastano. Ives, nelle Three places in New England, ci immerge nei riti autocelebrativi dell’epopea nordamericana. Si ricordano generali e battaglioni che hanno mantenuta unita una nazione che, per la guerra civile, poteva disfarsi a pochi anni dalla nascita. Boston e il vicino Connecticut sono le piazze in cui Ives è vissuto ed ha esercitato, con successo, la sua vera professione di assicuratore. Con la musica ci giocava nel dopo-lavoro e si permetteva quelle libertà grammaticali e sintattiche che i musicisti, accademici di professione, non azzardavano. Un “dilettante” può divertire con le marcette e gli strombazzamenti che arricchiscono le parate patriottiche, festose esplosioni inserite lungo l’intera partitura. Il direttore avrebbe forse potuto assecondare la strepitosa orchestra, legni, ottoni e percussioni al settimo cielo, con maggior leggerezza e scioltezza. Per Ives si vorrebbe comunque una maggior visibilità nei programmi di concerto, è il 150tesimo anno dalla nascita e pare che nessuno se ne sia accorto. La Mississippi suite di Grofé, come una Moldava americana, si abbandona su un fiume che scorre e racconta di sé e della vita che gli si svolge intorno. Si va, con un iniziale mormorio di acque scorrenti, dal raggelato territorio degli indiani nativi, immerso nel freddo nord dei laghi, ai racconti delle gesta dello scapestrato Huckleberry Finn, eroe di Mark Twain e novello Till Eulenspiegel, per approdare ai gospel afroamericani dei raccoglitori di cotone della Luisiana. In tutto il percorso prevale, con grande efficacia, folklore e colore locale. Una paletta variopinta di pigmenti primari, di grande leggera piacevolezza, che sia l’orchestra che il direttore riescono a proporre al meglio. Non è descrittivismo paesaggistico quello che Copland propone in Appalachian spring, né di primavera né di monti si tratta, ma di una cerimonia nuziale in una comunità Shaker, setta cristiana insediata nel New England. La grande danzatrice Martha Graham richiese il lavoro al compositore, ne fu quindi dedicataria e prima interprete. Se il pezzo, per il soggetto, potrebbe ricollegarsi a Les noces di Stravinskij, nella realtà rimane lontanissimo dalla carica inventiva e rivoluzionaria che il russo diede al suo lavoro. In Copland emerge sempre l’impronta francese, appresa fin dagli insegnamenti parigini di Nadia Boulanger, in cui, non sempre felicemente, si innestano le tradizioni americane ed ebraiche delle proprie origini. Un colorismo impressionista irruvidito, forse a ragione, dalla bacchetta di Greilsammer.  La Route 66 è stata per moltissimi, anche se non “fricchettoni”, il mito della giovinezza. Lasciar tutto per un po’, attraversar l’oceano, andare alla fermata dei grayhound e fare un ticket per le 2400 miglia del cost to cost sulla Route 66. Si era certi che il mondo intero e la Libertà stazionassero ai bordi di quella strada. Michael Daugherty finge di crederci ancora e, nel 1998, con un trentennio di ritardo, ci si butta, grazie a una commissione di una fantomatica orchestra di Kalamazoo, con molta spavalderia, malafede e avidità. Il pezzo prende dalle avanguardie, dall’attualità e dallo studio, tutto quanto è necessario a trasformarlo in un piatto appetitoso anche per il più bacchettone dei tradizionalisti. Vera eccitazione e vera gioiosa inventiva. Una bacchetta meno intransigente e più divertita, di quanto non fosse quella di Greilsammer, avrebbe centrato con mira più accurata il “pop” del bersaglio. Il poco pubblico presente non ha lesinato in  applausi  di ringraziamento verso un’Orchestra smagliante che ha supportato, senza riserve e con slancio, una direzione forse eccessivamente cauta.

