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Musica corale

Sabina Puértolas – Rubén Fernández Aguirre: “Los cisnes en palacio”

gbopera - Sab, 08/02/2025 - 08:27

Emilio Arrieta: “¡Pobre Granada!”, “La niña abandonada”, “La primavera”, “Serenata morisca”, La Sombra”, “La niña sola”, “La rimembranza”, “A te!”, “Il desiderio”, “A sera”, “In morte di una bambina”, “Il sospiro”; Alberto García Demestres: “Los cisnes en palacio”. Sabina Puértolas (soprano), Rubén Fernández Aguirre (pianoforte). Registrazione: Auditorio Manuel de Falla, Granada, 6-9 giugno 2022. 1 CD IBS Artist IBS722023.
E’ un doppio omaggio a Emilio Arrieta (1821–1894) quello qui proposto dal soprano Sabina Puértolas e dal pianista Rubén Fernández Aguirre. Un omaggio diretto rappresentato dalle dodici romanze per canto e pianoforte del compositore Navarro, sei su testi spagnoli e sei in italiani – tra gli autori di questi troviamo due volte anche Felice Romani – e indiretto con la cantata “Les cisnes en Palacio” del compositore contemporaneo catalano Alberto García Demestres dedicata allo stesso Arrieta.
Arrieta è stato forse il più popolare operista spagnolo della seconda metà del XIX secolo, autore non solo di zarzuelas ma anche di autentica opere liriche secondo modelli italiani e francesi quali “Marina” – forse il suo titolo più noto, “Ildegonda”, “La conquista di Granada” (le ultime due su libretto di Solera).
La formazione teatrale di Arrieta è palese anche nelle composizioni cameristiche. Lo stile vocale è quello dell’opera italiana, il modello verdiano e palese ma non mancano neppure influenze della generazione precedente, quella di Bellini e Donizetti – in tal senso non è casuale la scelta di Romani tra gli autori dei testi – unita a una raffinatezza di tocco francese. La scrittura pianistica è ancora più influenzata dai modelli francesi e nelle composizioni più tardi assume tratti liquidi quasi impressionisti.
I brani spagnoli tradiscono una sensibilità analoga, qualche concessione folklorica non manca – si sentano i melismi arabeggianti di gusto andaluso in “¡Pobre Granada!” e soprattutto nelle breve ma deliziosa “Serenata Morisca” – su testo di José Zorilla – ma appare sempre letta attraverso gli occhi di una scrittura colta e raffinata, che rilegge la tradizione spagnola con uno sguardo forse più francese che autoctono e che sfiora un certo esotismo salottiero molto parigino. Una visione in forse naturale per il navarro Arrieta che era nato e cresciuto in una terra a cavallo tra quei due mondi. E’ proprio in uno dei brani spagnoli – “La primavera” – che la scrittura pianistica di Arrieta raggiunge uno dei suoi picchi di liquidità.
I brani italiani possono sembrare al riguardo più convenzionali nell’esplicito richiama al una tradizione formale ben definita e tradiscono una concezione decisamente teatrale e operistica.
La seconda parte del programma è dedicata alla Cantata di Demestres. Si tratta di una composizione in sette movimenti – di fatto sette romanze strutturalmente fuse in un ciclo unitario – su testi di Antonio Carvajal. Protagonista è Isabella II di Borbone che di Arrieta era stata mecenate e amante. La vicenda del compositore è così rivista attraverso gli occhi della donna innamorata tra abbandono passionale e profonda delusione quando Arrieta nel 1868 aderirà ai moti rivoluzionari contro i Borbone, scrivendo anche un nuovo inno nazionale per la repubblica che Demestres cita direttamente prima dell’ultimo grido disperato di Isabella, tradita come donna e come regina.
La scrittura vocale è tradizionale. Demestres guarda all’opera italiana verdiana, con qualche squarcio melodico da giovane scuola, verrebbe da dire “pucciniano”, unita a una scrittura pianistica francesizzante in cui su un andamento molto tradizionale di nota qualche eco di Novecento storico più vicino alle esperienze francesi che al rigore serialista. Vocalmente la scrittura è impegnativa, la tessitura è ampia complessa e richiede un perfetto controllo tecnico di tutte le componenti fino a rapidi passaggi di coloratura. La Puértolas è semplicemente perfetta. La voce è ricca di armonici, robusta, bella come timbro e colore e la lunga frequentazione del repertorio barocco e classica le permette di superare con assoluto naturalezza i passaggi di bravura. Interprete sensibile e raffinata si dimostra perfettamente a suo agio nella ricca gamma di espressioni che Demestres chiede alla protagonista che passa dalla cupa rassegnazione a una gioia quasi infantile ed estatica – En Aranjuez los cisnes dan lección de pureza – fino al disperato grido finale – Abajo los Borbones oigo que gritas/ yo, que fui la Borbona de tus quereres.
La stessa raffinatezza interpretativa caratterizza le romanze di Arrieta, non così estreme vocalmente ma di certo più impegnative sul terreno vocale di quanto ci si aspetti da composizioni da camera. Nei brani italiani si nota una dizione coatruita e non così nitida come si vorrebbe. Fernández Aguirre accompagna splendidamente il canto. Un tocco raffinato e una perfetta sintonia espressiva con questo repertorio contribuiscono alla perfetta riuscita della registrazione.

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Roma, Teatro Vascello: “Bocconi Amari – Semifreddo”

gbopera - Ven, 07/02/2025 - 22:42

Roma, Teatro Vascello
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO
Scritto e diretto da Eleonora Danco
con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana, Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli
Costumi Massimo Cantini Parrini 
Assistente costumi  Jessica Zambelli
Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini
Luci Eleonora Danco
Musiche scelte da Marco Tecce
aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti
regia Eleonora Danco
produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.
“Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila.” – Giordano Bruno
La scena si apre su una casa che è un acquario, uno spazio di convivenza forzata dove i personaggi si osservano e si sbranano a vicenda. Eleonora Danco, autrice, regista ed interprete , orchestra un dispositivo scenico che, nell’estetica del frammento, compone una sinfonia emotiva in due movimenti. Il primo atto, “Bocconi Amari“, parla di una famiglia che si ritrova per un pranzo. Come accade in molte famiglie, quando sono in casa regrediscono a comportamenti infantili: si picchiano, si aggrediscono, i fratelli sono in competizione. Il testo si agita di tensioni domestiche, battute affilate come coltelli che incidono la memoria, rivelando cicatrici e ferite ancora fresche. La tavola diventa un’arena, il cibo un pretesto per riaprire vecchie ferite, e ogni battuta si trasforma in un dardo avvelenato che colpisce nel profondo. Il secondo atto, “Semifreddo“, i personaggi invecchiano perdendo intonaco come un muro che si sgretola, simbolo della vecchiaia come progressivo sbriciolarsi. Il secondo atto si muove su un doppio binario temporale, un’eco che ritorna in un gioco di luci e dissolvenze, tra passato e presente, tra la farsa e il dramma. La giovinezza viene evocata attraverso gesti e frammenti di dialogo che si sovrappongono alla condizione attuale dei protagonisti, evidenziando il contrasto tra la vitalità del passato e la decadenza del presente. Eleonora Danco porta in scena un teatro profondamente personale e sperimentale, in cui è al contempo interprete, autrice e regista. Il suo linguaggio scenico fonde teatro di ricerca, fisicità esasperata e suggestioni cinematografiche, dando vita a un’esperienza che oscilla tra il grottesco e il lirico. Il corpo è il fulcro della narrazione: gli attori non si limitano a recitare, ma abitano la scena in uno stato di tensione continua, i loro movimenti sono acrobatici, spezzati, quasi disarticolati, restituendo un senso di disagio esistenziale e di conflitto con la realtà circostante. Gli interpreti, in particolare la stessa Eleonora Danco e Orietta Notari, restituiscono con una potenza rara la trasformazione della materia umana nel tempo, in bilico tra giovinezza ed esaurimento, tra energia e disincanto. Federico Majorana e Beatrice Bartoni sostengono con rigore il contrappunto emotivo, mentre Lorenzo Ciambrelli porta in scena una fragilità che sa farsi detonazione. Il linguaggio si muove tra un realismo crudo e una dimensione poetica, in cui il parlato diventa ritmo sincopato, quasi musicale, scandito da ripetizioni ossessive e sprazzi di feroce ironia. La scenografia di Francesca Pupilli e Mario Antonini è minimale e simbolica: pochi elementi evocano stati d’animo e dinamiche familiari irrisolte, trasformando lo spazio in un territorio di battaglia psicologica. L’assenza di strutture complesse e stratificate diventa allora un elemento drammaturgico: il vuoto della stanza rispecchia il vuoto interiore dei protagonisti, mentre l’ombra dei ricordi si proietta sulle pareti nude. La direzione registica mescola elementi teatrali e cinematografici, con flash, dissolvenze e scene che sembrano quadri in movimento, amplificando il senso di straniamento e di sovrapposizione tra i piani temporali. Il montaggio scenico è frammentato, onirico, spezzato da momenti di pura fisicità che esplodono in contrasti violenti e commoventi: il corpo si fa verbo, il suono diventa immagine, il tempo non è lineare ma si sovrappone e stratifica e costruisce un’architettura di relazioni che si sfaldano e si riformano, trasformando il dramma familiare in una partitura universale, dove il gesto e la parola si rincorrono in un flusso ininterrotto. C’è un che di beckettiano nel disfacimento dell’identità e nel senso di ineluttabilità che avvolge i protagonisti. Ma c’è anche una visceralità tutta italiana, un realismo visionario che trova nella danza teatrale della Eleonora Danco la sua più alta espressione. L’ultimo quadro è un vortice emotivo in cui i personaggi, ormai privi di difese, si mostrano nella loro nuda vulnerabilità. Le voci si sovrappongono in un crescendo di tensione e disperazione, finché la scena si spegne su un’ultima, lacerante immagine: un padre che, come un Re Lear moderno, rimane solo con il suo trono di assenze.  Quando le luci si riaccendono in sala, il pubblico rimane sospeso per un istante. Poi esplode l’applauso, lungo, incessante, carico di un’energia quasi catartica. Qualcuno si alza in piedi, altri restano fermi, scossi dalla violenza emotiva della pièce. Un teatro che travolge, scuote, e alla fine lascia il pubblico in bilico tra catarsi e vertigine.

