Tu sei qui

Musica corale

Malta, XII° Valletta Baroque Festival: “Farándula Castiza“

gbopera - Dom, 28/01/2024 - 08:31

Valletta (Malta), The Malta Chamber, XII La Valletta Baroque Festival
FARÁNDULA CASTIZA”
Forma Antiqva
Direttore Aarón Za
José de Nebra (1702-1768): Obertura de “Iphigenia en Tracia” (Allegro); Bernardo Álvarez Acero (1766-1821): Fandango; José Castel (1737-1807): Sinfonía nº 3 (Allegro); Nicolás Conforto (1718-1793): Sinfonía de “La Nitteti”; Vicente Baset (1719-1764): Sinfonia a più stromenti Bas-3; Luigi Boccherini (1743-1805): Tempo di Minuetto (Op VI); Juan Bautista Mele (ca.1701-1752): Sinfonía de Angelica e Medoro; Nicolás Conforto: Fandango; Vicente Baset: Apertura a più stromenti Bas-7; Santiago de Murcia (1673-1739): Cumbées; Nicolás Conforto: Sinfonía de “Siroe”; Francisco Corselli (1705-1778): Obertura de “La cautela en la amistad”; José de Nebra: Obertura de “Iphigenia en Tracia” (Minué, Allegro); José Castel: Sinfonía nº 3 (Minuetto); Vicente Baset: Apertura a più stromenti Bas-5.
Valletta (Malta), 24 gennaio 2024
L’offerta strumentale del Valletta Baroque Festival si articola principalmente in due direzioni: ripresa dei classici e riscoperta di autori e tradizioni musicali più rare. Proprio a questo secondo filone pertengono i due spettacoli strumentali cui assistiamo, a cominciare dalla “Farándula Castiza“ di Forma Antiqva, formazione barocca spagnola affacciatasi ormai da circa un ventennio sulla scena internazionale. Il concerto si apre con pezzi che il gruppo ha già affrontato in studio nell’ultimo album “La caramba” (su etichetta Winter & Winter): si tratta di quelle composizioni che non prevedono l’intervento vocale del soprano Maria Hinojosa – che nell’album punta a far rivivere proprio “La Caramba” Maria Antonia Vallejo, la più celebre delle dive del melodramma alla corte spagnola; a questi si aggiungono anche alcune composizioni di Vicente Baset presenti nell’album eponimo pubblicato nel 2020 per la stessa etichetta; tuttavia, sono i brani che affrontano per la prima volta quelli più interessanti, tratti dal repertorio di Francisco Corselli e Nicolás Conforto, al secolo “Francesco” e “Nicola”, italianissimi che si avvicendarono quali maestri di cappella della corte madrilena del secondo XVIII secolo, e lasciarono un ampio e variegato repertorio operistico e da camera. Per spezzare la naturale continuità stilistica che intercorre da José de Nebra, predecessore di Corselli, fino a Conforto, si inseriscono pezzi da ballo di natura anche smaccatamente popolare, giacché la nuova corte borbonica dell’epoca godeva proprio della commistione dei generi, dell’alto del basso, quasi volendo procrastinare l’inevitabile virata al classicismo che quegli anni stavano imponendo: ecco allora il Fandango di Bernardo Álvarez Acero, imperfetto e spumeggiante come ci aspetteremmo fosse eseguito all’epoca, il Tempo di Minuetto Op. VI di Luigi Boccherini, distantissimo dal modello originale (che proprio Boccherini piegò e rinverdì molte volte) e godibilmente destrutturato, le Cumbées di Santiago de Murcia, dall’andamento più decisamente folk e intrise di sapore bambocciante secentesco. Il grande equilibrio della struttura del concerto restituisce anche l’intesa pressoché perfetta che corre tra i membri della formazione: i tre fratelli Zapico, Pablo (chitarra barocca), Daniel (tiorba) e Aarón (clavicembalista e direttore dell’ensemble), assieme ai due violini di Jorge Jimenez e Daniel Pinteño e al violoncello di Ruth Verona, suonano con grande brio e trasporto, caratteri che forse non ci si aspetterebbe dall’esecuzione barocca, ma che questo repertorio invece richiede; guardarli significa penetrare silenziosamente anche un’armonia di sguardi, sorrisi, piccoli ammiccamenti, che comunicano sì la familiarità, ma anche il reciproco profondo rispetto e senso dell’ascolto – specie durante i frequenti assoli della chitarra. Questo il merito maggiore di questa “Farándula castiza”: non solo il coraggio di riproporre un repertorio quasi caduto nell’oblio; non solo l’intelligenza di scegliere un repertorio barocco “spiazzante”, ossia lontano sia dalle geometrie bachiano-vivaldiane sia dagli abbandoni larmoyant di scuola napoletana, espressione del Settecento più giocondo e pittoresco; ma, soprattutto, un’interpretazione che segue questa linea franca e gioiosa, probabilmente non prossima alla perfezione esecutiva (ogni tanto qualche quarto di tono “scappa”, qualche variazione o abbellimento salta) ma del tutto aderente allo zeitgeist che ha visto fiorire e furoreggiare questo genere nella Spagna post-asburgica. Un’esperienza difficilmente ripetibile. Foto Elisa Von Brockdorff

Categorie: Musica corale

Le cantate di Johann Sebastian Bach: terza domenica dopo l’Epifania

gbopera - Dom, 28/01/2024 - 00:20

Herr, wie du willt, so schick’s mit mir BWV 73 (Signore, sia fatto di me secondo la tua volontà) è la cantata prevista per la terza domenica dopo l’Epifania, eseguita a Lipsia il 23 gennaio 1724. Sul piano del testo così come su quello musicale, la cantata poggia su un Corale di Kaspar Bienemann (1540-1591) del 1582, che da il titolo alla composizione e ne costituisce “l’incipit”, qui spezzato in 4 segmenti, con l’inserimento di 3 interventi delle voci soliste in stile recitativo. A sostegno o a completamento di questi interventi gli strumenti propongono 2 incisi tematici che vengono utilizzati come vere e proprie figure “ostinate”. Tutta la condotta risulta fortemente influenzata da continui richiami alla struttura melodica del Corale, sicchè i 2 elementi portanti del discorso, la melodia del lied ed il rivestimento contrappuntistico, si fondono in una singolare unità, tenace e sostanziosa. La cantata il cui testo potrebbe essere uscito dalla mani di Solomo Franck, segna il ritorno a quel senso della morte, abbandonato durante il ciclo natalizio, che pervade gran parte della liturgia e che il luteranesimo oppone dialetticamente, in modo modo molto vigoroso, quasi compiacendosi al senso della vita. Così questa partitura, prende le mosse da un evento gioioso: la guarigione del lebbroso e del servo del centurione e l’inno di ringraziamento dei fedeli miracolati e si trasforma in un sentimento di rassegnazione e di fede. Al peccatore il luteranesimo impone per prima cosa di credere fortemente e di rimettersi alla volontà di Dio. Un sentimento che viene tradotto da Bach in un modo quasi drammatico, spezzando la continuità del Corale con le suppliche dei recitativi e sottolineando il versetto conclusivo “Signore come tu vuoi”, ripetuto 3 volte. L’oboe, che è lo strumento dominante di questa partitura è e una frase meravigliosamente melodiosa nella bellisima aria bipartita afidata al tenore (Nr.2). Il recitativo seguente del basso (Nr.3) sfocia direttamente nell’aria (Nr.4), dai toni semplici, intimi che descrive la disponibilità dell’anima alla morte. La frase “Signore, se lo vuoi” è l’elemento ricorrente di quest’aria.
Nr.1 – Coro e recitativo (Tenore, Basso, Soprano)
Coro
Signore, sia fatto di me secondo
la tua volonà, nella vita e nella morte!
Tenore
Ah! Ma ahimè! Quanta sofferenza
mi provoca la tua volontà!
La mia vita è bersaglio della sfortuna,
dolore e avversità
mi torturano da quando vivo,
e il mio tormento non mi abbandonerà
se non in punto di morte.
Coro
Il mio desiderio è rivolto a te solo,
Signore, non farmi perire!
Basso
Tu sei mio soccorso, consolazione, rifugio,
tu che conti le lacrime degli afflitti
e non spezzi
la fragile canna della loro fede;
e poiché mi hai scelto,
pronuncia una parola di conforto e di gioia!
Coro
Custodiscimi solo nella tua grazia,
e qualsiasi cosa vuoi, donami pazienza,
poiché la tua volontà è per il meglio.
Soprano
La tua volontà è un libro sigillato che
la saggezza degli uomini non comprende; 
la benedizione ci sembra spesso maledizione,
il castigo una furiosa punizione,
il riposo a cui ci destini un giorno
nel sonno della morte,
ci sembra la soglia dell’inferno.
Ma il tuo Spirito ci libera da questi errori
e ci mostra che la tua volontà è salvezza.
Coro
Signore, sia fatta la tua volontà!
Nr.2 – Aria (Tenore)
Fà dunque che lo spirito di gioia
penetri nel mio cuore!
Spesso nel mio spirito debilitato
gioia e speranza vacillano
e si scoraggiano.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
Ah, la nostra volontà è fallace,
ora ostinata, ora paurosa,
non accettando mai di pensare alla morte;
solo un cristiano educato nello Spirito di Dio
sa sottomettersi alla sua volontà
e dire:
Nr.4 – Aria (Basso)
Signore, se lo vuoi,
le sofferenze della morte spremano
dal mio cuore gli ultimi sospiri,
se ascolti la mia preghiera.
Signore, se lo vuoi,
deponi nella polvere
e nella cenere le mie membra,
immagine corrotta del peccato.
Signore, se lo vuoi,
suonino dunque le campane funebri,
le seguirò senza timore,
il mio dolore sarà per sempre placato.
Nr.5 – Corale
Questa è la volontà del Padre
che ci ha creato;
il suo Figlio ci ha elargito
la pienezza di beni e di grazia;
anche lo Spirito Santo
ci guida nella fede,
conducendoci al Regno dei cieli.
A lui lode, onore e gloria!
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata Herr, wie du willt, so schick’s mit mir BWV 73

 

 

Categorie: Musica corale

Al Nuovo di Verona, dal 30 gennaio al 4 febbraio nell’ambito del Grande Teatro, è di scena la commedia di Carlo Goldoni “Gl’innamorati”

gbopera - Sab, 27/01/2024 - 11:02

Dopo il grande successo di “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese, la rassegna “Il Grande Teatro” organizzata dal Comune di Verona e dal Teatro Stabile di Verona – Centro di Produzione Teatrale prosegue con “Gl’innamorati” di Carlo Goldoni nell’adattamento di Angela Demattè. Lo spettacolo, in programma da martedì 30 gennaio a sabato 3 febbraio alle 20.45 e domenica 4 febbraio alle 16.00 al Nuovo, è prodotto dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale. Diretti da Andrea Chiodi, sono in scena Gaspare Del Vecchio (Fabrizio), Elisa Grilli (Eugenia), Ottavia Sanfilippo (Flamminia),Cristiano Parolin (Fulgenzio), Francesca Sartore (Clorinda), Leonardo Tosini (Roberto), Gianluca Bozzale (Ridolfo), Alessia Spinelli (Lisetta) e Riccardo Gamba (servitore). Le scene sono di Guido Buganza, i costumi di Ilaria Ariemme, le musiche di Daniele D’angelo, i movimenti scenici di Marco Angelilli, le luci di Nicolò Pozzerle.
Mercoledì 31 gennaio (e non giovedì come al solito) alle 18.00 gli attori incontreranno il pubblico. Condurrà l’incontro Piermario Vescovo, direttore artistico dello Stabile di Verona nonché segretario scientifico dell’Edizione nazionale delle Opere di Carlo Goldoni, incarico affidatogli dal Ministero della Cultura per sovrintendere l’intera opera goldoniana. L’ingresso è libero.
Biglietti in vendita al Teatro Nuovo, a Box Office e on line su
www.boxofficelive.it e www.boxol.it/boxofficelive