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Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano: “Collòculi” : Un’Opera che Ridefinisce il Legame tra Persona, Arte e Ambiente

gbopera - Mar, 11/06/2024 - 15:30

Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano
COLLÒCULI / INTRO-SPECTIO
opere di Annalaura di Luggo
curata da Gabriele Perretta
Roma, 11 Giugno 2024
Dopo il grande successo ottenuto presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, l’installazione “Collòculi” di Annalaura di Luggo arriva alle Terme di Diocleziano, curata da Gabriele Perretta. Il termine “Collòculi” nasce dall’unione di due parole, sintetizzandone i significati in una forma circolare che rappresenta sia una geometria essenziale sia una struttura concettuale di sostenibilità. Questo progetto scultoreo ideato da Annalaura di Luggo è una fusione di immagine mediale e rimediazione multisensoriale. Attraverso la sua installazione, Collòculi trasforma il contesto in cui è inserito, attivando una nuova consapevolezza. Non si tratta più solo di un monumento, ma di un’occasione per rileggere le dimensioni umane in contesti in continuo mutamento. La forma di Collòculi non si limita a se stessa: essa è forza effettiva e corporea, richiedendo un coinvolgimento fisico per essere vista, fruita e vissuta. La sua plasticità è determinata dall’accumulo di filamenti di alluminio riciclato, che creano un nido per un movimento interno rinnovabile e intercambiabile. Questo movimento è reso visibile attraverso uno schermo dotato di un sistema di telecamere con riconoscimento gestuale, integrando il fruitore nell’azione stessa. Un aspetto distintivo dell’installazione è il coinvolgimento di ragazzi con varie disabilità nella creazione dei filamenti di alluminio riciclato. Questo elemento trasforma il pregiudizio in una visione trasfigurata e interattiva, permettendo di percorrere storie di affermazione individuale e di alimentare il senso della ricerca. Collòculi diventa così un’interazione artistica e umana orientata verso orizzonti inclusivi e comprensivi. L’installazione “Collòculi” di Annalaura di Luggo si integra perfettamente con l’ambiente circostante, evocando l’antico splendore di processioni misteriche. Questo connubio tra arte contemporanea e patrimonio storico permette ai visitatori di immergersi in un’esperienza unica, dove il presente si fonde con il passato e stimola la percezione del futuro. Le Terme di Diocleziano, con i loro magnifici reperti, amplificano l’impatto di “Collòculi”. L’installazione non si limita a essere una semplice opera d’arte, ma diventa un mezzo per esplorare la nostra realtà attraverso il prisma della storia. Questo processo di conoscenza e percezione è reso ancora più intenso dalla cornice storica che ospita l’opera, trasformando la visita in un’esperienza multisensoriale e meditativa. La magia di questa istallazione, quindi, risiede nella sua capacità di farci riflettere sul presente, immaginare il futuro e rimanere radicati in un passato ricco di capolavori. Questo dialogo tra tempi diversi è ciò che rende l’installazione così potente e significativa, offrendo agli spettatori una prospettiva unica e arricchente sul nostro percorso umano e artistico. Il progetto prende vita dagli occhi di quattro ragazzi, vittime di bullismo, discriminazione, alcool e criminalità. Attraverso i linguaggi della videoarte, del sound design e della realtà immersiva, questi giovani si spogliano delle loro barriere per rivelare il loro universo umano e poetico. L’osservatore è coinvolto in un confronto che non può lasciare indifferenti, perché “guardarsi negli occhi” significa aprirsi al dialogo e all’incontro. L’immedesimazione in questo contesto afferma il valore di ogni individuo nella società, stimolando una nuova prospettiva sul mondo. Se l’arte è vita, allora tutti siamo opere d’arte: WE ARE ART!

