Novara, Teatro Coccia, Stagione 2024
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re d’Egitto LUCA PARK
Amneris VERONICA SIMEONI
Aida SERENA FARNOCCHIA
Radamès JASON KIM
Amonasro GUSTAVO CASTILLO
Ramfis STEFANO PARADISO
Una Sacerdotessa ELENA MALAKHOVSKAYA
Un Messaggero DAVIDE LANDO
Orchestra Filarmonica Italiana
Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore Marco Alibrando
Maestro del Coro Alberto Sala
Regia Alberto Jona
Scene Matteo Capobianco
Costumi Silvia Lumes
Coreografia Gérard Diby
Visual Designer Luca Attilii
Luci Ivan Pastrovicchio
Produzione Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara in collaborazione con Associazione Teatro Popolare di Sordevolo
Novara, Teatro Coccia 06 luglio 2024
Il novarese Teatro Coccia, avendo vinto, l’anno scorso, con il verdiano Nabucco, la sfida di portare nell’Arena della Passione di Sordevolo l’opera lirica, ci ha riprovato, ancora con Verdi, con AIDA uno dei titoli più emblematici dell’intero repertorio. Le improvvise frequenti piogge, marchio di quest’inizio d’estate, si sono messe di traverso per cui la seconda recita (la nostra) che comunque contava un tutto venduto, si è dovuta precipitosamente trasferire a Novara, al riparo della sala del Coccia. La circostanza, viste le incontrollabili mattane atmosferiche, era prevista e in largo senso organizzata, ciò però non è valso ad evitare una notte insonne degli organizzatori, la carovana dei trasferimenti, le difficoltà di stipare in un palcoscenico non enorme quanto allestito per lo spazio spropositato dell’Arena. Visto poi che, pur in tempi di informazioni on line, non sempre tutto funziona come fosse un orologio, diverse decine di possessori di biglietto sono rimasti “a terra”, a Sordevolo, di fronte a cancelli chiusi con tra le dita biglietti pagati ma non si sa se ulteriormente utilizzabili per le recite a venire. La sera del 6 luglio, il migliaio circa di spettatori giunti in qualche modo a Novara, ha occupato “alla rinfusa”, come richiesto dalle maschere, l’intera platea e le prime due file dei palchi. Ad un’accorata ed esauriente introduzione di Corinne Baroni, Direttrice artistica del teatro, è seguita un’introduzione allo spettacolo dell’ottimo Regista dello stesso: Alberto Jona. Sono state puntualizzate le difficoltà dello spostamento e a quanto si è dovuto rinunciare rispetto alla più completa versione “en plein air”. L’impostazione registica colloca l’azione in Egitto, nell’ottocentesco cantiere di scavi dell’illustre egittologo biellese Giovanni Battista Schiapparelli che, tra casse sovrabbondanti di reperti si immagina protagonista di una storia d’amore con la bella nubiana Aida. Tra le tante idee bislacche che allignano nell’odierno teatro d’opera è forse questa la meno contundente e quindi assolutamente accettabile. Numerose proiezioni, molto efficaci e molto colorate, forniscono, con gusto sicuro una precisa ambientazione all’azione e ne danno la giusta ed efficace temperie psicologica. Geroglifici e scrittura ieratica, le rive del fiume, piramidi ed intricati interni con rischiosi camminamenti. La parte musicale ha poi siglato perentoriamente l’esito felice della serata. Marco Alibrando è il giovane direttore d’orchestra messinese che conduce brillantemente, con la giusta veemenza e l’essenziale libertà interpretativa, l’Orchestra Filarmonica Italiana, collaboratrice super affidabile del Teatro Coccia. In tempi in cui le voci scontano, col declinare impietoso delle teste di serie, la presenza di pochissimi rincalzi, il gruppo, secondo cast della produzione, che ha calcato il palcoscenico novarese si è degnamente fatto valere. Spicca su tutti il bel timbro e l’appassionata vocalità dell’Aida di Serena Farnocchia in cui convive, con una raffinata educazione, una equilibrata passionalità. Non schiva gli scogli di una parte assai insidiosa, ma li sa aggirare con scaltra intelligenza. Veronica Simeoni ci dà un’Amneris volitiva e nervosa. La sua passione è più di calcolo che non di carne. Il “ti faccio vedere io chi sono” la domina e la tormenta. Il timbro, dalle sfumature androgine, la soccorre nel renderci il personaggio difficilmente dimenticabile. Entusiasma per giovanile vigore e per sprezzo del rischio l’Amonastro di Gustavo Castillo. Diaframma d’acciaio, polmoni da sub e suoni sfogati sprezzano i rischi che pur potrebbero annidarsi nelle pieghe della veemenza del suo canto. Sullo stesso piano il Radames di Jason Kim che pur qualche inciampo parrebbe averlo già incontrato. Lo squillo tenorile è bello e piacevole, la tenuta delle frasi, a tratti, si affanna. Ramfis, il basso Stefano Paradiso, nonostante un’indisposizione segnalata, porta bene in porto il suo operato. Come pure fanno Luca Park, il Re d’Egitto, Elena Malakhovskaya, la Sacerdotessa e Davide Lando che con prestazione maiuscola ci fa dimenticare le tante malefatte che nel ruolo di Messaggero si son sentite in tante occasioni. È stata anche assai pregevole e applaudita la prestazione del coro Schola Cantorum San Gregorio Magno sotto l’accorta direzione del Maestro Alberto Sala. Trionfale nel nome e nel fatto la prestazione degli ottoni, dell’Orchestra Sinfonica Italiana, che hanno infuocato sala e pubblico nel secondo atto. Le Danze dei Negretti, nel secondo atto, sono state abbozzate, con grazia, da fanciulli, forse della troupe dei figuranti in trasferta del Teatro Popolare di Sordevolo. Della stessa troupe, in processione tra il pubblico, con reperti antichi tra le mani, la rappresentazione della Marcia trionfale. Gli altri momenti di danza, il tempio del primo atto e il trionfo, sono stati affidati alla coreografia e al corpo sinuoso di un formidabile apprezzatissimo e applauditissimo Gèrard Diby. Doppiamente ammirevole e riuscito il lavoro dell’equipe tecnica che ha dovuto affrontare il “trasloco”: per le luci Ivan Pastrovicchio e Alberto Jona, il visual designer Luca Attilii e il Controluce Teatro D’Ombre; per la scena Matteo Capobianco, e per i bellissimi costumi Silvia Lumes. La recita, nonostante le traversie della location è stata senza inciampi ed inconvenienti, con un timing perfetto che ha consentito al pubblico, in maggioranza biellese, un rientro tranquillo. Gli applausi ci sono stati, per i singoli e per l’insieme, contenuti comunque in durata per evitare il rischio di successive corse spericolate tra le risaie. Ancora due recite con l’incognita della sede: venerdì 12 e sabato 13 luglio. Foto Mario Finotti e Anastasiya Tymofyeyeva
Prefazione di Alessandro Baricco.
