Pesaro, Vitrifrigo Arena, Rossini Opera Festival, XLIV Edizione
“ADELAIDE DI BORGOGNA”
Dramma per musica in due atti di Giovanni Schmidt
Musica Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Gabriele Gravagna e Alberto Zedda
Ottone VARDUHI ABRAHAMYAN
Adelaide OLGA PERETYATKO
Berengario RICCARDO FASSI
Adelberto RENÉ BARBERA
Eurice PAOLA LEOCI
Iroldo VALERY MAKAROV
Ernesto ANTONIO MANDRILLO
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Enrico Lombardi
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Maria Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuova produzione
Pesaro, 22 agosto 2022
Quando un regista prepara l’allestimento di un’opera di soggetto storico e deve tradurre in racconto e azione la partitura musicale, o ci crede o non ci crede. Se crede di poter inscenare una rappresentazione di quella storia, ha piena libertà; se non ci crede, meglio sarebbe abdicare a favore di una esecuzione in forma di concerto. Arnaud Bernard, regista dell’Adelaide di Borgogna, proprio non crede alla storia del libretto di Giovanni Schmidt, e quindi trasforma il suo scetticismo in metateatro. Quello che gli spettatori del Rossini Opera Festival vedono non è Adelaide di Borgogna di Rossini, bensì vita teatrale di una compagnia che sta provando l’Adelaide di Borgogna. La storia che si racconta visualmente non è quella di Ottone di Sassonia, che si innamora della vedova di Lotario e per lei combatte contro Berengario d’Ivrea e il figlio di quest’ultimo, Adelberto, bensì la storia di un tenore che tradisce il soprano, amoreggiando con una figurante del teatro, mentre nasce una travolgente passione tra la donna disprezzata e il contralto. Nel mezzo, si assiste a litigi tra cantanti, sfuriate del regista, allegro disordine e nervosismi tipici di qualunque ambiente di lavoro. L’idea di Bernard è divertente, non c’è che dire; ma è deleteria per la drammaturgia originale e distruttiva di qualunque rapporto di coerenza tra partitura (quello che le orecchie ascoltano) e spettacolo (quello che gli occhi vedono). La colpa non è tutta del regista, in quanto emblematica di un disagio oggi piuttosto comune di fronte alla storia dell’alto Medioevo; in questo caso, il regista non è capace (o, peggio ancora, non vuole) rielaborare la complicata epoca di lotte tra feudatari locali e regnanti di stirpi, contrapposte e intrecciate al tempo stesso. A tutte le latitudini nessuno ha difficoltà a mettere in scena le storie di Alessandro Magno, Lucio Silla, Cesare e Pompeo, Tito e Aureliano: il mondo classico continua a godere di una riconoscibilità estetica e culturale che lo rende facilmente fruibile per quello che fu o non fu. Al contrario, neppure nel cuore d’Europa si è capaci di riflettere su dinamiche politiche che hanno condizionato la storia del continente per secoli. Della storia di Adelaide e Ottone , quindi, restano soltanto icone stereotipate e stantie, come elmi di cartone, troni tarlati, anacronistici stendardi gialli con aquile imperiali (plausibili in epoca absburgica, ma non certo ai tempi della casa di Franconia), quinte di tende militari, boschetti e chiese gotiche, dipinte secondo l’estetica di fine Ottocento; insomma, trovarobato a buon mercato con l’obbiettivo di ridicolizzare l’epoca prevista dal libretto. Dietro l’apparente bonomia dello spettacolo si nasconde dunque un piccolo disastro di (mancata) sensibilità culturale. Fortunatamente, sul versante musicale tutto funziona molto bene: alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI non c’è Francesco Lanzillotta, a causa di un incidente stradale, bensì il suo assistente Enrico Lombardi, che dirige strumentisti e cantanti con notevole sicurezza e professionalità (bellissima la resa dei ritmi marziali, una costante di questa edizione del ROF). Il pubblico festeggia a lungo anche il terzetto vocale dei protagonisti: il soprano Olga Peretyatko (Adelaide), il contralto Varduhi Abrahamyan (Ottone) e il tenore René Barbera (Adelberto). La prima si disimpegna molto bene tanto nell’aria di elegiaca speranza del I atto quanto nella scena di incitamento alla battaglia del II (pregevoli gli abbellimenti nella cabaletta con clarinetto obbligato, «Cingi la benda candida». Dettaglio della cronaca: una contestazione isolata e puntuale, al termine di questa scena, si deve probabilmente a ragioni extra-artistiche, sul ritorno di Peretyatko al ROF). Il contralto si distingue per la correttezza con cui imposta il canto (tale fu la prima percezione anche quando interpretò Arsace nella Semiramide del ROF 2019) e per la naturalezza della recitazione; Abrahamyan è una cantante dalla spiccata musicalità, sebbene il sostegno dei fiati non sia sempre il più adeguato (come nel rondò finale) e la linea di canto non molto articolata. In più, durante la recita commette alcuni errori, scambiando parole del libretto o intervenendo fuori tempo (disattenzioni che forse sono conseguenza del caos scenico). Barbera, come tutti sanno, ha un timbro tenorile molto bello, supportato da buona tecnica: con l’aria del II atto, «Grida, o natura, e desta», strappa un caloroso applauso (più che meritato, fatta salva qualche piccola sprezzatura nell’intonazione). Il basso Riccardo Fassi ha voce ben timbrata, ma forse non del tutto adatta alla parte del rabbioso Berengario: si percepisce poco nel registro basso e deve forzare in quello acuto. Molto buona la prova del secondo soprano Paola Leoci (Eurice), mentre deve perfezionare dizione e fraseggio l’enfatico Valery Makarov (Iroldo). Un encomio speciale per Giovanni Farina, che – sulla scena as himself – coordina da par suo il Coro del Teatro Ventidio Basso. Al termine è acclamazione per tutti, compresi i tecnici del ROF e i figuranti che rappresentano il loro lavoro sul palco e dietro il palco. Bernard è riuscito a trasformare il “dramma per musica” in “farsa”; e il pubblico, naturalmente, apprezza e giustifica consenziente (per carità – si mormorava con indulgenza – dopo due opere così “serie” come Eduardo e Cristina e Aureliano in Palmira, ci voleva proprio qualche buffoneria). Si dovrebbe invece parlare di occasione mancata: al pari degli altri due titoli della stagione, anche in Adelaide l’azione si conclude con il trionfo di due figure vocalmente femminili sul gruppo delle voci maschili e delle loro pretese (narrative) di comando e controllo del potere. In quest’estate italiana così imbarbarita nelle relazioni tra donna e uomo, sarebbe stato interessante riflettere sui molti risvolti di genere che il teatro rossiniano offre, anziché baloccarsi con i soliti e miseri luoghi comuni, sia sul mondo dell’opera sia sulla storia medioevale. Foto Amati-Bacciardi © ROF
Pesaro, Teatro Sperimentale, Rossini Opera Festival, XLIV Edizione
Concerto lirico-sinfonico (20 agosto 2023)
Soprano Maria Kataeva
Direttore Marco Mencoboni
Filarmonica Gioachino Rossini
Musiche di G. Rossini, V. Bellini, W. A. Mozart, G. Bizet, G. Giménez, P. Luna
Concerto di belcanto (21 agosto)
Tenore Enea Scala
Pianoforte Michele D’Elia
Musiche di G. Rossini, J. S. Mayr, V. Bellini, F. Chopin, G. Verdi, L. Cherubini, H. Berlioz, J. Massenet
Il mezzosoprano russo Maria Kataeva è protagonista di uno dei numerosi concerti vocali del Rossini Opera Festival, che quest’anno sono stati eseguiti presso il Teatro Sperimentale di Pesaro a causa della temporanea inagibilità del Teatro Rossini. Nell’occasione la cantante è accompagnata da un’intera compagine strumentale, la Filarmonica Gioachino Rossini diretta da Marco Mencoboni. Più che recital di arie d’opera, il concerto è uno spettacolo teatral-attoriale, in cui l’artista si esibisce con costumi che paiono forgiati per l’occasione: il primo per recitare madrigali guerrieri e amorosi (con tanto di spalline militaresche), il secondo per interpretare l’idea più oleografica di Carmen di Bizet. E infatti, hanno un piglio molto guerriero tutti i primi brani, rossiniani e non: bene per Tancredi e il belliniano Romeo dei Capuleti e Montecchi («Ascolta! Se Romeo t’uccise un figlio»), ma anche Cenerentola canta il suo rondò finale con la spada sguainata, anche Sesto della Clemenza di Tito («Parto, ma tu, ben mio») è più volitivo e imperioso dello stesso imperatore. La voce di Kataeva è interessante, sia nel timbro sia nella tecnica, ma la cantante sembra torturata dal dubbio di non essere sentita: diversamente, non eseguirebbe tutto in forte o fortissimo, senza rilassare mai la tensione con una mezza voce, una smorzatura, un accento naturale (neppure in Bellini). Ovviamente, deve anche forzare sul registro acuto, per mantenere l’emissione sempre al massimo, a scapito di altri accorgimenti. Nelle agilità, per esempio, le note non sono sgranate con accuratezza e tendono a fondersi, con un effetto di certa imprecisione. La seconda parte del programma è dominata dalla personificazione di una Carmen sfrontata e volgaruccia (Habanera «L’amour est un oiseau rebelle» e Chanson Bohème «Les tringles des sistres tintaient»), che ammicca al pubblico, agli orchestrali, al direttore (il quale, pur con qualche incertezza, sta al gioco), canta forte e pesa esageratamente tutti gli accenti (anche con i tacchi). La cifra stilistica del concerto è data dall’intermezzo della zarzuela La boda de Luis Alonso di Gerónimo Giménez (quanto di più reboante, bozzettistico e pretenzioso esista in musica), prima che Kataeva riappaia munita dell’ordigno che serve a completare degnamente la sua esibizione: le nacchere, con cui accompagna la canzone «De España vengo» (El niño judío di Pablo Luna). Naturalmente, il pubblico va in visibilio, apprezzando molto (a buona ragione) anche la prova dell’orchestra e del suo direttore.
