Roma, Teatro Palladium
“LES FLEURS” DI MICHELA LUCENTI/BALLETTO CIVILE
Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita/Spellbound, stagione danza 2025 “In Levare” a cura di Valentina Marini
“LES FLEURS”
Michela Lucenti/Balletto Civile
Regia e coreografia Michela Lucenti
Drammaturgia Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Emanuela Serra
Progetto sonoro Guido Affini
Progetto luci Stefano Mazzanti
Consulenza spazio Alberto Favretto
Aiuto regia Giulio Spattini
Assistenza alla messa in scena Jacopo Squizzato
Interpreti Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi Arena, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra, Francesca Zaccaria
Collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Balletto Civile
Roma, Teatro Palladium, 7 marzo 2025
I fiori hanno da sempre affascinato il mondo della danza. Basti pensare al ‘Valzer dei fiori’ di Pëtr Il’ič Čajkovskij ne Lo Schiaccianoci, alle sontuose ghirlande che abbelliscono la scena ‘Le jardin animé’ in Le Corsaire, allo spettacolo del 1894 Il Risveglio di Flora con la coreografia di Marius Petipa, nonché al tardosettecentesco Flore et Zéphire di Charles Louis Didelot. Ai giardini delle residenze imperiali pietroburghesi pare si siano ispirati Vsevoložskij e Petipa nella creazione de La bella addormentata dove del resto a figurare tra i protagonisti della produzione era la famosa Fata dei lillà. Sono tali fiori non solo un elegante decoro, ma i simboli dell’aspirazione verso un mondo di bellezza ideale, ricercata con grande esaltazione nel mondo del balletto in quanto non possibile nel mondo reale. Di ideale parlava anche la prima sezione della raccolta di liriche Les fleurs du mal pubblicata nel 1857 da Charles Baudelaire, che intendeva avvalersi della poesia per estrarre la bellezza dal male. Nell’aspirare ad un mondo talmente surreale, qui il poeta si scontrava con una profonda angoscia esistenziale. Quanto più cercava di elevarsi verso il bello, maggiori diventavano gli scherni che tarpavano le ali della sua sensibilità. Ciò non impediva a Baudelaire di rivolgere lo sguardo alla terra, ed in particolare al mondo della città, dove si rinnegava la divinità per dedicarsi ai piaceri carnali ed a effimere consolazioni. È questo il tema che attrae ai nostri giorni Michela Lucenti, erede della danza teatrale di Pina Bausch. La compagnia da lei fondata nel 2003 porta il nome impegnativo di Balletto Civile, pur sostanziandosi di una forte contemporaneità. Il termine balletto è per lei sintomo di una significazione danzata che prende vita grazie al lavoro di danzatori lucidi, attenti a quello che avviene nel mondo che li circonda. Il lavoro teatrale è per lei un equilibrio vertiginoso tra diversi generi e linguaggi, al cui centro è sempre il corpo del performer. Se per aprirsi al mondo dell’immaginazione è necessario svuotarsi di tanti piani esteriori, della presenza fisica non ci si può sbarazzare. Occorre dunque darle un senso che attraversa il tempo e lo spazio, che penetra l’anima degli spettatori o li colpisce con un pugno nello stomaco. Di lavori ispirati alla letteratura ne ha già realizzati molti come Il Maestro e Margherita nel 2017, o come gli spettacoli di ascendenza shakespeariana Killing Desdemona (2016), Before Break (da La Tempesta, 2016) e L’amore segreto di Ofelia. Baudelaire non le fa paura, anzi le offre la possibilità di cimentarsi con un mondo di antieroi, di creature ai margini che chiedono riscatto, di corpi imperfetti e fragili. In crisi è lo stesso personaggio chiamato a rappresentare Baudelaire, di cui restano salde solo le iniziali in legno poste a terra. Su una lavagna vengono scritte le parole chiave cui sono ispirati i quadri di cui è costituito lo spettacolo. Oltre al tema del poeta, si tratta qui della bellezza, del tempo, dell’esilio, della rivolta, della ferita, della città, nonché naturalmente della poesia stessa. Nell’ambiente musicale creato da Guido Affini risuonano impattanti parole che contrappongono il mondo della felicità e della luce di un sole accecante ad una valanga di morte. Scarni ed essenziali gli oggetti scenici. Centrali i gesti dei performers, che nella loro fisicità teatrale incisiva chiedono una cosa sola: «Lasciateci fiorire». Foto Margherita Caprilli
Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Robert Treviño
Soprano Justina Gringyte
Luciano Berio: “Folk Songs” (1973); Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.4 in do minore, op.43
Torino, 13 marzo 2025.
