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Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman:” Falstaff a Windsor”

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Stagione 2023 2024
FALSTAFF A WINDSOR
liberamente tratto da Le allegre comari di Windsor
di William Shakespeare
con
Alessandro Benvenuti, Giuliana ColziAndrea CostagliDimitri FrosaliMassimo SalviantiLucia SocciPaolo CioniPaolo CiottiElisa Proietti
scene Sergio Mariotti
costumi Giuliana Colzi
luci Samuele Batistoni
musiche Vanni Cassori
adattamento e regia Ugo Chiti
produzione Arca Azzurra
Roma, 23 Gennaio 2024
Nel suggestivo scenario del Teatro Quirino di Roma, “Falstaff a Windsor” prende vita come un’espressione teatrale d’effetto, intrecciando con raffinata maestria il puro divertimento a momenti di profonda intensità.
Ugo Chiti, illustre autore e mentore di questa pièce, ha generosamente plasmato il personaggio di Falstaff sull’abile attore Alessandro Benvenuti, creando un’entità tanto lontana da lui fisicamente quanto distante individualmente. La sfida intrapresa è stata affrontata con un fascino avvincente, dando vita a una danza scenica tra l’io “persona” e l’alter ego “attore”, manifestandosi in ogni gesto e dialogo con straordinaria precisione. Questo spettacolo, oltre a incarnare un’esperienza teatrale leggera e divertente, segna la conclusione di una trilogia dedicata all’antieroe. Il viaggio teatrale ha avuto inizio nel lontano 2002 con “Nero Cardinale”, opera originale di Ugo Chiti, e si è sviluppato con la trasposizione sulla scena de “L’avaro” di Molière. Una trilogia che ha beneficiato della fruttuosa collaborazione tra l’interprete, Chiti e la prestigiosa compagnia Arca Azzurra. Lo spettacolo propone una riuscita reinterpretazione di “Le comari di Windsor”, introducendo chiavi di lettura alternative. Rivolto a un ampio spettro di interpretazioni concettuali, la performance non risulta mai eccessivamente complessa anche se spesso appare non sempre molto ritmata. In una narrazione  spesso vivace e ironica emergono riflessioni profonde, intensi sentimenti e simbologie che si applicano alla società contemporanea. Nonostante l’ambientazione storica, lo spettacolo si presenta attuale, adattandosi al modo di pensare e agire odierno anche per le scelte strutturali dello spettacolo. La scenografia firmata da Sergio Mariotti , infatti, si presenta essenziale e priva di fronzoli, composta da gradoni e quinte laterali, con sul fondale un telo bianco che, sorprendentemente, non ospita proiezioni . L’assenza di elementi di arredo scenico contribuisce a concentrare l’attenzione sugli elementi fondamentali: il testo e la parola. Le luci di Samuele Batistoni, adoperate per conferire tridimensionalità e carattere, diventano cruciale elemento di supporto. Il palcoscenico si risolve così in uno spazio dove la parola non solo comunica, ma diviene il principale strumento per informare sulle location e il periodo temporale della narrazione. I costumi, a cura di Giuliana Colzi, seguono un approccio atemporale, mantenendo una coerenza stilistica con le scelte registiche. È abbastanza evidente una maggiore preziosità e creatività nei costumi indossati dal protagonista. L’espressività dialettica di Alessandro Benvenuti, arguta, guizzante, audace e sagace, arricchisce il valore scenico e narrativo, contribuendo notevolmente al successo complessivo. Con maestria, l’attore rende Falstaff irresistibilmente simpatico, bilanciando goffaggine e ingegno. La gestione impeccabile del linguaggio (sebbene alle volte non sempre ben scandito), dell’umorismo e la presenza scenica trasformano ogni scena in pura delizia. Il suo talento comico innato emerge nei giochi di parole e battute eseguiti con brillantezza, riportando in auge la sofisticata comicità shakespeariana. Paolo Cioni, con la sua fisicità e abilità mimica, si immerge completamente nel personaggio di Semola, il giovane paggio di Falstaff creato da Chiti. Le tre protagoniste femminili, Giuliana Colzi, Lucia Socci e la bravissima Elisabetta Proietti, si distinguono per la loro brillante comicità e, soprattutto, per la straordinaria complicità manifestata sul palco. La loro presenza aggiunge vivacità all’azione scenica, conferendo un ritmo incisivo alla performance teatrale. L’intera compagnia di massima offre un contributo qualitativo funzionale. Riguardo al finale, si evidenzia un significativo cambiamento apportato da Ugo Chiti, come dichiarato dal regista stesso. Questa modifica è guidata dalla volontà di esprimere “l’asprezza di una condanna che ribadisce come nell’ordine prestabilito del potere non si trovi posto dove collocare un corpo tanto grande quanto irrazionale e magico.” La scena si svolge nel consueto parco di Windsor, sotto la grande quercia, ma il finale non presenta più lo scherzo con folletti e spiritelli. Al suo posto, emerge un’apparizione del re Enrico, il quale esclude il protagonista dalla comunità con una condanna decisa: il bando. Il pubblico non propriamente convinto ha applaudito con cortesia. Photo@SerenaPea. Recite sino al 28 gennaio 2024.

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: “Médée”

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 23:31

Milano, Teatro alla Scala, stagione 2023/24
“MÉDÉE”
Opera in tre atti su libretto di di François-Benoît Hoffman
Musica di Luigi Cherubini
Médée MARIA PIA PISCITELLI
Jason STANISLAS DE BARBEYRAC
Crèon NAHUEL DI PIERRO
Dircé MARTINA RUSSOMANNO
Néris AMBROISINE BRÉ
1 ère femme GRETA DOVERI
2 ème femme MARA GAUDENZI
Le duex fils TOBIA PINTOR e GIADA RIONTINO
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Michele Gamba
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Milano, 20 gennaio 2024
L’oscura ombra della strega colca sembra aleggiare sulla Scala. Il ritorno di Medea alla Scala, per la prima volta in francese e per la prima volta dalle mitiche recite del 1953 con Maria Callas protagonista era uno egli spettacoli più attesi della stagione ma ha dovuto scontrarsi con una serie di problemi che ne hanno compromesso la riuscita, quasi l’ombra di una maledizione.Originariamente la parte della protagonista avrebbe dovuto essere affidata a Sonia Yoncheva, scomparsa dal cartellone è stata sostituita a Marina Rebeka – scelta ideale vista la recente splendida prestazione ne “La Vestale” di Spontini. Purtroppo già alla prima la cantante lettone ha mostrato problemi di salute che l’hanno costretta a rinunciare alla recita da noi vista. Maria Pia Piscitelli subentrata a meno di ventiquattr’ore dalla recita fa di necessità virtù e ha il merito di portare in porto la recita con professionalità. La cantante ha il merito di conoscere la parte – l’ha cantata recentemente a Madrid – però le condizioni della serata hanno sicuramente influito e soprattutto nel primo atto la tensione è stata palpabile. Nel complesso siamo di fronte a un’interpretazione di onesta professionalità. Il timbro non piacevolissimo è accettabile in questo titolo mentre più problematico è l’evidente discontinuità di emissione. L’interpretazione è  pulita ma questo non basta certo per un ruolo così gigantescamente complesso che, soprattutto nel finale dovrebbe mostrare la tragica lacerazione emotiva del personaggio. Forse con un diverso taglio registico le cose sarebbero potuto andare meglio?…La cantante va ringraziata per aver salvato la recita in extremis.Non enstusiasma anche resto del cast. Stanislas de Barbeyrac avrebbe la voce giusta per Jason, scusa e autorevole con un registro centrale robusto e sonoro al netto di un timbro un po’ prosaico. Purtroppo sono apparsi diversi problemi di emissione – anche per lui qualche problema di salute? – con acuti forzati e una zona di passaggio velata e indurita. Sul piano espressivo – complice anche la regia – appare anodino e distratto sfiorando appena la ricchezza espressiva del ruolo. Sotto tono ci è apparso anche Nahuel di Pierro (Créon), vocalmente molto meno a fuoco rispetto al recente Noè al Donizetti Festival bergamasco e soprattutto poco centrato sul piano espressivo. Troppo bonario e priva di autorevolezza non riesce a rendere la natura profonda del ruolo, incarnazione dei valori di civiltà e sacralità del diritto della polis greca opposta al mondo altero e barbarico di Medea. Molto meglio la rimanente componente femminile. Martina Russomanno canta con gusto ed eleganza e risolve con sicurezza la scomoda parte di Dircé. La voce è di bel colore e le colorature pulite e precise. Sul piano espressivo riesce a rendere un personaggio ricco e sensibile nonostante una certa banalizzazione registica del ruolo. Voce leggera ma gusto e musicalità per la Néris di Ambroisine Bré che canta con il giusto lirismo la bella “Ah! Nos peines seront communes”. Molto brave Greta Doveri Mara Gaudenzi – allieve dell’Accademia Scaligera – nei panni delle ancelle di Médée. Convince pienamente la direzione di Michele Gamba nel trovare un giusto raccordo nell’ambigua natura di una partitura sospesa tra passato e futuro. Nella visione di Gamba a prevalere e senz’altro quest’ultimo con una predilezione per colori vividi e ritmi marcati che esaltano il sapore già quasi beethoveniano di tanti momenti – soprattutto nel III atto – ma capace anche di classica eleganza nei momenti più lirici e manierati. Gamba rende con precisione il colore espressivo dei singoli momenti, la ricchezza della scrittura cherubiniana capace di far sentire nello strumentale, forse ancor più che nel canto, le lacerazioni dei personaggi. Come sempre inappuntabili le prove del coro e dell’orchestra scaligera.
La regia di Damiano Michieletto è una sorta di sintesi della sua estetica portata a estreme conseguenze con il risultato di dividere implacabilmente il pubblico. Regia costruita partendo da un’idea forte e imperiosa che viene imposta a costo di forzare la coerenza drammaturgica del testo. Qui l’intera vicenda è vista attraverso gli occhi dei bambini, testimoni e vittime del dramma famigliare. I recitativi sono quindi sostituiti da monologhi fuori scena degli stessi – operazione assai discutibile sul piano filologico specie in occasione della prima esecuzione della versione originale – ed è il loro l’unico punto di vista che conta. L’idea è sicuramente forte e da un certo punto di vista ben raccontata – Michieletto sa far recitare e la coppia dei bambini è scenicamente straordinaria – ma a lungo andare risulta semplicistica. A Michieletto – e lo abbiamo spesso notato – non interessano i personaggi e la loro psicologia, il tutto ridotto a modelli astratti, a stereotipi privi di autentica vita e utili solo all’impianto ideologico d’insieme. È una scelta legittima ma continuiamo a nutrire dubbi su questa concezione teatrale. Le scene di Fantin ripropongono gli algidi interni borghesi e le atmosfere strimberghiane viste mille volte dal barocco a Wagner. Arredi scarni con pochi elementi essenziali – il bucranio d’oro del vello, una statua carbonizzata a evocare il cadavere di Dircé; alcuni effetti scenici molto riusciti – Médée che evoca il fuoco dal nulla per incantare la corona. Molto forzata – a parere dello scrivente – la scelta di mostrare l’uccisione dei bambini in stridente contrasto con l’estetica più autentica della tragedia e della sua funzione catartica. Questa però non è più una tragedia ma un dramma borghese di natura sociale e tutto diventa lecito. Efficaci le luci di Alessandro Carletti. Foto Brescia e Amisano

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“Vita d’eroe” secondo Andrés Orozco-Estrada nuovo direttore principale dell’orchestra RAI

