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Musica corale

Milano, Teatro Carcano: “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi” il 10 e l’11 ottobre 2024

gbopera - Lun, 07/10/2024 - 18:32

Milano, Teatro Carcano
“SUOR ANGELICA” e “GIANNI SCHICCHI”
10 – 11 ottobre 2024
Anche quest’anno l’anteprima di stagione al Carcano è musicale: un omaggio alle origini del Teatro Carcano il cui palcoscenico, sin dall’Ottocento, ha ospitato le grandi opere liriche, da Donizetti a Bellini. La collaborazione con il Conservatorio G. Verdi di Milano si rinnova e si rafforza nel nome di Giacomo Puccini, il più celebre studente di questa istituzione musicale, nel centesimo anniversario della morte. Il compositore lucchese fu, inoltre  anche tra gli azionisti che nei primi del ‘900 sostennero la ristrutturazione e la riapertura del teatro meneghino. Una doppia produzione operistica riporta al centro due istituzioni, che condividono l’impegno nei confronti delle giovani generazioni: le rappresentazioni di Suor Angelica e Gianni Schicchi segnano per gli studenti del Conservatorio il passaggio nel mondo della professione, sotto la guida di un direttore, Andrea Solinas, già studente dello stesso Conservatorio, oggi affermato in una carriera internazionale, e di un regista, Mario de Carlo, di riconosciuta fama. Un salto dal mondo degli studi al palcoscenico, che assimila gli studenti di oggi a Giacomo Puccini, le cui prime prove pubbliche risalgono proprio agli anni trascorsi in Conservatorio. Per info e biglietti, qui.

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Porpora: Music for the venetian Ospedaletto

gbopera - Lun, 07/10/2024 - 17:52

Niccolò Porpora: “Placida surge, Aurora” S232, “Salve Regina” S308,  “Concerto per violoncello in Sol maggiore”, “Qualis avis cui perempta” S234. José Maria Lo Monaco (mezzosoprano), Stile Galante, Stefano Aresi (direttore). Registrazione: Seminario arcivescovile di Brescia, Settembre 2022.  1 CD GLOSSA GCD 923537.
Venezia nel XVIII secolo, una delle capitali europee della musica e uno dei centri maggiormente capaci di attrarre talenti musicali da tutta la penisola e non solo. Uno spazio importante nella vita musicale della città lagunare era occupato dai quattro “Ospedali Grandi”, istituzioni benefiche che si occupavano non solo della cura ai malati ma forse ancor più all’assistenza e alla formazione dei poveri. La vita di queste istituzione prevedeva ampio spazio al servizio liturgico caratterizzato da una vivace attività musicale che accompagnava questi eventi e che diventava strumento di formazione musicale per gli orfani assistiti.
L’importanza musicale degli Ospedali è confermata dal prestigio dei musicisti chiamati a operarvi, come detto non solo veneziani. Tra i forestieri una particolare importanza rivesti il napoletano Niccolò Porpora, rivale di Händel a Londra e tra i maggiori operisti della prima metà del secolo. Porpora collaborò con diverse istituzioni veneziane e in particolar modo con l’Ospedale dei Derelitti – il cosiddetto Ospedalleto che compare nel titolo dell’album – dove fu maestro di canto tra il 1742 e il 1747 e per cui compose un gran numero di composizioni sacre caratterizzate dallo stesso brillate virtuosismo che ritroviamo delle sue opere. Lo stile delle composizioni veneziane di Porpora è assai interessante perché se da un lato troviamo il gusto per il virtuosismo vocale e il senso melodico della scuola napoletana dall’altro notiamo l’adeguarsi a un gusto locale di sapore quasi vivaldiano ritrovabile ad esempio nella particolare brillantezza della scrittura strumentale.
La presente registrazione per l’etichetta spagnola Glossa Musica presenta due mottetti e un “Salve Regina” per contralto e orchestra. Si tratta di composizioni destinate ad Angiola Moro, la più talentuosa delle allieve veneziane di Porpora e la destinataria di molte delle musiche composte tra il 1744 e il 1746, anno della prematura scomparsa della cantante. I brani sono caratterizzati da sezioni brevi – solo “Quali avis cum perempta” presenza un andamento più ampio e disteso – e fortemente contrastanti con una predilezione per brani brillanti e di gusto galante e mondano, cui solo il testo richiama la destinazione liturgica degli stessi.
L’orchestra Stile Galante impegnata su strumenti originali è diretta da Stefano Aresi, fondatore e anima del complesso. Musicologo e filologo prima che direttore parte da un accurato studio critico di cui l’esecuzione musicale è una sorta di messa in prova. Si riscontra quindi una particolare cura per la resa sonora non solo strumentale ma anche spaziale. Il coinvolgimento della Stanford University mira proprio alla ricerca di ricreare la spazialità sonora per cui queste musiche furono concepite.
L’esecuzione non è però solo rigore filologico, anzi, l’orchestra si fa apprezzare per la bellezza del suono e per la qualità dell’intonazione, non così comune nelle esecuzioni con strumenti antichi. Aresi mostra inoltre notevole sensibilità nell’accompagnamento del canto esaltando l’ottima prova di José Maria Lo Monaco.
La cantante siciliana ha una lunga frequentazione con questo mondo musicale che emerge in un rigore stilistico pienamente interiorizzato e reso con assoluta naturalezza. La voce della Lo Monaco affascina per il colore caldo e morbido e per la bella omogeneità su tutta la gamma, ammirevole la gestione dei gravi su cui la tessitura batte con frequenza. Le colorature sono sgranate con naturalezza e la tenuta sul fiato le permette di reggere alcune lunghe frasi sostenute presenti nelle composizioni. L’impeccabile musicalità e l’eleganza nel fraseggio completano l’ottima prova complessiva. Le composizioni vocali sono integrate dal Concerto per violoncello in Sol maggiore in cui la formazione orchestrale ha l’occasione di sfoggiare tutte le proprie qualità.

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Torino, CAMERA, Centro Italiano per la Fotografia: “Tina Modotti” dal 16 Ottobre 2024 al 02 Febbraio 2025

gbopera - Dom, 06/10/2024 - 19:30

Torino, Camera, Centro Italiano di Fotografia
TINA MODOTTI
Dal 16 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025, gli spazi di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia – accolgono la più completa esposizione mai dedicata a Modotti in Italia.
Tina Modotti (1896-1942) è una figura cardine della fotografia del XX secolo, un’artista capace di intrecciare arte e impegno politico, vita privata e ideale collettivo. La sua storia è un mosaico di incontri, viaggi e passioni che hanno definito la sua opera come una straordinaria testimonianza dei tempi che ha vissuto. Nata a Udine, Modotti emigrò giovanissima negli Stati Uniti, dove lavorò come sarta e poi come attrice a Hollywood. Fu a San Francisco che incontrò Edward Weston, il celebre fotografo statunitense che divenne il suo mentore e compagno. L’incontro con Weston rappresentò una svolta fondamentale per Tina, avvicinandola alla fotografia non solo come documentazione della realtà ma come forma d’arte. Assieme a Weston, si trasferì in Messico nel 1923, dove la sua vita e carriera assunsero una dimensione inaspettatamente intensa e militante. In Messico, Modotti si immerse nel vivace clima culturale e politico degli anni post-rivoluzionari. Qui conobbe personaggi iconici come Diego Rivera, Frida Kahlo e David Alfaro Siqueiros, artisti impegnati nella trasformazione sociale del Paese. L’attivismo politico di Tina si manifestò tanto nelle sue fotografie quanto nella sua vita: divenne membro del Partito Comunista Messicano e usò la sua arte per dare voce agli oppressi, ritraendo lavoratori, contadini e donne con una sincerità priva di retorica. Le sue immagini, spesso contraddistinte da un forte senso della composizione e della luce, rappresentano un manifesto visivo delle lotte sociali e delle disuguaglianze dell’epoca. Il Messico non fu solo il luogo in cui Modotti maturò artisticamente, ma anche quello delle sue relazioni più intense e significative. Lì intrecciò una relazione con il rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella, tragicamente interrotta dall’assassinio di quest’ultimo nel 1929. Nello stesso anno, Tina venne arrestata e accusata, senza prove, di essere coinvolta in complotti politici. Queste vicende segnarono profondamente la sua vita e la costrinsero ad abbandonare il Messico, trasferendosi prima a Berlino e poi a Mosca, dove continuò il suo impegno politico ma si allontanò progressivamente dalla fotografia. È in questo contesto complesso e appassionato che si inserisce la mostra Tina Modotti. L’opera, che approda a Torino dopo il grande successo di Palazzo Roverella a Rovigo. Dal 16 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025, gli spazi di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia – accolgono la più completa esposizione mai dedicata a Modotti in Italia. Curata da Riccardo Costantini e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, la mostra è realizzata in collaborazione con Cinemazero e presenta oltre 300 opere, offrendo un ritratto sfaccettato dell’artista e della sua poliedrica produzione. Le fotografie esposte raccontano la straordinaria capacità di Modotti di catturare l’essenza del suo tempo: dalla dignità dei lavoratori all’ineluttabile realtà della povertà, dalle contraddizioni del progresso alla bellezza della quotidianità. Le sue immagini non sono mai fredde rappresentazioni, ma testimonianze partecipi, animate da una profonda empatia verso i soggetti ritratti. Come scriveva lei stessa: “Io voglio che la mia fotografia contribuisca al cambiamento; voglio che essa sia uno strumento per la lotta, non un oggetto da ammirare”. La mostra di Torino non si limita a esporre le sue opere più iconiche, ma presenta anche materiali inediti: documenti, ritagli di giornale, video e riviste dell’epoca, offrendo una prospettiva più intima sulla vita di Modotti. Particolarmente significative sono le fotografie della sua prima e unica esposizione, tenutasi nel 1929, che testimoniano l’importanza della sua visione artistica e politica. L’esposizione è accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore, che rappresenta una preziosa guida per approfondire l’opera e la vita di questa straordinaria figura. Tina Modotti fu, come la definì il poeta Pablo Neruda, “Pura come un vetro, nella sua trasparente durezza e nella sua fragilità”. La mostra torinese rende finalmente giustizia all’intensità della sua vita e alla forza delle sue immagini, restituendoci la complessità di un’artista che, con la sua opera, ha saputo raccontare il mondo attraverso gli occhi dell’umanità più vulnerabile e coraggiosa.