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Roma, Teatro dell’Opera: “Lucrezia Borgia” dal 16 al 23 febbraio 2025

gbopera - Ven, 07/02/2025 - 19:52

Roma, Teatro dell’Opera
LUCREZIA BORGIA
Il Teatro dell’Opera di Roma inaugura il mese di febbraio con un nuovo allestimento di Lucrezia Borgia, capolavoro donizettiano che coniuga dramma e bellezza musicale in una delle opere più intense e appassionanti del repertorio belcantistico. Tratta dall’omonima tragedia di Victor Hugo, questa produzione si avvale della direzione musicale di Roberto Abbado e della regia di Valentina Carrasco, che promette di esplorare con sensibilità e innovazione le sfumature tragiche e psicologiche dell’enigmatica protagonista. L’iconica figura di Lucrezia Borgia, tra potere e destino, sarà interpretata dalle soprano Lidia Fridman e Angela Meade, due voci di caratura internazionale capaci di rendere appieno la complessità di un personaggio diviso tra il suo passato di donna di potere e il suo amore materno per Gennaro, affidato alle voci di Enea Scala e Michele Angelini. Accanto a loro, il ruolo del duca Alfonso I d’Este sarà interpretato da Alex Esposito e Carlo Lepore, mentre Maffio Orsini, fedele compagno di Gennaro, vedrà alternarsi Daniela Mack e Teresa Iervolino. Un cast di grande spessore che include anche Raffaele Feo nel ruolo di Jeppo Liverotto, Arturo Espinosa come Don Apostolo Gazella, Alessio Verna nei panni di Ascanio Petrucci, Eduardo Niave in quelli di Oloferno Vitellozzo, Roberto Accurso come Gubetta, Enrico Casari nel ruolo di Rustighello, Rocco Cavalluzzi come Astolfo e Giuseppe Ruggiero e Michael Alfonsi come usciere. La regia di Valentina Carrasco, nota per la sua capacità di rileggere con originalità le grandi opere del repertorio, offrirà una visione contemporanea di Lucrezia Borgia, mettendo in luce la dimensione politica e psicologica della protagonista. L’impianto scenografico di Carles Berga e i costumi di Silvia Aymonino contribuiranno a costruire un’ambientazione affascinante, esaltata dalle luci di Marco Filibeck. Il tutto sarà sostenuto dalla maestria dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato dal Maestro Ciro Visco. Composta nel 1833, Lucrezia Borgia è una delle opere più affascinanti di Gaetano Donizetti, con una partitura che alterna momenti di lirismo struggente a pagine di grande virtuosismo vocale. Il dramma della protagonista, segnata da un passato di intrighi e vendette, si snoda in un crescendo di tensione emotiva, fino a culminare in un epilogo di rara intensità. Un capolavoro che continua ad affascinare il pubblico per la sua straordinaria forza teatrale e musicale. Le recite si terranno il 18, 19, 20, 21, 22 e 23 febbraio 2025 presso il Teatro dell’Opera di Roma. Per informazioni e biglietti, è possibile visitare il sito www.operaroma.it o contattare il teatro ai seguenti recapiti: info@operaroma.it, +39 06 481601. Per la stampa, l’Ufficio Stampa del Teatro dell’Opera di Roma è disponibile all’indirizzo press@operaroma.it o al numero +39 06 48160211.

 

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Napoli, Teatro di San Carlo: “Romeo et Juliette di C. Gounod” dal 15 al 25 febbraio 2025

gbopera - Ven, 07/02/2025 - 19:27

Napoli, Teatro di San Carlo
ROMEO ET JULIETTE
di Charles Gounod
Il Teatro di San Carlo si prepara ad accogliere uno degli appuntamenti operistici più attesi della stagione: Roméo et Juliette, capolavoro lirico di Charles Gounod, in scena nella sua incantevole cornice partenopea. Un’opera intensa, avvolgente, che sublima il dramma shakespeariano in una partitura vibrante di lirismo e passione, interpretata da un cast di livello internazionale. Sotto la direzione del maestro Sesto Quatrini, al suo debutto sul prestigioso podio del San Carlo, e con la regia raffinata di Giorgia Guerra, questa produzione si annuncia come un trionfo visivo e musicale. A dare vita agli amanti di Verona saranno due voci d’eccezione: il soprano Nadine Sierra nel ruolo di Juliette e il tenore Javier Camarena nei panni di Roméo, entrambi acclamati per la loro straordinaria sensibilità interpretativa e il virtuosismo vocale. Ad arricchire il cast, un ensemble di artisti di primo piano: Gianluca Buratto sarà Frère Laurent, Alessio Arduini interpreterà Mercutio, Caterina Piva sarà Stéphano, mentre Mark Kurmanbayev debutterà al San Carlo nel ruolo di Capulet. Nei panni del feroce Tybalt si esibirà Marco Ciaponi, mentre Annunziata Vestri darà voce a Gertrude. Il Duca di Verona sarà interpretato da Yunho Kim, e completano il cast Antimo Dell’Omo (Pâris), Sun Tianxuefei (Benvolio) e Maurizio Bove (Gregorio). Le scene evocative, firmate da Federica Parolini, trasporteranno il pubblico in una Verona sospesa tra sogno e tragedia, arricchite dai sontuosi costumi di Lorena Marín e da un raffinato disegno luci curato da Fiammetta Baldiserri. Fondamentale anche l’apporto innovativo dei video di Imaginarium Studio, che contribuiranno a immergere gli spettatori in una narrazione dinamica e coinvolgente. L’opera, che rappresenta uno dei vertici del repertorio lirico francese, viene presentata in una produzione di ABAO Bilbao Opera e Ópera de Oviedo, garanzia di qualità artistica e di un allestimento di grande suggestione. Il Coro e l’Orchestra del Teatro di San Carlo, diretti dal maestro del coro Fabrizio Cassi, daranno ulteriore profondità e maestosità a questa edizione. Un evento imperdibile, capace di unire tradizione e innovazione, portando in scena il più grande amore della letteratura con l’energia e l’eleganza della grande opera. Il Teatro di San Carlo si conferma ancora una volta culla dell’arte e palcoscenico d’eccellenza per le grandi produzioni internazionali. Per ulteriori informazioni, biglietti e prenotazioni, si invita il pubblico a visitare il sito ufficiale del Teatro di San Carlo o a contattare la biglietteria.

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Milano, Teatro alla Scala: “Die Walküre” dal 5 al 23 febbraio 2025

gbopera - Ven, 07/02/2025 - 17:11

Milano, Teatro alla Scala
DIE WALKURE
Riprende alla Scala la Tetralogia wagneriana iniziato lo scorso novembre con “Das Rheingold”. Dal 5 al 23 febbraio va in scena la prima giornata del ciclo “Die Walküre” l’opera che nella mitopoietica wagneriana segna la scoperta meravigliosa e terribile dell’umanità dopo il mondo divino del prologo. Il più passionale e diretto tra i titoli della Tetralogia – e forse il più amato almeno dal pubblico italiano – vedrà alternarsi sul podio Simone Young (5, 9 e 12 febbraio) e Alexander Soddy (15, 20 e 23 febbraio), una staffetta che è ormai diventata una delle cifre caratterizzanti questo Ring dopo la rinuncia di Christian Thielemann. La regia è affidata – per tutto il ciclo – allo scozzese David McVicar affiancato da Hanna Postlethwaite (scene) e Emma Kingsbury (costumi) in una produzione nel segno del fantastico che reinterpreta le iconografie della tradizione wagneriana alla luce della moderna cultura fantasy. Il cast è composto da specialisti assoluti di questo repertorio. Tra gli interpreti del prologo ritroviamo la coppia divina composta dal Wotan di Michael Volle e dalla Fricka di Okka von der Damerau. Il personaggi umani saranno interpretati da Klaus Florian Vogt (Siegmund), Elza van den Heever (Sieglinde) e Günther Groissböck (Hunding). Il gruppo delle Valchirie è capitanato da Camilla Nylund (Brünnhilde) affiancata da Olga Bezsmertna (già apprezzata Freja in “Das Reinhgold”), Caroline WenborneKathleen O’MaraStephanie HoutzeelEva VogelVirginie VerrezEglė Wyss e Freya Apffelstaedt. Le recite inizieranno alle ore 18:00 (le domenicali del 9 e 23 febbraio alle ore 14:30) con una durata prevista di 4 ore e 42 minuti circa inclusi intervalli. Un’ora prima dell’inizio di ogni recita, presso il Ridotto dei Palchi “A. Toscanini”, si terrà una conferenza introduttiva all’opera tenuta da Liana Püschel. Il ciclo proseguirà con “Siegfried” a giugno 2025 e “Götterdämmerung” a febbraio 2026. A inizio marzo 2026, in occasione dei 150 anni dalla prima esecuzione del 1876, la Tetralogia sarà ripresa per due cicli interi, ciascuno racchiuso nell’arco di una settimana, così come desiderava il suo autore Richard Wagner. La rappresentazione del 12 febbraio sarà trasmessa in live streaming sulla piattaforma LaScalaTv a partire dalle 17:45. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Chiesa di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni: ” Grande Apertura Inaugurale”