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Roma, MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo: “Nuove Avventure Sotterranee” dal 14 giugno al 25 settembre 2024

gbopera - Mar, 11/06/2024 - 06:00

Roma, MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo
NUOVE AVVENTURE SOTTERRANEE
a cura di Alessandro Dandini de Sylva
Dal 14 giugno al 25 settembre 2024 lo Spazio Extra del MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma accoglie Nuove avventure sotterranee, mostra a cura di Alessandro Dandini de Sylva che raccoglie le immagini di Stefano Graziani, Rachele Maistrello, Domingo Milella, Luca Nostri e Giulia Parlato. Dopo la selezione fotografica che nel 2021 raccontava la storia avventurosa di cinque grandi cantieri disseminati per il mondo, tornano con Nuove Avventure sotterranee le campagne fotografiche commissionate da Ghella ad alcuni tra i più interessanti autori della fotografia italiana contemporanea.  Per Nuove avventure sotterranee i cinque fotografi scelti hanno documentato liberamente la nascita di grandi opere in Italia, Canada, Argentina, Australia e Nuova Zelanda. Il percorso di mostra comprende oltre centocinquanta immagini: quelle degli artisti che hanno osservato e interpretato le infrastrutture, lasciando una “distanza poetica” tra i cantieri e la loro rappresentazione, e quelle provenienti dagli archivi di Ghella, che documentano infrastrutture realizzate tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Duemila. “Nuove avventure sotterranee è un progetto che affronta lo scavo in sotterraneo come una straordinaria possibilità di viaggio nel paesaggio, nella sua storia e nel suo presente in divenire – spiega Alessandro Dandini de Sylva, curatore della mostra –. Le campagne fotografiche che formano questa raccolta rappresentano una risorsa preziosa perché contribuiscono a rinnovare l’immaginario dei grandi cantieri di ingegneria infrastrutturale, combinando sapientemente documentazione e sperimentazione, e tracciano la direzione delle future trasformazioni delle città nel XXI secolo“. Ghella è la più antica azienda italiana di grandi infrastrutture: fondata nel 1894 e specializzata in scavi in sotterraneo, ha realizzato i tunnel della Transiberiana (1898) come quelli sottomarini della metropolitana di Sydney e, ancora oggi, i suoi cantieri sono attivi in tutto il mondo per realizzare soprattutto strategiche opere infrastrutturali. Il 2024 è un anno particolarmente importante per l’azienda che festeggia il suo 130° anniversario: la mostra al MAXXI rappresenta dunque, uno dei progetti speciali in programma quest’anno, immaginati per celebrare questo importante traguardo. La mostra è accompagnata dalla pubblicazione di un cofanetto con sei volumi monografici, disegnato da Filippo Nostri e edito dalla casa editrice Quodlibet.

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86º Festival del Maggio Musicale Fiorentino: Daniele Gatti interpreta Petrassi e Šostakovič

