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Musica corale

“Dicen que hay amor”. Spanish tonos humanos from Cancionero de Mallorca

gbopera - Dom, 19/01/2025 - 18:30

Juan de Zelis: “Ya no son más de veinte”, Anonimo: “En pira de incendios vives”, Sebastián Durón: “La borrachita de amor”, Gaspar Sanz: “Pasacalles sobre la D”, “Capricho arpeado por la cruz”; Anonimo: “En quien ve para cegar”, “Duerme, descansa, sosiega”, “Ay que dulzura”, “Seguid, perdidos jovenes”; Gaspar Sanz: “La caballería de Nápoles”, “Canciones”, “La coquina francesa “, “La esfachata de Nápoles “, “La miñona de Cataluña”, “La minina de Portugal “, “Lantururu” (“Suite de piezas”); Anonimo: “Montes, prados, riscos, fuentes”, “Dicen que hay amor”; Sebastián Durón: “Pescadorcillo, tiende las redes”; Anonimo: “¡Ay que cansera! ¡Dejeme usted!”; Giacomo Facco: “Sinfonía a violoncello solo”; Anonimo: “Aun infeliz ausente”, “Si quieres que viva”;  Juan Hidalgo:  “Al aire se entregue”. María Espada (soprano), Manuel Minguillón (direttore e chitarra barocca), Daniel Garay (percussioni), Guillermo Turina (violoncello barocco). 1 CD IBS Artist IBS92023 · DL GR 844-2023.

Il “Cancionero de Mallorca” è uno straordinario codice musicale. Originario dell’isola balearica e oggi conservato a Barcellona raccoglie 43 composizioni musicali datate tra la metà del XVII secolo e gli inizi del successivo capaci di offrono uno sguardo unico sulla vita musicale della Spagna barocca. Il mondo iberico ha – fino ai primi decenni del XVIII secolo – una personalità assai marcata. Pur non sconosciuti i modelli italiani non sono dogmaticamente accettati. L’opera lirica all’italiana esiste ma non si afferma in modo dominante mentre centrale è l’integrazione di elementi musicali nel teatro di prosa. L’estetica barocca spagnola tende a una fusione integrale delle arti, a un’opera d’arte totale ante litteram in cui la musica entra ampiamente come mezzo di espressione degli affetti ma integrandosi in spettacoli recitati e non integralmente cantati.  Questi modelli strutturali – che discendono dalla concezione teatrale di Calderon de la Barca – creano un genere ibrido, non rigidamente definito in cui le composizioni possono passare da un esto all’altro e di cui manca spesso una trasmissione autentica. Lo stesso Cancionero presenta in brani in forma generalmente anonima e se in alcuni casi è stato possibile identificare i testi i opere di Antonio de Zamora e Luis Velez de Guevara la gran parte dei testi resta non attribuita. Uguale situazione si ha per i compositori con pochi casi attribuibili con certezza a musicisti come Sebastian Duron, Juan de Zelis o Juan Hidaldo mentre la gran parte resta anonima.

Il recente CD edito da IBS classical presenta una selezione di tredici brani del Canconiero affiancati a una selezioni di brani strumentali di compositori spagnoli o italiani attivi in Spagna nel periodo organizzati secondo l’andamento di una festa barocca. Protagonista di questa riscoperta è il Collegium musicum Madrid sotto la guida del suo direttore stabile Manuel Minguillón. Fondato nel 2013 il complesso madrileno è un’autentica eccellenza nella riscoperta della musica antica di area iberica e mostra all’ascolto non solo un senso stilistico semplicemente perfetto ma un livello esecutivo altissimo garantito dalla qualità dei propri componenti. Sono i brani strumentali quelli in cui queste doti virtuosistiche emergono con maggior chiarezza. E’ il caso della suite di Gaspar Sanz in cui protagonista assoluta è la chitarra barocca che trova in Minguillón un autentico virtuoso capace di far vibrare tutte le corde espressive dello strumento. Minguillón è qui affiancato da altri due straordinari musicisti come Guillermo Turina al violoncello – che si alterna alla chitarra nel ruolo protagonista – e Dani Garay che con le sue percussioni dono un carattere prettamente iberico a questa musica.
L’altra sezione strumentale è data dalla “Sinfonia per violoncello solo e basso continuo” di Giacomo Facco provenienti da un manoscritto conservato presso la biblioteca Marciana. Veneziano di nascita Facco si trasferì a Madrid nel 1720 entrando al servizio di re Filippo V. Dominatore della vita musicale di corte fino agli anni 30 – quando musicisti più giovani e aggiornati raggiunsero Madrid dall’Italia – continuò comunque a vivere e comporre in Spagna fino alla morte avvenuta nel 1753. Facco è stata una figura essenziale per la diffusione della musica italiana in Spagna e tra i primi apostoli del violoncello nel paese. Le composizioni pur nella loro semplicità mostrano un magistero compositivo non trascurabile che le qualità esecutive di Turina esaltano al massimo.

I brani cantati sono affidati al soprano Maria Espada, specialista di questo repertorio che con il suo senso stilistico e la capacità di cogliere sempre in modo esemplare la cifra espressiva di ciascun brano fa ampiamente perdonare qualche appannamento timbrico e qualche durezza sugli acuti. I brani sono musicalmente molto belli – stilisticamente siamo molto vicini alle coeve esperienze italiane – e giocano con grane sensibilità tutte le sfumature degli affetti.  Abbiamo brani di trascinante forza espressiva come “En pira de incendios vives” particolarmente impegnativo anche sul piano vocale al taglio ironico e popolaresco dello composizioni di Duron come “Pescadorcillo, tiende las redes” con il suo cullante ritmo marinaresco o “La borrachita de amor” colma di leggerissima grazia. Alcuni brani come “Al aire se entregue” di Hidalgo appaiono particolarmente ricchi sul piano vocale e dell’accompagnamento, avvicinandosi molto alle coeve esperienze dell’opera italiana. In altri brani emergono tratti popolareschi e danzati che il colore così tipico dato dalle percussioni di Garay collocano in un ambito nazionale immediatamente percepibile così come le colorature tendono a tratti a staccarsi ai modelli italiani per acquisire quel carattere melismatico – di evidente derivazione orientale islamica e sefardita – che diverrà così tipico della vocalità spagnola nelle sue espressioni più autentiche. La veste grafica scelta con disegni quasi infantili tende quasi a ingannare facendolo sembrare un prodotto per bambini, si tratta invece di una registrazione assai interessante e che merita di essere conosciuta da tutti gli amanti del barocco e della sua cultura musicale.

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Saronno: “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman

gbopera - Dom, 19/01/2025 - 14:48

Saronno (VA), Teatro “Giuditta Pasta”, Stagione di Prosa 2024/25
SCENE DA UN MATRIMONIO”
di Ingmar Bergman traduzione Piero Monaci
Adattamento teatrale Alessandro D’Alatri
Giovanni FAUSTO CENRO
Marianna SARA LAZZARO
Regia Raphael Tobia Vogel
Scene Nicolas Bovey
Costumi Nicoletta Ceccolini
Musiche Matteo Ceccarini
Luci Oscar Frosio
Video Luca Condorelli
Produzione Teatro Franco Parenti di Milano
Saronno (VA), 15 gennaio 2025
Non sempre grandi registi sono anche grandi sceneggiatori, e ancora più raramente sono grandi drammaturghi. Il caso di Ingmar Bergman è singolare, ma, ahinoi, non si sottrae a questa legge: il Bergman regista cinematografico è geniale, senza dubbio uno dei massimi maestri di quest’arte, mentre come drammaturgo lo svedese ha spesso raggiunto obiettivi sensibilmente al di sotto delle aspettative. “Scene da un matrimonio“, ad esempio, è una sceneggiatura tutto sommato figlia del suo tempo, ossia di un momento storico in cui maschile e femminile potevano ancora essere concepiti come le due metà di una mela, possibile, per quanto problematica, microsoluzione al macroproblema della relazionalità. Oggi, di quel testo, ci pare complicato salvare la maggior parte: per fortuna ci pensa Alessandro D’Alatri, apprezzatissimo cineasta italiano, che appronta un adattamento della sceneggiatura bergmaniana non solo ai nostri tempi, ma anche alle nostre esperienze di maschile e femminile, in primis italiani, e non alieni alla debacle del primo e all’esigenza di riscossa del secondo – a dirla tutta, si sarebbe potuto spingere anche più in profondità, ma capiamo che il tentativo di aderenza al testo di Bergman tenga il nostro adattamento al di qua di una soglia borghese, che tuttavia non giova particolarmente alla resa. Giovanni e Marianna, quindi, sono felicemente sposati, sono due professionisti in carriera, hanno due figlie piccole di cui sono fieri, due famiglie con le quali amano relazionarsi: praticamente un incubo, quel tipo di vicini di casa con cui speri di non dover scambiare parole, perché lui sarebbe tronfio della sua vita, e lei troppo loquace nel raccontartela. Grazie al cielo intervengono i primi screzi, le bugie, le incomprensioni, i silenzi, la mancata sessualità, la rottura. Da essa si originano due nuovi personaggi, un uomo pateticamente ricascato nelle stesse dinamiche che lo soffocavano, e una donna che con coraggio e sofferenza raccoglie i pezzi di una vita, i pezzi di se stessa, e riesce ad emanciparsi dal marito; il finale, però, sembra annullare questi percorsi, livellarli a un “magari se fossimo stati veramente sinceri, sempre l’uno con l’altro, avremmo potuto salvare almeno il bello di questa relazione“, posizione molto di comodo per lui, e che relega lei, in fin dei conti, a una scema sentimentale – insomma, un finale molto bergmaniano, per chi conosce il carattere e la misoginia del regista svedese. Un finale un po’ fuori tempo, su cui forse D’Alatri avrebbe potuto intervenire in maniera più coraggiosa, soprattutto alla luce della precedente scena di violenza domestica. Questo è l’unico difetto reale che riusciamo a rintracciare nella bella produzione guidata da Raphael Tobia Vogel, che mette a punto una regia piuttosto semplice, cinematografica, e senza dubbio funzionale alle vicende, e davvero benedetta dalle scene di Nicholas Bovey, ultrarealistiche e affascinanti, dal commento musicale di Matteo Ceccarini, molto presente ma mai invasivo, in grado di sottolineare anche le tensioni più striscianti fra i due personaggi, e soprattutto dalle splendide, perfettamente congegnate, luci di Oscar Frosio, che contribuiscono in maniera decisiva alla comunicazione della Stimmung che cambia fra i due personaggi man mano che il tempo passa. I due interpreti offrono prove attoriali estenuanti e muscolari, come prevedibile: di entrambi è decisamente apprezzabile la misura, che li tiene entrambi dentro i ranghi di un’interpretazione pienamente fruibile, per quanto ci si spinga ogni tanto molto ai limiti del sopportabile. Se possiamo muovere un piccolo appunto, questo si indirizza a Fausto Cabra, che sembra esplorare meno le possibilità del ruolo, forse persuaso che l’“uomo cishet basico” necessiti di una prova altrettanto orientata al basico; in realtà sarebbe stato possibile eviscerare molto di più il personaggio, e non oscillare semplicemente tra incosciente giovialità e sbornia molesta; praticamente impeccabile, invece, Sara Lazzaro, vero motore della drammaturgia, che ad ogni scena riesce a mostrarci una diversa angolatura, un brivido in più del personaggio di Marianna. Insomma, siamo di fronte a due grandi prove d’attori, supportate da un apparato tecnico-creativo di ragguardevole livello – e che giustamente da un anno raccoglie consensi per l’Italia. Magari, la prossima volta, un testo un po’ più politicamente presente a se stesso, renderebbe l’esperienza quasi perfetta. Foto Luca Condorelli