di Angelo Foletto
Collana: La critica musicale: fonti e saggi
Volume di 312 pagine. ISBN: 9788855433280
Lucca, Lim, 2024, € 30,00
È noto che Claudio Abbado nel 2009, per il suo ritorno alla Scala, chiese come onorario di piantare 90mila alberi a Milano tanto che l’uscita di questo libro riporta alla memoria sia L’homme qui plantait des arbres di Jean Giono che Voltaire il quale, sul letto di morte, aveva affermato «Sì, nella mia vita ho fatto qualcosa! Ho piantato tanti alberi». A distanza da 10 anni dalla dipartita del maestro ritorna il titolo ‘volteriano’ che «riassume la vocazione di Abbado a dissodare e seminare». A ricordare lo scrittore e filosofo francese è l’autore di questo interessantissimo volume, Angelo Foletto, che – nella Premessa, dichiarando i contenuti «Cronache-dialoghi dal vivo, ‘pezzi’ di critica musicale, testimonianze da vicinanza intellettuale e pluridecennale passione di ascoltatore», in gran parte apparsi (1978-2019) su «Repubblica», «Musica viva» e «Classic Voice» – aggiunge che si è trattato di «Un viaggio insieme» ove la metafora include la consapevolezza che tale esperienza porti ad ulteriori sviluppi e scoperte. Quasi ‘testimone’ del ‘viaggio’ è Alessandro Baricco, autore della Prefazione, che dichiara che in quegli Anni «su quella barca» c’era anche lui e tutti coloro che hanno conosciuto e collaborato con il maestro, come il sottoscritto, tanto che nel tempo, visto il gran numero di musicisti, si è reso necessario sostituire la piccola imbarcazione con una nave. Tra questi, non pochi sono diventati bravi ‘capitani’ ovvero direttori d’orchestra, solisti, cantanti, cameristi e, come ricorda l’autore: «Non c’è probabilmente orchestra del Vecchio Continente che non abbia nelle sue file un ex-ragazzo che ha suonato con Abbado» tanto da poter rintracciare quel passaggio di testimone atto a far continuare una certa tradizione. Secondo Baricco, Foletto «rimane impigliato nel genio di un musicista e per un’intera vita lo accompagna senza far troppo rumore, sempre scostato di un paio di passi, a quella distanza sufficiente a non perdere nulla di quello che poteva accadere necessaria per non rischiare di intralciare nulla di quello che doveva accadere», aggiungendo che si è trattato di «un’avventura intellettuale, una passione irresistibile e una cura da declinare con tutta la civiltà possibile». In effetti ciò emerge con un distinguo, confermando l’idea dello scrittore che Foletto ha percepito la figura del maestro senza alterare l’ottimale messa a fuoco. Il critico e storico della musica, se da un lato sembra rappresentare il Testimone ad actum di Abbado nel dare vita alle diverse realtà musicali descritte nel volume, dall’altro, quando le parole entrano nella musica, è come se tentasse di rivelare, quasi filologicamente, il modo di avvicinarsi alla versione più ‘vera’ della partitura dove ogni volta che si riprende la stessa opera «significa ristudiare tutto da capo». Il volume rivela molte idee abbadiane sul dirigere non come mestiere «ma come passione» in quanto «Come mestiere diventa routine, la morte» insieme a tante acute osservazioni di Foletto affermando senza mezzi termini che «Abbado è stato l’ideale proseguimento del ruolo storico innovativo di Arturo Toscanini» tanto che ben presto tutti si accorsero «che quella testa di direttore non pensava come gli altri». Non si può tacere il grande merito dell’autore nel riuscire a far parlare il maestro di molte cose anche se «Abbado come interprete è penetrante […] come intervistato lascia molto a desiderare». Sulla musica antica e Gesualdo da Venosa, alla domanda dell’autore «Quindi apertura e libertà, come prima decisione: non specializzazioni» non si fa attendere la risposta: «La musica è una, non amo le barriere» e sulla crescita dei giovani indica «la conoscenza di tutto il repertorio come ‘formazione’ intellettuale e musicale» puntando il dito sulle ‘specializzazioni’ che spesso rappresentano «una forma di pigrizia e talvolta anche di calcolo ‘artistico’ che non giova alle musiche né favorisce esecuzioni importanti» convinto che «spesso ‘specialista di’ è sinonimo di dedizione quantitativa a un autore, non di reale approfondimento critico o di cura esecutiva agguerrita e rigorosa nelle scelte». Il volume costituisce un insieme di percorsi e narrazioni verso la scoperta o riscoperta dell’intelligenza, della poetica e della concezione della musica di Abbado dai titoli: Ritratti – Quattro autori – Scelte – Recensioni, Cronache, Interviste. Particolarmente significativa la sezione Illustrazioni che divide i primi tre capitoli dal resto del libro; le foto svelano la storia professionale oltre a frequentazioni, amicizie, incontri, relazioni, luoghi, ecc. che costituiscono alcuni fotogrammi della sua vita intensa, restituendo quel sorriso che, unito all’espressione del viso, aiuta a comprendere la sua capacità di far esprimere la musica. Ad una domanda sul parlare pochissimo durante la concertazione il maestro, riferendosi alla prassi di Furtwängler, risponde che, a parte alcuni dettagli di carattere esecutivo esplicitati a voce, «per il resto deve bastare il contatto che le prove favoriscono tra direttore e orchestra». Volendo ricordare Puccini, ecco una domanda di Foletto: «Musicalmente come definiresti Puccini?» Risposta: «Se pensi che Turandot è degli stessi anni di Erwartung e Wozzeck si possono capire molte cose». Ma a quali cose alludeva il maestro può comprenderlo solo chi come lui è stato interprete e profondo conoscitore della cultura mitteleuropea. Alla domanda sulle sue letture Abbado risponde con un consiglio: «In questo momento [estate 1981] sto leggendo gli ultimi racconti della Blixen, il Libro degli amici di Hofmannsthal – leggilo, è bellissimo e l’ultimo saggio su Mahler di de La Grange. Rileggo spesso i vecchi amori da Dostoevskij a Kafka». Questo prezioso volume aiuta a conoscere o a ripensare con più profondità il personaggio e il grande direttore d’orchestra non senza soffermarsi sulla foto in copertina che ritrae Abbado e Foletto di fronte: immagine che dice molto sulla loro interazione tanto che la si percepisce guardando da entrambe le direzioni senza alterare minimamente due intelligenze che aspirano all’incontro.
TEN YEARS: BSR 14-24
a cura di Camilla Boemio
dal 5 – 15 Luglio
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 14 alle 19
TEN YEARS: BSR People 14-24 è la mostra di Antonio Palmieri, una retrospettiva di dieci anni la cui genesi è volutamente divisa in due parti, le prime foto sono state scattate in digitale e il lavoro è strettamente correlato con la documentazione fotografica legata al progetto iniziale nel quale si articolano una selezione di ritratti ed una strategia che conquista nel presentare gli artisti d’arte visiva nei propri studi della residenza. In questa condizione ‘intima’ abbiamo modo di veicolare un ampio raggio di informazioni riguardanti i loro linguaggi, la loro ricerca, l’uso dei materiali, la gestazione prima di ultimare un’opera; ma anche una serie di posture dei giovani artisti all’interno del proprio micro mondo. Nella seconda parte le foto sono scattate in analogico su pellicola da trentacinque mm e pur essendo fotografie che ritraggono persone che hanno soggiornato alla BSR, le immagini non sono legate al filone documentativo. In questa serie Palmieri, abbandona l’approccio seriale e sistematico, inarcando un’estetica da narrazione intima, confrontandosi con la sua sensibilità creativa; selezionando la posizione più semplice e neutra fornendo un rapporto con le persone ritratte, arrivando a mostrarci senza filtri il ‘mentre le guardiamo loro guardano noi’. Palmieri attraverso il suo punto di vista sensibilizzato e soggettivo, ci svela che tutto nel mondo reale è un soggetto potenziale nel quale prendono forma i legami che si sono creati in questo arco temporale, le ricerche, le sperimentazioni che hanno preso forma nell’accademia, si sono diramate nella città di Roma, creando quell’ambiente culturale e sociale fertile nel quale gli Istituti di Cultura sono quell’ arcipelago reticolare in divenire organizzato, che genera scenari influenti e solidi per la cultura.