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Roma, Via Appia 39: “Scoperto un raro mosaico romano “

gbopera - Dom, 06/10/2024 - 17:15

Roma, Via Appia
La Via Appia, conosciuta sin dall’antichità come la “Regina Viarum”, è stata una delle prime grandi strade romane e un simbolo della potenza e dell’ingegneria dell’Impero.
Costruita nel 312 a.C. per volere del censore Appio Claudio Cieco, la via aveva l’obiettivo di collegare Roma al porto di Brindisi, passando per Capua. Il tracciato si estendeva per oltre 500 chilometri e divenne presto una via cruciale per il trasporto di merci, truppe e messaggi. Oltre a rappresentare un’importante infrastruttura strategica, la Via Appia divenne anche una strada funeraria, fiancheggiata da sontuosi sepolcri e monumenti funebri che celebravano i cittadini romani più illustri. Nel corso dei secoli, la Via Appia ha custodito sotto i suoi strati un patrimonio storico e artistico inestimabile, rivelato gradualmente dagli archeologi che, con scavi sistematici, hanno restituito al mondo moderne scoperte di antiche meraviglie. Lungo questo antico tracciato, interrotto da tempi e storie lontane, sono stati ritrovati imponenti mausolei, ville patrizie e straordinarie testimonianze dell’arte musiva romana. In questo contesto, l’ultimo ritrovamento avvenuto presso il civico 39 della Via Appia Antica ha acceso nuove speranze per la ricostruzione di frammenti della vita quotidiana e artistica dell’antica Roma. Gli archeologi, impegnati in un complesso scavo archeologico all’interno di un’area sepolcrale, si sono imbattuti in un mosaico di rara bellezza. Parte di un pavimento decorato, il mosaico si distingue per la raffinatezza delle tessere bianche e nere, che formano complessi motivi a girali, con elementi geometrici a doppia T, incorniciati da semicerchi. La scoperta, avvenuta nel contesto del progetto ECeC (Economia Circolare e Cultura), ha subito destato grande interesse nel mondo accademico e tra gli appassionati di storia romana. Gli archeologi, dopo aver rivelato un angolo del mosaico, hanno spiegato che la sua composizione è piuttosto inusuale per Roma, il che lo rende ancora più prezioso. La datazione dell’opera, stimata tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo d.C., colloca il mosaico nel periodo dell’età severiana, caratterizzato da un rinnovato impulso architettonico e artistico a Roma. Nonostante il mosaico sia frammentato, l’eleganza dei disegni e la cura nei dettagli offrono una testimonianza tangibile della maestria musiva dell’epoca. Lo scavo è stato concepito come un progetto di valorizzazione aperto al pubblico, con visite guidate che permettono ai cittadini di osservare da vicino il processo di recupero e di partecipare attivamente alla riscoperta del patrimonio storico locale. Questo mosaico non solo contribuisce ad arricchire la comprensione della vita nell’antica Roma, ma getta anche una nuova luce sull’evoluzione dell’arte figurativa del periodo severiano. Il lavoro degli archeologi continua, con l’obiettivo di recuperare ulteriori frammenti e ricostruire un quadro più completo di quella che fu una delle civiltà più avanzate e influenti della storia antica.

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Roma, Romaeuropa Festival 2024: “ (2024)” di Francesca Pennini

gbopera - Dom, 06/10/2024 - 15:36

Roma, Romaeuropa Festival 2024
ColletivO CineticO – Francesca Pennini
<AGE> (2024)
Regia e coreografia Francesca Pennini
Drammaturgia Angelo Pedroni, Francesca Pennini
Azione e creazione Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri
Cura e organizzazione Matilde Buzzoni, Carmine Parise
Co-produzione ColletivO CineticO, Fondazione Romaeuropa, Centrale Fies Art Work Space, Fondazione Sipario Toscana
Prima Nazionale
Roma, Teatro India, 28 settembre 2024
La dimensione della casualità, l’unione delle arti in un concetto più vasto di teatro, l’aspetto ludico, la fusione tra arte e vita, tra il performer e lo spettatore sono ciò che lega la storica attività artistica di John Cage alla contemporaneità performativa di ColletivO CineticO di Francesca Pennini. Il gruppo fondato nel 2007 si è gradualmente imposto all’attenzione grazie alla sua forza innovativa conquistando numerosi premi, tra cui il Premio UBU 2017 come “Miglior spettacolo di danza”. A Romaeuropa aveva debuttato proprio con la versione originale di <age> nel 2012, dopo una breve incursione l’anno prima nell’ambito della sezione DNA (Danza Nazionale Autoriale). Nel 2012 il Centro Teatro Ateneo dell’Università La Sapienza di Roma aveva indetto in occasione del centenario dalla nascita di John Cage un premio speciale dedicato al ripensamento dell’eredità artistica del compositore statunitense e la coreografa di origini ferraresi Francesca Pennini aveva ideato per la prima volta questa performance giocosa. In scena vi era un gruppo di adolescenti tra i 14 e i 18 anni che rivelavano la loro condizione di “esemplari umani” attraverso i comportamenti assunti in risposta a molteplici situazioni di vita. A distanza di più di dieci anni, quando ormai i vecchi interpreti sono diventati “insegnanti, architetti, disoccupati, premi Ubu, artisti, avvocati, sposati, emigrati”, l’ideatrice dello spettacolo si pone l’intento di scoprire come e se sia cambiato lo spirito di questo materiale umano che in condizioni sempre più incerte e minate da guerre, catastrofi naturali e pandemie ha l’arduo compito di prepararsi alla vita adulta. Pochi oggetti scenici, tra cui delle panchine ai lati su cui si siedono come automi i nuovi interpreti e un gong che fa partire le domande su un display, contribuiscono a determinare un clima di straniamento e attesa, animato da entrate e uscite sceniche separate da brevi e alquanto astratte “performance” di coloro che tra gli interpreti si sentono di volta in volta chiamati in causa dalle questioni poste in essere. Solo di rado appaiono composizioni sceniche costruttive e movimenti realmente coreografici, nella loro danza teatrale i 9 interpreti esagerano, rendendoli caricaturali, gesti, smorfie, atteggiamenti della vita reale, così come principi di presenza scenica ripresi da precoci esperienze con nomi di punta quali Virgilio Sieni o la stessa Pennini. Lo spettatore non è più di tanto chiamato a godere esteticamente dell’evento teatrale, quanto a osservare e porsi domande insieme ai 9 ragazzi, magari per ridere di gusto dei loro atteggiamenti di duello, dell’insubordinazione ai genitori, dell’incertezza di fronte alle questioni religiose o del rifiuto della politica. La dimensione del racconto è pervasiva, ma osservata sotto la lente dell’indeterminatezza, dell’aleatorietà, della costante messa in gioco di sé in rapporto agli altri. Il riferimento a Cage permane nella sua istanza di fonte d’ispirazione, ma lo spettacolo nella sua chiave matematica rivela una grande potenza attuale e aperta verso il futuro. Ci si chiede soprattutto in risposta alla definizione di “esemplari” cosa sia oggi l’umanità. Sono molte le sovrastrutture con cui l’uomo è chiamato a confrontarsi sin da quando muove i primi passi del mondo, e forse per resistere, per imporre il proprio essere, la propria individualità in relazione al gruppo, l’atteggiamento giusto è quello di non prendersi mai del tutto sul serio, prendendo parte alla realtà, ma osservandola allo stesso tempo con distacco, in attesa di un momento di rivelazione e di gioia autentica. Per ora lo intravediamo nell’applauso soddisfatto finale. Foto Bruno Leggieri

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Venezia, Palazzetto Bru Zane: Le “Serate straniere” di Yan Levionnois e Guillaume Bellom

gbopera - Dom, 06/10/2024 - 09:30

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Passione violoncello”, 21 settembre-24 ottobre 2024
SERE STRANIERE”
Violoncello Yan Levionnois
Pianoforte Guillaume Bellom
Léon Boëllmann: Sonate pour violoncelle et piano en la mineur, op. 40; Louis Vierne: Soirs étrangers pour violoncelle et piano, op. 56 (extraits); Albéric Magnard: Sonate pour violoncelle et piano en la majeur, op. 20
Venezia, 3 ottobre 2024
Continua al Palazzetto Bru Zane il ciclo di concerti, che vede come protagonista il violoncello – inserito nel panorama musicale francese tra Otto e Novecento – di cui si prendono in considerazione diversi aspetti, quali: l’evoluzione della tecnica esecutiva e del gusto estetico, gli autori e la loro produzione per lo strumento. Com’è da sempre sua cifra distintiva, anche in quest’occasione il Centre de Musique Romantique Française, conduce il pubblico attraverso territori inesplorati, lungo un affascinante itinerario, che offre non pochi, inaspettati piaceri. Come si è verificato anche in occasione del concerto, di cui ci occupiamo. Il relativo programma era interamente dedicato alla sonata per violoncello e pianoforte: una forma musicale – affermatasi in Francia prima della stessa sonata per violino, presso autori, che erano spesso anche violoncellisti o amici di famosi violoncellisti –, che conoscerà un significativo sviluppo a partire dalla fine dell’Ottocento, quando accanto alle sonate di Camille Saint-Saëns, nascerà una cospicua letteratura sonatistica per il violoncello, che seguirà la strada aperta da César Franck – vedi autori come Boëllmann e Magnard, di cui sono state eseguite, nel corso del concerto, due rispettive sonate – oppure se ne allontanerà per cimentarsi in forme più libere, come fa Vierne nei suoi Soirs étrangers, di cui sono stati proposti, nella stessa serata, alcuni estratti. Interpreti dei brani appena citati erano due giovani musicisti pieni di talento e dal curriculum già ragguardevole, che suonano spesso insieme, pur svolgendo ognuno di loro anche un’autonoma attività concertistica: si tratta del violoncellista Yan Levionnois e del pianista Guillaume Bellom. Perfetta l’intesa tra il violoncello, ricco di colori ed accenti – scuro e misterioso oppure ruvido nel registro grave; morbido e delicato quanto sonoro e sensuale nei registri medio e acuto –, e il pianoforte, il quale più che accompagnare ha spesso avuto un ruolo complementare rispetto all’altro strumento, sapendo essere, di volta in volta, percussivo o lirico, drammatico o virtuosistico. Perentorio il violoncello nell’intonare il tema dai tratti drammaticamente decisi, che apre la “tempestosa” Sonata per violoncello op. 40 di Léon Boëllman – pubblicata nel 1897 –, ultima opera del compositore alsaziano, morto prematuramente all’età di 35 anni. Radicalmente post-romantica, si inserisce nella scia di César Franck, denotando influenze modali insieme a una certa forma ciclica. Come si è colto – grazie alla maestria dei due solisti – nel più pacato secondo movimento, dove il frammento melodico iniziale dà origine all’idea centrale, poi ripetuta ossessivamente, a parte la parentesi costituita da un’ampia frase melodica. Il conclusivo Allegro molto – che concilia spirito di sintesi e di completezza – ha riproposto i temi precedenti in una forma trasfigurata, concedendosi anche un’ultima divagazione gioiosa. Due pezzi di genere erano quelli tratti dai Soirs étrangers di Louis Vierne, una partitura “rapsodica” – datata “Losanna, agosto-settembre 1928” –, che con la sua sobrietà contrasta con l’immagine di severità, che abitualmente contraddistingue il compositore. Il pregio della semplicità, peraltro accompagnata – come avviene anche altrove nei Soirs – da un uso scaltrito di certi clichés, caratterizza “Sur le Léman”, in cui le corde dei due strumenti ci hanno immerso in un’atmosfera suggestiva, imitando il movimento dei remi e ricamando, attraverso una fluida melodia, screziata di armonie rare, le rive del Lago di Ginevra. Analogamente incantevole “Venise”, che si basa su un’immancabile barcarola.
Un esempio di sintesi e concentrazione è stato offerto dalla Sonata per violoncello e pianoforte op. 20 di Albéric Magnard – la sua ultima e più breve composizione da camera, composta nel 1909-10 – in cui Yan Levionnois e Guillaume Bellom hanno confermato le loro brillanti doti tecniche e interpretative, affrontando i vari movimenti in cui la partitura si articola: “Sans lenteur”, aperto da un tema melodico, affidato al violoncello, con l’indicazione “alla zingarese”, seguito da un tema ritmico, affidato al pianoforte con l’indicazione “alla d’Indy”; “Sans faiblir”, contraddistinto da febbrili evoluzioni e, nel trio centrale, dal ricorso alla modalità, con un effetto folklorico stilizzato; “Funèbre”, che segue senza soluzione di continuità, con toni non solo funebri, a dispetto del titolo; “Rondement”, anch’esso eterogeneo, caratterizzato da libertà tonale, asprezza nelle modulazioni, rigore architettonico. Ripetuti applausi e qualche “Bravi!” a fine serata, con un fuoriprogramma: Clair de lune dall’op. 46 di Gabriel Fauré.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Diciannovesima domenica dopo la Trinità