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: seconda Domenica dopo l’Epifania

gbopera - Dom, 19/01/2025 - 10:55

Meine Seufzer, meine Tränen BWV 13 eseguita per la prima volta a Lipsia il 20 gennaio 1726 è la terza delle 3 Cantate bachiane dedicate alla seconda domenica dopo l’Epifania. L’autore del testo, Georg Christian Lehms, poeta che abbiamo incontrato più volte nel nostro percorso storico-musicale dedicato alle Cantate bachiane parte dal messaggio “La mia ora già mi appare da lontano”.. che si inserisce quindi in una atmosfera mesta e dolente che Bach raccoglie prontamente nelle 2 splendide arie della partitura dai toni della più cupa disperazione e del lamento più esacerbato: l’Anima del fedele (tenore, aria nr.1) si sente abbandonata e geme malinconicamente. L’oboe da caccia interviene a sottolineare mediante ampie volute concertanti con una coppia di flauti il pathos di quel sentimento di abbandono. È un vero “lamento” nel senso tecnico del termine che si era affermato nel linguaggio musicale Barocco l’aria del basso (nr.5) tutta costruita su avvolgenti, arditissime spirali cromatiche, quasi una disgregazione armonica. Con grande intensità espressiva, un violino e 2 flauti agiscono all’unisono in un profluvio di rapide successioni in scala e di articolazioni ritmiche variate di eccezionale consistenza seguendo modalità geometriche puntualissime. La partitura dai  toni chiaramente cameristici ha al suo interno un recitativo (Nr.2) e un Corale (Nr.3) interpretati dal Contralto con un accompagnamento orchestrale sorprendentemente luminoso. Dopo un recitativo del Soprano (Nr.4) ascoltiamo la dolorosa aria del basso (Nr.5). La cantata si conclude con la la melodia del  Corale “O Welt, ich muß dich lassen”  (Nr.6) che Bach utilizza anche nalla Passione di San Matteo.
Nr.1 – Aria (Tenore)
I miei sospiri, le mie lacrime
non si possono contare.
Se ogni giorno è colmo di tristezza
e l’angoscia non svanisce,
ah! allora tutto questo dolore
prepara per noi un cammino alla morte.
Nr.2 – Recitativo (Contralto)
Il mio carissimo Dio lascia
che io lo invochi invano e nel mio pianto
non viene a consolarmi.
La mia ora già mi appare da lontano,
ma devo ancora invano implorarlo.
Nr.3 – Corale (Contralto)
Dio, che mi ha promesso
il suo costante aiuto,
si lascia vanamente invocare
ora che sono disperato.
Ah! Sarà per sempre
adirato contro di me,
potrà e vorrà con noi poveri
essere ancora misericordioso?
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
I miei tormenti vanno aumentando
e mi privano della pace,
la coppa del mio dolore tracima di lacrime,
e questa sofferenza non si calma,
paralizza le mie emozioni.
La notte dell’angoscia e della pena
opprime il mio cuore inquieto,
perciò intono solo canti di tristezza.
No, mia anima, no,
trova consolazione nel tuo dolore:
Dio può trasformare l’amaro liquore
con facilità nel vino della gioia
e poi riservarti mille momenti felici.
Nr.5 – Aria (Basso)
Lamenti e pietosi pianti
non ci guariscono dall’angoscia;
ma chi volge lo sguardo al cielo
in cerca di conforto,
potrà scoprire una luce di gioia
illuminare il suo petto afflitto.
Nr.6 – Corale
Resta fedele, anima,
e abbi fiducia solo in Colui
che ti ha creato;
accada ciò che accada,
il tuo Padre in cielo
saprà sempre consigliarti saggiamente.

www.gbopera.it · J.S. Bach: Cantata “Meine Seufzer, meine Tränen”BWV 13
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Deutsche Oper Berlin: “Macbeth”

gbopera - Sab, 18/01/2025 - 23:07

Deutsche Oper Berlin, Stagione 2024/2025
“MACBETH”
Opera in quattro atti   su Libretto di  Francesco Maria Piave e Andrea Maffei, dalla tragedia di William Shakespeare
Macbeth THOMAS LEHMAN
Banco BYUNG GIL KIM
Lady Macbeth FELICIA MOORE
Dama di  Lady Macbeth MARIA VASILEVSKAYA
Macduff ANDREI DANILOV
Malcolm KANGYOON SHINE LEE
Un servo/ Un araldo DEAN MURPHY
Medico/ Un Sicario GEON KIM
Orchestra e Coro della  Deutsche Oper Berlin
Direttore Enrique Mazzola
Maestro del Coro Jeremy Bines
Regia Marie-Ève Signeyrole
Scene Fabien Teigné
Costumi Yashi
Luci Sascha Zauner
Video Artis Dzerve
Berlino 11 gennaio 2025
Fantasmi, streghe e la reazione umana alla carneficina, che oggi chiamiamo PTSD, ossia chiamiamo Disturbo da stress post traumatico. Come aggiornare una storia che Shakespeare scrisse per Re Giacomo, che credeva almeno nelle prime due? Verdi lo ha fatto con la sua musica evocativa, che alla Deutsche Oper Berlin Enrique Mazzola ha padroneggiato magnificamente, guidando l’eccellente orchestra DOB, il coro (in particolare la sezione femminile, che interpretano le streghe) e i solisti in un’esecuzione ricca di colori e ritmi, “accelerandi”,” ritardandi” e la panoplia del fare musica all’italiana. Quest’opera che mostra la guerra, il sangue, la brama di potere, l’omicidio e le vulnerabili reazioni umane a tale carneficina trova nella concertazione di Mazzola una vivida esaltazione.
Anche il cast si dovrebbe allineare a questa sfida interpretativa e brillare. Nella recita dell’11 gennaio ha brillato la Lady del soprano Felicia Moore. Ha padroneggiato le richieste vocali diabolicamente difficili di questo grande personaggio, da una voce di petto ben dispiegata al re bemolle acuto alla fine dell’aria del sonnambulismo. Il suo canto d’agilità è sciolto e preciso. Il suo successo è stato ben meritato. La sua interpretazione può attualmente mostrare qualche limite nel fraseggio e in un maggior scavo drammatico del personaggio, ma la cantate vi potrà arrivare con il tempo e l’esperienza. Un successo personale ben meritato.  La Deutsche Oper Berlin presenta sempre dei cast di alto livello per le “prime” ma, contrariamente ai teatri che realizzano uno spettacolo per cinque o sei rappresentazioni e assumono praticamente solo solisti ospiti,  questo, come altri teatri di “repertorio”, riprendono le produzioni per diverse stagioni. Alla Deutsche Opere si sono viste produzioni per  per  15 o più stagioni e di conseguenza vi è un susseguirsi di compagnie di canto  che si alternano nelle molte repliche, è quindi interessante scoprire come i cantanti che fanno parte della compagnia stabile del teatro si cimentino in questi ruoli importanti mostrando così pregi e difetti.
Nel ruolo di Macbeth abbiamo trovato il  giovane baritono americano Thomas Lehman cantante dai buoni mezzi vocale che ha cercato di utilizzare  al meglio delle sue possibilità il difficile ruolo protagonistico arrivando alla fine dell’opera con la voce che mostrava segni di stanchezza. In tal modo ha affrontato l’aria finale con molta prudenza. Il basso coreano Byung Gil Kim, altro membro stabile della compagnia berlinese ha le potenzialità vocali per diventare un ottimo Banco, vi dovrà raggiungere una maggiore varietà di fraseggio e colori per avere una interpretazione più completa del personaggio.
Come Macduff il tenore russo Andrei Danilov ha messo in luce una voce chiara, ma bene proiettata. Nella sua aria del quarto atto non ci è parso del tutto aderente alla vocalità verdiana. Complessivamente validi gli altri interpreti, anch’essi provenienti dall’ensemble stabile del teatro. Citiamo in modo particolare la brillante voce bianca della “prima apparizione “nel terzo atto.
Venendo allo spettacolo, con il grande schermo che, a cura di Artis Dzenve proiettava una profusione immagini mescolate con il livestream di quello che avveniva sul palco non hanno pienamente convinto, risultando a volte assai banali. La graphic video avrebbe potuto essere  la soluzione ideale per mostrare il fantasma di Banco nella scena del banchetto, ma qui  il regista ha optato per la più banale delle soluzioni, un fantasma che cammina, ignorato da tutti tranne che da Macbeth. La regia poi vuole rappresentare una scena di aborto spontaneo di Lady  che poteva essere una chiave aggiuntiva di lettura della sua follia e della sua morte, ma il mostrare una donna incinta e una proiezioni  di spermatozoi è servita solo a banalizzare questa grande scena, fortunatamente salvata dal canto della Moore.
Le scene e i costumi, tutti in bianco e nero, sono stati ravvivati solo all’inizio da qualche sprazzo di luce ma poi sono nuovamente sbiaditi: Macbeth  è un’opera cupa ma non monocromatica. Tuttavia, l’aria di Macduff è stata “arricchita” dall’omicidio in scena della moglie e dei figli e dalla successiva sfilata dei cadaveri. Il tempo e la risposta del pubblico diranno se questa produzione sopravvivrà a più di una o due stagioni del teatro. La musica è grandiosa e, almeno con Mazzola, superbamente realizzata. La DOB può certamente schierare giovani cantanti di buon livello per avere sempre una compagnia di interpreti validi.