1973 è la data dei Folk songs di Luciano Berio e nel 1961 Dmitrij Šostakovič, rimette insieme, ricostruendola dalle parti per orchestra, la sua Sinfonia n4 visto che la partitura originale manoscritta, del 1936, gli era stata persa. Le due opere risultano quindi non così lontane nel tempo e neppure nelle intenzioni. Ambedue trovano una ragione nel gesto musicale in sé, ovvero: nel suono per il suono. Berio fa un bouquet di canti popolari, mescolando strumenti e idiomi per un effetto complessivo magnificamente estetico che non racconta nulla, non esprime nulla, filtrato com’è da un egocentrico intellettualismo assolutamente né pop né folk. Questa bellezza in sé si rivelò essere, in allora, strettamente funzionale ad esaltare l’iperbolica vocalità di Cathy Berberian, dall’estensione formidabile, arricchita, in sovrappiù, da un funambolico virtuosismo. L’attacco delle due viole coi due violoncelli a seguire, nella prima canzone, non è che un preludio che sostiene il velluto vocale della mitica Cathy. Il bello che si giustifica col piacere del suono. È vano cercarvi altro. Il soprano lettone Justina Gringyte, moglie di Treviño, con voce, nelle note basse, assai poitrinée, ce la mette tutta per reggere il difficile confronto con il ricordo della grande Cathy e, fortunatamente, non soccombe. Robert Treviño l’accompagna con amorevole distacco, badando a curare al meglio il ricercato suono cameristico della splendida Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI che, seppur ripiegata su un volume ridotto, si espande in uno smagliante e variegato tripudio timbrico. Il pubblico, a ranghi ridottissimi, ha, questa volta con molta regione, applaudito cantante e orchestra. Forse è tempo che anche le sale da concerto si dotino di schermi per sottotitoli: si fornirebbero così, ad un pubblico non sempre avvertito, alcuni aiuti ad una maggior consapevolezza d’ascolto. Ad esempio, i testi di quanto viene cantato e la segnalazione dei punti cruciali dell’esecuzione, quali le indicazioni di tempo e di movimento, come la numerazione di eventuali variazioni, che il troppo buio della sala impedisce di cogliere dalla lettura del programma. Nel nostro caso poi, i testi dei folk songs assenti e la prescrizione dello spartito che impone l’attacca subito senza pause, lasciavano il pubblico ignaro, senza alcun punto di riferimento. I burocrati staliniani, dando seguito ad una smorfia di disgusto dell’acciaioso despota nel corso della Lady Macbeth, si impegnarono con tutti i mezzi ad accusare il povero Dmitrij di “formalismo”, spaventandolo a morte e con lui ne sortirono terrorizzati anche gli esecutori della sua musica. Si era, a Leningrado, nel 1936 e le Prove della 4° sinfonia, ormai in corso, furono perentoriamente interrotte. Ci fu un fuggi-fuggi generale e qualcuno si adopererò per smarrire l’autografo della sinfonia. I burocrati, pur moralmente deprecabili, nella valutazione effettiva del lavoro ci avevano preso. Se per “formalismo” s’intende una musica che si esaurisce, seppur magnificamente, in sé stessa; una forma che non ha agganci con la realtà e col popolo, questa sinfonia ha effettivamente solo suono, puro ed assoluto. Per quanto in molti ci abbiano provato, nessuno è riuscito a costruirci sopra una trama e una drammaturgia coerente con quanto espongono le note e i suoni. Né in questo affanno c’è stato, da parte dell’autore, un pur minimo soccorso con scritti e con parole. L’opera si pone come un avventuroso universo sonoro che si evolve inesorabilmente su se stesso. Come dalla materia dispersa dal big-bang si agglomerarono, grazie alla gravità, diverse strutture singolari e misteriosamente interdipendenti, così, dal caos musicale europeo di fine Ottocento e dalla sua confusa ristrutturazione tonale, Šostakovič fa coagulare i grumi della sua nuova costruzione. Bruckner, Strauss, Mahler, i musicisti della seconda scuola di Vienna, i russi suoi contemporanei e chissà quanti altri contribuirono a fornire spunti per il nuovo percorso iniziato da Šostakovič. Avrebbe potuto portare, senza lo stop imposto dal populismo di regime, a una strana e personale adesione all’opinione di Stravinskij che la musica si giustifichi solo con la musica e che questa si esprima solo con la strutturazione del suono. Se questo fosse stato l’intento, rimase congelato fino al 1961, quando però il mondo della musica e la realtà sovietica erano ormai definitivamente cambiate. La guerra, la vittoria, le stragi e, non ultime, le vicende personali avevano ormai, e con forza irresistibile, provveduto a soppiantare il “formalismo” e l’autosufficienza con contenuti e trame sempre più ineludibili. Il texano Treviño, esente da questi affanni tipicamente europei, gran maestro della bacchetta e provetto conduttore di masse orchestrali, può riallacciarsi all’impostazione originaria e, a tutta forza, riaffermare la primaria importanza di forma e suono. Si trapassa, con naturalezza e assoluto controllo, dai fortissimi assordanti che impegnano più di cento orchestrali, ai pianissimi, quasi inudibili, di consistenza cameristica. Il suono si mantiene sempre pieno e chiaro, i timbri con inesauribile cura vengono esaltati e sovraesposti. L’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, grazie a una flessibilità pronta e formidabile, si auto promuove come più strepitosamente non si potrebbe. Tutte le prime parti, ma pure le seconde e le terze (vedi ottoni e legni) sarebbero da citare singolarmente se non si scadesse, visto lo spazio, ad una sterile elencazione. Giustamente, a concerto concluso, Treviño associa, con una lunga sfilata di ringraziamenti, agli applausi a lui indirizzati, tutte le singole prime parti, le file e i ranghi. Si ripete venerdì 14 e si può trovare il live streaming video su raicultura.it.
