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Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La ragazza sul divano” dal 16 al 21 Aprile 2024

gbopera - Mer, 10/04/2024 - 18:59

Roma, Teatro Vascello
LA RAGAZZA SUL DIVANO
di Jon Fosse
traduzione Graziella Perin
regia Valerio Binasco
con Pamela Villoresi, Valerio Binasco, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramonte e con Isabella Ferrari
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
suono Filippo Conti
video Simone Rosset
assistente regia Eleonora Bentivoglio
assistente scene Eleonora De Leo
assistente costumi Rosa Mariotti
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Biondo Palermo
In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di Colombine Teaterförlag
Il tema principale de La ragazza sul divano è l’abbandono. In molte opere di Fosse torna, come un sogno ricorrente, una donna che aspetta il ritorno di un uomo che è partito per mare e non è più tornato. In questa pièce i quadri che la Donna dipinge sono il punto di vista di chi guarda una nave partire e svanire verso un orizzonte ostile, simbolo di una minaccia che non riguarda solo il mare, ovviamente. Ma si può anche cercare in quel dipinto la simbologia di una nave che si lascia alle spalle la tempesta. Il dipinto simboleggia il Padre che se ne va verso la sua idea di vita (il mare); la figlia, rimasta sola, reclusa nella vita d’appartamento, è percossa dal mare di un’acerba femminilità, così come da quella tempestosa della madre e da quella autodistruttiva della sorella. Il dipinto è incompiuto, come è giusto restare – incompiuti – se si vuole parlare dell’attesa: chi aspetta resta sospeso, come sospesa è la sofferenza purgatoriale dell’eterna attesa di un padre che non ritorna mai.

 

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Roma, Teatro Sala Umberto: “Intramuros” dal 17 al 28 Aprile 2024

gbopera - Mer, 10/04/2024 - 18:14

Roma, Sala Umberto
INTRAMUROS
di Alexis Michalik
con Carlotta Proietti e Gianluigi Fogacci
e con Ermenegildo Marciante, Raffaele Proietti, Valentina Marziali
scene Fabiana Di Marco
costumi Susanna Proietti
luci Umile Vainieri
musiche Fabio Abate
assistente alla regia Maria Stella Taccone
produzione Politeama
traduzione e regia Virginia Acqua
Riccardo è un giovane regista cui viene proposto di tenere un seminario di teatro in un carcere. Spera in una forte affluenza ma non si presenteranno che due detenuti. Kevin, il cane sciolto e il più anziano, mite e taciturno Angelo. Riccardo, assistito dalla sua aiuto regista, incidentalmente anche sua ex moglie e dalla solerte assistente sociale che lo ha contattato per il corso, decide suo malgrado di tentare comunque l’impresa. Un incrocio vorticoso di storie e stati d’animo, che vengono rappresentati in tempo reale e flashback con ritmi forsennati da cinema. Tempi e luoghi si avvicendano, gli attori di volta in volta oltre il loro personaggio principale devono poi recitare i personaggi della vita che ciascuno di loro fa rivivere nel proprio ricordo. Il tutto con una messa in scena che non ha un momento di sospensione. Tutto è fluido, scorrevole, dinamico, logico eppure “incastratissimo”. C’è del genio in questa scrittura così essenziale ma proprio per questo così chirurgica. Il testo è sorprendente perché́ Michalik semina tanti indizi, che sembrano scollati, e poi, nei momenti giusti, li unisce, e ti fa avanzare un pezzettino nella trama e capisci che una trama c’è, che quella gente non sta lì a caso, che un disegno perché le loro vite si siano intrecciate, c’è un motivo, ma quale? Ci si commuove, si rimane imbambolati, si capisce perché́ il teatro deve far parte della vita di ciascuno, pure di chi non lo fa. Ed ecco che il pubblico alla fine esce e in strada ne parla, commentano, e ne parleranno ai loro amici, che poi tocca prenotare con un mese di anticipo su internet o non entri!

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “La buona novella” dal 16 al 28 Aprile 2024

gbopera - Mer, 10/04/2024 - 18:06

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
LA BUONA NOVELLA
di Fabrizio De André
con Rosanna Naddeo, Neri Marcorè
musiche Fabrizio De André, Gian Piero Reverberi, Corrado Castellari
arrangiamenti e direzione musicale Paolo Silvestri
voce e chitarra Giua
voce, chitarra e percussioni Barbara Casini
violino e voce Anais Drago
pianoforte Francesco Negri
voce e fisarmonica Alessandra Abbondanza
scene Marcello Chiarenza
costumi Francesca Marsella
luci Aldo Mantovani
drammaturgia e regia Giorgio Gallione
Neri Marcorè torna a confrontarsi con Fabrizio De André in un nuovo spettacolo di teatro canzone che fa rivivere sul palcoscenico “La Buona Novella”, album pubblicato dall’autore nel 1970. Di taglio esplicitamente teatrale, “La Buona Novella” è costruito quasi nella forma di un’opera da camera con partitura e testo composti per dar voce a molti personaggi: Maria, Giuseppe, Tito il ladrone, il coro delle madri, un falegname, il popolo. Ed è proprio da questa base che prende le mosse la versione teatrale. «Questo spettacolo è pensato come una sorta di Sacra Rappresentazione contemporanea che alterna e intreccia le canzoni di De André con i brani narrativi tratti dai Vangeli apocrifi cui lo stesso autore si è ispirato: dal protovangelo di Giacomo al Vangelo dell’Infanzia Armeno a frammenti dello Pseudo-Matteo. Prosa e musica sono montati in una partitura coerente al percorso tracciato dall’autore nel disco. I brani parlati, come in un racconto arcaico, sottolineano la forza evocativa e il valore delle canzoni originali, svelandone la fonte mitica e letteraria» scrive il regista e drammaturgo Giorgio Gallione. «La valenza “rivoluzionaria” della riscrittura di De André sta nella decisione di un laico di affrontare un tema così anomalo per questi tempi». Compito di un artista credo sia quello di commentare gli avvenimenti del suo tempo usando però gli strumenti dell’arte: l’allegoria, la metafora, il paragone. Fabrizio De André

 

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Torino, Sala Piccolo Regio: “The Tender Land”