gbopera - Gio, 06/02/2025 - 18:35

Roma, Chiesa di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni
GRANDE APERTURA INAUGURALE
Un nuovo capitolo si è aperto per la chiesa di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni, autentico gioiello del barocco romano, che ha riacquistato il suo splendore grazie a un attento intervento di restauro. L’inaugurazione ufficiale ha visto la partecipazione dell’Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, S.E. Florence Mangin, figura di raffinata cultura e instancabile promotrice del dialogo tra Francia e Italia, che ha sottolineato l’importanza di questo luogo non solo come punto di riferimento per la comunità francese a Roma, ma anche come simbolo della reciproca influenza tra i due Paesi. Non è un caso che proprio sotto il suo impulso si moltiplichino le occasioni di valorizzazione del patrimonio artistico francese nella capitale. Nel solco di un’ambasciata che si distingue per il dinamismo delle sue iniziative culturali, l’Ambasciatrice Mangin ha sostenuto con forza la riapertura di questo spazio sacro, testimone di una lunga storia di connessioni e scambi tra Roma e la Francia. La sua azione si inserisce in una visione che non si accontenta di proteggere il passato, ma lo rende parte di un presente vivo, aperto alla città e ai suoi visitatori. Costruita tra il 1728 e il 1731 dall’architetto Antoine Dérizet, la chiesa sorge in Piazza San Silvestro e rappresenta una delle cinque chiese storiche francesi nella capitale. Voluta dalla comunità borgognona residente a Roma, nacque con l’obiettivo di offrire un luogo di culto ai mercanti, artigiani e pellegrini provenienti dalla Borgogna, una delle regioni storicamente più legate alla città eterna. Il progetto architettonico, caratterizzato da una pianta ellittica e da una facciata elegante e sobria, riflette l’influenza del tardo barocco romano, mentre gli interni, riccamente decorati con stucchi dorati e affreschi, sono un omaggio alla maestria artistica dell’epoca. Oggi, dopo un lungo periodo di chiusura, l’edificio è tornato a essere un luogo di culto e di incontro, grazie all’impegno dei Pii Stabilimenti della Francia a Roma e a Loreto, che ne hanno promosso il restauro. Un intervento meticoloso ha restituito ai dipinti murali, agli stucchi e ai marmi la loro luminosità originaria, riportando alla luce le dorature e i dettagli architettonici con una cura che si avvicina alla filologia della materia. Anche le vetrate, ora restaurate, permettono di apprezzare la luce naturale in tutto il suo valore, mentre un nuovo sistema di illuminazione esalta le ricchezze artistiche della chiesa. L’adeguamento degli impianti elettrici e la rimozione dei vecchi sistemi di riscaldamento hanno inoltre migliorato la fruibilità degli spazi, garantendo una maggiore armonia con la struttura storica. Nel corso della cerimonia inaugurale, l’Ambasciatrice ha voluto sottolineare come il restauro di San Claudio e Sant’Andrea non sia solo un atto di conservazione, ma un rinnovamento del legame profondo che unisce la Francia a Roma, un gesto che testimonia il desiderio di rendere accessibile il proprio patrimonio e condividerlo con la città. È un impegno che attraversa gli anni e le istituzioni, rafforzato da iniziative che vedono la Francia sempre più protagonista nella vita culturale romana. Con la riapertura della chiesa, la comunità francese a Roma ritrova un punto di riferimento fondamentale per la sua vita religiosa e culturale. La cerimonia ha visto la partecipazione di numerosi esponenti del mondo diplomatico e culturale, oltre alla presenza dell’Amministratore dei Pii Stabilimenti della Francia a Roma e a Loreto, Frère Renaud Escande, o.p., che ha ribadito il valore spirituale e storico di questo luogo. In questa occasione, è stata inoltre presentata l’associazione degli “Amici di Sant’Andrea e San Claudio dei Borgognoni”, nata con l’obiettivo di rafforzare il legame tra la chiesa e la regione della Borgogna-Franca Contea. Nel cuore di Roma, accanto al fermento della città moderna, questa chiesa rinnovata si affaccia nuovamente sul presente, con la consapevolezza di chi sa che la memoria è un’architettura in continua trasformazione. La riapertura di San Claudio e Sant’Andrea dei Borgognoni è la dimostrazione che la storia non è mai un atto concluso, ma un racconto che si rinnova attraverso gesti concreti, come il restauro, e attraverso la volontà di chi, come l’Ambasciatrice Mangin, vede nell’arte e nella cultura un ponte imprescindibile tra i popoli. @photocredit Pierluca Ferrari

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Roma, Teatro Parioli Costanzo: “La Commedia” dal 12 al 23 febbraio 2025

gbopera - Gio, 06/02/2025 - 18:14

Roma, Teatro Parioli Costanzo
LA COMMEDIA
con Ale e Franz
scritto da Francesco Villa, Alessandro Besentini, Alberto Ferrari e Antonio De Santis
regia Alberto Ferrari
e con Rossana Carretto e Raffaella Spina
Organizzazione Carmela Angelini
Produzione esecutiva Michele Gentile
Due uomini di mezza età. L’incontro causale in un parco. I soliti discorsi di circostanza che lentamente prendono forma e confluiscono in un unico argomento: l’amore. Questa emozione che non invecchia mai. La più libera, la più vera, la più profonda delle passioni. Il sentimento, per eccellenza, quello da vivere senza limiti o barriere, di alcun tipo. L’amore che mantiene sempre giovani, che arriva a qualunque età. L’amore con la A maiuscola! Una trepidazione che è impossibile controllare, perché, al cuor non si comanda, mai! Però…Quando dai bei discorsi si passa alla realtà, le cose cambiano…e non poco. “Comincium la commedia” scritto da Ale Franz ed Alberto Ferrari, che ne firma anche la regia. Un evolversi di eventi e situazioni che si susseguono, costruendo certezze e ribaltandone un attimo dopo, togliendo ogni punto di riferimento agli spettatori e ai protagonisti in scena. Sul palco Ale Franz, accompagnati da Rossana Carretto e Raffaella Spina, artefici di un intreccio esplosivo di risate, colpi di scena e reazioni comiche a catena, in uno spettacolo che come sempre parla di noi, parte da noi e racconta di noi, come se fossimo davanti a uno specchio. Uno spettacolo scoppiettante, leggero e divertente perché, di ridere, non ci stanca mai… proprio come di amare. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Musei Capitolini: “I Farnese nella Roma del Cinquecento. Origini e fortuna di una collezione” dal 11 febbraio al 18 maggio 2025

gbopera - Gio, 06/02/2025 - 10:51
Musei Capitolini,  Villa Caffarelli
I FARNESE NELLA ROMA DEL CINQUECENTO. ORIGINI E FORTUNA DI UNA COLLEZIONE
L’esposizione, curata da Chiara Rabbi Bernard e Claudio Parisi Presicce, è dedicata alla collezione Farnese, massima espressione del collezionismo erudito, sostenuto da papa Paolo III (1534-1549) e dai suoi nipoti. La mostra, allestita ai Musei Capitolini, Villa Caffarelli, è organizzata in collaborazione con Civita Mostre e Musei e Zètema Progetto Cultura. Il progetto espositivo scaturisce da una riflessione sull’incidenza avuta sulla città di Roma da Papa Paolo III Farnese alla vigilia del Giubileo del 1550. Al pontefice si devono alcuni significativi interventi sulla città, tra cui la monumentalizzazione della Piazza del Campidoglio, affidata al genio di Michelangelo. In mostra sono presentate opere riconducibili al momento di maggior splendore della Collezione, che va dai primi decenni del XVI scolo fino all’inizio del successivo, che comprendono oltre cento capolavori (dipinti, sculture antiche, bozzetti, disegni, manoscritti), provenienti principalmente dal Museo Nazionale Archeologico di Napoli, dal Museo di Capodimonte, dalla Biblioteca Nazionale e da altre collezioni italiane e straniere, tra cui la J. P. Morgan Library di New York. Un’attenzione particolare è riservata all’evocazione di alcuni degli ambienti più rappresentativi di Palazzo Farnese a Campo dei Fiori, magnifica residenza della famiglia, come la Galleria dei Carracci e la sala dei Filosofi. Un ulteriore focus riguarda la figura di Paolo III e gli intellettuali che gravitavano intorno alla sua corte. Qui per tutte le informazioni.
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Napoli, Teatro Bellini: “Orpheus Groove” dal 11 al 16 febbraio 2025

gbopera - Gio, 06/02/2025 - 10:30

Napoli, Teatro Bellini
ORPHEUS GROOVE
ideazione, scrittura scenica, regia Annalisa D’Amato
drammaturgia Elvira Buonocore e Annalisa D’Amato
con Andrea de GoyzuetaJuliette JouanSavino PaparellaStefania ReminoAntonin Stahly
musiche Annalisa D’Amato e Antonin Stahly
scenografia Simone Mannino
costumi Giuseppe Avallone
sound design Tommy Grieco
luci Cesare Accetta
assistente alla regia Maria Chiara Montella
consulente alla teoria musicale Massimiliano Sacchi
distribuzione per la Francia Laure Duqué
foto di scena Mikaël Lubtchansky
produzione Ente Teatro Cronaca (Italia), Fondazione teatro di Napoli – Teatro Bellini (Italia), Compagnie D’Amato Stahly (Francia), Théâtre Molière- Sète, Scène nationale archipel de Thau (Francia), Fondazione Campania dei Festival (Italia)
progetto sostenuto dal Ministère de la Culture – Direction régionale des affaires culturelles d’Île-de-France, Parigi (Francia)
con il sostegno in residenza di creazione la vie brève – Théâtre de l’AquariumLa CartoucherieLe PavillonRomainville, (Francia), Research Institute of Philosophy and Music, Londra (Regno Unito), La Maison Folie de Wazemmes, Lille, (Francia), Culture Moves Europe – Goethe Institute – Creative Europe Program con l’aiuto alla ricerca Boarding Pass Plus – Direzione Generale dello spettacolo del Ministero della Cultura (Italia) e con la partecipazione del Jeune Théâtre National (Francia)
ringraziamenti Robert Brewer YoungThomas Perriau-BébonBruna Bonanno
La sorprendente figura di Orpheus Shivandrim, eclettico fisico del suono, musicista e poeta, ci conduce dentro un laboratorio di ricerca. Qui, un team di scienziati conduce studi sul suono allo scopo di riarmonizzare la vibrazione degli Esseri Umani e della Terra che si sta drammaticamente affievolendo. Un progetto mirabolante che parte da un assunto reale: esiste una condizione globale, un malessere che ci riguarda tutti. E un obiettivo cruciale: come fare a stare bene? Come curare questo mondo troppo offeso? Una donna, in particolare, si staglia al centro della narrazione. A lei si affidano tutte le istanze di rinascita. Mescolando le altezze dei grandi compositori alle più piccole fragilità dell’essere umano, la guida orfica conduce lo spettatore lungo un viaggio iniziatico di cura e svelamento del sé e della propria voce.