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 08:32

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, stagione Sinfonica 2023-24.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrés Orozco-Estrada
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n.38 in Re Maggiore K.504 “Praga”, Richard Strauss: “Ein Heldenleben”, poema sinfonico op.40.
Torino, 19 gennaio 2024
L’avvio della serata è con la mozartiana sinfonia n.38 “sinfonia di Praga”, del 1786. Pezzo quantomai teatrale, contemporaneo infatti del trittico delle opere su testi di Da Ponte, che tanti apprezzamenti stavano ottenendo nella capitale boema. L’interpretazione non ci è parsa, purtroppo, perfettamente a fuoco. 4 contrabbassi, 6 violoncelli e 8 viole congiunti al raddoppio di corni, trombe, oboi e fagotti, appesantendo i bassi e scandendo i ritmi con il suono di timpani assai secchi, ci hanno fatto piombare in una faticosa stagnazione inerziale. Il suono, mancando di vivacità e di tridimensionalità, snervava le linee musicali relegandole ad una sfuocata, seppur rumorosa, piattezza. Arrancando si è tagliato il traguardo con gli immancabili applausi finali. Il pubblico abbondante, da tutto esaurito, era costituito sicuramente anche da molti neofiti, visti gli applausi fuori ordinanza a fine movimento, da cui gli abituali frequentatori dell’Auditorium RAI sanno astenersi. Il gigantesco Poema Sinfonico “Vita d’Eroe” op.40 di Richard Strauss, seconda parte della serata, grazie a tutt’altra ottica direttoriale, più consona al contesto, ha avuto un esito assolutamente positivo. L’esecuzione è stata preceduta da una coinvolgente presentazione, dal podio, da parte dello stesso direttore Andrés Orozco-Estrada, che vanta pure una recente nomina a Principale Conduttore dell’Orchestra sinfonica nazionale RAI. Microfono alla mano, in un ottimo italiano screziato dal nativo accento colombiano, ha illustrato la “trama” del poema. L’esposizione è stata corredata dall’esecuzione, da parte di alcuni dei primi leggii dell’orchestra, dei temi musicali identificanti situazioni e personaggi così da renderli riconoscibili nel corso dell’esecuzione complessiva. Credo si debba apprezzare, senza riserve, l’iniziativa. Finora si è fatto ben poco per istruire ed invogliare il potenziale neo-pubblico giovanile a frequentare le serate di classica, per cui, indipendentemente dagli esiti ottenuti, crediamo si debba comunque valutare positivamente e ringraziare per la nuova intrapresa sperando in ulteriori reiterazioni. Si è passati poi alla musica: il direttore, senza remore e senza tema di cadere in una tronfia esibizione muscolare, fa dispiegare all’OSN RAI al completo, un gran bel suono, potente e vibrante che, al giusto, si attenua e si intenerisce quando rappresenta i rapporti tra l’Eroe e la sua compagna, senza temere  le insidie di un romanticismo troppo mieloso. Allo stesso modo, ha salda la barra di un dignitoso virile patetismo nell’illustrare il finale smarrirsi delle forze e della volontà del protagonista. Magniloquenza, retorica smodata, romanticismo e patetismo di maniera sono sicuramente presenti, essendo il sale, ma pure il tossico, dei poemi sinfonici tardoromantici; l’entusiasmo di Orozco-Estrada, con la superiore valentia dell’OSN RAI, sanno comunque convertirle in un menù di portate entusiasmanti e ben digeribili. La prestazione dell’orchestra, come da tempo è fortunata consuetudine, risulta infatti superlativa e appassionante fino a coinvolgere inesorabilmente anche chi non ami specificamente questo tipo di musica. Da citazione obbligatoria sia il primo violino della serata, Alessandro Milani, che, per lunghi tratti, da solista, funge da Compagna dell’Eroe e il primo corno, Francesco Mattioli, ardita punta di diamante della fanfara degli otto corni che gran parte hanno della partitura e della resa sonora. Orozco-Estrada, con un elegantissimo outlook personale, mobilissimo sul podio, twista instancabilmente il torso, mulina le braccia e con mani danzanti, senza bacchetta, modella suono e sentimenti. Pare poi di indovinare atteggiamenti molto cordiali e comunicativi con l’orchestra, non mancando mai il sorriso dalle sue labbra. Scroscianti, abbondanti e prolungati gli applausi, qui opportunissimi, dell’entusiasta numeroso pubblico torinese.

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Venezia, Teatro Malibran: “Pinocchio” di Pierangelo Valtinoni

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 01:00

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2023-2024
PINOCCHIO”
Fiaba musicale in due atti su libretto di Paolo Madron liberamente tratta da “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi.
Musica di Pierangelo Valtinoni
Pinocchio MICHELA ANTENUCCI
Geppetto MATTEO FERRARA
La fata GIOVANNA DONADINI
Il gatto/Dottor Gufo CHIARA BRUNELLO
La volpe/Dottor Corvo CHRISTIAN COLLIA
Mangiafuoco/L’oste ROCCO CAVALLUZZI
Tonno/Lumaca/Pulcinella ROSA BOVE
Lucignolo/Arlecchino LARA LAGNI
Gendarmi, il grillo parlante, conigli, coro, coro di burattini, coro di bambini, coro di pesci Piccoli Cantori Veneziani
Orchestra del Teatro La Fenice,
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Marco Paladin
Maestro del Coro Diana D’Alessio
Altro maestro del Coro Elena Rossi
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Alessia Colosso
Costumi Sara Marcucci
Light designer Elisabetta Campanelli
Movimenti coreografici Silvia Giordano
Ballerini: Antonino Montalbano, Matilde Cortivo, Eva Scarpa Dabalà, Ilario Marco Russo, Nik Simonetti e Emanuele Frutti.
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice – Spettacolo risevato alle scuole
Venezia, 20 gennaio 2024
C’era una volta un pezzo di legno”. L’incipit del più celebre tra i classici della letteratura infantile sta scritto, in bella calligrafia su una delle due quinte, che delimitano la scena, mentre La fata introduce la storia del burattino più famoso del mondo e Il grillo parlante – cui presta la voce il Coro di voci bianche – esordisce con un allegro “Cri. Cri. Cri.”, spronando il buon Geppetto a dar forma al suo Pinocchio. Intanto già si presentano – oltre ad Arlecchino e Pulcinella, che offrono, qui come altrove, il loro smaliziato punto di vista – Il gatto e La volpe, nonché Lucignolo, che confessano le loro poco nobili inclinazioni. Tutto questo accade nel Prologo del Pinocchio di Pierangelo Valtinoni, su libretto di Paolo Madron, in base alla concezione del regista Gianmaria Aliverta, coadiuvato da Alessia Colosso (scene), Sara Marcucci (costumi), Elisabetta Campanelli (luci), Silvia Giordano (movimenti coreografici). L’opera – nella sua prima versione, destinata ad essere suonata e cantata, in larga parte, da bambini e ragazzi – debuttò trionfalmente al Teatro Olimpico di Vicenza nel 2001. Una nuova versione in due atti, con esecutori prevalentemente professionisti, venne rappresentata – con analogo successo – alla Komische Oper di Berlino per tre stagioni consecutive, dal 2006 al 2008 e poi in tante altre prestigiose sedi, quali Amburgo, Lipsia, Monaco, Torino,Venezia (Fenice, 2019). La versione realizzata per Berlino – che mantiene intatte la freschezza di quella originale – è tornata a Venezia dopo cinque anni. Il suo organico strumentale – un ensemble ricco di strumenti a percussione – è finalizzato a un raffinato utilizzo dei colori orchestrali: ad esempio il timbro del pianoforte indica La fata, quello dei fiati Il grillo parlante. La partitura, contenente chiari riferimenti al sistema tonale, si caratterizza per un raffinato eclettismo di ritmi e di stili: dal classico al pop, al rock, a certi ritmi ricorrenti nel repertorio del Novecento, come la marcia di Mangiafuoco o il ragtime del Gatto e la Volpe o ancora il samba nella seconda scena del primo atto, con Pinocchio, Geppetto e Il grillo parlante. Già Croce riteneva che il romanzo di Collodi piacesse non solo ai piccoli, ma anche agli adulti. Un’opinione evidentemente condivisa anche dal compositore vicentino che, insieme al librettista, vi individua la presenza, tipica nelle fiabe, di due livelli di lettura: il primo è alla portata di ogni bambino, l’altro, più complesso, riguarda una tematica – esistenziale e letteraria – particolarmente importante come quella riguardante il rapporto con la figura paterna. Il principale movente dell’azione, nel Pinocchio valtinoniano, è infatti la ricerca del padre da parte dello scapestrato burattino: una tematica, che è alla base anche di due opere successive di Valtinoni – La Regina delle nevi e Il Mago di Oz –, cosicché si parla di una “Trilogia della ricerca”. Quanto alla messinscena, Gianmaria Aliverta ambienta l’azione negli Anni Quaranta del Novecento – un’epoca in cui i nonni raccontavano ancora le fiabe ai nipotini –, aggiungendo, peraltro, alcuni elementi riferibili alla contemporaneità, come a suggerire che la storia tratta dal romanzo di Collodi è senza tempo. La narrazione, al pari della musica, procede spesso per scene tra loro isolate come le puntate di una miniserie di Netflix. Affinché tutto risulti chiaro, il palcoscenico è diviso in due. In alto sta il mondo reale – un’aula scuolastica, dove La fata/maestra fa leggere ai suoi alunni Le avventure di Pinocchio –, in basso domina il regno della fantasia, dove si materializza l’immaginazione di quegli scolari, che peraltro, in alcuni momenti, scendono nel mondo fantastico, incarnando alcuni personaggi: gli aiutanti della fata, gli asinelli, i pesci. Ne risulta uno spettacolo di semplice fruizione, ma nel contempo intrigante e divertente anche per quegli adulti che – come direbbe Pascoli – sappiano ascoltare il “Fanciullino”, nascosto in ognuno di loro. Fantasiosi e colorati i costumi e le scene, eleganti le movenze coreografiche, bravissimi i bambini impegnati in palcoscenico, tra cui – ineccepibili nelle loro prestazioni canore, a delineare uno stuolo di personaggi animaleschi ed umani – i Piccoli Cantori Veneziani, che – guidati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi – hanno saputo tener testa ai cantanti professionisti. Quanto a questi ultimi, tutti si sono fatti apprezzare per una vocalità garbata e nel contempo espressiva. In particolare, Michela Antenucci ha offerto un Pinocchio spigliato nel fraseggio come nel gesto scenico. Improntata a dolcezza, ma anche a una pacata fermezza è apparsa la Fata di Giovanna Donadini, mentre Matteo Ferrara (Geppetto) ha reso efficacemente la disarmante rassegnazione dell’umile falegname. Molto validi anche Rocco Cavalluzzi (Mangiafuoco/L’oste), Chiara Brunello (Il gatto/dottor Gufo), Christian Collia (La volpe/dottor Corvo), Lara Lagni (Lucignolo/Arlecchino), Rosa Bove (Il tonno/La lumaca/Pulcinella). Il direttore Marco Paladin ha saputo utilizzare – con la complicità degli encomiabili strumentisti dell’Orchestra della Fenice – un’ampia tavolozza orchestrale: così a diffusi passaggi dai colori brillanti e vivaci – scanditi dai molteplici ritmi ricorrenti in partitura – si contrapponevano squarci dalle sfumature più delicate. Successo pieno e caloroso, tra l’entusiasmo dei piccoli spettatori.

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Milano, Palazzo della Triennale: “Pittura italiana oggi” fino all’11 febbraio 2024