Categorie: Musica corale

Roma, Museo Ebraico: “Degenerata” per clarinetto e pianoforte

gbopera - Sab, 27/01/2024 - 10:36

Roma, Museo Ebraico
DEGENERATA
Concerto di Musica classica ebraica italiana per clarinetto e pianoforte.
Eseguita da Davide Casali e Pierpaolo Levi
La musica classica ebraica italiana “Degenerata” ha un ruolo molto importante nel panorama musicale internazionale, ma purtroppo per via delle leggi razziste molta di questa musica non venne mai eseguita. Il duo nasce proprio con l’intento di far conoscere e rinascere questa musica bellissima e spesso sconosciuta. Compositori quali Leone Sinigaglia, Emilio Russi, Alberto Gentili, Aldo Finzi, Mario Castelnuovo Tedesco saranno i protagonisti di questo concerto. Il duo è composto da Davide Casali clarinettista, direttore d’orchestra e direttore artistico del Festival “Viktor Ullmann”, e da Pierpaolo Levi, pianista di caratura internazionale ed esperto della musica “Degenerata” e “Concentrazionaria”. Il concerto, organizzato dalla Fondazione per il Museo Ebraico di Roma in collaborazione con il Centro di Cultura Ebraica e la Fondazione Museo della Shoah, avrà luogo sabato 27 gennaio al Museo Ebraico e rientra anch’esso negli eventi in programma per la settimana della Memoria. Qui per il programma.

Categorie: Musica corale

il violinista Matthias Lingenfelder in concerto per gli Amici della Musica di Padova

gbopera - Sab, 27/01/2024 - 08:30

Prosegue il 31 gennaio 2024, alle ore 20.15 all’Auditorium Pollini di Padova, la 67a Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Padova, con il ritorno del grande violinista Matthias Lingenfelder, negli anni scorsi più volte ospite dell’associazione come componente dell’ormai sciolto Quartetto Auryn. Al suo fianco questa volta il pianista Oliver Triendl, in un concerto che vuole essere un omaggio ad uno dei più grandi violinisti del 19° secolo, Joseph Joachim (1831- 1907). Joachim fu un compositore, collaborò con Johannes Brahms, Robert e Clara Schumann, ebbe grande fama e contribuì alla riscoperta delle composizioni per violino di Beethoven e Bach. Il concerto sarà dunque un’immersione nella tradizione della scuola violinistica tedesca durante il Romanticismo. In programma Stücke op. 2 di Joachim, la sonata F.A.E. scritta in collaborazione da R. Schumann, J. Brahms e A. Dietrich e dedicata proprio a Joachim, la Sonata n. 1 op. 78 di J. Brahms e una selezione da “Bunte Reihe” op. 30 di F. David, un altro compositore dell’epoca. Matthias Lingenfelder, dopo quarant’anni di attività con il Quartetto Auryn, continua a suonare come solista in diverse formazioni di musica da camera. Nella primavera del 2023 ha registrato l’integrale delle opere per violino e pianoforte di Gabriel Fauré con Peter Orth per l’etichetta Tacet. Matthias suona uno strumento Stradivari del 1722, appartenuto in precedenza a Joseph Joachim.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli: “In ogni vita la pioggia deve cadere” con Leo Gullotta e Fabio Grossi

gbopera - Ven, 26/01/2024 - 23:59

Roma, Teatro Parioli
Stagione 2023 2024
IN OGNI VITA LA PIOGGIA DEVE CADERE 
con Leo Gullotta, Fabio Grossi
regia Fabio Grossi
Teatro Stabile d’Abruzzo/ Stefano Francioni Produzioni /Argot produzioni
Roma, 26 gennaio 2024
Sotto la regia di Fabio Grossi, il palcoscenico ha ospitato una straordinaria e toccante pièce che ha visto protagonisti lo stesso Grossi ed il suo patner nella vita , l’acclamato attore teatrale e cinematografico Leo Gullotta
. Con sessant’anni di carriera nel mondo dello spettacolo, Gullotta è stato il volto di molti film di successo diretti da maestri del calibro di Giuseppe Tornatore, Nanni Loy, Ricky Tognazzi, Carlo Vanzina, Aurelio Grimaldi, Christian De Sica e Ficarra e Picone. “In ogni vita la pioggia deve cadere” narra le vicende di due persone che condividono una vita, supportandosi e amandosi reciprocamente. La storia si dipana negli anni Novanta, un periodo in cui i diritti civili non erano ancora una realtà nel nostro Paese, e il fulcro di questo racconto è la casa, un rifugio che accoglie e protegge questa unione. Papi e Piercarlo, due uomini di età diversa, lontani dalla classica definizione di bellezza ma autentici nella loro umanità, affrontano le gioie e i dolori, le fantasie e le passioni della vita. I protagonisti vivono la loro esistenza con tranquillità e serenità fino a quando, un giorno, la pioggia arriva, stravolgendo la loro vita ideale. Di fronte ai problemi, inevitabilmente, ci si trova impreparati, ma è un confronto che deve essere affrontato. La commedia esplora temi di amore, verità e condivisione, portando in scena due attori, una casa e due vite che si fondono in un’unica esistenza. La pioggia, in una vita intera, arriva inevitabilmente. In questo caso, si abbatte sulla vita di una coppia che condivide quarant’anni di storia. Raccontiamo la giornata di due uomini maturi, che si amano, scherzano e si trovano ad affrontare una pioggia che porta con sé problemi che suscitano riflessioni importanti: che cosa è l’amore? Qual è l’amore solido e convinto? Che significato hanno il rispetto, la fantasia e il gioco? Si cerca di esplorare serenamente il concetto di amore e di riflettere sulla vita, sulla morte e sui diritti. Le scene si delineano con essenzialità, dove gli oggetti in scena si ergono come veri protagonisti, sufficienti a suggerire che lo spettatore si trova non in una semplice ambientazione, bensì all’interno di una sorta di nido. I divani, le coperte, e la delicatezza dei colori trasmettono un’atmosfera intima, evocando la sensazione di calore e affetto. Con passo leggero, il pubblico fa il suo ingresso silenziosamente in questo spazio scenico che, al di là di ogni altro dettaglio, potrebbe benissimo rappresentare la dimora di chiunque abbia condiviso un lungo periodo di relazione e amore. Ciò che colpisce immediatamente è la sottile linea che separa la recitazione dalla realtà autobiografica in scena, un confine talmente tenue da risultare a tratti inesistente. La passione con cui entrambi gli attori affrontano temi così personali si traduce in una commistione di emozioni che ha commosso più di una persona in sala. Lo sguardo rivolto al partner, la bellezza dei gesti, e la parola, pronunciata con eleganza e autenticità, regalano al pubblico un’esperienza indimenticabile, carica di talento e verità. La questione sottesa è che, spesso, l’opinione pubblica associa immediatamente l’omosessualità esclusivamente alla sfera sessuale, trascurando la complessità e la ricchezza delle dinamiche affettive e amorose coinvolte. Sarebbe opportuno avviare una riflessione più ampia, orientata verso la comprensione dell’omoaffettività, al fine di apprezzare appieno la gamma di esperienze umane coinvolte in questo contesto. L’incanto dell’amore tra individui si svela nel delicato intreccio di rispetto e solidarietà, radicato nella volontà sincera di sostegno reciproco e nella dolce necessità di protezione. È un sentimento che si esprime attraverso la condivisione di idee, passioni, principi e valori, manifestandosi con diverse sfumature di intensità e modalità. Questo straordinario legame può sbocciare tra genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle, amici, donne e uomini, donne e donne, uomini e uomini. Ogni connessione è unico capitolo di una storia d’amore che si dipana attraverso la trama variegata delle relazioni umane.  Il pubblico ha accolto la performance con partecipazione e commozione, tributando un caloroso applauso che più che meritato. In scena sino al 28 gennaio 2024.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo Merulana: “Nuotatori d’inverno” Personale di Vittorio Marella dal 27 Gennaio al 03 Marzo 2024

gbopera - Ven, 26/01/2024 - 23:46

Roma, Palazzo Merulana
NUOTATORI D’INVERNO
Personale di Vittorio Marella
Da sabato 27 gennaio a domenica 3 marzo 2024
Palazzo Merulana, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, gestito e valorizzato da Coopculture, è lieto di presentare “Nuotatori d’Inverno”, personale di Vittorio Marella, a cura di Giovanna Zabotti. Nuotatori d’inverno è la mostra di Vittorio Marella, ventisettenne artista veneziano, autentica promessa nel panorama artistico nazionale. Il percorso rappresenta una sorta di migrazione silenziosa. Un viaggio che termina in posti in cui si cerca un contatto con la natura e in ultima analisi con la propria interiorità. L’artista compie sulla tela, con un talento straordinario, il suo personalissimo viaggio alla scoperta di un altro punto di vista. Lo fa partendo dai disegni, in mostra nella prima parte del percorso espositivo, vere e proprie annotazioni del mondo, dai tratti precisi e allo stesso tempo pieni di vita. Un mondo che l’artista non si stanca di osservare, studiandolo nei minimi particolari quasi a volerlo non solo rappresentare ma addirittura migliorare. Quando poi il suo sguardo passa dai disegni alle tele, alcune di grandissime dimensioni, ecco la sua capacità di creare atmosfere alla Hopper, di usare sapientemente colori, luci e ombre percorrendo una strada che ricollega i suoi quadri ai dipinti dei grandi maestri veneziani di cui è concittadino ed erede, come  Tintoretto e  Tiepolo, ma senza mai restare ancorato al passato.  La seconda parte del percorso espositivo comprende, infatti, 7 quadri ad olio che catturano attimi della vita quotidiana, rappresentati in un gioco di prospettive che uniscono la percezione bidimensionale a quella tridimensionale. Altra sua fonte di ispirazione sono le opere del realismo magico, in particolare i quadri di Antonio Donghi, artista presente a Palazzo Merulana nella Collezione Elena e Claudio Cerasi. Un’ispirazione che consiste più in un legame affettivo che in un punto di partenza dello studio di Marella, i cui dipinti sono sospesi tra realtà e sogno alla ricerca di “quella consapevolezza del mondo e della natura che oggi manca in ognuno di noi”, come egli stesso sostiene. Costante, poi, è la ricerca del contatto con la natura. Non è un caso che in molti dei suoi lavori sia presente il mare. “Vittorio racconta Venezia, la città di tutti e la città di nessuno, attraverso lo sguardo insolito di un veneziano – scrive la curatrice Giovanna Zabotti –  Lontano dai negozi di souvenir e dai gondolieri di San Marco, raffigura i canali silenziosi, abitati da personaggi emblemi di un’umanità alla deriva. La città fragile, minacciata dal mare, culla le figure che si muovono nella loro solitudine latente, negli scorci umidi ed inquietanti e nelle stanze private. nostre solitudini e dei tempi sospesi”. In questa sua prima mostra a Roma Vittorio Marella si confronterà con una città che lo attrae per la grandezza della sua storia e che, nelle magnifiche testimonianze archeologiche e artistiche, esprime l’invito a non aver paura di osare, a superare i propri limiti.  Un’aspirazione che Vittorio Marella ha profondamente voglia di fare sua. Il giovane artista dipinge con maestria un messaggio intrinseco, un invito a ritirarsi nella natura, in una dimensione pacifica, in cui poter sfuggire alle asperità e alle brutture dei tempi contemporanei. Le sue creazioni raffigurano personaggi che fungono da eroi e, al contempo, guardiani in un atto di azione rivoluzionaria. I volti nascosti all’osservatore conferiscono un’aura di anticipazione, indicando una prontezza nel rivelare la dimensione risolutiva a tutto questo dolore, senza indulgere in intenti narcisistici ed egoici.  Partendo dalla premessa che la Terra costituisce un sistema vivente e gli esseri umani ne sono parte integrante non è così folle sostenere la presenza di una relazione sinergica tra il benessere personale e quello del Pianeta. Le necessità di entrambi sono interconnesse, e da questa prospettiva emerge una stretta correlazione tra la crisi ecologica e le crisi interiori, psicologiche e spirituali. Ristabilire un legame ancestrale con la Madre Natura, sincronizzando i propri ritmi di vita con quelli naturali, si configura come un mezzo per migliorare l’umore, stimolare la creatività, ridurre lo stress e potenziare l’attenzione, rendendoci più energici ed efficienti. Come sottolineato dall’antropologo culturale Wolf-Dieter Storl nel suo libro “Faccio parte della foresta: l’ambasciatore delle piante racconta la sua vita”, spesso dimentichiamo la nostra dipendenza dal suolo, dal sole, dalle condizioni atmosferiche e dalle piante, elementi fondamentali con i quali abbiamo evoluto in una co-evoluzione. L’arte di questo giovane crea una sintonia con il risveglio del nostro amore per la vita, incarnando la biofilia, l’innata propensione a concentrare l’interesse sulla vita e sui processi vitali. Non sorprende, dunque, che, soprattutto dopo l’esperienza del lockdown causato dalla pandemia di Covid-19, un numero crescente di individui cerchi di riconnettersi con la natura attraverso passeggiate in luoghi incontaminati o attraverso la riconsiderazione e la centratura di se stessi. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Parco Archeologico del Celio ed il nuovo Museo della “Forma Urbis”