Se il successivo concerto vocale torna a essere vera espressione di sensibilità artistica è merito del tenore Enea Scala, che presenta un programma molto raffinato, dipanato tra Rossini e Verdi cameristici (Péchés de vieillesse, III, Morceaux réservés 2. L’esule; «More, Elisa, lo stanco poeta», da Sei romanze; Il poveretto; Brindisi, da Album di sei romanze), arie dell’opera neoclassica («Io ti lasciai, piangendo», da Medea in Corinto di Johann Simon Mayr; «Éloigné pour jamais», da Medea di Luigi Cherubini) e un brano belliniano («Sì, cadrò, ma estinto ancora», da Adelson e Salvini). La linea di canto di Scala è magnifica, di notevole eleganza; la tecnica, poi, gli consente di controllare l’emissione del suono e produrre tutt’una gamma di mezze tinte, piano e pianissimo. Un piccolo problema permane nella qualità del timbro, visto che le note di passaggio tendono a risuonare in gola, forse per una questione di posizione del suono (troppo alta?), e poi perché nel registro acuto scarseggiano gli armonici; ma questo si deve semplicemente alla voce ancora “fredda”. La temperatura emotiva del concerto s’impenna infatti quando Scala giunge all’aria di Argirio, «Ah! segnar invano io tento», dal Tancredi, facendo di nuovo capolino lo squillo nel registro acuto, che tanto entusiasma il pubblico. Di bene in meglio, «Inutiles regrets», dai Troyens di Berlioz, è forse la migliore pagina di tutto il concerto, per intensità di fraseggio e molteplicità dei colori; il che dimostra come un secondo repertorio autenticamente naturale per Scala sia quello drammatico, oltre al belcantistico. Il trionfo è nella dimostrazione di fedeltà rossiniana con cui il programma si chiude: la cavatina di Rodrigo, «Eccomi a voi, miei prodi», da La donna del lago: un prodigio di acuti, messe di voce, smorzature e vibrato. Enea, già divenuto Énée, si trasforma anche in Eracle, e può ben cantare alla fine «qual nuovo Alcide saprò in campo fulminar». Prezioso e ben eseguito il repertorio di brani pianistici che si alternano alle pagine vocali, in cui Michele D’Elia si cimenta, con Chopin (Ventiquattro preludi per pianoforte Op. 28 n. 15, Sostenuto in Re bem. magg., La goccia d’acqua), Verdi (Preludio da I masnadieri; Romanza e Valzer in Fa magg.) e Massenet (Méditation, da Thaïs). Più popolare – ma sempre squisita per il porgere – la scelta dei bis che il tenore concede al pubblico entusiasta, con le due Mattinate, prima di Tosti e poi di Leoncavallo, inframmezzate dal canto siciliano Li pescaturi. Foto Amati-Bacciardi © ROF
Questo cofanetto (131CD + 3Blu-ray + 1DVD-Rom) edito da Warner Classics (in uscita il 22 settembre prossimo)è in assoluto la raccolta più completa di registrazioni di Maria Callas, a 100 anni dalla nascita, presentando La Divina in tutti i 74 ruoli da lei sostenuti nell’arco della sua carriera e per i quali esista documentazione audio. Comprende tutte le sue registrazioni in studio, una vasta raccolta delle sue migliori registrazioni live, le masterclass tenute alla Juilliard School, video e per la prima volta un CD bonus con “alternative takes” e sessioni di lavoro dalle registrazioni in studio degli anni ’60.
Pesaro, Vitrifrigo Arena, Rossini Opera Festival, XLIV Edizione
“AURELIANO IN PALMIRA”
Dramma serio per musica in due atti di Giuseppe Felice Romani
Musica Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Daniele Carnini e Will Crutchfield
Aureliano ALEXEY TATARINTSEV
Zenobia SARA BLANCH
Arsace RAFFAELLA LUPINACCI
Publia MARTA PLUDA
Oraspe SUNNYBOY DLADLA
Licinio DAVIDE GIANGREGORIO
Gran Sacerdote ALESSANDRO ABIS
Un pastore ELCIN ADIL
Orchestra Sinfonica Gioachino Rossini
Coro del Teatro della Fortuna
Direttore George Petrou
Maestro del Coro Mirca Rosciani
Regia Mario Martone
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Produzione 2014, riallestimento
Pesaro, 21 agosto 2023
«Ma … È il Barbiere di Siviglia!», esclama stupefatto uno spettatore dietro di noi, poche battute dopo l’inizio della sinfonia di Aureliano in Palmira al Rossini Opera Festival di Pesaro. Un nume, rossiniano e possente, deve perdonare “il popolo steso al santo altar” del compositore, come dice il coro iniziale dell’opera romano-palmirena, che accede al tempio del suo genio senza neppure un’infarinatura liturgica sulle vicende di alcune partiture. Ma tant’è: questa edizione n. 44 del ROF è tutta di straniamenti, di rimandi interni, di ammiccamenti e varianti d’autore, che trasvolano di opera in opera, di epoca in epoca, dalle vallate dell’Eufrate alla fortezza di Canosso (sic) ai fiordi di Stoccolma. Forse mai tanta difformità storico-geografica è stata recuperata da coerenza stilistica più tenace (e musicalmente più efficace) come quella che Rossini applicò alle sue elaborazioni retoriche e affettive. Aureliano in Palmira è un riallestimento dell’edizione del 2014, ma con interpreti vocali del tutto nuovi; quelli di Aureliano, Zenobia e il Gran Sacerdote, inoltre, sono debuttanti al ROF in un ruolo protagonistico. Ma in questo caso, più del title role, gli autentici protagonisti dell’opera sono i due incrollabili amanti, Zenobia e Arsace, grazie alla bravura degli interpreti. Sara Blanch è un soprano catalano, con molte presenze a Wildbad, che conquista progressivamente il pubblico pesarese, in particolare con la grande scena del II atto, in cui esegue una serie di gorgheggi, abbellimenti e variazioni molto impegnativi con un ottimo risultato. Più che la voce, dal colore brunito e dal timbro non troppo marcato, è la tecnica a rivelarsi impeccabile e adeguata alla tessitura. Raffaella Lupinacci (che nell’Aureliano del 2014 aveva interpretato la parte di Publia) è un Arsace molto convincente: ottima voce, bel timbro di mezzosoprano e tecnica solida, forse le mancano certe nuances di marzialità che il personaggio richiede; a volte si abbandona a qualche esuberanza nell’emissione, ma è segno dell’entusiasmo con cui affronta il ruolo. Non da meno il tenore russo Alexey Tatarintsev, un Aureliano dalla voce non certo tonitruante ma generosa, ardito sin dalle variazioni e puntature della prima cabaletta; nel corso dell’opera si mostra capace anche di mezze voci e sfumature riuscite. È molto bravo anche il secondo tenore, altro giovane cantante, allevato a suo tempo nel vivaio del Viaggio a Reims dell’Accademia Rossiniana, il sudafricano Sunnyboy Dladla nella parte di Oraspe: tornerà certamente a far parlare di sé come interprete rossiniano. Corretto, ma troppo leggero per la parte, il Gran Sacerdote di Alessandro Abis. Tutti quanti, compresi i restanti comprimari, sono tenuti sotto stretto controllo dal direttore greco George Petrou, che concerta l’opera con suono pulito e abbastanza ben sgranato (ma gli archi dell’Orchestra G. Rossini, altre volte, sono stati più precisi), sonorità marcate, ma non eccessive, e – quel che più conta – piglio gagliardo e accenti accurati (quando torna sul podio per il II atto il pubblico gli tributa un apprezzamento non usuale). Molto buona anche la prova del Coro del Teatro della Fortuna, diretto da Mirca Rosciani. Lo spettacolo di Mario Martone di nove anni fa pare funzionare meglio negli ampi spazi della Vitrifrigo Arena che non sul palcoscenico del Teatro Rossini: il labirinto in cui vagano eroi e prigionieri, il clavicembalo sulla scena, le caprette che animano (con bucolica quiete) la scena pastorale, sono tutti elementi di linguaggi paralleli che si integrano a vicenda, grazie sia alle scene di Sergio Tramonti (teli di tulle trattati con sabbia e colore) sia ai costumi dell’espertissima Ursula Patzak. Efficacissimo, pertanto, in uno spazio così vasto, anche il gioco di luci creato da Pasquale Mari. Quest’esecuzione conferma definitivamente che Aureliano in Palmira non è né un’opera minore (nel senso di scritta con poco impegno o con scarsità di risorse musicali) né una partitura depositaria di precedenti scritture (al contrario: è la fonte prima da cui scaturiscono varie architetture del Barbiere, per esempio). L’Aureliano è invece un’opera ambiziosa (elaborata per inaugurare la stagione scaligera 1813-1814) e perciò difficile, molto articolata, sorretta da una