gbopera - Lun, 22/01/2024 - 23:43

Milano, Palazzo della Triennale
PITTURA ITALIANA OGGI”
a cura di Damiano Gullì
Progetto di allestimento Studio Italo Rota
Honorary Board Francesco Bonami, Suzanne Hudson, Hans Ulrich Obrist
Centoventi opere di altrettanti artisti italiani, prodotte nell’ultimo triennio, sono le protagoniste della mostra alla Triennale di Milano “Pittura italiana oggi“, titolo generico quanto pretenzioso, che già non si attira la simpatia dell’avventore appassionato d’arte contemporanea, ma glissons. Fino all’11 febbraio, sarà possibile entrare in contatto, quindi, con quella che vuole essere una ponderosa summa di ciò che di pittorico si può trovare in giro, travalicando generi, stili, generazioni e qualsiasi altra classificazione ci possa venire in mente; tuttavia per dare un senso a questo intervento, cercare perlomeno delle linee guida sembra indispensabile: decidiamo allora di considerare queste opere dal punto di vista della loro consapevolezza artistica, ossia del dialogo che consciamente instaurano con la tradizione che le ha precedute e i fenomeni che, in un modo nell’altro, le hanno viste formarsi; sembrerebbe una categoria molto vasta, eppure, a ben vedere, sono davvero pochi gli artisti in grado di comunicare questa coscienza: perlopiù regnano arbitrarietà o epigonismo, cioè i due estremi opposti della nostra categoria, e questo francamente spiace. È vagamente consolatorio, tuttavia, accorgersi che entrambe queste visioni distorte del valore artistico affliggono soprattutto artisti attorno ai sessant’anni, mentre gli under 40 emergono veramente come le espressioni più interessanti della pittura italiana contemporanea – a cominciare da “Insostenibile dare un titolo (bruciare da dentro)” di Gianni Politi [dettaglio in foto, courtesy l’artista e Galleria Lorcann O’Neill], opera che apre la mostra e si pone l’obiettivo mirabilmente raggiunto di ricostruire astrattamente una celebre pala d’altare manierista – la “Deposizione” di Pontormo, più che l’“Assunta” di Tiziano che riporta il commento all’opera; poi Vera Portatadino e il suo “As the Sun burns the ground”, che si confronta con De Pisis e Dalì, comunicando l’intensità dell’assenza attraverso ampie campiture di colore sfumate col gessetto; come lei Linda Carrara, che in “Fondale. Il giorno” rifiuta l’astrattismo tout court per comunicarci un mondo acqueo e lattiginoso in cui perderci, dai rimandi escheriani e orientali; il “Solleone” di Roberto De Pinto, che strizza l’occhio all’illustrazione grafica e ad alcune atmosfere sincretiche (Balthus, Botero), specialmente nell’uniformità cromatica, riportando il sé dell’autore al cuore del discorso iconografico; “L’imperatrice” di Dario Pecoraro, che costruisce il soggetto, ispirato ai tarocchi, per strati decorativi, echeggiando tradizioni bizantine e simboliste; “Veicolo a motore si schianta contro un albero” di Aronne Pleuteri, il più giovane espositore e fra i più attenti a trattare la tela, nel quale un esasperato pittoricismo trasmuta un incidente stradale in un turbine di pennellate calibratissime e tese, che ricordano ugualmente Fragonard e Segantini, un’allucinazione tra naturale e artificiale à la Julia Ducournau; l’imponente “Notturno” di Thomas Berra, fascinoso gioco ton-sur-ton dal sapore tardo simbolista – strizzando l’occhio a Puvis de Chavannes e Rousseau Le Douanier. Queste, per sommi capi, le opere più interessanti tra le giovani leve; tra quelli più navigati, invece, senz’altro alcuni nomi sono già ben noti a collezionisti e critici, talvolta anche al grande pubblico (sebbene questo non ne garantisca la riuscita artistica): è il caso di Nicola Samorì, classe ‘78, il cui lavoro sulla deturpazione del supporto getta un ideale ponte tra il Seicento e Fontana, in un’operazione che non vuole avere nulla di irriverente quanto di disturbante (come la splendida riproduzione del San Sebastiano dello Spagnoletto su lastra d’onice presente in questa esposizione sub titulo “Irene cura l’informale”); suo coetaneo è Oscar Giaconia, che qui porta un’opera paradossalmente materica e per questo ipnotica, “Parasite soufflé”, che ci sfida a guardarla tanto quanto a riconoscere i nove materiali poggiati su una pelle plastificata, e solleva uno dei temi più cari ai pittori di questa generazione, ossia il labile confine tra io e natura. Una manciata, invece, le opere interessanti della generazione precedente, affette per lo più da un’autoreferenzialità difficile da penetrare; ritroviamo freschezza, invece, nelle sperimentazioni materiche di Stefano Arienti (qui con la rielaborazione in pongo su tela de “L’Ospedale a Saint Rémy” da Van Gogh); nel “Grande Corteo” di Luca Bertolo, che si pone l’arduo compito di riassumere il XX secolo in una serie di volti in marcia (con chiari richiami a Ensor), tra slogan, simboli e segni di interpretazione talvolta non immediata; nella “Fossa madre (Mother ditch)” di Enrico David (tutto incentrato sulla costruzione della tela, ripartita per geometriche aree di campitura, come in certe avanguardie); ma soprattutto nelle opere del siciliano Francesco Lauretta (“Oxygen”) e della milanese Fulvia Mendini (il dittico “Il mago” – nella foto – e “Fata simultanea”), che tra pop, queer e dada decostruiscono non solo il soggetto, ma il concetto stesso di opera d’arte: Lauretta ponendo fuori dalla tela il suo stesso significato (delle bombole d’ossigeno dipinte di rosa), svuotando l’intervento pittorico dell’ansia da messaggio che prende troppi suoi coetanei; Mendini proponendo un’estetica sfacciatamente naïf, al di là del semplice figurativismo e del design, alla ricerca di una bidimensionalità dalle cromie lisergiche, che al contempo non rinuncia a iconografie specifiche. La disposizione delle opere, a cura dello Studio Italo Rota, risente di un concetto un po’ passé di mostra, che più che valorizzare tende semplicemente ad accostare le opere, a volte in maniera un po’ ingenua (un angolo tutto verde, uno tutto rosa, uno tutto informale, un altro neofigurativo eccetera), altre invece ospitando opere site specific – tuttavia poco convincenti. La sensazione è chiaramente quella che sarebbe bastata la metà degli artisti nel medesimo spazio, ma evidentemente il curatore Damiano Gullì ha desiderato estendere l’invito a questa ricca collettanea al più vasto numero d’artisti, affinché si potesse coinvolgere realtà pittoriche molto diverse tra loro; questo, in effetti, resta il punto forte dell’esibizione: difficilmente troviamo raccolte così tante opere di tanti artisti diversi e, sebbene il valore artistico della maggior parte di costoro ci paia per lo meno latente, questa numerosa pluralità resta la ragione principale per visitare la mostra. Foto di Giorgio Benni e Piercarlo Quecchia, DSL Studio © Triennale Milano

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Firenze: Daniele Gatti e l’Orchestra del Maggio tra le Trasfigurazioni dell’Eros

gbopera - Lun, 22/01/2024 - 01:37

Firenze, Teatro Maggio Musicale Fiorentino: Calendario Gennaio>Marzo 2024
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Arnold Schönberg (1874-1951): Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) op. 4a; Richard Strauss (1864-1949) Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione) Poema sinfonico op. 24; Richard Wagner (1813-1883) da Tristan und Isolde: Vorspiel und Liebestod (Preludio e Morte di Isotta)
Firenze, 20 gennaio 2024
La partecipazione al concerto del 20 gennaio, con un programma così particolare, ha costituito, per il numeroso pubblico nella Sala Zubin Mehta, un’esperienza significativa. Protagonisti tre capolavori di area austro-tedesca, composti tra la seconda metà del XIX secolo e la prima parte del XX nell’interpretazione dell’Orchestra del Maggio, esperta di tali repertori, guidata da Daniele Gatti, un direttore tra i più scrupolosi nella restituzione di ogni dettaglio della partitura. L’ordine non cronologico delle composizioni in cartellone seguiva un procedimento a ritroso in cui – se in musica ricorda quello retrogrado (dalla fine si ritorna, nota per nota, all’inizio) – in senso più ampio assumeva il desiderio del ritorno al principio (passato) che, in alcuni casi, non esclude il desiderio di ‘trasgredire’ quanto appartiene alla tradizione. A tenere unito il programma era il fil rouge della trasfigurazione dell’amore e dell’armonia coinvolgendo la scienza musicale nell’accezione verticale dei suoni e traghettando l’ascoltatore in un mondo in cui la musica assurgeva ad autentica trasfigurazione della realtà. All’inizio un’autentica perla di un venticinquenne Schönberg (composta nel 1899 per sestetto d’archi, qui nella versione per orchestra d’archi, op. 4a). Il compositore si nutre della lezione tardoromantica brahmsiana per lo sviluppo della variazione e wagneriana per il cromatismo, trovando ispirazione dalla poesia di Richard Dehmel. Provando ad immaginare la luce lunare e cangiante dipinta sulla tela (orchestra) da Gatti sembrava di rivivere la mutevolezza di situazioni del wagneriano Tristan und Isolde (Atto II). Nei cinque numeri della partitura (dal Grave all’Adagio finale) era un continuo mutamento di figure e di idee valorizzate da un’ampia gamma di dinamiche in un continuum sonoro. La varietà sonora e timbrica di questa versatile sezione orchestrale, grazie alla duttilità dei musicisti e al lavoro di concertazione del direttore (la scelta delle arcate garantiva bellissimi risultati sonori), risultava talmente raffinata da esprimere una moltitudine di sfumature tanto da immaginare qualcosa di inesistente come il quarto rivolto dell’accordo di nona alla battuta 42, allora escluso dai teorici e introdotto dal compositore ad orecchio, irritando la società dei concerti che ne escluse l’esecuzione. La trasfigurazione dello straussiano Tod und Verklärung è già compresa nei titoli del poema sinfonico permeato da Eros e Thanatos: Largo (Il malato, in prossimità della morte); Allegro molto Agitato (La battaglia tra la vita e la morte non offre alcuna tregua per l’uomo); Meno mosso (La vita del moribondo passa davanti a lui); Moderato (La trasfigurazione). Una straordinaria e coloratissima partitura con un organico a grande orchestra: tre legni (compresi anche il corno inglese, clarinetto basso e controfagotto), ottoni (4 corni, 3 trombe e tromboni, tuba), percussioni (timpani, tam-tam), 2 arpe e archi. Già dall’atmosfera oscura e grave iniziale in pianissimo (alcuni fiati, archi in sordina e il rintocco dei timpani) con il melos affidato ai violini e viole che proiettava l’ascoltatore verso la drammatica situazione del moribondo si poteva altresì percepire la mutevolezza delle armonie. A descrivere la particolarità dell’intera partitura, in primis il tema della trasfigurazione (fa, sib, do, re [salto di ottava ascendente], re, do), insieme alle indicazioni di agogica, dinamiche, cambiamenti di tempo, suoni pizzicati, uso della sordina, ecc. (non è un caso il ricorrente “agitato”) che traducevano sonoramente ‘agitazioni’ del discorso musicale e del pensiero tanto che alla prima esecuzione Hanslick definì la composizione «orribile battaglia di dissonanze, dove i legni urlano […] mentre gli ottoni rimbombano e gli archi sembrano impazziti». Il Vorspiel und Liebestod, tratto, com’è noto, da Tristan und Isolde, microcosmo di bellezza senza tempo, ha chiuso il programma nella maniera più wagneriana possibile. Il tema è l’amore ‘trasfigurato’ che potrà realizzarsi solo attraverso la morte. In una lettera a Liszt (1854) Wagner chiarisce le sue intenzioni: «Poiché in vita mia non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho abbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta». Rendere musicalmente tutto ciò è stata un’impresa ciclopica ove, pur in presenza dei leitmotive, per l’eccessivo uso del cromatismo, la continua sospensione armonica, il rimandare continuo delle cadenze, ecc. l’ascoltatore era guidato in un viaggio emozionale che poteva sfociare anche nel pianto. È bastato l’incipit del Preludio (ingresso dei violoncelli con il leitmotiv) per rimanere folgorati dall’armonia, dal colore e dall’espressività particolare del famoso “Accordo del Tristano” (fa, si, re#, sol#). Accade alla battuta 2 ove al re# dei violoncelli si aggiungono altri suoni realizzati dai fagotti, corno inglese, clarinetti e oboi che completano un accordo il quale, per la sua molteplice interpretazione, ha impegnato gli studiosi a produrre diverse analisi armoniche. Segnalo l’intelligente e ricercata direzione di Gatti, capace di cambiare il suono dell’orchestra che, di volta in volta, era valorizzata in ogni singolo intervento come, per esempio, con i violoncelli (bb. 17-32). Per i contenuti del programma, la raffinata interpretazione, oltre che rimanere estasiati, si ha la convinzione di aver assistito ad un parto meraviglioso in cui una bellissima donna (musica) era stata fecondata dalla poesia.

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Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Nuovo: “Perfetti sconosciuti” dal 23 al 27 gennaio

gbopera - Sab, 20/01/2024 - 10:10

Continua con grande successo di pubblico la rassegna de “Il Grande Teatro” che propone anche questa volta un titolo che avrà di certo una grande presa sul pubblico. Sbarca sul palcoscenico del Teatro Nuovo, “Perfetti sconosciuti”  di Paolo Genovese che cura anche la regia è prodotto da Nuovo Teatro, Teatro della Toscana – Teatro Nazionale e Lotus Production e vede in scena Dino AbbresciaAlice BertiniMarco BoniniPaolo CalabresiMassimo De LorenzoLorenza Indovina Valeria Solarino. Il film “Perfetti sconosciuti” con la regia di Genovese è uscito nel 2016, ha incassato oltre diciassette milioni di euro e ha collezionato un’infinità di premi: tra questi, due David di Donatello, tre Nastri d’argento, un Globo d’oro e quattro Ciak d’oro. È poi entrato nel Guinness dei primati per via dei remake. Mai, nella storia del cinema, un film ne aveva avuti tanti. A sette anni dall’uscita può vantare ben venticinque adattamenti. Con questo spettacolo Paolo Genovese firma la sua prima regia teatrale. Come nel film, durante una cena un gruppo di amici decide di fare un gioco della verità mettendo i propri cellulari sul tavolo per condividere pubblicamente messaggi e telefonate. Verranno così alla luce i loro segreti più profondi… con immancabili e divertenti colpi di scena.
Giovedì 25, alle 18.00, gli interpreti di “Perfetti sconosciuti” incontreranno il pubblico. Condurrà l’incontro Carlo Mangolini, direttore artistico Spettacolo del Comune di Verona. L’ingresso è libero.
Biglietti in vendita al Teatro Nuovo, a Box Office e on line su
www.boxofficelive.it e www.boxol.it/boxofficelive