 

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“Armonia”: James Conlon dirige l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio di Torino

gbopera - Sab, 18/01/2025 - 22:28

Torino, I Concerti del Teatro Regio 2024-2025.
“ARMONIA”
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Direttore James Conlon
Soprano Masabane Cecilia Rangwanasha
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Francis Poulenc: “Stabat Mater” per soprano, coro e orchestra; César Franck: Sinfonia in re minore.
Torino, 14 gennaio 2025.
Dopo l’inaugurazione a novembre, Pinchas Steinberg sul podio, la stagione dei Concerti del Teatro Regio, alla seconda tappa, offre, con la denominazione di “Armonia”, un programma tutto francese sotto l’espertissima bacchetta di James Conlon che fronteggia il Coro e l’Orchestra del Teatro Regio. Francis Poulenc “metà monaco e metà mascalzone” come viene scritto sulle note di presentazione del concerto, e César Franck che nella sua opera presenta “fragilità e dolore, preghiera e serenità”. Forse alla composizione di queste antinomie si riferisce “ARMONIE” il titolo, altrimenti inspiegabile, della serata. Conlon, che fu dal 2016, per tre anni, Direttore Principale della cittadina Orchestra Nazionale RAI, ci è ben noto per il grande eclettismo, la maestria tecnica con cui conduce le orchestre e per la estesa conoscenza di un vastissimo repertorio. Con gli autori russi e slavi, i francesi ed evidentemente con gli anglo-americani s’è, da sempre, mostrato in grande sintonia. Le sue interpretazioni delle opere di Britten sono poi di riferimento. Lo Stabat Mater, composto da Poulenc tra il 1950 e il 51, dopo un grave lutto e conseguente crisi religiosa, ha i caratteri di essenzialità, concretezza e sobrietà caratteristici dei lavori dei membri del Gruppo dei 6, a cui lo si accomuna. La partitura prevede un’orchestra lussureggiante e un coro di 5 voci, essendo state, diversamente dal consueto, sdoppiate le inferiori in baritoni e bassi. Nonostante le dimensioni e i timbri disponibili, l’orchestra sempre leggera, quasi senza forti sul rigo, non prende mai la scena. Si rende comunque artefice di un accompagnamento affascinante e discreto con la miscela dei timbri e con la campitura delle atmosfere. Il coro si muove tra pannelli omoritmici a cinque voci ed inserti “a cappella” a tre voci. Il testo è perfettamente intelleggibile, la polifonia, con la contemporanea sovrapposizione sfasata di voci e testo, è ridotta al minimo. Parrebbe essere tornati ad una stretta e severa prassi post-tridentina. La correlazione contenutistica tra testo ed espressività musicale non è assolutamente immediata, pare convivano senza un apparente legame significante. In tre brevi episodi irrompe un’illuminazione fulminante, la voce dallo splendido timbro, del soprano sudafricano Masabane Cecilia Rangwanasha. Linee melodiche discendenti dai limiti del rigo che paiono significare la pietosa immagine di una deposizione. Masabane Cecilia la si vorrebbe ascoltare in altre occasioni e con impegni che le lasciassero più opportunità di dispiegare i suoi meravigliosi mezzi. Grazie alle masse del teatro torinese e a Conlon, l’esecuzione, nel suo insieme, ha una forza interna ragguardevole e decisamente apprezzabile. Il pezzo in complesso induce più al ripiegamento su sé stessi e alla meditazione che non alla promozione dell’applauso sfogato. Il pubblico ha numeri contenuti e le approvazioni e i battimani, pur se moderati, hanno opportunamente premiato il soprano solista, Conlon e le masse del Teatro Torinese.
Seconda pagina della serata: La sinfonia in re minore di César Franck. Fine anni ’80 dell’800, turgore tardoromantico e wagnerismo sono gli spettri musicali che s’aggirano per l’Europa. Orchestra imponente schierata a promuovere strutture formali pericolanti. Temi, dalla difficile collocazione e giustificazione, che errabondi cercano di farsi identificare o come “temi conduttore” o come ritornelli di pseudo-rondò. Le sequenze melodiche sono brevi, orecchiabili e mostrano una certa piacevolezza, ma rischiano di sfiancare con la loro eccessiva ripetitività. Stanno inoltre in un contesto massiccio e sovrabbondante, se non di peso orchestrale, di durata. Si inizia con due pagine dalle tinte scure, quasi minacciose e forse tragiche. Si percorrono poi spirali tortuose che ad ogni svolta creano coincidenze già ascoltate. La paletta timbrica è ravvivata dagli interventi degli strumentini e, nella seconda parte, ha dei momenti memorabili del corno inglese sia come solista che in dialogo col primo corno. Lo stile del grande organista, quale Franck è sempre stato, lo si coglie nel porre la massa fonica orchestrale in un raffronto costante tra melodia/recitativo e un tutti che riporta immediatamente ai finali da organo pieno del grand’organo. Franck 1822-1890, Bruckner 1824-1896, le date, il wagnerismo sotteso e il possente strumento come riferimento, potrebbero suggerire un accostamento tra i due compositori, che nella realtà si verifica solo con un’assoluta superficialità. Pur se i mezzi utilizzati sono simili, non altrettanto la temperie culturale del fine secolo in Europa per cui è arduo accordare l’irrazionale idealismo dell’austriaco con il realismo fantasioso del belga. Conlon, da americano sempre pragmatico, sceglie la strada intermedia della resa tecnica inappuntabile, senza esagerazioni e forzature. Si indirizza alla ricerca costante e allo sviluppo di trame logiche e non passionali. Un’esecuzione tecnicamente ineccepibile. L’Orchestra del Teatro Regio di Torino, sotto la sua guida, dà prova di essere non solo adeguata al repertorio sinfonico, ma di vincere la sfida sia con la compattezza dell’insieme che con il valore dei singoli. Anche la sinfonia di Franck non fa parte delle hit dei programmi e di conseguenza gli applausi hanno più il sapore della stima che dell’entusiasmo.

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Roma, Teatro dell’ Opera: “Tosca” ( Cast Alternativo )

gbopera - Sab, 18/01/2025 - 00:30

Roma, Teatro dell’ Opera
“TOSCA”
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Tosca ANASTASIA BARTOLI
Mario Cavaradossi VINCENZO COSTANZO
Il Barone Scarpia DANIEL LUIS DE VICENTE
Angelotti  LUCIANO LEONI
Sagrestano  DOMENICO COLAIANNI
Spoletta  SAVERIO FIORE
Sciarrone MARCO SEVERIN
Carceriere ANDREA JIN KEN
Un Pastorello  EMMA MCALEESE 
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia  Alessandro Talevi
Scene Adolf Hohenstein
Ricostruite da Carlo Savi
Costumi Adolf Hohenstein
Ricostruiti da Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Ricostruzione dell’allestimento storico del 1900
Roma, 17 gennaio 2025
Esattamente 125 anni dopo il suo debutto, avvenuto il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi, Tosca di Giacomo Puccini torna a illuminare il palcoscenico che la vide nascere. Per celebrare questo anniversario storico, il Teatro dell’Opera di Roma ripropone il celebre capolavoro pucciniano in una versione scenica fedele alla prima assoluta, accuratamente ricostruita nel 2015 grazie alla collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi. Dopo il successo delle precedenti rappresentazioni, l’allestimento si rinnova con il cast alternativo, portando sul palco una lettura fresca e appassionata di un’opera che continua a incantare il pubblico, proprio lì dove la sua leggenda ebbe inizio. Francesco Ivan Ciampa ha guidato i complessi orchestrali del Teatro dell’Opera di Roma con un’interpretazione meticolosa e ispirata, capace di cogliere l’essenza più profonda della scrittura pucciniana. La direzione, attenta ai dettagli timbrici e dinamici, ha valorizzato ogni sfumatura della partitura, garantendo una struttura solida e fluida, capace di abbracciare la ricchezza lirica e il vigore drammatico di Tosca. Particolarmente pregevole è stata la gestione delle transizioni dinamiche, equilibrando momenti di sospensione e improvvise esplosioni sonore che hanno amplificato l’intensità teatrale dell’opera. La resa delle sezioni più intime, come il celebre E lucevan le stelle, ha offerto una delicatezza struggente, con archi morbidi e respiri orchestrali che hanno esaltato la drammaticità del testo musicale, mentre i passaggi di maggiore tensione drammatica, come il Te Deum del primo atto, hanno brillato per potenza e precisione, rivelando un controllo assoluto della complessità sonora. Tuttavia, è sembrato mancare un attento dialogo tra buca e cantanti, con un’interazione non sempre calibrata, che ha talvolta smorzato l’equilibrio complessivo tra orchestra e voci. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato con impeccabile rigore dal Maestro Ciro Visco, ha affiancato l’orchestra con una compattezza e una profondità espressive che hanno ulteriormente arricchito l’esperienza musicale della serata. Anastasia Bartoli interpreta Floria Tosca con una vocalità di grande impatto, caratterizzata da un timbro ambrato e una proiezione sicura. L’esecuzione di Vissi d’arte spicca per una profonda carica emotiva, che esalta il lirismo del personaggio. Tuttavia, nei registri estremi, alcuni acuti risultano forzati, perdendo in rotondità e naturalezza, mentre gli attacchi non sempre precisi rivelano una tecnica che potrebbe beneficiare di maggiore controllo. Pur dimostrando padronanza vocale, alcuni passaggi tra registro medio e acuto potrebbero essere più fluidi, mentre una maggiore varietà dinamica arricchirebbe l’interpretazione. La sua presenza scenica, vibrante e coinvolgente, riesce a trasmettere il pathos del dramma, sebbene ci sia ancora spazio per affinare le sfumature più sottili. Un’interpretazione comunque intensa e promettente, che conferma il talento dell’artista e lascia intravedere ulteriori potenzialità evolutive. Vincenzo Costanzo affronta il ruolo di Mario Cavaradossi con un timbro brunito e una linea di canto generalmente morbida, ma la sua interpretazione risulta spesso penalizzata da una voce poco proiettata, che fatica a riempire lo spazio scenico e a trasmettere appieno l’intensità emotiva richiesta dal personaggio. A ciò si aggiunge un’interpretazione trattenuta, quasi timorosa, che limita la dimensione drammatica della performance, rendendo l’esecuzione corretta ma priva del necessario slancio e della forza emotiva che caratterizzano Cavaradossi. Tuttavia, il terzo atto offre un momento di riscatto con E lucevan le stelle, dove il cantante dimostra un notevole recupero performativo, mettendo in evidenza una musicalità più solida e un’interpretazione più carica di pathos. La gestione del legato è apparsa più fluida, con una linea vocale sostenuta e acuti squillanti che restituiscono intensità emotiva. Sebbene il passaggio tra registro medio e acuto rimanga migliorabile, così come l’uso delle dinamiche e delle mezze voci, questa prova dimostra il potenziale espressivo di Costanzo, capace di momenti di autentica suggestione lirica e drammatica. Daniel Luis de Vicente offre un’interpretazione di Scarpia che, pur rivelando alcune potenzialità, manca dell’autorevolezza vocale e scenica necessarie per dare pieno spessore al personaggio. La sua voce baritonale, caratterizzata da un timbro non sempre corposo e ricco, appare talvolta priva di quella profondità e risonanza che conferiscono imponenza al ruolo. La proiezione, insufficiente in diversi passaggi, limita la capacità della voce di emergere con forza sul tessuto orchestrale, mentre il fraseggio, spesso privo di raffinatezza e sfumature, non riesce a restituire la complessità psicologica e la minaccia sottesa al personaggio di Scarpia. Dal punto di vista attoriale, la sua gestualità e interazione scenica risultano meccaniche e poco incisive, incapaci di trasmettere il carisma autoritario e l’intensità drammatica richiesti dal ruolo. Questa combinazione di fragilità nella presenza vocale e scenica rende l’interpretazione poco convincente, privando il personaggio dell’impatto e del magnetismo necessari per dominare la scena. Di grande spessore l’intera compagnia di canto: Domenico Colaianni ha reso un Sagrestano spigliato e vocalmente preciso; Luciano Angeloni ha offerto un Angelotti eroico e incisivo; Saverio Fiore e Marco Severin hanno brillato nei ruoli comprimari di Spoletta e Sciarrone, fondamentali per la tensione drammatica. Andrea Jin Chen e Emma McAleese hanno completato il cast con sobrietà e freschezza, arricchendo l’opera con dettagli interpretativi pregevoli. Pur in presenza di alcune incertezze vocali di rilievo, l’accoglienza del pubblico si è rivelata calorosa e vibrante, con prolungati applausi e un’intensa partecipazione emotiva che hanno suggellato il trionfo di una serata consacrata a uno dei capolavori più amati e venerati del grande repertorio operistico. Photocredit Fabrizio Sansoni