gbopera - Lun, 10/06/2024 - 10:26

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – LXXXVI Festival del Maggio Musicale Fiorentino
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Goffredo Petrassi: Salmo IX per coro e orchestra; Dimitri Šostakovič: Sinfonia n.5 in re minore op. 47
Firenze, 7 giugno 2024
Un programma decisamente bifronte che completava quello del 5 maggio scorso (cfr. la precedente recensione). Ancora il Petrassi delle grandi opere sinfonico-corali, ora con il Salmo IX, e Šostakovič con la Sinfonia n. 5, autentica denuncia ideologica. Nella prima parte è bastato il gesto icastico e deciso del direttore Daniele Gatti (Mosso in 6/8) per percepire subito la perfetta concordanza di propositi tra coro e orchestra. Il lapidario incipit, intonato dalle voci, oltre a far intuire l’attenta concertazione del maestro del coro Lorenzo Fratini, innalza a Dio ogni ringraziamento: «Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: narrábo ómnia mirabília tua». Partitura maestosa, iniziata nel 1934 e conclusa nel ’36 che sembra essere sostenuta da reminiscenze della sua esperienza di puer nelle basiliche romane e da opere come lo stravinskijano Oedipus Rex di quasi un decennio precedente. Riecheggiano fiamme dal coro e dall’orchestra ove, per la massiccia presenza degli ottoni, il resto dell’organico, nel variegato percorso sonoro concepito in due parti, offre risultati possenti, taglienti e ruvidi che si differenziano da altri più intensi ed intimi, necessari per esplicitare il contenuto del testo. In alcuni momenti sembra addirittura di percepire un’alternanza di luci e ombre ove la coscienza umana sente il bisogno di interrogarsi. Si sottolinea un’attenzione precisa ad ogni dettaglio della partitura da parte di Gatti e non di rado si è colta l’intenzione di esigere qualcosa in più dal coro pur di valorizzarne la straordinaria duttilità e potenzialità. Degna di nota la prestazione della sezione degli ottoni, a volte chiari e squillanti ma anche malinconici ed epici, tanto da rafforzare la monumentalità di una partitura che fino alla conclusione, grazie ad un’attenta interpretazione del testo, ha restituito stupore ma anche la speranza di poter riascoltare al Maggio opere di questo genere.
Nella seconda parte, pensando all’ondata di terrore staliniano proprio nell’anno in cui Šostakovič compone la Sinfonia n. 5 (1937), sembravano echeggiare le parole di Nono su una partitura che «può contribuire, può fondare una coscienza se le sue qualità tecniche si mantengono allo stesso livello di quelle ideologiche». La sinfonia, nata come «risposta concreta di un artista sovietico alla critica giusta» va intesa come reazione alla stroncatura apparsa sulla «Pravda» della sua Lady Macheth, fu eseguita il 21 novembre dello stesso anno a Leningrado con l’orchestra Filarmonica, per il ventesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre da Mravinsky. Aleksei Tolstoj scrive: «La Quinta è la ‘Sinfonia del Socialismo’. Comincia con il Largo delle masse che lavorano sottoterra, un ‘accelerando’ corrisponde alla ferrovia sotterranea: l’Allegro, poi, simboleggia il gigantesco macchinario dell’officina e la