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Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello:” Processo Galileo” di Angela Demattè e Fabrizio Sinisi

gbopera - Ven, 19/01/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
PROCESSO GALILEO
di Angela Demattè e Fabrizio Sinisi
drammaturgia di  Simona Gonella
regia Andrea De Rosa, Carmelo Rifici
con Luca Lazzareschi, Milvia Marigliano
e con Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi, Isacco Venturini
scene Daniele Spanò
costumi Margherita Baldoni
progetto sonoro GUP Alcaro
disegno luci Pasquale Mari
una produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura, Emilia Romagna Teatro ERT, Teatro Nazionale
Roma, 19 Gennaio 2024
“Processo Galileo,” opera firmata da Angela Dematté e Fabrizio Sinisi, incanta il Teatro Vascello  in un coinvolgente lavoro nato dalla collaborazione a quattro mani dei due autori. Un pregievole lavoro che s’erge, con elegante armonia, dalla collaborazione a quattro mani dei due drammaturgi e due registi Andrea De Rosa e Carmelo Rifici germinata in risposta all’oscura esperienza pandemica. In questo suggestivo dramma, Dematté e Sinisi intrecciano le trame delle loro ricerche sul rapporto tra l’umano e la scienza, trasmutando una casuale concomitanza in una sperimentazione teatrale di straordinaria innovazione. La scena teatrale si dipana narrando con maestria l’abiura dello scienziato, interpretato con intensità da Luca Lazzareschi, e le intricate vicende di Virginia, figlia di Galileo, magistralmente incarnata da Roberta Ricciardi, e dell’allievo Benedetto, delineato con vividezza da Giovanni Drago. Essi, con fervore e drammaticità, implorano l’autore de “Il saggiatore” di piegare la mente davanti alla rigida Santa Inquisizione. Il racconto storico dello scienziato si intreccia sapientemente con la trama di Angela, interpretata con vibrante profondità da Catherine Bertoni de Laet. Angela, immersa in una ricerca su Galileo, si trova a confrontarsi con la morte della madre, personificata con toccante grazia da Milvia Marigliano. Questo dialogo commovente tra ragione e fede, tra la visione razionale della figlia e il desiderio materno di persistere nella fede in Dio, aggiunge uno strato di profondità emotiva all’opera. A completare il quadro scenico, emerge la figura di un sorta di rivoluzionario, incarnato con efficace verve da Isacco Venturini. Proveniente dalle radici del luddismo e riverberante fino ai moderni attivisti  il personaggio grida e canta la ribellione alla logica funzionale della tecnica e alla sua potenza autogenerante. Tale presenza scenica conferisce un tocco di contemporaneità e attualità, incanalando il fervore ribelle attraverso il tempo, dal passato remoto alle voci attuali di protesta. Così, in un intricato intreccio di storia e contemporaneità, “Processo Galileo” si erge come un affascinante panorama teatrale, in cui le sfumature delle emozioni umane si intrecciano con le sfide epocali della scienza, della fede e della rivolta contro il potere tecnologico. Le tre parti del dramma si dispiegano come un affascinante mosaico, sorprendendo lo spettatore, che viene trasportato con impetuoso balzo temporale dal XVII secolo ai giorni nostri, dall’Inquisizione agli eventi che scandiscono la contemporaneità. Sulla scena, creata con l’arte di Daniele Spanò e abilmente illuminata da Pasquale Mari, si staglia un panorama che rapisce l’attenzione con la sua suggestione visiva. La terra, fisicamente in scena, concreta e avvolgente nelle mani e nello sguardo degli attori, diviene il simbolo tangibile dell’evoluzione biologica, mentre una Terra più astratta si offre alle mani e agli occhi come un invito a perdersi, seguendo il corso dell’immaginazione e delle invenzioni umane (terra/Terra). I due paesaggi, uno sospeso in basso e l’altro dominante in alto, fungono da estremi entro i quali l’umanità si riconosce e si misura di fronte all’infinito dell’universo. La scena si anima con l’introduzione di strumenti ottici, dove il microscopio si erge a sfidare la supremazia del celebre cannocchiale di Galileo. Quest’ultimo, strumento rivoluzionario, avvicina l’osservatore al cuore del cosmo, portando con sé non solo il timore reverenziale di fronte all’ignoto, ma anche il desiderio ardente di superare ogni limite imposto dalla natura stessa. Il piano in legno dunque, con i suoi rialzi, non è soltanto un elemento scenico, ma un metaforico percorso costellato da ostacoli da superare, rappresentativi delle sfide che l’umanità deve affrontare nel suo continuo cammino. A definire l’area superiore del palcoscenico, con una maestria visiva incisiva, si impone l’efficace illuminazione di Pasquale Mari. Con una chiarezza lampante, l’illuminazione scenica si fa protagonista nel mettere in risalto l’intento di gettare una “luce” penetrante sull’intreccio complesso tra scienza e potere. Questa relazione intricata si sviluppa in trame tutto fuorché lineari, e la luce si erge a guida e metafora, diffondendo la sua chiarezza nei tortuosi meandri che legano l’indagine del sapere alle complesse dinamiche del potere. La regia di De Rosa e Rifici si amalgama con reciproca curiosità, mantenendo tratti distintivi e bilanciando con maestria la relazione tra gli attori e il sofisticato progetto sonoro di G.U.P. Alcaro. Quest’ultimo si muove dall’amplificazione dei suoni naturali nella prima parte a una rielaborazione computerizzata nella seconda, contribuendo a creare un’esperienza teatrale coinvolgente e multisensoriale. Luca Lazzareschi si erge come figura cardine in “Processo Galileo,” catturando l’attenzione con la sua presenza imponente e sfaccettata. Accanto a lui, Milvia Marigliano, impegnata in diversi ruoli, si distingue per la sua straordinaria intensità, completamente immersa nello spettacolo e coinvolgente in modo straordinario. Attorno a questi due protagonisti, un gruppo di giovani attori di incredibile talento si muovono come punte di una stella, dirigendo la luce nel cuore drammaturgico e contribuendo così a plasmare la narrazione con grande incisività. Il ritmo dello spettacolo è incalzante, nonostante i necessari rallentamenti imposti dai processi di pensiero. Gli abiti di Margherita Baldoni contribuiscono all’atmosfera, sebbene possano suscitare qualche audace sorpresa, come la redingote ruggine indossata dalla Marigliano, che passa dalla figura dell’inquisitore a quella di una madre tra le zolle rielaborando in scena  il solo cappotto. Lo spettacolo, seppur non privo di sfide interpretative, si distingue senza dubbio per la sua straordinarietà e la ricchezza di numerosi spunti. Forse dalla nostra stessa oggettiva piccolezza, l’uomo dovrebbe trarre ispirazione per ristabilire una partenza comunitaria e coesa nell’affrontare la vita. L’augurio finale, “Più Luce!” – le ultime parole di Galileo – accompagna gli spettatori nel loro congedo, senza fornire risposte definitive, ma dipingendo appieno la fragilità umana e, contemporaneamente, la sua forza intrinseca derivante dalla curiosità inesauribile e dalla fortuna (almeno teoricamente) di avere il mondo a disposizione . Photocredit Masiar-Pasquali. Qui per le altre recite.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman:” Falstaff a Windsor” dal 23 al 28 gennaio 2024

gbopera - Ven, 19/01/2024 - 20:00
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Stagione 2023 2024
FALSTAFF A WINDSOR
liberamente tratto da Le allegre comari di Windsor
di William Shakespeare
con
Alessandro Benvenuti, Giuliana ColziAndrea CostagliDimitri FrosaliMassimo SalviantiLucia SocciPaolo CioniPaolo CiottiElisa Proietti
scene Sergio Mariotti
adattamento e regia Ugo Chiti
Dopo i successi di Nero Cardinale e L’avaro, si rinnova la collaborazione tra Ugo Chiti, Alessandro Benvenuti e gli attori di Arca Azzurra per un lavoro dedicato a uno dei grandi personaggi scespiriani, Falstaff. Il Dramaturgo tratteggia un profilo perfetto per il grande attore, attingendo tanto ai drammi storici Enrico IV e Enrico V quanto alla figura farsesca che emerge dalle Allegre comari di Windsor. In questo adattamento l’eroe e antieroe “resuscita” a Windsor esprimendo, gigione e irridente, la natura del suo personaggio: un’arroganza aristocratica, con un sangue plebeo, popolaresco, che muta dalla rabbia al sarcasmo ma rimane disarmante, quasi patetico, perché non conosce, o non sa, darsi le regole e la consapevolezza dell’età che “indossa”. Questo Falstaff, per molti aspetti, resta fedele al testo originale delle Comari di Windsor, ne rispetta gli appuntamenti farseschi; si lascia beffare, esce avvilito e percosso dai travestimenti, sembra quasi masochisticamente rimpicciolito, anche se dietro queste mutazioni ribolle la rabbia del personaggio che sembra ancora pretendere il rispetto dovuto all’antico ruolo del cavaliere. Solo l’ultima beffa, l’ennesimo inganno di un’attesa punitiva nel parco, cambia struttura e andamento narrativo. Il mutamento arriva grazie all’intervento di Semola, un personaggio che fin dall’inizio ha fiancheggiato Falstaff facendosi assumere come paggio: servizievole, irridente, mutevole, inquietante, occupa allusivamente la funzione di un fool che solo alla fine (allucinazione o sogno?) assume le vesti e le sembianze del principe Enrico, tornato a bandire Falstaff dal consorzio umano. Niente fate, folletti, fastidi e pizzicotti, ma l’asprezza di una condanna che ribadisce come nell’ordine prestabilito del potere non si trovi posto dove collocare un corpo tanto grande quanto irrazionale e magico. Qui per tutte le informazioni.
Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Die Zauberflöte ” Secondo Cast

gbopera - Gio, 18/01/2024 - 00:36

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2023/2024
“DIE ZAUBERFLOTE”
Singspiel in due attti
libretto di Emanuel Schikaneder
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Pamina MARIA LAURA IACOBELLIS
Tamino CAMERON BECKER
La Regina della Notte AIGUL KHISMATULLINA
Sarastro SIMON LIM
Monostatos MARCELLO NARDIS
Papageno ANEAS HUMM
Papagena MARIAM SULEIMAN
Prima Dama ANIA JERUC
Seconda Dama VALENTINA GARGANO*
Terza Dama ADRIANA DI PAOLA
L’Oratore ZACHARY ALTMAN
Primo Armigero/secondo sacerdote NICOLA STRANIERO*
Secondo Armigero/primo sacerdote ARTURO ESPINOSA**
Primo fanciullo DOROTEA MARZULLO
Secondo fanciullo MIRIAM NOCE
Terzo fanciullo LAETITIA DE PAOLA
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
**diplomato progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro del’Opera di Roma
Direttore Michele Spotti
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Damiano Michieletto
Ripresa da Andrea Bernard
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm/Roland Horvath
Allestimento del Teatro la Fenice di Venezia in coproduzione con il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Roma, 17 gennaio 2024
Al Teatro dell’Opera di Roma, proseguono le rappresentazioni de “Il Flauto Magico” di Mozart. In generale, la regia, la scenografia e la direzione d’orchestra mantengono le caratteristiche descritte nella nostra recensione precedente. Va tuttavia evidenziato un rilevante mutamento nel corpo dei cantanti impegnati nel secondo cast. Sono da considerare, dunque, esclusivamente le performance dei nuovi interpreti in locandina. Il ritmo a tratti estremamente lento ha rappresentato una sfida per i solisti, compromettendo l’omogeneità delle esibizioni nella prima parte, dove molti sembravano impacciati e incerti. Tuttavia, via via che lo spettacolo si dipanava, miglioramenti significativi diventavano sempre più evidenti. Tra i protagonisti del cast, si è distinta la performance di Maria Laura Iacobellis nel ruolo di Pamina. La sua voce, potente, cristallina e impeccabile, si è integrata perfettamente con l’accento, il colore e la sontuosità del timbro richiesti dal personaggio. Buona è stata anche l’interpretazione di Cameron Becker nel ruolo di Tamino. Seppur affetto da alcune discontinuità e privo di un’ottima emissione, ha sorprendentemente dimostrato una notevole sicurezza, soprattutto nel registro acuto, accompagnata da un sempre attento fraseggio . Aneas Humm offre una divertente e credibile interpretazione nel ruolo di Papageno: la sua emissione è fluida, straordinariamente naturale, priva di enfasi e esente da forzature. Dall’altra parte, Aigul Khismatullina dà vita a una Regina della Notte interpretata con un tocco di leggerezza, talvolta priva dell’ allure crudele che caratterizza il personaggio, ma vocalmente impeccabile. La sua abilità nell’affrontare agilità e nel salire senza esitazioni nel registro sovracuto è notevole. Simon Lim, nel ruolo di Sarastro, si distingue per la solidità nelle note gravi e la sicurezza nella linea di canto. Mariam Suleiman si distingue con una voce limpida e pulita nel ruolo di Papaghena, incarnando perfettamente il personaggio grazie all’accento impeccabile, al colore ricco e alla voluminosità del timbro. Il teatro, gremito di spettatori entusiasti, ha elargito applausi generosi a tutti gli artisti, sia durante le performance che al termine dello spettacolo, senza le contestazione della prima. Foto Fabrizio Sansoni. Qui per tutte le altre recite.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Brancaccio: “Peter Pan:Il Musical”