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: ” Il Pipistrello”

gbopera - Ven, 17/01/2025 - 19:02

Roma, Teatro dell’Opera, Stagione 2024/2025
“IL PIPISTRELLO”
Balletto in due atti
Musica Johann Strauss Jr.
Direttore Alessandro Cadario
Coreografia Roland Petit
Riallestimento Luigi Bonino
Assistente alla coreografia Gillian Whittingham
Scene Jean-Michel Wilmotte
Costumi Luisa Spinatelli
Luci Jean-Michel Désiré
Bella Rebecca Bianchi
Johann Michele Satriano
Ulrich Alessio Rezza
Orchestra, Étoiles, Primi ballerini, Solisti e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Con la partecipazione degli allievi della Scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma
Allestimento Wiener Staatsballett
Roma, Teatro Costanzi, 31 dicembre 2024
La notte di Capodanno al Costanzi si è svolta un’incantevole prima de Il pipistrello, balletto del coreografo francese Roland Petit creato per la moglie Zizi Jeanmaire nel 1979. Si tratta in realtà di uno spettacolo ispirato all’omonima operetta di Johann Strauss, su libretto di Carl Haffner e Richard Genée da Le Réveillon di Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Nata per riportare la luce dopo il crollo della borsa a Vienna, la celebre operetta di Johann Strauss si incentrava su una semplice storia familiare. Roland Petit, con il suo genio creativo che da semplice figlio di Rose Repetto lo aiutò ad imporsi nell’ambiente dei più prestigiosi teatri dell’epoca, divenendo addirittura il fondatore dei Ballets des Champs-Elysées, riesce a trasformare l’ambiente domestico e del varieté parigino in un’azione teatrale oltremodo spettacolare. Ad aiutarlo è senz’altro la presenza scenica della moglie, che come lui non sdegnò il mondo della rivista, decidendo infine di dedicarvisi a tempo pieno. Purtroppo, nelle scuole di danza nostrane poco spazio si dedica alle forme artistiche diverse dalla danza, dunque la decisione di inserire tale capolavoro nella programmazione del Teatro dell’Opera di Roma è senz’altro una chiave di miglioramento. Estremamente apprezzabile è poi il fatto che a cimentarsi nel ruolo di Bella sia una danzatrice di stampo lirico quale Rebecca Bianchi, che solitamente nelle sue interpretazioni si distingue per un’aulica purezza. Decisasi a temprare le illimitate ambizioni di libertà del marito Johann, storicamente interpretato da Denys Ganio e qui riattualizzato dal valido Michele Satriano, si consulta con l’amico Ulrich – in scena troviamo lo stimato danseur étoile Alessio Rezza -, inventandosi un personaggio per sedurre definitivamente il proprio compagno. A precedere il tutto è un sensazionale quadro iniziale, in cui numerose presenze maschili in frac ruotano intorno a una misteriosa dark lady-Elena Bidini dal copricapo esageratamente fuori misura.  Si snoda poi la quieta e tiepida scena familiare, che a nostro avviso non offre particolari spunti di riflessione, se non nell’esilarante momento notturno, in cui accertatosi dell’assopimento della moglie, il nostro Johann prende il volo. Esasperata dalla situazione e abilmente supportata da Ulrich, che a suo tempo fu interpretato da Luigi Bonino, divenuto il più noto riallestitore delle creazioni di Roland Petit, Bella tenta semplicemente a cambiare abito, presentandosi nel locale più alla moda di Parigi, ovvero esattamente da Chez Maxim. Qui la teatralità è affidata a formidabili danze sia dell’intero insieme dei danzatori sia a più piccoli gruppi, ma a emergere è naturalmente Michele Satriano, che con i suoi portentosi grands échappés à la seconde risveglia l’attenzione del pubblico. Entra a questo punto in scena in maniera apparentemente poco visibile la nostra Bianchi. Su di lei è un mantello nero, ma basta un impercettibile movimento di spalle per catturare lo sguardo di Johann e infondere vita ad una movimentata danza di coppia. Incontentabile il nostro Johann persiste nei suoi slanci di libertà. Non c’è altro da fare che ridurlo in prigione. A liberarlo è sempre Bella, benché tuttora travestita. Adesso la loro danza assume infine un sapore lirico, trasmettendo un senso di pace che dona armonia all’intero spettacolo. Con sottile astuzia, tuttavia, Bella preferisce non cedere all’incanto e fattasi prestare un paio di forbici taglia definitivamente le ali di Johann. Ma è solo un balletto, non la realtà, e la musica di Strauss riporta allegria allo spettacolo, che altrimenti sarebbe del tutto desolante. Foto Fabrizio Sansone

Categorie: Musica corale

Pompei, Parco Archeologico: “La casa come palcoscenico. Il complesso termale e conviviale recentemente scoperto nell’insula IX-10”

gbopera - Ven, 17/01/2025 - 11:39

Pompei, Parco Archeologico
LA CASA COME PALCOSCENICO. IL COMPLESSO TERMALE SCOPERTO NELL’INSULA IX-10
Crederesti di avere davanti un coro di pantomimi, non il triclinio di un padre di famiglia” (pantomimi chorum, non patris familiae triclinium crederes, Petron., 31, 7). Così Petronio, nel Satyricon, descrive la sontuosa sala da banchetto del ricco liberto Trimalcione, ambientata in una città campana del I secolo d.C., uno scenario che riflette profondamente il contesto culturale della Pompei pre-eruzione del 79 d.C. Le recenti indagini archeologiche condotte nell’insula 10 della Regio IX di Pompei (Amoretti et al. 2023; Zuchtriegel et al. 2024) hanno riportato alla luce un complesso abitativo straordinario, caratterizzato da un impianto termale di proporzioni monumentali direttamente connesso a un maestoso triclinio, denominato “salone nero”. Questo rinvenimento conferma ulteriormente la funzione sociale e politica della domus romana, concepita non solo come luogo privato, ma come teatro di rappresentazioni finalizzate all’ostentazione del potere, alla promozione del consenso e alla celebrazione dell’identità culturale del proprietario. L’impianto termale, tra i più ampi e articolati mai rinvenuti all’interno di una domus privata pompeiana, include i tre ambienti canonici del calidarium, tepidarium e frigidarium, oltre a un apodyterium con panchine che suggeriscono una capienza fino a trenta persone. Di particolare rilievo è la struttura del frigidarium, che si sviluppa attorno a un peristilio quadrangolare di 10 x 10 metri con al centro una grande vasca. Questa configurazione, oltre a garantire il massimo comfort, richiama modelli di ispirazione ellenistica, suggerendo un’accurata progettazione architettonica volta a combinare funzionalità e simbolismo. Il “salone nero”, già parzialmente indagato nei mesi precedenti, fungeva da fulcro conviviale dell’intero complesso. Le sue dimensioni e il ricco apparato decorativo indicano la volontà del proprietario di creare uno spazio scenografico, destinato non solo ai banchetti, ma anche alla messa in scena di rapporti di potere. Le pitture parietali, attribuibili al III stile pompeiano, presentano soggetti mitologici e riferimenti alla guerra di Troia, evocando un’atmosfera di erudizione e grecità. Questa scelta, intenzionale e studiata, mirava a rafforzare il prestigio culturale del padrone di casa e a impressionare gli ospiti, contribuendo alla costruzione di una narrazione identitaria che lo poneva al centro della scena. L’intera domus, che occupa l’estremità meridionale dell’insula, era chiaramente destinata a un membro dell’élite locale, probabilmente un personaggio di spicco nella vita politica e sociale di Pompei. La connessione diretta tra il complesso termale e il triclinio riflette l’integrazione tra pratiche di otium e negotium: i banchetti e le sessioni termali non erano meri momenti di svago, ma occasioni ritualizzate per consolidare alleanze, rafforzare rapporti clientelari e promuovere ambizioni politiche. Come nel Satyricon, dove i bagni precedono il banchetto di Trimalcione, così anche qui l’esperienza termale era parte integrante di una messa in scena complessiva che culminava nel convivio. Un elemento distintivo del complesso è rappresentato dall’utilizzo innovativo di tecniche di scavo e conservazione. Per preservare l’integrità del peristilio, è stato adottato un sistema di supporti temporanei che ha consentito di raggiungere i livelli pavimentali senza compromettere la stabilità del colonnato. Questa metodologia garantisce la salvaguardia degli elementi architettonici, permettendo nel contempo interventi futuri di restauro strutturale e decorativo. La presenza di una megalografia in corso di scavo nell’oecus corinzio, decorata con scene di nature morte raffiguranti cacciagione e pesce, rafforza ulteriormente l’idea di una stretta connessione tra l’iconografia e la funzione degli spazi. Gli elementi decorativi della domus, che comprendono fregi, pitture e sculture, evidenziano una raffinata sintesi tra cultura greca e romana, simbolo di un’identità che fondeva prestigio locale e cosmopolitismo. Come sottolineato dal direttore degli scavi, Gabriel Zuchtriegel, ogni dettaglio – dalle scene atletiche del peristilio alle decorazioni del “salone nero” – contribuiva a creare una scenografia sofisticata, capace di trasportare gli ospiti in un universo simbolico che celebrava il padrone di casa come mecenate e arbitro culturale. L’organizzazione degli spazi, funzionale alla messa in scena di una “drammaturgia sociale”, conferma la centralità del concetto di domus come luogo di rappresentazione identitaria. La sua architettura, i suoi decori e le sue funzioni si integrano in un sistema che trascende la mera dimensione abitativa, divenendo uno strumento di comunicazione e legittimazione del potere.