Roma, Teatro Vascello
BEHIND THE LIGHT
coreografia, drammaturgia e interpretazione Cristiana Morganti
regia Cristiana Morganti e Gloria Paris
disegno luci Laurent P. Berger
creazione video Connie Prantera
datore luci Matteo Mattioli
audio/video Giovanni Ghezzi
una produzione Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale in coproduzione con Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Théâtre de la Ville – Paris, MA scène nationale-Pays de Montbéliard e con il sostegno di Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento
distribuzione per l’Italia Roberta Righi
international management Aldo Grompone
Gemo in un pianto e fremo
Fosco mi sembra il giorno
Ho cento affanni intorno
Ho mille furie in sen
Pietro Metastasio, L’Olimpiade, musica di Antonio Vivaldi
Dopo il successo di Moving with Pina e Jessica and Me tutt’ora in tour, e dopo aver firmato altri quattro spettacoli come autrice e coreografa (A Fury Tale del 2016, Non sapevano dove lasciarmi del 2017, Another Round for Five del 2019 e Young Birds del 2023) e dopo il Trio In Another Place creato nel 2021 in collaborazione con il danzatore Kenji Takagi e la violoncellista Emily Wittbrodt , ecco un nuovo assolo dell’artista italiana di base a Wuppertal, che fin dalle prime battute conferma e rilancia, alla luce di una nuova maturità interiore, la grande ironia alternata a momenti di intensa poesia che sono la sua cifra distintiva. Spettacolo fortemente autobiografico, che racconta di una crisi familiare, professionale e intima, una sequela di eventi con il tipico “effetto domino”, in cui una disgrazia pare chiamarne un’altra, in cui sembra venga meno ogni singolo punto di riferimento, ogni certezza. La vicenda personale risuona con intensità in chi guarda, dalla platea, in un momento storico che, una crisi economica e di valori, si può definire fra i più destabilizzanti della contemporaneità. Questa “personale crisi globale” viene mostrata, presa in giro, aggirata, attraversata, evasa, superata grazie al potere rigenerativo della confessione e soprattutto dell’arte, ora urlata, ora sussurrata tra le lacrime, con il capo adagiato sul pavimento. Scorre un montaggio di quadri, che vede la protagonista recitare, danzare, cantare su una scena bianca e sospesa in cui irrompono, per dialogare con l’interprete, gli originali e raffinati video di Connie Prantera. È una danza che fa venire voglia di danzare quella di Cristiana Morganti, complice l’esplosione di energia che fa seguito alla catarsi di questa confessione aperta, sincera, sofferente ma di un dolore mai autocompiaciuto, anzi immediatamente lenito dalla risata, anche di sé, con il pubblico. Accompagnati da un collage musicale che spazia da Vivaldi al punk-rock di Peaches, da Giselle, di Adolphe Adam alla musica elettronica di Ryoji Ikeda, si alternano momenti di danza e di parola, come l’irresistibile sfogo sui divieti stilistici che imbrigliano chi è cresciuto sotto la direzione di uno dei più grandi nomi della danza di sempre, Pina Bausch. Oppure il tentativo ripetuto, e inevitabilmente sempre fallito, di spiegare lo spettacolo a chi guarda, così che poi “ci si possa rilassare”. Numerose altre piccole, deliziose storie conducono a un finale che è un delicato ritorno all’interiorità. Lo spettacolo non va spiegato, sembra dire Cristiana Morganti, meglio godersi il viaggio, esattamente come nella vita. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Sala Umberto
A MIRROR
di Sam Holcroft
con Ninni Bruschetta, Claudio ‘Greg’ Gregori, Fabrizio Colica, Paola Michelini, Gianluca Musiu
Scene Alessandro Chiti
Costumi Giulia Pagliarulo
Musiche Mario Incudine
Disegno Luci Sofia Xella
Aiuto regia Giuditta Vasile
per gentile concessione dell’Agenzia Danesi Tolnay
Una coproduzione Altra Scena
Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale
Regia di Giancarlo Nicoletti
Con un meccanismo geniale, esilarante e imprevedibile di teatro-nel-teatro-nel-teatro – a metà fra Pirandello e Rumorifuoriscena – “Spettacolo falso e non autorizzato (A Mirror)” arriva in Italia, dopo l’enorme successo inglese, con un cast e un adattamento sorprendenti. Affrontando temi come la libertà di parola, l’autoritarismo e la censura, è un elettrizzante thriller dark ad alto tasso di ironia e adrenalina, in cui nulla è come sembra e che chiede al pubblico di essere continuamente parte attiva della messinscena. Siete tutti invitati al matrimonio di Nina e Leo, nell’elegante sala eventi di uno stato totalitario in cui le opere teatrali e cinematografiche devono passare il vaglio della censura del Ministero. La cerimonia, però, è solo una copertura, per cui siate pronti a essere testimoni e complici di una performance clandestina e non autorizzata. Dove stia la verità è continuamente in discussione, i ruoli sono pronti a capovolgersi e le forze dell’ordine attendono in agguato, riducendo sempre più ogni distanza fra il dietro le quinte e il palcoscenico. Ce la farà il gruppo di attori ribelli a portare lo spettacolo fino alla fine, evitando di fare arrestare anche il pubblico per questo gesto di insubordinazione? Protagonisti del falso matrimonio e pronti ad accogliervi in teatro, una variegata compagnia di amatissimi attori “ribelli”: Ninni Bruschetta, Claudio “Greg” Gregori, Fabrizio Colica, Paola Michelini e Gianluca Musiu. La regia e l’adattamento italiano sono di Giancarlo Nicoletti, le scene di Alessandro Chiti, le musiche originali di Mario Incudine, i costumi di Giulia Pagliarulo, il disegno luci di Sofia Xella e la produzione è firmata da Altra Scena e Viola Produzioni. Qui per tutte le informazioni.
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791): Sonata in F KV 497; Andante and Variations in G KV 501; Fantasia in F minor for mechanical organ KV 594; Fantasia in F minor for mechanical organ KV 608; Sonata in G KV 357. Marco Schiavo (pianoforte). Sergio Marchegiani (pianoforte). Registrazione: 8-10 febbraio, 2023 presso la Wiener Saal at the Mozarteum, Salzburg. T. Time: 80′ 1CD Decca 4851327
Produzione destinata ai nobili dilettanti che amavano suonare sia il più “moderno” per l’epoca pianoforte che il clavicembalo, indicato quest’ultimo nel frontespizio della Grande sonata in fa maggiore K. 497, composta nel 1786, quella a quattro mani costituisce, comunque, una parte interessante all’interno dell’opera di Mozart, che, in un certo qual modo, come spesso fece nella sua carriera di compositore, “trasgredì” a quelle regole non scritte secondo le quali questo repertorio avrebbe dovuto rispondere a criteri di semplicità compositiva. In effetti, se l’irrealistica indicazione del clavicembalo, uno strumento che, all’epoca di Mozart, incominciava ad essere desueto, sembra corrispondere all’intenzione dell’editore di allargare la sua clientela, l’aggettivo “grande” mostra, invece, la volontà del compositore di scrivere un lavoro artisticamente di un certo livello. In effetti si tratta di un sonata estremamente impegnativa, il cui primo movimento si apre con un Adagio introduttivo di 29 battute piuttosto lungo, già per una sinfonia dell’epoca alla quale essa si accosta. In questo CD la Sonata è, però, accompagnata da pagine impegnative come l’Andante e 5 variazioni K. 501 e la Sonata in G KV 357, risalenti entrambi al 1786, nel quale la scrittura ammicca in modo molto più smaccato a un pubblico di esecutori dilettanti. Al 1791 risalgono, invece, le due Fantasie per organo meccanico K. 594 e K. 608, due pagine di intensa drammaticità qui presentate in una versione per pianoforte a 4 mani circolante già all’epoca di Mozart. Queste pagine sono egregiamente eseguite da Marco Schiavo e Sergio Marchegiani che riescono a rendere molto bene i valori espressivi di questi pezzi e mostrano un affiatamento tale da dare l’impressione di essere di fronte a un unico interprete anche nei brevi passi in imitazione tra il primo e il secondo che contraddistinguono la terza variazione.