gbopera - Dom, 06/10/2024 - 01:57

Wo soll ich fliehen hin? BW5 è la seconda delle tre cantate bachiane destinate alla diciannovesima Domenica dopo la Trinità. Eseguita la prima volta a Lipsia il 15 ottobre 1724 questa partitura si riallaccia all’omonimo lied di Johann Heermann del 1630 una meditazione sui peccati e sulla loro remissione, secondo il testo di Matteo (cap.9 vers.1-8) che abbiamo già esplicato in occasione della Cantata BWV 48. La melodia del Corale, oltre al Coro iniziale, nel “cantus firmus” affidato ai soprani raddoppiato da una tromba a tirarsi ritorna anche in un movimento centrale, La splendida aria con “da capo” del tenore (Nr.3) che presenta una parte di viola obbligata, la “fonte divina” di cui parla il testo, che si esprime in flusso melodico quasi ininterrotto  e reso agile ed espressivo da una articolazione del fraseggio, attentissimo a ben rappresentare il pathos del testo.
Nr. 1 – Coro
Dove posso fuggire,
caricato come sono
di gravi e numerosi peccati?
Dove posso trovare soccorso?
Se anche venisse tutto il mondo
non potrebbe alleviare la mia angoscia.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Il cumulo dei peccato non solo mi ha macchiato,
molto peggio, ha oscurato il mio spirito,
Dio dovrebbe rigettarmi per le mie impurità;
ma una goccia del suo santo sangue
compie tali grandi meraviglie
che non vengo ripudiato.
Le sue ferite sono un mare aperto
in cui affogare i miei peccati,
e se mi abbandono a questa corrente
egli purifica le mie impurità.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Riversa in abbondanza, sorgente divina,
ah, riversa su di me i flotti del tuo sangue!
In questo istante si riconforta il mio cuore,
sprofondano i pesanti peccati,
tutte le macchie impure sono lavate via.
Nr.4 – Recitativo e Corale (Contralto)
Il mio fedele Salvatore mi consola,
che siano seppelliti nella sua tomba
tutti i peccati che ho commesso;
per quanto grande sia il mio crimine,
egli mi rende libero e sicuro.
Quando i credenti trovano rifugio in lui,
angoscia e paura
non sono più una minaccia
e subito svaniscono;
il tesolo del loro spirito, il bene supremo
è il sangue inestimabile di Gesù;
è il loro scudo contro il demonio,
la morte e il peccato,
in esso troveranno vittoria.
Nr.5 – Aria (Basso)
Tacere, schiere infernali,
voi non mi fate paura!
Mi basta mostrarvi questo Sangue
per ridurvi subito al silenzio,
oso farlo nel nome di Dio.
Nr.6 – Recitativo (Soprano)
Sono solo una particella del mondo,
e poichè il nobile liquido di questo sangue
conserva intatto
il suo grande potere,
tanto che ogni goccia, per quanto piccola,
può il mondo intero
purificare dai peccati,
non versare il tuo sangue
invano per me,
e fa che esso mi aiuti
a meritare il Paradiso.
Nr.7 – Corale
Guida il mio cuore e la mia mente
per mezzo del tuo Spirito,
ad evitare tutto ciò
che può separarmi da te,
e possa per sempre restare
un membro del tuo corpo.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wo soll ich fliehen hin?” BWV 5

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: “Preise dein Glücke, gesegnetes Sachsen” BWV 215

gbopera - Sab, 05/10/2024 - 00:28

Le Cantate profane – 2
Cantata profana su testo di Johann Christian Clauder per celebrare l’anniversario dell’incoronazione di  Augusto III  re di Polonia. Prima esecuzione: Lipsia, 5 ottobre 1734.
La cantata n. 215 “Preise dein Glücke, gesegnetes Sachsen” (Lodate la vostra fortuna, sassoni benedetti) fu scritta per celebrare l’anniversario dell’elezione di Augusto III a re di Polonia il 5 ottobre 1734.  Su un testo naturalmente encomiastico di Johann Christoph Clauder, Bach compose in pochi giorni la musica. Augusto III stesso ascoltò la prima esecuzione da una finestra che si affacciava su una piazza del mercato di Lipsia, sembra  dopo una fiaccolata di 600 studenti. Il  re, come narrano le cronache del tempo “non si allontanò dalla finestra finché durò la musica, ma ascoltò e si compiacque vivamente”.  Un  successo funestato da un triste avvenimento. Poco dopo, il primo trombettista di Bach, Gottfried Reiche, morì, forse a causa di uno sforzo eccessivo e/o dell’inalazione del fumo delle torce.
A parte questi fatti di cronaca, la solennità dell’occasione ha comportato ovviamente un ampio impiego di risorse. Abbiamo tre voci soliste: tenore, basso e soprano solisti, un doppio coro, e una ricca orchestra con  coppie di flauti e oboi, fagotto, un trio di trombe più timpani, archi e basso continuo composto da liuto, clavicembalo, violoncello e contrabbasso.
La Cantata si apre con un monumentale inno di lode per doppio coro, che Bach riutilizzerà in seguito nell‘Osanna in excelsis della sua Messa in si minore (BWV 232). All’interno della partitura  coppie di recitativi per tenore, basso e soprano seguite da relative arie. Il recitativo del tenore è accompagnato da oboi, fagotto, liuto e clavicembalo. Segue un’ampia e brillante  aria con  da capo (260 battute), dai toni vigorosi, accompagnata da una coppia di oboe d’amore, fagotto, archi e continuo. Il tono drammatico del  recitativo “secco” del basso è seguito da un’aria brillante e virtuosistica, anche questa con “da capo”  accompagnata da oboi, fagotto, archi e continuo. La si può collegare alla tradizione operistica delle arie  “di furore” dell’opera seria del XVII secolo. Il delicato recitativo del soprano è accompagnato da flauti sospirati e continuo, L’aria che segue, questa volta bipartita (rielaborata da Bach nell’Oratorio di Natale (n. 47), per voce di  basso e con  un oboe d’amore al posto flauto obbligato originale) mantiene i toni delicati del recitativo.  L’ultimo  recitativo con arioso è cantato da tutti e tre i solisti con la presenza di tutta l’orchestra. Il movimento finale è un maestoso inno con il testo  che invita Dio “a elevare il trono e la stirpe di Augusto affinché ci protegga con la dovuta giustizia e misericordia di lode ad Augusto III . Una pagina formalmente ineccepibile. ma non certamente memorabile…In ogni caso “Bach è sempre Bach” anche nei momenti meno ispirati.