sua vittoria sulla natura. L’Adagio rappresenta la sintesi della natura, della scienza e dell’arte sovietica. Lo Scherzo rispecchia la vita sportiva dei felici abitanti dell’Unione. Quanto al Finale, simboleggia la gratitudine e l’entusiasmo delle masse». Il compositore, riferendosi alla sinfonia, dichiarava: «Il mio nuovo lavoro può esser definito una sinfonia lirico eroica». L’impresa, sia per il direttore che per la poderosa orchestra, cui vanno aggiunte 2 arpe, pianoforte e celesta, non era facile. Occorreva rimanere nella logica della forma-sonata (I movimento), ‘sprigionare’ il melos ed attenuare il dramma di un’umanità sofferente pur gravitando nell’alveo di sonorità a tratti violente. Grazie ad una folgorante prestazione dell’orchestra, Gatti restituiva della complessa partitura ogni aspetto della scrittura con forte aderenza stilistica. Si tratta di un’imponente cattedrale di suoni ove ogni sezione è chiamata ad un impegno notevole. L’inizio è severo e forte in forma di canone tra bassi (Cb e Vc) e violini (Moderato); la figura caratterizzata da una sesta ascendente riesce a coinvolgere ben presto anche in ottava i due fagotti con una bella raffinatezza timbrica; così i due strumenti si presentano ‘incupiti’ pur sostenuti dal raddoppio dei bassi che suonano pizzicando le corde (pizz.). Nel II movimento (Allegretto) l’esordio, ancora affidato ai bassi, non tarda a proiettarsi verso un certo umorismo affine ai Ländler di Mahler coinvolgendo e lasciando ben presto più visibilità anche ai legni.
Ma la timbrica degli archi, nell’interpretazione di Gatti, nell’ottima prestazione dell’orchestra e nel rapporto quasi simbiotico tra il violino di spalla (Salvatore Quaranta) e il direttore, diventa anche un’affascinante e pensierosa cantabilità come nel III movimento (Largo) dalle tinte più elegiache. Pur nei preziosi inserimenti degli altri strumenti (comprese arpe e celesta) gli archi non solo reggono l’intero movimento ma assolvono anche il compito di concludere sull’accordo di tonica (fa diesis minore) in pianissimo e morendo. L’ultimo movimento secondo il compositore è «una soluzione ottimistica e gioiosa agli episodi intensamente tragici degli altri tempi». Il perentorio attacco del direttore, l’esplosione dei suoni affidati agli strumenti a fiato, il reiterare dei colpi dei timpani (tonica-dominante) che accompagna il melos delle trombe, tromboni e tuba che coinvolgerà tutta l’orchestra, la valorizzazione timbrica di ogni sezione strumentale e tutta una serie di nuances mostrano che è innegabile il voler allinearsi da parte di Gatti ad una certa tradizione mahleriana. I vibranti slanci sonori, talvolta quasi assordanti, nella sua interpretazione, evidenziano altresì il destino dell’uomo che in questo caso, per sopravvivere, ha bisogno di trasformare il dolore in apparente letizia in cui la forza e l’esplosione di tutta l’orchestra, sottolineata alla fine con percussioni ed ottoni che troneggiano, vuole richiamare l’attenzione della sinistra ombra del regime. Ovazioni per coro e orchestra la quale ha applaudito insistentemente il direttore insieme al pubblico. Foto Michele Monasta-Maggio Musicale Fiorentino