gbopera - Mer, 10/04/2024 - 16:49

Torino, Teatro Regio, Sala Piccolo Regio G. Puccini
“THE TENDER LAND”
Opera in tre atti su Libretto di Horace Everett.
Musica di Aaron Copland.
Laurie Moss IRINA BOGDANOVA*
Martin
MICHAEL BUTLER
Grandpa Moss TYLER ZIMMERMAN*
Ma Moss
KSENIA CHUBUNOVA*
Top  ANDRES CASCANTE*
Mr.Splinters
VALENTINO BUZZA
Mrs. Splinters GIULIA MEDICINA
Mr. Jenks DAVIDE MOTTA FRÈ
Mrs. Jenks JUNGHYE LEE
Una ragazza e voce fuori scena
EUN YOUNG JANG
Un uomo GIOVANNI CASTAGLIULO
Altro uomo ROBERTO CALAMO
Beth Moss LAYLA NEJMI
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Alessandro Palumbo
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Paolo Vettori
Scene Claudia Boasso
Costumi Laura Viglione
Luci Gianni Bertoli
Prima esecuzione italiana
*Artisti del Regio Ensemble
Nuovo allestimento del Teatro Regio Torino.
Torino, 7 aprile 2024
Copland, dopo aver assistito nel ’46 ad una recita del Peter Grimes, narra di aver domandato a Britten quale fosse il requisito più importante per scrivere un’opera e che gli fosse stato replicato, con evidente sprezzante dose di humor, di impegnarsi per “ogni tipo di musica”: coro a cappella, coro e orchestra, solisti separatamente, solisti insieme. Di certo, oltre a scriverlo sull’autobiografia, Aaron ci pensò e forse fu preso dal panico. Questa è comunque la sensazione che si ha nell’assistere a The Tender Land, sua seconda opera che, rifiutata dalla televisione che gliela aveva commissionata, naufraga pure, il’1 aprile del 1954, sulle scene della New York City Opera benché sotto la direzione, che vogliamo credere fantastica, dell’allora ventiquattrenne Thomas Schippers.  Due ore di  musica, sulla scena tredici personaggi  e un coro. Una grande orchestra che l’autore fu poi costretto a ridurre a 14 elementi, visto che, per mancanza di repliche, passò ad esecuzioni semi professionali per i saggi di qualche università. È bizzarro quindi, non se ne intuisce proprio la ragione, che approdi, per la prima volta in Italia (chissà quante volte prima in Europa?) a Torino, al Piccolo Regio. Il primo atto è ambientato nel Midwest rurale, quello descritto dai romanzi di Steinbeck, e non vi si trova nessun legame tra una musica stranita che aggruma, con difficoltà, infruttuosi tentativi di melodia, senza nessuno sfogo né nelle voci né in orchestra. Non emerge nulla che sia degno della fiorentissima tradizione del teatro americano. Le tradizioni country o jazz, se pur ci fossero, sono affossate in sessanta minuti di anonimato. Il secondo atto, più contenuto nei tempi, riceve forza dalla situazione che pare collegarsi a un momento difficile che viveva l’autore. Una festa di laurea con canti e balli che suonano sentiti e autentici, coro e solisti ci sono ben coinvolti, l’orchestra ne va stentatamente a rimorchio. Un duo d’amore, che si vorrebbe rapinoso, tra la protagonista Laurie e il lavoratore straniero Martin. Il nonno Grandpa, vecchio contadino, lancia invettive e accuse, ancorché immotivate, contro Martin e contro il suo legame con la nipote, ma soprattutto rivela l’astio nei riguardi di irregolari e stranieri, delinquenti potenziali che rubano e stuprano. Copland, ebreo russo, omosessuale, in odore di comunismo, in periodo di liste di proscrizione e di processi alle intenzioni, si deve essere sentito particolarmente coinvolto nella storia di stranieri irregolari rifiutati, l’opera ha così raggiunto il suo quarto d’ora di sincera e apprezzabile commozione. Non decolla l’ultimo atto in cui hanno grande spazio tre interventi solistici di scarsissimo impatto musicale ed emotivo. Vi cantano i loro addii: Martin che seppur malvolentieri, concorda col suggerimento di Top, il compagno di vagabondaggio, di cercare luoghi più friendly; Laurie che, pur se abbandonata da Martin, sceglie di andarsene verso un’altra vita, non sopportando più la grettezza dell’attuale; Ma Moss, la madre di Laurie, che con bambole di pezza tra le braccia conferma la fatale alienazione che avrebbe colpito la figlia, se non se ne fosse andata. Il contenuto complessivo è debole mentre lo spettacolo al Piccolo Regio è complessivamente  apprezzabile, così come la compagnia di canto. Alcuni di essi,  componenti del Regio Ensemble, a partire dalla brava e multiforme protagonista Irina Bogdanova da cui si vorrebbe solo una maggior cura nell’arrotondare il colore di una zona acuta a tratti “vetrosa”. Il tenore, Michael Butler, unisce alla buona presenza scenica un timbro gradevole. Il basso Tyler Zimmerman, a cui con sforzo i fantastici truccatori del Regio, hanno tentato di occultare la giovane età, ha, mostrato salda voce e profonda. Ksenia Chubunova, nello spazio di poche ore passa dalla Wowkle della Fanciulla del west a quelli di dolente Ma Moss, confermando l’alta qualità delle sue prestazioni e qui sfruttando la brunitura del timbro per caratterizzarne il personaggio e la sua latente follia. Dall’ampio cast citiamo  le prove positive di Andres Cascante, Top, l’altro clandestino vagabondo; di Valentino Buzza, un Postino dallo squillo ben sonoro. Gli altri della locandina, tutti ugualmente positivi nelle prestazioni, hanno parte vocalmente così esigua da impedirne la valutazione singola. Rimane Layla Nejmi che pur definita voce bianca, agisce come una recitante di spiccata maestria. Il Coro del Teatro Regio, guidato da Ulisse Trabacchin ben si inserisce nel festeggiamento per la Laurea di Laurie. I 14 membri dell’Orchestra del Teatro Regio, sotto la scrupolosa conduzione del giovane Alessandro Palumbo, si applicano con impegno ed abilità, ma con risultati dubbi, ad emendare le debolezze intrinseche dell’opera che la riduzione strumentale, di mano di Copland, non ha certamente sanato. La parte visiva è apprezzabile. Paolo Vettori, inquadra con efficacia i personaggi, impreziosendoli di indovinate caratterizzazioni psicologiche. Il Nonno, la Madre e la Sorellina sono più vivi ed articolati di quanto suggerisca il libretto. Il regista poi, coadiuvato dalle scene di Claudia Boasso e dai costumi di Laura Viglione, disegna con consumata misura e intelligenza una provincia americana gretta e domestica che potrebbe benissimo essere quella nostra. L’essenzialità di quanto si vede, il giorno e la notte e il gigantesco acero rosso dell’ultimo atto, viene ulteriormente valorizzato dalle giuste luci di Gianni Bertoli. Il pubblco inizialmente avaro di applausi, alla fine, si mostra generoso. Repliche l’11 aprile; 4, 5, 7 maggio.

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Roma, Palazzo Barberini: “Effetto notte. Nuovo realismo americano” dal 14 aprile al 14 luglio 2024

gbopera - Mer, 10/04/2024 - 10:56

Roma, Palazzo Barberini
EFFETTO NOTTE. NUOVO REALISMO AMERICANO
Opere dalla collezione di Tony e Elham Salamé
a cura di Massimiliano Gioni e Flaminia Gennari Santori
Le Gallerie Nazionali di Arte Antica, in collaborazione con Aïshti Foundation di Beirut, presentano a Palazzo Barberini la mostra Effetto notte: Nuovo realismo americano, a cura di Massimiliano Gioni e Flaminia Gennari Santori. Più di 150 opere, tutte provenienti dalla collezione di Aïshti Foundation, di una selezione di opere di artisti attivi negli Stati Uniti – tra cui Cecily Brown, George Condo, Nicole Eisenman, Urs Fischer, Wade Guyton, Julie Mehretu, Richard Prince, Charles Ray, David Salle, Dana Schutz, Cindy Sherman, Lorna Simpson, Henry Taylor, Christopher Wool e molti altri – indagano la questione cruciale del realismo e della rappresentazione della verità. La mostra si snoda nelle dodici sale dello Spazio Mostre al piano terra di Palazzo Barberini e prosegue in alcuni dei più emblematici spazi del museo, come Atrio Bernini, Sala Ovale, Sala Marmi e Atrio Borromini del piano nobile, per concludersi infine nel cosiddetto Appartamento del Settecento, un interno rococò unico a Roma, al secondo piano del Palazzo.