gbopera - Mer, 17/01/2024 - 23:59

Roma, Teatro Brancaccio
Stagione 2023 2024
PETER PAN: IL MUSICAL
Peter Pan LEONARDO CECCHI
Wendy MARTHA ROSSI
Capitan Uncino GIO’ DI TONNO
Giglio Tigrato MARTINA ATTILI
Spugna RENATO CONVERSO
Peter Pan (Secondo cast) GIOACCHINO INZIRILLO
Musiche Edoardo Bennato
Regia di Maurizio Colombi
Roma, 16 gennaio 2024
Risorge con pretenziosa magnificenza nei teatri dell’intera penisola l’intramontabile musical teatrale: “PETER PAN – Il Musical”. Un successo che si protrae da ben 18 anni, inaugurato con grandioso impatto nel lontano 2006. Incanta e avvince il pubblico con la magica sinfonia delle celebri composizioni di Edoardo Bennato, tratte prevalentemente dal famoso album del 1980 intitolato “Sono solo canzonette”. Tra le gemme musicali, spiccano brani immortali come “Il rock di Capitan Uncino” e i trascinanti e indimenticabili accenti di “Viva la mamma”. Questa nuova avventura scenica, sotto la regia di Maurizio Colombi e la produzione firmata Show Bees di Gianmario Longoni, immerge il pubblico in un viaggio verso un’ Isola che non c’è, un regno di incanto animato da un ritmo cadenzato, seppur intriso di qualche problematica drammaturgica. Nel fervente tentativo di innestare una dimensione contemporanea all’intreccio, la produzione si lancia con audacia nell’esplorazione di nuove sfaccettature narrative. Tuttavia, con un rammarico palpabile, emerge l’inabilità di trasferire integralmente la vitalità e l’entusiasmo intrinseci nell’indelebile racconto dell’eterno fanciullo. Si delinea, così, una situazione in cui il compito cruciale di ravvivare la trama, nelle sue piccole e grandi sfaccettature, viene affidato alla musica, in un atto di rassegnata consapevolezza. Il virtuosismo di Edoardo Bennato, autore e cantautore acclamato, emerge come un’evidenza irrefutabile di un talento che si è guadagnato il cuore del pubblico. La sua impronta stilistica, un marchio indelebile, si erge come una firma distintiva, persistente e coerente nel corso degli anni. Una coerenza che, se da un lato esprime la forza di una riconoscibile identità artistica, dall’altro solleva dubbi, ancorché remoti, sulla sua universalità di accettazione, specie per coloro i quali potrebbero sentirsi più distanti dal suo genere musicale.  L’amore incrollabile per il genere proposto da Bennato è fuori discussione, ma l’interrogativo si fa strada: questo spettacolo è realmente concepito per tutti? La trasposizione dell’intera essenza artistica in un unico musical, potrebbe, per alcuni, rivelarsi una dose eccessiva, una sfida al limite della sopportazione per chi non condivide appieno la peculiarità inconfondibile del maestro. Indubbiamente, non rappresenta una questione di rilievo per l’audience che, scrutando con attenzione la locandina dello spettacolo, compie le proprie scelte. Le scene, impreziosite da un carattere tradizionale di notevole impatto, si configurano come autentiche tavolozze visive, un connubio di parti dipinte e porzioni proiettate. Si dispiega, così, un tessuto scenografico che si amalgama armoniosamente per creare un ambiente straordinario e coinvolgente. L’utilizzo di espliciti accorgimenti tecnici si fa strada in maniera evidente, soprattutto quando si tratta di permettere ai giovani protagonisti di librarsi in volo e di dare vita all’apparizione incantata della fatina Trilly. Le luci seppure non sempre così precise, vere artefici della dimensione teatrale, assumono un ruolo fondamentale, trascendendo la loro mera funzione di illuminare lo spazio. Non solo accentuano la  tridimensionalità degli attori, ma agiscono anche come strumento di trasformazione, delineando vuoti scenici laddove è necessario aprire la porta a un rapido e incisivo cambio di scena. Leonardo Cecchi, agile ed a suo agio nelle coreografie, si distingue per una presenza scenica raffinata, ma il timbro della sua voce risulta ancora intrinsecamente troppo tenue e carente di incisività. Il protagonista, con una fisicità impeccabile, s’impegna ad incarnare Peter Pan, tuttavia, sembra affaticarsi nel traghettare il pubblico con la dovuta forza e vitalità nella genuina magia del racconto di J. M. Barrie. Le motivazioni di tale limitazione potrebbero essere plurime, ma l’impatto empatico ridotto  suggerisce la necessità di un riesame critico. Se persino gli acrobatici voli scenici non riescono a mantenere il pubblico in un sospeso emotivo coinvolgente, è lecito affermare che vi sia qualcosa da rivedere in termini di espressione artistica e comunicativa. Martha Rossi, nonostante la sua consolidata esperienza ed il suo talento, sembra oscillare in una danza sottile con il protagonista, talvolta rischiando di sovrastare la scena con i suoi vocalizzi poderosi. Nel contempo, Martina Attili, nel ruolo di Giglio Tigrato, fatica a catturare l’attenzione con un’interpretazione che non riesce a raggiungere il fascino desiderato.  In questa intricata coreografia interpretativa, emerge la necessità di armonizzare le voci e le presenze sul palco, cercando un equilibrio che permetta a ogni interprete di brillare senza oscurare gli altri. Una sfida che richiede un’attenta regia anche sul piano vocale che qui sembra essere latitante. E così, nell’intricato intreccio teatrale, emerge la paradossale verità che la bravura, quando è esibita con eccessiva evidenza, rischia di stonare in relazione alla più modesta media interpretativa. Questo fenomeno si manifesta con una forza peculiare anche nel caso di Giò Di Tonno, magistralmente impegnato nell’interpretazione di Capitan Uncino. Un ruolo, senza dubbio, di grande risonanza e caratterizzazione, ma che sembra purtroppo subire un’evidente sottostima delle sue capacità. La maestria e la partecipazione di Giò Di Tonno sono palpabili, ma ciò che emerge è una sensazione di spreco, come se le sue abilità fossero confinate in un ruolo che potrebbe permettergli di brillare con maggiore intensità. L’approssimazione si fa padrona nel quadro dei bambini sperduti, un ensemble di attori che popolano la scena con una certa disorganizzazione, conferendo al palcoscenico una vivacità al limite dell’irrequietezza. Le loro battute, a tratti, si perdono nell’indistinto, risultando incomprensibili e scandite con un ritmo poco chiaro, generando così una sfida per l’ascolto. Nel mezzo di questa confusione, emergono con chiarezza le battute di Renato Converso (il pirata Spugna), un personaggio che attinge al ricco repertorio dialettale del Sud per imprimere una marcata caratterizzazione. Con abilità, Converso, con il suo accento talvolta forzato ma sempre mirato, si impegna nel tentativo di estorcere risate al pubblico, sfruttando freddure interpretate con una freschezza che mette in luce la sua innegabile maestria attoriale. Il pubblico dell’anteprima, sempre generoso e cordiale, ha riversato sui protagonisti applausi fragorosi e calorose chiamate in scena, in un gesto partecipe che ha, forse, tratto origine dall’incanto evocato dalla musica.  Qui per le altre date.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera :” Il Flauto Magico” di Damiano Michieletto

gbopera - Mer, 17/01/2024 - 14:02

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2023/2024
“DIE ZAUBERFLOTE”
Singspiel in due attti
libretto di Emanuel Schikaneder
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Pamina EMOKE BARATH
Tamino JUAN FRANCISCO GATELL
La Regina della Notte ALEKSANDRA OLCZYK
Sarastro JOHN RELYEA
Monostatos MARCELLO NARDIS
Papageno MARKUS WERBA
Papagena CATERINA DI TONNO
Prima Dama ANIA JERUC
Seconda Dama VALENTINA GARGANO*
Terza Dama ADRIANA DI PAOLA
L’Oratore ZACHARY ALTMAN
Primo Armigero/secondo sacerdote NICOLA STRANIERO*
Secondo Armigero/primo sacerdote ARTURO ESPINOSA**
Primo fanciullo DOROTEA MARZULLO
Secondo fanciullo MIRIAM NOCE
Terzo fanciullo LAETITIA DE PAOLA
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
**diplomato progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro del’Opera di Roma
Direttore Michele Spotti
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Damiano Michieletto
Ripresa da Andrea Bernard
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm/Roland Horvath
Allestimento del Teatro la Fenice di Venezia in coproduzione con il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Roma, 13 gennaio 2024
Giunge al Teatro dell’Opera di Roma questo allestimento del Flauto Magico di Mozart curato dal regista Damiano Michieletto per il Teatro la Fenice di Venezia, per il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e per l’occasione ripreso da Andrea Bernard con la direzione del maestro Michele Spotti. L’opera viene immaginata in una scuola italiana degli anni ’60 nella quale la coppia dei due protagonisti e Monostatos, rigorosamente di razza caucasica e curiosamente somigliante alla signora Merkel sono allievi, Papageno è un bidello o meglio un operatore scolastico secondo la dicitura in voga attualmente, Sarastro è il preside, la Regina della Notte una poco regale signora e le tre dame sono delle vivaci suore che pure non parrebbero disprezzare la bellezza di Tamino. La scena di Paolo Fantin è sostanzialmente fissa nei due atti e rappresenta un’aula priva di crocifisso che in quegli anni era rigorosamente presente, dominata da una grande lavagna di ardesia come quelle dei vecchi tempi. All’inizio compare il drago in forma di serpente e successivamente si proiettano immagini e frasi anche in latino non per tutti facili da tradurre, vista la scellerata decisione di escluderlo dal programma di studio della scuola dell’obbligo. Priva dell’esplicita esibizione di simboli massonici l’idea della chiave di lettura di quest’opera complessa, ricca di sfumature e che dovrebbe lasciare lo spettatore libero di addentrarsi nelle più diverse interpretazioni individuali, parrebbe essere quella di una contrapposizione tra l’oscurantismo incarnato dal mondo religioso cristiano/cattolico e la luce del razionalismo illuminista di impronta liberal massonica. L’idea può esser valida sebbene non nuova, lo spettacolo teatralmente funziona molto bene e nel complesso è assai ben curato. Lo caratterizzano tuttavia un eccessivo didascalismo non sempre di immediata decifrazione, tale da risultare alla fine distraente e soprattutto il tono dominante del grigio di scene luci e costumi tale da appiattire i diversi momenti dell’opera. Difficile passare dal furbesco, semplice e popolare mondo di un Papageno che spazza le aule, alla mestizia acutamente dolente dell’aria di Pamina o dalle tenebre della Regina della Notte, alla luce del mondo di Sarastro. Il tutto è apparso un po’ troppo livellato su una sorta di grigiore sovietico questo si autenticamente anni 60, sia stato esso reale o così dipinto dall’occidente, sostanzialmente estraneo però alla varietà della musica. Curata e rigorosa la direzione del maestro Michele Spotti per nitore e chiarezza nella concertazione anche se con qualche lentezza di troppo che in alcuni momenti ne hanno ridotto la tensione emotiva. Ottima la prova del coro diretto dal maestro Ciro Visco. E veniamo agli interpreti vocali. Juan Francisco Gatell ha ripetuto il suo splendido Tamino, cantato con raffinata musicalità e interpretato con bella presenza scenica. Markus Werba ha anche lui ripetuto il suo irresistibile Papageno tratteggiato con umana simpatia e linea vocale ineccepibile. Il basso John Relyea con la sua voce ampia ed omogena ha interpretato un Sarastro nobile ed autorevole. Splendida Pamina è stato il soprano  Emoke Barath che nella sua aria ha toccato con sensibilità il vertice emotivo della serata. Piuttosto incolore a dispetto di una voce importante e di un fa sopracuto notevole la Regina della Notte del soprano Aleksandra Olczyk per il resto limitata dall’intonazione a tratti imprecisa, dalle colorature arruffate e dalla recitazione poco regale impostale. Funzionali allo spettacolo e nell’insieme tutti di alto livello sono apparsi gli interpreti dei numerosi ruoli minori. Alla fine della serata lunghi ma educati applausi e qualche contestazione per la regia per un allestimento che visto il valore della parte musicale avrebbe meritato un successo più deciso. Qui per le altre date.