Teatro dell’Opera di Roma Stagione Estiva 2024
“TOSCA”
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Tosca CARMEN GIANNATTASIO
Mario Cavaradossi SAIMIR PIRGU
Il Barone Scarpia CLAUDIO SGURA
Angelotti VLADIMIR SAZDOVSKI
Sagrestano DOMENICO COLAIANNI
Spoletta SAVERIO FIORE
Sciarrone DANIELE MASSIMI
Carceriere FABIO TINALLI
Un Pastorello MARCELLO LEONARDI
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Antonino Fogliani
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Francesco Micheli
Progetto scenografico Massimiliano e Doriana Fuksas
Costumi Giada Masi
Video Luca Scarzella, Michele Innocente, Matteo Castiglioni
Luci Alessandro Carletti
Drammaturgia Alberto Mattioli
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 05 luglio 2024
Per rendere omaggio al centenario pucciniano, il teatro dell’Opera di Roma ha programmato per la stagione estiva due titoli, Tosca e Turandot, entrambi affidati al progetto scenografico dello studio Fuksas. La scenografia ideata per l’occasione e che sembra servirà anche per i prossimi titoli in programma, consiste in una sorta di banchisa polare bianca e frastagliata composta da frattali sulla quale in questa serata si sono proiettati testi, colori e immagini a seconda della situazione e forse dei pensieri dei personaggi senza nessun possibile riferimento al testo e ai luoghi di Roma nei quali si svolge l’opera. Tenue filo conduttore della regia pensata da Francesco Micheli parrebbe essere quello della violenza del potere religioso e politico in modo particolare sulle donne. Il fantasma di Anna Magnani evocato dai costumi e da diverse proiezioni come la scena della morte in “Roma città aperta” sembrerebbero voler suggerire una sorta di parallelismo fra Floria Tosca e la Magnani, la polizia pontificia e i nazifascisti e via dicendo, tale però da indebolire la narrazione e offuscare il senso e la resa emotiva per esempio del sempre molto atteso “vissi d’arte”. Così pure la scena del Te Deum assomiglia più alla rievocazione del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo che non ad un momento di gioia e di solenne ringraziamento al Signore per la vittoria su Napoleone, nel terzo atto compare l’immancabile cappottone da ventennio e i costumi che sembrerebbero voler evocare tre secoli diversi tra i vari atti producono il risultato di trasformare l’ingresso di Scarpia nel primo atto in qualche cosa di simile a quello di Ping Pang e Pong. E’ inutile avvicinarsi ad uno spettacolo del genere dolendosi per tutto quello che è stato volutamente eliminato nella speranza di compiacere o educare il pubblico attualizzando l’opera e piegandola suo malgrado a nuovi messaggi ideologici ritenuti più nobili ed elevati. Tuttavia il risultato, indipendentemente da aspetti legati al pur rispettabile gusto personale di ciascuno, crediamo che nell’insieme sia di fatto interlocutorio e che molti dei momenti espressivi voluti e realizzati dall’autore siano stati in parte svuotati della loro efficacia. Cercare di cambiare la creazione di un genio teatrale assoluto è operazione ardita nella quale è più probabile perdersi in un ginepraio di effetti e trovate frammentarie, singolarmente anche interessanti, ma che nel complesso risulta privo di unità e del senso della sintesi drammatica. La direzione, per l’occasione affidata al maestro Antonino Fogliani, si è rivelata funzionale sotto il profilo logistico per una buona capacità di accompagnare le voci. Difficile però a causa di una amplificazione assolutamente sproporzionata apprezzare e valutare i colori ed i volumi dell’orchestra e dei cantanti. Faticoso riconoscere il rincorrersi dell’eco delle diverse campane nell’alba romana all’inizio del terzo atto tutte implacabilmente uguali anche se abbiamo apprezzato una buona tenuta complessiva sia pure con qualche indugio di troppo. Al solito molto valida è parsa la prova del coro diretto dal maestro Ciro Visco che forse scenicamente avrebbe meritato un maggior risalto e dei bambini della scuola di canto corale del teatro. E veniamo agli interpreti vocali della serata, tutti su un piano di buona professionalità ma con la generale impressione di essere come telecomandati dalla regia con il risultato ogni tanto di perdere di spontaneità. Nel ruolo eponimo Carmen Giannattasio impersona una Tosca più popolana che prima donna, simpatica e volitiva un po’ sul modello della Magnani, di buona tenuta vocale e dalla discreta musicalità. Cavaradossi è stato cantato con sicurezza ed estroversione dal tenore Saimir Pirgu che si è distinto per simpatia e notevole disinvoltura scenica. Il baritono Claudio Sgura a dispetto di un ruolo da lui molto eseguito con grande successo è parso viceversa poco incisivo, più preoccupato forse dai movimenti scenici che non dall’impersonare il ruolo e ingiustamente penalizzato da un finale del secondo atto francamente brutto e ai limiti del ridicolo. Molto bravo anche Saverio Fiore nella parte di Spoletta sia musicalmente che vocalmente ma anche lui più circospetto del consueto sotto il profilo scenico in una parte che ha più volte eseguito e della quale sembra straordinariamente possedere perfino la fisicità. Assai accurato è apparso il Sagrestano di Domenico Colaianni e senza dubbio su un piano di buona professionalità sono apparsi Vladimir Sazdovsky, Daniele Massimi e Fabio Tinalli rispettivamente nelle parti di Angelotti, Sciarrone e del Carceriere. Alla fine educati applausi per una Tosca nel complesso un po’ debole e qualche contestazione all’indirizzo della regia. Photocredit Fabrizio-Sansoni-Opera-di-Roma.