 

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Roma, Palazzo Altemps: “Fotografare il Museo Nazionale Romano” dal 13 Aprile al 12 Maggio 2024

gbopera - Mer, 10/04/2024 - 10:47

Roma, Palazzo Altemps
LE TERME DI DIOCLEZIANO. FOTOGRAFARE IL MUSEO NAZIONALE ROMANO
a cura di Giorgio di Noto e Chiara Giobbe
La mostra Terme di Diocleziano. Fotografare il Museo Nazionale Romano, a cura di Giorgio di Noto, docente RUFA, e Chiara Giobbe, Responsabile di Palazzo Altemps, presenta gli esiti del lavoro di documentazione fotografica svolto dalle studentesse e dagli studenti del Corso di Fotografia della Rome University of Fine Arts (RUFA) negli spazi di un’altra sede del Museo Nazionale Romano, la più antica: le maestose Terme di Diocleziano. Il Museo Nazionale Romano ha aperto alle studentesse e agli studenti del Corso di Fotografia di RUFA gli spazi della sede storica delle Terme di Diocleziano, permettendo loro di indagare le Grandi Aule, il Chiostro di Michelangelo e tutti gli ambienti, interni ed esterni, che fanno parte del complesso delle Terme. Oltre a questo, è stato possibile fotografare anche un evento straordinario: per la prima volta dopo molti anni, le Aule I-V sono state prima allestite per ospitare una grande mostra archeologica internazionale, e poi svuotate in vista dei lavori di restauro e valorizzazione del grande progetto URBS. Dalla città alla campagna romana. Gli studenti e le studentesse hanno potuto così approfittare di questa occasione per documentare, in orari e con luci diverse, di giorno e di notte, questi suggestivi spazi confrontandosi con la struttura, la luce, le ombre e le superfici di questi luoghi maestosi ed eccezionalmente spogli.

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Roma, Teatro Vascello: “Zio Vanja” regia di Leonardo Lidi

gbopera - Mar, 09/04/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
ZIO VANJA
di Anton Čechov 
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
regia Leonardo Lidi
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
Teatro Stabile dell’Umbria / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Spoleto Festival dei Due Mondi
Roma, 09 Aprile 2024
L’approccio drammaturgico alla scrittura comporta un tradimento che è insieme urgenza divulgativa e molteplicità di senso attorno a un classico impossibilitato a difendersi. Cechov forse più di altri si presta al gioco dell’adattabilità mescolando fraseggi all’apparenza patetici a radici che chiamano in causa indebitamenti, conflitti famigliari e pene d’amore con una eco stratificata. Avventurarsi nella lettura di questo dramma è paragonabile a esplorare una fitta foresta labirintica, dove i sentieri sembrano ripetersi in un ciclo incessante, inghiottiti da un’oscurità che impedisce alla luce di filtrare e si perde il senso dell’orientamento. Questa sensazione perdura finché, inaspettatamente, la complessità si dissolve, rivelando che il percorso intrapreso, in realtà, non ha mai avuto inizio. E se si dovesse dare forma a questa foresta metaforica, essa sarebbe certamente composta da betulle, alberi i cui tronchi bianchi e lucenti richiamano la “splendente, bianchezza” radicata nel loro nome indoeuropeo, termine con cui sono identificate nei paesi germanici. Anton Čechov, con la sua acuta sensibilità, avrebbe sicuramente colto l’essenza di questi dettagli botanici. Le betulle, infatti, si distinguono per la loro capacità di resistere a condizioni estreme, quali bruschi abbassamenti di temperatura o prolungate siccità, un parallelismo evidente con i temi di resilienza frequentemente esplorati nelle sue opere. L’autore russo, nella dimora che scelse di erigere a Jalta, creò un microcosmo in cui la natura giocava un ruolo primario, impreziosendo il giardino con diverse specie arboree, tra cui spiccavano proprio le betulle, simbolo di resistenza e persistenza. Queste stesse “condizioni avverse” affrontate dalle betulle trovano una loro corrispondenza artistica e scenica nell’allestimento teatrale di “Zio Vanja” al Teatro Vascello di Roma, dove le assi di betulla formano un’imponente parete sul palcoscenico. Quest’ultima, animata dall’illuminazione “emotiva” di Nicolas Bovey, che ne cura anche la scenografia, diventa metafora visiva del tempo e delle sue cicatrici: le scalfitture, i tagli perpendicolari, le nodose circonferenze e le sfumature di ombra sul legno evocano il passare inesorabile degli anni. In questo contesto, il tempo emerge come elemento predominante, rivelando la sua natura dilatata e ponderosa che fa da sfondo all’ essenziale regia ideata da Leonardo Lidi per la sua interpretazione di “Zio Vanja”. La scelta di mettere in scena un’opera così intensamente legata ai temi della resistenza e della resilienza attraverso l’utilizzo di materiali naturali non solo arricchisce la rappresentazione teatrale di significati profondi ma sottolinea anche la continuità tra la vita, l’arte e la natura stessa. La prossemica dello spettacolo, con gli attori costretti a muoversi in un confinato corridoio scenico, riflette simbolicamente la costrizione delle loro vite, in una rappresentazione che alterna densità emotiva e acuti momenti di leggerezza. L’adattamento di Lidi e la traduzione di Fausto Malcovati portano in scena non solo la maestria linguistica di Čechov, ma anche la profonda introspezione sui temi dell’amore, della delusione e della ricerca di senso. La presenza scenica e le interpretazioni del cast delineano con precisione l’universo emotivo e filosofico dell’opera, mentre i costumi di Aurora Diamanti aggiungono un ulteriore strato di significato visivo, amplificando le personalità e le dinamiche interpersonali dei personaggi. L’ensemble di attori, molti dei quali collaboratori abituali di Lidi, naviga con maestria lo spazio scenico limitato, svelando un mondo di complessità emotive e relazionali attraverso gesti minuziosi e posture cariche di significato. Tra questi, la njanja Marina (Francesca Mazza) cattura l’attenzione con un tic nervoso che la vede accarezzarsi il polpaccio in un gesto quasi compulsivo, mentre Sonja (Giuliana Vigogna) esprime la propria vulnerabilità attraverso una postura contenuta e timida, raccontando i suoi sentimenti più intimi. Nel tessuto narrativo di questa produzione, la dinamica tra i personaggi si carica di tensioni inesplorate. Astrov, interpretato con energia da Mario Pirello, e Elena, portata in scena da Ilaria Falini con una miscela di noia borghese e fascino, creano insieme un quadro di desideri inconfessati e sguardi carichi di significati non detti. A completare il quadro umano della storia, troviamo figure come Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo e Angela Malfitano, che con le loro interpretazioni contribuiscono a rivelare la complessità emotiva e sociale dell’ambientazione cechoviana. Il personaggio di Vanja, magistralmente interpretato da Massimiliano Speziani, emerge con forza nel panorama narrativo. La sua eloquenza e la posa fisica esprimono un’urgenza e una vulnerabilità che lo rendono particolarmente toccante, specialmente nei momenti di umiliazione personale e nelle dinamiche interpersonali tese. I dialoghi tra i personaggi, infusi di astio, mortificazione e disperazione, svelano la profondità della tragedia umana che Čechov intreccia sotto la superficie di una commedia apparente. La regia, così, si avventura oltre la lettura convenzionale di “Zio Vanja” come tragicommedia, esplorando la profondità del dolore e dell’alienazione che caratterizzano l’opera. Questa visione suggerisce una critica alla tendenza contemporanea di consumare e svuotare di significato le opere culturali, trasformandole in semplici meme o intrattenimento superficiale. In questo contesto, anche il riferimento a “Vesti la giubba” da “Pagliacci” di Leoncavallo assume infatti una nuova risonanza, simbolo di un invito al pubblico a riconoscere e riflettere sulla genuina sofferenza che si nasconde dietro la maschera del clown. La reazione del pubblico al Vascello conferma l’efficacia di questa scelta regista: un’ovazione spontanea e prolungata, segno di un apprezzamento che trascende il semplice applauso per trasformarsi in un tributo di affetto e stima verso il cast e la produzione. Lidi, attraverso la sua visione, dimostra che il teatro, nella sua essenza più pura, non necessita di elementi concreti per toccare l’anima dello spettatore; basta la parola, arricchita dalla potenza dell’immaginazione collettiva, per vivere un’esperienza autentica e profondamente coinvolgente. Photocredit:AndreaVeroni