 

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Gerald Hugh Tyrwhitt-Wilson “Lord Berners” (1883 – 1950): “La carosse du Saint-Sacrement” (1924)

gbopera - Mer, 17/01/2024 - 13:03

Caprice péruvien” (versione per orchestra di Constant Lambert): RTÉ Sinfonietta,  David Lloyd-Jones (direttore). Registrazione: O’Reilly Hall, Dublino, 10 gennaio 1992; La carosse du Saint-Sacrement”, opera in un atto su testo di Prosper Merimée, versione inglese di Adam Pollock : Ian Caddy (Basso-baritono), Alexander Oliver (Tenore), Cynthia Buchan (Mezzo-soprano), John Winfield (Tenore), Thomas Lawlor (Basso-baritono), Anthony Smith (Baritono). BBC Scottish Symphony Orchestra, Nicholas Cleobury (direttore).Registrazione: BBC Studio 1, Glasgow, 16 agosto 1983. 1 CD Naxos 8.660510
Gerald Hugh Tyrwhitt-Wilson (1883 – 1950) quattordicesimo barone di Berners è una tipica figura dell’alta società britannica a cavallo dei due secoli. Rampollo di una ricca famiglia aristocratica, ottima educazione, sguardo aperto e curioso sul mondo, esteta per modo e per vocazione, dilettante di talento in musica, nelle arti e nelle lettere. Lord Berners – nome con cui era generalmente noto – si è mosso con disinvoltura nella società galante delle belle-époque come in quella degli anni Venti, affascinato dall’Italia e molto attivo sulla scena parigina tra le due guerre.
Giunto nella penisola durante il primo conflitto mondiale come addetta dell’ambasciata britannica a Roma proprio nella penisola perfezionò gli studi musicali e negli anni romani compose molte delle sue musiche anche se eseguite dopo il termine del conflitto. Gli anni Venti e Trenta lo vedono attivo tra Parigi e l’Italia dove sviluppa un atteggiamento decisamente ambiguo – per non dire di autentico fiancheggiamento – nei confronti del regime fascista anche per influenza con Lady Diana Mitford-Mosley bellissima e spregiudicata aristocratica britannica tra le animatrici più attive dei circoli nazi-fascisti oltre Manica. Nonostante l’ambiguità politica Lord Berners riuscì a superare senza troppi intoppi gli anni della Seconda guerra mondiale mantenendo il proprio ruolo di originale dandy – viaggiava su una Rolls Royce su cui aveva fatto istallare un clavicordo ripiegabile – fine alla morte avvenuta nel 1950.
La sua produzione musicale appare sostanzialmente ecclettica. A una prima fase segnata da suggestioni maggiormente avanguardistiche segue negli anni Venti un ritorno all’ordine – comune a molta parte della cultura europea post-bellica – con opere sinfoniche e da camera, balletti e colonne sono per film. Tra i rari impegni nel teatro musicale va ascritta l’operina in un atto “La carosse du Saint-Sacrement” composta nel 1917 ma eseguita la prima volta a Parigi nel 1924 sotto la guida di Anserment. Tratta dallo stesso testo di Prosper Merimée da cui Offenbach aveva tratto – con ben alta ispirazione musicale – la sua “La Périchole” – arriva ora su disco in traduzione inglese grazie a una registrazione eseguita presso gli studi BBC di Glasgow nel 1983.
La traduzione inglese cambia non poco il tono generale della composizione privandola un po’ di brillantezza e deviandola verso toni quasi da teatro di prosa. Un taglio però non completamente improprio se consideriamo che la scrittura tende a un’impostazione declamatoria e dialogica mentre mancano momenti di maggior espansione lirica. La scrittura orchestrale è tradizionale pur con qualche concessione a dissonanze derivate dalle avanguardie del tempo e arricchita da tocchi folklorici di gusto spagnoleggiante per evocare l’ambientazione peruviana. Bisogna riconoscere che al solo ascolto l’opera soffre non poco della mancanza di un maggior senso melodico e una registrazione video avrebbe permesso di goderne meglio il carattere prettamente teatrale.
Nicholas Cleobury alla guida della BBC Scottish Symphony Orchestra offre una lettura brillante e ben ponderata, attenta alla scrittura orchestrale e dallo spiccato passo teatrale. La compagnia di canto – purtroppo il booklet non fornisce la corrispondenza tra interpreti e ruoli che si è quindi provata a ricostruire in modo autonomo – è fornata da un gruppo di cantanti attori accomunati dall’ottima dizione e dal taglio espressivo d’insieme. Il risultato è decisamente molto britannico e se la leggerezza francese latita assai si riconosce una recitazione ironica e disincantata quasi da commedia di Wilde.
Ottimo Ian Caddy baritono dall’ottima presenza vocale e dal fraseggio ricco e puntuale. Cynthia Buchan non ha forse il fascino vocale della primadonna ma è interprete sensibile e intelligente e tratteggia un personaggio di forte ironia, Alexander Oliver è il classico tenore inglese dal timbro biancastro ma agile e musicalmente molto corretto. Completano il cast John Winfield, Thomas Lawlor e Anthony Smith. Resta l’impressione di un titolo dove il collettivo conti più delle prestazioni individuali e bisogna riconosce che quella qui presente è una compagnia perfettamente affiatata.

Caprice Péruvien” – qui eseguito dalla RTÉ Sinfonietta sotto la guida di David Lloyd-Jones – è una sorta di fantasia su temi dell’opera qui presentata nella versione per orchestra di Constant Lambert. La freschezza melodica e la brillantezza d’insieme rendono l’ascolto assai piacevole e ben più convincente rispetto al lavoro di provenienza in quanto si concentrano solo i momenti musicalmente migliori e non viene a mancare quella componente teatrale essenziale nell’opera ma immediatamente persa nella sola registrazione discografica.

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Il Flauto magico inaugura la Stagione d’Opera e Balletto 2024 di Fondazione Arena al Teatro Filarmonico – dal 21 al 28 gennaio

gbopera - Mer, 17/01/2024 - 00:41

L’allestimento, firmato per la regia, scene e costumi da Ivan Stefanutti è coprodotto fra i teatri di OperaLombardia, il Verdi di Trieste e la statunitense Opera Carolina, approda a Verona con la sua carica visionaria, onirica e fiabesca, come uscita dall’oriente magico delle Mille e una notte. Sul palcoscenico sale un cast di prestigio internazionale, con alcuni debutti importanti: il basso Alexander Vinogradov, applaudito in Arena e nel mondo, interpreta  Sarastro, la coppia destinata ad amarsi e incontrarsi è composta dal tenore Matteo Mezzaro (Tamino) e dal soprano Gilda Fiume (Pamina) e la Regina della Notte è interpretata da Anna Siminska al suo esordio veronese. Sarà una prima volta anche per la giovane coppia comica Papageno-Papagena, affidata a Michele Patti e Giulia Bolcato. Completano il cast diversi giovani talentuosi: Matteo Macchioni (Monostatos), Marianna MappaFrancesca MaionchiMarta Pluda (le tre Dame al servizio della Regina), Viktor ShevchenkoGianluca Moro (sacerdoti/armigeri) e Alberto Comes.
Due terzetti di giovanissime voci bianche si alterneranno nei panni dei genietti, tre fanciulli fatati che guideranno gli eroi nelle loro peripezie (Jacopo Lunardi, Lorenzo Pigozzi, Erika Zaha il 21 e il 26, Maria Vittoria Caputo, Carlotta Caruso, Anna Russo il 24 e il 28). L’Orchestra della Fondazione Arena di Verona e il Coro preparato da Roberto Gabbiani saranno diretti dal maestro Gianna Fratta. La forma è quella del Singspiel, che prevede dialoghi parlati tra i diversi numeri musicali: senza alterare la lingua originale mozartiano, proprio i dialoghi recitati sono stati adattati e tradotti in italiano per facilitare la comprensione e la scorrevolezza della storia. 
Il Flauto magico va quindi in scena domenica 21 gennaio alle 15.30 e replica mercoledì 24 gennaio alle 19, venerdì 26 gennaio alle 20 e domenica 28 gennaio alle 15.30. Biglietti, abbonamenti e nuovi carnet sono disponibili al link https://www.arena.it/it/teatro-filarmonico, alla Biglietteria dell’Arena e, due ore prima di ogni recita, alla Biglietteria stessa del Teatro in via Mutilati.

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Ginger e Fred” di e con Monica Guerritore

gbopera - Mar, 16/01/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
GINGER E FRED
di Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli
Con 
Monica Guerritore, Massimiliano Vado
e con (in o. a.)
Alessandro Di Somma, Mara Gentile, Nicolò Giacalone,Francesco Godina
Diego Migeni, Lucilla Mininno, Valentina Morini, Claudio Vanni
scenografia Maria Grazia Iovine
costumi Walter Azzini
coreografie Alberto Canestro
light design Pietro Sperduti
regista assistente Leonardo Buttaroni
direttore allestimento Andrea Sorbera
adattamento e regia Monica Guerritore
Roma,16 Gennaio 2024
Nel suggestivo scenario del Teatro Quirino, uno dei capolavori cinematografici di Federico Fellini prende vita grazie all’ adattamento, regia e interpretazione di Monica Guerritore, affiancata da Massimiliano Vado, in “Ginger e Fred”.
Questo spettacolo è ispirato alla storia di due iconici ballerini di avanspettacolo, originariamente portati sul grande schermo da Giulietta Masina e Marcello Mastroianni. Un film che, nel 1986, si è aggiudicato ben quattro prestigiosi David di Donatello. La trama ci riporta indietro di oltre quarant’anni, quando Amelia Bonetti e Pippo Botticella, noti con il nome d’arte “Ginger e Fred”, incantavano il pubblico con il loro “tip tap” nei locali di avanspettacolo. Una coppia che, seppur su scala più modesta, incarnava il fascino dei celebri ballerini d’oltreoceano, Fred Astaire e Ginger Rogers. Mentre lei, rimasta vedova in una cittadina del Nord, e lui, vivacchiando al meglio, si erano perduti di vista, la TV nazionale li riporta fortunosamente alla ribalta. Il riavvicinamento avviene in un albergo, trasformato in un frenetico quartier generale televisivo. Qui, Pippo fatica a riconoscere la sua ex-compagna ed amica Amelia, e i due si trovano travolti da una legione di partecipanti al programma natalizio, una variegata miscela di dilettanti, giovani, anziani, imitatori e personaggi bizzarri. Nonostante la loro esperienza e la consueta preparazione, Fred e Ginger, ormai anziani, si ritrovano a malapena a provare i loro passi distintivi. La decisione di Amelia di riproporre il “tip-tap” è guidata dalla volontà di rivedere l’amato Pippo, già abbandonato dalla moglie e affetto dalla malattia. La passione per la performance e il denaro sembrano ora perdere di rilevanza. La tensione cresce mentre i due ballerini, ansiosi ma fiduciosi grazie alla sicurezza di Amelia, si esibiscono sotto i fari abbaglianti dello studio televisivo. Tuttavia, quando il successo sembra certo, la luce improvvisamente si spegne. Nel buio, Pippo propone di abbandonare tutto, considerando l’esibizione patetica e vagamente ridicola. Amelia resiste, la luce ritorna e la coppia conclude il suo numero tra gli applausi. L’epilogo dell’esperienza teatrale vede Pippo accompagnare Amelia alla stazione. Una parentesi turbolenta e affettuosa giunge al termine, con i due che si salutano, forse per sempre: “Perchè Federico ha voluto cos'”. Siamo proiettati in un mondo sospeso nel tempo, dove la scena curata da Maria Grazia Iovine non si sforza di descrivere, ma abilmente allude a un contesto che trascende il presente. Le luci di Pietro Sperduti, deboli e stanche, risplendono come i residui di una festa ormai svanita nel passato nella prima parte dello spettacolo. In primo piano, le insegne di una discoteca riminese, simbolo di notti trascorse in un vortice di musica e movimento. L’Eden Rock, emblema di un’epoca ormai passata, si erge come il palcoscenico di questa vicenda. È qui che Ginger e Fred fanno il loro ingresso, immersi in un ambiente che grida il suo passato con un’eleganza logora. Le luci, una volta sfavillanti, ora proiettano ombre nostalgiche sui personaggi centrali di questa trama. Questo scenario non è solo uno spazio fisico, ma una dimensione emotiva e narrativa.  Ginger e Fred, immersi in questo ambiente intriso di storia, portano con sé il peso della conclusione. Il mondo sfavillante e trash della Tv che li accoglie nella seconda parte è un palcoscenico che svela la fine di un’era, una rappresentazione teatrale della nostalgia e della transizione, ma anche di un futuro fatto di supefiacilità, arroganza e improvvisazione. L’eccellenza delle performance è indiscutibile, ma in questo intricato labirinto di scene e dialoghi, il filo conduttore della trama sembra disperdersi a tratti, smarrendo la sua strada in un intreccio troppo fitto ed alle volte non sempre necessario. Monica Guerritore, figura poliedrica che si è fatta carico dell’adattamento, della regia e dell’interpretazione, dimostra una determinazione incommensurabile. Nonostante le avversità che hanno preceduto la prima, tra cui la sostituzione dell’interprete principale a causa di un infortunio, si concede al pubblico con un trasporto palpabile. La sua interpretazione si distingue per la sua moderazione, un’approccio contenuto e, al contempo, intimamente rivoluzionario che cattura immediatamente l’attenzione della sala. Fresco di prove e catapultato sul palcoscenico quasi all’improvviso, Massimiliano Vado viene guidato con maestria dalla regia e dalla collega in scena. Quelle che potrebbero apparire come incertezze si trasformano, grazie alla maestria della regia ed al suo talento chiaramente, in punti di forza che accentuano la fragilità e la tenerezza del personaggio interpretato. I due protagonisti si distinguono non solo nella recitazione, ma brillano anche nei passaggi coreografici curati con attenzione da un impeccabile Alberto Canestro. Quasi totalmente credibile il resto del cast. Fellini, con la sua consueta genialità, derideva il mondo della TV senza sapere, ma forse immaginando, che il peggio, ossia la spazzatura di questi infausti anni catodici, stesse per riversarsi nell’etere. Personaggi mostruosi e stravaganti, sosia, esibizionisti: nulla manca in questo circo mediatico, un misto di inquietante spettacolo e frenetica Babele che inghiotte la realtà, per poi vomitarla sugli schermi, travestendola e interrompendola con la fastidiosa interruzione pubblicitaria. È un bolo disgustoso, pronto ad essere ingerito dallo spettatore affamato di stimoli visivi. In questa dimensione in cui ognuno si sforza di apparire diverso da sé, coloro che si trovano davanti alle telecamere rinunciano alla propria autenticità, indossando i costumi del Personaggio. Diventano una sorta di pasto scadente, cucinato per lo spettatore inconsapevole, desideroso di divorarlo avidamente. La televisione si trasforma così in uno specchio distorto, in cui la realtà si piega ai capricci dei personaggi mediatici, creando uno scenario caotico e surreale che si dipana attraverso gli schermi, pronto a inghiottire chiunque si avvicini con la sua inesorabile frenesia. Il pubblico, caloroso e partecipe, non ha esitato a consacrare un trionfo personale a Monica Guerritore. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Vascello: “Processo Galileo” dal 19 al 27 gennaio 2024