gbopera - Ven, 26/01/2024 - 20:00

Roma, Parco Archeologico del Celio
Museo della “Forma Urbis”
Viale del Parco del Celio 20

Viale del Parco del Celio 22
Clivo di Scauro 4
PARCO ARCHEOLOGICO DEL CELIO E MUSEO DELLA “FORMA URBIS”
Il Parco e Museo, inaugurati grazie a una serie di interventi sotto la guida scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale, costituiscono un elemento fondamentale di un ambizioso progetto di valorizzazione dell’intera area del Celio. Questa iniziativa è parte integrante di un programma più ampio di riqualificazione denominato Centro Archeologico Monumentale (CArMe), promosso da Roma Capitale. Il Parco del Celio si configura come il risultato di una complessa serie di interventi e trasferimenti di proprietà che si sono succeduti nel corso del tempo. Inizialmente costituito dalla Vigna Cornovaglia nel Cinquecento, l’area ha subito notevoli trasformazioni a seguito dei depositi di terra provenienti dagli scavi napoleonici nelle vicinanze del Colosseo e del Foro Romano. Sulla piattaforma artificiale così ottenuta si è sviluppata un’ampia zona alberata e verde, in prossimità del Colosseo, trasformata in giardino e nota come Orto Botanico. Questo progetto è emerso come una “passeggiata pubblica” commissionata da papa Gregorio XVI all’architetto Gaspare Salvi nel 1835. Salvi ha progettato un edificio adiacente al Tempio del Divo Claudio, destinato a fungere da punto di ristoro per la passeggiata pubblica. La Casina del Salvi, ispirata alla “coffee-house” del Pincio progettata da Valadier, ha influenzato l’orientamento dei viali all’interno dell’area. Recentemente, ricerche archeologiche hanno documentato le testimonianze dell’acquedotto claudio-neroniano e altre opere idrauliche sulla terrazza della Casina del Salvi. Tanto la Casina del Salvi quanto il Parco circostante sono diventati patrimonio comunale per decisione di Pio IX nel 1847. L’edificio Ex Palestra della Gioventù Italiana del Littorio, situato nella parte meridionale dell’area, completato nel 1929, ha sostituito tre capannoni in muratura del 1901, anch’essi divenuti parte del patrimonio comunale nel medesimo anno. All’interno di questo edificio in particolare è stato possibile sistemare i frammenti della Forma Urbis, in un nuovo allestimento che permette di apprezzare al meglio la monumentale pianta marmorea di età severiana, fornendo una lettura cartografica di immediata comprensione. La “Forma Urbis” originariamente adornava la parete di un’aula nel Foro della Pace, successivamente inglobata nel complesso dei SS. Cosma e Damiano nell’area del Foro Romano. Questa imponente mappa marmorea, incisa su 150 lastre di marmo e fissata con perni di ferro, occupava uno spazio di circa 18 metri per 13. Dopo la sua scoperta nel 1562, molti frammenti andarono persi, ma alcuni sono stati fortunosamente ritrovati nel corso del tempo. Attualmente, soltanto circa un decimo della pianta originale è conservato presso i Musei Capitolini dal 1742. Il nuovo allestimento del Museo della Forma Urbis consente ai visitatori di apprezzare appieno la mappa marmorea, migliorando la comprensione di un documento che, per le sue dimensioni e le condizioni frammentarie, risultava di difficile interpretazione. I frammenti della Forma Urbis sono disposti sul pavimento della sala principale del museo, sovrapposti come base planimetrica alla Pianta Grande di Giovanni Battista Nolli del 1748. All’interno dell’edificio museale sono inoltre ben esposti numerosi elementi architettonici e decorativi provenienti dall’ex Antiquarium Comunale. Il Parco, attraversato dalla linea tranviaria post-seconda guerra mondiale, si presenta attualmente diviso in due grandi aree da viale del Parco del Celio. Nell’area settentrionale si trova l’Ex Antiquarium Comunale, originariamente un Magazzino Archeologico Comunale nel 1884, poi trasformato in un museo Antiquarium dal 1929 al 1939, quando divenne inagibile a causa di gravi problemi strutturali causati dai lavori sulla metropolitana. Il Giardino ospita una ricca varietà di reperti archeologici, architettonici ed epigrafici, risultato degli scavi dell’Ottocento per la creazione di Roma Capitale. Questi reperti, organizzati in nuclei tematici, offrono al visitatore una panoramica approfondita della vita quotidiana nell’antica Roma, toccando aspetti sociali, funerari, sacri, amministrativi e architettonici. Le testimonianze esposte nel giardino includono cippi sepolcrali, tombe monumentali, templi pubblici e privati, elementi di edifici pubblici, frammenti di statue onorarie e cippi amministrativi. Inoltre, sono presenti numerosi manufatti che illustrano il gusto architettonico dell’antichità, le tecniche di costruzione e decorazione degli edifici, nonché il fenomeno del reimpiego e della rilavorazione attraverso le diverse epoche storiche della città. Questo passo iniziale di riqualificazione archeologica dell’area è parte integrante del progetto ambizioso e complesso denominato CarMe, il quale si prefigge di rendere il cuore di Roma più accessibile, fruibile e esteticamente apprezzabile. La fase iniziale prevede la riqualificazione della Passeggiata Archeologica, con il già avviato processo di anastilosi della Basilica Ulpia. La nuova fermata della metro C a Colosseo diventerà un ingresso “archeologico”, trasformandosi in un museo prima ancora dell’accesso ai Fori, e accoglierà, tra le altre opere, la celebre zanna di elefante. Il Parco Archeologico del Celio si può visitare tutti i giorni a ingresso gratuito. Il Museo della Forma Urbis resta invece chiuso il lunedì e prevede un biglietto d’ingresso, salvo per i possessori della MIC Card che possono accedere gratuitamente anche allo spazio museale. I servizi museali sono a cura di Zètema Progetto Cultura. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

La Valletta, XII° Valletta Baroque Festival: “San Giovanni Battista” di Alessandro Stradella

gbopera - Ven, 26/01/2024 - 01:26

La Valletta (Malta), Co-cattedrale di San Giovanni Battista, XII Valletta Baroque Festival
SAN GIOVANNI BATTISTA”
Oratorio su libretto di Ansaldo Ansaldi
Musica di Alessandro Stradella
San Giovanni Battista FILIPPO MINECCIA
Erodiade la Figlia GILLIAN ZAMMIT
Erode ALBERT BUTTIGIEG
Erodiade la Madre ALESSANDRA VAVASORI
Consigliere d’Erode CLIFF ZAMMIT STEVENS
Valletta Baroque Ensemble
Direttore Steven Devine
La Valletta (Malta), 23 gennaio 2024
Da ormai diversi anni Malta ospita nella sua capitale uno dei più importanti appuntamenti per la musica barocca, il Valletta Baroque Festival, che intende creare un preciso dialogo tra il ricco patrimonio Sei e Settecentesco della città e l’universo musicale del medesimo periodo. Il fitto calendario d’eventi si snoda nel mese di gennaio, sebbene già in autunno alcune manifestazioni lo anticipino (nel 2023 la messa in scena di “Apollo e Giacinto“ di Mozart). Abbiamo avuto la fortuna di poterci recare a Malta in questi giorni e testimonieremo quattro eventi che ben incarnano lo spirito di questa splendida iniziativa, a cominciare dalla proposta in forma di concerto dell’oratorio “San Giovanni Battista” di Alessandro Stradella, compositore che negli ultimi anni sta giustamente venendo riscoperto, splendido rappresentante di quel periodo che va da Monteverdi a Scarlatti e dal quale – a torto – ancora poco attingono i teatri. Questo oratorio ha tutte le carte in regola per entrare nel grande repertorio barocco: parti vocali scritte mirabilmente e ben variate, una partitura estremamente equilibrata, né troppo scarna né pretenziosa, che si nutre dell’interessante mélange tra strumenti a corde (siano essi archi, cembalo o tiorba), e una tensione drammatica che potrebbe benissimo favorire la messa in scena. Questa è probabilmente l’unica pecca della recita cui abbiamo assistito: se si fosse lavorato nella direzione di una drammatizzazione probabilmente avremmo goduto ancora di più della gemma stradelliana. Anche perché attenta alla resa drammatica è stata in primis la conduzione del maestro Steven Devine, che dalla partitura ha chiaramente ricavato le molte sfumature che caratterizzano i personaggi – e le ha comunicate con diverse rese strumentali nei recitativi. Devine imprime il suo appassionato tocco a entrambe le formazioni che ha davanti, sia quello di Concertino che quello di Ripieno, costruendo linee musicali coese e coerenti con le linee di canto dei solisti. Fra di essi, tutti di livello alto, spiccano i fulgidi talenti di Gillian Zammit e Albert Buttigieg, soprano e basso: la prima è la vera star della serata, sia in quanto autoctona, sia per il ruolo assai impegnativo di Erodiade la Figlia (giacché il libretto non riporta il nome di Salomè, forse in ottemperanza alla tradizione strettamente evangelica, che ne omette il nome); con una bella vocalità, piacevolemente piena, associata all’assoluta precisione nell’intonazione, anche nelle agilità più ardite, la Zammit conferisce all’interpretazione un che di malioso, distante dalla solita – e spesso poco opportuna – espressività barocca. Accanto a lei Buttigieg ha da affrontare l’altrettanto difficile ruolo di Erode che si estende su quasi tre ottave: l’emissione è vigorosa e l’attenzione a una varietà della resa coloristica sono gli assi nella manica di questo interprete locale che ci auguriamo di poter risentire anche fuori dalla sua isola, giacché meriterebbe senza dubbio di essere apprezzato in altre sedi teatrali e concertistiche. Accanto a loro l’italiano Filippo Mineccia, nel ruolo eponimo, certo non sfigura, sebbene la parte smaccatamente contraltile del Battista lfaccia emergere un certo disagio proprio nella zona più centrale della voce, rispetto al regstro acuto ben sostenuto e dal piacevole smalto; in ogni caso la linea di canto è elegante e la bella gamma espressiva garantisce il pieno apprezzamento della sua performance. Ad Alessandra Vavasori è toccato il “cerino corto” di Erodiade la Madre, la parte più breve dell’oratorio, che comunque il mezzosoprano rende correttamente; esprimiamo invece qualche riserva sul tenore maltese Cliff Zammit Stevens, che, per quanto attento al fraseggio e dotato di una vocalità tutto sommato piacevole, non sembra del tutto a suo agio nel registro acuto, con suoni si sfilacciano e talvolta perdono forza o intonazione. Il bel successo delle due repliche di questo oratorio è sancito dal chiaro e caloroso apprezzamento del pubblico, ammaliato dalle vertiginose geometrie stradelliane tanto quanto dai due Caravaggio mozzafiato ed enormi di fronte ai quali si è tenuta l’esecuzione, a loro volta nel contesto sontuoso della Co-cattedrale di San Giovanni Battista, vero gioiello d’arte barocca affrescato, tra gli altri, da Mattia Preti. Un luogo che parla – anzi, che canta – da sé. Foto Rob Matthew