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Aix-en-Provence, Festival de Pâques 2024: Daniele Gatti & l’Orchestra National de l’Opéra de Paris

gbopera - Mar, 09/04/2024 - 18:13
Grand Théâtre de Provence, Aix-en-Provence, saison 2024 Orchestre de l’Opéra national de Paris Direction musicale Daniele Gatti Richard Wagner: Le Crépuscule des dieux (extraits symphoniques);  Richard Strauss:  Ein Heldenleben (Une vie de héros) Aix-en-Provence, le 5 avril 2024 L’Orchestre de l’Opéra de Paris se produit rarement en public mais, en cette soirée du 5 avril, Le Festival de Pâques d’Aix-en-Provence allait nous procurer le plaisir d’écouter cette superbe phalange dans un éblouissant programme sous la baguette inspirée du maestro Daniele Gatti. Deux Richard, Wagner et Strauss, deux monuments de la musique allemande ; c’est dire si l’orchestre allait pouvoir déployer les couleurs et l’ampleur des sonorités qui le caractérisent. Daniele Gatti aime et connaît bien la musique de Wagner, n’a-t-il pas dirigé Parsifal en 2008 à Bayreuth (ce qui est rare pour un chef italien) ? Il y retournera d’ailleurs en 2025 pour Les Maîtres chanteurs de Nuremberg. Ce soir, et sans chanteurs, les “Extraits symphoniques” Götterdämmerung (Le Crépuscule des dieux) allaient emplir la salle de ces harmonies reconnaissables entre toutes. C’est un réel plaisir de voir diriger le maestro avec une gestuelle précise, mais sans grandiloquence, qui laisse jouer l’orchestre en maintenant les tempi. Tout en dirigeant un peu à l’allemande, les sons arrivant légèrement après les temps, il allie dans les phrases lyriques, legato musical et ligne italienne. Avec les leitmotive wagnériens et le cor solo dans les coulisses pour l’appel de Siegfried, l’on peut suivre le condensé de ce long Crépuscule même sans mise en scène. L’on retrouve aussi l’orchestration fournie de Richard Wagner avec la trompette basse et les tubènes (ces instruments imaginés par le compositeur uniquement pour la Tétralogie). La beauté de cette interprétation vient du relief donné à chaque atmosphère, chaque situation, chaque personnage ; un climat pesant, tendu, mystérieux au son de la clarinette basse ou plus lyrique, avec des arrêts nets qui amènent des attaques précises et des nuances qui viennent en vagues sonores ou qui laissent entendre les notes arpégées des harpes. Peut-on citer tous les instruments de cet orchestre au son immense avec un quatuor aux archets puissants ou délicats, des trompettes éclatantes ou le son étrange du cor anglais ? Chaque sonorité, chaque intention, chaque leitmotiv nous fait vivre cette épopée qui se termine par la mort de Siegfried, près de Brünnhilde retrouvée, et la Marche funèbre sur quelques notes de timbale suspendues pianissimi. Une interprétation superbe avec un orchestre qui a su faire vivre la magie de Wagner sous la baguette d’un maestro impérial. Richard Strauss n’a que 34 ans (âge de tous les défis) lorsqu’il compose Une vie de héros, sorte d’autoportrait disent certains. Le compositeur a-t-il quelques comptes à régler avec quelques Adversaires du Héros, parle-t-il de son couple avec La Compagne du Héros ou veut-il évoquer La Paix du Héros dans un certain mysticisme pour finir par l’Accomplissement et le Retrait du monde du Héros ? Nous nous contenterons d’écouter la musique et de laisser défiler les images, tout en participant à sa Bataille, avec cet énorme orchestre qui ne demande pas moins de 8 cors, 5 trompettes, 2 tubas dont un tuba basse… mais qui, sous la direction de Daniele Gatti sonnera avec puissance mais toujours dans une belle rondeur de sons pour permettre à chaque instrument de livrer son message dans ces harmonies audacieuses qui sont la signature du compositeur. Si le Héros se bat contre ses adversaires, c’est contre les notes qui se frottent, s’enchevêtrent ou se superposent que le compositeur se bat. Combat dont il sortira victorieux ; n’a-t-il pas conquis définitivement l’auditeur qui retrouve avec plaisir dans ce poème symphonique certaines phrases entendues depuis dans d’autres œuvres ? Cette orchestration géniale évoque, durant 45 minutes de musique, la vie du Héros avec ses aspirations, ses nostalgies, ses élans amoureux dans un désordre savamment orchestré. Claude Debussy, pourtant avare de compliments, louera cette “Prodigieuse variété orchestrale dans un mouvement frénétique”. Daniele Gatti nous en livre une version magistrale où l’exaltation de la victoire – avec trompettes en coulisses – laisse, avec des gestes amples, résonner en majeur les cuivres et tous les instruments de l’harmonie, après avoir évoqué, sous les doigts et l’archet du violon solo, La Compagne du Héros avec humour, tendresse, simplicité ou suavité dans des sons moelleux procurés par une belle technique d’archet. Si la Paix du Héros s’installe avec les notes arpégées des harpes, la plainte du cor anglais, avec les violons en souvenirs, nous dit que le Retrait du monde du Héros, malgré le calme, n’est pas si évident. Quelques soubresauts tout de même avant la méditation du violon solo au vibrato nostalgique et contrôlé. L’espoir, l’acceptation, l’Accomplissement viendront des cors aux sons soutenus et une superbe phrase du soliste reprenant la sonorité du violon, pour une conclusion mélodique tel un choral dans le grave. Superbe interprétation par un orchestre dont la palette de couleurs est immense où chaque instrumentiste est un soliste. La direction sans partition laisse à Daniele Gatti une grande liberté de gestes et d’interprétation, donnant chaque départ, chaque intention avec une efficacité qui reste très musicale. Sa compréhension de l’œuvre a permis à l’orchestre de s’exprimer avec souplesse, intelligence et générosité de son dans ces récits contrastés. Grandiose ! De très longs rappels et applaudissements d’un public qui reste sous le charme. Photo Caroline Doutre
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Roma, Villa Medici: “Epopee Celesti”