Categorie: Musica corale

Roma, Auditorium della Conciliazione: “Bernadette de Lourdes”

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 23:59

Roma, Auditorium della Conciliazione
BERNADETTE DE LOURDES
di Serge Denoncourt
Regia Serge Denoncourt
Con Gaia De Fusco, David Ban, Chiara Luppi, Fabrizio Voghera, Cristian Ruiz
Produzione Coesioni
Roma, 16 gennaio 2025
Il musical Bernadette de Lourdes si configura come un’opera di straordinaria raffinatezza artistica, una sintesi magistrale tra narrazione storica, potenza scenica e profondità intellettuale. Portando sul palcoscenico la vita della giovane Bernadette Soubirous, il musical non solo racconta la straordinaria vicenda che ha trasformato Lourdes in uno dei più celebri luoghi di pellegrinaggio al mondo, ma lo fa con una fedeltà storica e una sensibilità universale capaci di parlare a tutte le culture e tradizioni. Basata esclusivamente su documenti autentici e verbali storici dell’epoca, l’opera si configura come un tributo alla figura di Bernadette, senza mai scadere in facili stereotipi o retorica. La regia e il libretto, firmati da Serge Denoncourt, si distinguono per la capacità di fondere una narrazione emotivamente coinvolgente con un’estetica scenica di rara eleganza. Le musiche, composte da Grégoire, e i testi, opera di Lionel Florence e Patrice Guirao, donano al racconto una struttura drammaturgica solida e avvincente, capace di sostenere il peso emotivo della storia e di elevarlo a una dimensione universale. L’adattamento e la traduzione italiana, curati con grande maestria da Vincenzo Incenzo, riescono a preservare l’essenza dell’opera originale, rendendola al contempo accessibile e profondamente risonante per il pubblico italiano. Nonostante il successo travolgente in Francia, dove lo spettacolo ha incantato oltre 400.000 spettatori, Bernadette de Lourdes non è stato esente da polemiche. Nel 2023, la commissione del Pass Cultura, un’iniziativa statale francese per avvicinare i giovani al teatro, ha escluso il musical dal proprio programma, sostenendo che non rispettasse i principi della laicità sanciti dalla Carta del 2013. Questa decisione, motivata dal timore che un’opera su un tema religioso potesse confliggere con la neutralità dello Stato, ha suscitato un acceso dibattito. I produttori hanno risposto sottolineando la natura documentaristica del musical, che non celebra la fede ma racconta fedelmente una vicenda storica. Questa vicenda ha evidenziato come il concetto di laicità possa, in alcuni casi, rischiare di sfociare in una forma di censura culturale, generando riflessioni sulla relazione tra arte, spiritualità e politica. L’apparato visivo e sonoro dell’opera è il risultato di un lavoro corale di altissimo livello. Le scenografie, ideate da Stéphane Roy, si distinguono per la loro capacità di evocare con essenzialità e suggestione i luoghi simbolici della vicenda, trasportando lo spettatore direttamente nell’atmosfera di Lourdes senza appesantire la scena. I costumi, curati da Mérédith Caron, sono meticolosi nella loro aderenza storica e ricchi di dettagli che arricchiscono la caratterizzazione dei personaggi, mentre gli arrangiamenti musicali di Scott Price amplificano la dimensione emotiva della partitura, creando un’esperienza sonora immersiva che dialoga perfettamente con la narrazione. La produzione, guidata con visione e ambizione da Éléonore de Galard, Roberto Ciurleo, Gad Elmaleh e Fatima Lucarini, con la realizzazione esecutiva di Coesioni, garantisce una qualità scenica impeccabile, capace di coniugare precisione tecnica e profondità artistica. Il debutto italiano, avvenuto presso l’Auditorium della Conciliazione di Roma, ha confermato il valore universale dell’opera, accolta con entusiasmo dal pubblico . L’iniziativa dell’anteprima, dedicata a 1.600 persone in difficoltà grazie all’organizzazione dell’Elemosineria Apostolica, ha ulteriormente sottolineato l’impegno del musical nel rivolgersi a un pubblico ampio e diversificato, trasformandolo in un evento non solo artistico ma anche umano e inclusivo. Il cast italiano ha saputo dare vita ai personaggi con una profondità e una sensibilità che hanno reso ogni interpretazione unica e memorabile. Gaia Di Fusco, nel ruolo di Bernadette Soubirous, ha incantato con una vocalità cristallina e potente, restituendo con autenticità l’innocenza, la forza e la spiritualità della protagonista. Chiara Luppi, nel ruolo di Louise Soubirous, madre di Bernadette, ha offerto una performance intensa e toccante, capace di trasmettere il dolore e il sacrificio di una donna segnata dalle avversità della vita. David Bàn, nei panni di François Soubirous ( l’unico proveniente dal cast originale francese), padre della giovane, ha saputo incarnare una figura paterna complessa e tormentata, arricchita da una presenza scenica incisiva e una vocalità robusta. Fabrizio Voghera, nel ruolo dell’abate Peyramale, ha conferito al personaggio una gravitas straordinaria, grazie a una voce profonda e autorevole e a un’interpretazione carismatica che ha restituito la tensione morale del sacerdote. Cristian Ruiz ha dato vita al commissario Jacomet con rigore e intensità, incarnando con straordinaria efficacia il conflitto tra autorità e fede che pervade la narrazione. Il futuro di Bernadette de Lourdes appare altrettanto promettente, con il musical destinato a fare il suo debutto a Broadway nel 2026, portando la sua storia e il suo messaggio universale oltre i confini europei. Inoltre, il film tratto dalla versione originale francese sarà distribuito nei cinema di oltre cento Paesi, consacrando ulteriormente l’opera come un fenomeno culturale globale. Con una messa in scena di rara eleganza, una narrazione che unisce fedeltà storica e universalità tematica e un cast di interpreti eccezionali, Bernadette de Lourdes si afferma come un capolavoro del teatro musicale contemporaneo. L’opera non solo rende omaggio a una figura storica di straordinaria importanza, ma si configura anche come un’esplorazione artistica e spirituale che interroga e commuove lo spettatore, lasciando un segno indelebile nella memoria e nel cuore.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Tosca” compie 125 anni