scrittura raffinatissima e intellettualistica. Sulla scorta, non troppo fidata, delle prime cronache e critiche, è stato detto che il suo fallimento si debba alla mescolanza di forme antiche e nuove, con un risultato che avrebbe scontentato tutti (Carli Ballola). Ma la ragione non è questa: il linguaggio musicale di Aureliano è complesso e dilatato, alternando “scene di forza” solistiche e numeri d’insieme, inscritti anche l’uno dentro l’altro con pluralità di codici. È probabile che in futuro quest’opera tanto peculiare, che guarda al modello mozartiano della Clemenza di Tito, ma allo stesso tempo prefigura soluzioni personalissime (racchiuse tra il Barbiere e l’estremo Guillaume Tell, per il recupero dell’ambientazione campestre), attiri l’attenzione di studiosi, teatri e pubblici incuriositi, come è accaduto nei decenni scorsi per opere dalla configurazione “anomala” (emblematico il caso della Gazza ladra). Il pubblico del ROF apprezza tutto questo, nonostante la smisurata lunghezza dell’esecuzione, che non cessa di ammannire marce militari e musiche di guerra, scene elegiache, terzetti concitati, cabalette eroiche e romanze di disperazione. Pantagruelico banchetto musicale che – va ricordato – non corrisponde certo a nessuna versione rappresentata ai tempi di Rossini, visto che già la prima fu sconciata da tagli e defaillances della compagnia vocale. Al momento, più che le ragioni strettamente artistiche, prevalgono quelle narrative, mai disgiunte da una presa di posizione politica. Altrimenti, come spiegare la scelta del regista di proiettare durante il coro finale una lunga citazione dal libro di Edward Said, Orientalismo (1978)? Dietro le notizie storiche su Zenobia, dall’Historia Augusta e Trebellio Pollione fino a Zosimo, Martone rimarca che la sua lettura di Aureliano in Palmira va collocata nella cultura del postcolonialismo, di cui proprio il libro di Said (attivista filopalestinese e fondatore insieme a Daniel Barenboim della West-Eastern Divan Orchestra nel 1999) fu un caposaldo. Foto Amati-Bacciardi © ROF
Domenica 27 agosto (ore 21.15) Fondazione Arena insieme al Comune di Verona presenta al pubblico un nuovo spettacolo e lancia un segnale importante, riportando il Ballo al Teatro Romano da cui manca dal 2015. Il titolo scelto si riallaccia alla storia stessa del Festival areniano: Zorba il Greco vi debuttò in anteprima mondiale nel 1988 diretto dall’autore. Sviluppando i temi della colonna sonora scritta per il film omonimo del ‘64 con Anthony Quinn e Irene Papas, Theodorakis creò un balletto nuovo che fu coreografato da Lorca Massine. Il successo travolgente portò a riproporre e filmare il titolo due anni dopo, con étoile quali Vladimir Vasiliev, Gheorghe Iancu e Luciana Savignano. Il balletto tornò a Verona nel 2002, per i Teatri Filarmonico e Romano, quindi si potrà finalmente vedere quest’estate a 35 anni dalla sua prima assoluta, in una produzione completamente nuova, fedele all’originale e a cura dello stesso coreografo Lorca Massine. In scena ci sarà il Ballo di Fondazione Arena, coordinato da Gaetano Petrosino. Protagonisti saranno Denys Cherevychko (Zorba), già Principal Dancer dell’Opera di Vienna, con gli attuali Primi Ballerini Davide Dato e Liudmila Konovalova (John e Hortense), e, nei panni di Marina, la greca Eleana Andreoudi, Prima Ballerina dell’Opera di Atene.
Pesaro, Vitrifrigo Arena, Rossini Opera Festival, XLIV Edizione
“EDUARDO E CRISTINA”
Dramma per musica in due atti di T.S.B. [Leone Tottola, Giovanni Schmidt, Gherardo Bevilacqua Aldobrandini]
Musica Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Andrea Malnati e Alice Tavilla
Carlo ENEA SCALA
Cristina ANASTASIA BARTOLI
Eduardo DANIELA BARCELLONA
Giacomo GRIGORY SHKARUPA
Atlei MATTEO ROMA
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Jader Bignamini
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia, scene, costumi, luci e coreografie Stefano Poda
Nuova produzione
Pesaro, 20 agosto 2023
«Di ragione il lume | dà il tempo alfine», dice l’austero sovrano-padre di Eduardo e Cristina, per riprendere gli eccessi languorosi della figlia. Effettivamente, anche Ernesto Palacio ammette che questa edizione del Rossini Opera Festival è un po’ “intellettuale”, visto che propone tre titoli del cosiddetto “Rossini serio”, senza concessioni alle opere comiche, o semiserie o, come le vuole oggi la maggior parte del pubblico, “divertenti senz’altro”. Del resto, dice lo stesso Sovrintendente, il compito del ROF è di fare conoscere il più possibile Rossini nel mondo, e quindi promuovere anche quei titoli meno noti in assoluto, come è il caso di Eduardo e Cristina, che per la prima volta appare (come n. 39 nel catalogo degli allestimenti) nella kermesse adriatica, in Italia in generale, e in prima assoluta per l’uso dell’edizione critica della Fondazione Rossini, di prossima pubblicazione. Grazie ad Andrea Malnati e Alice Tavilla, curatori di tale edizione, si sono demoliti moltissimi luoghi comuni sull’opera considerata nulla più di un pasticcio, centone, riciclaggio (lavoro, oggi si direbbe, di “copy and past”), che hanno mantenuto Eduardo e Cristina ai margini della Rossini renaissance per più di mezzo secolo. In realtà, il melodramma che andò in scena il 24 aprile 1819 al Teatro di San Benedetto di Venezia non fu affatto una successione di pagine scritte per opere anteriori, bensì un prodotto complesso, in cui si alternano molte musiche nuove e riscritture funzionali di musiche già scritte. Marco Beghelli, in un saggio magnifico del programma di sala, fa luce sul problema travisato degli “autoimprestiti” rossiniani, argomentando il carattere strutturale di stilemi, formule, cellule ritmiche ed embrioni melodici che percorrono tutta la produzione del pesarese, e che definire semplici riprese è decisamente riduttivo. Rossini lavorò piuttosto a memoria, recuperando discorsi musicali già preparati per altre occasioni, ma riscrivendoli da capo, con nuove soluzioni strumentali, armoniche e contrappuntistiche (e dunque, giacché dovette riscriverli passo dopo passo, con nuovi accorgimenti, dove sarebbe la troppo celebrata pigrizia del compositore?). Fortunatamente per le orecchie, un direttore intelligente come Jader Bignamini esalta la ricchezza sinfonica della partitura, sempre grazie alla destrezza, segno di una frequentazione ormai annosa con il ROF, dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. È una gioia riascoltare temi e sintagmi provenienti da Ermione, Ricciardo e Zoraide, Adelaide di Borgogna, Mosè in Egitto, riformulati per un’opera in cui la continua azione militare è sottolineata dagli effetti del tamburlan, imponente tamburo di guerra che Rossini utilizza soltanto in questa partitura (perché faceva parte dell’organico del teatro veneziano per cui fu composta). Il pubblico festeggia con entusiasmo la musica e la compagnia vocale, i cui protagonisti si distinguono per correttezza, professionalità, impegno. Daniela Barcellona, alla sua quattordicesima edizione del ROF (esordì nel 1996 come Elmira in Ricciardo e Zoraide) indossa le vesti di un nuovo personaggio en travesti – una costante delle sue presenze protagonistiche pesaresi -, con un Eduardo dalla voce sicura e ben proiettata, però priva di quello smalto mezzosopranile che aveva forgiato la sua ‘personalità vocale’. Non tanto la linea di canto, ma il timbro si avvicina a quello di un soprano, ovviamente molto solido nella zona bassa del pentagramma; la risonanza è assai diminuita (come nelle agilità della cabaletta «Come rinascere | vi sento in core», del II atto, quasi impercettibili), ma la prova dell’interprete scaltrita è comunque degna di memoria. Piena e decisa la voce del soprano fiorentino Anastasia Bartoli, conosciuta soprattutto per ruoli verdiani, che debutta al ROF come Cristina. Sempre convincente nel corso dell’opera, è magnifica nella scena finale della disperazione e della supplica (anche se, talvolta, a voler essere pignoli, si percepisce qualche acerbità). Enea Scala è perfetto nella parte di re Carlo di Svezia, sebbene la voce risuoni un po’ appannata rispetto al solito, come opacizzata; il