gbopera - Mar, 09/04/2024 - 12:54

Roma, Villa Medici
EPOPEE CELESTI
Art Brut nella collezione Decharme
“La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee.” — 
Jean Dubuffet
Al di là delle convenzioni della cultura artistica ufficiale e dell’esplorazione sperimentale, esiste un dominio di produzione indipendente dove l’impulso creativo si manifesta con una spontaneità impareggiabile. Questo regno si distingue non solo per la sua indipendenza dalle strutture accademiche e dai canoni artistici, ma anche per la sua tendenza a trasgredire deliberatamente le tecniche consuete e a rifiutare qualsiasi obiettivo esterno alla pura espressione personale. In questo contesto, gli artisti inventano con audacia le proprie regole e costruiscono un vocabolario unico, testimoniando così la loro indipendenza creativa. L’Art Brut, termine coniato nel 1945 dal visionario artista francese Jean Dubuffet (1901-1985), incarna questa ricerca artistica al margine. Questa forma d’arte trae origine dalla solitudine, dal disagio e spesso dalla sofferenza, portando alla luce opere di una fervente inventiva e di un impegno senza compromessi. L’artista brut si configura quindi come una figura marginale e autodidatta, la cui opera si distingue radicalmente sia dalla decoratività inoffensiva dell’arte naïve che dall’imitazione delle tecniche convenzionali tipiche della pittura dilettantesca. Dubuffet, catturato dalla forza e dall’autenticità di queste espressioni irregolari, dedicò la sua vita alla raccolta di tali opere, fondando nel 1976 il museo Collection de l’Art Brut a Losanna, che oggi costituisce il nucleo fondamentale per lo studio e la valorizzazione di questo genere. Negli anni, il movimento dell’Art Brut ha guadagnato riconoscimento a livello internazionale, con musei e collezionisti privati che si dedicano alla sua promozione e con un crescente interesse critico che ha portato anche artisti professionisti a trarre ispirazione dalle sue estetiche radicali. L’essenza dell’Art Brut risiede nella sua capacità di esprimere un’intensità emotiva e creativa pura, grezza e incontaminata da influenze culturali esterne. Questa forma d’arte esalta il valore dell’autenticità e della spontaneità, ampliando la nostra comprensione del processo creativo come manifestazione diretta di un bisogno psichico intrinseco alla natura umana. L’Art Brut, quindi, non è semplicemente una categoria artistica, ma una lente attraverso cui esplorare le profondità della creatività umana, sfidando continuamente i nostri paradigmi estetici e culturali. In un caleidoscopio visivo dove l’arte diviene voce delle dissonanze e delle contraddizioni che pulsano nel cuore del nostro tempo, la collezione di Bruno Decharme si staglia come un dialogo potente e vibrante. Al suo interno, una varietà di opere tessono insieme un racconto che naviga attraverso i marosi dei conflitti armati, le cicatrici delle devastazioni ambientali, le crepe delle disparità socio-economiche, e le ombre delle violenze su minori. Questi sono i temi che vibrano con urgenza nelle creazioni di Henry Darger, mentre le visioni di regimi autoritari e le macchinazioni della propaganda trovano la loro critica visiva negli universi di Ramon Losa, Lázaro Antonio Martínez Durán e Alexander Lobanov. In questo contesto artistico ricco e sfaccettato, l’isolamento, la detenzione e l’esilio transcendono la loro essenza di condizioni dolorose, trasformandosi in portali verso realtà alternative, luoghi di fuga dove l’immaginazione si libera e si espande. Artisti del calibro di Adolf Wölfli e Aloïse Corbaz, attraverso il prisma del loro isolamento, hanno scoperto chiavi segrete per mondi paralleli, riplasmando la tela della realtà in modulazioni che danzano sul confine tra il fantastico e il mitologico. In queste dimensioni, spiriti, fantasmi e creature che affondano le radici nel profondo dell’inconscio collettivo emergono con forza, rifiutandosi di essere relegati nell’oblio. La collezione, in questo senso, non si limita a essere un’esposizione di opere d’arte; si trasforma piuttosto in un’esperienza di esplorazione e scoperta, un viaggio attraverso i labirinti dell’animo umano e le sue contraddizioni, invitando chi guarda a perdere e ritrovare se stesso tra i fili intrecciati di luce e ombra che compongono l’eterno tessuto dell’arte e dello spirito. La mostra a Villa Medici offre , così, un percorso che naviga tra figure antropomorfe, geografie emotive profonde, talismani disegnati, mappe cognitive, insieme a riferimenti a templi indiani e architetture barocche, illustrando una narrazione ai confini dell’immaginazione. Questi artisti reinterpretano e ridisegnano incessantemente i confini di un universo che costruiscono progressivamente, guidati esclusivamente dai valori di libertà e alterità procedendo senza filtri in direzione di narrazioni epiche di vastità celestiale. La predominanza del verde nelle pareti delle sale espositive non solo risponde a criteri estetici e psicologici, riflettendo il suo storico utilizzo in contesti sanitari per le sue qualità rassicuranti, ma arricchisce anche l’ambiente di significati simbolici profondi. Questa scelta coloristica apre a riflessioni sull’interazione tra spazio, opera e osservatore, stimolando una consapevolezza delle dimensioni psicologiche e storiche che il verde porta con sé nell’arte e nella percezione dello spazio. Nell’allestimento della mostra, l’illuminazione gioca un ruolo chiave, seguendo con precisione l’idea artistica e curatoriale che ne sta alla base. Attraverso l’uso sapiente degli strumenti illuminotecnici, la mostra riesce a esaltare le opere esposte, valorizzandone ogni dettaglio. La calibrazione attenta della luce di sfondo e quella d’accento emerge come elemento cruciale in questo processo. Mentre l’illuminazione generale è pressoché naturale e fornisce una guida visiva orientativa, creando un ambiente accogliente e facilmente navigabile, sono gli accenti luminosi che sottolineano la funzione di catturare l’attenzione su specifici dettagli,  dirigendo lo sguardo dei visitatori e sottolineando la singolarità di ciascuna opera esposta. Questa esposizione è concepita per essere vissuta piuttosto che semplicemente osservata, invitando il visitatore a un coinvolgimento emotivo profondo, purché si abbandoni all’esperienza. L’approccio richiesto non è di natura razionale, ma intuitivo e animico, suggerendo una partecipazione che va oltre la mera contemplazione estetica. Tale modalità di fruizione, intrinsecamente personale e soggettiva, sottolinea che l’esperienza proposta non si adatta a tutti, ma si rivolge a coloro che sono disposti ad esplorare dimensioni più intime e profonde del proprio essere nel dialogo con l’arte. Photocredit © Collection Bruno Decharme

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Amici della Musica di Firenze: Viktoria Mullova e Alasdair Beatson in concerto