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Staatsoper Stuttgart: “Igrok” (Il Giocatore) di Prokofiev

gbopera - Gio, 06/02/2025 - 08:55
Staatsoper Stuttgart, Stagione 2024/25 “IGROK” (Il Giocatore) Opera in quattro atti e sei scene, libretto proprio, dal romanzo omonimo di Fjodor Dostojewski Musica di Sergej Prokofiev Polina AUSRYNE STUNDYTÉ Il Generale GORAN JURIČ Alexej DANIEL BRENNA Babulenka Freier VERONIQUE GENS Il Marchese I Un giocatore ELMER GILBERTSSON Mr. Astley / Il direttore del Casinò SHIGEO ISHINO M.lle Blanche / Une Dame „comme ci comme ça“ STINE MARIE FISCHER Il Principe Nilsky / Un giocatore irascibile ROBIN NECK Barone Wurmerhelm / Un inglese grasso PETER LABERT Un Patafisico / Un inglese alto JACOBO OCHOA Primo Croupier HEJONG SONG Secondo Croupier ILJA WERGER Una signora elegante OLGA PAUL Una signora pallida CATRIONA SMITH Una signora rispettabile SIMONE JACKEL Un giocatore patologico ALEXANDER EFANOV Un giocatore gobbo ALEXEJ SHESTOV Staatsorchester Stuttgart Staatsopernchor Stuttgart Direttore Nicholas Carter Regia Axel Ranisch Scene Saskia Wunsch Costumi Claudia Irre, Bettina Werner Luci Valentin Däumler Drammaturgia Miron Hakenbeck Stuttgart, 2 febbraio 2025
Come quarto nuovo allestimento della stagione in corso, la Staatsoper Stuttgart ha presentato Igrok (Il Giocatore), l’ opera di Prokofiev il cui argomento è tratto dal romanzo omonimo di Fjodor Dostojewski che il compositore voleva mettere in musica sin dagli anni in cui studiava al Conservatorio di San Pietroburgo. La possibilità concreta di soddisfare questo desiderio si presentò nel 1916 quanto Alexander Siloti, il celebre pianista cugino di Rachmaninov, lo mise in contatto con Albert Coates, che a quell’ epoca era il direttore del Mariinsky Theater e gli promise che l’ avrebbe fatta eseguire. L’ opera fu composta fra il 1915 e il 1917, ma rimase ineseguita a causa delle ptoteste dei cantanti del Mariinsky che trovavano la scrittura dei ruoli vocali troppo difficile. La prima esecuzione avvenna solo nel 1929 al Théatre de la Monnaye di Bruxelles, le vicende politiche degli anni successivi impedirono qualsiasi esecuzione del lavoro in Unione Sovietica in quanto la musica di Prokofiev era stata bandita con l’ accusa di formalismo. Un’ esecuzione concertistica si tenne a Mosca nel 1963 e la prima esecuzione scenica fu data al Bolscioi nel 1974, con la regia di Boris Pokrowski e Galine Vishnevskaja nel ruolo di Polina, in quella che fu la sua ultima interpretazione prima di lasciare l’ URSS. La scorsa estate l’ opera è stata rappresentata anche ai Salzburger Festspiele, con la regia di Peter Sellars e Asmik Grigorian come protagonista. Nella stesura del libretto Prokofiev cerco di mantenersi il più possibile fedele al romanzo, anche se la scena della roulette fu da lui completamente riscritta. Le parti vocali sono scritte nel tipico stile del declamato introdotto nel teatro d’ opera russo da Mussorgsky e Dargomiskij, in una struttura durchkomponiert in cui le arie e i brani di insieme sono assenti. Il culmne dell’ azione è senza dubbio la scena della roulette, in cui gli interventi del coro sono rafforzati da una serie di piccoli ruoli solistici.Proprio la roulette ha una sua importante connotazione orchestrale, caratterizzata da aspetti dissonanti come a sottolineare l’aspetto subdolo e stridente del gioco; il “tema della pallina” è una geniale trovata del musicista che rende alla perfezione il movimento circolare fino alla sua fermata con una sonorità quasi di scherno. Lo stile della musica è quello stridente e aggressivo del Prokofiev prima maniera, caratterizzato da una ritmica complicata e da un insistito uso degli accordi dissonanti. il compositore revisionò la partitura prima dell’ esecuzione di Bruxelles, alleggerendo la strumentazione allo scopo di rendere più comprensibili tutti i particolari del testo. La Staatsoper Stuttgart ha affidato la regia di questa nuova produzione ad Axel Ranisch, quarantunenne regista teatrale e televisivo berlinese che qui a Stuttgart aveva già messo in scena con grande successo Die Liebe zu Drei Orangen e Hänsel und Gretel. Gli aspetti surrealistici e grotteschi della trama erano esaltati al massimo da una lettura scenica ricca di effetti divertenti, coloratissima e animata che evidenziava in maniera perfetta il gioco meccanico e marionettistico della vicenda anche se il racconto scenico della prima parte appariva a tratti leggermente confuso. Ne è venuto fuori uno spettacolo vivace, briosissimo e spiritoso che mescolava in maniera assai attraente il linguaggio cinematografico e la gestualità teatrale, con un grande senso del racconto e del ritmo narrativo. Anche l’ esecuzione musicale è apparsa di alta qualità, per merito principale di Nicholas Carter, quarantenne direttore australiano designato come prossimo Generalmusikdirektor della Staatsoper, che ha impresso un bel ritmo teatrale alle vicenda ottenendo sonorità e timbri strumentali assai pregevoli dalla Staatsorchester Stuttgart. Una direzione ottima per acribia e virtuosismo ritmico, ricchezza di colori strumentali e capacità di sottolineare tutti gli influssi stilistici che in questo lavoro Prokof’ev ha ricavato dal jazz, dai ritmi di danza popolare e anche da certe atmosfere dell’ ultima produzione di Puccini. Anche il cast vocale era di buon livello, con quattro voci di qualità come interpreti dei ruoli principali. Il quarantanovenne soprano lituano Ausrine Stundyté, conosciuta a livello internazionale per le sue interpretazioni del ruolo di Elektra, ha raffigurato una Polina appassionata e sentimentale, mettendo in mostra una voce ampia e di bel colore, con acuti luminosi e penetranti. Daniel Brenna, cinquantaquattrenne tenore americano che qui a Stuttgart aveva fornito in passato prove convincenti come Tamburmajor nel Wozzeck, Siegfried ed Aegisth, possiede una voce solida e sicura, adatta per il ruolo di Alexej che ha le caratteristiche del tenore di forza di tipo declamatorio, come ad esempio anche Hermann della Pikowaja Dama. II basso croato Goran Jurić, uno tra i migliori elementi dell’ ensemble della Staatsoper, è stato assai convincente nella parte del Principe. Il cinquantaseienne mezzosoprano francese Veronique Gens, grande interprete del repertorio baricco, ha conferito la giusta dose di ironia sarcastica al personaggio di Babulenka, la vecchia e ricca zia del Generale e nonna di Polina. Pregevoli anche le prove di Stine Marie Fischer come Blanche e del baritono giapponese Shigeo Ishino nella parte di Mr. Astley. Anche tutti gli interpreti dei numerosi ruoli minori hanno dato un valido contributo alla riuscita di uno spettacolo molto interessante e ben riuscito, accolto alla fine da un entusiastico successo di pubblico. Foto ©Martin Sigmund
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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Vicini di casa”

gbopera - Mer, 05/02/2025 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
VICINI DI CASA
dalla commedia Sentimental di Cesc Gay
traduzione e adattamento Pino Tierno
con Amanda Sandrelli, Gigio Alberti, Alessandra Acciai, Alberto Giusta
regia Antonio Zavatteri
regista assistente Matteo Alfonso
scene Roberto Crea
costumi Francesca Marsella
luci Aldo Mantovani
sarta Marisa Mantero
foto Laila Pozzo
service audio/luci Fonal di Federico Pennazzato
co-produzione CMC/Nidodiragno, Cardellino srl, Teatro Stabile di Verona
in collaborazione con Festival Teatrale di Borgio Verezzi
Roma, 05 febbraio 2025
In un microcosmo claustrofobico racchiuso tra le mura domestiche, “Vicini di casa” esplora con finezza drammaturgica le dinamiche di coppia e le contraddizioni insite nelle relazioni affettive e sociali. Per un’ora e un quarto, lo spettatore assiste a un confronto serrato tra due visioni antitetiche della sessualità, dell’amore e della quotidianità, declinate con un equilibrio calibrato tra commedia e dramma. L’autore catalano Cesc Gay, noto per la sua scrittura vivida e ironica, ha concepito nel 2015 la brillante pièce “Los vecinos de arriba”, poi trasposta in una versione cinematografica nel 2020. La traduzione e l’adattamento di Pino Tierno, uniti alla regia calibrata di Antonio Zavatteri, conferiscono alla versione italiana un’efficace aderenza alla sensibilità del pubblico contemporaneo. Il perno drammaturgico dell’opera è l’incontro-scontro tra due coppie che incarnano modelli esistenziali diametralmente opposti. Anna e Giulio, interpretati con grande verosimiglianza da Amanda Sandrelli e Gigio Alberti, rappresentano il paradigma della coppia di lunga data, logorata dalla routine e dalla progressiva perdita di entusiasmo reciproco. Laura e Toni, invece, portati in scena con spregiudicata vivacità da Alessandra Acciai e Alberto Giusta, si delineano come il contraltare libertino e disinibito, il cui stile di vita scandalizza e, al contempo, affascina i loro ospiti. La narrazione si sviluppa attraverso un meccanismo drammaturgico serrato, in cui l’umorismo si intreccia con una sottile critica sociale. La scrittura di Gay non indulge in facile volgarità, bensì costruisce un gioco di battute e situazioni che oscillano tra la provocazione e l’introspezione. La regia di Zavatteri, attenta ai ritmi e ai silenzi, valorizza la stratificazione emotiva del testo, evitando la deriva farsesca e mantenendo la tensione emotiva sempre viva. La scenografia di Roberto Crea, essenziale ma funzionale, definisce uno spazio domestico che diviene metafora della prigione interiore in cui si dibattono i protagonisti. I costumi moderni di Francesca Marsella e le luci di Aldo Mantovani contribuiscono a rafforzare l’atmosfera di realismo e introspezione. La regia gioca abilmente con i contrasti: la compostezza frustrata di Giulio e Anna si specchia nella vitalità sfrenata di Laura e Toni, creando un cortocircuito narrativo che innesca risate e riflessioni. Fondamentale per il successo della rappresentazione è la qualità delle interpretazioni. Amanda Sandrelli e Gigio Alberti conferiscono ai loro personaggi una palpabile autenticità emotiva, riuscendo a rendere credibile il logorio di un rapporto soffocato dall’abitudine. Sandrelli, con il suo incedere spontaneo e misurato, dona ad Anna una dimensione di fragile inquietudine, mentre Alberti costruisce un Giulio disilluso e ironico, capace di suscitare empatia. Alessandra Acciai e Alberto Giusta, nei panni della coppia disinibita, offrono una performance vibrante e trascinante: Acciai tratteggia una Laura carismatica e analitica, mentre Giusta si distingue per la fisicità esuberante e la perfetta gestione dei tempi comici. L’interazione tra i quattro attori è impeccabile, e la loro alchimia scenica amplifica l’efficacia del testo. La pièce pone interrogativi scomodi ma universali: quanto la routine incide sulla qualità delle relazioni? Qual è il confine tra la libertà individuale e la necessità di conformarsi a un modello sociale prestabilito? Il pubblico si ritrova a interrogarsi su questi dilemmi attraverso un’escalation di situazioni imbarazzanti e rivelazioni inaspettate. Il climax narrativo si consuma in un momento di rottura, in cui i protagonisti sono costretti a confrontarsi con i propri desideri inespressi e le proprie ipocrisie. L’esito della rappresentazione conferma l’intelligente costruzione del testo: si ride, si riflette e, inevitabilmente, si partecipa emotivamente alle vicende dei personaggi. Il teatro, come spesso accade nei lavori ben congegnati, si fa specchio delle fragilità umane, portando in superficie le tensioni sotterranee che attraversano la nostra esistenza. “Vicini di casa” riesce così a coniugare intrattenimento e profondità, confermandosi come un esempio eccellente di teatro contemporaneo capace di parlare al pubblico con ironia e acume. Lo spettacolo si conclude tra le risate e gli applausi scroscianti di un pubblico coinvolto e divertito, che omaggia la brillante interpretazione del cast e la finezza di una messa in scena che sa essere tanto leggera quanto incisiva.