gbopera - Mar, 16/01/2024 - 09:00

Teatro Vascello
Stagione 2023 2024
PROCESSO GALILEO
di Angela Demattè e Fabrizio Sinisi
dramaturgia di  Simona Gonella
regia Andrea De Rosa, Carmelo Rifici
con Luca Lazzareschi, Milvia Marigliano
e con Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi, Isacco Venturini
regia Andrea De Rosa e Carmelo Rifici
scene Daniele Spanò
costumi Margherita Baldoni
progetto sonoro GUP Alcaro
disegno luci Pasquale Mari
una produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura, Emilia Romagna Teatro ERT, Teatro Nazionale
in collaborazione con Associazione Santacristina Centro Teatrale
Processo Galileo, uno spettacolo che ci invita a riflettere sul rapporto che abbiamo con la verità scientifica, sulla relazione tra scienza e potere e infine sul concetto del mistero, qualcosa che percepiamo, ma ancora non conosciamo, qualcosa con cui il teatro si trova da sempre ad avere a che fare. Per la sua prima produzione per il TPE, Andrea De Rosa collabora con il regista Carmelo Rifici e i drammaturghi Angela Dematté e Fabrizio Sinisi, con i quali ha immaginato uno spettacolo a più mani che rappresenta una vera novità per le modalità produttive e creative all’interno del panorama teatrale italiano. Liberamente ispirato alla vita e all’opera di Galileo Galilei, Processo Galileo è il frutto della scrittura di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi, alla loro prima esperienza di lavoro comune, affiancati dalla dramaturg Simona Gonella. Sono protagonisti Luca Lazzareschi e Milvia Marigliano, attori dalla solida esperienza, Isacco Venturini, già nel cast di importanti produzioni, e Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi. Lo spettacolo si avvale dell’allestimento dichiaratamente installativo dello scenografo Daniele Spanò, del disegno luci di Pasquale Mari, del progetto sonoro di GUP Alcaro e dei costumi di Margherita Baldoni. Esito di una collaborazione artistica e produttiva inedita nel panorama teatrale, Processo Galileo nasce da una singolare coincidenza: Andrea De Rosa, direttore del TPE Teatro Astra, e Carmelo Rifici, direttore artistico di LAC Lugano Arte e Cultura, stavano lavorando entrambi sul rapporto tra teatro e scienza, tema che è stato loro suggerito dalla recente crisi pandemica. Preso atto della felice coincidenza, i due registi, lontani per formazione, stili ed estetiche, ma affini per sensibilità artistica, si sono confrontati decidendo di misurarsi con l’esperienza della regia collettiva. Processo Galileo indaga la figura e il pensiero del celebre scienziato toscano e lo fa partendo dalla sua vita, dagli atti del processo che subì e dalla sentenza della Santa Inquisizione. La scrittura densa dei due autori, che sviluppa la narrazione in tre sequenze, ciascuna delle quali corrisponde ad altrettanti processi, attraverso spostamenti temporali indaga i destini e gli interrogativi del mondo contemporaneo. Processo Galileo si compone di tre storie, tre momenti uniti in un unico spettacolo. Un prologo, ambientato nel passato storico in cui avviene l’abiura: le parole del processo a Galileo del 1633, con i suoi personaggi e il suo linguaggio, fungono da punto di partenza e di irradiazione dei diversi temi in gioco – il rapporto tra la scienza e il potere, la tradizione, la coscienza. Un presente, nel quale una giovane donna, madre e intellettuale, è chiamata a raccontare per una rivista divulgativa il nuovo paradigma che la scienza sta ponendo oggi; il lutto familiare che sta elaborando provoca un cortocircuito con i dialoghi che intrattiene con uno scienziato e con sua madre, costringendola ad intraprendere un viaggio più vasto, che mette in discussione la sua visione del mondo. Un futuro, nel quale ogni realismo si sgretola e i personaggi diventano le voci di un’invettiva contro un Galileo che non è più visto come solo l’imputato di un tribunale ecclesiastico, ma come il portavoce di un processo storico e culturale che ha congiunto in maniera indissolubile la ricerca scientifica alla capacità tecnica, saldando per sempre l’idea di progresso di una società alla potenza dei suoi dispositivi tecnologici. Il cannocchiale di Galileo diventa così lo strumento di una rivoluzione che, iniziata nel XVII secolo, proietta il mondo in un futuro per molti versi inquietante. Tre sequenze che corrispondono ad altrettanti processi che – con diversi linguaggi e modalità espressive – indagano i destini e gli interrogativi del mondo contemporaneo e di quella che oggi chiamiamo modernità. Qui per tutte le informazioni.

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Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni: “Otello”

gbopera - Mar, 16/01/2024 - 07:53

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione 2023/2024
OTELLO
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Otello GREGORY KUNDE
Desdemona FRANCESCA DOTTO
Jago LUCA MICHELETTI
Cassio ANTONIO MANDRILLO
Roderigo ANDREA GALLI
Lodovico MATTIA DENTI
Montano ALBERTO PETRICCA
Un araldo EUGENIO MARIA DEGIACOMI
Emilia SAYUMI KANEKO
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza e Coro Voci bianche Nicolini di Piacenza
Direttore Leonardo Sini
Maestro del Coro Corrado Casati
Maestro Voci bianche Giorgio Ubaldi
Regia Italo Nunziata
Scene Domenico Franchi
Costumi Artemio Cabassi
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento in coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara
Modena, 14 gennaio 2023
L’eroe dei due Otelli ritorna in quello verdiano con vigorìe vocali appena affievolite: forse perché discende, anche lui, nella valle degli anni. Ma, siccome è un genio, sa fare del proverbiale tallone il suo punto di forza. E allora nasce un Otello dolente, vecchio, stanco. Che si trascina faticosamente, pungulato da pensieri persecutori, spaventato e sospettoso. Ci sono, certo, dove ci vogliono, quelle subitanee fiammate in cui rifulge ancora il suo smalto vibrante di riflessi, inconfondibile. Ma come ogni volta più vasta emerge dal pozzo di questa voce portentosa la sua sconfinata varietà espressiva. A quasi settanta primavere, l’autunno kundiano si tinge di nuove e affascinanti sfumature: meno brillanti, ma quanto più suggestive, a teatro. Dove sono illuminate da un fraseggio e da un accento sempre personalissimi. Gregory Kunde non è un cantante: è una autentica personalità vocale, una tipologia vocale. Vocale sì, ma scenica no: inciampa in un naïf molto Yankee, per esempio con quel ditino inquisitore. E sembra prender molto sul serio quell’ardere delle tempie: quando invece si tratta di una semplice scusa, inventata da un Otello incapace di dominarsi per giustificare il proprio turbamento davanti alla sposa confusa (nel primo duetto: nel secondo è ancora uno stratagemma, ma per avere notizie del fazzoletto). Però è così autentico, così suo, che gli si perdona. E poi, va detto: forse la cosa salta tanto all’occhio solo perché a stargli accanto è lo Jago di Luca Micheletti, che quanto a recitazione sbaraglia qualunque metro di giudizio operistico. Micheletti, non è un segreto, lavora anche nel teatro di parola come attore e come regista, e ai più alti livelli: è così che viene solitamente spiegata la sua sorprendente bravura scenica. Ma non è che è bravo perché fa la prosa: è che fa la prosa perché è bravo. E chi lo abbia seguito su entrambi i sentieri ha potuto notare come li percorra con andatura tutta diversa, e non potrebbe essere altrimenti. Certo: arricchendosi delle diverse esperienze. Usa la voce come strumento espressivo, non diversamente da un sopracciglio o un dito. E questo suo strumento è di notevole duttilità, si presta a una sconfinata gamma di sfumature. Ma non si lascia mai andare a suoni sgraziati, graffianti, sbracati, estremi: l’aristocratico contegno del musicista lo frena. Scavo sulla parola scenica e sdilinquenti morbidezze di velluti convivono felicemente e fanno la gioia del più chic fra i pensosi cultori della drammaturgia quanto del più verace e fanatico dei melomani con la schiuma alla bocca, e talvolta alle orecchie. La voce di Francesca Dotto sembra fatta apposta per rinverdire i fasti del cosiddetto soprano lirico italiano: tonda, generosa di armonici, ben proiettata nell’emissione, molto omogenea, al netto di qualche titubanza nel registro acuto, mentre i centri sono molto belli e morbidi, e i gravi che non hanno bisogno di essere rafforzati né scuriti. Ha un gusto un po’ di modernariato nel porgere la parola, ma delizioso, come di chi ami molto la Olivero, la Carteri, la Tebaldi: e chi mai potrebbe non amarle. Lo slancio volitivo, quasi aggressivo, che si prende aggrappandosi alle consonanti è qualcosa che queste dive hanno mutuato dal canto maschile, e squisitamente tenorile: e sopra tutti Pertile. Facendo di povere gatte morte autentiche eroine moderne. E talvolta anche bizzarri ometti, ma non è certo il caso della Dotto: che è una Desdemona giovane, tenera amante, ma orgogliosa di tanta risoluta purità. Completano la compagnia la salda Emilia di Sayumi Kaneko, il sonorossimo Montano di Alberto Petricca, e lo scabro cipiglio del Lodovico di Mattia Denti. Poi ci sono un Cassio dal timbro luminoso ma non solidissimo, Antonio Mandrillo, e un Rodrigo un po’ più problematico. L’orchestra è la Toscanini, in buona forma, diretta da Leonardo Sini: trovandosi puntata alla tempia l’esigenza di condurre la grossa nave in porto e a tempo, non c’era troppo da concedersi gran speculazioni interpretative. Eppure, i tempi piuttosto meditativi o quantomeno non incalzanti parevano assecondare la dolente interpretazione di Kunde. Si aggiungono le voci bianche del Conservatorio Nicolini di Piacenza, dirette dal Maestro Ubaldi, al coro del Municipale di Piacenza diretto dal Maestro Casati. Che si giova, acusticamente, dei pannelli à la Gordon Craig di cui si compone il semplice impianto scenico pensato da Domenico Franchi: quinte e soffitti che incorniciano la scena aprendosi e richiudendosi, abilmente movimentati dai macchinisti, come un diaframma fotografico. In cui si muovono, nei costumi tardo ottocenteschi di Artemio Cabassi, i personaggi. Che il regista Italo Nunziata ha voluto buoni borghesi, per scalare il tragedione shakespeariano in un salottino più prossimo a Verdi, e a noi. Foto Rolando Paolo Guerzoni