Sordevolo (BI), Anfiteatro “Giovanni Paolo II”, Stagione 2024
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re d’Egitto LUCA PARK
Amneris GOSHA KOWALINSKA
Aida MARY ELIZABETH WILLIAMS
Radamès GABRIELE MANGIONE
Ramfis STEFANO PARADISO
Amonasro GUSTAVO CASTILLO
Ramfis STEFANO PARADISO
Una Sacerdotessa ELENA MALAKHOVSKAYA
Un Messaggero DAVIDE LANDO
Orchestra Filarmonica Italiana
Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore Marco Alibrando
Maestro del Coro Alberto Sala
Regia Alberto Jona
Scene Matteo Capobianco
Costumi Silvia Lumes
Coreografia Gérard Diby
Visual Designer Luca Attilii
Luci Ivan Pastrovicchio
Produzione Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara in collaborazione con Associazione Teatro Popolare di Sordevolo
Sordevolo (BI), 05 luglio 2024
Anche quest’anno, il Teatro Coccia di Novara organizza la produzione di un’opera all’aperto nell’anfiteatro di Sordevolo, paesino del biellese. L’iniziativa è senza dubbio lodevole, tuttavia c’è qualcosa che non funziona nella realizzazione pratica di queste belle intenzioni: il problema più grande che la recita a cui abbiamo assistito ha portato alla luce è l’amplificazione, operata in maniera perlomeno arbitraria, che ha portato a un orchestra estremamente amplificata, e all’uso di soli cinque microfoni panoramici sul proscenio per gli interpreti; risultato: si sentivano sentire anche gli scricchiolii dei leggii e delle sedie degli orchestrali a scapito del canto. Abbiamo visto i cantanti esibirsi a favore di microfono, quando non accasciati direttamente di fronte adesso, e quindi ci ha consentito di maturare un giudizio sufficientemente ponderato sulle loro performance. Proprio i due protagonisti, tuttavia, hanno dimostrato una sostanziale estraneità ai ruoli. L’Aida di Mary Elizabeth Williams ci è parsa mostrare, purtroppo, uno scarso controllo del fiato, limiti di proiezione, oltre a un colore vocale opaco, che non si illumina né nei momenti di grande pathos né nei momenti lirici più evocativi. Accanto a lei il Radamès di Gabriele Mangione che, per quanto intonato e tecnicamente sicuro sé, propone una linea di canto molto disomogenea, poco scolpita, sostanzialmente estranea al personaggio verdiano. Prova migliore del mezzosoprano Gosha Kowalinska, benché fra le più penalizzate dagli errori di amplificazione: è solo al quarto atto che possiamo godere della ricca pasta vocale della sua Amneris, piena di armonici, ben sostenuta su tutta la tessitura. Buona prova anche per il baritono Gustavo Castillo nel ruolo di Amonasro, grazie a un’emissione sicura e potente, che nel duetto con Aida si piega giustamente sulla resa espressiva. Nell’alveo della correttezza gli altri ruoli: il Re di Luca Park, il Ramfis di Stefano Paradiso, il Messaggero di Davide Lando). Spicca la Sacerdotessa di Elena Malakhovskaya per particolare morbidezza del suono. Infine, dobbiamo ritenere anche la direzione del maestro Francesco Alibrando in parte responsabile dei grossi limiti fonici dello spettacolo, ci sembra incredibile che il direttore non si sia accorto degli spropositati volumi della sua orchestra, così come della presenza invasiva di alcuni strumenti su altri (il primo violino, l’arpa); i cantanti sistematicamente schiacciati dall’orchestra. Ci viene anche da domandarsi sinceramente cosa il maestro Alibrando udisse dalla sua postazione, giacché il gesto energico ed elegante col quale ha portato avanti l’intera concertazione non ha quasi mai tradito un tentennamento. L’assetto creativo di questa “Aida“ ha pure presentato alcuni oggettivi limiti, il primo dei quali è la non comunicazione tra i video di Luca Attilii, costantemente proiettati, e lo spazio scenico architettato da Matteo Capobianco: i primi, infatti, per quanto a volte ingenuamente didascalici, presentavano una forte coerenza interna, oltre che un preciso legame con i momenti del dramma e con il racconto delle emozioni; peccato che siano stati proiettati a tutta parete, ignorando del tutto la presenza in scena di alcuni elementi voluminosi, tra cui un alto praticabile sulla destra, che, ben lungi dall’essere forme astratte, rappresentavano con abile scenografatura, gli scaffali della collezione Schiaparelli in procinto di essere spediti dal Cairo a Torino (il regista Alberto Jona, infatti, nello scoprire che il celebre egittologo ha avuto i natali proprio nelle vicinanze di Sordevolo, ha deciso di inserire la vicenda del Ghislanzoni in questo ulteriore frame narrativo, su cui torneremo tra poco). L’effetto non segue alcuna estetica perscrutabile, giacché si sarebbe dovuto procedere a un mapping della scena per conferire ordine e pulizia all’assetto video, invece che “smarmellare” (per citare una serie di culto) tutto su tutto. Ai limiti tra kitsch e buon gusto anche i costumi di Silvia Lumes, al più molto generici (tutto uno sventolio di veli e mantelli colorati), talvolta esagerati (il Re coperto d’oro dalla testa ai piedi effetto “maschera di Tutankhamon” come un mimo di strada e Ramfis metallizzato in versione aliena ce li saremmo decisamente risparmiati, così come il messaggero con una gigantesca testa di Anubi – reminiscenza di “Stargate” del ‘94?), sebbene in una scenografia anch’essa sopra le righe figurassero assolutamente coerenti. Infine, la regia di Alberto Jona ci stimola una riflessione più generale: Jona non è un regista “delle trovate”, ma un serio professionista che crede nella necessità di un’idea generale forte che regga l’intero assetto creativo, e, in questa “Aida” si riconferma tale. Ci pare, però, che per sostenere questa visione d’insieme (in breve: tutta la vicenda di Aida non è nient’altro che il sogno di un giovane archeologo – che si autofigura come Radamès – al seguito della spedizione di Schiaparelli) Jona abbandoni letteralmente i cantanti sulla scena, che infatti si esprimono con tutto il repertorio possibile di gesti artefatti. Sono davvero pochi i momenti (peraltro riusciti) nel quale si possa dire “qui c’è una regia” in riferimento alle performance degli artisti: per il resto è tutto un andare e venire, entrare e uscire, stare fermi o sbracciarsi, in piedi o seduti. Siamo certi non solo che Jona possa lavorare meglio, ma anche che un’operazione come questa “Aida” meritasse di più. Foto Claudio Burato
Roma, Castel Sant’Angelo, Cortile Alessandro VI
SMARRITA E SOAVE: Adriano, poeta, tra poeti
di e con Roberto Latini
musiche Gianluca Misiti
eseguite dal vivo da
Luisiana Lorusso violino
Claudia Della Gatta violoncello
luci e direzione tecnica Max Mugnai
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi
All’interno della IV edizione della rassegna “Sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo”, sarà in scena il 10 luglio alle ore 21.00, presso il Cortile Alessandro VI, lo spettacolo “SMARRITA E SOAVE – Adriano, poeta, tra poeti”, di e con Roberto Latini con le musiche di Gianluca Misiti. Nella splendida cornice di Castel Sant’Angelo, guidato dal Direttore generale Musei Massimo Osanna, la rassegna a cura di Anna Selvi, promuove il confronto fra l’arte dell’attore, quella del danzatore e del musicista, che riesce a innescare un dialogo con gli spazi del museo e i suoi pubblici nell’ambito del programma di valorizzazione del monumento. Castel Sant’Angelo come luogo simbolo per le Arti. Potrebbe essere questa un’altra legittima modalità di percepire la Mole Adriana. La storia del mausoleo e le sue tante trasformazioni hanno messo in secondo piano una delle più spiccate qualità dell’Imperatore romano: Adriano come protettore delle Arti, della Letteratura, della Poesia. Egli stesso, letterato, scrittore, poeta e appassionato di architettura e arti figurative. Vogliamo rendere merito a questo aspetto della storia, proponendo al pubblico di Castel Sant’Angelo un percorso ideale e drammaturgico costruito a partire dalla figura dell’Imperatore e da memorie di altri poeti. Una serata intitolata SMARRITA e SOAVE in riferimento all’animula (vagula, blandula) di Adriano, che riecheggia potente nel monumento a lui dedicato e diventa il ponte possibile tra le rive del passato e del presente. Photo©MasiarPasquali.jpg
Roma, Castel Sant’Angelo
SOTTO L’ANGELO DI CASTELLO 2024
a cura di Anna Selvi
Rassegna con spettacoli di danza, musica, teatro, performance, visite guidate e dialoghi con l’arte contemporanea
dal 03 luglio al 26 settembre 2024
Il confronto fra l’arte dell’attore, quella del danzatore e del musicista, che riesce a innescare un dialogo con gli spazi del museo e i suoi pubblici, è la proposta che Castel Sant’Angelo promuove con la IV edizione della rassegna Sotto l’Angelo di Castello: danza, musica, spettacolo, a cura di Anna Selvi, che si terrà dal 3 luglio al 26 settembre 2024, nell’ambito del programma di valorizzazione del monumento. Anche quest’anno, al pubblico sarà offerta la possibilità di usufruire di esperienze di intrattenimento, ma anche in grado di sollecitare riflessioni, attraversando territori inusuali, fantasiosi, sociali, multimediali all’interno dei suggestivi spazi del sito museale. Tutti gli spettacoli si svolgeranno alle ore 21,00 nel Cortile Alessandro VI, ad eccezione di A Corpo libero e The Haeling Sax che si terranno sulla terrazza di San Michele, Hamelin al Bastione San Matteo, Il Combattimento di Tancredi e Clorinda nella Sala della Biblioteca. Paradiso performance itinerante nelle Sale museali. Programma completo su Castelsantangelo.beniculturali.it.