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 18:01

Teatro dell’Opera di Roma Stagione Lirica 2024/25
“TOSCA”
Melodramma in tre atti Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Tosca  SAIOA HERNANDEZ
Mario Cavaradossi  GREGORY KUNDE
Il Barone Scarpia GEVORG HAKOBIAN
Angelotti  LUCIANO LEONI
Sagrestano  DOMENICO COLAIANNI
Spoletta  SAVERIO FIORE
Sciarrone LEO PAUL CHIAROT
Carceriere ANTONIO TASCHINI
Un Pastorello IRENE CODAU
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia  Alessandro Talevi
Scene Adolf Hohenstein ricostruite da Carlo Savi
Costumi Adolf Hohenstein ricostruiti da Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma ricostruito sui bozzetti originali della prima esecuzione del 1900 in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi
Roma, 14 gennaio 2025
Per celebrare i 125 anni dalla prima esecuzione di Tosca di Giacomo Puccini che avvenne proprio al Costanzi il 14 gennaio del 1900 presenti in sala l’autore, Sua maestà la regina Margherita e le massime autorità dello Stato di allora, il Teatro dell’Opera di Roma ha pensato di riprendere lo spettacolo pensato per quella prima assoluta con le scene ed i costumi di Adolf Hohenstein resa possibile grazie al prezioso e sapiente  lavoro di recupero svolto da Carlo Savi e Anna Biagiotti ed alla regia di Alessandro Talevi ed andata in scena più volte con diversi cast a partire dal 2015. Anche in questa occasione hanno assistito alla serata le massime autorità dello Stato presenti allo scoprimento di una targa commemorativa, importante testimonianza per il teatro dell’aver tenuto a battesimo questo ed altri capolavori entrati poi in repertorio e nella storia della musica. Le scene dipinte ed i costumi molto belli ben restituiscono la romanità dell’ambientazione del dramma, in modo tale da non divenire protagonisti ma logica e naturale cornice all’interno della quale diviene possibile seguire lo sviluppo di una vicenda tra l’altro abbastanza lineare senza distrazioni, sovrapposizioni o interferenze di sorta. Molto ben studiati sono apparsi i movimenti scenici di alcuni personaggi, Tosca con una gestualità, un ritmo ed una mimica tipicamente romane, Scarpia con una immobilità ed una solennità aristocratica da autentico barone un po’ attempato, Spoletta con la rapida, astuta disinvoltura dello scaltro faccendiere, il Sagrestano intriso di furbizia, devozione, codardia e insofferenza, il tutto sempre in sintonia con la musica. Bella e romanamente solenne è apparsa anche in questa occasione la liturgia del Te Deum.  La direzione è stata affidata al maestro Michele Mariotti il quale con un evidente e profondo lavoro ha saputo trovare un perfetto equilibrio tra il canto e lo spessore dell’orchestra pucciniana attraverso una infinita varietà di colori, indugi e pause sempre contenuti dentro una architettura globale e senza cadere in un calligrafismo fine a se stesso. Un esempio per tutti, con la pausa alla fine del “Vissi d’arte” ha saputo creare un istante interminabile di silenzio assoluto nel pubblico che è poi esploso in un applauso sincero che ha decretato per il soprano il trionfo della serata. Il Coro diretto dal maestro Ciro Visco ha brillato per solennità e varietà timbrica sia nel “Te Deum” che nella cantata del secondo atto. Nel ruolo eponimo abbiamo riascoltato Saioa Hernàndez, già interprete di una precedente ripresa, che ha rinnovato i precedenti lusinghieri successi interpretando la parte con voce magnifica, rotonda, uguale in tutti i registri, sonora senza mai cedere alla facile tentazione dell’urlo, con acuti rotondi, sicuri e ben proiettati. Gevorg Hakobian risolve il personaggio di Scarpia discretamente, puntando più sulla potenzialità espressiva del colore nero inchiostro del proprio strumento vocale che non sul fraseggio ma nel complesso con risultati più che positivi. Cavaradossi era impersonato dal veterano Gregory Kunde il quale nonostante una recitazione forse troppo densa di sottolineature, tratteggia un’immagine del personaggio simpatica e giovane grazie ad un fraseggio elegante e sorvegliato. Saverio Fiore ripete con evidente successo il suo ormai collaudatissimo Spoletta, impeccabile e sicuro sul piano musicale e scenico mentre Domenico Colaianni conferisce al Sagrestano un autentico odore di sagrestia romana. Molto ben cantata è stata la parte del pastorello da Irene Codau, funzionali allo spettacolo sono sembrate le realizzazioni dei personaggi di Sciarrone e di Angelotti. Alla fine lunghi e calorosi applausi per tutti a conclusione di una serata nella quale, come vuole la tradizione, la primadonna nel titolo e nei fatti ha indubbiamente trionfato senza riserva alcuna. Photocredit @FabrizioSansoni

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Il Rito” dal 21 al 26 gennaio 2025

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 15:24

Roma, Teatro Vascello
IL RITO
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
con
Alice Arcuri (Thea Winkelmann)
Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Alfonso Postiglione (Giudice Ernst Abrahmsson)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
adattamento e regia Alfonso Postiglione
scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto regia Serena Marziale
produzione Ente Teatro Cronaca, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival
Il rito è tratto dal film omonimo di Ingmar Bergman del 1969. Tre artisti di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna sono denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Il giudice Abrahmsson li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Non riuscendo a farsi un’idea dai colloqui con gli artisti, l’uomo assiste alla performance allestita nel suo ufficio, subendone conseguenze inaspettate. Al centro del lavoro, il tema della censura e l’impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico. Il rito è tratto dall’omonimo film (in originale, Riten) scritto e diretto da Ingmar Bergman nel 1968 e uscito l’anno successivo, il primo da lui realizzato diretta- mente per la televisione, l’ultimo girato interamente in bianco e nero. Bergman cominciò a scrivere pensandolo come allestimento teatrale per il Dramaten di Stoccolma, incoraggiato dal favore di Erland Josephson, suo sodale e consigliere. Ma il regista-autore ci ripensò e lo dirottò verso una “partitura filmata per primi piani”. Il film è una sorta di cinema da camera, girato in interni con soli quattro personaggi, ed è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica. Nello specifico, lo spettacolo è tratto dal testo originale integrale, da cui Bergman sviluppò in seguito la sceneggiatura, costituendosi, dunque, come una sorta di inedito. Tre attori di teatro di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono stati denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Un giudice incaricato, il Dott. Abrahmsson, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Dai colloqui con gli artisti in cui si scoprono soprattutto le ambigue articolazioni interpersonali, l’uomo non riesce a farsi una idea chiara della faccenda e finisce per assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, con conseguenze fatali. La performance dei tre artisti si rivela una sorta di rito dionisiaco dalle chiare va- lenze simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale. E per ciò, il rito si configura come una sorta di parodia delle Baccanti di Euripide, nel senso etimologico di una loro ricantazione entro parametri estetici e sociali contemporanei. Il giudice può corrispondere facilmente alla figura di Penteo, in aperta ostilità nei confronti dei tre artisti, dietro i quali si celano identità e funzioni da sacerdoti dionisiaci. Ma forse, nel finale, si paventa la presenza stessa del Dio, sotto le spoglie dell’eterno femminino, fascinoso e perturbante, di Thea. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

“Falstaff” il Salieri festeggia i 50 anni del Teatro Filarmonico di Verona

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 14:22

Fondazione Arena di Verona celebra 50 anni d’opera al Teatro Filarmonico riproponendo, a distanza di mezzo secolo, il titolo che inaugurò la prima Stagione artistica nel 1975, ma con uno spettacolo tutto nuovo e in edizione critica. Domenica 19 gennaio alle 15.30 si alza il sipario su Falstaff ossia Le tre burle, opera comica di Antonio Salieri, nato a Legnago e divenuto compositore alla corte imperiale di Vienna. Una gemma del teatro musicale da riscoprire, grazie alla regia dell’esperto shakespeariano Paolo Valerio, con scene di Ezio Antonelli e luci di Claudio Schmid, in una lettura settecentesca e frizzante, con un cast di giovani talentuosi e i complessi artistici di Fondazione Arena diretti da Francesco Ommassini. Repliche mercoledì 22 gennaio alle 19, venerdì 24 alle 20, domenica 26 alle 15.30.
Dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Verona dovette attendere la ricostruzione del Teatro, per mano dell’Accademia Filarmonica, prima di rivedere l’opera sul principale palcoscenico al coperto della città. Era il 1975 e, per i 150 anni dalla morte di Salieri, andò in scena Falstaff: inaugurazione lirica del Teatro e vera e propria riscoperta, che fece circolare l’allestimento in numerose città, prima di tornare a Verona nel 1981. Cinquant’anni dopo, per il bicentenario salieriano, Falstaff va in scena per la prima volta in edizione critica, prodotta da Fondazione Arena, edita da Casa Ricordi e a cura di Elena Biggi Parodi, musicologa, titolare della cattedra di Storia e storiografia della musica al Conservatorio di Parma e critico musicale cui si deve la riscoperta di numerosi scritti del compositore, del quale ha già pubblicato il catalogo completo delle opere.
Nel ruolo del titolo, Giulio Mastrototaro “insidia” Gilda Fiume, mrs. Ford, e Laura Verrecchia, mrs. Slender, ad insaputa dei mariti (dalle parti altrettanto esigenti vocalmente) di Marco Ciaponi e Michele Patti. Completano il cast la cameriera Betty di Eleonora Bellocci e il servitore Bardolf di Romano Dal Zovo. L’inarrestabile azione scenica è resa ancor più vivace dai numerosi mimi coordinati da Daniela SchiavoneL’Orchestra di Fondazione Arena e il Coro preparato da Roberto Gabbiani sono diretti dal maestro veneziano Francesco Ommassini. L’opera è inserita nel programma di Mozart a Verona 2025, Festival diffuso in tutta la città.
Falstaff inaugura la Stagione Lirica 2025, ricca di capolavori rari e titoli in prima esecuzione assoluta al Teatro Filarmonico: è ancora possibile acquistare abbonamenti, nuovi carnet e biglietti singoli per ogni data al link https://www.arena.it/it/teatro-filarmonico, alla Biglietteria dell’Arena e, due ore prima di ogni recita, alla Biglietteria stessa del Teatro Filarmonico in via Mutilati.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Argentina: “I ragazzi irresistibili” dal 21 gennaio al 02 febbraio 2025

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 12:56

Roma, Teatro Argentina
I RAGAZZI IRRESISTIBILI
di Neil Simon
traduzione Masolino D’Amico
regia Massimo Popolizio
con Umberto Orsini, Franco Branciaroli
e Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale, Emanuela Saccardi
Massimo Popolizio dirige Umberto Orsini e Franco Branciaroli che tornano sul palcoscenico del Teatro Argentina dando vita a  I ragazzi irresistibili, testo scritto da Neil Simon nel 1972, divenuto un classico della commedia brillante e diventato presto un film di notevole successo. I due protagonisti, due anziani attori di varietà che hanno lavorato in coppia per tutta la vita, per poi separarsi a causa di insanabili incomprensioni, dando vita al duo famoso “I ragazzi irresistibili”, sono chiamati a riunirsi, in occasione di una trasmissione televisiva che li vuole insieme, per una sola sera, per celebrare la storia del glorioso varietà americano. I due vecchi attori, cercano quindi di ricucire lo strappo che li ha separati per tanti anni nel tentativo di ridare vita al numero comico che li ha resi famosi ma le incomprensioni del passato, riemergono immediatamente, scatenando un meccanismo di geniale ironia e di profonda melanconia. Certi scambi di battute e situazioni esilaranti sono fonte non solo di comicità ma anche di uno sguardo di profonda tenerezza per quel mondo del teatro che, quando vede i suoi protagonisti avviati sul viale del declino, mostra tutta la sua umana fragilità. Umberto Orsini e Franco Branciaroli si ritrovano insieme per ridare vita a questo testo, nel tentativo di cogliere tutto quello che lo rende più vicino al teatro di un Beckett (Finale di Partita) o addirittura a un Cechov (Il Canto del Cigno) piuttosto che a un lavoro di puro intrattenimento. In questo omaggio al mondo degli attori, alle loro piccole e deliziose manie e tragiche miserie, li affianca la regia di Massimo Popolizio che ritrova nei due protagonisti quei compagni di strada coi quali ha condiviso tante esperienze tra le più intense e significative del teatro di questi anni. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro India: “Anna Cappelli” dal 22 al 26 gennaio 2025