Roma, Teatro Brancaccio
PROVA A PRENDERMI
basato sul film Dreamworks
libretto di Terrence McNally
musiche di Marc Shaiman
liriche di Scott Wittman & Marc Shaiman
con Claudio Castrogiovanni e Tommaso Cassissa
e con Simone Montedoro
regia di Piero Di Blasio
coreografie di Rita Pivano
scenografie di Lele Moreschi
costumi di Francesca Grossi
luci di Emanuele Agliati
produzione di Alessandro Longobardi per VIOLA PRODUZIONI – Centro di Produzione Teatrale
Dai Produttori di Aggiungi un Posto a Tavola e Rapunzel il musical arriva per la prima volta in Italia, PROVA A PRENDERMI IL MUSICAL, tratto dal film cult con Leonardo Di Caprio e Tom Hanks, con orchestra dal vivo. Il film PROVA A PRENDERMI del 2002 è stato campione di incassi superando i 350 milioni di dollari in tutto il mondo. Ha riunito star di primordine come Leonardo Di Caprio, Tom Hanks e Christopher Walken. Ha raccontato la storia vera di Frank Abagnale Junior e di come, negli anni ’60, riuscì a imbrogliare l’America (banche, compagnie aeree, ospedali, alberghi…) per crearsi il proprio sogno americano. Sotto la guida della vorticosa regia di Steven Spielberg, PROVA A PRENDERMI (Catch me if you can) ha stupito il mondo. Nel 2012, dopo quasi 10 anni e alcune preview, la storia di Frank Abagnale Junior approda a Broadway con Aaron Tveit, Norbert Leo Butz e Tom Wopat.
Il racconto del giovane truffatore, arrestato dall’Agente dell’FBI (e poi amico) Carl Hanratty, è stato preso e adattato per il teatro grazie alla maestria dei più illustri compositori e scrittori americani: Terence McNally (The Full Monty, Anastasia, Kiss of the Spider Woman e tanti altri) al libretto e Marc Shaiman e Scott Wittman (candidati agli Oscar e vincitori di Tony Awards, Grammy, Olvier Awards per Hairspray, Smash, Il Ritorno di Mary Poppins e tantissimi altri) per testi e musiche. Dopo repliche in tutto il mondo finalmente, per la prima volta, arriva nei teatri italiani! Alessandro Longobardi, per Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale, è lieto di annunciare questa anteprima assoluta per l’Italia, in accordo con Music Theatre International. A dare voce e corpo ai divi del grande schermo, ci saranno CLAUDIO CASTROGIOVANNI che interpreterà Carl Hanratty (ruolo che fu al cinema di Tom Hanks), TOMMASO CASSISSA nel camaleontico ruolo di Frank Abagnale Junior (interpretato da Leonardo Di Caprio) e SIMONE MONTEDORO sarà il padre Frank Abagnale Senior (ruolo cesellato dal premio Oscar Christopher Walken). Claudio Castrogiovanni torna al musical, suo primo grande amore, senza mai abbandonare il cinema e le serie televisive tanto amate come Il capo dei capi, Vanina, La Squadra, Il giovane Montalbano, Il silenzio dell’Acqua, Un medico in famiglia e tantissimi altri. Per Tommaso Cassissa, invece, è un debutto assoluto nel mondo del musical. La giovane star dei social (solo su TikTok, con il nome di @tommycassi, ha superato i 2 milioni e mezzo di follower!) non è stata certo ferma in questi anni tra cinema, libri e televisione, fino alla sua ultima partecipazione al programma cult LOL 5. Anche per SIMONE MONTEDORO siamo al debutto assoluto in un musical. Volto storico della tv italiana (per quasi dieci anni è stato il commissario Tommasi in una delle serie più amate della Rai “Don Matteo”) con incursioni anche nel mondo della danza (semifinalista di Ballando Con Le Stelle) e del canto (Tale e Quale show con Carlo Conti), ha dimostrato di sapersi muovere con grande abilità in tutte le sfaccettature del suo mestiere, dal teatro, che ha segnato l’inizio della sua carriera, al cinema, alla tv. L’adattamento e la regia dello spettacolo sono stati affidati a Piero Di Blasio (Tutti Parlano di Jamie, La piccola Bottega degli Orrori e tanti altri); Rita Pivano (Rapunzel, Sister Act, Peter Pan, La regina di ghiaccio e tanti altri) curerà le coreografie sulle musiche originali dei favolosi anni ’60 americani suonate dal vivo. La direzione musicale è nelle abili mani di un veterano del musical in Italia, il maestro Angelo Racz (Kinky Boots, Hairspray, Spamalot, La febbre del sabato sera e tanti altri) che dirigerà dal vivo una splendida orchestra jazz/swing. Francesca Grossi (Rapunzel il musical, Aggiungi un posto a tavola, Tutti Parlano di Jamie il musical, La regina di Ghiaccio il musical) disegna i meravigliosi costumi realizzati dalla sartoria Brancaccio. Le scenografie sono firmate da Gabriele Moreschi (Aggiungi un posto a tavola, Sister Act il musical, E… se il tempo fosse un gambero, Grease e tanti altri). Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
SIOR TODERO BRONTOLON
di Carlo Goldoni
drammaturgia Piermario Vescovo
Con Franco Branciaroli
e con Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin, Maria Grazia Plos, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Valentina Violo, Emanuele Fortunati, Andrea Germani, Roberta Colacino
in collaborazione con i Piccoli di Podrecca
scene Marta Crisolini Malatesta
costumi Stefano Nicolao
musiche Antonio Di Pofi
luci Gigi Saccomandi
movimenti di scena Monica Codena
regia Paolo Valerio
Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de gli Incamminati, Centro Teatrale Bresciano