Bologna, Comunale Nouveau, Stagione d’Opera 2024
“TRITTICO”
Musica di Giacomo Puccini
“IL TABARRO”
Opera in un atto su libretto di Giuseppe Adami tratto dal dramma La Houppelande di Didier Gold
Michele FRANCO VASSALLO
Luigi ROBERTO ARONICA
Tinca XIN ZHANG*
Talpa LUCIANO LEONI
Giorgetta CHIARA ISOTTON
Frugola CRISTINA MELIS
Un venditore di canzonette MARCO PUGGIONI
Un amante CRISTOBAL CAMPOS*
Una amante TATIANA PREVIATI
“SUOR ANGELICA”
Opera in un atto su ibretto di Giovacchino Forzano
Suor Angelica CHIARA ISOTTON
La zia Principessa CHIARA MOGINI
La Badessa MANUELA CUSTER
La suora zelatrice ELENA BORIN
La maestra delle novizie FEDERICA GIANSANTI
Suor Genovieffa VITTORIANA DE AMICIS
Suor Osmina MARIA CENNAME*
Suor Dolcina MARIAPAOLA DI CARLO*
La suora infermiera LAURA CHERICI
Prima cercatrice TATIANA PREVIATI
Seconda cercatrice HYEONSOL PARK*
Le converse ANNA GROTTO*/FEDERICA FIORI*
Una novizia LAURA STELLA*
“GIANNI SCHICCHI”
Opera in un atto su libretto di Giovacchino Forzano
Gianni Schicchi ROBERTO DE CANDIA
Lauretta DARIJA AUGUSTAN
Zita MANUELA CUSTER
Rinuccio FRANCESCO CASTORO
Gherardo XIN ZHANG*
Nella VITTORIANA DE AMICIS
Betto di Signa LUCIANO LEONI
Simone MATTIA DENTI
Marco MICHELE PATTI
La Ciesca LAURA CHERICI
Maestro Spinelloccio MARCO GAZZINI*
Ser Amantio di Nicolao BRYAN SALA*
Guccio GIULIO IERMINI*
Pinellino ZHIBIN ZHANG*
Gherardino AGNESA BATRINAC/MICHELLE LAMIERI**
*Scuola dell’Opera del Teatro Comunale di Bologna
**Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Maestro del Coro di Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia Pier Francesco Maestrini
Scene Nicolas Boni
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Daniele Naldi
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con il Teatro Verdi di Trieste
Bologna, 5 luglio 2024
Il troppo spesso smembrato Trittico si ricompone a Bologna nel centenario della morte dell’Autore. La cornice che tiene insieme le tre tavole è la signorile direzione di Roberto Abbado: agile, guizzante, acuta. Mai indulge a facili patetismi, e tuttavia non trascura la finissima calligrafia melodica cui Puccini deve tanta parte del suo successo. Così da far emergere sì la graffiante qualità novecentesca della partitura, ma non con violenti contrasti di dinamiche, e senza che la qualità del suono ceda all’espressività più brusca: ma con sottile spietatezza drammatica. Il rigore lascia spazio alla poesia delle corpose composizioni timbriche orchestrali, fatte di piani sovrapposti, di una spazialità profonda. Di grande suggestione, in questo senso, l’abile uso che del video si fa nelle scene di Nicolas Boni: un immaginario dantesco alla Doré ma con una cifra dark, horror, cinematografica e decisamente presente. La regia è tante cose, ma se ce n’è una cui il regista proprio non dovrebbe rinunciare mai è essere uno che racconta una storia. E Pier Francesco Maestrini è un grande narratore, che muove protagonisti e masse con esperta sapienza. Il protagonista più protagonista è Roberto de Candia, autentica personalità vocale e teatrale, che scolpisce uno Schicchi sobrio (senza sbraitare, tanto per dirne due, “Brava la vecchia, brava!” o quei temibili “Niente!”, ancor più carichi di risentimento senza la scatarrata che taluni scambiano per espressione) ma di una tale variegata ricchezza di fraseggio che ha davvero pochi possibili paragoni, se ne ha. Festeggiatissima Chiara Isotton: dopo una Giorgetta dall’accento volitivo e dal volume impressionante, una Suor Angelica vitalissima, energica, nient’affatto sottomessa nel suo dolore, e pure dolcissima e sensibile alle sofficità dinamiche suggerite dalla buca. E così pure l’ottima Chiara Mogini, voce solida e fascinosa, ben timbrata, morbida e piena: una zia Principessa consapevole che tanto più atterrisce quanto più se ne sottolinei l’atroce femminilità. Cuore della serata, ne è forse anche il momento artisticamente più alto, e più ispirato: il duetto, l’aria e quell’intermezzo evanescente in un magico disincanto. Dalla Senna all’Acheronte, Michele o Caronte è sempre Franco Vassallo, baritono dall’accento mordace e dalla voce morbida e luminosa: qualità che fanno talora ricordare l’impareggiabile Cappuccilli. Nel suo tabarro sta il Luigi dal volume generoso di Roberto Aronica, che più del solito convince nella dolorante introiezione espressiva. Affollato com’è di una moltitudine di palpitanti figurine, il Trittico necessita, per una buona riuscita, di ottime parti di fianco. In quest’esercito militano Francesco Castoro, un Rinuccio dal timbro di resistibile seduzione ma saldo e squillante, e la sua Lauretta, Darija Augustan, interprete garbata dell’inflazionata e applaudita pagina. E per finire con lo Schicchi, vanno ancora ricordati, fra gli altri, la Zita di Manuela Custer e il Maestro Spinelloccio, ruolo brevissimo ma insidioso (quanto mai a Bologna…) di Marco Gazzini, allievo della Scuola dell’Opera del Comunale, voce sonora e ottimo attore. E se nel Tabarro spicca la voce brunita e gonfia di armonici di Cristina Melis, l’Angelica è l’occasione per ricordare, accanto al buon livello di tutta la compagnia, i meriti del Coro del Comunale, diretto da Gea Garatti Ansini, e del Coro di Voci Bianche, diretto da Alhambra Superchi. Poco s’è detto, però, dell’impostazione registica. Senz’altro intellettualmente seducente in questo dantismo che suggerisce, fra i non pochi spunti, anche qualche perplessità. Per esempio che il polilinguismo e polistilismo dei tre titoli, delle tre cantiche, si risolvano nella stessa tinta visiva piuttosto infernale. Ma in generale la sensazione è che la chiave dantesca non rischiari la struttura drammatica del Trittico, e che anzi rischi di appesantirla. Insomma le manca forse la mitica leggerezza del Cavalcanti che salta le arche. Foto Andrea Ranzi