gbopera - Lun, 08/04/2024 - 09:42

Firenze, Teatro Niccolini, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2023/4
Violino Viktoria Mullova
Fortepiano Alasdair Beatson
Ludwig van Beethoven: Sonata n. 2 in la maggiore, op.12 n.2; Johann Sebastian Bach: Chaconne, dalla Partita n. 2 in re minore BWV 1004; Ludwig van Beethoven: Sonata n. 6 in la maggiore, op. 30 n. 1, Sonata n. 8 in sol maggiore, op. 30 n.3
Firenze, 6 aprile 2024
Se ascoltare il violino insieme al pianoforte è abbastanza comune, risulta invece un’esperienza percettiva più raffinata sentire fondersi i due strumenti in maniera significativa come parte di un unico tessuto che resiste al tempo. L’occasione, organizzata dagli Amici della Musica di Firenze all’affollato Teatro Niccolini, era attraente sia per gli interessati a sonorità più ricercate ed equilibrate che per i cultori e appassionati della letteratura cameristica per i due strumenti. A concorrere al raggiungimento di questo risultato erano gli interpreti Viktoria Mullova e Alasdair Beatson alle prese con un violino con corde di budello e il fortepiano Graf 362 messo a disposizione dall’Accademia Bartolomeo Cristofori. Il programma, tutto beethoveniano eccetto la Ciaccona di Bach, celebrava la sonata per questo complesso cameristico che proprio con il compositore di Bonn raggiunge l’apice di un processo evolutivo iniziato attorno alla metà del XVIII secolo e di cui lo stesso programma ne esprimeva sia il modello che i ‘pròdromi’. Nel continuo ‘apparire’ dell’uno rispetto all’altro strumento era la scrittura musicale, soprattutto in episodi in cui il melos poteva presentarsi in una successione alterna in entrambi gli strumenti (contrappunto doppio), a definire di volta in volta la natura del dialogo concepito durante il concerto come ascolto e volontà reciproca nel valorizzare l’altro. La Sonata n. 2 in la maggiore, tra le prime composizioni per tale formazione e parte dell’op. 12, già per il titolo apposto alla prima edizione «Tre Sonate per il Clavicembalo o Forte-Piano con un violino», chiarisce l’impegno virtuosistico del fortepiano sia nel primo che nel terzo movimento (Allegro vivace e Allegro piacevole); infatti Beatson dichiarava nell’immediato la propria natura incline al pensiero musicale e volta ad una precisione che andava ben oltre la restituzione della logica musicale. A far comprendere maggiormente l’essenza dell’incontro dei due interpreti è stato soprattutto il movimento centrale, l’Andante, più tosto Allegretto. Entrambi i musicisti riuscivano ad esprimere un proficuo dialogo tanto che, grazie all’espressiva e musicale reiterazione delle imitazioni tra mano destra del pianista e il violino, era sempre possibile seguire con chiarezza la loro narrazione. Con l’esecuzione della Ciaccona (BWV 1004) vi è stata un’immersione in un capolavoro mediante il quale ancora oggi è possibile avvicinarsi alla mente inquieta del Kantor. Alla violinista non bastava sfoderare una significativa e sicura tecnica per chiarire all’ascoltatore il senso dell’opera ma emergeva una profonda conoscenza del suo alto magistero affinché il monologo dello strumento, recuperando l’aspetto sacrale della musica, potesse diventare continua ricerca del ‘già e non ancora’. Pertanto Mullova, ben inserita nel mondo di Bach, è riuscita ad offrire un’interpretazione in cui si poteva cogliere l’unitarietà del discorso fatto di intrecci polifonici e pura retorica musicale. Per arrivare a percepire ciò bastava ‘chiudersi’ in un intimo silenzio in quanto già le stesse nuances (fino a pianissimi vellutati), espresse dalla violinista, non erano altro che ‘metamorfosi’ poetiche che potevano toccare l’emozione del pubblico predisposto ad un ascolto profondo. Le due sonate tratte dall’op. 30 sono entrambe concepite in tre movimenti. Nella Sonata in la maggiore n. 1 (AllegroAdagio molto espressivoAllegretto con variazioni) la percezione è quella di guardare allo stile classico di Haydn e Mozart ma allo stesso tempo, grazie ad una lettura precisa e scrupolosa da parte degli interpreti, risultava abbastanza chiara sia la forma che il continuo dialogo tra le parti. Se nel primo movimento all’ascoltatore bastava l’iniziale figura delle semicrome della mano sinistra del pianista per un approccio ad un percorso formale sonatistico, nel secondo il “molto espressivo” dell’Adagio faceva emergere la cantabilità della melodia già espressa dall’esordio del violino. E proprio questo ‘canto’, contrappuntato alla figura di semicrome con punto dell’altro strumento, nell’alternanza violino/fortepiano (entità paritetiche), faceva cogliere un’apparente quiete dell’animo. Nell’ultimo movimento Beethoven, pur dichiarando l’intenzione di inoltrarsi nel mondo del tema con variazioni, e grazie anche alla chiara restituzione del fraseggio da parte dei due interpreti, proponeva una musica che all’ascolto risultava un insieme di eventi tra divertissement, virtuosismo e pensiero compositivo ormai proiettato verso ricercatezza e diversità, le medesime caratteristiche emerse nei due musicisti sempre volti ad esprimere la ricchezza che apre a nuove prospettive interpretative. Ai ripetuti applausi del pubblico è seguito un fuori programma che poteva assumere le caratteristiche di una nuova stagione musicale che vede Mullova e Beatson sempre più impegnati in progetti artistici. Si è trattato del secondo movimento (Adagio molto espressivo) della Sonata beethoveniana per violino e pianoforte n. 5 in fa maggiore op. 24, meglio conosciuta come «La Primavera», in cui, nel dialogo tra i due artisti, si poteva cogliere ancora una volta una lieta e serena conversazione volta ad esprimere autentica comunanza di intenti.

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“La Dodicesima notte” di Shakespeare al Teatro Sociale di Brescia, dal 09 all’11 aprile

gbopera - Dom, 07/04/2024 - 17:54

Arriva a Brescia quella che è considerata da molti critici la migliore commedia di Shakespeare: “La dodicesima notte (o quello che volete)”. Composta intorno al 1600, è l’ultima commedia giocosa del Bardo prima della stagione delle grandi tragedie e delle commedie nere. La dodicesima notte” è il prodotto di un artista ormai al culmine sia del proprio “mestiere” sia della propria riflessione sull’uomo e sul mondo, un mondo da conquistarsi giorno per giorno, tra mille difficoltà e ambiguità, dove il dubbio non è episodico ma è condizione ormai inevitabile e definitiva del vivere. Una commedia sorprendente, amara ma lieve, surreale ma terrena, profondamente malinconica e irresistibilmente divertente. Adattamento e regia sono firmati dal giovane regista fiorentino Giovanni Ortoleva, menzione speciale nel concorso “Registi under 30” della Biennale di Venezia 2018. Il doppio ruolo di Viola e di Sebastiano, tradizionalmente affidato a un’attrice, è qui invece assegnato ad Alessandro Bandini, giovane promessa del nostro cinema. La produzione è del LAC di Lugano, adiuvato dalla Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, dal Centro D’arte Contemporanea Teatro Carcano e dall’Associazione Culturale Arca Azzurra.
In scena per la cinquantesima Stagione del Centro Teatrale Bresciano, La dodicesima notte (o quello che volete) sarà al Teatro Sociale di Brescia (Via Felice Cavallotti, 20) dal 9 all’11 aprile 2024, tutti i giorni alle ore 20.30.
Per altre info, qui.

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Franz Liszt (1811-1886): “Consolations”

gbopera - Dom, 07/04/2024 - 11:50

Franz Liszt (1811-1886): 6 Consolations, S.172; 3 Caprices-Valses, S.214; Valse Impromptu S.213; Liebesträume, S.541; 2 Légendes, S.175. Saskia Giorgini (pianoforte). T. Time: 82′ 58″. 1 CD Pentatone PTC 5187045
Le due anime di Liszt, quella del virtuoso e quella più intima, trovano la loro sintesi in questa proposta della casa discografica Pentatone nella quale, insieme alle più virtuosistiche Légendes, è possibile ascoltare pagine più liriche ed espressive come quelle delle 6 Consolazioni, dei Liebesträume. Completano il programma i 3 Caprices-Valses e il Valse Impromptu S.213. Ad interpretare queste immortali e famose pagine di Liszt è la giovane pianista italo-olandese Saskia Giorgini la quale, nel Booklet del CD, manifesta la difficoltà di poter “dire” qualcosa di nuovo su un repertorio così noto, ampiamente visitato dalla discografica. Nonostante tale difficoltà, l’artista riesce a marcare un’impronta personale soprattutto nei brani più lirici e intimistici nei quali sfoggia un tocco veramente espressivo come, per esempio, nella Terza Consolazione o ancora nel celebre Libestraume n. 3. Dotata di una solidissima tecnica, Saskia Giorgini supera in scioltezza i passi più difficili e di agilità tra cui la parte inziale della prima delle due Légendes, nella quale dà prova di un tocco leggerissimo che esalta la chiarezza dei singoli suoni.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: prima domenica dopo la Pasqua (Dominica in Albis)