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Preise dein Glücke, gesegnetes Sachsen” BWV 215

 

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Roma, Teatro Brancaccio: Ritorna “Saranno Famosi” dal 10 al 13 Ottobre 2024

gbopera - Ven, 04/10/2024 - 18:25

Roma, Teatro Brancaccio
dal 10 Ottobre al 13 Ottobre 2024
Fabrizio Di Fiore Entertainment presenta ROMA CITY MUSICAL in
SARANNO FAMOSI
con BARBARA COLA, Miss. Sherman, GARRISON ROCHELLE, Mr. Myers, LORENZA MARIO, Miss Bell – STEFANO BONTEMPI Mr. Sheinkopf e con ALICE BORGHETTI (Carmen Diaz), FLAVIO GISMONDI (Nick Piazza), GINEVRA DA SOLLER (Serena Kats), ALFREDO SIMEONE (Joe Vegas), MARTINA GIOVANNINI (Mabel Washington), RAYMOND OGBOGBO (Tyrone Jackson), ALESSIO SOLLA (Shlomo), GRETA ARDITI (Iris Kelly), ARIANNA MASSOBRIO (Grace), CLAUDIO CARLUCCI (Goody)
Coreografie Luciano Cannito
Coreografo Associato Fabrizio Prolli
Scene Italo Grassi
Costumi Veronica Iozzi
Traduzione e adattamento Luciano Cannito
Direzione Musicale Giovanni Maria Lori
Arrangiamenti Musicali Raffaele Minale, Franco Poggiali, Angelo Nigro, Maurizio Sansone
Vocal Trainer Ivan Lazzara
Traduzione e liriche Luciano Cannito e Laura Galigani
Disegno Luci Valerio Tiberi
Video Roberto Loiacono
Regia di Luciano Cannito
SARANNO FAMOSI, Il Musical che ha appassionato intere generazioni è stata una delle serie tv più famose e indimenticabili. Ma è stato anche un film e un musical di successo internazionale. La trama racconta la vita degli allievi e gli insegnanti della rinomata ed esclusiva scuola di Performing Arts di New York. Un gruppo di ragazzi, la loro passione e la loro dedizione per il mondo dello spettacolo, una storia che continua a conquistare ed emozionare nuove generazioni di pubblico ed ispirare miriadi di giovani talenti. Saranno Famosi è un fenomeno leggendario ed intramontabile della cultura pop. Un titolo talmente famoso da essere entrato nell’immaginario della gente come sinonimo di desiderio di realizzare il proprio sogno nel mondo dello spettacolo. Il duro lavoro, la competizione artistica, il sudore, la passione, gli amori, le sconfitte e i successi. Fabrizio Di Fiore Entertainment con la compagnia Roma City Musical, reduce dal successo di pubblico e botteghino di 7 Spose per 7 Fratelli, portano in scena un musical pieno di energia, intenso e coinvolgente che oltre a proporre la famosissima canzone “Fame” vincitrice di un Academy Award, ha una colonna sonora con nuovi brani, orchestrazioni moderne, nuove coreografie in collaborazione con un team di straordinari talenti della tv e del teatro musicale italiano. Questa nuova versione firmata da Luciano Cannito, che unisce l’esperienza di regista a quella di coreografo internazionale, sarà un trionfo di canto, danza, musica, recitazione, in una narrazione dinamica e travolgente. La scelta registica e l’adattamento di Cannito sposta l’azione dagli anni Ottanta ai nostri giorni, per rendere lo spettacolo più vicino alle nuove generazioni, e più facilmente identificabile nel pubblico di oggi. Le scene sono firmate da Italo Grassi, i costumi da Maria Filippi, la direzione musicale da Giovanni Maria Lori. Tutte figure di spicco nel mondo del musical e del teatro internazionale che daranno una nuova luce a questo titolo e renderanno questo allestimento totalmente diverso dalle edizioni precedenti. Tra gli interpreti ci sono nomi importanti che hanno confermato nella loro carriera un forte legame col pubblico grazie al loro talento ed alla loro versatilità. Alcuni di loro saranno una piacevole e inaspettata sorpresa nel teatro musicale italiano.

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Milano, Teatro Litta: “La Casa di Bernarda Alba” dall’8 al 13 Ottobre 2024

gbopera - Ven, 04/10/2024 - 18:03

Milano, Teatro Litta
“CASA DI BERNARDA ALBA”
di Federico García Lorca
a cura di Susanna Baccari e Antonio Syxty
con Nicole Guarischi (Magdalena), Danilo Lorenzetti (Amelia, Maria Josefa), Arianna Piazza (Adela), Anna Pimpinelli (Bernarda Alba), Alessia Valfrè (Poncia), Maria Chiara Vita (Martirio), Isabella Zangheri (Angustias)
disegno luci Fulvio Melli
scene e costumi Francesca Biffi
produzione Manifatture Teatrali Milanesi
Al Teatro Litta di Milano, nel circuito delle Manifatture Teatrali Milanesi, è in scena fino al 13 ottobre “La casa di Bernarda Alba” di Garcia Lorca, nell’adattamento e regia di Simona Baccari e Anonio Syxty. Bernarda Alba, scritta nel 1936, alcuni mesi prima della morte dell’Autore, fu rappresentata la prima volta a Buenos Aires nel 1945. La prima rappresentazione italiana fu a Milano, al Teatro Nuovo, nel 1947. Bernarda Alba, dopo la morte del marito, impone un lutto rigoroso alle sue cinque figlie impedendo loro di uscire di casa. La figlia maggiore, Angustias, ha ereditato una parte importante del patrimonio paterno e le viene concesso di sposarsi con il giovane «Pepe il romano», il quale è unicamente interessato alla dote della sposa e inizia una relazione clandestina con la sorella più piccola di Angustias, Adela. Bernarda lo scopre e finge di aver ucciso il giovane, sottovalutando l’amore di Adela per Pepe e provocando il suicidio della figlia disperata per l’amore perduto. A conclusione di un triennio con i docenti Debora Virello e Pietro De Pascalis e di un IV anno con Claudio Orlandini, i neodiplomati del corso attori si confrontano con questo dramma, conosciutissimo e frequentatissimo dalle scene di tutto il mondo. Questa messa in scena del testo, adattata per lo spettacolo, diventa così un’occasione unica per il gruppo dei giovani allievi con l’intento di restituire tutta la forza del testo del grande autore andaluso. Qui per tutte le informazioni.

 

 

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Roma, Teatro Vascello: “Uccellini” dal 09 al 13 Ottobre 2024

gbopera - Ven, 04/10/2024 - 14:38

Roma, Teatro Vascello
Dal 9 al 13 ottobre
UCCELLINI
di Rosalinda Conti
un progetto di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni
con Emiliano Masala, Petra Valentini, Francesco Villano
paesaggi sonori e ideazione spazio scenico Alessandro Ferroni
ambienti visivi Maddalena Parise
scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi
disegno luci Omar Scala
costumi Anna Missaglia
disegno del suono Pasquale Citera
coordinamento artistico al progetto Alice Palazzi
assistente alla regia Matteo Finamore
collaborazione alle immagini in ombra Malombra
fotografie di scena Claudia Pajewski
produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello
in coproduzione con Romaeuropa Festival, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in collaborazione con AMAT & Comune di Pesaro, lacasadargilla, PAV Fabulamundi Playwriting Europe, RAM – Residenze Artistiche Marchigiane
con il sostegno di ATCL / Spazio Rossellini
Abstract
Una casa nel bosco. Una casa del bosco. Un bosco che allo stesso tempo esiste e non esiste, non esattamente. La casa è un ambiente e pure ha qualcosa di organico. Una trama e un trauma la sorreggono. Una riunione familiare vi accade, imprevista e accidentale. Uccellini racconta di presenze e assenze, di umani (morti e vivi) e animali (vivi e morti). Di rimossi e fratture, di sguardi discordi nel dare senso al mondo, alle relazioni e alle perdite. E soprattutto di cosa c’è nel mezzo, sulla sottile linea di confine. Uccellini è un esercizio notturno tra i fantasmi, dove qualcun(altro) sembra scrivere la storia, stando in ascolto, nascosto nel bosco.lacasadargilla è un ensemble. Composta da Lisa Ferlazzo Natoli – autrice e regista –, Alessandro Ferroni – regista e disegnatore del suono –, Alice Palazzi – attrice e coordinatrice dei progetti – e Maddalena Parise – ricercatrice e artista visiva –, lavora su spettacoli, installazioni, progetti speciali e curatele. E riunisce intorno a sé un gruppo mobile di attori, musicisti, drammaturghi, artisti visivi. lacasadargilla innesta i propri lavori sulle scritture, siano esse originali, adattamenti letterari o testi di drammaturgia contemporanea. Una riflessione intorno al tempo, alle mitografie e alle eredità linguistiche, psichiche e familiari che ci legano al passato e a un futuro che possiamo solo intravedere. Nel 2019 lacasadargilla vince due premi UBU per miglior regia e miglior testo straniero con When the Rain stops Falling. Nel 2023 lacasadargilla riceve i premi UBU per miglior spettacolo e miglior testo straniero con Anatomia di un suicidio e per miglior regia con Anatomia di un suicidio e Il Ministero della Solitudine.

 

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Roma, Teatro dell’Opera: ” La bella addormentata: la storia delle versioni al Teatro dell’Opera di Roma”

gbopera - Ven, 04/10/2024 - 14:19

Roma, Teatro dell’Opera di Roma
LA BELLA ADDORMENTATA: STORIA DELLE VERSIONI AL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