Categorie: Musica corale

Genova, Teatro Carlo Felice: “Madama Butterfly”

gbopera - Gio, 25/01/2024 - 23:20

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione d’Opera 2023-24.
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti.Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa dalla tragedia di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-cio-san) JENNIFER ROWLEY
F. B. Pinkerton MATTEO LIPPI
Sharpless ALESSANDRO LUONGO
Suzuki CATERINA PIVA
Goro MANUEL PIERATTELLI
Il principe Yamadori PAOLO ORECCHIA
Lo zio bonzo LUCIANO LEONI
Il commissario imperiale CLAUDIO OTTINO
Kate Pinkerton ALENA SAUTIER
La madre di Cio-cio-san DANIELA ALOISI
Lo zio Yakusidé LUCA ROMANO
L’ufficiale del registro FRANCO RIOS CASTRO
La zia LUCIA SCILIPOTI
La cugina ADELAIDE MINNONE
Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “for Dance”ETS
Direttore Fabio Luisi
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia e Scene Alvis Hermanis
Costumi Kristine Juriàne
Coreografia Alla Sigalova
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice Genova.
Genova, 20 gennaio 2024
Chi non fosse soccorso da una buona memoria, con la sola lettura della locandina, potrebbe non avvedersi che lo spettacolo, parte visiva e regia, è quello andato in scena a Milano, alla Scala, il 7 dicembre del 2016. Ottima e lodevole l’iniziativa del teatro genovese che pare abbia così sottratto al macero un allestimento, al tempo, apprezzato e lodato. In tempi di magre finanze è più che mai apprezzabile, soprattutto quando si tratti di allestimenti di qualità. Rimane comunque ambiguo come sia avvenuto questo recupero che la locandina parla di “Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova” e non vi è accenno ad alcun tipo di “ripresa” registica; si danno quindi per scontate le presenze di Alvis Hermanis per la regia, di Kristine Jurjàne per i costumi, di Alla Sigalova, Gleb Filshtinsky e Irina Sipunova rispettivamente per coreografia, luci e video. La parte musicale è nelle abili ed esperte mani di Fabio Luisi, genovese illustre universalmente apprezzato, che, per la prima volta, in Italia, dirige un’opera di Puccini. L’esito della prova è sicuramente positivo. Le poche battute d’inizio sono appassionate e disperate quasi a riassumervi l’intera tragica vicenda. Una regia e delle scene più concentrate sui fatti, più crude e meno floreali, come una protagonista più saldamente lirica avrebbero sicuramente aiutato Luisi, grande straussiano, a mantener costante la tensione dell’avvio e ad evitare le discontinuità, seppur di minimo impatto, che qua e là si sono colte. Eccellenti, come sempre nelle prove recenti, le prestazioni dell’Orchestra del Carlo Felice e del Coro del teatro guidato da Claudio Marino Moretti. Il soprano Jennifer Rowley, Cio-Cio-San, ha debuttato nel ruolo lo scorso anno a Palm Beach e qui, a Genova, nella nostra pomeridiana, è alla prima recita. Può sicuramente essere dovuto a queste circostanze un certo impaccio scenico e qualche incertezza vocale. Il suono in alto svetta ma mostra qualche sforzo, ma tutta la linea di canto ci appare affievolita, priva di una reale proiezione e povera di colori. Magnifico e commovente, “l’Abramo Lincoln”, il riconoscimento della nave, per noi l’acme emotivo dell’opera, per il resto, la Rowley corre sempre il rischio di essere soverchiata. Così succede con l’ottima Caterina Piva, Suzuki pregevole sia scenicamente che nel canto. Peccato che il suo agire venga impacciato dai, sicuramente imposti, passettini giapponesi. Il vederla muoversi in quel modo, assolutamente innaturale, è fastidioso e certo troppo penalizzante per una prestazione musicale peraltro superlativa. Il Pinkerton di Matteo Lippi è più che convincente. È un personaggio che gli si addice alla perfezione, come già constatammo, a Torino, la scorsa stagione. Una impavida vocalità tenorile, sfogata senza risparmio, che ben disegna il bullo del Bronx o dell’Ohio, che, nella penosa circostanza in cui si trova, non si trattiene dall’espandersi con un troppo baldanzoso “addio fiorito asil”. Il bel timbro lo aiuta poi a disegnare un personaggio, per quanto odiabile, a tutto tondo. Alessandro Luongo è il console Sharpless, appropriato nella correttezza del canto e nella recitazione. La volgarità, espressa nel primo atto, che lo mette alla pari dell’incosciente sventatezza di Pinkerton, fa sperare in un taglio registico innovativo, ma la compitezza mostrata negli atti successivi e la voce molto ben educata gli affibbiano la consueta strisciante e ossequiente seconda linea d’ambasciata. Nel duetto con Butterfly è vocalmente assai efficace e la proprietà linguistica ne fa il protagonista. Manuel Pierattelli come Goro e Paolo Orecchia, Yamadori, fanno bene e illustrano i loro personaggi. Allo stesso modo la sfilza dei comprimari: a cominciare dalla Kate Pinkerton di Alena Sautier per proseguire con Luciano Leoni, lo zio Bonzo; Claudio Ottino, Commissario imperiale; Franco Rios Castro, Ufficiale del registro; Luca Romano, Yakusidé; Daniela Aloisi, Lucia Scilipoti e Adelaide Minnone, rispettivamente madre, zia e cugina di Butterfly. Cast complessivamente ben assortito che testimonia il buon operato della direzione artistica e dello staff del Carlo Felice. La recita di sabato 20 gennaio scontava un assoluto “tutto esaurito”, così come la prima del venerdì. Pare che i biglietti di Butterfly siano andati a ruba e che il pienone della sala sia assicurato per tutte le sei date previste dal cartellone. Oltre alle presenze, era tangibile anche l’apprezzamento del pubblico che si è palesato con grandi e prolungati applausi tributati indistintamente, a chiusura dello spettacolo, all’insieme dei protagonisti e ai singoli. Successo personale per Luisi!

 

 

 

 

 

 

 

 

Categorie: Musica corale

Museo della Shoah Casina dei Vallati:” Le parole dell’odio. Gli ebrei romani venduti ai nazisti” dal 25 Gennaio al 15 Febbraio 2024

gbopera - Gio, 25/01/2024 - 19:34

Fondazione Museo della Shoah Casina dei Vallati
via del Portico d’Ottavia, 29
LE PAROLE DELL’ODIO. GLI EBREI ROMANI VENDUTI AI NAZISTI.
Orari di apertura: dalla domenica al giovedì dalle 10 alle 17, venerdì dalle 10 alle 13, sabato e festività ebraiche CHIUSO
Ingresso libero e gratuito – Prenotazione obbligatoria per i gruppi
www.museodellashoah.it www.romaebraica.it
In occasione del Giorno della Memoria, la Comunità Ebraica di Roma e la Fondazione Museo della Shoah presentano la mostra “Le parole dell’odio. Gli ebrei romani venduti ai nazisti”, aperta al pubblico dal 25 gennaio al 15 febbraio 2024. La mostra, dal forte impatto emotivo dovuto al tipo di installazione e all’esposizione di documenti originali, si pone come spazio di riflessione sul ruolo dei delatori durante l’occupazione nazi-fascista di Roma, un tema estremamente doloroso per la storia della Capitale, che coinvolse non solo le famigerate bande, ma anche quei cittadini italiani che, nei mesi successivi al 16 ottobre 1943, denunciarono altri italiani in quanto ebrei. Il percorso, allestito presso la Casina dei Vallati, sede della Fondazione Museo della Shoah, è strutturato in due tempi: all’entrata sono esposti alcuni documenti originali, tra cui denunce dei sopravvissuti contro i loro delatori, accompagnati da pannelli didattici che spiegano il contesto storico e geografico in cui avvennero gli arresti a seguito delle delazioni; nella seconda parte, in una stanza completamente buia, il pubblico è partecipe di un’installazione immersiva in cui l’audio è protagonista insieme al video. Le voci narranti, accompagnate dalla proiezione di un lettering, restituiscono stralci di denunce, testimonianze e parole di odio. Il progetto, a cura di Amedeo Osti Guerrazzi e Giorgia Calò, è co-organizzato dal Centro di Cultura Ebraica, l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma e la Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale nell’ambito di Memoria genera Futuro, il programma di appuntamenti promosso in occasione del Giorno della Memoria 2024. All’inaugurazione sono intervenuti tra gli altri: l’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, il presidente della Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia e il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. 