gbopera - Dom, 07/04/2024 - 00:30

La prima domenica dopo la Pasqua, correttamente indicata nei libri liturgici con il termine in “Octava Paschae” oppure Domenica in “Quasi modo”, dalla prima dell’Introito (Quasi modo géniti infántes, rationábile, sine dolo lac concupíscite, ut in eo crescátis in salútem, allelúia, – Come bambini appena nati desiderate il genuino latte spirituale: vi farà crescere verso la salvezza. Alleluia) nota  popolarmente con l’espressione Dominica in Albis, Per questa domenica Bach ci ha lasciato solo 2 cantate. La prima in ordine di tempo è Halt im Gedächtnis Jesum Christ BWV 67 (Ricordati che Gesù Cristo, è risuscitato dai morti), mentre la seconda è Am Abend aber desselbigen Sabbatas BWV 42 eseguita la prima volta a Lipsia l’8 aprile 1725, una delle Cantate della seconda annata, una delle nove del ciclo Pasquale di quell’anno. Una composizione dal  carattere originale  come se Bach, proiettato alla ricerca di altri spazi, tentasse la definizione di un  diverso modello di cantata. In questa,  come in altre cantate di questa annata, Bach rinuncia a dare al coro una parte impegnativa polifonicamente ben caratterizzata. Nella cantata BWV 42 la prima del gruppo post Pasquale il coro introduttivo (qui impegnato solo nel Corale finale) viene sostituito da una sinfonia probabilmente una nuova versione o adattamento di un “allegro” di concerto con un concertino costituito da Oboe I/II, Fagotto. La forma è  quella ternaria col “da capo” condotta secondo una concezione d’assieme, integrazione e compenetrazioni tematiche fra i due gruppi contrapposti di legni e archi e con una sessione centrale, “cantabile” nella quale la parte solistica è affidata ai fiati. Il versetto caratterizzante La cantata è il nr. 19 del capitolo 20 di Giovanni che noi abbiamo già citatao nella Cantata BWV 67: “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». La  realizzazione bachiana del  versetto (che esclude il “Pace a voi”) è del  tipo più semplice, un recitativo del tenore, l’Evangelista, su una figurazione a note ribattute del Continuo. Ancora più netto, risulta il contrasto con l’intensa e mirabile aria tripartita del contralto (Nr.3 – “Dove due o tre sono riuniti”) con 2 oboi concertanti impegnati in una costante effusione melodica. Il testo richiama il vangelo di Matteo, capitolo 18, vers.20:”Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». La pagina è un “adagio” e può essere inteso come il secondo movimento del medesimo concerto dal quale doveva essere estratta la Sinfonia. Da notare che il brano presenta una sezione mediana, un “poco andante”, con la voce sostenuta dal solo continuo, sicuramente aggiunta all’originale “adagio” se dovesse valere l’ipotesi del tempo di concerto. Segue un duetto fra tenore e soprano (Nr.4, “Non disperare piccolo resto”) su un lied di Jakob Fabricius (1593-1654) del 1635ca, che viene mascherato nella parte inferiore del continuo  e in qualche tratto della parte del tenore. Impetuosa, marziale, è l’ultima aria del basso (Nr.6 – “Gesù è uno scudo per i suoi”) che celebra l’immagine di Cristo, scudo dei suoi seguaci quando sono colpiti dalle persecuzioni. Chiude la Cantata un Corale su testo di Martin Lutero “Verleih uns Frieden gnädiglich ” del 1529.
Nr.1 – Sinfonia
Oboe I/II, Fagotto, Violino I/II, Viola, Continuo
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
La sera di quello stesso giorno, il primo dopo
il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo
dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei,
venne Gesù e si fermò in mezzo a loro.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Dove due o tre sono riuniti
nel prezioso nome di Gesù,
Gesù viene in mezzo a loro
e pronuncia l’Amen.
Poiché ciò che accade per amore e necessità
non contravviene alla legge dell’Altissimo.
Nr.4 – Aria/Duetto (Tenore, Soprano)
Non disperare, piccolo resto,
anche se i tuoi nemici progettano
la tua completa distruzione
e cercano la tua rovina,
e perciò sei angosciato e timoroso:
non durerà ancora a lungo.
Nr.5 – Recitativo (Basso)
Si può trovare un bell’esempio di questo
in ciò che accadde a Gerusalemme;
quando i discepoli erano riuniti
nella profonda oscurità
per timore dei Giudei
allora il mio Salvatore venne in mezzo a loro,
rivelandosi come il protettore della sua Chiesa.
Lasciate dunque infuriare il nemico!
Nr.6 – Aria (Basso)
Gesù è uno scudo per i suoi
quando sono colpiti dalla persecuzione.
Per loro risplenderà nel sole
una iscrizione a lettere d’oro:
Gesù è uno scudo per i suoi
quando sono colpiti dalla persecuzione.
Nr.7 – Corale
Concedi la pace,
Signore Dio, al nostro tempo;
poiché non c’è nessun altro
che possa lottare per noi
al di fuori di te, nostro Dio.
Dona ai nostri principi ed alle autorità tutte
pace e buone capacità di governo,
affinchè sotto la loro guida possiamo
condurre una vita serena e tranquilla
con ogni benedizione ed onore.
Amen

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Am Abend aber desselbigen Sabbatas” BWV 42

 

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Aix-en-Provence, Pestival de Pâques 2024: Daniel Ottensamer trio en concert