porgere, il recitare e la forza drammatica sono pregevoli, ma forse il tenore era già concentrato sull’impegnativo recital dell’indomani. Poco accurata, invece, la linea di canto del basso russo Grigory Shkarupa, nella parte di Giacomo, mentre il secondo tenore, Matteo Roma, nel ruolo di Atlei, si misura con un’aria impervia, che rivela la disomogeneità dei registri, nella pur corretta impostazione tecnica. Molto buona, come sempre, la prestazione del Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Giovanni Farina. A chi affidare il recupero scenico di un titolo gravato da tanti equivoci e luoghi comuni, in specie sulla presunta mancanza di originalità musicale? Magari a qualcuno solitamente poco interessato alle precise indicazioni di libretto e partitura, così da montare uno spettacolo indipendente e “altro” … Stefano Poda, anch’egli debuttante al ROF, pare ogni volta più giudizioso nel montaggio delle sue regie. Un tempo, infatti, il verbo che meglio si adattasse ai suoi allestimenti di opere serie era ‘maramaldeggiare’ (copyright illustre di Giorgio Pestelli). Ma con questo Eduardo e Cristina Poda è (quasi) un esempio di sobrietà e di rispetto per la musica! Peccato che la smania di introdurre gabbie costrittive e grappoli di umanoidi in perpetuo e frenetico movimento proprio non diminuisca … I protagonisti sono avvicinati e adescati da presenze ferine, come di morti mummificati, color sabbia, che si risvegliano da un gigantesco ossario e con cui lottano invano. Il sepolcreto di teche trasparenti crea la cornice architettonica dell’azione, in una specie di scena unica dall’atmosfera mortifera. Ma non c’è un vero studio registico sui singoli personaggi, tanto meno sui coniugi protagonisti; ogni volta che la musica si dinamizza, Poda ricorre piuttosto a movimenti di gruppo, facendo leva sui figuranti o sul coro. Nella marcia che introduce l’arrivo di Eduardo, i fastidiosi revenants (fantasmi dei nemici del regno? Ossessioni di morte o guerra?) avanzano da un lato del palcoscenico, cadono a terra uno dopo l’altro, strisciano, balzano come cavallette perniciose, seguendo lo slancio della musica; quando esauriscono lo spazio percorribile, ma la fanfara introduttiva non è ancora finita, fanno marcia indietro, tornano sul lato opposto e ricominciano da capo … Tali scenette, tutte salti e capriole, si ripetono anche nel Finale I, compromettendo gli effetti della parziale agnizione (e stancando un po’, per dir la verità, la pazienza del pubblico). Alla fine è uno scroscio di grandi applausi per tutti. Il regista non si affaccia, ma una nota sull’esito del suo lavoro è necessaria: i primi a raccogliere la reazione del pubblico sono i tersicorei di ferino aspetto, che suscitano le urla (di gioia) e i fischi (di ammirazione) della tifoseria più sviscerata, ossia della “generazione Z”. Nessun altro interprete riceve tale smaccata e selvaggia dimostrazione d’entusiasmo; anche questo è un segno di come si vada trasformando la percezione del teatro musicale. Eduardo e Cristina meritava sicuramente da parte del ROF un allestimento così ricco. Oltre alle considerazioni sulla musica, tutt’altro che occasionale o poco originale, anche il libretto di Schmidt (scritto per l’Odoardo e Cristina di Stefano Pavesi, 1810) e rabberciato da Bevilacqua Aldobrandini, pur nella sua pretenziosità lessicale e sintattica, non è poi così bislacco come le prime critiche dissero e come si continua a ripetere. Oltre a essere funzionale, è anche sintesi e premonizione di altri congegni narrativi, essendo in pratica fusione delle trame di Norma (la fanciulla protagonista che tutti ritengono pura si rivela sposa e madre, incorrendo nelle ire del padre-capo) e di Aida (l’eroe protagonista è un salvator della patria che ben presto cade in disgrazia, a causa della figlia del re). Non male, per un’opera che finora è sempre stata classificata come un raccogliticcio centone … Foto Amati-Bacciardi © ROF
Roma, Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti
“IL CASO SHAKESPEARE SHOW”
di Claudio Pallottini
Con Edoardo Baietti, Andrea Bianchi, Sebastiano Colla, Melania Giglio, Andrea Giuliano, Stefano Messina, Claudio Pallottini, Carlotta Proietti, Marco Simeoli
Regia: Marco Simeoli
Prodotto: Politeama s.r.l.
Date: 21-22 agosto, 4-5 settembre, 11-12 settembre
Chi ha scritto le opere di Shakespeare? Perché a distanza di 400 anni esatti dalla pubblicazione del primo in folio, il dibattito resta così aperto? Cosa c’è da scoprire? Cosa c’è da temere? Il caso Shakespeare show promette di scoprirlo insieme agli spettatori che si troveranno a loro insaputa a fare da giuria alla questione. Sul palco, trasformato nel salotto di un talk televisivo con ospiti del passato e del presente si ricostruisce la vicenda e la personalità di William Shakespeare, in un divertentissimo gioco teatrale che mescola commedia, cabaret, teatro di narrazione e documento il tutto rigorosamente sottoposto al filtro dell’ironia. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti
“IL SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE”
di William Shakespeare
Con Gerolamo Alchieri, Claudia Balboni, Tommaso Cardarelli, Raffaele Proietti, Sebastiano Colla, Ughetta D’Onorascenzo, Martino Duane, Elisabetta Mandalari, Valentina Marziali, Bruno Monico
Regia: Riccardo Cavallo
Produzione: Politeama s.r.l.
La notte di mezz’estate è una notte magica e il titolo ne svela immediatamente l’atmosfera onirica, irreale anche se, come viene precisato, la notte in cui si svolge gran parte dell’azione è quella del calendimaggio, la celebrazione del risveglio della natura in primavera e non in estate. È comunque l’augurio di un risveglio gioioso. Ma è davvero così? Tre mondi si contrappongono: il mondo della realtà (quello di Teseo, Ippolita e della corte), il mondo della realtà teatrale (gli artigiani che si preparano alla rappresentazione) e il mondo della fantasia (quello degli spiriti, delle ombre). Ma i sogni alle volte possono trasformarsi in incubi: il dissidio fra Oberon e Titania che rivela a un certo punto un terribile sconvolgimento nel corso stesso delle stagioni, il rapporto tra Teseo e Ippolita, il conquistatore e la sua preda, la brutalità di certi insulti che gli amanti si scambiano sotto l’influsso delle magie di Puck. “Sogno di una notte di mezza estate”, scritta in occasione di un matrimonio, è come una serie di scatole cinesi. All’esterno dell’opera ci sono la sposa, lo sposo e il pubblico, all’interno le coppie, Teseo e Ippolita, Titania e Oberon e i quattro innamorati e nell’opera dentro l’opera, i teatranti, la vicenda di Piramo e Tisbe. In questo mondo stregato domina il capriccio, il dispotismo di Oberon che attraverso Puck gioca con i mortali e con Titania, per imporre il suo dominio. Si compie quindi su Titania quella violenza che Teseo compie su Ippolita e che Egeo vorrebbe compiere sulla figlia costringendola a un matrimonio che respinge. Si noti la sequenza degli scambi fra gli amanti. Si inizia con Ermia che ama Lisandro e con Elena che ama Demetrio, ma quest’ultimo con l’appoggio di Egeo, padre di lei, vuole invece conquistare Ermia. Si passa, attraverso l’intervento “magico” di Puck, al folle girotondo in cui Ermia insegue Lisandro, Lisandro Elena, Elena Demetrio e Demetrio Ermia. E non è finita. Perché Ermia, alla quale dapprincipio aspiravano entrambi i giovani, sarà abbandonata da tutti e due, innamorati ora di Elena, e solo nel quarto atto dopo un nuovo intervento di Puck, si avrà la conclusione in cui gli amanti formeranno davvero due coppie. La grandezza di Shakespeare sta nell’aver saputo coinvolgere tre mondi diversi, ciascuno con un suo distinto linguaggio: quello delle fate che alterna al verso sciolto, canzoni e filastrocche, quello degli amanti dominato dalle liriche d’amore e quello degli artigiani, nel quale la prosa di ogni giorno è interrotta dalla goffa parodia del verso aulico. Il mondo è folle e folle è l’amore. In questa grande follia della natura, l’attimo di felicità è breve. Un richiamo alla malinconia che accompagna tutta la vicenda. Riccardo Cavallo Qui per tutte le informazioni.