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 12:47

Roma, Teatro India
ANNA CAPPELLI
di Annibale Ruccello
regia Claudio Tolcachir
con Valentina Picello
Il perdono e la carità implicano l’accettazione totale della natura umana, che include il crimine, che non è altro che una grande concentrazione di sofferenza. Angelica Liddell
Un testo che indaga sul ruolo della donna nel tempo. L’indipendenza, la prospettiva di futuro, la solitudine, la mancanza di mezzi e di risorse. Con umorismo pungente e assurdo questa pièce ci conduce attraverso i labirinti della mente di un personaggio inconsueto, pieno di contraddizioni. Commovente e imbarazzante allo stesso tempo. Ciascuno di noi potrebbe conoscerla, incrociarla nella propria vita; ma potremmo anche essere lei. Sentirci così impotenti da prendere le decisioni peggiori. Un gioiello teatrale sul corpo di un’attrice unica, Valentina. La sua sensibilità, la sua immaginazione e l’infinita delicatezza del suo humor daranno a questo testo una impronta unica e piena di aria fresca. Una proposta molto netta: questa donna, il pubblico, e la vita in mezzo a loro. Lo humor e la tragedia mischiati. Quel sorriso doloroso che ci attraversa e non ci lascia indifferenti. Claudio Tolcachir. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Il Caso Jekyll” dal 21 gennaio al 02 febbraio 2025

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 12:41

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL CASO JEKYLL
tratto da Robert Louis Stevenson
adattamento Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
con Sergio Rubini, Daniele Russo
e con
Geno DianaRoberto SalemiAngelo ZampieriAlessia Santalucia
scene Gregorio Botta
scenografa Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
foto di scena Flavia Tart
Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini
Marche Teatro
Teatro Stabile di Bolzano
Partendo dalla considerazione che il celebre romanzo di Stevenson “Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde” sia un’apologia sulla condizione umana avendo come tema centrale il doppio, che poi è il doppio che alberga in ognuno di noi, abbiamo sviluppato una drammaturgia che avesse una chiave più chiaramente psicanalitica, più vicina a quelle teorie che si svilupparono quasi mezzo secolo dopo la pubblicazione del racconto stevensoniano, e che ebbero il massimo dell’espressione negli approdi scientifici prima di Freud, poi di Jung. Il nostro testo, infatti, spogliato da qualsiasi soluzione allegorica usata da Stevenson e che dà il carattere fantastico a tutta la storia, in testa a tutti la metamorfosi di Jekyll in Hyde attraverso un esperimento chimico, la cosiddetta “pozione”, è piuttosto un viaggio nell’inconscio, nella fattispecie di un famoso luminare della medicina, Henry Jekyll, che ambendo all’individuazione di quelle che sono le cause della malattia mentale, si fa cavia e diventa poi vittima delle sue stesse teorie, tirando fuori dalla caverna del conscio ciò che è a lui stesso nascosto, la sua ombra, il suo Hyde. Da ciò si evince chiaramente come il racconto da cui siamo partiti, sia in effetti solo d’ispirazione a una storia più vicina ai temi della nostra contemporaneità che offra allo spettatore la possibilità non solo di rispecchiarsi in quelli che sono i pericoli ma anche i piaceri che scaturiscono dalla propria ombra, ma anche di essere uno spunto di riflessione sulla necessità di dialogare col proprio inconscio, portarlo fuori e condividerlo con la collettività nonostante la tendenza della società di reprimere tutto ciò che esca dal canone e che spesso coincide invece con l’autentico, per evitare che la nostra ombra scavi in solitudine un tunnel nel nostro io di sofferenze e violenza. Sergio Rubini. Qui per tutte le informazioni.

 

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Saronno, Teatro “Giuditta Pasta” : “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman

gbopera - Gio, 16/01/2025 - 09:47

Giovedì 16 gennaio alle ore 20.45 andrà in scena presso il “Giuditta Pasta” di Saronno (VA), “Scene da un Matrimonio”, nuova produzione del Teatro Franco Parenti con Sara Lazzaro e Fausto Cabra per la regia di Raphael Tobia Vogel, impegnata in una lunga tournée per i teatri nostrani. Lo spettacolo trae ispirazione dal celebre capolavoro di Ingmar Bergman, proposto come miniserie televisiva cinquant’anni fa successivamente trasformata in lungometraggio. Un’opera capace di lasciare un segno indelebile, non solo nella storia del cinema. È la storia di una coppia che cerca un modo per rimanere unita e apparire felice, pur vivendo un rapporto segnato da crepe e insoddisfazioni, rabbia, risentimento e tensioni accumulati negli anni. Lo spettacolo esplora temi universali quali il matrimonio, la famiglia borghese e le convenzioni sociali, e sottolinea il peso delle maschere che impediscono la vera conoscenza e una relazione autentica.
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Roma, Teatro Ambra Jovinelli : “Migliore”

gbopera - Mer, 15/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
MIGLIORE
scritto e diretto da Mattia Torre
con Valerio Mastrandrea
Produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
Roma, 15 gennaio 2025
“Essere il migliore non sempre significa essere il più buono”
. Questa frase, che porta con sé una velata contraddizione, racchiude il nucleo tematico di “Migliore”, il monologo scritto e diretto da Mattia Torre, portato sul palco del Teatro Ambra Jovinelli di Roma da un intenso Valerio Mastandrea. Non è solo teatro: è un viaggio attraverso la complessità della trasformazione personale, delle scelte morali e delle loro ambiguità. Mattia Torre, noto per il suo ruolo di autore nella celebre serie “Boris” e per altri successi come “Dov’è Mario?” con Corrado Guzzanti, costruisce qui un ritratto tagliente dell’uomo contemporaneo. Alfredo Beaumont, il protagonista, è un impiegato sommerso dalle aspettative altrui – che siano quelle della società, della famiglia o del lavoro – e lavora in un call center di lusso, soddisfacendo i desideri di clienti privilegiati. Un banale incidente sconvolge il suo equilibrio e lo spinge a una trasformazione che lo porta a imporsi sugli altri, abbracciando una forma di assertività che lascia però aperti interrogativi cruciali. Il monologo è un percorso che parte dalla fragilità per approdare alla forza, ma senza mai scadere nella celebrazione della potenza personale fine a sé stessa. Alfredo diventa un uomo diverso, più determinato, più diretto. Ma la domanda che il testo pone con intelligenza è se questa trasformazione lo renda realmente migliore, o semplicemente più distante dagli altri. L’identificazione con il protagonista è inevitabile, ma è un’identificazione scomoda, che costringe il pubblico a riflettere sul prezzo del cambiamento. La figura di Alfredo Beaumont è disegnata con grande precisione da Torre, che gli conferisce una stratificazione umana rara. La sua insicurezza, la sua paura di fallire, lo rendono inizialmente un uomo che cerca di sopravvivere. Tuttavia, il cambiamento che vive non è privo di ambiguità: il suo percorso verso l’affermazione personale si intreccia con un progressivo allontanamento dagli altri, trasformandolo in un individuo capace di affermarsi a discapito del prossimo. La forza del testo risiede proprio in questa ambivalenza, che apre a una molteplicità di interpretazioni e riflessioni. Valerio Mastandrea affronta il testo con una profondità che scava sotto la superficie del personaggio. La sua voce, ruvida e intensa, diventa uno strumento di straordinaria efficacia espressiva. Ogni parola è calibrata, ogni pausa è carica di significato. Non c’è bisogno di scenografie elaborate: il palco essenziale, accompagnato da un disegno luci geometrico e sobrio, lascia che siano le parole e le pause a costruire l’immaginario. Questa semplicità formale amplifica l’impatto emotivo e drammatico del testo. Un elemento centrale dello spettacolo è l’urgenza espressiva. La regia – minimalista e misurata – non si perde in orpelli, ma si affida interamente alla forza narrativa del monologo e alla capacità di Mastandrea di mantenere alta l’attenzione del pubblico. Il risultato è un’esperienza che mescola ironia, fragilità e tensione emotiva, sempre in bilico tra il comico e il tragico. La sua presenza scenica è così magnetica che anche i silenzi diventano eloquenti, riempiendo lo spazio vuoto del palco con una densità emotiva che cattura e trattiene l’attenzione del pubblico. La trasformazione di Alfredo Beaumont – da uomo mediocre a figura assertiva, ma spietata – è raccontata senza giudizi morali, lasciando che siano gli spettatori a interrogarsi. In questo senso, “Migliore” non è solo una storia personale, ma un’analisi sottile delle dinamiche di potere e delle relazioni sociali nella contemporaneità. Alfredo si eleva, ma a quale costo? La sua ascesa è accompagnata da una progressiva perdita di empatia, un tema che Torre tratteggia con grande lucidità. Il successo dello spettacolo è palpabile. La platea, colma e partecipe, reagisce con risate amare e applausi calorosi, testimonianza del potere che il teatro ha di stimolare non solo l’intrattenimento, ma anche una riflessione profonda. Ogni risata, ogni applauso sembrano quasi una conferma della connessione emotiva che si stabilisce tra il palco e il pubblico . Fuori dal teatro, il brusio del pubblico è pervaso da interrogativi che resteranno aperti ben oltre la fine della rappresentazione. Alla fine, “Migliore” è come Alfredo: complesso, ambiguo e tutt’altro che consolatorio. Non offre facili risposte, ma lascia che lo spettatore costruisca le proprie conclusioni. E mentre si esce dal teatro, con il freddo della notte romana che riporta alla realtà, non resta che domandarsi: in una società che premia i vincenti, c’è ancora spazio per chi non vuole essere migliore a tutti i costi? La risposta, forse, è nascosta tra le pieghe di un monologo che, con grande ironia, ci ricorda quanto sia sottile la linea tra successo e solitudine. @Photocredit Arianna Fraccon