Es ist das Heil uns kommen her BWV9, è la seconda delle 2 cantate che sono giunte a noi per la sesta domenica dopo la Trinità, realizzata in un ben precisato momento tra il 1732 e il 1735, su un testo che verosimilmente era già stato predisposto per questa domenica nel 1724, nella seconda annata di Cantate che è stata denominata “Cantate su Corale”. L’opera poi non era stata realizzata perché Bach si trovava a Kothen, assentandosi così da Lipsia. Siamo quindi nuovamente a trattare di una Cantata su Corale, in questo caso quello che da il nome alla Cantata, Es ist das Heil uns kommen her (1524) di Paul Speratus (1489-1551) di cui vengono testualmente proposte la prima e la dodicesima strofa, rispettivamente nei nr.1 e 7 , mentre i brani centrali sono di autore anonimo che vi ha liberamente trasfuso buona parte delle altre strofe del Corale. I riferimenti simbolici non mancano, conformemente al punto di partenza tratto dal Vangelo di Matteo (cap.5 vers.20-26):” Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Dio ha dato una legge, ma la sua debole creature è incapace di osservarla”. La pagina iniziale (Nr.1) è un mottetto concertato su “cantus firmus”e non si limita a prendere in considerazione quanto il lied di Speratus espone “E’ venuta a noi la salvezza per mezzo della grazia e della pura bontà”, ma sottilmente insinua 2 figurazioni tratte dagli incipit di altri 2 Corali, qui coordinati in modo di essere l’uno la risposta dell’altro:”Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ” (Ti invoco Signore Gesù Cristo) di Johann Agricola, esposto dal flauto e “Vom Himmel hoch” dal Continuo. Decisamente anomala la presenza di 3 recitativi tutti affidati al basso che con tono declamatorio esprimono concetti degni di un sermone, con uno stile esplicativo ed esortativo. Due arie “spezzano” il corso “predicatorio: la prima, bipartita, per tenore (Nr.3), concertata con un violino che sfrutta con sapienti sincopi l’inconsueto ritmo di 12/6; la seconda aria, tripartita (Nr.5) è un duetto tra soprano e contralto, con flauto traverso e oboe d’amore in canone tra loro, così come le voci che sono trattate sotto il segno di un canone, diverso da quello degli strumenti. Si configura così un doppio canone, che pur nel rigore dell’espressione contrappuntistica, conserva inalterate le qualità spiccatamente melodiche del discorso.
Nr.1 – Coro
E’ venuta a noi la salvezza
per mezzo della grazia e della pura bontà.
Le opere non possono più aiutarci
né possono proteggerci.
La fede vuole contemplare solo Gesù Cristo
che ha fatto tanto per noi,
lui è il nostro mediatore.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Dio ci ha dato la legge, ma noi siamo
troppo deboli per riuscire ad osservarla.
Ci siamo lasciati andare al peccato,
nessuno può essere chiamato giusto;
lo spirito resta incollato alla carne
a cui non osa opporsi.
Dovremmo seguire la legge
e per essa vedere come in uno specchio
la malvagità della nostra natura;
eppure non la cambiamo.
Nessuno è capace da se stesso
di abbandonare la perversione del peccato,
anche impegnandosi con tutte le sue forze.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Eravamo caduti troppo in basso,
l’abisso ci inghiottiva completamente.
Le profondità già preannunciavano la morte,
e in un tale pericolo
nessuna mano poteva soccorrerci.
Nr.4 – Recitativo (Basso)
Ma la legge doveva compiersi;
perciò la salvezza è venuta sulla terra,
il Figlio stesso dell’Altissimo l’ha adempiuta
placando la rabbia del Padre.
Per mezzo della sua morte innocente
ci ha fatto guadagnare il soccorso.
Chi ripone ora la sua fiducia in lui
e si basa sulla sua sofferenza
non sarà perduto.
Il Cielo è destinato
a chi possiede la vera fede
e tiene Gesù stretto tra le sue braccia.
Nr.5 – Aria/Duetto (Soprano, Contralto)
Signore, invece che alle buone opere,
guarda alla forza della fede nel cuore,
tieni conto solo della fede.
Solo la fede ci giustifica,
tutto il resto appare troppo inconsistente
per poterci salvare.
Nr.6 – Recitativo (Basso)
Quando tramite la legge riconosciamo
il peccato, la nostra coscienza si abbatte;
ma la nostra consolazione
è che nel Vangelo
noi ritroviamo subito
la serenità e la gioia:
ciò rafforza la nostra fede.
Attendiamo l’ora
che Dio nella sua bontà
ci ha riservato,
e che, nella sua saggezza,
ci tiene ancora nascosta.
Eppure ci accontentiamo,
egli sa quando sarà il momento
e non usa l’inganno con noi;
possiamo affidarci
e confidare in lui solo.
Nr.7 – Corale
Anche se sembra assente,
non aver paura;
quando è più insieme a noi,
tanto più non si manifesta.