Il 14 settembre 2024 il Teatro dell’Opera di Roma ha ridato il via alle danze con una Bella addormentata nella versione di Jean-Guillame Bart diretta magistralmente dalla bacchetta di Kevin Rhodes e interpretata alla prima dai danzatori ospiti Maia Makatheli nel ruolo di Aurora e Young Gyu Choi nel ruolo di Desiré. Pochi conoscono l’importante storia delle versioni di questo capolavoro di fine Ottocento nel teatro lirico romano. Il balletto fu presentato originariamente al Teatro Mariinskij nel 1890 con l’italiana Carlotta Brianza nel ruolo di Aurora ed Enrico Cecchetti nel ruolo della Fata Carabosse e dell’Uccello Azzurro. Fu ripreso per la prima volta al di fuori della Russia al Teatro alla Scala di Milano nel 1896 in una versione abbreviata dal maître de ballet Giorgio Saracco, sempre con Carlotta Brianza nel ruolo di Aurora. Il balletto in forma intera fu messo in scena per la prima volta da una compagnia italiana proprio nel teatro capitolino (che allora si chiamava Teatro Reale dell’Opera) dal maître de ballet Boris Romanov, che conosceva bene l’originale, il 24 aprile 1954. Romanov, che tra i primi aveva studiato le carte di Petipa conservate presso il Museo Bachrušin di Mosca, utilizzò la partitura originale del balletto pubblicata negli Stati Uniti dal Fondo Čajkovskij, il libretto originale e le indicazioni di Petipa al compositore. Per le danze mantenne quelle che riteneva originali e ricostruì lui stesso nello stile di Petipa le altre. Lo spettacolo fu giudicato troppo lungo ed ebbe un mite successo. Le scene di Veniero Colasanti non vennero ritenute fedeli all’atmosfera di Versailles riflessa nel balletto originale. Diverso fu il riconoscimento dell’interpretazione dei protagonisti: Guido Lauri nel ruolo del Principe e Attilia Radice con il suo stile elegante nel ruolo di Aurora. Sempre nel 1954, nel mese di ottobre, ad esibirsi al Teatro Reale dell’Opera ne La bella addormentata fu la compagnia del Sadler’s Wells Ballet. Davanti ad una sala piena di diplomatici a distinguersi furono Margot Fonteyn nel ruolo di Aurora con la sua grazia lirica, la leggerezza e l’armonia dei gesti e Michael Somes nel ruolo di Desiré con il suo fascino energico. Ad interpretare la Fata Carabosse fu lo stesso maître de ballet Frederick Ashton. La versione di Romanov non scomparse subito, ma naturalmente subì un contraccolpo. Tra l’altro, quando fu rimontata nel luglio 1958 alle Terme di Caracalla da Attilia Radice, dopo la partenza di Romanov, l’autenticità aveva lasciato il posto alle esigenze sceniche: nel terzo atto il divertissement era tratto adesso da Lo schiaccianoci. La tradizione inglese ritornò a Roma nel 1965 nella versione questa volta di Robert Helpmann. Tuttavia, la messa in scena fu ritenuta questa volta mediocre. A riscattarla fu l’interpretazione di Carla Fracci nel ruolo di Aurora e di Attilio Labis nel ruolo di Desiré. Un nuovo approccio al balletto si sviluppò a Roma alla fine degli anni Settanta: il 18 marzo 1978 andò in scena la versione del balletto realizzata da André Prokovsky. Importante per lui non era tanto la filologia del balletto, quanto il saperne conservare lo spirito. Tra gli interventi più interessanti della sua versione era il disegno della parte di Carabosse: qui la fata cattiva appariva come una donna molto avvenente, All’aspetto grottesco si sostituiva la veemenza trasmessa sotto le spoglie di un carattere civettuolo e seducente. Fantastici erano i costumi e le scene di Beni Montresor ispirate alla natura del paesaggio russo, senza riferimenti a un preciso periodo storico. Tutto sommato la versione di Prokovski era ancora tradizionale, soprattutto se confrontata con l’innovativa messa in scena di Roland Petit presentata a Roma nel 1991 in occasione di una tournée del Ballet national de Marseille. Si trattò solo di una fugace apparizione, la versione non si mantenne nel repertorio. Nel febbraio 2002 a confrontarsi con La bella addormentata fu il coreografo Paul Chalmer. Pur lasciando intatta la drammaturgia letteraria, egli seppe donare una luce attuale alla messa in scena anche grazie alla collaborazione con l’artista Aldo Buti. I colori dei costumi ricordavano il variare delle stagioni. Nel prologo prevaleva il bianco e i colori pastello. Nel primo atto il rosso rimandava all’estate. Il secondo atto con il viola del costume del Principe svelava un paesaggio invernale. Infine, nel terzo atto l’arcobaleno dei colori dei personaggi delle fiabe era incorniciato dal bianco degli sposi. A interpretare il ruolo di Carabosse fu Carla Fracci, che allora dirigeva la compagnia di balletto. Come sempre, la sua entrata teatrale impressionò il pubblico anche grazie ad un costume nero ispirato a Elisabetta I d’Inghilterra. Il secondo atto con l’introduzione di personaggi russi nella scena della caccia voleva essere un omaggio a Čajkovskij. Nuova rilevanza era donata alla figura del Principe, che rimasto solo dopo la caccia danzava un assolo malinconico in tempo andante sulla musica della sarabanda, trasferita qui dal terzo atto. Nella scena delle Nereidi, inoltre, il Principe danzava con Aurora un duetto in stile “pseudo-balanchiniano”. L’ultima versione del capolavoro di Petipa è stata realizzata a Roma da Jean-Guillame Bart nel 2017 su invito della direttrice del ballo Eleonora Abbagnato, ereditando i costumi e le scene dalla versione precedente. Contrario alle dimostrazioni di virtuosismo, Bart favorisce il sentimento d’armonia presente nella versione originale. Il coreografo riscopre dei brani musicali di Čajkovskij che nel tempo sono stati tagliati e il valore di una pantomima non troppo lontana dal contesto coreografico. Amando lo stile di Petipa, Bart realizza tuttavia un compromesso con i corpi dei danzatori e i gusti del pubblico al fine di rendere la danza il più possibile viva. Lo sviluppo della parte del Principe riflette in Bart l’influsso della versione di Nureyev, da lui danzata all’Opéra di Parigi. Carabosse è qui una figura gradevole che danza sulle punte, eseguendo delle espressive arabesques. Prima del settembre 2004, la versione di Bart è stata presentata alla Fenice di Venezia nel maggio del 2017 ed era già stata ripresa a Roma nel settembre 2018. Foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: “L’Orontea”

gbopera - Ven, 04/10/2024 - 10:00

Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2024/25
L’ORONTEA”
Dramma per musica su libretto di Giacinto Andrea Cicognini e Giovanni Filippo Apolloni
Musica Antonio Cesti
Orontea STÉPHANIE D’OUSTRAC
Creonte MIRCO PALAZZI
Silandra FRANCESCA PIA VITALE
Gelone LUCA TITTOTO
Aristea MARCELA RAHAL
Alidoro CARLO VISTOLI
Giacinta MARIA NIZAROVA
Corindo HUGH CUTTING
Tibrino SARA BLANCH
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Giovanni Antonini
Regia Robert Carsen
Scene e Costumi Gideon Davey
Luci Robert Carsen e Peter van Praet
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 30 settembre 2024
L’operazione di ripresa dell’opera barocca portata avanti dalla Scala è decisamente tiepida: un’opera all’anno è francamente poco, considerato i quattordici titoli di una stagione. Tuttavia le produzioni fino ad ora proposte sono di un livello difficilmente raggiungibile in un contesto meno prestigioso. Questa Orontea non fa eccezione: un cast strepitoso si incarica di rinverdire l’opera sentimentale di Cesti, che non sembra accusare i colpi del tempo, anche grazie ad alcuni tagli operati dal Maestro Giovanni Antonini – il più vistoso dei quali, l’intera rimozione del Prologo, senza dubbio aiuta ad entrare nel vivo dell’azione fin dall’inizio, ma lascia indietro un elemento tipicamente barocco dell’opera. Questa Orontea rappresenta senz’altro il battesimo di fuoco scaligero di Carlo Vistoli, che nel ruolo ambiguo di Alidoro si distingue per le doti che lo hanno già portato tra i più grandi controtenori di oggi – una ineccepibile tecnica, che si esprime nell’accuratezza delle agilità, e un suono caldo e omogeneo, capace di piegarsi su un ricco fraseggio. Accanto a lui riluce l’astro di Stéphanie d’Oustrac,  che da molto tempo frequenta il repertorio barocco, nonostante la vocalità tonda e il suono spesso ne tradiscano le origini più postromantiche; Orontea è un ruolo che le calza a pennello proprio per il temperamento appassionato, per i molti afflati patetici che la d’Oustrac sa caratterizzare anche con grande trasporto scenico. Accanto ai due protagonisti, gli interpreti della seconda coppia della vicenda (la frivola Silandra e l’innamorato Corindo) pure si mettono positivamente in luce: Francesca Pia Vitale è un soprano dalla vocalità morbida ed ispirata, contraddistinta da piacevoli armonici e suoni piacevolmente smaltati; il controtenore Hugh Cutting, d’altra parte, è caratterizzato da un bel colore chiaro e dalla linea di canto particolarmente omogenea. Il personaggio del servo ubriaco Gelone è abilmente delineato dal basso Luca Tittoto, che all’indole naturalmente istrionica non fa mai mancare il sostegno della ben nota vocalità profonda dalla dizione scolpita. Pure i ruoli di lato hanno rivelato interpretazioni singolarmente pregevoli: ben in parte e vocalmente presente a se stesso anche il bassoo Mirco Palazzi, nel ruolo del consigliere di Orontea, Creonte; il soprano spagnolo Sara Blanch dà una resa del servitore Tibrino singolarmente a fuoco, sia sul piano dell’intonazione che su quello dell’espressività; prove senz’altro positive, per quanto più generiche, anche quelle di Marcela Rahal (Aristea) e Maria Nizarova (Giacinta). La concertazione del maestro Giovanni Antonini ha puntato – come già anticipato – a una piena fruizione della vicenda, mantenendo ritmi serrati (senza per questo perdere mai la piena coesione con la scena) e sottolineando i momenti più emotivamente coinvolgenti; a tratti non sembra nemmeno un’opera barocca, e non sappiamo dire se questo sia un bene o un male, se per riempire il teatro sia necessario ridurre ai minimi termini la componente seicentesca o se sia meglio conservare tutto il carattere antico della composizione, a scapito anche di una più immediata fruizione. Per quanto riguarda il sontuoso assetto scenico a firma Robert Carsen, vorremmo poter dire di più, ma ci siamo trovati in una posizione dalla visibilità drammaticamente limitata: possiamo solo dire che trasportare la vicenda in una galleria d’arte milanese è un’idea per nulla peregrina, dato che il protagonista maschile (Alidoro) è un pittore, e che parte dell’azione si sviluppa proprio attorno a dei ritratti da lui dipinti. Per il resto non possiamo che ipotizzare una buona regia e un buon coinvolgimento scenico da parte del cast. Foto Brescia & Amisano – Teatro alla Scala

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Il pianista Alexander Gadjiev inaugura la 68°stagione degli Amici della Musica di Padova

gbopera - Ven, 04/10/2024 - 09:17

Concerto di apertura della 68°stagione degli Amici della Musica all’Auditorium Pollini, il prossimo 8 ottobre alle ore 20.15, con uno dei musicisti italiani più ricercati nella scena musicale internazionale: Alexander Gadjiev. Il concerto inoltre è il primo della serie “Un pianoforte per Padova”, dedicata alle eccellenze pianistiche e sostenuta dalla Fondazione CARIPARO. E l’aggettivo eccellente calza a pennello per descrivere Alexander Gadjiev: nato a Gorizia in una famiglia di musicisti e cresciuto con una solida formazione mitteleuropea, ha vinto nel 2013 il Premio Venezia. Nel 2015 a soli vent’anni è stato vincitore assoluto al Concorso Pianistico Internazionale di Hamamatsu, uno dei dieci concorsi pianistici più prestigiosi al mondo. Dal 2019 al 2021, Gadjiev è stato “BBC New Generation Artist” e tutti i suoi concerti sono stati registrati e trasmessi dalla BBC. Sempre nel 2021 Gadjiev ha vinto il 1°premio al Concorso pianistico internazionale di Sydney e il 2° premio e il Premio speciale Krystian Zimerman al Concorso internazionale Chopin di Varsavia. L’anno successivo ha conseguito il Premio Abbiati come miglior solista per l’anno 2022. È ambasciatore culturale della sua città natale “Gorizia – Nova Gorica, Capitale Europea della Cultura 2025”. Nel febbraio 2023 ha ricevuto il Premio Prešeren, il più alto riconoscimento per gli artisti in Slovenia. Alexander Gadjiev si esibisce in tutto il mondo e collabora con prestigiose orchestre. Numerose le sue registrazioni discografiche e per radio e televisione. Per il suo ritorno a Padova Alexander presenta un programma vario e assai particolare, che alterna atmosfere cupe e dolorose di pezzi quali Funérailles S. 173/7 di Liszt e Sonata n. 9 Messa Nera di Scriabin, ai temi più leggeri di alcuni dei preludi di Chopin, per finire con le Variazioni op.35 Eroica di Beethoven, un’affermazione alla vita in tutti i suoi vari elementi e ricchezza, secondo le parole dello stesso Gadjiev. Prova aperta all’Auditorium Pollini alle ore 10.30.
Per il calendario dei concerti e i programmi: www.amicimusicapadova.org