100° Arena di Verona Opera Festival 2023
Orchestra della Fondazione Arena di Verona
Direttore Jochen Rieder
Soprano Sonia Yoncheva
Tenore Jonas Kaufmann
Baritono Ludovic Tézier
Musiche di Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Umberto Giordano, Franz Lehár, Georges Bizet, Ernesto De Curtis, Jacques Offenbach, Leonard Bernstein, Ennio Morricone e Hans Zimmer
Verona, 20 agosto 2023
In un anfiteatro per buona parte di lingua tedesca, l’Arena di Verona ha ospitato nuovamente la star Jonas Kaufmann a due anni dal debutto nel 2021, seguito dal successo come Radamès l’anno seguente. Se il primo Gala propose allora l’abbinamento di una parte wagneriana ed una verdiana, seguite da una sequela generosa di bis, questa volta il tenore ha interpretato i ruoli che lo hanno visto presente nei maggiori teatri del mondo, spingendosi oltre per sconfinare nell’operetta, nel musical e persino nel mondo delle colonne sonore alle quali dedicherà anche la sua prossima uscita discografica dal titolo “The Sound of Movies”. A dividere l’impegno della serata, quali ospiti, vi erano il soprano Sonya Yoncheva (già impegnata nella Tosca di De Hana) e il baritono Ludovic Tézier (presente al Festival anche come Rigoletto, Amonasro e Germont) per un ventaglio di arie e duetti che hanno accontentato il vasto pubblico accorso tra le pietre millenarie per ascoltare il proprio beniamino. In apertura di serata la celeberrima Recondita armonia, forse non il brano più opportuno per iniziare questa kermesse vocale: cantata con suono gonfiato ed emissione scura, quasi gutturale, chiudendo le vocali e per questo assai poco convincente. Decisamente meglio la parentesi verdiana di Otello con il suggestivo duetto Già nella notte densa e l’invettiva Dio! Mi potevi scagliar risolta quest’ultima con particolari accenti di introspezione psicologica; non da meno il finale di Andrea Chènier, Vicino a te s’acqueta. che ha chiuso la prima parte del programma con particolare veemenza emotiva e passionalità. Dove forse abbiamo potuto ascoltare il miglior Kaufmann è stato però nelle due incursioni viennesi nel nome di Lehár con Freunde, das Leben ist lebenswert! (Giuditta) e l’irrinunciabile Dein ist mein ganzes Herz (Das Land des Lächelns) proposta sia in lingua originale che nella versione italiana nella ripresa; è evidente che qui l’artista si sente a casa propria e in un repertorio a lui particolarmente congeniale. Nonostante qualche suono non perfettamente a fuoco e qualche incrinatura negli acuti, si può dire che Kaufmann accende, entusiasma ed infiamma il pubblico elargendo con generosità anche più di un bis nonostante la comprensibile stanchezza vocale al termine della serata. Se l’attesa era tutta per lui vi è da sottolineare che i suoi due compagni se la sono giocata assolutamente alla pari, a partire da Sonya Yoncheva che ha confermato le sue ampie doti vocali tanto nelle due scene di Otello e Andrea Chènier quanto in un’affascinante e sensuale Habanera e nel bis O mio babbino caro. Di particolare evidenza gli interventi di Ludovic Teziér già in Credo in un Dio crudel dove dipinge uno Jago magistrale, tanto vocalmente quanto di forte impatto scenico; una gran bella voce, ricca ed armonicamente densa, che ha offerto all’ascolto anche Nemico della patria, Votre toast e Scintille diamant (Les Contes d’Hoffmann); a suggello della sua prova Voilà donc la terrible cité (Thais) cantata come bis ed interpretata con particolare afflato ed intensità di fraseggio. Sul podio, come già nel galà del 2021, il direttore tedesco Jochen Rieder di sicura ed indiscussa capacità, ben assecondato dall’Orchestra della Fondazione in ottima forma per una serata registrata da un’emittente televisiva tedesca e che uscirà in dvd. A voler essere pignoli, per ragioni di coerenza musicale, alcuni brani avrebbero figurato meglio come bis piuttosto che inseriti nel programma ufficiale: soprattutto Morricone la cui discutibile versione con testo (Nella fantasia) che tanto spopola, e il tema de Il gladiatore richiamavano certi concertoni nazional popolari tanto cari al gusto medio italico. Questo, tuttavia, è solo un piccolo appunto che di fronte al richiamo della stella Kauffmann si perde nei meandri del purismo estetico e stilistico; d’altronde ad un pubblico entusiasta ed ebbro di passione, che non manca il battimani sul preludio di Carmen, occorre dare quanto desidera e chiede. Foto Ennevi per Fondazione Arena
Verona spalanca le porte del Camploy al teatro internazionale e si prepara ad accogliere compagnie da tutto il mondo nel nome del Bardo. Otto giorni di spettacoli in lingua originale (con sottotitoli) o in inglese provenienti da Regno Unito, Georgia, Macedonia, Svezia, Romania e quest’anno anche dagli Stati Uniti. Va in scena dal 24 al 31 agosto, sempre alle ore 21, la terza edizione del Verona Shakespeare Fringe Festival, realizzato grazie alla collaborazione tra il Comune di Verona e il Centro di Ricerca Skenè dell’Ateneo scaligero, che da quest’anno si arricchisce della presenza del Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale come partner qualificato per sviluppare ulteriormente la portata internazionale del progetto anche sul piano produttivo.
Il programma, inserito nel cartellone dell’Estate Teatrale Veronese, festival multidisciplinare del Comune di Verona realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Veneto, prevede 8 titoli, tutti in prima nazionale, selezionati perché capaci di valorizzare in chiave sperimentale e innovativa l’opera di Shakespeare, ma anche di arricchire l’offerta culturale cittadina, rafforzandone la dimensione internazionale, multilingue e multiculturale. Da qui tutto il programma dettagliato
100° Arena di Verona Opera Festival 2023
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal romanzo “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry JESSICA PRATT
Alfredo Germont FRANCESCO MELI
Giorgio Germont LUDOVIC TÉZIER
Flora Bervoix SOFIA KOBERIDZE
Annina YAO BOHUI
Gastone MATTEO MEZZARO
Barone Douphol NICOLÒ CERIANI
Dottore Grenvil GABRIELE SAGONA
Marchese d’Obigny ROBERTO ACCURSO
Giuseppe FRANCESCO CUCCIA
Un domestico di Flora / Un commissionario STEFANO RINALDI MILIANI
Primi ballerini LIUDMILA KONOVALOVA, DAVIDE DATO
Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Maurizio Millenotti
Luci Paolo Mazzon
Coreografia Giuseppe Picone
Verona, 19 agosto 2023
Alla presenza di un anfiteatro pressoché al completo, torna in scena l’ultima traviata di Franco Zeffirelli, spettacolo di apertura del festival areniano 2019, a pochi giorni dalla scomparsa del grande regista, che ne firmò scene e regia. A distanza di qualche anno, la produzione conferma la sua magnificenza e la buona aderenza al libretto, restituendo un allestimento visivamente soddisfacente e, a prima vista, abbastanza convenzionale, i cui connotati registici stentano quasi a emergere. Questo perché la chiave di lettura non è demandata allo svolgersi della trama, ma è già davanti ai nostri occhi fino dall’inizio, solo che per coglierla bisogna tornare alla prima proposta di titolo dell’opera (“Amore e morte”) e alla sua ambientazione originaria (l’Ottocento). Ed ecco che subito si comprende come quel teatro ottocentesco abbracci le scene per mescolarci col pubblico di allora, con quell’ipocrisia borghese che condannava i sogni proibiti dalla condizione di Violetta o, ancora, come sia la morte, più che l’amore, a guidare l’intreccio. Una morte che divide, che si aggancia alla sezione più mesta del preludio per rimarcare come il funerale della protagonista isoli Alfredo, lasciando un vuoto solo in chi è stato capace di amare; una morte che è l’epilogo di una malattia nascosta alla moltitudine e confinata in solitaria alle fosche atmosfere a cui le luci di Paolo Mazzon relegano la sezione superiore della scena del primo e del terzo atto. È quello, infatti, il regno della Violetta “solitaria”, che a poco a poco alimenta quel lato eroico del personaggio che permetterà a Verdi di dare maggiore immortalità alla vicenda rispetto all’originario dramma di Dumas. L’immedesimazione col soggetto è, poi, accentuata dai particolareggiati costumi d’epoca di Maurizio Millenotti e particolarmente calzante è stata la scelta di vestire di “bianco camelia” Violetta durante festa del secondo atto, a sottolineare l’innocente purezza del personaggio. Il rigore descrittivo delle vesti ben si confà all’impatto visivo del divertissement coreutico del secondo atto, allietato dai volteggi dei primi ballerini Liudmila Konovalova e Davide Dato, all’interno delle brillanti coreografie di Giuseppe Picone. La fruibilità delle scene d’insieme era, infine, accresciuta dai diligenti interventi del coro di Roberto Gabbiani, molto sensibile anche ai dettagli dell’azione, che ha in parte sopperito a una certa inerzia del direttore nel rimarco di contrasti cromatici, stagliando crescendo e chiuse di sicuro effetto. La direzione di Andrea Battistoni mancava, infatti, di un maggiore scavo introspettivo e di un’agogica che non ha sempre colto gli improvvisi sbalzi emotivi dei malati tisici, di cui è intrisa la partitura; l’orchestra, dal canto suo, sembrava assimilare a stento le concitate movenze del direttore e si è messa in luce con qualche smorzamento particolarmente funzionale al dramma nel preludio e nel finale, ma senza riuscire a bilanciare l’eccessiva dilatazione dei tempi. Il risultato è stato quello di una resa dalle sonorità contenute e sciuramente rivolta alle esigenze degli interpreti, che ha più volte stemperato la tensione emotiva. Sul piano vocale, l’Alfredo di Francesco Meli è oramai così reiterato da non accorgersi di un approccio piuttosto esibizionistico e avvezzo a crogiolarsi su tempi ampi, a scapito del vivido ardore del giovane innamorato. L’impronta lirica del tenore genovese rimane indiscussa, ma sfuggente alla messa a punto di alcuni passaggi più tecnici che, oltre a qualche insicurezza negli abbellimenti del brindisi, gli sono costati mezze voci dall’emissione più nasale e sfoghi in acuto di una certa faticosità. Abbastanza omologato anche il Germont padre di Ludovic Tézier, il cui nobile timbro impiega buona parte della sezione col soprano per raggiungere la sua usuale rotondità. Pacato ed elegante, la sua impostazione si addirebbe più a uno Scarpia che a un Germont, la cui evoluzione rimane frenata da un fraseggio non privo d’intenti, ma inscritto in una resa perlopiù statica. A chiudere la triade delle parti principali, la prima Violetta in Italia di Jessica Pratt, accorsa all’ultimo per una sostituzione. La cantante si presenta in scena con grande motivazione e determinata a misurarsi integralmente col ruolo, senza rifugiarsi in variazioni acute della parte. Qualche ritardo negli attacchi e piccole amnesie nel testo tradiscono una certa tensione del soprano, confermato da volate virtuosistiche più rapide del consueto, da un Mib sovracuto in chiusura al di sopra della media, ma meno “in avanti” rispetto al suo solito, e da un fraseggio saltuariamente frettoloso, poco incline a saggiare il sensuale carisma della cortigiana nel dispiegarsi delle evocative frasi di centro. La sua Violetta, del resto, sa di non poter essere troppo incisiva sui centri a piena orchestra, dando l’impressione di una giovane remissiva e disillusa, allucinata dalla negatività degli eventi, verso un progressivo allontanamento della mente. Un approccio forse troppo ereditato dalle numerose esecuzioni di “Lucia di Lammermoor” e che fa della sua prova un significativo punto di partenza, più che d’arrivo. Ciononostante, l’interprete riesce già a portare a termine un commovente terzo atto, dove l’ “Addio del passato” strabilia per la facilità nell’emettere variegate modulazioni cromatiche, senza mai intaccare il singolare nitore della linea di canto e l’ineccepibile controllo dei legati. Valido il ventaglio delle parti secondarie, dove facevano bella mostra di sé la schietta Flora di Sofia Koberidze, sonora sulla quasi totalità della gamma, la limpida Annina di Yao Bohui e il risoluto marchese d’Obigny di Roberto Accurso. Ben collocati anche gli interventi di Matteo Mezzaro come Gastone, mentre meno tonico è apparso il contributo del Douphol di Nicolò Ceriani. Completavano diligentemente il cast Francesco Cuccia (Giuseppe), Stefano Rinaldi Miliani (commissionari e domestico di Flora) e il torvo Grenvil di Gabriele Sagona. Dopo aver più volte interrotto inopportunamente la recita con applausi fuori posto (lautamente concessi dal direttore), al pubblico dell’Arena non sono, infine, mancate le energie per confermare l’apprezzamento verso tutte le maestranze coinvolte, con particolari plausi per gli interpreti principali. Foto Ennevi per Fondazione Arena
Roma, Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti
OTELLO
di William Shakespeare
Regia di Marco Carniti
Con Maria Chiara Centorami, Antonella Civale, Maurizio Donadoni, Dario Guidi, Paolo Sassanelli, Sebastian Gimelli Morosini, Matteo Milani, Massimo Nicolini, Gigi Palla, Loredana Piedimonte
Produzione: Politeama s.r.l.