 

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Fondazione Guido d’Arezzo: Il flauto di Roberto Fabbriciani omaggia Giorgio Vasari

gbopera - Mer, 05/02/2025 - 11:52

Arezzo, Sala Sant’Ignazio
“Venere, che le Grazie la fioriscono” – Omaggio a Giorgio Vasari
Flauto Roberto Fabbriciani
Lettura di testi vasariani e note al concerto Luisella Botteon
Regia del suono (“centro di ricerca Tempo Reale”) Damiano Meacci
Musiche di: Claude Debussy, Roberto Fabbriciani, Wolfang Amadeus Mozart, Orazio Tigrini, Bruno Maderna, Ennio Morricone in una proposta sonora per flauto e strumenti elettronici.
Arezzo, 3 febbraio 2025
Attraversando la Sala Sant’Ignazio (ex chiesa di Sant’Ignazio), che in questo periodo ospita quattro pale dipinte da Giorgio Vasari, un gruppo abbastanza numeroso di persone sosta in fondo ed in piedi aspettando l’inizio di un concerto. Ad accogliere il pubblico, presentando l’evento, Lorenzo Cinatti, Direttore della Fondazione “Guido d’Arezzo”. Poi arriva lentamente Roberto Fabbriciani con il suo flauto traverso d’oro, suonando in modo piuttosto ispirato Syrinx di Claude Debussy, uno dei brani più celebri della letteratura del Novecento. L’atmosfera è sognante, quasi indeterminata, e il brano dal melos caratterizzato dai delicati contorni, sfuggevoli e cromatici, chiarisce la sua natura impressionista che, all’interno del contesto in cui era concepito il concerto (mostra internazionale Vasari. Il Teatro delle Virtù), evidenziava la particolare correspondance tra musica e arte visive, compreso il tema dell’amore. Lo stesso inizio con la composizione di Debussy offriva una narrazione che ruotava intorno al sentimento del dio Pan per la ninfa Sýrinx che poteva intendersi anche come ‘incanto’ del pubblico attraverso il suono del flautista. Il brano in programma di Orazio Tigrini, altro illustre aretino vissuto nel XVI secolo e dunque contemporaneo di Vasari, merita un’attenzione particolare. Il titolo Canzon da Sonare. Cantai un tempo allude ad una versione per flauto e pianoforte (1975) di un madrigale tratto dal I Libro di madrigali a 6 voci (1582) di Tigrini, realizzata da Claudio Santori. Ciò che si è percepito durante l’esecuzione è stato un singolare ‘incontro’ tra antico (madrigale cinquecentesco) e contemporaneo. La versione di Franz Anton Hoffmeister, coevo di Mozart, dell’aria di Papageno tratta dal Die Zauberflöte del compositore salisburghese, in sostanza è imperniata sul racconto secondo cui il principe Tamino, aiutato da Papageno, combatte per la liberazione dell’amata Pamina. Fabbriciani, con la sua interpretazione, è riuscito a coinvolgere tutti e traghettare in un mondo fiabesco tanto che in alcuni momenti sembrava di percepire le parole di Papageno in cui dichiara di essere abile nell’affascinare e nello zufolare. Elegia (1976) di Fabbriciani ha costituito un’interessante occasione per presentarsi in veste di compositore e interprete, offrendo un brano in cui erano presenti, come ispirazione, alcuni spunti autobiografici. A ciò ha fatto seguito un leitmotiv di Ennio Morricone, tratto dal film La gabbia, di cui Fabbriciani ha registrato la colonna sonora. Un Adagio del musicista aretino ha fatto quasi da prologo, per rimanere nell’autobiografismo, ad un Lamento (pianto ancestrale) del compositore novecentesco Bruno Maderna. Il programma si è concluso con altri due brani di Fabbriciani: un Sonetto a Orfeo su testo di Rainer Maria Rilke dedicato al mitico cantore e, ancora una volta sottolineando il rapporto sinergico delle arti, Venere, che le Grazie la fioriscono – Omaggio a Giorgio Vasari, composizione dedicata ad Arezzo ed in prima esecuzione, il cui titolo ha un riferimento alla Primavera di Botticelli e Vasari cita come «Venere che le Grazie la fioriscono, dinotando Primavera».
Vivo successo del concerto per Fabbriciani, senza dimenticare l’importante contributo di Damiano Meacci per la regia del suono e di Luisella Botteon nel saper guidare l’ascoltatore in uno spettacolo particolare. La serata si è conclusa con un fuori programma in cui il tema Gabriel’s Oboe di Morricone, in quel particolare contesto, poteva rappresentare la naturale colonna sonora di un evento ove, per lasciarsi conquistare dal fascino, era necessaria un’immaginazione vivifica.

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Roma, Teatro Argentina: “Guerra e Pace”

gbopera - Mar, 04/02/2025 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
GUERRA E PACE
di Lev Tolstoj
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
regia Luca De Fusco
con in ordine di apparizione
Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
coreografia Monica Codena
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania
Roma, 04 febbraio 2025
Non esiste grandezza là dove non vi è semplicità, bontà e verità.” – Lev Tolstoj
Ridurre per il teatro un’opera-mondo quale Guerra e Pace di Lev Tolstoj è impresa che solo in apparenza si risolve nel lavoro di adattamento drammaturgico. La materia romanzesca, smisurata per dimensioni e profondità, non si lascia facilmente costringere nei canoni della messinscena senza subire una metamorfosi sostanziale: i toni epici si comprimono, le riflessioni filosofiche si contraggono, la stratificazione psicologica si piega alla semplificazione drammatica. Luca De Fusco affronta questa titanica operazione con un approccio che si potrebbe definire di diligente prudenza: senza avventurarsi in soluzioni formali ardite, costruisce uno spettacolo compatto, levigato, in cui tutto è al proprio posto, ma nulla realmente vibra di quella necessità espressiva che fa del teatro un organismo vivente. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Biondo di Palermo in collaborazione con il Teatro Nazionale di Roma e il Teatro Stabile di Catania, si presenta come un affresco di innegabile solidità, dove la minuziosa ricostruzione storica e la perizia interpretativa degli attori si collocano entro un solco tradizionale, privo di scosse e senza alcun intento di rinnovamento della lettura tolstoiana. L’impianto scenografico di Marta Crisolini Malatesta disegna un suggestivo palazzo in rovina, spazio di memorie che funge da dispositivo narrativo attraverso la grande scalinata che ospita, con sapienza visiva, il fluire degli eventi. Questo elemento architettonico, pur suggestivo, viene utilizzato con un’insistenza quasi manieristica, caricando la narrazione di un’enfasi melodrammatica che talvolta sfiora l’illustrazione didascalica. Non si percepisce, tuttavia, un tentativo di superare la mera funzione di supporto visivo per divenire autentico motore drammaturgico: la scena rimane elegante, evocativa, ma lontana dall’essere realmente parte attiva della narrazione. Le luci di Gigi Saccomandi svolgono un lavoro di cesello sulle atmosfere, accentuando il tono romantico e solenne dello spettacolo, mentre le musiche di Ran Bagno e i video di Alessandro Papa sono elementi che si incastonano senza sopraffare la narrazione, accompagnando con discrezione lo sviluppo drammaturgico. De Fusco rimane fedele a un’idea di teatro che predilige la chiarezza narrativa e il rispetto della tradizione. Nulla è lasciato all’improvvisazione, ogni gesto è calcolato, ogni snodo drammaturgico risponde a una logica di equilibrio e simmetria, ogni passaggio è funzionale alla comprensione dello spettatore. Tuttavia, questa calibrata armonia diventa anche il limite più evidente dello spettacolo: nella sua impeccabile costruzione, Guerra e Pace si presenta come un meccanismo perfetto, ma privo di quella vibrazione emotiva capace di scuotere, sorprendere, o mettere in discussione. È un teatro che si rifugia nella sicurezza dell’accademia, che non rischia e non destabilizza, che si appoggia con rassicurante eleganza sulla grandezza del testo originario senza mai tentare di attraversarlo con uno sguardo davvero personale. Le interpretazioni sono tutte di buon livello, con un cast ben assortito che annovera attori di comprovata esperienza. Pamela Villoresi offre una Anna Pavlovna di raffinata autorevolezza, mentre Mersila Sokoli dipinge una Natàša di delicata fragilità, riuscendo a trasmettere la nevrotica oscillazione emotiva del personaggio. Raffaele Esposito presta al principe Andrej una tormentata introspezione, mentre Giacinto Palmarini restituisce un Anatòlij dall’aria tanto vanitosa quanto vacua. Eppure, sebbene le interpretazioni siano puntuali, manca quel senso di urgenza drammatica che rende il teatro un atto di rivelazione. Tutto scorre con una linearità che finisce per anestetizzare le tensioni interiori dei personaggi, assorbite in una messinscena che predilige la fluidità alla vertigine, la compostezza alla passione, la classicità alla sperimentazione. Lo spettacolo si configura dunque come un’operazione colta e ben confezionata, che omaggia la grande letteratura senza però interrogarsi fino in fondo sulla sua trasposizione teatrale. Il Guerra e Pace di De Fusco è un’elegante pagina di storia portata in scena con una fedeltà che sfiora il filologico, ma che rimane priva di un reale confronto con le inquietudini del presente. La guerra è un tema eterno, il potere e le sue logiche di sopraffazione non cessano di ripetersi nella storia, ma questa messinscena si limita a raccontare senza problematizzare, a rievocare senza interrogare. In definitiva, siamo di fronte a uno spettacolo che ripercorre con accuratezza le vicende del romanzo, che assolve il proprio compito con un’eleganza che non si può non riconoscere, ma che non lascia tracce profonde. Tolstoj ha consegnato alla letteratura un’opera sconfinata, capace di tenere insieme il destino del singolo e quello della Storia, la grandezza e la miseria dell’uomo, il pensiero e l’azione. Qui tutto è restituito con rispetto e misura, ma nulla eccede i confini di una rassicurante normalità teatrale. Se la guerra e la pace sono il motore della Storia, il teatro dovrebbe essere il luogo del turbamento, della tensione, del cortocircuito emotivo. In questo caso, però, tutto è saldo, quadrato, imperturbabile. Persino il lampadario, simbolo visivo di un passato che non crolla mai davvero, sembra dirci che la memoria è più forte della vita. E non è detto che questo sia sempre un bene. A suggellare la rappresentazione, un pubblico partecipe ed attento ha saputo premiare tutti gli attori con applausi sentiti e partecipi, riconoscendo il valore della loro interpretazione e il rigore dell’allestimento scenico.