Considera certa la sua parola
e se il tuo cuore sa dire solo no,
non disperare.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Ponte Lungo
IV FESTIVAL DELL’AGRO ROMANO ANTICO
dal 06 luglio al 06 ottobre 2024
Dal 6 luglio al 6 ottobre 2024 si svolgerà “Ponte Lupo, il Gigante dell’Acqua – 4° festival dell’Agro Romano Antico“. Articolata sulla periferia estrema del Municipio VI, tra le vie consolari Casilina, Prenestina e Labicana, la manifestazione porterà il pubblico a scoprire un territorio ricco di giacimenti culturali e paesaggistici, che si vuole riavvicinare al pubblico e valorizzare attraverso esperienze culturali e naturalistiche, condivise e creative nel segno della bellezza, favorendo l’inclusione e la coesione sociale, in termini anche multiculturali e interculturali. La direzione artistica è di Urbano Barberini, per la produzione esecutiva dell’associazione culturale Music Theatre International – M.Th.I. ETS in partnership con l’associazione Ponte Lupo ETS e il FAI. Il ricco programma, che prevede 19 appuntamenti, è stato strutturato attraverso una progettazione condivisa nata in seno alla rete informale e cooperante di attori che risiedono ed operano sul territorio: organizzazioni della società civile, enti del terzo settore e imprese agricole – ricettive; un network integrato che da anni si propone quale promotore del progetto pilota del distretto archeologico rurale Tiburtino-Prenestino. Le attività in programma prevedono visite guidate e incontri culturali a conversazione con artisti e scrittori, presentazioni di libri, performance musicali e reading con la partecipazione di artisti italiani stranieri, passeggiate e trekking inclusivi, laboratori del gusto e workshop per bambini e famiglie. Tra le attività anche una mappa digitale che integrerà i contenuti della “Geostoria” del territorio grazie ai contributi che saranno messi a disposizione da partner, strutture ospitanti, insegnanti e cittadini del Municipio. Questa contribuirà all’accrescimento della condivisione dinamica, a processi di reciprocità, di conoscenze ed esperienze comuni. La mappa sarà geolocalizzata, consultabile e attivabile su Smartphone – iOS o Android scaricando un Qr code. Sarà sempre disponibile gratuitamente attraverso link dal sito dell’associazione M.Th.I.. La localizzazione prevalente di svolgimento del programma è la Tenuta San Giovanni in Campo Orazio con il monumento di Ponte Lupo, luogo simbolo dell’Agro romano antico. Altri luoghi in cui si svolgeranno le attività sono l’agriturismo Casale le Giuggiole, l’azienda agricola Terre di Torre Jacova, l’azienda agricola biologica Belvedere Casale Mattia, il Birrificio Alverese, oltre alle passeggiate su itinerari alla scoperta del territorio e del Borgo di S. Vittorino e il Parco Collina della Pace. Il progetto è inserito tra le 44 Buone Pratiche Culturali della REGIONE LAZIO – DIREZIONE REGIONALE CULTURA, POLITICHE GIOVANILI E DELLA FAMIGLIA, PARI OPPORTUNITA’, SERVIZIO CIVILE – Avviso pubblico D. D. G16357 del 05/12/2023. Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico biennale “Estate Romana 2023-2024” curato dal Dipartimento Attività Culturali ed è realizzato in collaborazione con LEA e SIAE Il progetto ha il patrocinio del Consiglio del Cibo di Roma Capitale ed è gemellato con il Festival internazionale “Cerealia. La festa dei cereali. Cerere e il Mediterraneo”.
Roma, Piazza Pia
NUOVE SCOPERTE: IL PORTICO DI CALIGOLA ED I SUOI GIARDINI
Proseguono con fervore gli scavi archeologici a Piazza Pia, un’area di grande interesse storico situata lungo il Tevere a Roma. Questi lavori, avviati in vista della costruzione di un sottopasso per il prossimo Giubileo, stanno rivelando importanti testimonianze del passato imperiale della città. Recentemente, gli archeologi hanno riportato alla luce strutture che risalgono alla prima metà del I secolo d.C., tra cui spiccano i resti di un portico colonnato e di giardini lussureggianti, attribuiti all’imperatore Caligola. Uno dei ritrovamenti più affascinanti è un ampio giardino che si affacciava direttamente sul fiume Tevere, delimitato da un imponente muro di terrazzamento in opera quadrata di travertino. Lungo questo muro si addossano le fondazioni in opera laterizia di un portico colonnato, suggerendo la presenza di un’area di grande pregio e bellezza, utilizzata probabilmente come luogo di svago e rappresentanza. Prima di questi recenti ritrovamenti, era stata scoperta una fullonica ( qui il nostro articolo ) risalente alla seconda metà del II secolo d.C. Questo complesso, utilizzato come lavanderia, è sorprendentemente ben conservato e include dolia (grandi orci usati come vasche per il lavaggio dei panni) e tre vasche per il risciacquo. Gli scavi, condotti sotto la supervisione della Soprintendenza Speciale di Roma, diretta da Daniela Porro e coordinati dall’archeologa Dora Cirone, hanno permesso di documentare altre tre fasi edilizie, dall’età augustea a quella di Nerone. Di particolare rilievo è il ritrovamento di una fistula aquaria in piombo, una conduttura idrica su cui è leggibile l’iscrizione “C(ai) Caesaris Aug(usti) Germanici”. Questa iscrizione identifica chiaramente Caligola, imperatore dal 37 al 41 d.C., come il proprietario dell’approvvigionamento idrico e, per estensione, dell’intera area. Questo dato, come sottolineato dall’archeologo Alessio de Cristofaro, conferma che la zona faceva parte degli Horti di Agrippina Maggiore, madre di Caligola. La scoperta di altre fistulae in piombo a Piazza Pia, recanti il nome di Iulia Augusta (probabilmente Livia Drusilla, moglie di Augusto e nonna di Germanico), supporta l’ipotesi di una continuità di proprietà all’interno della famiglia imperiale. Tra i reperti rinvenuti vi sono anche raffinate lastre Campana della prima metà del I secolo, riutilizzate in epoca successiva per coprire fognature. Queste lastre, in terracotta e decorate con rilievi figurati e dipinti, raffigurano scene araldiche e mitologiche, suggerendo un uso originario decorativo su tetti di edifici prestigiosi. Filone di Alessandria, nel suo “De Legatione ad Gaium“, descrive dettagliatamente la sua missione a Roma, intrapresa con lo scopo di ottenere la cessazione delle persecuzioni contro gli ebrei di Alessandria. Durante questa ambasceria, Filone narra di un primo tentativo di incontrare l’imperatore Caligola, il quale, secondo il suo racconto, li salutò per la prima volta nella piana del Tevere. Questo incontro avvenne mentre Caligola usciva dai giardini ereditati dalla madre, e Filone sottolinea che l’imperatore ripeté il saluto e agitò la mano destra in segno di benevolenza. Il racconto di Filone colloca questo episodio in una zona esterna agli Horti di Agrippina, precisamente vicino a un ingresso adiacente al Tevere. Questa descrizione è di notevole interesse per gli archeologi, poiché offre una preziosa testimonianza letteraria che si allinea con i ritrovamenti materiali di Piazza Pia. Seneca, nel suo dialogo “De Ira“, fornisce un resoconto ancora più dettagliato e raccapricciante, descrivendo Caligola mentre passeggiava in un viale dei giardini di sua madre. Questo viale, secondo Seneca, divideva il portico dal fiume. Durante questa passeggiata notturna, illuminata da lucerne, Caligola ordinò l’esecuzione di alcuni individui, circondato da matrone e senatori. La descrizione di Seneca, precisa e vivida, sembra confermare la presenza di un portico e di giardini, come emerso dagli scavi di Piazza Pia, offrendo ulteriore sostanza e contesto storico ai reperti rinvenuti. Questi passi, scritti poco dopo la morte di