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Parenti Terribili”

gbopera - Mar, 14/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
PARENTI TERRIBILI
di Jean Cocteau
traduzione Monica Capuani
con Filippo Dini, Milvia MariglianoMariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli
regia Filippo Dini
scene Maria Spazzi
costumi Katrina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Massimo Cordovani
Teatro Stabile del Veneto Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli Teatro Bellini, Teatro Stabile Bolzano
Roma, 14 gennaio 2025
Nel variegato e tumultuoso proscenio del teatro contemporaneo, emerge con la forza di un arabesco decadente l’ultima impresa di Filippo Dini: Parenti Terribili. Questa rappresentazione, che sembra nascere dall’eco di un capriccio ottocentesco filtrato attraverso le lenti del surrealismo, ci trascina in un vortice teatrale che alterna luci e ombre, grottesco e sublime, in una danza macabra che cattura e irretisce. La trama, ispirata alla celebre opera di Jean Cocteau, si svolge intorno a una famiglia profondamente disfunzionale. Yvonne, madre nevrotica e insulino-dipendente, riversa un amore ossessivo sul figlio Michel, un giovane inconcludente e dominato da insicurezze. La dinamica familiare si complica ulteriormente con la presenza di Georges, marito di Yvonne e padre di Michel, un inventore fallito e inetto, e di Léonie, la sorella nubile di Yvonne, segretamente innamorata di Georges. L’equilibrio già precario viene sconvolto dall’arrivo di Madeleine, una giovane donna amata sia da Georges che da Michel, all’insaputa l’uno dell’altro. Tra tensioni irrisolte, segreti svelati e desideri inconfessabili, la famiglia si avvia verso un tragico epilogo. Questa complessità narrativa, orchestrata con estrema finezza, conferma la capacità di Dini di trasformare una tragedia familiare in un affresco universale. Jean Cocteau, nell’architettura drammatica de I Parenti Terribili, utilizza una struttura teatrale che è al contempo un esercizio di stile e un manifesto delle dinamiche psicologiche familiari. L’opera, intrisa di simbolismo e surrealismo, si distingue per la claustrofobia narrativa: tutta l’azione si sviluppa in spazi chiusi, quasi soffocanti, che rispecchiano il dramma interiore dei personaggi. La scrittura di Cocteau è un intreccio sapiente di dialoghi taglienti e silenzi eloquenti, un contrappunto di ironia e pathos che svela le fragilità umane con chirurgica precisione. La tensione drammatica cresce progressivamente, come una spirale che conduce inevitabilmente al cataclisma emotivo finale. In questo, Cocteau si dimostra maestro nell’uso della doppia natura del teatro: specchio e deformazione della realtà. Filippo Dini, demiurgo e protagonista, non si limita a dirigere: scolpisce la scena con un’intensità febbrile, dando vita a un Georges che è tanto patetico quanto tragico, un uomo che rincorre inutili chimere tecnologiche mentre la sua famiglia, come un Titanic in miniatura, affonda tra segreti inconfessabili e rancori mai sopiti. La sua regia è un’alchimia di tempi e spazi, un mosaico in cui ogni frammento è calibrato con meticolosa attenzione. Ogni gesto, ogni pausa, ogni sguardo sembra dettato da un ritmo interiore che sfiora la perfezione musicale. La coerenza stilistica che permea ogni quadro scenico è una dimostrazione dell’acume registico di Dini. Mariangela Granelli, incarnando Yvonne, è il baricentro emotivo e simbolico della rappresentazione. La sua Yvonne è un prisma umano: madre, amante, vittima e carnefice, un’eroina tragica racchiusa in una stanza claustrofobica. Afflitta dal diabete e da un amore ossessivo per il figlio Michel, Granelli ci offre una performance che è insieme monumentale e intima, una Medea contemporanea che sacrifica tutto sull’altare della sua ossessione. Il suo letto disfatto diventa un altare, un luogo sacro e profano dove si consumano le dinamiche più morbose della tragedia familiare. Granelli dimostra una padronanza scenica che sa tradurre le nevrosi del personaggio in pura arte interpretativa. Milvia Marigliano, nella parte di Léonie, è una presenza magistrale. La sua interpretazione è chirurgica, ogni parola e gesto rivelano una precisione invidiabile. Zia nubile e pragmatica, Léonie è il contrappeso di questa famiglia alla deriva, un personaggio che porta sulle spalle il peso di un amore mai dichiarato per Georges e di una lucidità amara e spietata. Marigliano riesce a tratteggiare con raffinata ironia il ritratto di una donna che nasconde le proprie fragilità sotto un’apparente forza. La scenografia di Maria Spazzi è un trionfo di trasformismo: dalla soffocante stanza di Yvonne, opprimente come un incubo, si passa alla luminosa e fredda modernità dell’appartamento di Madeleine. Il movimento delle pareti mobili diventa metafora del disvelamento, un gioco onirico che amplifica la tensione drammatica. In questo nuovo spazio irrompe Giulia Briata, fresca e luminosa nel ruolo di Madeleine, un personaggio che scuote le fondamenta di questa fragile architettura familiare. L’eleganza minimalista delle scene si sposa perfettamente con l’estetica complessiva dello spettacolo, confermandone il valore visivo. Il finale, orchestrato con sublime ironia da Dini, è un capolavoro di simbolismo tragico. Il corpo di Yvonne, vestito in un candido abito da sposa, diventa emblema e simulacro di un amore che travalica i confini del lecito e del morale. Michel, interpretato con acerba intensità da Cosimo Grilli, si abbandona al delirio, stringendo a sé il corpo della madre in un ultimo, disperato abbraccio. Intanto, Madeleine si sottrae alla follia, lasciando dietro di sé il naufragio di un microcosmo ormai irreparabile. Questo epilogo, denso di pathos e di raffinata teatralità, chiude un’opera che è un esempio cristallino di come il teatro possa ancora interrogare le profondità dell’animo umano. Parenti Terribili di Filippo Dini non è semplicemente uno spettacolo: è una dissezione spietata delle nevrosi umane, un ritratto crudo e impietoso delle ossessioni e delle fragilità che ci definiscono. Il pubblico, catturato dall’intensità di un affresco umano così vivido e spietato, ha espresso la propria ammirazione con scroscianti applausi che hanno avvolto la sala in un abbraccio collettivo. La platea ha tributato numerose chiamate in scena agli interpretati, riconoscendo non solo la straordinaria profondità delle interpretazioni, ma anche l’alchimia rara e preziosa che si è sprigionata sul palco.

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“I Capuleti e i Montecchi” al Teatro Sociale di Como dal 17 al 19 gennaio 2025

gbopera - Mar, 14/01/2025 - 11:47

Ultimo titolo della Stagione d’Opera 2024/25 del Teatro Sociale di Como è “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini, coprodotto dai Teatri di OperaLombardia con Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. Tratto dalla tragedia shakespeariana, il titolo riscosse immediatamente un grande successo e venne programmato nei maggiori teatri italiani, non soffrendo praticamente mai, a differenza di altre opere, di periodi di scarsa programmazione. Composta in poco meno di due mesi, “I Capuleti e i Montecchi” nasce dall’ennesimo incontro tra Vincenzo Bellini e il librettista Felice Romani. Rielaborando un testo nato pochi anni prima per il “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccaj, Bellini riserva la parte di Romeo a una voce di mezzosoprano, ricalcando una tradizione di ruoli en travesti ormai quasi in disuso per l’epoca, ma ancora fortemente presente nei teatri italiani. A vestirne i panni sarà il mezzosoprano bresciano Annalisa Stroppa, assidua frequentatrice del ruolo di Romeo e spesso protagonista dei palcoscenici europei. A interpretare Giulietta sarà invece la voce di Giulia Mazzola, vincitrice del Concorso AsLiCo nelle passate edizioni. A dirigere l’opera ci sarà Sebastiano Rolli, bacchetta da anni presente nei maggiori teatri italiani ed esperto del repertorio belcantistico, avendo ormai già affrontato quasi tutte le maggiori opere belliniane e donizettiane. L’allestimento di questo nuovo spettacolo sarà invece a cura di Andrea De Rosa: assiduo frequentatore del teatro novecentesco, il regista getterà il suo sguardo sulla tragedia shakespeariana da fine interprete non solo di titoli d’opera ma anche di spettacoli in prosa.
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Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Lo stato delle cose: seconda parte” dal 15 al 26 gennaio 2025

gbopera - Mar, 14/01/2025 - 06:00

Roma, Teatro Parioli Costanzo
LO STATO DELLE COSE – Seconda parte
con Massimiliano Bruno
e con Andrea Corallo, Teo Guarini, Manuela Bisanti, Sebastiano Re, Claudio Crisafulli, Francesca Lattanzio, Leila Rusciani, Luca Bray, Ester Gugliotta, Dafne Montalbano, Claudia Genolini, Anna D’Alessio, Leonardo Zarra, Francesco Romano, Marco Landola, Gabriele Bax, Mariachiara Di Mitri, Roberta Pompili, Anna Malvaso, Alessandro Cecchini, Roberto Scorza, Beatrice Valentini, Asja Mascarini, Andrea Venditti, Beatrice Coppolino, Daniele Di Martino, Lorenza Molina, Alessia Ferrero, Ugo Caprarella
regia di Massimiliano Bruno e Sara Baccariniaiuto
regia Sofia Ferrero
assistenti alla regia Arianna Prencipe e Myriam Mazzeo
musiche originali di Roberto Procaccini
scenografia di Alessandro Chiti
costumi di Paola Tosti
Produzione Il Parioli Costanzo
Produzione Esecutiva Enzo Gentile
Torna in scena Lo stato delle cose con la seconda parte del fortunato spettacolo che debuttò nel 2023 al Teatro Il Parioli Costanzo di Roma. In scena Massimiliano Bruno porterà 30 nuove leve del teatro e del cinema italiano. Attrici e attori che affronteranno il palco di un teatro importante di fianco a quello che, per alcuni di loro, è stato insegnante al Laboratorio di arti sceniche. Nella messa in scena del 2025 non ci saranno gli stessi artisti della versione precedente e anche i monologhi e i dialoghi saranno novità scritte appositamente da vari autori e, in alcuni casi, reinterpretazioni di opere già edite di scrittori importanti. Un nuovo spettacolo in tutto e per tutto, quindi, dove si potranno vivere tante storie e passare dalla risata alla commozione in un caleidoscopio di sentimenti ed emozioni contrastanti che caratterizzano i possibili stati d’animo umani. Nello spettacolo si alterneranno due differenti cast e si avrà così la possibilità di conoscere meglio lo stato artistico contemporaneo. Qui per tutte le informazioni.

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