Categorie: Musica corale

Novara, Teatro Carlo Coccia: “Madama Butterfy”

gbopera - Gio, 25/01/2024 - 11:07

Novara, Teatro Coccia, stagione lirica 2023/24
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacona racconto di John Luther Long e dal dramma di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly FRANCESCA SASSU
Suzuki ANNA MALAVASI
Kate Pinkerton ELEONORA FILIPPONI
F.B. Pinkerton VALERIO BORGIONI
Sharpless ANGELO VECCIA
Goro MARCO MIGLIETTA
Il principe Yamadori – Il commissario imperiale XIOSEN SU
Lo zio Bonzo EMIL ABDULLAIEV
L’ufficia del registro RENZO CURONE
Dolore ROMEO LUNEDEI
Orchestra Filarmonica Italiana
Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore José Miguel Pérez Sierra
Maestro de Coro Alberto Sala
Regia Renato Bonajuto
Scene Laura Marocchino
Costumi Artemio Cabassi
Luci Ivan Pastrovicchio
Novara, 21 gennaio 2024
La stagione del Teatro Coccia si apre nel segno di Puccini come si era chiusa la stagione precedente. Ad aprire il cartellone 2024 è, infatti “Madama Butterfly” titolo sempre amato dal pubblico che segue a poco più di un mese “La bohème” conclusiva della scorsa stagione.
La parte musicale è stata affidata per l’occasione all’Orchestra Filarmonica Italiana guidata da José Miguel Pérez Sierra. La direzione mostra un sicuro passo drammatico e rende con efficacia l’incedere drammatico della vicenda affrontata in modo rigoroso e senza indulgere in facili sentimentalismi. A tratti si ritrova forse un volume quasi eccessivo, un sinfonismo di marca verrebbe da dire wagneriana che poteva risultare fin soverchiante in una sala d’ottima acustica come quella novarese. L’orchestra si comporta ottimamente così come buona è la prova del coro. La compagnia di canto contava di molti debuttanti nei rispettivi ruoli a cominciare dalla protagonista. Francesca Sassu affronta il complesso ruolo in condizioni di salute non ottimali che di certo hanno influito sulla prestazione. La voce non ha mostrato difficoltà nel registro acuto, le difficoltà sono emerse nelle zone medio-basse dell’emissione. La Sassu ha comunque offerto una prova più che  soddisfacente grazie alle innegabili doti di musicalità ed esperienza riuscendo a superare con intelligenza la situazione non ottimale. L’interpretazione è sobria e rigorosa, priva delle leziosaggini del primo atto e degli eccessivi patetismi dei successivi per dare al personaggio un carattere sincero ma forte, non eccessivamente ingenuo e capace di affrontare la tragedia con atteggiamento rigoroso degno della figlia di un samurai. Una lettura pulita e moderna che rappresenta un buon punto di partenza su cui lavorare per approfondire ulteriormente.
Valerio Borgioni ha una bella voce di tenore lirico schietta e luminosa è, ci appare però un po’ “leggero” per la parte e ancora non perfettamente padrone nelle finezze del canto di conversazione. Debuttante anche lui nel ruolo risulta nel complesso un po’ superficiale anche se piacevole nel canto. Angelo Veccia è uno Sharpless di rude bonomia, molto yankee nella sua schietta franchezza e vocalmente regge molto bene la parta sfruttando a fini espressivi una certa spigolosità timbrica. Pienamente padrone del ruolo sul piano espressivo evita l’errore di un’eccessiva partecipazione emotiva rendendoci giustamente un personaggio più avveduto ma culturalmente non così distante da Pinkerton. Anna Malavasi è una solida Suzuki, forse fin troppo scura come colore vocale e con una certa tendenza a indulgere in sonorità di petto. Interpretativamente ci è parsa quasi distaccata dal dramma della padrona. Veramente molto bravo il Goro insinuante e vocalmente ragguardevole di Marco Miglietta, anche lui debuttante nel ruolo. Sicuro lo zio Bonzo di Emil Abdullaiev e nel complesso ben centrati i personaggi di fianco. Una nota particolare per Romeo Lunedei (Dolore) cinque anni e una capacità di stare sul palcoscenico da attore consumato unita a una travolgente simpatia. La regia di Renato Bonajuto, abituale presenza del palcoscenico novarese, si distingue per delicatezza di tocca ed eleganza dell’impianto visivo. Tradizionalissima ma non polverosa, anzi capace con tocchi precisi e delicati di dare giusto risalto alla tragedia. La regia di Bonajuto porta lo spettatore a vivere il dramma di Butterfly con immediatezza e semplicità ma senza inutili zuccherosità. Si nota uno studio attento sulla cultura giapponese e sui simboli a cominciare dall’uso dei colori – si veda l’abito nuziale di Butterfly in bianco con disegni di gru in rosso simbolo di fedeltà femminili – fino al suicidio finale solenne e sacrale nella forma prettamente femminile dello Jigai. Bonajuto non nasconde i momenti più forti dell’opera ma li vela con un sipario di tulle quasi a renderne meno brutale e più astratta la natura con un senso del pudore molto nipponico. Una sensibilità al dettaglio, alle piccole cose per citare le parole di Butterfly, che è la cifra più autentica ed emozionante dello spettacolo. La scena Laura Marocchino è d’impianto assolutamente tradizionale ma arricchita da piccoli tocchi che accompagnano emotivamente la vicenda siano essi i giocattoli di Dolore abbandonati ai lati della scena già nel primo atto, presagio del prossimo dramma, o il ripiano ben in vista dove campeggiano le spade che uniscono in un comune destino il padre e la figlia. Sontuosi i costumi di Artemio Cabassi comprensivi di autentici kimono storici giapponesi che contribuiscono non poco alla magia visiva complessiva. Sala gremita e convinti applausi per tutti gli interpreti.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli:” In ogni Vita la pioggia deve cadere” dal 26 al 28 gennaio 2024

gbopera - Mer, 24/01/2024 - 20:00

Roma, Teatro Parioli
Stagione 2023 2024
IN OGNI VITA LA PIOGGIA DEVE CADERE 
con Leo Gullotta, Fabio Grossi
regia Fabio Grossi 
Teatro Stabile d’Abruzzo, Stefano Francioni Produzioni e Argot produzioni 
“In ogni vita la pioggia deve cadere” racconta la storia di una vita, la vita di due persone che vivono assieme e che si amano. Oggi si può dire che viene raccontata una “famiglia arcobaleno”, ma senza figli, solo due persone. Punto focale è la casa, che accoglie questa unione. Due persone di età differente, non la classica tipologia di bellezza, ma persone vere: gioie e dolori, con tanta fantasia. Papi e Piercarlo sono due uomini che svolgono la propria esistenza con tranquillità e serenità fino a che, un giorno, arriva “la pioggia” e questa vita, ideale, viene stravolta. Quando ci sono problemi, non siamo mai preparati ad affrontarli, ma lo si deve fare. La commedia parla d’amore, di umanità, di verità, di condivisione. In scena due attori, una casa, due vite che sono una vita. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Nuovo: “Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese: Un viaggio intrigante nell’animo umano

gbopera - Mer, 24/01/2024 - 11:11

Verona, Teatro Nuovo, Rassegna “Il Grande Teatro” 2023/24
“PERFETTI SCONOSCIUTI”
di Paolo Genovese
Con: Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Lorenza Indovina, Valeria Solarino
Regia Paolo Genovese
Scene Luigi Ferrigno
Costumi Grazia Materia
Luci Fabrizio Lucci
Produzione Nuovo Teatro, Teatro della Toscana, Lotus Production
Verona, 23 gennaio 2023
“Perfetti sconosciuti”, il film diretto da Paolo Genovese nel 2016, è  noto che è stato vincitore al botteghino e premiato con due David di Donatello, tre Nastri d’argento, tre Ciak d’oro, il premio Flaiano 2016 e altri riconoscimenti. Paolo Genovese riprende il soggetto e lo propone sul palcoscenico  firmando la sua prima regia teatrale. Questa affascinante esplorazione dell’animo umano attraverso il prisma delle relazioni e della tecnologia si svolge in un’unica notte durante una cena tra amici, durante la quale viene innescato un gioco inaspettato e sconvolgente: ognuno di loro è tenuto a mettere il proprio cellulare al centro del tavolo e rendere pubbliche tutte le chiamate e i messaggi ricevuti durante la serata. Ciò che inizia come un semplice gioco si trasforma rapidamente in un viaggio emotivo, rivelando segreti, tradimenti e bugie che cambieranno le dinamiche del gruppo. «Mentre nel cinema – dice Genovese – prendi per mano il pubblico e lo conduci dove vuoi, lo porti a vedere i dettagli che hai deciso di mostrare, il teatro è un unicum, è come se girassimo una sola scena di un’ora e mezza, perché lo sguardo del pubblico è libero di spostarsi in un ambiente dove ha tutto a disposizione. Il progetto è stato ambizioso ma anche entusiasmante. Ci tenevo a vedere come attori con caratteristiche diverse da quelli dei protagonisti del film lo avrebbero interpretato portando ciascuno le proprie esperienze e il proprio vissuto. Ho voluto scrivere un testo nuovo per il teatro. Una volta finito il film, non è più tuo mentre su uno spettacolo teatrale puoi lavorare tutte le sere ed è una sensazione bellissima». La trasposizione teatrale si presenta con fascino cinematografico a partire dalla scenografia di Luigi Ferrigno: un soggiorno con vista zona cucina dove i piatti vengono veramente preparati consentendo al pubblico di entrare nelle vicende dei sette protagonisti che emergonono quanto mai complessi e sfaccettati, ognuno con le proprie debolezze, ipocrisie, paure e segreti. Genovese riesce magistralmente a sviluppare le personalità dei protagonisti, mettendo in luce la fragilità umana e la difficoltà di mantenere autenticità nelle relazioni. Il cast, quanto mai affiatato, offre interpretazioni brillanti, dando vita a personaggi realistici e coinvolgenti. Ci si rende perfettamente conto che, dal 2016 al 2024 il tema è ancora molto attuale e rilevante: il ruolo della tecnologia nelle relazioni umane, anche se, fortunatamente, si è fatto qualche passo in avanti, sul piano sociale, soprattutto sulla visione dell’omosessualità, tema che trattato in questo lavoro.  Genovese ha saputo costruire una piece teatralmente efficace, che sa catturare il pubblico, che può riflettere, ma anche divertirsi, sul proprio rapporto con la tecnologia e sulle conseguenze delle azioni online. La platea ha quindi decretato un successo pieno e convinto a tutti i bravissimi interpreti. Si replica fino al 27 gennaio. Qui le successive date. Foto Salvatore Pastore

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman:” Falstaff a Windsor”