Caligola, rivelano la sua insensibilità verso le richieste degli ebrei di Alessandria, come riportato da Filone, e la sua crudele efferatezza nei confronti dei senatori, secondo Seneca. Entrambi gli autori sottolineano in maniera chiara il legame topografico stretto tra gli Horti di Agrippina e il Tevere, un aspetto confermato dalle recenti scoperte archeologiche a Piazza Pia. Le descrizioni letterarie di Filone e Seneca sono dunque di inestimabile valore, poiché non solo illustrano la vita e le azioni dell’imperatore Caligola, ma corroborano anche le evidenze materiali rinvenute, rafforzando l’interpretazione degli Horti come un complesso residenziale e rappresentativo di grande importanza per la dinastia giulio-claudia. Le nuove scoperte a Piazza Pia gettano luce su un segmento del paesaggio urbano imperiale romano, svelando un pezzo del mosaico storico che intreccia architettura, potere e vita quotidiana lungo le sponde del Tevere. Le scoperte a Piazza Pia non solo ampliano la nostra conoscenza della topografia e dell’architettura di Roma imperiale, ma evocano anche le atmosfere lussuose e a tratti inquietanti della vita di corte. Il portico di Caligola, con i suoi giardini affacciati sul Tevere, rappresenta un tassello prezioso nel mosaico storico della città eterna, rivelando la complessità e la continuità delle proprietà imperiali attraverso le generazioni. Photocredit Ufficio Stampa e Comunicazione MiC
Roma, Teatro di Tor Bella Monaca
MATRIMONIO ED ALTRE CATOSTROFI
di N.L. White
diretto e interpretato da Alessandra Mortelliti e Luca Ferrini
Alt Academy Produzioni
Roma, 05 luglio 2024
Il Teatro di Tor Bella Monaca ha dato il via alla sua stagione estiva con un’esplosione di umorismo e vivacità grazie allo spettacolo “Matrimonio ed altre catastrofi”. Una casa, una suocera, un party, una moglie stravagante e un marito annoiato: questi sono gli ingredienti di una routine matrimoniale che, lontana dalla passione, sembra destinata a implodere ed esplodere allo stesso tempo a causa di una piccola, ma significativa svista. Questa svista diventa la scintilla di una macchina comica che travolge, con battute esilaranti e ritmi frenetici, un ménage matrimoniale logorato ma tenace. Adattato e diretto da Alessandra Mortelliti e Luca Ferrini dall’opera di N.L. White, “Matrimonio ed altre catastrofi” è una pièce di parola che brilla per i suoi tempi comici perfettamente calibrati e una regia che valorizza al massimo le performance degli attori. La direzione dei due, anche protagonisti in scena, permette allo spettacolo di coinvolgere attivamente il pubblico, rendendolo dinamico, vibrante e caratterizzato da un ritmo ininterrotto e “involontariamente” interattivo. La chiave della leggerezza è centrale, riuscendo a strappare risate naturali e spontanee che, però, portano con sé frecciate taglienti sui rapporti umani contemporanei. La commedia riflette con ironia su come siano oggi le relazioni interpersonali, toccando corde profonde e veritiere. La scelta scenografica è particolarmente degna di nota. Il palcoscenico utilizza una gamma cromatica essenziale: il bianco e il nero dominano la scena, simboleggiando la dualità dei protagonisti e preannunciando, anche visivamente, una sorta di complementarietà elettiva e inaspettata . L’unica eccezione è rappresentata dagli oggetti colorati associati a un personaggio mai presente fisicamente, la madre di Agata. Questo contrasto cromatico non è solo estetico, ma assume un potente significato simbolico, evidenziando il passaggio dal “troppo pieno” al “vuoto”, metafora visiva dei cambiamenti e delle transizioni che i personaggi attraversano. Alessandra Mortelliti si distingue per un talento che va oltre la semplice interpretazione. Riesce a sentire i personaggi, arricchendoli con espressioni e toni che rivelano una profonda esperienza e un autentico contatto con il suo mondo interiore. La sua recitazione è caratterizzata da una realtà intensa, priva di eccessi o forzature, combinando simpatia e ironia in modo naturale, una dote non comune. Accanto a lei, Luca Ferrini dimostra grande disinvoltura, padroneggiando i tempi e gli accenti del racconto con naturalezza. La loro collaborazione è straordinaria, evidenziando una sintonia perfetta che rende la performance coesa e coinvolgente. Il duo Mortelliti-Ferrini offre al pubblico un’esperienza teatrale assolutamente autentica grazie alla loro affiatata complicità e al loro straordinario talento interpretativo. “Matrimonio ed altre catastrofi” rappresenta un promettente esordio per la stagione estiva del Teatro di Tor Bella Monaca, capace di intrattenere con intelligenza e vivacità, segnando un inizio all’insegna del buon umore e della qualità teatrale.
Johan Joachim Agrell (1701–1765): Sinfonia in D-major, SheA 111345; Sinfonia in B-flat major op. 1:4, SheA 551533; Sinfonia in E-flat major, SheA 131511; Sinfonia in C-major, SheA 531531; Sinfonia in D-major, SheA 135175; Sinfonia in D-major, SheA 171111. Drottningholm Baroque Ensemble. Nils-Erik Sparf (Concertmaster). Registrazione: 4-6 luglio 2021 presso Musikaliska, Stoccolma, Svezia. 1CD Swedish Society Discography SCD1189
Poco conosciuto oggi, Johan Joachim Agrell (1701–1765) fu, invece, il compositore svedese che conseguì maggiore fama a livello internazionale presso i contemporanei tanto che Leopold Mozart inserì una delle sue composizioni per tastiere nel famoso “Nannerl Notenbuch”. Nato nel 1701 a Löt, nella provincia di Östergötland da un pastore della Chiesa Luterana di Svezia, dopo aver studiato in patria, nel 1723 fu letteralmente scoperto da Massimiliano di Hessen che ebbe modo di apprezzarlo in occasione di un concerto tenuto nella città di Uppsala dove il giovane compositore studiava diritto. Entrato al servizio di Massimiliano, alla cui corte ebbe modo di conoscere compositori come Fortunato Chelleri, Pietro Locatelli e Johann Sebastian Bach, nel 1737 passò al servizio del Mangravio Guglielmo VIII presso il quale patì gravi ristrettezze economiche dovute al fatto che non gli furono corrisposte le somme di denaro dovute per il suo incarico. Nel 1746 si trasferì, quindi, a Norimberga dove fu Kapellmeister e direttore dei cori presso la Frauenkirche e dove sarebbe morto nel 1765 nonostante nel 1751 avesse tentato di ritornare in patria offrendo i suoi servigi al nuovo re di Svezia, al quale aveva dedicato la pubblicazione delle sue Sei sonate per cembalo. Nella ricca e varia produzione di Agrell, purtroppo in gran parte perduta, rivestono una certa importanza i 35 concerti solistici, un considerevole numero di lavori da camera, composizioni per strumenti a tastiera e soprattutto le 25 Sinfonie alle quali appartengono le sei che costituiscono il programma di questa proposta discografica della Swedish Society Discography. Generalmente, in tre movimenti, eccezion fatta per la Sinfonia in re maggiore (SheA 135175), che con i suoi sei movimenti, assomiglia più a una suite, e alle altre due Sinfonie in re maggiore (SheA 111345) e (SheA 171111), queste sinfonie costituiscono la testimonianza di un periodo di transizione che porterà, poi, alla stabilizzazione formale di questo genere nel periodo classico. Sono in generale lavori di un ottimo mestiere, nel quale sono evidenti una solida padronanza delle tecniche compositiva e una discreta vena melodica. Ottima l’esecuzione da parte della Drottningholm Baroque Ensemble guidata da Nils-Erik Sparf (Concertmaster) che affronta queste partiture con senso dello stile e solida professionalità, riportandole così alla luce e sottraendole all’oblio nel quale erano cadute.