«Quale maggior disgrazia per un uomo, che rendersi l’odio del pubblico, il flagello della famiglia, il ridicolo della servitù? Eppure non è il mio Todero un carattere immaginario. Purtroppo vi sono al mondo di quelli che lo somigliano; e in tempo che rappresentavasi questa commedia, intesi nominare più e più originali, dai quali credevano ch’io lo avessi copiato». Anche oggi non è raro incappare in un “brontolòn” come il Todero di Carlo Goldoni che precedeva la commedia racchiudendo queste riflessioni ne “L’autore a chi legge” e si stupiva di come un lavoro incentrato su un personaggio tanto odioso e negativo potesse aver ricevuto dal pubblico un tale successo. “Sior Todero Brontolòn” scritta nel 1761 e presentata al Teatro San Luca di Venezia l’anno successivo, fu infatti accolta con molto calore, ripresa per 10 repliche a gennaio e poi nuovamente a febbraio, a ottobre… Sior Todero risponde – come carattere – al modello dei rusteghi, ma dei quattro burberi veneziani perde qualsiasi accento bonario. La trama lo vuole avaro, imperioso, irritante con la servitù, opprimente con il figlio e la nipote, diffidente e permaloso verso il mondo. Sembrerebbe impossibile empatizzare con una simile figura. Eppure il capolavoro di Goldoni – e la figura di Todero, scritta in modo magistrale – sono stati molto ambiti dai teatri e dai più grandi attori, da Cesco Baseggio, a Giulio Bosetti, a Gastone Moschin. Ora questo indifendibile “brontolòn” attira un maestro del palcoscenico contemporaneo come Franco Branciaroli, che – diretto da Paolo Valerio – ne offrirà una nuova straordinaria e inaspettata interpretazione. Dopo l’originale e dissacrante interpretazione di Shylock nel “Mercante di Venezia” shakespeariano, Paolo Valerio e Franco Branciaroli si apprestano a stupire il pubblico con la rilettura di un classico del teatro italiano, che molto ancora può suggerire alla sensibilità contemporanea. Basti pensare – a fronte di una figura di protagonista tanto imponente e attrattiva – al ruolo sottile e risolutivo che Goldoni affida, nella commedia, al mondo femminile, l’unico che nello sviluppo drammaturgico appare pienamente positivo: sarà l’alleanza fra la coraggiosa nuora del vecchio avaro e l’intelligente vedova Fortunata a salvare la giovane Zanetta da un matrimonio impostole per mero interesse e foriero di infelicità. Sarà riconsegnata all’amore generoso e vero in un finale che – in tempi in cui il concetto di “patriarcato” domina le nostre cronache nelle sue accezioni più distorte e plumbee – intreccia in prospettiva, alla gioiosità della risoluzione, una venatura di turbamento. Qui per tutte le informazioni.
“Durchlauchtster Leopold” BWV 173a è una cantata profana per il compleanno per il principe Leopoldo di Anhalt-Köthen. Una composizione relativamente poco impegnativa, che ha portato alcuni a sospettare che sia stata composta piuttosto rapidamente già nel 1717, ma un esame più attento della partitura autografa indica che è stata ovviamente scritta qualche anno dopo, intorno al 1722. Su libretto di Anonimo, questa Cantata evidenzia la relativa irrilevanza che viene data ai recitativi (ne troviamo solo 2) La strumentazione prevede archi e continuo con l’aggiunta di flauti traversi e fagotto. L’utilizzo di due voci solistiche (possiamo anche supporre che il Coro fosse realmente cantato da questi due solisti). Forse Bach considerava un aspetto allegorico. Si può immaginare la parte del soprano sia sorta di dea protettrice, una personificazione della fama o della poesia; La prima aria con “da capo” (nr. 2) ricorda un movimento di danza, poiché ha un ritornello introduttivo chiaramente diviso in due ritmi. Il carattere estremamente accattivante della melodia, interrotto da pause e dominato da ritmi di terzine, nonché la delicata strumentazione confermano la bellezza di questa pagina. Particolarmente breve è il nr 3, che Bach ha intenzionalmente evitato di chiamare “aria”. Il tempo “vivace” e l’irrequietezza degli archi di accompagnamento caratterizzano l’entusiasmo con cui si sta diffondendo la fama di Leopold. Il duetto (Nr. 4), contrassegnato “Al tempo di minuetto”, è una delle arie più originali di Bach Il recitativo del duetto (nr. 5), assume la forma di un arioso, nel corso del quale i sospiri riverenti che salgono al cielo sono resi pittoricamente nella musica da figure di scale. L’aria nr.. 6 del soprano ha ancora un carattere di danza (“bourrée”)come nelle arie precedenti. Nell’aria nr. 7, al fianco della voce del basso, con il “Continuo” costituito da violone e clavicembalo, spiccano il fagotto e il violoncello che suonano all’unisono. Un tempo di “polonaise” , un altro movimento di danza chiude la Cantata.
Nr.1 – Recitativo (Soprano)
Serenissimo Leopoldo,
il mondo di Anhalt con gioia di celebrare,
la tua Köthen si presenta a te,
si inchina davanti a te,
Serenissimo Leopoldo!
Nr.2 – Aria (Soprano)
Il sole e il cielo sereno,
si sono nuovamente riunite
e diffondono la sua gloria!
Nr.3 – Arioso (Basso)
Quello che eccelle in Leopoldo
è celebrato ogni momento;
la bocca e il cuore,
l’orecchio e l’occhio cantano e con ragione
la sua fortuna.
Nr.4 – Aria/Duetto (Basso, Soprano)
Basso
Sotto il suo stemma di porpora
dopo la sofferenza ora c’è la gioia,
Egli elargisce a tutti ampio spazio
per godere dei doni di grazia
che scorrono come ricchi fiumi.
Soprano
Con paternità nutre e scongiura le sofferenze;
ora è viva la speranza che lui riporti
la terra di Anhalts a vivere nella felicità.
Soprano, Basso
Ma non ci lasceremo sfuggire
il dovere di pensare a questa gioia,
oggi che la luce del cielo rende felici
i suoi servi e gioisce del suo scettro.