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Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia: “Riapre il Ninfeo”

gbopera - Gio, 03/10/2024 - 14:30
Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia
RIAPRE IL NINFEO DI VILLA GIULIA A partire da sabato 5 ottobre, in orario di apertura del Museo, il Ninfeo di Villa Giulia torna ad essere fruibile al pubblico. Dopo quasi dieci anni di godimento esclusivo dalla soprastante Loggia dell’Ammannati, sarà possibile scendere lungo le rampe di accesso e passeggiare accanto alle monumentali fontane con le personificazioni dei fiumi Tevere e Arno. Inoltre, nell’ambito delle strategie messe in campo per rendere Villa Giulia un museo accessibile a tutti, per la prima volta il Ninfeo sarà raggiungibile anche dal pubblico con ridotta capacità motoria grazie ad un nuovo impianto servoscala che permetterà a tutti di ammirare da vicino le sculture. Un passo decisivo verso l’accessibilità fisica totale del Museo. Anche la Sala dello Zodiaco, con bellissimi affreschi cinquecenteschi raffiguranti il volgere delle stagioni e la ciclicità del tempo, sarà ora accessibile grazie ad una pedana di raccordo. Gli spazi del Ninfeo saranno a breve oggetto di visite guidate a cura del personale del Museo che condurrà il visitatore anche alla scoperta dell’Acquedotto Vergine. Dopo un decennio Villa Giulia restituisce al pubblico uno dei suoi spazi più belli e suggestivi, il meraviglioso Ninfeo progettato dall’Ammannati e, allo stesso tempo, diventa sempre più accessibile: dopo le videoguide in LIS si aggiunge un altro tassello che rende il nostro museo più aperto ed inclusivo” – afferma la Direttrice del Museo, Luana Toniolo. “Per la prima volta il pubblico con disabilità potrà accedere al Ninfeo e alla Sala dello Zodiaco, realizzando così gli obiettivi previsti dal Piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche”. Luogo caro a papa Giulio III destinato ad accogliere e sorprendere i suoi ospiti al riparo dalla calura estiva, godendo del benevolo influsso dell’acqua proveniente dal celebre acquedotto Vergine, il Ninfeo continua ad essere il cuore delicato e prezioso dei giardini di Villa Giulia. Qui Bartolomeo Ammannati immagina e realizza un ambiente scenografico, un teatro delle acque articolato su tre livelli e ornato di stucchi e numerosissime statue per stupire e meravigliare ospiti e visitatori. Al livello intermedio del Ninfeo, entro due grandi nicchie simmetriche sono due fontane con le personificazioni di due fiumi, il Tevere e l’Arno identificabili dai rispettivi attributi: la lupa per il fiume Tevere e il Marzocco, il leone – simbolo della Repubblica di Firenze e protettore laico della città – per il fiume Arno, in riferimento alle origini toscane del papa. Le due statue monumentali dei fiumi sono rappresentate secondo tradizione, adagiate su un fianco e all’interno di nicchie decorate a stucco con elementi vegetali. Due grandi vasche in marmo accoglievano un tempo l’Acqua Vergine che sgorgava copiosa dalle anfore su cui poggiano le figure. Al piano inferiore, fra marmi policromi e decorazioni in stucco, proprie della raffinata cultura del Cinquecento, si stagliano le figure sinuose e incantevoli delle Cariatidi, testimoni dell’antica ricchezza del Ninfeo, a sorreggere la balconata in travertino. E proprio qui a breve partirà un grande progetto di restauro conservativo, finanziato grazie alle donazioni Art Bonus, che restituirà al Ninfeo l’originario splendore. Il visitatore attento potrà dunque non solo godere della vista ravvicinata di un patrimonio architettonico e artistico di grande valore, ma assistere in diretta al delicato lavoro dei restauratori.
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Roma, Teatro Vascello: “La fabbrica dell’attore 50 anni di (R)esistenza” sino al 06 ottobre 2024

gbopera - Gio, 03/10/2024 - 14:25

Roma, Teatro Vascello
LA FABBRICA DELL’ATTORE 50 ANNI DI (R)ESISTENZA
Dal teatro nelle cantine degli anni ’70 al Teatro Vascello, 50 anni della nostra storia e della nostra vita, sospesi fra immaginazione e realtà.
progetto, drammaturgia e regia Manuela Kustermann
con la collaborazione di Gaia Benassi
Con Manuela Kustermann, Massimo Fedele, Gaia Benassi, Paolo Lorimer
e con la voce di Alkis Zanis
Cura delle immagini e luci Paride Donatelli
cura del suono Filippo Lilli
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
Uno spettacolo immersivo di immagini, video, luci, musiche, ricordi e aneddoti per celebrare il cinquantesimo anniversario della compagnia La Fabbrica dell’attore e rivivere insieme le atmosfere magiche di spettacoli che hanno segnato un’epoca. Ripercorreremo le nostre prime esperienze teatrali, nate con i fermenti sociali e i movimenti giovanili degli anni ’60 e ’70. A problemi concreti, reali, quotidiani, vissuti come esperienze aggreganti, dove attorno a Giancarlo Nanni e a Manuela Kustermann si forma un gruppo di lavoro che spazia fra teatro, cinema, danza, musica e arti visive. Sono anni di grandi fermenti culturali e la compagnia viene ben presto considerata un punto di riferimento importante nella rivoluzione artistica di quegli anni. Dal suo lavoro, segnato da spettacoli significativi per l’immaginario giovanile e non solo, nascono produzioni storiche come A come Alice, Risveglio di primavera, L’imperatore della Cina, che segnano la nascita di un movimento teatrale che privilegia l’immagine rispetto alla parola e che sarà conosciuto come scuola romana. All’interno del gruppo si formano registi e artisti come Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Pippo Di Marca, Valentino Orfeo, Massimo Fedele, Dominot. Quindi sarà uno spettacolo evento, ricorderemo gli spettacoli realizzati al Teatro La Fede (le cantine romane degli anni ’60 e ’70) fino al Teatro Vascello; 50 anni e più della nostra storia e della nostra vita, sospesi fra fantasia e realtà. Un tempo unico, irripetibile, un incrocio di energie artistiche esplosive e straordinarie, tuttora fondamenta presenti in ogni spettacolo di ricerca. Molti di quei protagonisti di allora non ci sono più, ma quella luce si riverbera ancora oggi per illuminarci. Dedicato a Giancarlo Nanni e a tutti gli artisti che hanno fatto parte della nostra avventura. Il 4 ottobre dalle 14,30 al Teatro Vascello insieme a Lega Cooperative presenteremo un convegno studio su Cooperazione e Teatro: una storia al futuro 1974-2024, con incontri, approfondimenti, studi e tavola rotonda.

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Roma, Palazzo Altemps: “Variabile Altemps”