 

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Roma, Palazzo Bonaparte: “Munch. Il grido interiore” dal 11 febbraio al 02 giugno 2025

gbopera - Mar, 04/02/2025 - 19:12

Roma, Palazzo Bonaparte
MUNCH. IL GRIDO INTERIORE
Curata da Patricia G. Berman
Palazzo Bonaparte si prepara a inaugurare un’importante stagione espositiva per il 2025, un anno straordinario che coinciderà con il Giubileo e con il 25° anniversario dalla nascita di Arthemisia.
Nell’ambito di queste celebrazioni, da febbraio a giugno, sarà ospitata una grande monografica dedicata a Edvard Munch, un evento di portata internazionale che segnerà il ritorno dell’artista nella Capitale a oltre vent’anni dall’ultima mostra a lui dedicata. Grazie a una prestigiosa collaborazione con il Munch Museum di Oslo e con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, la rassegna rappresenterà la più ampia retrospettiva mai realizzata in Italia sull’artista norvegese. Edvard Munch (1863-1944), considerato un precursore dell’Espressionismo e uno dei massimi esponenti del Simbolismo ottocentesco, sarà celebrato con un corpus di cento opere provenienti dal museo di Oslo, raccontando l’intero percorso umano e artistico del maestro. Curata da Patricia G. Berman, una delle più autorevoli studiose di Munch a livello mondiale, la mostra offrirà un viaggio immersivo nel suo universo espressivo, attraversando i temi fondanti della sua arte: l’amore, la morte, l’angoscia esistenziale e la complessità della psiche umana. Tra i capolavori esposti spicca una delle versioni litografiche de L’Urlo (1895), icona assoluta dell’arte moderna, accanto a opere di straordinaria intensità come La morte di Marat (1907), Notte stellata (1922–1924), Le ragazze sul ponte (1927), Malinconia (1900–1901) e Danza sulla spiaggia (1904). L’evento si inserisce in una programmazione culturale di altissimo profilo, sottolineando il ruolo di Palazzo Bonaparte come punto di riferimento per l’arte in Italia. Grazie a un allestimento coinvolgente e a un percorso espositivo accuratamente studiato, il pubblico potrà entrare in contatto diretto con la forza visionaria e rivoluzionaria di Munch, riscoprendone il genio attraverso una prospettiva inedita. Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Antonio e Cleopatra” dall’ 11 al 16 febbraio 2025

gbopera - Mar, 04/02/2025 - 16:51

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ANTONIO E CLEOPATRA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Nadia Fusini e Valter Malosti
con Anna Della RosaValter MalostiDanilo NigrelliDario BattagliaMassimo VerdastroPaolo GiangrassoNoemi GrassoIvan GrazianoDario GuidiFlavio PieraliceGabriele RamettaCarla Vukmirovic
chitarra elettrica live Andrea Cauduro
arpa celtica live Dario Guidi
scene Margherita Palli
costumi Carlo Poggioli
disegno luci Cesare Accetta
progetto sonoro GUP Alcaro
cura del movimento Marco Angelilli
maestro collaboratore Andrea Cauduro
regia Valter Malosti
Antonio e Cleopatra sono gli straripanti protagonisti di un’opera basata sulle opposizioni: maschile e femminile, dovere e desiderio, letto e campo di battaglia, giovinezza e vecchiaia, antica verità egiziana e realpolitik romana. Politicamente scorretti e pericolosamente vitali, al ritmo misterioso e furente di un Baccanale Egiziano vanno oltre la ragione e ai giochi della politica. Inimitabili e Impareggiabili, neanche la morte li può contenere. «Di Antonio e Cleopatra – racconta Valter Malosti, qui nella duplice veste di regista e interprete – la mia generazione ha impresso nella memoria soprattutto l’immagine, ai confini con il kitsch, della coppia hollywoodiana Richard Burton – Liz Taylor. Ma su quest’opera disincantata e misteriosa, che mescola tragico, comico, sacro e grottesco, su questo meraviglioso poema filosofico e mistico (e alchemico) che santifica l’eros, che gioca con l’alto e il basso, scritto in versi che sono tra i più alti ed evocativi di tutta l’opera shakespeariana aleggia, per più di uno studioso, a dimostrarne la profonda complessità, l’ombra del nostro grande filosofo Giordano Bruno: un teatro della mente che esige un nuovo cielo e una nuova terra». Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro Vascello: “Bocconi Amari” dal 5 al 16 febbraio 2025

gbopera - Mar, 04/02/2025 - 16:43

Roma, Teatro Vascello
BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO
Scritto e diretto da Eleonora Danco
con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana,
Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli
Costumi Massimo Cantini Parrini 
Assistente costumi  Jessica Zambelli
Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini
Luci Eleonora Danco
Musiche scelte da Marco Tecce
aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti
regia Eleonora Danco
produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato. 
Primo atto. Una famiglia si riunisce per il compleanno della madre. Il padre la madre e la figlia trentenne Paola vivono insieme. Li raggiungono i due fratelli Luca 40 anni Pietro 38 anni. Una volta tutti insieme nella casa paterna si mangiano l’un l’altro come pesci in un acquario. Battute serrate dai ritmi travolgenti. I meccanismi dei conflitti familiari espressi in un linguaggio universale, in cui tanti si potranno riconoscere.
Secondo atto. Vent’anni dopo. La famiglia si ritrova nella stessa casa per festeggiare il compleanno del padre. Luca, sessant’anni, Pietro cinquantotto anni, invecchiati e travolti dalla crisi economica, patiscono l’egoismo del padre, un Re Lear del terzo piano che si schiera ora con un figlio, ora con l’altro. La scena diventa un’arena dove le ombre e i ricordi si agitano come lembi. I flash, come in un film, rendono i personaggi giovani e vecchi, a tratti tonano bambini e adolescenti. Cadono in uno stato di trans allucinatorio, non si accorgono di esprimere le immagini più profonde del loro subconscio. Una regia fisica. Una danza, un movimento continuo, visionario e commovente. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Sala Umberto: “Elena, la matta” dal 5 al 16 febbraio 2025