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Roma, Teatro Palladium:”Dance is not for us” di Omar Rajeh

gbopera - Mar, 16/01/2024 - 01:05

Roma, Peatro Palladium, Centro di Produzione Nazionale della Danza “Orbita/ Spellbound”: Vertigine, la stagione danza 2024
“DANCE IS NOT FOR US”
Concept, scenografie e coreografie Omar Rajeh
Assistente coreografo e Co-writer Mia Habis
Drammaturgia Peggy Olislaegers
Musiche Joss Turnbull & Charbel Haber
Light design e Direzione tecnica Christian François
Produzione Omar Rajeh/Maqamat (LB)
Prima Nazionale
Roma, 12 gennaio 2024
Che cos’è la danza per il performer e per chi sceglie di vedere uno spettacolo? Chi siamo “noi” riuniti in attesa di una performance? Il coreografo franco-libanese Omar Rajeh si pone e ci pone queste domande nello spettacolo Dance is not for us, presentato in prima nazionale ad apertura di Vertigine, la terza edizione della stagione danza di Orbita/Spellbound. L’attesa dell’evento si trasforma in sospensione temporale che ci conduce verso la scoperta di una presenza dall’apparente sapore ordinario. Una piantina in mano, ricordi d’infanzia, una scrivania con un laptop sopra, scritte in inglese, italiano ed arabo. Nulla è però affidato al caso. Il protagonista ed autore dello spettacolo ci invita nel suo laboratorio creativo nutrito di considerevoli rimandi. Attraverso l’utilizzo di azioni fisiche Rajeh si impone di parlare di crescita, di comunità, di cicatrici dell’anima. E per poterlo fare si affida dapprima alla parola, al potere del racconto, necessario per esplicitare il riferimento a Beyrouth Jaune, la prima creazione realizzata per Maqamat nel 2002. Immancabile anche la menzione di Citerne Beirut, spazio produttivo “forzatamente smantellato nell’agosto 2019”. Ma in fondo la danza è una risposta alla musica, ed il suggerimento politico serve solo a fornire una chiave di lettura della partitura di gesti usata dal performer. In modo pregnante si avverte nei movimenti un’urgenza liberatoria che parte da dentro, oltre che dal corpo stesso. Il roteare, il saltare, il vortice descritto dal braccio ci rimandano all’essenza dell’agire umano. Il corpo non è altro che il modo per esprimere la propria identità, anche se il potere politico cerca di ingabbiarlo nei propri significati. Da qui l’evocazione. Il puntare il dito, il giudicare comunicano aggressività, mentre una mano accostata al petto richiama scenari di guerra. Il saltare diventa il tentativo di trovare una via di fuga. Facile rintracciare nelle espressioni del viso atteggiamenti di stanchezza. Dalla posizione seduta si passa alle convulsioni, che manifestano la propria protesta spirituale contro l’efferatezza vissuta in prima persona. Le scritte recitano: “Foto di danza. Foto di speranza. Noi qui ed ora”. Ed infine avviene lo straniamento. Il palcoscenico si trasforma in un giardino. Il concetto di cura nascosto simbolicamente nelle piante segnala che l’arte ha una fondamentale dimensione costruttiva. La narrazione proposta fin qui si qualifica come un’esperienza di dolore. E poco cambia se a provocare tale dolore sia la guerra o una banale ferita. Tutti quanti cerchiamo di allontanarne la portata per i motivi più diversi. L’unica speranza rimane il sentirci coinvolti nella prospettiva di un futuro connotato dall’apertura verso l’altro. Guidati da atti di gentilezza. Foto Giuseppe Follacchio

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Michele Mariotti e il giovanissimo violoncellista Ettore Pagano con l’orchestra sinfonica nazionale della RAI

gbopera - Lun, 15/01/2024 - 22:25

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino. Stagione Sinfonica 2023-24.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Michele Mariotti
Violoncello Ettore Pagano
Pëtr Il’ič Čajkovskij:”Romeo e Giulietta”. Ouverture fantasia in si minore per orchestra; Aram Il’ič Chačaturjan: Concerto-Rapsodia per violoncello e orchestra. Igor Stravinskij: “Jeu de Cartes”. Musiche da balletto in tre mani.
Torino, 12 gennaio 2024
L’ottimo impaginato di questo concerto svela il felice accostamento di due geni del panorama musicale russo, che ne risultano molto più accostabili di quanto, pigramente, siamo portati a pensare: Čajkovskij e Stravinskij. Nei due lavori presentati sono colti in svolte problematiche delle loro vite creative. Nel 1880, anno dell’Ouverture Giulietto e Romeo, Čajkovskij, quarantenne, tenta nuove vie che lo emancipino sia dall’accademismo filo-occidentale professato dei Conservatori delle due capitali russe, recentemente fondati dai fratelli Rubinstein, sia dal “richiamo della foresta” del gruppo dei 5. Gli sono sicuramente da suggerimento e stimolo, l’omonima Sinfonia Drammatica di Berlioz, che la precede di pochi mesi, e le fantastiche elaborazioni dei poemi orchestrali di Liszt. Opere di cui Pëtr Il’ič era a conoscenza, oltre che per la circolazione delle partiture, grazie ai suoi numerosi viaggi culturali attraverso i paesi dell’ovest europeo. Stravinskij nel 1936 vive a Parigi, ha ormai abbandonato da quasi due decenni la fase “barbarica” dei Ballets Russes e ormai anche quella neo-classica, è alla ricerca di altri mondi e altri stimoli. A breve si risposerà e andrà a vivere in America. Balanchine, migrante russo, creatore dell’American Ballet, gli commissiona un nuovo lavoro per il MET e lo mette in condizione di riallacciare dei legami oltreoceano che l’aiutino a preparare il terreno per stabilirvisi. Le varie biografie annoverano l’avidità di denaro e il gioco d’azzardo come le passioni che più hanno presa sul compositore; l’emolumento promesso e l’argomento della nuova commissione le soddisfano ambedue. Caratteristiche che accomunano i due spartiti sono la manifesta teatralità e lo splendore orchestrale dato dalla sovrana maestria dell’orchestrazione. Berlioz e Liszt, per un verso, Rimskij-Korsakov per l’altro hanno profondamente pesato sull’innata capacità e sensibilità dei due russi di manipolare timbri, tempi e sonorità dell’orchestra. Michele Mariotti, sul podio di un’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, al massimo dello spolvero, con Roberto Ranfaldi violino di spalla, conferisce un taglio decisamente drammatico e teatrale ad ambedue le pagine. Tempi che tendono ad estremizzarsi agli opposti, così come le sonorità. Ad un lento-lento e piano-piano dell’avvio, in vero dal suono un po’ troppo sgranato, del Romeo e Giulietta, segue un rapinoso forte fortissimo, della parte centrale che poi si lascia ripiombare nell’appassionato spegnersi del finale. Nel Gioco di carte, l’autore immagina tre mani al poker, il balletto non c’è ma comunque Mariotti ce lo mostra con un danzare elegante delle braccia e un sinuoso muoversi della figura. L’Orchestra, galvanizzata, lo segue stretto-stretto in tempi e ritmi mobilissimi. Dei fortissimo contundenti irrompono comunque anche quando potrebbero meglio risultare se cautamente attenuati, ma la perizia nei contrasti di Mariotti, navigato operista, non si fa domare docilmente. Vale poi, per tanta parte del pubblico, che lo sottolinea con l’intensità degli applausi, quanto Susanna afferma ai riguardi di Cherubino … in verità egli fa tutto ben quello ch’ei fa.  Chačaturjan e il suo Concerto-Fantasia per Violoncello e Orchestra, risultano estranei allo stretto rapporto tra gli autori e le opere di cui sopra. La presenza del Concerto per violoncello si giustifica solamente con la brillante prova di Ettore Pagano, formidabile ventenne violoncellista romano, che esalta l’opera al massimo grado. Lo strumento che imbraccia, di paternità ignota, le note di sala, difformemente dalla consuetudine, non ne fa cenno, ha un suono potente, bello e “rotondo” per ricchezza di armonici, suono che corre e copre completamente gli spazi dell’Auditorio RAI. Le virtù che, in modo inappropriato, qui si attribuiscono allo strumento sono certamente da ascriversi soprattutto al polso, alle dita e alla sensibilità di chi lo imbraccia. Il Concerto, dopo un avvio orchestrale sommesso, lascia spazi al solista per alcune pagine di eccitante virtuosismo. Seguono pochi minuti di dialogo strumento-tutti per poi ulteriormente acconsentire al violoncello una lunga parentesi di fraseggio virtuosistico e appassionato. Il pezzo si chiude poi con una pagina di concorde e collettiva animazione. Mariotti ha tenuto saldamente la linea orchestrale su un percorso coeso che avrebbe potuto, se mal governato, tralignare in una serie di episodi sconnessi. Ne sarebbe uscita eccessivamente penalizzata una composizione che nei fatti non brilla per l’accattivante inventiva. Legni, ottoni, percussioni hanno potuto dare all’orchestra di Chačaturjan quella verve supplementare che forse sarebbe difficoltoso ricavare dalla sola pagina scritta. Come sempre accade, con un solista formidabile, il pubblico “esige” dei fuori programma, nell’occasione Pagano ne ha concessi due, da lui stesso annunciati, purtroppo in modo inintelligibile: una lamentosa cantilena armena in cui, alla malinconica suggestione del pianto del violoncello, si unisce il triste vocalizzare del solista; segue e conclude un’indiavolata pagina in pizzicato, che riecheggia ritmi e vibrazioni di sapore esotico. Il successo è stato convinto, pur se il pubblico, forse vittima degli stravizi festivi o dei sintomi della sempre incombente influenza, si mostrava falcidiato da abbondanti defezioni.

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Gli “Oblivion” dal 16 al 19 gennaio in scena al Teatro Nuovo di Verona

gbopera - Lun, 15/01/2024 - 18:00

Arrivano al Teatro Nuovo, nell’ambito di “Divertiamoci a teatro”, gli Oblivion con il loro nuovo spettacolo “Tuttorial” in scena da martedì 16 a venerdì 19 gennaio con inizio alle ore 21.00. Lo spettacolo – una “guida contromano alla contemporaneità”, un “anti musical carbonaro a metà tra avanspettacolo e dj set”, o anche una “guida galattica per autostoppisti moderni adatta a tutti” – si avvale della regia di Giorgio Gallione e ha per protagonisti i cinque Oblivion: Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli. In una scena piena di oggetti tra cui tanti strumenti percussivi, “L’ombelico del mondo” di Jovanotti è parafrasata nel “mestiere più antico del mondo”, quello di vendere la propria arte per stare sul mercato. In un mondo senza tempo dei social, personaggi di oggi e celebri personaggi del passato, da Galileo Galilei a Giuseppe Verdi, si ritrovano insieme a confrontarsi e a rapportarsi con il mondo tramite Internet. A Galilei, superstar di TikTok, tutti chiedono consigli. Verdi, dal canto suo, abbandona l’opera tradizionale e le orchestrazioni canoniche e propone un “Rigoletto” con l’accompagnamento dell’ukulele. E mentre Bell e Meucci litigano sull’invenzione del telefono, ecco arrivare le creature tipiche delle modernità come l’infaticabile rider e il pavido leone da tastiera più codardo di quello del “Meraviglioso mondo di Oz”. In questa folle playlist non poteva mancare una vecchia conoscenza degli Oblivion: il caro Alessandro Manzoni che questa volta vuole ambientare i suoi “I promessi sposi” nelle serie TV più famose di tutti i tempi. “Tuttorial” diventa così un vero e proprio strumento di orientamento grazie al quale in poche e semplici note, i grandi interrogativi umani hanno risposte alla portata di tutti. Gli spettatori potranno uscire dal teatro più saggi di Siri, più fluidi di D’Annunzio, più caldi del riscaldamento globale. Le scene di “Tuttorial”, spettacolo prodotto da Agidi, sono di Lorenza Gioberti, i costumi di Erika Carretta, il disegno luci di Andrea Violato.
Mercoledì 17 gennaio alle 18.00 gli Oblivion incontrano il pubblico in teatro. L’incontro, organizzato in collaborazione con il quotidiano “L’Arena”, è a ingresso libero ed è condotto dal caporedattore Luca Mantovani.

BIGLIETTI

platea € 2

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