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Stagione 2023 2024
FALSTAFF A WINDSOR
liberamente tratto da Le allegre comari di Windsor
di William Shakespeare
con
Alessandro Benvenuti, Giuliana ColziAndrea CostagliDimitri FrosaliMassimo SalviantiLucia SocciPaolo CioniPaolo CiottiElisa Proietti
scene Sergio Mariotti
costumi Giuliana Colzi
luci Samuele Batistoni
musiche Vanni Cassori
adattamento e regia Ugo Chiti
produzione Arca Azzurra
Roma, 23 Gennaio 2024
Nel suggestivo scenario del Teatro Quirino di Roma, “Falstaff a Windsor” prende vita come un’espressione teatrale d’effetto, intrecciando con raffinata maestria il puro divertimento a momenti di profonda intensità.
Ugo Chiti, illustre autore e mentore di questa pièce, ha generosamente plasmato il personaggio di Falstaff sull’abile attore Alessandro Benvenuti, creando un’entità tanto lontana da lui fisicamente quanto distante individualmente. La sfida intrapresa è stata affrontata con un fascino avvincente, dando vita a una danza scenica tra l’io “persona” e l’alter ego “attore”, manifestandosi in ogni gesto e dialogo con straordinaria precisione. Questo spettacolo, oltre a incarnare un’esperienza teatrale leggera e divertente, segna la conclusione di una trilogia dedicata all’antieroe. Il viaggio teatrale ha avuto inizio nel lontano 2002 con “Nero Cardinale”, opera originale di Ugo Chiti, e si è sviluppato con la trasposizione sulla scena de “L’avaro” di Molière. Una trilogia che ha beneficiato della fruttuosa collaborazione tra l’interprete, Chiti e la prestigiosa compagnia Arca Azzurra. Lo spettacolo propone una riuscita reinterpretazione di “Le comari di Windsor”, introducendo chiavi di lettura alternative. Rivolto a un ampio spettro di interpretazioni concettuali, la performance non risulta mai eccessivamente complessa anche se spesso appare non sempre molto ritmata. In una narrazione  spesso vivace e ironica emergono riflessioni profonde, intensi sentimenti e simbologie che si applicano alla società contemporanea. Nonostante l’ambientazione storica, lo spettacolo si presenta attuale, adattandosi al modo di pensare e agire odierno anche per le scelte strutturali dello spettacolo. La scenografia firmata da Sergio Mariotti , infatti, si presenta essenziale e priva di fronzoli, composta da gradoni e quinte laterali, con sul fondale un telo bianco che, sorprendentemente, non ospita proiezioni . L’assenza di elementi di arredo scenico contribuisce a concentrare l’attenzione sugli elementi fondamentali: il testo e la parola. Le luci di Samuele Batistoni, adoperate per conferire tridimensionalità e carattere, diventano cruciale elemento di supporto. Il palcoscenico si risolve così in uno spazio dove la parola non solo comunica, ma diviene il principale strumento per informare sulle location e il periodo temporale della narrazione. I costumi, a cura di Giuliana Colzi, seguono un approccio atemporale, mantenendo una coerenza stilistica con le scelte registiche. È abbastanza evidente una maggiore preziosità e creatività nei costumi indossati dal protagonista. L’espressività dialettica di Alessandro Benvenuti, arguta, guizzante, audace e sagace, arricchisce il valore scenico e narrativo, contribuendo notevolmente al successo complessivo. Con maestria, l’attore rende Falstaff irresistibilmente simpatico, bilanciando goffaggine e ingegno. La gestione impeccabile del linguaggio (sebbene alle volte non sempre ben scandito), dell’umorismo e la presenza scenica trasformano ogni scena in pura delizia. Il suo talento comico innato emerge nei giochi di parole e battute eseguiti con brillantezza, riportando in auge la sofisticata comicità shakespeariana. Paolo Cioni, con la sua fisicità e abilità mimica, si immerge completamente nel personaggio di Semola, il giovane paggio di Falstaff creato da Chiti. Le tre protagoniste femminili, Giuliana Colzi, Lucia Socci e la bravissima Elisabetta Proietti, si distinguono per la loro brillante comicità e, soprattutto, per la straordinaria complicità manifestata sul palco. La loro presenza aggiunge vivacità all’azione scenica, conferendo un ritmo incisivo alla performance teatrale. L’intera compagnia di massima offre un contributo qualitativo funzionale. Riguardo al finale, si evidenzia un significativo cambiamento apportato da Ugo Chiti, come dichiarato dal regista stesso. Questa modifica è guidata dalla volontà di esprimere “l’asprezza di una condanna che ribadisce come nell’ordine prestabilito del potere non si trovi posto dove collocare un corpo tanto grande quanto irrazionale e magico.” La scena si svolge nel consueto parco di Windsor, sotto la grande quercia, ma il finale non presenta più lo scherzo con folletti e spiritelli. Al suo posto, emerge un’apparizione del re Enrico, il quale esclude il protagonista dalla comunità con una condanna decisa: il bando. Il pubblico non propriamente convinto ha applaudito con cortesia. Photo@SerenaPea. Recite sino al 28 gennaio 2024.

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: “Médée”

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 23:31

Milano, Teatro alla Scala, stagione 2023/24
“MÉDÉE”
Opera in tre atti su libretto di di François-Benoît Hoffman
Musica di Luigi Cherubini
Médée MARIA PIA PISCITELLI
Jason STANISLAS DE BARBEYRAC
Crèon NAHUEL DI PIERRO
Dircé MARTINA RUSSOMANNO
Néris AMBROISINE BRÉ
1 ère femme GRETA DOVERI
2 ème femme MARA GAUDENZI
Le duex fils TOBIA PINTOR e GIADA RIONTINO
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Michele Gamba
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Milano, 20 gennaio 2024
L’oscura ombra della strega colca sembra aleggiare sulla Scala. Il ritorno di Medea alla Scala, per la prima volta in francese e per la prima volta dalle mitiche recite del 1953 con Maria Callas protagonista era uno egli spettacoli più attesi della stagione ma ha dovuto scontrarsi con una serie di problemi che ne hanno compromesso la riuscita, quasi l’ombra di una maledizione.Originariamente la parte della protagonista avrebbe dovuto essere affidata a Sonia Yoncheva, scomparsa dal cartellone è stata sostituita a Marina Rebeka – scelta ideale vista la recente splendida prestazione ne “La Vestale” di Spontini. Purtroppo già alla prima la cantante lettone ha mostrato problemi di salute che l’hanno costretta a rinunciare alla recita da noi vista. Maria Pia Piscitelli subentrata a meno di ventiquattr’ore dalla recita fa di necessità virtù e ha il merito di portare in porto la recita con professionalità. La cantante ha il merito di conoscere la parte – l’ha cantata recentemente a Madrid – però le condizioni della serata hanno sicuramente influito e soprattutto nel primo atto la tensione è stata palpabile. Nel complesso siamo di fronte a un’interpretazione di onesta professionalità. Il timbro non piacevolissimo è accettabile in questo titolo mentre più problematico è l’evidente discontinuità di emissione. L’interpretazione è  pulita ma questo non basta certo per un ruolo così gigantescamente complesso che, soprattutto nel finale dovrebbe mostrare la tragica lacerazione emotiva del personaggio. Forse con un diverso taglio registico le cose sarebbero potuto andare meglio?…La cantante va ringraziata per aver salvato la recita in extremis.Non enstusiasma anche resto del cast. Stanislas de Barbeyrac avrebbe la voce giusta per Jason, scusa e autorevole con un registro centrale robusto e sonoro al netto di un timbro un po’ prosaico. Purtroppo sono apparsi diversi problemi di emissione – anche per lui qualche problema di salute? – con acuti forzati e una zona di passaggio velata e indurita. Sul piano espressivo – complice anche la regia – appare anodino e distratto sfiorando appena la ricchezza espressiva del ruolo. Sotto tono ci è apparso anche Nahuel di Pierro (Créon), vocalmente molto meno a fuoco rispetto al recente Noè al Donizetti Festival bergamasco e soprattutto poco centrato sul piano espressivo. Troppo bonario e priva di autorevolezza non riesce a rendere la natura profonda del ruolo, incarnazione dei valori di civiltà e sacralità del diritto della polis greca opposta al mondo altero e barbarico di Medea. Molto meglio la rimanente componente femminile. Martina Russomanno canta con gusto ed eleganza e risolve con sicurezza la scomoda parte di Dircé. La voce è di bel colore e le colorature pulite e precise. Sul piano espressivo riesce a rendere un personaggio ricco e sensibile nonostante una certa banalizzazione registica del ruolo. Voce leggera ma gusto e musicalità per la Néris di Ambroisine Bré che canta con il giusto lirismo la bella “Ah! Nos peines seront communes”. Molto brave Greta Doveri Mara Gaudenzi – allieve dell’Accademia Scaligera – nei panni delle ancelle di Médée. Convince pienamente la direzione di Michele Gamba nel trovare un giusto raccordo nell’ambigua natura di una partitura sospesa tra passato e futuro. Nella visione di Gamba a prevalere e senz’altro quest’ultimo con una predilezione per colori vividi e ritmi marcati che esaltano il sapore già quasi beethoveniano di tanti momenti – soprattutto nel III atto – ma capace anche di classica eleganza nei momenti più lirici e manierati. Gamba rende con precisione il colore espressivo dei singoli momenti, la ricchezza della scrittura cherubiniana capace di far sentire nello strumentale, forse ancor più che nel canto, le lacerazioni dei personaggi. Come sempre inappuntabili le prove del coro e dell’orchestra scaligera.
La regia di Damiano Michieletto è una sorta di sintesi della sua estetica portata a estreme conseguenze con il risultato di dividere implacabilmente il pubblico. Regia costruita partendo da un’idea forte e imperiosa che viene imposta a costo di forzare la coerenza drammaturgica del testo. Qui l’intera vicenda è vista attraverso gli occhi dei bambini, testimoni e vittime del dramma famigliare. I recitativi sono quindi sostituiti da monologhi fuori scena degli stessi – operazione assai discutibile sul piano filologico specie in occasione della prima esecuzione della versione originale – ed è il loro l’unico punto di vista che conta. L’idea è sicuramente forte e da un certo punto di vista ben raccontata – Michieletto sa far recitare e la coppia dei bambini è scenicamente straordinaria – ma a lungo andare risulta semplicistica. A Michieletto – e lo abbiamo spesso notato – non interessano i personaggi e la loro psicologia, il tutto ridotto a modelli astratti, a stereotipi privi di autentica vita e utili solo all’impianto ideologico d’insieme. È una scelta legittima ma continuiamo a nutrire dubbi su questa concezione teatrale. Le scene di Fantin ripropongono gli algidi interni borghesi e le atmosfere strimberghiane viste mille volte dal barocco a Wagner. Arredi scarni con pochi elementi essenziali – il bucranio d’oro del vello, una statua carbonizzata a evocare il cadavere di Dircé; alcuni effetti scenici molto riusciti – Médée che evoca il fuoco dal nulla per incantare la corona. Molto forzata – a parere dello scrivente – la scelta di mostrare l’uccisione dei bambini in stridente contrasto con l’estetica più autentica della tragedia e della sua funzione catartica. Questa però non è più una tragedia ma un dramma borghese di natura sociale e tutto diventa lecito. Efficaci le luci di Alessandro Carletti. Foto Brescia e Amisano

Categorie: Musica corale

“Vita d’eroe” secondo Andrés Orozco-Estrada nuovo direttore principale dell’orchestra RAI