gbopera - Mar, 04/02/2025 - 15:24
Roma, Teatro Sala Umberto
dal 5 Febbraio al 16 Febbraio 2025
ELENA, LA MATTA
con Paola Minaccioni
liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia “La matta di piazza Giudia” edito da Casa Editrice Giuntina
Drammaturgia Elisabetta Fiorito
con i musicisti Valerio Guaraldi e Claudio Giusti
musiche di Valerio Guaraldi
Scene Alessandro Chiti
Costumi Giulia Pagliarulo
Disegno Luci Gerardo Buzzanca
con il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah
produzione Altra Scena & Goldenart Production
Regia di GIANCARLO NICOLETTI
con il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah
Fra documento storico, emozione e ironia, Paola Minaccioni torna a teatro con una grande prova d’attrice, vestendo i panni di un’antieroina del Novecento: Elena Di Porto, la “matta” del ghetto ebraico di Roma. Una storia vera tutta al femminile che si trasforma in uno spettacolo coinvolgente e di grande impatto emotivo. Una storia di libertà, di femminismo ante litteram, di ribellione alle ingiustizie, un’eco di quanto accade ancora oggi nei regimi. È quella di Elena Di Porto, nata nel Ghetto di Roma, interpretata da Paola Minaccioni in “Elena, la matta”, in scena nei teatri italiani con la regia di Giancarlo Nicoletti, la drammaturgia di Elisabetta Fiorito, le musiche originali di Valerio Guaraldi, eseguite dallo stesso autore e Claudio Giusti. Lo spettacolo è un emozionante ì viaggio nell’Italia del Fascismo, delle leggi razziali, della paura, ma anche della speranza e della solidarietà. La storia vera di Elena Di Porto trae spunto dal libro “Elena, La Matta di Piazza Giudia” di Gaetano Petraglia, edito da La Giuntina, ma anche dalle memorie di Settimia Spizzichino, unica sopravvissuta al rastrellamento del Ghetto, dai racconti dello storico David Kertzer e dalle testimonianze di Giacomo De Benedetti. Poverissima, stracciarola, dichiarata pazza dal regime, non lo era affatto. Nata nel 1912 da un’umile famiglia ebraica, Elena era una donna dal carattere singolare e ribelle, profondamente anticonformista. Separata dal marito, indipendente, antifascista convinta e temeraria, poco disposta ad accettare passivamente ogni forma di sopruso, soprattutto nei confronti degli altri Ma anche di una donna complessa che ha continue crisi di rabbia quando vede un’ingiustizia e che per questo viene rinchiusa a Santa Maria della Pietà. Elena passa attraverso la battaglia contro le angherie del regime, la persecuzione razziale, i reiterati ricoveri nell’Ospedale psichiatrico, gli scontri con le squadracce fasciste, il confino in Basilicata, il ritorno a Roma, il vano tentativo di resistenza durante l’occupazione nazista della Capitale fino al rastrellamento del 16 ottobre 1943. Il tutto in un crescendo di emozioni dove la protagonista racconta in un romanesco addolcito la sua vita e i suoi scatti d’ira che la mettevano nei guai quando non ce la faceva più di subire le angherie e per dirla con le parole sue “je partiva er chicchero”. “Ho voluto raccontare questa storia per dar vita di nuovo a Elena perché la sento dentro di me come fosse una sorella. Una donna alla quale ispirarsi ogni giorno, una storia di libertà che spero commuova il pubblico come ha commosso me”, spiega Paola Minaccioni che interpreta Elena con tutta la veracità e la potenza per raccontare una femminilità decisa, forte, fuori dagli stilemi e provata dalle angherie del regime. Una matta non matta la cui storia rispecchia quanto sta accadendo attualmente nei paesi dominati dai regimi dove le donne che si ribellano vengono dichiarate ancora oggi “pazze”, simili a quelle che Elena incontrerà a Santa Maria della Pietà. Dalle note di regia di Giancarlo Nicoletti: “Teatro di narrazione, monologo d’autore, rievocazione storica e grande performance attoriale: questi gli ingredienti per raccontare una storia che merita di non essere dimenticata. Tenendo presente che il teatro, quello buono, si gioca sempre ed essenzialmente su due cose: un grande testo e un grande interprete al servizio di una bella storia da raccontare. Ricordandosi della necessità, intesa come necessità – in un momento storico come quello attuale – di fare della memoria storica la bussola per le nostre scelte e la lente per capire la contemporaneità. Necessità, e urgenza, anche artistiche, perché Paola Minaccioni vuole essere Elena Di Porto e ha profondamente nelle vene tutta la veracità e la potenza per raccontare una femminilità decisa, forte, fuori dagli stilemi e provata dalle angherie del regime e del periodo storico. Per nulla un monologo classico, quindi, ma uno spettacolo evocativo, e soprattutto emozionante. Con la volontà di raccontare un mondo, un’epoca, una figura di donna e, con esse, tutta una società.Qui per tutte le informazioni.
Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Filarmonico: “Missa K 427” di Mozart

gbopera - Mar, 04/02/2025 - 08:49

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Sinfonica 2025
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Enrico Onofri
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Soprani Gilda Fiume, Arianna Vendittelli                                                            Tenore Krystian Adam
Basso Adolfo Corrado
Michael Haydn: “Sinfonia in Do maggiore n. 39”; Wolfgang Amadeus Mozart: “Messa in do minore per soli, coro e orchestra K 427”  
Verona, 31 gennaio 2025
Dopo l’apertura della Stagione Lirica nel nome di Salieri, con il Falstaff riproposto a cinquant’anni esatti dalla riapertura al pubblico del Teatro Filarmonico, la Fondazione Arena di Verona affida al suo antagonista musicale Mozart il compito di inaugurare la Stagione Sinfonica; e lo fa con una delle sue massime espressioni nel campo della produzione sacra, quella Messa in do minore K 427 rimasta poi incompiuta per mancanza di tempo (gli anni viennesi furono per Mozart particolarmente gravosi sotto il profilo compositivo). Scritta di propria spontanea volontà, per sciogliere un voto teso ad ottenere il consenso paterno al matrimonio con Constanze ma anche ad una non meglio precisata guarigione della fidanzata, fu poi effettivamente accantonata sia perché un editto imperiale del 1783 limitava l’uso dell’orchestra nelle esecuzioni sacre nelle chiese, sia perché in mancanza di una precisa committenza il lavoro non era retribuito; e in quei tempi di magra, con una famiglia da mantenere, il musicista non se lo poteva certo permettere. Nell’ultimo decennio di vita, a Vienna, Mozart dedicò alla musica da chiesa soltanto questa Messa e il celebre Requiem anch’esso lasciato incompiuto per ben altri motivi. Completa nel Kyrie, Gloria, Sanctus e Benedictus, con il Credo interrotto subito dopo Et incarnatus est e del tutto sprovvista di Agnus Dei, la K 427 si regge sull’equilibrio di quello che fu definito “stilus mixtus” che mescola il severo contrappunto rinascimentale con il gusto operistico delle arie e dei passi solistici. Ecco dunque l’ombra di Bach e di Haendel (ma anche di Alessandro Scarlatti) il cui stile austero viene rielaborato attraverso la propria sensibilità e combinato con il virtuosismo profano delle arie. Un grande affresco vocale e corale teso all’epoca che avanza pur filtrato attraverso le esperienze stilistiche del passato; ben lontane sono le Missae Brevis composte a Salisburgo e fortemente condizionate dai tempi liturgici e dall’organico di cui disponeva la Cattedrale. L’esecuzione al Filarmonico era affidata ad un ottimo quartetto vocale, a cominciare da Gilda Fiume, stupenda già a poche battute dall’inizio, nel Kyrie, in cui sfoggia una linea di canto spiegata ed un fraseggio sensuale e fascinoso portato a compimento in seguito nella meravigliosa aria Et incarnatus est in cui il dialogo con l’oboe si è risolto con profonda e sentita spiritualità. Accanto a lei, Arianna Vendittelli affronta la sua parte più impegnativa nella non facile sortita del Laudamus te con solida professionalità, riuscendo ad equilibrare la densa cantabilità con i passaggi virtuosistici e di coloratura; le due voci si sono poi intrecciate nel Domine Deus con risultati espressivi davvero godibili all’ascolto. Completavano il quartetto di solisti il tenore polacco Krystian Adam e il basso Adolfo Corrado, ai quali questa messa riserva davvero poco, il terzetto Quoniam tu solus sanctus per il primo, e il Benedictus in cui entra anche il basso; in ogni caso un ottimo apporto vocale ben integrato nel tessuto contrappuntistico e nell’intenso lirismo dei due interventi. Purtroppo il coro, a cui è affidata in larga parte questa Messa e preparato da Roberto Gabbiani, non è riuscito ad imporsi nella magistrale scrittura di Mozart, forse a causa di una collocazione troppo arretrata o forse perché avrebbe necessitato di qualche elemento in più, soprattutto nell’esigenza raddoppiata del Sanctus. In sostanza si sono persi, al limite dell’udibilità, i controsoggetti delle fughe; inoltre la resa del suono si barcamenava tra la ricerca degli effetti barocchi e la componente lirico/operistica sempre pronta a prevalere, un confronto rimasto tuttavia irrisolto. Enrico Onofri, che tornava al Filarmonico dopo il Mozart strumentale del 2023, si conferma direttore energico ed appassionato (forse talvolta un po’ sopra le righe) riuscendo comunque ad ottenere un’esecuzione pregnante e vivida dall’orchestra areniana, sempre brillante negli archi e nelle prime parti dei fiati (in primis flauto e oboe), qualità espresse pienamente nella Sinfonia n. 39 di Michael Haydn, fratello minore del più noto Franz Joseph, che ha aperto la serata. Curiosa, quanto inusuale, la disposizione di violoncelli e contrabbassi, magari funzionale in Haydn ma un po’ azzardata nel tenerli lontani dai colleghi “bassi” del coro dei quali raddoppiano le parti. Pubblico abbastanza numeroso ed attento, con due applausi a spezzare la sacralità della messa dopo il Laudamus te e al termine di Et incarnatus est. Foto Ennevi per Fondazione Arena

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “Mistero Buffo”