Dal 31 Agosto al 17 Settembre 2023
IAGO:Il male al potere. Infezione, seduzione e possessione di Otello
“Penso oggi a Otello come una tragedia totalmente moderna che esplora un dramma intimo, familiare. Una storia di violenza che si consuma tra le quattro mura di un ambiente domestico. Un dramma psicologico a tinte forti. Otello è un uomo profondamente solo, per cultura e per educazione militare. Una macchina da guerra che di fronte ai sentimenti si autodistrugge. Tutto gerarchie e disciplina, vive in un mondo i cui sentimenti sono messi sotto processo. Otello ha un crollo d’identità. Identità politica e culturale. Otello è nero? Cosa significa per noi oggi? Shakespeare parte da problematiche politiche e razziali per entrare nel labirinto della psicologia umana così da poter mettere luce sulla vera natura dell’anima. La parte oscura, che distrugge l’essere umano da dentro. La parte che non segue la ragione e che lascia all’intuito e all’istinto la soluzione finale. La parte animale che uccide la ragione. Otello è una grande metafora sull’esistenza dell’uomo e della sua identità. La denuncia di una condizione di fragilità che porta alla perdita di sé e non lascia scampo per nessuno. Ma attenzione perché tutti siamo Otello. Il nero è in tutti noi. Tutti siamo vittime di una parte oscura di noi stessi che ci rende vulnerabili e autodistruttivi facendoci precipitare nel vuoto e nell’oscurità. Basta nulla per trasformare una roccia in polvere. Basta nulla per far esplodere nell’uomo un “dubbio” che, come una coscienza parallela, lo frantuma facendolo precipitare nella schizofrenia. Otello diventa vittima e complice al tempo stesso della sua autodistruzione seguendo un percorso da lui stesso approvato. Un disegno di morte improvvisato dalla mente di un abile politico che vuole riconquistare la sua centralità agli occhi del mondo: Jago. Uno “schiavo” che, come in un perfetto ingranaggio ad orologeria, pianifica la sua ribellione politica e sociale, incurante che la bomba da lui stesso costruita gli possa esplodere tra le mani. Come un kamikaze dei nostri giorni che con sapienza chirurgica trova e dilata una frattura, un vuoto, una debolezza, già esistenti in ognuno dei personaggi della tragedia, facendoli precipitare nel caos politico e psicologico. Iago è la mente dell’opera e la macchina da lui costruita sarà un percorso obbligato per tutti i protagonisti e diventerà una trappola mortale anche per se stesso. Monta e smonta continuamente lo spazio scenico per modellarlo alle esigenze del suo piano diabolico delimitandolo con labirinti e cancelli come a formare un lungo corridoio, un imbuto capovolto, che via via restringe il campo d’azione isolando i personaggi e le singole scene come in frammenti cinematografici. Tutti sono marionette nelle mani di Iago e trionfa il suo genio.” Marco Carniti. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti
Stagione 2023
Torna il Teatro Shakespeariano a Roma. Nel ventennale del “Silvano Toti Globe Theatre” l’Amministrazione capitolina, per dare continuità alla programmazione e al valore della proposta unica del teatro inglese a Roma, valorizzandone il legame con l’inestimabile paesaggio di Villa Borghese, ha stanziato un contributo straordinario per la stagione 2023, sostenendo il progetto “Arena Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti 2023”. Il debutto previsto per giovedì 13 è rinviato, per motivi tecnici, a sabato 15 luglio. Il programma, approvato da una deliberazione della Giunta Capitolina, prevede spettacoli all’aperto, in una struttura provvisoria adiacente lo storico Globe Theatre della città di Roma, ancora sotto sequestro e quindi inagibile dopo l’incidente dello scorso anno. La nuova struttura all’interno di Villa Borghese accoglierà la programmazione, che avrà luogo fino al 24 settembre, con vari titoli della tradizione del teatro shakespeariano, che consentiranno a romani e turisti di godere di un ampio cartellone teatrale, garantendo al tempo stesso il lavoro delle oltre 150 persone, tra attori e maestranze, coinvolte nelle stagioni del Globe. Il progetto fa capo alla stessa società Politeama che si è occupata fino ad oggi della programmazione del Globe Theatre. Fondata e diretta da Gigi Proietti fino alla sua morte, la società oggi è amministrata da Sagitta Alter, Susanna e Carlotta Proietti, ed è sotto la direzione artistica del maestro Premio Oscar Nicola Piovani. Continua anche la collaborazione del Globe con l’Università Roma Tre e il Dipartimento di Lingue Letterature e Culture Straniere che dal 2020 ospita l’“Archivio Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti” e svolge un’attività di divulgazione e sviluppo delle audience teatrali presso le scuole romane e laziali. In questo percorso si inserisce la seconda edizione dei Globe Talks a cura di Maddalena Pennacchia, direttrice dell’Archivio: si tratta di conversazioni che precedono gli spettacoli aperte a chiunque voglia sapere di più sulle opere messe in scena. I Globe Talks sono anche un podcast di Roma Tre Radio, coprodotto con Politeama Srl e curato da Marta Perrotta e Oriella Esposito. “Abbiamo voluto anche quest’anno sostenere la stagione estiva del Globe Theatre – ha dichiarato l’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, Miguel Gotor nel corso della presentazione della stagione 2023 al Globe Theatre – per dare continuità a una realtà molto amata dai romani e seguita soprattutto dai più giovani, in attesa della definizione della situazione e del futuro della struttura del teatro. Si tratta di una realtà consolidata e proprio nel ventennale della sua apertura non poteva mancare a Roma l’appuntamento estivo con il teatro di Shakespeare e la straordinaria esperienza del Globe Theatre”. Per la celebrazione del ventennale verranno proposti alcuni dei titoli di maggiore successo del repertorio shakespeariano che consentiranno al pubblico di godere di un’occasione di cultura e di incontro nella cornice più suggestiva delle notti romane. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
FELICE BARNABEI. CENTUM DEINDE CENTUM ALLE RADICI DELL’ARCHEOLOGIA NAZIONALE
A cura di Maria Paola Guidobaldi, Valentino Nizzo e Antonietta Simonelli
Prorogata sino al 30 Agosto 2023
Questa mostra è dedicata al fondatore del Museo di Villa Giulia, Felice Barnabei, figura di spicco nell’ambito della Direzione generale dei Musei e degli Scavi di Antichità (1875-1900), Deputato alla Camera del Regno d’Italia dal 1899 al 1917 (XX-XXIV Legislatura) per i Collegi di Teramo e di Atri, Consigliere di Stato dal 1907, Presidente onorario di sezione del Consiglio di Stato dal 14 gennaio 1917.Si inserisce nell’ambito delle celebrazioni per il primo centenario della sua morte (29 ottobre 1922), avviate dal Museo di Villa Giulia con l’esposizione “Felice Barnabei. Gocce di memorie private” (9 settembre – 10 ottobre 2021), incentrata su un significativo nucleo di materiali ricevuti in dono da alcuni suoi generosi discendenti. La ricorrenza del Centenario è un’occasione per rendere onore e valorizzare colui che ha legato il proprio nome e la propria intelligente ed energica azione al Museo di Villa Giulia, la cui fondazione nel 1889 come sezione extraurbana del Museo Nazionale Romano si colloca nel fervido e contrastato clima dell’Italia post unitaria, in cui si gettarono le basi metodologiche e legislative dell’Archeologia Nazionale. Grazie anche al consistente apporto di tante memorie familiari (foto, documenti, lettere, biglietti da visita, oggetti) conservate dai suoi discendenti diretti e indiretti e donate o comunque rese disponibili, questa mostra è un racconto dell’articolata vicenda privata e istituzionale di Felice Barnabei, ricca di successi ma anche di amarezze e in cui la storia personale di un uomo fuori dal comune si intreccia e per certi versi determina la Storia con la “S” maiuscola. La collezione archeologica di Felice Barnabei, di cui una parte, donata al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia dalla pronipote Roberta