 

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Venezia, Teatro Malibran: “Il Bajazet” di Antonio Vivaldi

gbopera - Lun, 10/06/2024 - 08:01

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2023-24 del Teatro La Fenice
IL BAJAZET”
Dramma per musica in tre atti su libretto di Agostino Piovene
Musica di Antonio Vivaldi
Bajazet RENATO DOLCINI
Tamerlano SONIA PRINA
Asteria LORIANA CASTELLANO
Andronico RAFFAELE PE
Irene LUCIA CIRILLO
Idaspe VALERIA LA GROTTA
Mimi GIOVANNI IMBROGLIA, MARCO MANTOVANI
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Federico Maria Sardelli
Regia Fabio Ceresa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Giuseppe Palella
Light designer Fabio Barettin
Video designer Sergio Metalli
Venezia, 7 giugno 2024
Con un nuovo allestimento del Bajazet/Tamerlano di Antonio Vivaldi, nell’edizione critica a cura di Bernardo Ticci, il Teatro La Fenice prosegue – dopo Dorilla in Tempe (2019), Farnace (2021), Griselda (2022) e Orlando furioso (2018, 2023) – nel mirabolante percorso alla riscoperta della produzione operistica del Prete Rosso. Se lo spettacolo sarà un ‘pasticcio’, vorrà dire che avremo fatto centro”: con questo apparente paradosso Fabio Ceresa esprime sinteticamente il criterio in base al quale ha ideato la propria messinscena. Il regista lombardo, insieme agli altri responsabili dello spettacolo, ha inteso affrontare il lavoro di Vivaldi, riproponendo l’edonismo, le tecniche, le “meraviglie”, che caratterizzavano il teatro barocco. Se nel ‘pasticcio’ Bajazet convivono arie da opere di vari compositori insieme ad arie, appositamente composte o mutuate da lavori precedenti, dello stesso Vivaldi, autore anche di buona parte dei bellissimi recitativi, è inevitabile che si crei uno scollamento tra tali arie e i rispettivi recitativi. Lungi dal regista, dunque, cercare una coerenza drammaturgica, che tradirebbe lo spirito originale del lavoro, destinato a un pubblico, che andava a teatro per assistere alla “rivista” delle arie più in voga sulla scena musicale del momento. Nel nuovo allestimento di Ceresa gli interpreti intonano i recitativi – raccontando il progredire della vicenda – in costume neutro come durante una prova o un’esecuzione in forma di concerto, mentre in corrispondenza delle numerose arie è previsto lo schiudersi di altrettanti siparietti, diversi tra loro per ambientazione, interpretazione, linguaggio scenotecnico. Per esempio, durante la prima aria – di Bajazet – “Del destin non dee lagnarsi”, un siparietto coloratissimo rivela il gusto per le turcherìe, in una scena da Le Mille e una notte, tra turbanti e pantofole arricciate. Diversamente nella successiva aria – di Idaspe –, “Nasce rosa lusinghiera”, l’ambientazione si trasforma, mostrando ventagli di piume e luccichìo di brillanti in un teatro di varietà, dove la showgirl si esibisce circondata dai boys. Successivamente, Tamerlano canta la sua aria, “In si torbida procella”, a cavallo di una motocicletta davanti a uno schermo su cui scorre una strada con effetto cinematografico. In un’ambientazione domestica – stile anni Cinquanta – resa con colori pastello, Andronico canta la sua disperazione (“Non ho nel sen costanza”), tentando poi goffamente e reiteratamente il suicidio. Il secondo atto, invece, contiene un omaggio a Venezia: “Sposa son disprezzata”, aria di Irene, è accompagnata da un video con una gondola notturna che scorre