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 08:32

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, stagione Sinfonica 2023-24.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrés Orozco-Estrada
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n.38 in Re Maggiore K.504 “Praga”, Richard Strauss: “Ein Heldenleben”, poema sinfonico op.40.
Torino, 19 gennaio 2024
L’avvio della serata è con la mozartiana sinfonia n.38 “sinfonia di Praga”, del 1786. Pezzo quantomai teatrale, contemporaneo infatti del trittico delle opere su testi di Da Ponte, che tanti apprezzamenti stavano ottenendo nella capitale boema. L’interpretazione non ci è parsa, purtroppo, perfettamente a fuoco. 4 contrabbassi, 6 violoncelli e 8 viole congiunti al raddoppio di corni, trombe, oboi e fagotti, appesantendo i bassi e scandendo i ritmi con il suono di timpani assai secchi, ci hanno fatto piombare in una faticosa stagnazione inerziale. Il suono, mancando di vivacità e di tridimensionalità, snervava le linee musicali relegandole ad una sfuocata, seppur rumorosa, piattezza. Arrancando si è tagliato il traguardo con gli immancabili applausi finali. Il pubblico abbondante, da tutto esaurito, era costituito sicuramente anche da molti neofiti, visti gli applausi fuori ordinanza a fine movimento, da cui gli abituali frequentatori dell’Auditorium RAI sanno astenersi. Il gigantesco Poema Sinfonico “Vita d’Eroe” op.40 di Richard Strauss, seconda parte della serata, grazie a tutt’altra ottica direttoriale, più consona al contesto, ha avuto un esito assolutamente positivo. L’esecuzione è stata preceduta da una coinvolgente presentazione, dal podio, da parte dello stesso direttore Andrés Orozco-Estrada, che vanta pure una recente nomina a Principale Conduttore dell’Orchestra sinfonica nazionale RAI. Microfono alla mano, in un ottimo italiano screziato dal nativo accento colombiano, ha illustrato la “trama” del poema. L’esposizione è stata corredata dall’esecuzione, da parte di alcuni dei primi leggii dell’orchestra, dei temi musicali identificanti situazioni e personaggi così da renderli riconoscibili nel corso dell’esecuzione complessiva. Credo si debba apprezzare, senza riserve, l’iniziativa. Finora si è fatto ben poco per istruire ed invogliare il potenziale neo-pubblico giovanile a frequentare le serate di classica, per cui, indipendentemente dagli esiti ottenuti, crediamo si debba comunque valutare positivamente e ringraziare per la nuova intrapresa sperando in ulteriori reiterazioni. Si è passati poi alla musica: il direttore, senza remore e senza tema di cadere in una tronfia esibizione muscolare, fa dispiegare all’OSN RAI al completo, un gran bel suono, potente e vibrante che, al giusto, si attenua e si intenerisce quando rappresenta i rapporti tra l’Eroe e la sua compagna, senza temere  le insidie di un romanticismo troppo mieloso. Allo stesso modo, ha salda la barra di un dignitoso virile patetismo nell’illustrare il finale smarrirsi delle forze e della volontà del protagonista. Magniloquenza, retorica smodata, romanticismo e patetismo di maniera sono sicuramente presenti, essendo il sale, ma pure il tossico, dei poemi sinfonici tardoromantici; l’entusiasmo di Orozco-Estrada, con la superiore valentia dell’OSN RAI, sanno comunque convertirle in un menù di portate entusiasmanti e ben digeribili. La prestazione dell’orchestra, come da tempo è fortunata consuetudine, risulta infatti superlativa e appassionante fino a coinvolgere inesorabilmente anche chi non ami specificamente questo tipo di musica. Da citazione obbligatoria sia il primo violino della serata, Alessandro Milani, che, per lunghi tratti, da solista, funge da Compagna dell’Eroe e il primo corno, Francesco Mattioli, ardita punta di diamante della fanfara degli otto corni che gran parte hanno della partitura e della resa sonora. Orozco-Estrada, con un elegantissimo outlook personale, mobilissimo sul podio, twista instancabilmente il torso, mulina le braccia e con mani danzanti, senza bacchetta, modella suono e sentimenti. Pare poi di indovinare atteggiamenti molto cordiali e comunicativi con l’orchestra, non mancando mai il sorriso dalle sue labbra. Scroscianti, abbondanti e prolungati gli applausi, qui opportunissimi, dell’entusiasta numeroso pubblico torinese.

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro Malibran: “Pinocchio” di Pierangelo Valtinoni

gbopera - Mar, 23/01/2024 - 01:00

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2023-2024
PINOCCHIO”
Fiaba musicale in due atti su libretto di Paolo Madron liberamente tratta da “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi.
Musica di Pierangelo Valtinoni
Pinocchio MICHELA ANTENUCCI
Geppetto MATTEO FERRARA
La fata GIOVANNA DONADINI
Il gatto/Dottor Gufo CHIARA BRUNELLO
La volpe/Dottor Corvo CHRISTIAN COLLIA
Mangiafuoco/L’oste ROCCO CAVALLUZZI
Tonno/Lumaca/Pulcinella ROSA BOVE
Lucignolo/Arlecchino LARA LAGNI
Gendarmi, il grillo parlante, conigli, coro, coro di burattini, coro di bambini, coro di pesci Piccoli Cantori Veneziani
Orchestra del Teatro La Fenice,
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Marco Paladin
Maestro del Coro Diana D’Alessio
Altro maestro del Coro Elena Rossi
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Alessia Colosso
Costumi Sara Marcucci
Light designer Elisabetta Campanelli
Movimenti coreografici Silvia Giordano
Ballerini: Antonino Montalbano, Matilde Cortivo, Eva Scarpa Dabalà, Ilario Marco Russo, Nik Simonetti e Emanuele Frutti.
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice – Spettacolo risevato alle scuole
Venezia, 20 gennaio 2024
C’era una volta un pezzo di legno”. L’incipit del più celebre tra i classici della letteratura infantile sta scritto, in bella calligrafia su una delle due quinte, che delimitano la scena, mentre La fata introduce la storia del burattino più famoso del mondo e Il grillo parlante – cui presta la voce il Coro di voci bianche – esordisce con un allegro “Cri. Cri. Cri.”, spronando il buon Geppetto a dar forma al suo Pinocchio. Intanto già si presentano – oltre ad Arlecchino e Pulcinella, che offrono, qui come altrove, il loro smaliziato punto di vista – Il gatto e La volpe, nonché Lucignolo, che confessano le loro poco nobili inclinazioni. Tutto questo accade nel Prologo del Pinocchio di Pierangelo Valtinoni, su libretto di Paolo Madron, in base alla concezione del regista Gianmaria Aliverta, coadiuvato da Alessia Colosso (scene), Sara Marcucci (costumi), Elisabetta Campanelli (luci), Silvia Giordano (movimenti coreografici). L’opera – nella sua prima versione, destinata ad essere suonata e cantata, in larga parte, da bambini e ragazzi – debuttò trionfalmente al Teatro Olimpico di Vicenza nel 2001. Una nuova versione in due atti, con esecutori prevalentemente professionisti, venne rappresentata – con analogo successo – alla Komische Oper di Berlino per tre stagioni consecutive, dal 2006 al 2008 e poi in tante altre prestigiose sedi, quali Amburgo, Lipsia, Monaco, Torino,Venezia (Fenice, 2019). La versione realizzata per Berlino – che mantiene intatte la freschezza di quella originale – è tornata a Venezia dopo cinque anni. Il suo organico strumentale – un ensemble ricco di strumenti a percussione – è finalizzato a un raffinato utilizzo dei colori orchestrali: ad esempio il timbro del pianoforte indica La fata, quello dei fiati Il grillo parlante. La partitura, contenente chiari riferimenti al sistema tonale, si caratterizza per un raffinato eclettismo di ritmi e di stili: dal classico al pop, al rock, a certi ritmi ricorrenti nel repertorio del Novecento, come la marcia di Mangiafuoco o il ragtime del Gatto e la Volpe o ancora il samba nella seconda scena del primo atto, con Pinocchio, Geppetto e Il grillo parlante. Già Croce riteneva che il romanzo di Collodi piacesse non solo ai piccoli, ma anche agli adulti. Un’opinione evidentemente condivisa anche dal compositore vicentino che, insieme al librettista, vi individua la presenza, tipica nelle fiabe, di due livelli di lettura: il primo è alla portata di ogni bambino, l’altro, più complesso, riguarda una tematica – esistenziale e letteraria – particolarmente importante come quella riguardante il rapporto con la figura paterna. Il principale movente dell’azione, nel Pinocchio valtinoniano, è infatti la ricerca del padre da parte dello scapestrato burattino: una tematica, che è alla base anche di due opere successive di Valtinoni – La Regina delle nevi e Il Mago di Oz –, cosicché si parla di una “Trilogia della ricerca”. Quanto alla messinscena, Gianmaria Aliverta ambienta l’azione negli Anni Quaranta del Novecento – un’epoca in cui i nonni raccontavano ancora le fiabe ai nipotini –, aggiungendo, peraltro, alcuni elementi riferibili alla contemporaneità, come a suggerire che la storia tratta dal romanzo di Collodi è senza tempo. La narrazione, al pari della musica, procede spesso per scene tra loro isolate come le puntate di una miniserie di Netflix. Affinché tutto risulti chiaro, il palcoscenico è diviso in due. In alto sta il mondo reale – un’aula scuolastica, dove La fata/maestra fa leggere ai suoi alunni Le avventure di Pinocchio –, in basso domina il regno della fantasia, dove si materializza l’immaginazione di quegli scolari, che peraltro, in alcuni momenti, scendono nel mondo fantastico, incarnando alcuni personaggi: gli aiutanti della fata, gli asinelli, i pesci. Ne risulta uno spettacolo di semplice fruizione, ma nel contempo intrigante e divertente anche per quegli adulti che – come direbbe Pascoli – sappiano ascoltare il “Fanciullino”, nascosto in ognuno di loro. Fantasiosi e colorati i costumi e le scene, eleganti le movenze coreografiche, bravissimi i bambini impegnati in palcoscenico, tra cui – ineccepibili nelle loro prestazioni canore, a delineare uno stuolo di personaggi animaleschi ed umani – i Piccoli Cantori Veneziani, che – guidati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi – hanno saputo tener testa ai cantanti professionisti. Quanto a questi ultimi, tutti si sono fatti apprezzare per una vocalità garbata e nel contempo espressiva. In particolare, Michela Antenucci ha offerto un Pinocchio spigliato nel fraseggio come nel gesto scenico. Improntata a dolcezza, ma anche a una pacata fermezza è apparsa la Fata di Giovanna Donadini, mentre Matteo Ferrara (Geppetto) ha reso efficacemente la disarmante rassegnazione dell’umile falegname. Molto validi anche Rocco Cavalluzzi (Mangiafuoco/L’oste), Chiara Brunello (Il gatto/dottor Gufo), Christian Collia (La volpe/dottor Corvo), Lara Lagni (Lucignolo/Arlecchino), Rosa Bove (Il tonno/La lumaca/Pulcinella). Il direttore Marco Paladin ha saputo utilizzare – con la complicità degli encomiabili strumentisti dell’Orchestra della Fenice – un’ampia tavolozza orchestrale: così a diffusi passaggi dai colori brillanti e vivaci – scanditi dai molteplici ritmi ricorrenti in partitura – si contrapponevano squarci dalle sfumature più delicate. Successo pieno e caloroso, tra l’entusiasmo dei piccoli spettatori.

Categorie: Musica corale

Milano, Palazzo della Triennale: “Pittura italiana oggi” fino all’11 febbraio 2024