Nicoli Barnabei, è già stata esposta nella mostra Gocce di memorie private (2021), in occasione delle celebrazioni per il centenario si presenta più ricca grazie al generoso prestito concesso dalla pronipote Margherita Cipparrone. I nuovi materiali sono tipologicamente simili a quelli della donazione e il confronto ha permesso interessanti integrazioni confermando ipotesi già avanzate. Sebbene la raccolta, costituita da oggetti originali e riproduzioni moderne di materiale antico, sia alquanto eterogenea e significativamente “povera”, priva di reperti di intrinseco pregio artistico, essa possiede uno straordinario valore documentario riflettendo negli elementi che la compongono i più profondi interessi scientifici e professionali di Barnabei. Ad esempio la presenza di oggetti di uso quotidiano rimanda all’interesse dello studioso per la cultura materiale e per gli aspetti tecnologici delle produzioni antiche, in linea con le correnti più avanzate della ricerca archeologica del suo tempo, mentre la particolarità degli oggetti di bronzo richiama l’attenzione di Barnabei per le antiche culture italiche, evidenziando il legame con l’Abruzzo, sua terra d’origine. Diversi oggetti di bronzo, esposti nella vetrina 1, come la châtelaine, il pendaglio “ad occhiali” e i dischi in lamina, provengono infatti dall’area medio-adriatica e presentano affinità con i materiali rinvenuti nella necropoli di Alfedena in Abruzzo, dove a partire dalla seconda metà dell’Ottocento esplorazioni, condotte dalla Direzione Generale di Antichità e Belle Arti e seguite dallo stesso Barnabei, avevano portato alla luce ricchi corredi di VII-V secolo a.C. Gli oggetti, raccolti nel Museo Civico e pubblicati in Monumenti Antichi del 1901, mostrano una somiglianza particolarmente stringente con alcuni bronzi della collezione. Nella vetrina 2, accanto ad alcuni frammenti di vetro e a due ghiande missili in piombo, sono esposti quattro piccoli vasi: un portaprofumi (alabastron) etrusco-corinzio, una brocchetta (lekythos) attica, una tazza (skyphos) a vernice nera e un unguentario acromo di terracotta. A oggetti di uso quotidiano appartengono inoltre: quattro lucerne, di cui una con marchio di fabbrica; il timbro (signaculum) in bronzo con l’indicazione del nome del possessore, che potrebbe essere stato utilizzato per contrassegnare le tegole o i mattoni di una officina; il piccolo altare domestico (arula) destinato al culto domestico con figura femminile su toro eseguito a matrice e la piccola antefissa (ornamento alla gronda di un edificio classico che nasconde le estremità delle tegole del tetto) da Taranto con testa tipo “Artemis Bendis”, unico elemento architettonico della collezione. La classe di materiale maggiormente rappresentata all’interno della collezione è quella della ceramica sigillata, detta anche “arretina” da Arezzo, originario luogo di produzione, di cui si contano cinque frammenti originali, diciotto calchi di matrici realizzate in terracotta, otto in cera, due in gesso e dodici calchi di marchi di fabbrica. Questa ceramica dal colore rosso brillante presenta una decorazione a rilievo ottenuta utilizzando delle matrici, che presentavano – incavati all’interno con punzoni, stampi e talvolta a mano libera – i motivi vegetali e figurati che sarebbero apparsi sul corpo del vaso, formato pressando dell’argilla all’interno di essa. Una volta asciugatosi, il vaso si sarebbe facilmente staccato dalla matrice per essere completato al tornio, dipinto e cotto. Esclusa la laboriosa fase di preparazione della matrice, la produzione si riduceva a un procedimento di tipo meccanico che permetteva di fabbricare un numero elevato di vasi identici in un tempo limitato e senza richiedere la presenza di maestranze specializzate. Un’organizzazione del lavoro di tipo industriale, che assicurava un’ampia produzione a basso costo, ma di notevole qualità, anche estetica. Questa produzione ceramica, sia per la tecnica esecutiva sia per la presenza di marchi di fabbrica, aveva già destato dalla metà dell’Ottocento la curiosità degli studiosi e quando gli scavi condotti nell’orto del convento di Santa Maria a Gradi ad Arezzo nel 1883 portarono all’individuazione della fornace di Marco Perennio, titolare della più nota officina aretina, attiva per tutta l’età augusteo-tiberiana (decenni a cavallo tra il I secolo a.C e il I secolo d.C), l’interesse crebbe in maniera esponenziale. La notizia del rinvenimento delle matrici con cui si fabbricavano i vasi e il successivo catalogo dei pezzi da inviare al museo della città vengono entrambi pubblicati in Notizie degli scavi di antichità, pubblicazione periodica dell’Accademia dei Lincei, di cui dal 1880 Barnabei è redattore. La concreta possibilità di studiare il complesso procedimento di preparazione dei prototipi, premessa di una redditizia produzione di tipo industriale, non poteva che suscitare tutto l’interesse del Nostro, la cui predilezione per la ceramica non fu solo dettata da un apprezzamento estetico, ma anche dalla profonda conoscenza tecnica che gli derivava dall’esperienza di ceramista maturata nella natìa Castelli. La mostra, curata da Maria Paola Guidobaldi, Valentino Nizzo e Antonietta Simonelli, vuole essere un racconto dell’articolata vicenda privata e istituzionale di Felice Barnabei, ricca di successi ma anche di amarezze in cui la storia personale di un uomo fuori dal comune si intreccia con la Storia della nostra Nazione. La mostra è organizzata dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, con il patrocinio del Comune di Castelli (TE), luogo natìo di Felice Barnabei, con il quale il Museo ha sottoscritto la convenzione Tular Rasnal che consente a tutti i residenti riduzioni sull’acquisto del biglietto o dell’abbonamento al Museo. Qui per tutte le informazioni.
Mein Herze schwimmt im Blut (“Il mio cuore è inondato di sangue”) BWV 199, è la prima delle tre Cantate in catalogo per l’undicesima Domenica dopo la Trinità, eseguita per la prima volta a Weimar il 12 agosto 1714 (ma forse anche l’anno prima) e poi ripresa nel 1722 e 1723. Una pagina per soprano solista, particolarmente cara a Bach che appunto riprese e perfezionò. Il testo è incentrato sul tema del del peccatore che piange sulla tristezza della sua umana fragilità, ma alla fine trova sollievo nella redenzione di Dio. La cantata si apre con un recitativo (Nr.1 – “Il mio cuore è inondato di sangue”) in cui l’anima peccatrice fa risalire la sua sventura alla caduta di Adamo ed Eva. Segue la prima delle tre bellissime arie tripartite (Nr.2 – “Muti sospiri, lamenti silenziosi”), introdotta da una dolente melodia affidata all’oboe, che esprime e trasfigura il senso del testo. Dopo il successivo recitativo (Nr.3 – Ma Dio dovrà essere misericordioso), nella seconda aria (Nr.4 – “Profondamente prostrato e pieno di rimorso”) comincia a farsi strada una nota di speranza, il peccatore pentito si rivolge a Dio per chiedere perdono. L’introduzione orchestrale, affidata agli archi, mostra i segni di una melodiosa e speranzosa dolcezza. Un breve inciso in recitativo (Nr.5 – “Questo doloroso pentimento mi suscita questo pensiero consolante”) introduce il Corale (Nr.6 – “Io, tuo figlio tormentato”), sempre affidato al soprano e che vede una rara apparizione per viola obbligato. Un ultimo recitativo (Nr.7 – “Giaccio su queste ferite come su dura roccia”), un movimento di danza, porta la gioia dell’aria finale (Nr.8 – “Quanto è gioioso il mio cuore”), che vede nuovamente protagonista l’oboe, questa volta brillante strumento concertante con la voce nell’esprimere la felicità della riconciliazione con Dio.
Nr.1 – Recitativo (Soprano)
Il mio cuore è inondato di sangue,
perché la progenie dei miei peccati
mi rende un mostro
agli occhi santi di Dio.
E la mia coscienza è in pena
poiché i miei peccati non sono altro
che infernali carnefici.
Maledetta notte del vizio!
Tu, tu sola
mi hai condotto a tale miseria;
e tu, tu, malvagio seme d’Adamo,
togli la pace alla mia anima
e le chiudi le porte del cielo!