gbopera - Gio, 03/10/2024 - 10:47

Roma, Palazzo Altemps
VARIABILE ALTEMPS
Dal 4 ottobre al 17 novembre 2024
Gabriele Gianni è un artista e regista italiano nato nel 1978, che ha sviluppato una carriera multidisciplinare, lavorando con intelligenza artificiale, video installazioni, realtà aumentata e documentari. Il suo lavoro si concentra sulla rilettura e reinterpretazione delle opere d’arte classiche, creando nuovi percorsi attraverso l’uso delle tecnologie avanzate. Gianni è stato particolarmente attivo nel combinare i codici dell’intelligenza artificiale (AI) con le opere del passato, in un continuo dialogo tra storia e innovazione, come si vede nel progetto “Variabile Altemps” e nel precedente “Artificial Creation”. “Variabile Altemps”, in particolare, rappresenta una sintesi perfetta del suo approccio. Presentata  al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, questa installazione utilizza l’AI per ripensare le antiche collezioni archeologiche, immaginando come potrebbero evolversi nel tempo. Qui, volti scolpiti nella pietra sembrano emergere e svanire in un flusso incessante di creazione e distruzione, accompagnati da suoni arcaici creati dal compositore Mario Salvucci. Il progetto, idealmente successivo a “Artificial Creation”, mostra come Gianni interpreti la tecnologia non solo come uno strumento tecnico, ma come un mezzo per scoprire nuovi significati nelle opere classiche. Il confronto tra arte classica e AI è centrale nel lavoro di Gianni. Proprio come nel Rinascimento gli artisti utilizzavano matematica e geometria per creare capolavori simbolici, Gianni applica i processi matematici generati dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale per esplorare e ricostruire frammenti del passato. Nell’ambito di “Variabile Altemps”, ha sviluppato due modelli di AI: uno ricostruisce parti mancanti delle antiche statue, aggiungendo dettagli ai volti frammentati, mentre l’altro accelera il processo di deterioramento della pietra, mostrando la forma scultorea nel suo continuo cambiamento. Questa interazione tra creazione e disfacimento non è casuale, ma profondamente radicata nell’idea che la bellezza classica possa essere reinterpretata e proiettata verso il futuro. Gianni ha iniziato a esplorare il legame tra AI e arte con il progetto “Artificial Creation”, presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2023, commissionato dalla Fondazione Carla Fendi. In quell’opera, ha utilizzato l’AI per creare una narrazione visiva in cui il digitale e il classico si incontrano. All’interno di uno spazio rinascimentale, l’intelligenza artificiale generava un dialogo tra la forma umana e la sua rappresentazione, riflettendo sulla capacità dell’AI di produrre immagini e suoni che sembrano naturali, pur essendo il frutto di algoritmi complessi. In questa installazione, Gianni ha esplorato come i pattern creati dall’AI possano rispecchiare i processi mentali umani, creando connessioni inaspettate tra passato e presente. Questa riflessione si amplia ulteriormente nel concetto di “connessione” tra arte classica e AI. Gianni vede nell’intelligenza artificiale un “collaboratore” che aiuta a comprendere e reinterpretare l’umanità attraverso nuove tecnologie. Proprio come nel Rinascimento l’uso della matematica e della geometria ha permesso agli artisti di superare i limiti della rappresentazione visiva, l’AI oggi consente di ridefinire il nostro rapporto con le opere d’arte antiche, fornendo nuove prospettive e stimoli creativi. L’intelligenza artificiale, per Gianni, è sia uno strumento che genera curiosità, sia una lente attraverso cui esplorare l’essenza delle opere. Un esempio di questa interazione è l’uso dell’AI per ricreare proporzioni rinascimentali “all’infinito“. L’artista vede nella tecnologia un modo per capire meglio le opere del passato, ma anche per sovvertire i pattern stabiliti, trovando bellezza nell’errore e nell’imprevedibilità degli algoritmi. La sua visione non è quella di un semplice strumento meccanico, ma di una tecnologia che può aprire nuovi orizzonti creativi, senza però automatizzare completamente il processo artistico. In effetti, Gianni considera l’interazione tra l’artista e l’AI come una continua ricerca di equilibrio tra il controllo umano e la generazione automatica di contenuti. Palazzo Altemps, uno dei quattro siti del Museo Nazionale Romano, rappresenta una cornice ideale per il dialogo tra arte classica e tecnologie contemporanee. Situato nel cuore di Roma, il palazzo è un capolavoro dell’architettura rinascimentale, edificato alla fine del XV secolo e arricchito da secoli di storia e cultura. Al suo interno, ospita una vasta collezione di sculture antiche appartenenti a famiglie nobiliari romane, tra cui gli Altemps e i Ludovisi, alcune delle quali sono tra i più importanti capolavori della scultura greca e romana. La bellezza e la maestosità degli ambienti di Palazzo Altemps, con i suoi soffitti affrescati, cortili monumentali e stanze decorate con materiali pregiati, creano un ambiente profondamente suggestivo, che richiama l’idea di una Roma classica intrisa di storia e arte.  Questo rapporto tra l’antico e il contemporaneo è amplificato nelle installazioni di Gabriele Gianni, come “Variabile Altemps”, che trasforma la ricca collezione del museo in una narrazione dinamica grazie all’intelligenza artificiale. Le sculture classiche, che da secoli sono simboli di perfezione e stabilità, diventano parte di un flusso incessante di creazione e distruzione.  In questo contesto, Palazzo Altemps non è semplicemente lo sfondo per l’installazione, ma diventa parte integrante dell’esperienza immersiva. Il contrasto tra l’immutabilità delle sculture e la fluidità delle installazioni di Gianni evoca una riflessione profonda sul rapporto tra l’arte classica, percepita come eterna e immutabile, e la tecnologia contemporanea, che è in continua evoluzione. In questo modo, Palazzo Altemps non è solo un luogo che conserva il passato, ma diventa un laboratorio sperimentale dove il passato viene riscritto e reinterpretato attraverso il potere dell’intelligenza artificiale. Le sue stanze ricche di storia si fondono con la contemporaneità, creando un’esperienza che invita il pubblico a ripensare la relazione tra antico e moderno, tra l’immutabile e il mutevole. Questo dialogo tra spazio, storia e tecnologia rende “Variabile Altemps” non solo un’esplorazione estetica, ma una profonda riflessione filosofica sull’arte e il tempo.  Attraverso l’uso dell’AI, egli riesce a reinterpretare le opere classiche, offrendo nuove prospettive su temi antichi e creando installazioni immersive che interrogano il ruolo dell’arte e della tecnologia nella nostra comprensione del mondo. Le sue opere, come “Variabile Altemps” e “Artificial Creation”, non solo celebrano l’arte classica, ma ne ridefiniscono i contorni, proiettandola verso un futuro in cui la tecnologia e l’umanità collaborano per creare nuove forme di bellezza. @photocreditgabrielegianni

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Roma, Teatro Argentina: “La Ferocia”

gbopera - Mer, 02/10/2024 - 23:59

Romaeuropa Festival 2024
LA FEROCIA
dal romanzo di Nicola Lagioia
ideazione VicoQuartoMazzini
regia Michele AltamuraGabriele Paolocà
adattamento Linda Dalisi
con Michele Altamura, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Marco Morellini, Gabriele Paolocà, Andrea Volpetti
Roma, 02 Ottobre 2024
L’opera teatrale La Ferocia portata in scena dalla compagnia VicoQuartoMazzini non si limita a una semplice rappresentazione, ma diventa un’indagine filosofica sui temi della verità, del potere e della decadenza morale, collocando la vicenda nella periferia di Bari come simbolo di un Sud che si erge a metafora dell’intero Occidente. Il lavoro di Michele Altamura e Gabriele Paolocà, fondatori della compagnia, si caratterizza per una capacità visionaria che li distingue nel panorama teatrale contemporaneo. In questo spettacolo, come già in Vieni su Marte, i due autori riescono a fondere diverse forme artistiche – teatro, drammaturgia, video e installazione – in un’operazione che ricorda la visione multimediale di Robert Lepage, dove la tecnologia si integra perfettamente con la narrazione per esplorare la condizione umana. La Ferocia, tratto dal romanzo di Nicola Lagioia, è un’opera densa di atmosfere gotiche e noir che, come un moderno Edipo Re, analizza la colpa ereditaria e la ciclicità del peccato all’interno di una famiglia che si trova intrappolata tra la corruzione e il potere. Il protagonista Michele Salvemini, nel tentativo di ricostruire la verità dietro la morte della sorella Clara, sembra rispecchiare il mito tragico di Oreste, richiamando quel concetto di vendetta e giustizia che attraversa l’immaginario classico e, allo stesso tempo, quello contemporaneo. L’assenza del corpo di Clara, che viene evocata ma mai mostrata, crea una tensione scenica che richiama le riflessioni di Jean Baudrillard sul simulacro e sulla presenza-assenza della realtà. Clara è contemporaneamente il centro e il vuoto attorno a cui si muove la narrazione: desiderata, posseduta, ma anche simbolicamente svanita, lasciando intorno a sé un’ombra di potere corrotto e vanità. La sua assenza diventa quindi una metafora per l’invisibilità dei rapporti di potere, proprio come nella filosofia foucaultiana, dove il potere si manifesta soprattutto attraverso l’invisibile e l’impalpabile. Altamura e Paolocà scelgono di fare della scena teatrale una rappresentazione cruda e spietata della borghesia meridionale, un microcosmo che si allarga fino a diventare sineddoche dell’intero sistema occidentale. La violenza economica, l’assenza di legami autentici, la corruzione morale si riflettono nei rapporti familiari, dove i figli sono il prodotto inevitabile delle colpe dei padri. È qui che il lavoro di VicoQuartoMazzini si avvicina a una lettura filosofica della tragedia, dove il destino diventa inesorabile e il presente non può sfuggire al peso del passato, come accade nelle opere di Thomas Bernhard, in cui il ciclo dell’autodistruzione sembra non trovare mai fine. Le scene sono curate da Daniele Spanò, il cui lavoro si distingue per un approccio visivo e concettuale che amplifica l’impatto drammatico dell’assenza fisica di Clara, uno dei temi centrali dello spettacolo. La scenografia crea un ambiente opprimente, quasi astratto, che richiama atmosfere noir e gotiche, riflettendo la decadenza morale della famiglia Salvemini e il contesto di potere corrotto in cui sono immersi. Le musiche originali, composte da Pino Basile, accompagnano lo spettacolo con un senso di inquietudine e profondità emotiva. Basile, noto per l’uso di strumenti tradizionali del Sud Italia, arricchisce la messa in scena con sonorità che sembrano risuonare dalle viscere della terra, creando un legame animico e vibrante tra il pubblico e la tragedia che si svolge sul palco. Questa scelta musicale supporta perfettamente la tensione drammatica del testo e amplifica i silenzi, che, come la figura di Clara, sono carichi di significato. Il disegno luci di Giulia Pastore gioca un ruolo fondamentale nel creare l’atmosfera del racconto. Attraverso l’uso sapiente di luci e ombre, la scena si trasforma in un paesaggio emotivo, in cui l’oscurità sottolinea la desolazione interiore dei personaggi e la luce diventa simbolo di verità scomode che emergono a fatica. La coesione tra scenografia, musiche e luci contribuisce a rendere La Ferocia un’esperienza teatrale di grande impatto, capace di trasportare lo spettatore in un mondo dove la bellezza formale si scontra con le brutture morali, in una continua tensione tra apparenza e sostanza. Le interpretazioni degli attori sono tecnicamente impeccabili, ma ciò che colpisce è la loro capacità di entrare in risonanza con l’anima filosofica del testo. Michele Altamura, nel ruolo di Michele Salvemini, incarna una figura tormentata, che si muove tra il silenzio del dolore e la furia vendicativa, in una performance che richiama la profondità emotiva degli attori del teatro di Jerzy Grotowski, dove ogni gesto, ogni parola sembra emergere da un luogo di verità interiore. Gabriele Paolocà, nel ruolo del giornalista, offre una rappresentazione altrettanto potente, il suo personaggio diventa la voce della coscienza critica, ricordando le figure dei cronisti o degli intellettuali che cercano la verità pur sapendo che essa è sempre sfuggente, come nelle opere di Arthur Miller. L’adattamento di La Ferocia da parte di VicoQuartoMazzini non è solo una traduzione teatrale di un romanzo complesso, ma una vera e propria riflessione sulla condizione dell’essere umano nel mondo contemporaneo. I temi del potere, della corruzione e della disumanizzazione si fondono in una narrazione che, come nel teatro di Bertolt Brecht, non si limita a intrattenere ma mira a far riflettere lo spettatore, a scuoterlo e a metterlo di fronte alle contraddizioni del suo stesso tempo. Il degrado morale, la decadenza economica e l’incapacità di comprendere e affrontare il cambiamento si manifestano sul palco come i segni di una società in declino. VicoQuartoMazzini, con la loro straordinaria visione artistica, ci invita a riflettere sul nostro presente, offrendoci uno sguardo che è al contempo lucido, tagliente e filosoficamente stimolante.