gbopera - Lun, 22/01/2024 - 23:43

Milano, Palazzo della Triennale
PITTURA ITALIANA OGGI”
a cura di Damiano Gullì
Progetto di allestimento Studio Italo Rota
Honorary Board Francesco Bonami, Suzanne Hudson, Hans Ulrich Obrist
Centoventi opere di altrettanti artisti italiani, prodotte nell’ultimo triennio, sono le protagoniste della mostra alla Triennale di Milano “Pittura italiana oggi“, titolo generico quanto pretenzioso, che già non si attira la simpatia dell’avventore appassionato d’arte contemporanea, ma glissons. Fino all’11 febbraio, sarà possibile entrare in contatto, quindi, con quella che vuole essere una ponderosa summa di ciò che di pittorico si può trovare in giro, travalicando generi, stili, generazioni e qualsiasi altra classificazione ci possa venire in mente; tuttavia per dare un senso a questo intervento, cercare perlomeno delle linee guida sembra indispensabile: decidiamo allora di considerare queste opere dal punto di vista della loro consapevolezza artistica, ossia del dialogo che consciamente instaurano con la tradizione che le ha precedute e i fenomeni che, in un modo nell’altro, le hanno viste formarsi; sembrerebbe una categoria molto vasta, eppure, a ben vedere, sono davvero pochi gli artisti in grado di comunicare questa coscienza: perlopiù regnano arbitrarietà o epigonismo, cioè i due estremi opposti della nostra categoria, e questo francamente spiace. È vagamente consolatorio, tuttavia, accorgersi che entrambe queste visioni distorte del valore artistico affliggono soprattutto artisti attorno ai sessant’anni, mentre gli under 40 emergono veramente come le espressioni più interessanti della pittura italiana contemporanea – a cominciare da “Insostenibile dare un titolo (bruciare da dentro)” di Gianni Politi [dettaglio in foto, courtesy l’artista e Galleria Lorcann O’Neill], opera che apre la mostra e si pone l’obiettivo mirabilmente raggiunto di ricostruire astrattamente una celebre pala d’altare manierista – la “Deposizione” di Pontormo, più che l’“Assunta” di Tiziano che riporta il commento all’opera; poi Vera Portatadino e il suo “As the Sun burns the ground”, che si confronta con De Pisis e Dalì, comunicando l’intensità dell’assenza attraverso ampie campiture di colore sfumate col gessetto; come lei Linda Carrara, che in “Fondale. Il giorno” rifiuta l’astrattismo tout court per comunicarci un mondo acqueo e lattiginoso in cui perderci, dai rimandi escheriani e orientali; il “Solleone” di Roberto De Pinto, che strizza l’occhio all’illustrazione grafica e ad alcune atmosfere sincretiche (Balthus, Botero), specialmente nell’uniformità cromatica, riportando il sé dell’autore al cuore del discorso iconografico; “L’imperatrice” di Dario Pecoraro, che costruisce il soggetto, ispirato ai tarocchi, per strati decorativi, echeggiando tradizioni bizantine e simboliste; “Veicolo a motore si schianta contro un albero” di Aronne Pleuteri, il più giovane espositore e fra i più attenti a trattare la tela, nel quale un esasperato pittoricismo trasmuta un incidente stradale in un turbine di pennellate calibratissime e tese, che ricordano ugualmente Fragonard e Segantini, un’allucinazione tra naturale e artificiale à la Julia Ducournau; l’imponente “Notturno” di Thomas Berra, fascinoso gioco ton-sur-ton dal sapore tardo simbolista – strizzando l’occhio a Puvis de Chavannes e Rousseau Le Douanier. Queste, per sommi capi, le opere più interessanti tra le giovani leve; tra quelli più navigati, invece, senz’altro alcuni nomi sono già ben noti a collezionisti e critici, talvolta anche al grande pubblico (sebbene questo non ne garantisca la riuscita artistica): è il caso di Nicola Samorì, classe ‘78, il cui lavoro sulla deturpazione del supporto getta un ideale ponte tra il Seicento e Fontana, in un’operazione che non vuole avere nulla di irriverente quanto di disturbante (come la splendida riproduzione del San Sebastiano dello Spagnoletto su lastra d’onice presente in questa esposizione sub titulo “Irene cura l’informale”); suo coetaneo è Oscar Giaconia, che qui porta un’opera paradossalmente materica e per questo ipnotica, “Parasite soufflé”, che ci sfida a guardarla tanto quanto a riconoscere i nove materiali poggiati su una pelle plastificata, e solleva uno dei temi più cari ai pittori di questa generazione, ossia il labile confine tra io e natura. Una manciata, invece, le opere interessanti della generazione precedente, affette per lo più da un’autoreferenzialità difficile da penetrare; ritroviamo freschezza, invece, nelle sperimentazioni materiche di Stefano Arienti (qui con la rielaborazione in pongo su tela de “L’Ospedale a Saint Rémy” da Van Gogh); nel “Grande Corteo” di Luca Bertolo, che si pone l’arduo compito di riassumere il XX secolo in una serie di volti in marcia (con chiari richiami a Ensor), tra slogan, simboli e segni di interpretazione talvolta non immediata; nella “Fossa madre (Mother ditch)” di Enrico David (tutto incentrato sulla costruzione della tela, ripartita per geometriche aree di campitura, come in certe avanguardie); ma soprattutto nelle opere del siciliano Francesco Lauretta (“Oxygen”) e della milanese Fulvia Mendini (il dittico “Il mago” – nella foto – e “Fata simultanea”), che tra pop, queer e dada decostruiscono non solo il soggetto, ma il concetto stesso di opera d’arte: Lauretta ponendo fuori dalla tela il suo stesso significato (delle bombole d’ossigeno dipinte di rosa), svuotando l’intervento pittorico dell’ansia da messaggio che prende troppi suoi coetanei; Mendini proponendo un’estetica sfacciatamente naïf, al di là del semplice figurativismo e del design, alla ricerca di una bidimensionalità dalle cromie lisergiche, che al contempo non rinuncia a iconografie specifiche. La disposizione delle opere, a cura dello Studio Italo Rota, risente di un concetto un po’ passé di mostra, che più che valorizzare tende semplicemente ad accostare le opere, a volte in maniera un po’ ingenua (un angolo tutto verde, uno tutto rosa, uno tutto informale, un altro neofigurativo eccetera), altre invece ospitando opere site specific – tuttavia poco convincenti. La sensazione è chiaramente quella che sarebbe bastata la metà degli artisti nel medesimo spazio, ma evidentemente il curatore Damiano Gullì ha desiderato estendere l’invito a questa ricca collettanea al più vasto numero d’artisti, affinché si potesse coinvolgere realtà pittoriche molto diverse tra loro; questo, in effetti, resta il punto forte dell’esibizione: difficilmente troviamo raccolte così tante opere di tanti artisti diversi e, sebbene il valore artistico della maggior parte di costoro ci paia per lo meno latente, questa numerosa pluralità resta la ragione principale per visitare la mostra. Foto di Giorgio Benni e Piercarlo Quecchia, DSL Studio © Triennale Milano

Categorie: Musica corale

Firenze: Daniele Gatti e l’Orchestra del Maggio tra le Trasfigurazioni dell’Eros

gbopera - Lun, 22/01/2024 - 01:37

Firenze, Teatro Maggio Musicale Fiorentino: Calendario Gennaio>Marzo 2024
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Arnold Schönberg (1874-1951): Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) op. 4a; Richard Strauss (1864-1949) Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione) Poema sinfonico op. 24; Richard Wagner (1813-1883) da Tristan und Isolde: Vorspiel und Liebestod (Preludio e Morte di Isotta)
Firenze, 20 gennaio 2024
La partecipazione al concerto del 20 gennaio, con un programma così particolare, ha costituito, per il numeroso pubblico nella Sala Zubin Mehta, un’esperienza significativa. Protagonisti tre capolavori di area austro-tedesca, composti tra la seconda metà del XIX secolo e la prima parte del XX nell’interpretazione dell’Orchestra del Maggio, esperta di tali repertori, guidata da Daniele Gatti, un direttore tra i più scrupolosi nella restituzione di ogni dettaglio della partitura. L’ordine non cronologico delle composizioni in cartellone seguiva un procedimento a ritroso in cui – se in musica ricorda quello retrogrado (dalla fine si ritorna, nota per nota, all’inizio) – in senso più ampio assumeva il desiderio del ritorno al principio (passato) che, in alcuni casi, non esclude il desiderio di ‘trasgredire’ quanto appartiene alla tradizione. A tenere unito il programma era il fil rouge della trasfigurazione dell’amore e dell’armonia coinvolgendo la scienza musicale nell’accezione verticale dei suoni e traghettando l’ascoltatore in un mondo in cui la musica assurgeva ad autentica trasfigurazione della realtà. All’inizio un’autentica perla di un venticinquenne Schönberg (composta nel 1899 per sestetto d’archi, qui nella versione per orchestra d’archi, op. 4a). Il compositore si nutre della lezione tardoromantica brahmsiana per lo sviluppo della variazione e wagneriana per il cromatismo, trovando ispirazione dalla poesia di Richard Dehmel. Provando ad immaginare la luce lunare e cangiante dipinta sulla tela (orchestra) da Gatti sembrava di rivivere la mutevolezza di situazioni del wagneriano Tristan und Isolde (Atto II). Nei cinque numeri della partitura (dal Grave all’Adagio finale) era un continuo mutamento di figure e di idee valorizzate da un’ampia gamma di dinamiche in un continuum sonoro. La varietà sonora e timbrica di questa versatile sezione orchestrale, grazie alla duttilità dei musicisti e al lavoro di concertazione del direttore (la scelta delle arcate garantiva bellissimi risultati sonori), risultava talmente raffinata da esprimere una moltitudine di sfumature tanto da immaginare qualcosa di inesistente come il quarto rivolto dell’accordo di nona alla battuta 42, allora escluso dai teorici e introdotto dal compositore ad orecchio, irritando la società dei concerti che ne escluse l’esecuzione. La trasfigurazione dello straussiano Tod und Verklärung è già compresa nei titoli del poema sinfonico permeato da Eros e Thanatos: Largo (Il malato, in prossimità della morte); Allegro molto Agitato (La battaglia tra la vita e la morte non offre alcuna tregua per l’uomo); Meno mosso (La vita del moribondo passa davanti a lui); Moderato (La trasfigurazione). Una straordinaria e coloratissima partitura con un organico a grande orchestra: tre legni (compresi anche il corno inglese, clarinetto basso e controfagotto), ottoni (4 corni, 3 trombe e tromboni, tuba), percussioni (timpani, tam-tam), 2 arpe e archi. Già dall’atmosfera oscura e grave iniziale in pianissimo (alcuni fiati, archi in sordina e il rintocco dei timpani) con il melos affidato ai violini e viole che proiettava l’ascoltatore verso la drammatica situazione del moribondo si poteva altresì percepire la mutevolezza delle armonie. A descrivere la particolarità dell’intera partitura, in primis il tema della trasfigurazione (fa, sib, do, re [salto di ottava ascendente], re, do), insieme alle indicazioni di agogica, dinamiche, cambiamenti di tempo, suoni pizzicati, uso della sordina, ecc. (non è un caso il ricorrente “agitato”) che traducevano sonoramente ‘agitazioni’ del discorso musicale e del pensiero tanto che alla prima esecuzione Hanslick definì la composizione «orribile battaglia di dissonanze, dove i legni urlano […] mentre gli ottoni rimbombano e gli archi sembrano impazziti». Il Vorspiel und Liebestod, tratto, com’è noto, da Tristan und Isolde, microcosmo di bellezza senza tempo, ha chiuso il programma nella maniera più wagneriana possibile. Il tema è l’amore ‘trasfigurato’ che potrà realizzarsi solo attraverso la morte. In una lettera a Liszt (1854) Wagner chiarisce le sue intenzioni: «Poiché in vita mia non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho abbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta». Rendere musicalmente tutto ciò è stata un’impresa ciclopica ove, pur in presenza dei leitmotive, per l’eccessivo uso del cromatismo, la continua sospensione armonica, il rimandare continuo delle cadenze, ecc. l’ascoltatore era guidato in un viaggio emozionale che poteva sfociare anche nel pianto. È bastato l’incipit del Preludio (ingresso dei violoncelli con il leitmotiv) per rimanere folgorati dall’armonia, dal colore e dall’espressività particolare del famoso “Accordo del Tristano” (fa, si, re#, sol#). Accade alla battuta 2 ove al re# dei violoncelli si aggiungono altri suoni realizzati dai fagotti, corno inglese, clarinetti e oboi che completano un accordo il quale, per la sua molteplice interpretazione, ha impegnato gli studiosi a produrre diverse analisi armoniche. Segnalo l’intelligente e ricercata direzione di Gatti, capace di cambiare il suono dell’orchestra che, di volta in volta, era valorizzata in ogni singolo intervento come, per esempio, con i violoncelli (bb. 17-32). Per i contenuti del programma, la raffinata interpretazione, oltre che rimanere estasiati, si ha la convinzione di aver assistito ad un parto meraviglioso in cui una bellissima donna (musica) era stata fecondata dalla poesia.

.

Categorie: Musica corale

Pagine