gbopera - Lun, 03/02/2025 - 22:59

Roma, Sala Umberto
MISTERO BUFFO
di Dario Fo e Franca Rame
con Matthias Martelli
regia Eugenio Allegri
aiuto regia Alessia Donadi
produzione Teatro Stabile di Torino
distribuzione Terry Chegia
Roma, 03 febbraio 2025
“La risata è cosa seria, è il segno di un pensiero libero”, scriveva Dario Fo in uno dei suoi passaggi più celebri di Mistero Buffo. Nel panorama teatrale contemporaneo, pochi spettacoli conservano la capacità di rinnovarsi pur restando fedeli alla propria essenza. “Mistero Buffo”, capolavoro indiscusso di Dario Fo e Franca Rame, è uno di questi. L’opera, intrisa di una satira tagliente e di una comicità irriverente, si fonda su un impianto narrativo che, attingendo ai Vangeli apocrifi e alla tradizione orale, restituisce una visione profondamente popolare e anti-istituzionale della storia sacra. La tradizione del giullare medievale, di cui Fo è stato uno dei più grandi eredi e innovatori, affonda le radici nel teatro di strada e nella narrazione satirica, capace di sfidare il potere con l’ironia e la provocazione. Matthias Martelli, diretto dal compianto Eugenio Allegri, si fa interprete di questo lascito con una dedizione totale, portando in scena una performance di rara intensità. Il suo teatro è un atto di resistenza culturale, una dichiarazione d’intenti che ribadisce il valore della parola scenica come strumento di critica e di riscoperta della tradizione giullaresca. La sua esecuzione si muove con agilità tra il lazzo e la denuncia sociale, tra l’ilarità e il grottesco, riuscendo a restituire tutta la potenza del testo originale senza mai scadere nell’imitazione pedissequa del Maestro. Il linguaggio, elemento cardine dell’opera, trova in Martelli un interprete consapevole e meticoloso. L’uso del grammelot, vero e proprio esperanto teatrale di dialetti reinventati, diventa nelle sue mani un’arma affilata per ridicolizzare il potere e dare voce agli ultimi. Come un menestrello medievale, l’attore plasma suoni e gesti in una partitura ritmica che affascina e coinvolge, evocando mondi attraverso il solo uso del corpo e della voce. Il risultato è un palcoscenico spoglio ma vibrante, uno spazio scenico che si riempie di figure e situazioni in un continuo gioco metateatrale. Il grande merito di Martelli risiede nella sua capacità di far rivivere il testo con una sensibilità moderna, senza forzature didascaliche o ammiccamenti banali alla contemporaneità. I riferimenti politici e sociali emergono in maniera naturale, senza risultare mai gratuiti: la storia, come sempre accade nel grande teatro, si fa specchio del presente, rivelandone le contraddizioni e le ipocrisie. Le due giullarate portate in scena, Il primo miracolo di Gesù bambino e La Parapja Topola, si collocano in due tradizioni distinte della drammaturgia di Fo. La prima è parte del Mistero Buffo, la seconda, invece, appartiene alla tradizione del fabliau medievale, un fabulazzo dal sapore osceno e beffardo, che si nutre della comicità più triviale e spregiudicata, tipica delle rappresentazioni giullaresche. Nonostante la differenza di registro e contenuto, entrambe le opere condividono la medesima precisione scenica, in cui nulla è lasciato all’improvvisazione e ogni gesto, ogni inflessione della voce è calibrata con sapienza teatrale. Eppure, la struttura della messinscena resta permeabile alla reazione del pubblico: il ritmo si modella sugli umori della platea, i silenzi si caricano di attesa, le battute esplodono nel momento esatto in cui possono scatenare la risata collettiva. È in questo dialogo costante tra attore e spettatore che risiede la vera essenza del teatro di Dario Fo. E proprio quest’ultimo diventa elemento attivo della rappresentazione, chiamato a interagire, a ridere e a riflettere in un continuo scambio tra attore e spettatore che è la vera cifra del teatro popolare. La scelta di una messa in scena essenziale, priva di scenografie imponenti e di artifici registici, si rivela vincente: il minimalismo esalta la parola e il gesto, restituendo alla narrazione tutta la sua potenza evocativa. Martelli si muove sul palco con un’energia che sembra inesauribile, alternando registri con una naturalezza sorprendente, dal comico al tragico, dalla farsa alla lirica. Il successo dello spettacolo, con oltre duecento repliche tra Italia ed estero, da Roma a Londra, da Bruxelles a Los Angeles, testimonia la sua straordinaria attualità e la sua capacità di parlare a pubblici diversi senza perdere la propria autenticità. Non è un caso che, a distanza di decenni dalla sua prima rappresentazione, “Mistero Buffo” continui a suscitare entusiasmi, a riempire teatri e a formare nuove generazioni di spettatori. Dario Fo, nella sua motivazione al Premio Nobel, venne celebrato per la capacità di “dileggiare il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Oggi, con il lavoro di Matthias Martelli, la tradizione giullaresca non solo trova un degno erede, ma viene rilanciata con una forza rinnovata, capace di restituirle la sua urgenza contemporanea. Il teatro, nelle sue mani, si riappropria della sua essenza più autentica: un luogo di libertà, di coscienza critica, di vibrante vitalità espressiva. La risposta del pubblico è stata inequivocabile: un crescendo di risate spontanee, applausi scroscianti e attimi di intensa riflessione hanno accompagnato l’intera rappresentazione, a testimonianza di un’adesione profonda e viscerale. Ma ciò che rende l’arte scenica di Matthias Martelli realmente travolgente è la sua fisicità debordante, la capacità di abitare il palcoscenico con una padronanza assoluta del gesto, della postura, del ritmo corporeo. Il suo è un teatro che si fa carne, muscoli e fiato, in cui il corpo non è solo strumento, ma veicolo pulsante di senso e di energia. Ogni movimento è scolpito nello spazio con un’urgenza espressiva che non conosce risparmio: la voce, il volto, le mani, le gambe si fanno linguaggio, amplificando la parola, traducendola in immagine, caricandola di vibrazione fisica. È un dono generoso, totale, senza mediazioni, che trasforma ogni sua esibizione in un atto teatrale di rara intensità. La sua presenza scenica si fa ponte tra passato e presente, tra tradizione e urgenza contemporanea, restituendo al teatro la sua funzione più autentica: non semplice rappresentazione, ma atto vivo, palpitante, capace di coinvolgere e trasformare chi vi assiste.

 

Categorie: Musica corale

Parma, Teatro Regio: “Giovanna D’Arco”

gbopera - Lun, 03/02/2025 - 08:35

Parma, Teatro Regio, Stagione Lirica 2025
GIOVANNA D’ARCO
Dramma lirico in tre atti su libretto di Temistocle Solera dal dramma Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller.
Musica di Giuseppe Verdi
Carlo VII LUCIANO GANCI
Giovanna NINO MACHAIDZE
Giacomo ARIUNBAATAR GANBAATAR
Delil FRANCESCO CONGIU*
Talbot KRZYSZTOF BACZYK
*Già allievo dell’Accademia Verdiana
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Michele Gamba
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Luigi Biondi
Coreografie Manuela Lo Sicco
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 1 febbraio 2025
Povera Giovanna! L’accusa di stregoneria è il meno. Assurdo e fin ridicolo il libretto del povero Solera, bandistica e paesana la strumentazione del povero Verdi, l’ingenuo Primo Verdi. Poco e niente da salvare, insomma: sempre che non la si consideri come il tentativo, intellettualmente appassionantissimo, di innestare alcuni caratteri del grand opéra nella tradizione italiana, insomma di far della cosiddetta musica “filosofica”. Operazione che (a documentarlo è la meticolosa e illuminante ricerca di Gloria Staffieri) la coppia fatidica Verdi-Solera aveva tentato già col Nabucco e più coi Lombardi, sempre alla Scala. Il gusto per il sovrannaturale, il merveilleux, tipico del romanticismo europeo, è affatto estraneo all’italiano, che puntualmente lo rigetta (storia che si ripete col Macbeth). Quanto al genere pomposo e solenne cui lo stile verdiano già pare versato, meglio sanno apprezzarlo i parigini dal gusto eclettico e raffinato, rispetto ai milanesi “amateurs des cabalettes” (così scrive un simpatico H. W. sulla Revue des deux mondes). Infine, che qui, per la Giovanna, il modello fosse da ricercarsi nel Robert le Diable di Meyerbeer era per i contemporanei semplicemente lampante: non ne fa mistero, per primo, il fido Muzio, in un report-anticipazione per casa Barezzi. Opera non da buttare allora, a partire dalla celebre sinfonia, di valore riconosciuto anche dai critici più feroci. Michele Gamba opta per un suono asciuttissimo, secco addirittura, e un piglio severo, energico, quasi sbrigativo. La Filarmonica Toscanini, imbrigliata sotto il giogo della sua volontà di iper-controllo, risponde con lodevole esattezza, tremoli fittissimi, pianissimi di grande suggestione. È una direzione che cerca d’animare l’accompagnamento al canto concedendo(si) qualche rallentando e qualche stringendo (inevitabili, verrebbe voglia di dire), ma per il resto non dimostra grandi sensibilità e generosità per le ragioni e le necessità del canto e dei cantanti, cui pare riservare un certo qual sovrano distacco. Impeccabile invece il rapporto fra buca e complesso di palcoscenico, cruciale per i cori angelici e demoniaci (plausi al Coro del Regio diretto da Martino Faggiani) ma ancor di più per il gioco dentro-fuori della Cattedrale di San Dionigi. Davvero strano che Gamba, così ligio alla partitura, si sia lasciato sfuggire quegli abituali ma oggi ridicoli smussamenti del libretto (il più innocuo “Non sacrilega sei tu?” in luogo del previsto “Pura e vergine sei tu?”). Nel terzetto dei protagonisti spicca Ariunbaatar Ganbaatar che stupisce tutti con una voce ben timbrata e nerboruta, che si esprime con una dizione chiara e un fraseggiare eloquente e oculato. Connazionale del fenomeno Enkhbat, accende l’entusiasmo dei vociomani, lieti di inaugurare la “scuola mongola”. Luciano Ganci è invece una rassicurante certezza. Timbro luminoso, squillo esaltante, suono ben proiettato in avanti: è quello che si ha in mente quando si parla di scuola italiana. Il fraseggio è molto sfumato, curatissimo ed elegante, forse più del solito. Convince meno soltanto nella sua cabaletta iniziale, dalle rinunciabili variazioni. Nino Machaidze affronta l’impervia scrittura della protagonista con una postura vigorosa e si direbbe fin quasi aggressiva: e ne esce indubbiamente vincitrice, al prezzo di un certo garbo. Ma forse, si penserà, la pulzella guerriera può anche farne a meno. Certo non giova il timbro dalle risonanze vagamente vetrose, tuttavia il registro acuto resta saettante e sicuro. Scendendo invece la voce non è proprio traboccante di corposa rotondità, circostanza cui cerca di supplire con un’emissione imperiosa. Ad ogni modo si tratta di un ottimo cast, completato dal sonoro Delil di Francesco Congiu e dal Talbot di Krzysztof Baczyk. Con la sua consueta squadra, Carmine Maringola alle scene e Vanessa Sannino ai costumi, Emma Dante propone uno spettacolo visivamente allettante, nient’affatto stucchevole, equilibrato anzichenò: la cui immagine iconica è una Galleria Spada in versione floreale. Ma c’entra sempre anche la Sicilia, e infatti della Madonna appare una statua lucineggiante, scrupolosamente portata in processione; che non sta ai piedi della citata quercia, ma di un Ficus macrophylla, come quello monumentale dell’Orto Botanico di Palermo, che dona un tocco di esotismo alla selva di Orléans. Quel che è curioso notare di questa regia è che in alcuni punti sembrerebbe andare deliberatamente e senza evidente ragione contro la lettera del libretto. Per esempio, quando il Re rincorre Giovanna fuori della Cattedrale e le si rivolge dicendo: “io primo a te mi prostro”, quella subito s’inginocchia davanti a lui, che invece resta in piedi. O, ancora, è strano che la protagonista imprigionata rivolga al padre le parole “Tu che all’eletto Saulo hai le catene infrante, spezza or le mie”, quando a tutti è noto come le catene dell’eletto Saulo non siano state spezzate da Giacomo, il padre di Giovanna, ma da Dio, nientemeno. Simili modeste questioni di regia spiccia potranno anche lasciare perplessi, ma non compromettono l’esito, nel complesso felice, di questo spettacolo inaugurale.

Categorie: Musica corale

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