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Arnold Schönberg (1874 – 1951): “Pierrot Lunaire” op.21 (1912)

gbopera - Mer, 02/10/2024 - 23:01

Arnold Schönberg (Vienna 13 settembre 1874 – Los Angeles 13 luglio 1951)
A 150 dalla nascita del compositore – 5
“Ma ecco che due miei nuovi lavori determinarono un rovesciamento della situazione: Harmonielehre, pubblicata nel 1911, e i ventun melologhi del Pierrot Lunaire. Fino a quel momento ero considerato solo un distruttore, e anche il mio mestiere musicale era messo in dubbio nonostante le  numerose opere composte nel primo periodo  […]. Giunsi così abbastanza rapidamente al primo apice della mia carriera quando, nel 1912, i melologhi del Pierrot Lunaire mi procurarono un grande successo grazie alla novità che essi presentavano da molti punti di vista”.

Fu lo stesso Schönberg a ricordare, in questa conferenza in memoria di Cooke Daniels tenuta al Colorado Consistory Auditorium l’11 ottobre 1937, l’importanza, per la sua carriera di compositore, del Pierrot Lunaire, il cui testo letterario è costituito da 21 delle 50 poesie dell’omonima raccolta di Albert Giraud nella traduzione di Otto Erich Hartleben. La prima idea dell’opera risale all’incontro avvenuto a Berlino nel 1911 con l’attrice Albertine Zehme, diva del Cabaret letterario, la quale, all’inizio dell’anno successivo, chiese di scrivere un brano per i suoi recitals al compositore suggerendogli, così, l’idea di realizzare un intero ciclo di liriche che sarebbe stato ultimato in pochi mesi dal 12 marzo  al 9 luglio 1912. Da un punto di vista formale l’opera è divisibile in tre parti di sette liriche ciascuna raggruppate secondo un principio tematico con Pierrot che si presenta al pubblico in tre vesti diverse. Nella prima parte Pierrot è, infatti, il poeta della sofferenza e della disperazione affascinato dalla luna, mentre nella seconda diventa la vittima di visioni maniacali. Soltanto nella terza è possibile trovare un forte accento ironico con il quale la maschera si libera dai fantasmi creati da sé per lanciarsi in atteggiamenti farseschi. Se il testo aveva assunto per Schönberg la funzione di organizzare, dal punto di vista formale, la sua musica, nel Pierrot Lunaire avviene un’operazione inversa, in quanto la forma di rondò, che ciascuna poesia  presenta con un ritornello iniziale ripetuto alla fine della lirica, è molto spesso disattesa dal compositore il quale, in questo modo, elude la possibile monotonia derivata dalla ripetizione dello stesso schema formale. Da un punto di vista esclusivamente musicale, assume rilievo, in questa composizione, l’introduzione della Sprechstimme (voce parlata) ben diversa dallo Sprechgesang (canto parlato) come lo stesso Schönberg affermò nella prefazione all’opera: “L’esecutore deve essere scrupolosamente informato della differenza che corre fra «tono cantato» e «tono parlato»: il tono cantato conserva immutata la sua altezza, mentre il tono parlato, con diminuendi e crescendi, abbandona subito l’altezza iniziale. L’esecutore deve però guardarsi bene dal cadere in un tipo di parlare «cantato». Non è questo che noi intendiamo; non si ha certo di mira un modo di parlare realistico-naturale. Al contrario, deve essere ben chiara la differenza fra il linguaggio comune ed un linguaggio che operi in una forma musicale; ma esso non deve neppure richiamare alla mente il canto”.
Il canto, richiesto da Schönberg in quest’opera è molto originale, in quanto l’esecutore deve toccare il suono senza intonarlo in modo perfetto allontanandosi da esso ora con il crescendo ora con il diminuendo. Da un punto di vista strumentale, l’organico, composto dalla Sprechstimme, dal pianoforte, da un flauto, da un clarinetto, da un violino e da un violoncello, è sfruttato nella sua interezza soltanto in sei brani, mentre negli altri si passa dal duetto del VII brano, dove appaiono soltanto il flauto e la voce recitante, al quartetto del I (pianoforte, flauto, violino, violoncello e voce recitante). Ogni brano costituisce, in questo modo, un piccolo gioiello in sé chiuso, anche se inserito nell’atmosfera allucinata che contraddistingue l’opera, all’interno della quale ritornano alcune forme classiche. È sorprendente come, a differenza di altre opere in cui, per ammissione dello stesso compositore, il testo aveva dato una forma alla struttura musicale del brano, qui, invece, vi è il sistematico ricorso a forme contrappuntistiche codificate dalla nostra tradizione come la passacaglia (Nacht), il canone retrogrado (Parodia) e la fuga e il canone sovrapposti (La macchia lunare). Le 26 misure di Nacht nascono, infatti, da cellula melodica brevissima e molto semplice caratterizzata da una terza minore ascendente seguita da una terza maggiore discendente che, in un primo momento, dà vita a un canone tra clarinetto e violoncello a cui si unisce, in seguito, il pianoforte, e, in un secondo momento, viene variata per doppia diminuzione originando un disegno melodico che diventa l’elemento costitutivo del successivo sviluppo del brano. Un canone doppio tra clarinetto e ottavino, da una parte, e violino e violoncello, dall’altra, è il protagonista di Der Mondfleck (La macchia lunare), dove è sovrapposto a una fuga affidata al pianoforte il cui soggetto è raddoppiato con terze maggiori.
La ripresa di forme codificate dalla tradizione, che, a una prima e superficiale analisi, potrebbe sorprendere, in realtà, è una spia dell’evoluzione del linguaggio musicale di Schönberg ormai alle soglie dell’elaborazione della dodecafonia i cui punti di forza sono costituti dai principi del contrappunto. Nuove forme di organizzazione sonora, quindi, cominciano ad affacciarsi nella mente del compositore che, dopo aver distrutto il sistema tonale, dimostrando che era possibile scrivere delle composizioni non determinate dai principi dell’armonia tradizionale, ritornò a quelle forme contrappuntistiche che precedettero storicamente la nascita della tonalità e dell’armonia basata su di essa. In quest’opera, non concepita secondo i principi dodecafonici non ancora elaborati, troviamo, quindi, delle anticipazioni della futura arte di Schönberg la quale si sarebbe fondata, al tempo stesso, su una consequenziale evoluzione del suo stile e del suo linguaggio e su una solida conoscenza della tradizione musicale che, come vedremo, analizzando le opere dodecafoniche, sarà presente in modo determinante. Il Pierrot Lunaire costituisce, quindi, il punto di arrivo di un’evoluzione, che a Schönberg, almeno inizialmente, sembrava priva di sviluppi, ma i cui primi germogli sono presenti, forse ancora a livello inconscio, in essa, se, nel decennio successivo, la sua attività creativa subì una forma di arresto eccezion fatta per l’oratorio, purtroppo incompiuto, Jakobleiter (La scala di Gaicobbe) e i Vier Orchesterlieder op. 22 (Quattro Lieder per orchestra), scritti tra il 1913 e il 1916. Qui il testo italiano

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Roma, Palazzo Merulana: “Roma nel Cinema a pennello. I bozzetti pittorici dei manifesti cinematografici”

gbopera - Mer, 02/10/2024 - 19:12

Roma, Palazzo Merulana
ROMA NEL CINEMA A PENNELLO. I bozzetti pittorici dei manifesti cinematografici
ideata e curata da Paolo Marinozzi e Stefano Di Tommaso.
La mostra, inserita all’interno del palinsesto della Festa del Cinema di Roma, con il contributo di SIAE, con il patrocinio di ANICA, con la partnership di Banco Marchigiano e WebPhoto&Service, racconta Roma con le sue visioni cinematografiche e comprende 50 bozzetti pittorici originali, opera di grandi artisti, realizzati per la stampa tipografica dei manifesti cinematografici. Sono stati realizzati dai più noti e importanti artisti del settore, veri e propri “disegnatori di sogni” come Ballester, Capitani, Martinati, Brini, Nano, Manfredo, De Seta, Manno, Olivetti, Cesselon, Geleng, Ciriello, Symeoni, Nistri, Iaia, Putzu, Casaro, Avelli, Biffignandi, Gasparri, che insieme hanno rappresentato una vera e propria corrente artistica del ‘900 e hanno lavorato per le più grandi major americane come Warner, MGM, Paramount, Columbia e per le italiane Titanus, Lux, Ponti-De Laurentis, Amato, Rizzoli, Cecchi Gori. Le opere provengono dal museo “Cinema a pennello”, unico al mondo, fondato da Paolo Marinozzi, con sede a Montecosaro (MC) nel palazzo di famiglia. Inaugurato nel 2011 da Claudia Cardinale, è stato visitato tra gli altri da professionisti del settore, tra cui Catherine Spaak, Giancarlo Giannini, Carlo Verdone e molti altri, i quali hanno anche donato alcuni cimeli di alcuni loro film. L’arte della cartellonistica filmica, nell’evoluzione del cinema come linguaggio e immaginario, ha sempre avuto un ruolo di innegabile rilievo nella promozione e divulgazione della cultura cinematografica. Da questo punto di vista, la cartellonistica del cinema ha costituito, almeno fino agli anni ’70, una sorta di prolungamento estetico di stile, tematizzazione, merceologia del film. Inoltre, è caratterizzata da un linguaggio munito di una estetica con una sua specifica autonomia rispetto alla stessa iconografia e messa in scena dei film. La mostra si propone di articolare, quindi, una sorta di racconto per film e attori dal dopoguerra ad oggi, di Roma come set cinematografico. Dall’apparizione sconvolgente del neorealismo con Roma città apertaLadri di bicicletteUmberto D al mito del cinema attraverso la Magnani di Bellissima, a quella di Gadda e Germi di Un maledetto imbroglio (tratto da Quer Pasticciaccio  brutto de Via Merulana), dalla Roma di Poveri ma belli e de I soliti ignoti, di Accattone e Mamma Roma. La mostra vuole celebrare anche gli anniversari che cadono quest’anno di quattro grandi del cinema italiano e internazionale: i cinquantenari della morte di Vittorio De Sica e di Pietro Germi, il centenario della nascita di Marcello Mastroianni, e il compleanno importante della più grande diva italiana, Sophia Loren. Gli anniversari sono evocati nel manifesto della mostra che immortala il volto del commissario di Un maledetto imbroglio e la scena iconica dello spogliarello in Ieri, oggi e domani che, con la regia di Vittorio De Sica, vinse l’Oscar come miglior film straniero. La mostra prevede poi l’omaggio a due grandi icone del cinema: Federico Fellini, che ha girato i suoi film nel mitico Studio 5 di Cinecittà, e Alberto Sordi, simbolo della Capitale di cui è stato Sindaco per un giorno.

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