nei canali. Varie le ambientazioni anche nel terzo atto. Durante l’aria di Asteria, “Veder parmi or che nel fondo”, si vede Bajazet immergersi in un abisso e confondersi in un ambiente sottomarino popolato di pesci, per poi innalzarsi verso le stelle. Davanti a uno sfondo, su cui campeggia lontana una città medievale, Andronico intona “D’ira e furor armato” in una scena caratterizzata da costumi rossi ed enormi pennacchi sugli elmi. Un videogioco con Super Mario che corre viene proiettato mentre Bajazet canta “Verrò crudel spietato”. Uno squarcio “noir” di Londra – tra nebbia, fiochi lampioni e qualche ‘passeggiatrice’ – fa da contorno a “Son tortorella” di Irene, in una scena culminate con la sinistra – micidiale – apparizione di Jack Lo Squartatore. In tal modo ogni aria vive di vita propria, sottolineando ogni volta la sua diversa ispirazione e la sua unicità, creando uno spettacolo a suo modo capace di destare “meraviglia” in linea con i dettami del secentista Cavalier Marino. Magistrale l’esecuzione musicale sotto l’esperta guida di Federico Maria Sardelli, specialista del teatro barocco e di Vivaldi, che si è fatto come sempre apprezzare per l’estrema cura riservata al suono – rotondo e brillante negli archi, ovviamente senza vibrato, come nei fiati –, nonché per lo stile scevro da ogni compiacimento fine a se stesso e finalizzato alla valorizzazione delle voci e a un estremo nitore a livello sia ritmico che strutturale; il che si è apprezzato fin dalla vivace Ouverture. Aggiornato il suo approccio filologico alla partitura, con un Basso Continuo senza la tiorba, come si usava a Venezia al tempo del Bajazet. Di eccellente livello il Cast. Un Bajazet oscillante tra l’amore per la figlia Asteria e il desiderio di vendetta contro l’usurpatore (Tamerlano) ci è stato offerto dalla voce timbrata del baritono Renato Dolcini, che si è segnalato in “Dov’è la figlia/Dov’è il mio trono”, aria particolarmente concitata, resa con fraseggio scolpito. Spietato ma alla fine clemente il Tamerlano delineato dal contralto Sonia Prina, che ha esibito indubbie doti nei passaggi virtuosistici come in quelli più espressivi. Il che si può affermare anche riguardo al mezzosoprano Loriana Castellano, nei panni della contesa Asteria, che tra l’altro ha brillato nello splendido recitativo accompagnato “È morto sì, tiranno”. Positiva la prova offerta dal controtenore Raffaele Pe – capace, in certe scene, come quella dei tentati suicidi, di dimostrare una certa vena comica –, che ha esibito un timbro dalle venature metalliche, forse con qualche fugace stridore. Molto ben interpretata dal mezzosoprano Lucia Cirillo la fedele Irene, che ha conquistato il pubblico nella pirotecnica “Qual guerriero in campo armato”, oltre che in arie di intensa espressività come “Sposa son disprezzata”. Ragguardevole, per la purezza del timbro e la sensibilità, il soprano Valeria La Grotta, quale Idaspe – confidente di Andronico – segnatamente nell’aria “Anch’il mar par che sommerga”. Esaltante, nel finale, “Coronata di gigli e di rose”, affidata a Tutti e Coro, con la comparsa della scritta “That’s all Folks” (“È tutto, gente”), tratta da Looney Tunes, la celebre serie animata della Warner Bross, che ha concluso – in linea con alcuni precedenti rimandi alla contemporaneità – questo intrigante Bajazet. Grande successo, anche per il regista (a parte qualche cenno di contestazione).