Nr.5 – Recitativo (Soprano, Basso)
Illustrissimo, che Anhalt chiama padre,
porteremo allora i nostri cuori anche al sacrificio;
dal nostro petto, che arde di devozione,
con il nostro fervore che sale al cielo,
Nr.6 – Aria (Soprano)
Guardate dunque la luce
di questo bel giorno e per molti
altri a venire,
e come ora ci accompagna
il benessere e la felicità,
la luce che darà la forza
anche quando ritornerà il dolore.
Nr.7 – Aria (Basso)
Il tuo nome è vicino al Sole,
circondato dalle stelle!
Leopoldo farà risplendere le terre di Anhalt
di gloria principesca.
Nr.8 – Coro/ Duetto (Soprano, Basso)
Anche noi ti onoriamo, grande principe,
per quello che ci elargisci;
sia felice corso della corso di vita,
che sia una benedizione sul capo del tuo popolo!
Roma, Museo Storico della Fanteria
FRIDA KAHLO: THROUGH THE LENS OF NICKOLAS MURAY
Curatori: Touring Exhibitions Organization e Museo Frida Kahlo di Città del Messico
Mostra prodotta da: Next Exhibition e ONO arte contemporanea
Fotografo: Nickolas Muray
Roma, 15 marzo 2025
Ci sono volti che sembrano parlare, anche quando tacciono. Volti che conservano un silenzio pieno di storie, come una lettera mai spedita o una finestra socchiusa sul cortile interno di una casa messicana. Frida Kahlo aveva un volto così: severo e gentile al tempo stesso, fragile ma indomito, scavato da un dolore che sembrava riscriverle i lineamenti e allo stesso tempo illuminarli. Guardarla era un po’ come guardarsi dentro. C’è qualcosa di molto umano, di molto prossimo, in quel suo sguardo diritto e limpido, che pare sempre cercare qualcuno. Passeggiando tra le fotografie esposte nella mostra Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray, si ha la sensazione di entrare in un tempo altro, fatto di colori caldi e ombre dolci, di risate smorzate e parole tenute in sospeso. La mostra, che si terrà a Roma, al Museo Storico della Fanteria, dal 15 marzo al 20 luglio 2025, raccoglie sessanta fotografie che raccontano il rapporto tra due persone che si sono volute bene. Prima che il mito di Frida si gonfiasse fino a diventare un’immagine onnipresente, c’era la donna. E davanti a quella donna, con una macchina fotografica tra le mani, c’era Nickolas Muray. Era arrivato a New York con pochi soldi in tasca e un sogno ostinato: diventare qualcuno. E forse non sapeva nemmeno bene cosa volesse dire “diventare qualcuno”. Nato in Ungheria, a Seghedino, nel 1892, Muray era un uomo di determinazione e passione. Lavorò come incisore, fu anche schermidore olimpionico, ma la sua strada era la fotografia. Sapeva guardare, prima ancora di saper scattare. E questa, credo, sia la qualità che fa la differenza. Ci sono persone che sanno vedere. Non solo guardare, ma vedere. E lui vide Frida, in un giorno del 1931, nella casa azzurra di Coyoacán, e non smise più di vederla, anche quando la loro storia d’amore finì. La storia fra loro cominciò piano, come accade con le cose che restano a lungo. Si conobbero grazie a un amico comune, Miguel Covarrubias, artista e intellettuale che li mise in contatto. Frida all’epoca era la giovane moglie di Diego Rivera, ancora poco conosciuta fuori dal Messico. Nick, che già collaborava con Harper’s Bazaar e Vanity Fair, vide qualcosa in lei che andava oltre l’apparenza. Una bellezza non convenzionale, certo, ma anche una forza che sembrava provenire da un altro tempo. Frida gli scrisse una lettera subito dopo il loro incontro, con parole dolcissime: “Nick, I love you like I would love an angel.” E in quelle parole si coglie una fame d’amore che commuove. Era una donna che aveva sofferto molto, eppure sapeva ancora desiderare con la semplicità di una ragazza. Nick e Frida si amarono per dieci anni. Si scrissero lettere, si cercarono tra Messico e Stati Uniti. Ma più che raccontare la cronaca di un amore, queste fotografie parlano della comprensione reciproca tra due persone che si sono accolte per quello che erano. Non c’è forzatura nelle immagini che Muray scattò a Frida tra il 1937 e il 1946. Sono fotografie piene di silenzio, di confidenza. Frida è vestita con i suoi abiti tradizionali tehuana, i capelli raccolti in corone fiorite, i gioielli pesanti di corallo e d’argento. È consapevole di essere osservata, ma non è intimidita. È come se dicesse: “Sì, questo sono io. Guarda pure.” E lui la guarda con rispetto, senza mai tradire l’intimità che la lega a lui. Muray fu un pioniere della fotografia a colori. In quegli anni, pochi si avventuravano nel campo del colore con la sicurezza che ebbe lui. Eppure, guardando queste fotografie, si capisce quanto il colore fosse necessario per raccontare Frida. I rossi accesi delle sue gonne, i verdi profondi dei muri alle sue spalle, il blu del cielo che si intravede dietro di lei—tutto parla di vita, nonostante il dolore. Frida aveva un rapporto intenso con il proprio corpo, che era stato segnato dall’incidente subito da ragazza e dalle continue operazioni. Eppure, sapeva ornarsi, trasformare la sofferenza in qualcosa di forte e bello. Nickolas Muray colse questo aspetto senza mai scivolare nel pietismo. Non c’è compassione nei suoi scatti. C’è ammirazione. Molte di queste fotografie sono oggi considerate iconiche. Rappresentano Frida Kahlo come la conosciamo: una figura che si staglia fiera contro fondali vibranti di colore, con uno sguardo serio e pieno di consapevolezza. Eppure, dietro quell’immagine diventata popolare, si avverte ancora una donna reale. Muray ci ha regalato un ritratto in cui l’intimità e la dignità si fondono. Guardando questi scatti, si ha la sensazione di avvicinarsi a Frida non come simbolo, ma come persona. Certo, Frida Kahlo era già un’artista consapevole del proprio potere iconico. Nei suoi autoritratti si mise in scena come un’araldica, cucendo nella sua immagine elementi della tradizione messicana, della sofferenza fisica e dell’identità femminile. Ma nelle fotografie di Muray c’è qualcosa di diverso. Non è lei a scegliere come mostrarsi: è lui a guardarla e a restituire quello che vede. Non c’è manipolazione, non c’è posa forzata. C’è una donna che si lascia vedere da un uomo che ha saputo amarla e rispettarla. Alla fine della mostra, si esce con una sensazione dolceamara. Le immagini sono ferme, non possono cambiare, eppure raccontano un tempo in cui tutto era in divenire. Frida Kahlo sarebbe diventata un’icona globale; Muray avrebbe continuato a fotografare altri volti, altre storie. Eppure, in quelle fotografie, si conserva un tempo sospeso, in cui due persone si sono trovate e riconosciute. A me piace pensare che le fotografie siano un modo per trattenere le persone, per dire loro: “Rimani ancora un po’”. Nickolas Muray, con la sua Leica e la sua Rolleiflex, ha fermato Frida Kahlo nel tempo, ma non l’ha mai imprigionata. Ha permesso che continuasse a guardarci, così come guardava lui. Con lo stesso sguardo diretto, fiero e umano.
Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025 del Teatro La Fenice
“IL TRIONFO DELL’ONORE”
Commedia posta in musica in tre atti Libretto di Francesco Antonio Tullio
Musica di Alessandro Scarlatti
Revisione del manoscritto originale a cura di Aaron Carpenè
Riccardo Albenori GIULIA BOLCATO
Leonora Dorini ROSA BOVE
Erminio Dorini RAFFAELE PE
Doralice Rossetti FRANCESCA LOMBARDI MAZZULLI
Flaminio Castravacca DAVE MONACO
Cornelia Buffacci LUCA CERVONI
Rosina Caruccia GIUSEPPINA BRIDELLI
Capitano Rodimarte Bombarda TOMMASO BAREA
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Enrico Onofri
Regia Stefano Vizioli
Scene e costumi Ugo Nespolo
Costumista realizzatore Carlos Tieppo
Light designer Nevio Cavina
Venezia, 11 marzo 2025
Nel trecentesimo anniversario della morte di Alessandro Scarlatti, debutta a Venezia Il trionfo dell’onore, l’unica “commedia posta in musica” dal sommo musicista di Palermo, insigne rappresentante della Scuola napoletana. Gli spettatori, che assistettero alla prima assoluta dell’opera, il 26 novembre del 1718, presso il Teatro dei Fiorentini in Napoli, salutarono con entusiasmo questo capolavoro, che pure li metteva di fronte a tanti aspetti nuovi: l’utilizzo dell’italiano invece del dialetto; la dovizia di pezzi d’insieme anziché la solita ininterrotta successione di arie; la cura nel definire i caratteri e gli affetti; la presenza di personaggi tutt’altro che aristocratici o eroici, che preannunciava l’imminente affermazione sociale della borghesia. Il pregevole libretto confezionato dall’esperto Francesco Antonio Tullio – che prevede otto personaggi, partecipanti a un funambolico gioco di coppie – permise a Scarlatti di spaziare, dimostrando un estroso humor musicale, tra forme e stili diversi, nell’intento di rinnovare il genere buffo e, verosimilmente, fare anche la parodia dell’opera seria con evidente autoironia. La regia di Stefano Vizioli si basa su un giusto equilibrio tra verosimiglianza e fantasia, grazie anche all’accattivante apparato scenico progettato dal pop artist Ugo Nespolo: una scenografia abbastanza tradizionale, che utilizza fondali, quinte, siparietti, ma che sa essere anche originale ed estroversa, basti considerare il suo acceso cromatismo. Vi campeggiano le raffigurazioni – di stampo vagamente naïf – di vari animali: il gufo, la gallina, il pavone, il cigno, le oche, altrettante allusioni ai caratteri dei personaggi. Alla fantasia di Nespolo si devono anche i costumi – colorati ed estrosi –, realizzati da Carlos Tieppo. Libertà e inventiva si sono colte anche nei movimenti scenici talora con risvolti erotici, nel continuo gioco di seduzione che impegna i personaggi. Questi sono suddivisi in quattro coppie (Riccardo e Leonora, Erminio e Doralice, Flaminio e Cornelia, Rodimarte e Rosina), ma alcuni di essi sono sempre pronti al tradimento. Almeno prima dell’improbabile, edificante finalino. Vizioli nella sua messinscena, pone in risalto il legame fra Il trionfo dell’onore e il mozartiano Don Giovanni. Nell’opera di Scarlatti, il “dissoluto” è Riccardo, privo però dell’alone satanico che circonda l’eroe mozartiano. Ma ci sono altre analogie – secondo il regista napoletano – rispetto al capolavoro di Mozart e Da Ponte: Leonora, sedotta e abbandonata da Riccardo, è una specie di donna Elvira, il fratello di lei Erminio un don Ottavio, tutto legalità e senso della giustizia, il fanfarone capitano Rodimarte, che accompagna Riccardo nelle sue avventure, somiglia a Leporello. Vizioli riesce a evidenziare la psicologia dei personaggi “seri” (Riccardo, Leonora, Erminio) così come rende irresistibili le figure stereotipate: oltre a Rodimarte, il vecchio scapolo impenitente Flaminio, che assedia in modo ossessivo la servetta Rosina, o l’anziana Cornelia con le sue smanie erotiche, affidata alla voce di tenore. Eccellente il livello degli interpreti vocali. Il soprano Giulia Bolcato – un Riccardo Albenori anticonformista in giubbotto e pantaloni rossi – ha sfoggiato una voce omogenea e corposa, oltre che adeguata presenza scenica nel delineare la figura di Riccardo da seduttore incallito (“È ben far come l’ape”) a seduttore pentito (“Ricevi il mio core / non più mancatore”). Analogamente autorevole la prova del mezzosoprano Rosa Bove – in un corto vestito azzurro –, che ha saputo rendere il patetismo autentico di Leonora fin dalla prima aria, “Mio destin fiero e spietato”, quasi interrotta per un eccesso di commozione, come nelle successive (“Sospirando, penosa, dolente” e “Ne vuoi più, mia fiera sorte?”). Si è positivamente segnalato anche il controtenore Raffale Pe nei panni – giaccone e collana – di un anticonformista Erminio, che medita di vendicare la sorella Leonora (“Daranno al petto / ira e furore”) e l’amata Doralice (“Per quell’impuro indegno”). Ingenua e capricciosa la Doralice – di verde vestita – offerta dal soprano Francesca Lombardi Mazzulli. Ottima la prestazione del tenore Dave Monaco, in redingote verde, che ha ben caratterizzato il vecchio