Ah! Inaudito dolore!
Il mio cuore inaridito
non sarà irrorato da alcuna consolazione
e dovrò nascondermi a colui davanti al quale
anche gli angeli si coprono il volto.
Nr 2 – Aria e recitativo (Soprano)
Muti sospiri, lamenti silenziosi,
solo voi potete esprimere il mio dolore,
essendo chiusa la mia bocca.
E voi, umide sorgenti di lacrime,
potete essere credibili testimoni
del pentimento del mio cuore peccaminoso.
Ora il mio cuore è una fontana di lacrime,
i miei occhi una fonte bollente.
Ah Dio! Chi dunque potrà soddisfarti?
Nr.3 – Recitativo (Soprano)
Ma Dio dovrà essere misericordioso
poichè mi copro la testa di cenere,
lavo il mio viso con le lacrime,
con rimorso e dolore mi batto il petto
e pieno di tristezza imploro:
Dio, pietà di me peccatore!
Ah sì! Il mio cuore si spezza
e la mia anima dice:
Nr.4 – Aria (Soprano)
Profondamente prostrato e pieno di rimorso
sono davanti a te, mio Dio.
Riconosco la mia colpa,
ma abbi ancora pazienza,
abbi ancora pazienza di me!
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Questo doloroso pentimento
mi suscita questo pensiero consolante:
Nr.6 – Corale (Soprano)
Io, tuo figlio tormentato,
getto tutti i miei peccati,
che si nascondono dentro di me
e mi spaventano così tanto,
dentro le tue profonde piaghe,
in cui ho sempre trovato salvezza.
Nr.7 – Recitativo (Soprano)
Giaccio su queste ferite
come su dura roccia;
siano il mio tranquillo rifugio.
Da esse mi risolleverò con fede
e con gioia e letizia canterò:
Nr.8 – Aria (Soprano)
Quanto è gioioso il mio cuore,
perché Dio si è riconciliato
e con il mio doloroso pentimento
non mi nega la sua benedizione
né mi esclude dal suo cuore.
Traduzione Emanuele Antonacci
Musiche clavicembalistiche di Louis Couperin, Anita Mieze, Jacques Duphly, Jean-Philippe Rameau e Joseph-Nicolas-Pancrace Royer. Alexandra Ivanova (clavicembalo). Registrazione: Agosto-Ottobre 2018, Steppenwolf Studio, Netherlands. T. Time: 82′ 08″. 1 CD Genuin Classics GEN 21733
Il sentimento, che secondo Cartesio, era un impulso destato da impressioni sensoriali, costituisce il fil rouge di una pregevole proposta discografica dell’etichetta Genuin Classics, che si intitola appunto Sentiment. Il suo ricco programma è costituito dalle musiche dei maggiori clavicembalisti francesi del Settecento e in particolare di Louis Couperin, Jacques Duphly, Jean-Philippe Rameau e Joseph-Nicolas-Pancrace Roye completate da lavori contemporanei scritti per questo strumento da Anita Mieze. La compositrice, nel Booklet del Cd, descrive le sue composizioni intitolate Sentiment I e II e Ansichtskarte come il prodotto dello strettissimo lavoro a contatto con la clavicembalista Alexandra Ivanova che le ha consentito di conoscere le risorse timbriche di questo strumento per il quale sembrerebbe impossibile scrivere musica contemporanea, essendo esso indissolubilmente legato all’arte barocca. Scopo dei suoi lavori è, infatti, la ricerca di particolari sonorità del clavicembalo che si possano dissolvere quasi in una forma di nuvola astratta di suoni o anche di effetti. Nelle sue composizioni il suono, infatti, viene inizialmente quasi isolato alla ricerca di una sua individualità per associarsi in seguito ad altri in modo da creare delle impressioni sensoriali che possano evocare qualcosa di più profondo.
Nell’altra parte del programma è possibile ascoltare alcuni brani abbastanza rappresentativi del repertorio clavicembalistico francese che, in generale, si segnala per la cura nella notazione degli abbellimenti e per la volontà di evocare immagini extramusicali dimostrata, quest’ultima, dalla presenza di titoli che in questi lavori evocano e suscitano nell’ascoltatore emozioni. Basti pensare, ad esempio, a Vertigo di Royer, compositore sperimentale per l’epoca, purtroppo quasi del tutto dimenticato, di cui solo oggi è in corso una riscoperta, o al Prélude non mesuré en fa majeur di Louis Couperin, nel quale, oltre ad essere evidente l’influenza delle composizioni per liuto nello stesso genere, il sentire del compositore si incontra con quello dell’interprete, o ancora a L’entretien des Muses (1724), nel quale Rameau intese rappresentare una conversazione delle Muse sul Monte Parnaso.
Splendida l’esecuzione da parte di Alexandra Ivanova che si misura con questo repertorio con grande senso dello stile ed adeguandosi perfettamente alla prassi esecutiva dell’epoca. La sua esecuzione, tecnicamente perfetta soprattutto in pagine più complesse come il già citato Vertigo o la Chaconne e Médée di Jacques Duphly, che, nato alla fine del regno del Re Sole e morto allo scoppio della Rivoluzione Francese, è quasi l’emblema di un’epoca che tramonta allo stesso modo del clavicembalo che ne fu lo strumento più rappresentativo, si segnala per una certa brillantezza, ma anche per una cura dell’espressione capace di suscitare quel sentimento evocato nel titolo dell’album.
Per la stagione lirica del Luglio Musicale Trapanese con la direzione artistica del Maestro Walter Roccaro, andrà in scena il 20 e 22 agosto, alle ore 21.00, al Teatro Giuseppe Di Stefano, a Trapani, “La Bohème” di Giacomo Puccini, per la regia di Renato Bonajuto.
L’opera è diretta da Carlo Goldstein alla guida dell’Orchestra e del Coro del Luglio Musicale Trapanese. Maestro del Coro è Fabio Modica, mentre il Coro di Voci Bianche del Luglio Musicale Trapanese è diretto da Anna Lisa Braschi. Le scene e i costumi di questo nuovo allestimento del Luglio Musicale Trapanese sono di Danilo Coppola, le luci di Giuseppe Saccaro. Ad interpretare Mimì sarà Desirée Rancatore, Francesca Benitez darà volto e voce a Musetta, Mario Rojas vestirà i panni di Rodolfo e Andrea Vincenzo Bonsignore quelli di Marcello. Nel cast anche Paolo Ingrasciotta (Schaunard), Antonio De Gobbi (Colline), Mariano Orozco (Benoit/Alcindoro), Flavio D’Ambra (Parpignol), Giuseppe Grassadonia (Un venditore), Enrico Caruso (Sergente dei doganieri), Gaspare Provenzano (Un doganiere).
G,Verdi: “Falstaff”
John Falstaff – Ruggero Raimondi
Ford – Alberto Rinaldi
Fenton – Robert Gambill
Dott.Cajus – Piero De Palma
Bardolfo – Tullio Pane
Pistola – Giuseppe Foiani
Alice – Daniela Dessì
Mrs.Quicky – Carmen Gonzales
Mrs.Meg Page – Benedetta Pecchioli
Nannetta – Barbara Bonney
Cond. Jeffrey Tate
Director Gigi Proietti
Geneve, 1986
Ritorna all’Arena di Verona per il 100° Opera Festival la star della lirica Jonas Kaufmann, dopo il successo come Radamès in Aida del 2022 e nel Gala che ha segnato il suo debutto in Anfiteatro nel 2021. Il tenore bavarese è infatti nuovamente protagonista del Gala in programma domenica 20 agosto alle ore 21.00, nel quale interpreta ruoli che l’hanno distinto sui palcoscenici più prestigiosi di tutto il mondo (Otello, Andrea Chénier, Tosca…). Una serata speciale che trascinerà il pubblico dalle più celebri pagine liriche fino al musical West Side Story di Leonard Bernstein e alle colonne sonore dei film come The Mission, composta da Ennio Morricone, e Gladiator, scritta da Hans Zimmer, alle quali Kaufmann dedicherà anche la sua prossima uscita discografica dal titolo “The Sound of Movies”.
Accanto al tenore sul palco areniano altre due grandi star come il soprano Sonya Yoncheva (protagonista durante il Festival anche della Tosca con la regia di Hugo De Ana) e il baritono Ludovic Tézier. Dirige l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona il tedesco Jochen Rieder, già sul podio nel Gala con Kaufmann nel 2021. Dopo una prima parte del concerto dedicata al melodramma italiano – con “Recondita armonia” da Tosca, “Già nella notte densa”, “Credo” e “Dio! Mi potevi scagliar” da Otello, “Nemico della patria” e “Vicino a te” da Andrea Chénier – la seconda parte spazia dalla Carmen di Georges Bizet a pagine di Franz Lehár, Jacques Offenbach fino a brani popolari come “Non ti scordar di me” di Ernesto De Curtis e i celebri “Somewhere” e “Maria” da West Side Story di Bernstein, “Nella fantasia” da The Mission di Morricone e “Nelle tue mani” dal Gladiator di Zimmer.
In caso di annullamento della serata, Jonas Kaufmann in Opera – Arena 100 verrà recuperato il giorno successivo, il 21 agosto 2023.
Info: https://www.arena.it/it/arena-di-verona/jonas-kaufmann-in-opera-arena-100