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Kaifeng: Music School of Henan University: l’incontro di due civiltà attraverso la musica e la cultura

gbopera - Dom, 09/06/2024 - 23:49

Kaifeng, Auditorium della Music School of Henan University: Progetto “Esperto straniero di alto livello”
Orchestra e Coro della Music School of Henan University (Cina)
Direttore Salvatore Dell’Atti
Maestro del Coro Wang Li
Soprano Xu Mingli
Tenore Zhu Qiheng
Erhu Xu Hongzhan
AA.VV. (musiche del XIII-XVI secolo) Tradizionale, Tarantella del Seicento;G. F. Haendel: “Lascia ch’io pianga”; J. B. Lully: “Marche pour la cérémonie des Turcs”; W. A. Mozart,:  Ave Verum Corpus (K 618); J. B. Rameau: Danse du Grand Calumet de la PaixE. Morricone:  Gabriel’s Oboe;E. Di Capua-A. Mazzucchi,:”O sole mio”.
Kaifeng, 31 maggio 2024
Provate ad immaginare un concerto di musiche europee (dalla fine del XIII secolo alla musica contemporanea), conclusosi con O sole mio, eseguito da un’orchestra ed un coro di studenti e docenti dell’Henan University, e sentire cantare qualcuno anche dal pubblico con gioia smisurata: «Che bella cosa na jurnata ‘e sole / N’aria serena dopo na tempesta / Pe’ ll’aria fresca pare già na festa […] ‘O sole mio Sta ‘n fronte a te». Accanto al classico organico orchestrale occidentale vi erano altri strumenti: [a corde pizzicate simili alla cetra (guzheng), al liuto (pipa e Yueqin), al violino (erhu), al flauto traverso (dizi), ecc.] un’esecuzione colorata e luminosa tanto da restituire all’ascoltatore un ricco arcobaleno di colori e nuances: una percezione pienamente caleidoscopica. È accaduto il 31 maggio scorso presso il gremitissimo Auditorium della Music School of Henan University a Kaifeng (provincia dell’Henan), una delle capitali storiche nel periodo della dinastia Song e il concerto è stato trasmesso in tutta la Cina. Fuori non era na jurnata ‘e sole ma dentro si percepiva quel calore che fa rima con cuore: un autentico crogiolo di bellezza, amicizia e umanità. A dirigere il concerto il maestro Salvatore Dell’Atti – direttore d’orchestra, compositore, musicologo italiano, docente presso il Conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia – invitato a tenere conferenze e concerti con un progetto internazionale coordinato dal prof. Chen Wenge dell’Università di Henan. Si è trattato di una full immersion di iniziative (24-31 maggio 2024) in cui protagonista era la cultura e la musica della tradizione italiana: La musica popolare in Italia (con la partecipazione online del prof. Vincenzo Caporaletti dell’Università di Macerata), Puccini e il melodramma, L’improvvisazione nella musica barocca con particolare riferimento ai compositori italiani ed una Masterclass di Composizione per gli studenti dei bienni e docenti in cui sono stati presentati ed analizzati lavori di compositori contemporanei di aerea europea ed italiana. Il prof. Dell’Atti, invitato a presentare alcuni suoi lavori, ha organizzato l’evento come un autentico laboratorio entrando in dettagli tecnici-compositivi, commentando e proponendo suggerimenti ai lavori dei giovani compositori. Di particolare rilievo il pomeriggio del 30 presso l’Istituto Professionale della Musica di Xin Yang dove, dopo una bellissima performance di musiche e danze cinesi, sono seguiti gli interventi dei proff. Chen, Dell’Atti e Caporaletti (online): un’occasione in cui ogni studioso ha illustrato nuovi spunti di ricerca musicologica sul tema della musica popolare e per il prof. marchigiano occasione per esporre il suo studio sulle “musiche audiotattili”. Ritornando al concerto, si è trattato di un autentico successo: le compagini corale-orchestrale si esprimevano nella lingua «del bel paese là dove ‘l sì suona», il maestro ha valorizzato le ‘diversità’ avvicinandosi il più possibile al modo di fare musica in Cina. Il programma si riallacciava ai contenuti delle conferenze; per la musica popolare si segnala l’esecuzione di Bedda ci dormi, esempio di brano della tradizione salentina, a cura di musicisti cinesi e del solista Zhu Qiheng che, oltre a cantare in dialetto, è riuscito ad esprimere con sentimento l’amore di un uomo che chiede all’amata di alzarsi per farlo entrare poiché è fuori a sospirare d’amore per lei. Non poteva mancare il ballo con la Tarantella del Seicento in cui, negli interventi in alternatim tra la delicatezza degli strumenti a corde a quelli a fiato, sembrava cogliere i movimenti coreutici del ballo in coppia. Inoltre si segnalano l’ispirata interpretazione del soprano Xu Mingli nell’aria Lascia ch’io pianga (da Rinaldo) e la Marche pour la cérémonie des Turcs (da Le bourgeois gentilhomme) ove l’orchestra ha evidenziato la solennità del brano alludendo alla marcia del Re Sole mentre la qualità degli interventi e l’equilibrio sonoro tra le famiglie orchestrali evidenziava una raffinata concertazione da parte del direttore. Il celebre Ave Verum Corpus ha confermato la bella prestazione del coro, accuratamente preparato dalla professoressa Wang Li, sottolineando, con una interessante vocalità, la bellezza del testo. Il risultato, grazie al rapporto simbiotico tra coro e orchestra creato dal direttore italiano, è stato quello di un’autentica pace interiore. Il tema della pace risuonava nella Danse du Grand Calumet de la Paix la cui briosa interpretazione ha ‘ipnotizzato’ il pubblico. Particolarmente toccante è stata l’esecuzione della solista Xu Hongzhan del brano Gabriel’s Oboe, noto al grande pubblico come colonna sonora del film Mission, in cui la scelta di far suonare il tema con l’erhu, anziché l’oboe, ha evidenziato maggiore cantabilità, più vicina alla voce umana. Anche l’orchestra, grazie alla guida sicura di Dell’Atti, restituiva una lettura della partitura dove si percepiva una vibrante e calorosa espressività. Il concerto, conclusosi con moltissimi applausi per tutti, ha visto un particolare fuori programma in quanto il direttore ha estratto dal taschino della giacca un flauto dolce sopranino interpretando con estrema delicatezza il Largo dal Concerto in do maggiore per flautino, archi e bc. RV 443 di Vivaldi che in tale contesto assumeva il carattere della “maraviglia” barocca della gloriosa scuola italiana.

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