Flaminio, caricatura dello scapolo attempato che si crede ancora un Ganimede (“Con quegli occhi ladroncelli”). Assolutamente irresistibile, per vocalità e presenza scenica, il tenore Luca Cervoni, che ha interpretato – con la verve di Michael Aspinall e di Paolo Poli – un’estroversa Cornelia in vestaglia da camera. Altrettanto travolgente la Rosina delineata dal mezzosoprano Giuseppina Bridelli nei classici panni da cameriera: quintessenza dell’astuzia femminile (“Il farsi sposa”) ma anche disposta alla tenerezza (“Avete nel volto”). Le ha pienamente corrisposto il Rodimarte del basso-baritono Tommaso Barea – costume azzurro con pantaloni alla turca e tricorno – che ha sfoggiato una voce ben timbrata e una forte presenza scenica, brillando in “Quando ruoto feroce il mio brando”, grottesca imitazione dell’aria di tipo eroico, con una lunga coloratura, in corrispondenza della parola “espugnando”, e un’aria di portamento nel Lento centrale. Duttile e scattante l’Orchestra del Teatro La Fenice ha assecondato il gesto direttoriale di Enrico Onofri, che con mano sicura quanto delicata ha ottenuto un suono cristallino e scandito dei tempi alquanto serrati. Il maestro ravennate ha guidato strumenti e voci, affrontando da par suo la scrittura estremamente varia ed elegante con cui Scarlatti esprime ogni gesto, ogni affetto, e in particolare coniugando il rigore del contrappunto all’espressività del canto. Successo travolgente senza “se” e senza “ma”.
Milano, Teatro Carcano, Stagione 2024/25
“LO ZOO DI VETRO”
di Tennessee Williams traduzione di Gerardo Guerrieri
Amanda Wingfield MARIANGELA D’ABBRACCIO
Tom Wingfield GABRIELE ANAGNI
Laura Wingfield ELISABETTA MIRRA
Jim O’Connor PAVEL ZELINSKIY
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Musiche originali Stefano Mainetti
Light designer Pietro Sperduti
Produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e Best Live srl
Milano, 8 marzo 2025
Pier Luigi Pizzi ha deciso di rileggere, in questi anni, l’opera di Tennessee Williams, e ci propone quest’anno “Lo zoo di vetro“, sempre con protagonista Mariangela D’abbraccio, che in questo repertorio, in effetti, trova un po’ la sua dimensione: qui è, naturalmente, Amanda Wingfield, la garrula e onnipresente madre dei giovani Tom e Laura, un personaggio sicuramente nelle corde della D’abbraccio, che può mettervi tutta la maniera dell’attrice navigata, l’intensità, ma anche i vezzi, supportata da una fisicità ancora piacente e della nota vocalità calda e pastosa. Insomma, con questo ciclo williamsiano la abbraccio cerca quella che solitamente viene chiamata “consacrazione”, e probabilmente la otterrà, dato il grande impegno che negli ultimi trent’anni ha profuso sulle scene italiane. Tuttavia, la carica che ripone nella sua interpretazione rischia di mettere in ombra quelle dei suoi colleghi, specie dei più giovani e/o inesperti: questo “Zoo di vetro“, ad esempio, vede nella parte di Laura un’attrice – Elisabetta Mirra – troppo al di sotto della collega, potremmo dire a malapena accettabile nella sua performance, che non conosce toni, carattere, profondità; è evidente che incorra in un errore, ovvero che confonda il carattere del personaggio (una ragazza drammaticamente asociale, al principio di diverse turbe psichiche, modellata da Williams sul ricordo della sorella in manicomio), con il carattere dell’interprete, cioè la sua capacità di comunicarci questa incapacità di comunicare, di imitarla in modo da renderla evidente, e potervi costruire sopra una specifica personalità. Nella stessa trappola rischia di cadere anche Pavel Zelinskiy, un Jim O’Connor forse un po’ troppo disinvolto e facilone, quando anche questo personaggio meriterebbe una più attenta di esamina, soprattutto in relazione al suo passato rapporto con Laura. Tiene testa alla madre, ma anche all’attrice, invece, Gabriele Anagni, nei panni di Tom, che pur con qualche prudenza di troppo sul piano espressivo risulta comunque ben interpretato, merito anche di una fisicità e una vocalità molto gradevoli. Alle solite scene bianche à la Pizzi, qui si sostituisce un legno chiaro dall’evidente sapore rétro, che rende perfettamente la piccolezza, l’ordinarietà della dimensione familiare e umana degli Wingfield, oltre alla povertà di un interno che sembra incompiuto, con legno vivo ovunque. Le dinamiche tra personaggi si muovono su un binario tradizionale, molto già visto, ma comunque di risultato apprezzabile. Il ritmo a volte latita e cede il passo alla didascalia, ma, trattandosi di Pizzi, non potremmo aspettarci diversamente; tuttavia, almeno in questo “Zoo di vetro” occhieggiano almeno alcune scene conturbanti, soprattutto legati ai rapporti familiari dai toni nemmeno troppo occultamente malati. Forse ci saremmo aspettati più coraggio dall’insieme della produzione, ma, in fondo, sono altri gli artisti dai quali pretendere ancora qualcosa, non certo un vero Maestro del XX secolo, miracolosamente ancora così lucido e attivo nel XXI. Dunque, bene così.