gbopera - Sab, 06/04/2024 - 22:47
Théâtre du Jeu de Paume, Aix-en-Provence, saison 2024 Clarinet trio Anthology Violoncelle Stephan Koncz Clarinette Daniel Ottensamer Piano Christoph Traxler Ludwig van Beethoven: Trio avec piano n°4 en si bémol majeur op. 11 “Gassenhauer”; Max Bruch: Huit pièces, op. 83 (extraits); Johannes Brahms: Trio pour clarinette, violoncelle et piano en la mineur. Aix-en-Provence le 3 avril 2024 Une heure de pure musique en cet après-midi du 3 mars au Théâtre du jeu de Paume d’Aix-en-Provence dans le cadre du Festival de Pâques 2024. Les concerts se suivent, les artistes changent, la qualité et le top niveau restent. Le Clarinet trio Anthologie était au programme avec des œuvres de Ludwig van Beethoven, Max Bruch et Johannes Brahms ; l’assurance d’une heure de plaisir. Stephan Koncz (violoncelle) Daniel Ottensamer (clarinette) et Christoph traxler (piano) se sont connus très jeunes et ont décidé de former ce trio, pas si inhabituel que cela si l’on regarde le nombre de partitions écrites pour cette formation. Tous les trois font partie du Philharmonix, cet ensemble qui inclut des membres des Vienna et Berlin Philharmonics afin d’élargir les frontières musicales. L’arrêt brutal pendant la période covid permet aux trois artistes d’approfondir leurs recherches dans cette formation commencée avec Beethoven et Brahms dont l’emploi de la clarinette est une histoire de rencontres avec l’instrument. Malgré des carrières aux multiples facettes, les trois solistes trouvent le temps de jouer ensemble pour nous offrir ces moments de musiques choisies, dans des interprétations flamboyantes aux couleurs et aux sentiments très différents, laissant apprécier chaque timbre d’instrument en soliste ou ensemble. D’un très haut niveau technique et solistique, et tout en restant dans une interprétation classique, ils nous livrent une vision très moderne de chaque œuvre faisant sonner l’instrument avec maestria ou avec finesse pour certains échanges. Ce trio,”Gassenhauer” (chanson populaire), composé par Beethoven en 1797 et dédié à la comtesse Maria Wilhelmine von Thun, est d’une écriture vive, joyeuse ou sensible dans un style viennois. Dès le premier mouvement le violoncelliste s’affirme dans une aisance d’archet qui laisse sonner les notes sur le jeu perlé du pianiste permettant au clarinettiste de s’exprimer avec grâce dans un tempo vif. Chaque instrument, dans la même esthétique musicale, livre son discours sans vouloir l’imposer mais sans s’effacer non plus. C’est avec un beau vibrato que le violoncelle expose avec sensibilité le thème du deuxième mouvement donnant la parole à la clarinette pour des phrases langoureuses à trois voix dans une grande souplesse de phrasé et d’homogénéité de sons. Joyeux et marcato, le troisième mouvement laisse le piano jouer avec vélocité pour des variations thématiques ou des modulations plus nostalgiques où les timbres se fondent. Délicatesse ou caractère affirmé, chacun s’exprime avec fermeté ou suavité pour finir sur la cadence du piano pleine d’humour. Relief et sensibilité. Max Bruch a 72 ans lorsqu’il compose ces Huit pièces et l’emploi de la clarinette n’est pas ici le fait d’une rencontre fortuite avec l’instrument, son fils est clarinettiste et, peu après d’ailleurs, il écrira le Double concerto pour clarinette, alto et orchestre, trouvant que ces deux instruments ont des sonorités qui s’accordent très bien. Post romantisme ou romantisme vieillissant, ce recueil de 8 pièces, d’une écriture classique, propose des moments d’intensité, de profondeur, d’intimité, de passion même et particulièrement dans cette interprétation où les trois artistes laissent sonner leurs instruments dans des phrases lyriques. 3 pièces nous sont proposées : I Andante, VI Andante con moto nommé “Nachtgesang” (Chant de nuit) et IV Allegro agitato. Le piano débute la première pièce sur un thème nostalgique repris par le violoncelle qui donne la parole à la clarinette dans un son un peu voilé. Cette pièce élégante joue la musicalité avec des phrases au souffle infini. Grave, nostalgique encore le Nachtgesang qui introduit la clarinette sur un Pizzicato de violoncelle et laisse les phrases se répondre dans de belles nuances contrastées. Sorte de souvenirs à trois voix dans des phrasés qui s’enchaînent avec musicalité. L’Allegro agitato est interprété avec force et caractère dans des discours musclés, qui n’altèrent en aucune façon la bonne humeur, mais mettent en évidence la technique de chacun et la vélocité du pianiste pour un accelerando final aux reliefs prononcés. Comme Beethoven, mais près de 100 ans plus tard, Johannes Brahms, dans une période tardive de sa vie mais néanmoins romantique, compose ce trio en quatre mouvements à la suite de sa rencontre avec un clarinettiste. La clarinette, cet instrument d’émission assez facile, qui permet des nuances extrêmes et une grande vélocité a souvent inspiré les compositeurs pour des œuvres en soliste, et cela dès Mozart. Avec beaucoup de présence le compositeur donne la parole à chaque instrument pour des discours passionnés où l’archet du violoncelle répond à la clarinette mais laisse aussi s’installer, dans un Allegro mesuré, une méditation à trois voix. Le court Adagio, dans un calme souverain et les notes du piano posées avec souplesse, est un échange de phrases sentimentales entre le violoncelle et la clarinette aux pianissimi timbrés et au souffle contrôlé. Gracieux, l’Andantino révèle le romantisme d’un Brahms raffiné et plus léger dans un tempo de valse en toute simplicité aux pianissimi murmurés. Toujours élégant mais avec plus de force l’Allegro semble laisser les solistes s’amuser dans une joie évidente avec sforzandi et vélocité. Trois œuvres magistralement interprétées, trois solistes aux tempéraments différents, mais une seule esthétique musicale. Pour un plaisir supplémentaire, Miniature trios, du compositeur russe Paul Juon nous est donné en bis où la délicatesse des sentiments s’expose avec douceur, exaltation ou sensibilité. Un rare moment hors du temps et d’immenses bravos. Photo Caroline Doutre
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Milano, MTM, Teatro Litta: “Le notti bianche”

gbopera - Sab, 06/04/2024 - 19:00

Milano, MTM – Teatro Litta, Stagione 2023/24
LE NOTTI BIANCHE”
da Fëdor Dostoevskij
Drammaturgia Elena C. Patacchini
Il Sognatore DIEGO FINAZZI
Nasten’ka ALMA POLI
Ideazione e regia Stefano Cordella
Disegno luci Fulvio Melli
Scene e costumi Francesca Biffi
Produzione Manifatture Teatrali Milanesi
Milano, 04 aprile 2024
Sui palcoscenici italiani girano sempre più o meno i soliti due/trecento titoli, mentre restano ignoti ai più decine di migliaia di testi più o meno importanti della drammaturgia mondiale. Per questa ragione si nutre una certa diffidenza nei confronti dei romanzi trasposti per le scene, poiché pare un’operazione che voglia semplicemente strizzare l’occhio al pubblico, spesso con esiti prevedibilmente piuttosto deludenti. Tuttavia, la drammaturgia composta da Elena C. Patacchini da “Le notti bianche” di Fëdor Dostoevskij riesce con maestria nell’intento di trasformazione, creando un convincente monologo/dialogo dalle dinamiche sia introspettive che serrate, in cui il pubblico viene costanemente urtato, trascinato, ed è praticamente impossibile estraniarsi dalla scena. Il Sognatore, senza nome, come nell’originale, è una creatura perfettamente in equilibrio tra Dostoevskij e Generazione Z, un ragazzo fragile come un bambino e al contempo brutale come un uomo, in grado di incarnare il mal de vivre d’ogni tempo; Nasten’ka, da par suo, è l’adolescente dolce e acuta, cui non manca un’anima selvatica, un’impeto più forte della speranza del Sognatore, poiché di Vita, di voracità emozionale. I giovanissimi interpreti sono parte integrante della riuscita scenica di questo bel testo, in maniera diversa: di Alma Poli apprezziamo la travolgente naturalezza, il non risparmiarsi in nulla, la capacità di costruire con pochissimi appigli fuori dalla sua voce e dal suo corpo una performance palpitante e totalmente credibile; in Diego Finazzi, invece, c’è forse qualcosa in più, c’è il pudore di un interprete terrorizzato e felice, una delicatezza nella voce e una misura nel movimento che ce lo fa immaginare tenero e impacciato, e che quindi ci sorprende quando esplode nella selvaggia dichiarazione d’amore e nell’interpretazione sanguinante di una canzone indie (“Sto impazzendo” del Management). Siamo davanti a due attori “che si faranno”, per citare De Gregori, ma che già dimostrano una sensibile padronanza di sé e della scena. La regia di Stefano Cordella, infine, mette ordine, pone corone, rende il testo carne viva: lo fa soprattutto con le interessantissime luci di Fulvio Melli (che non teme di accostare asettici led ad avvolgenti par démodé, declinando ogni tinta di freddo), e con un geometrico studio delle posizioni e della prossemica; si concede al postdrammatico con delicatezza – l’uso in scena di una tastiera, come di una serie di nastri preregistrati – e tenta di stupirci con effetti speciali – una porta che si apre su una bufera di neve che invade la scena – tutto sommato riuscendoci; soprattutto notiamo una crescita, nel percorso registico di Cordella, che in parte riscopre la pennellata fresca di alcuni suoi lavori passati (ci torna in mente “Vania” del 2016, e forse il regista non dimentica la versione di Alberto Oliva che lui stesso recitò nel 2011) e in parte sembra guardare a un teatro più personale, onesto e meno stereotipato. Si replica al Teatro Litta fino al 14 aprile, ancora in definizione le date della tournée

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Roma, Terme di Caracalla:”Inaugurato lo Specchio di Hannes Peer”

gbopera - Sab, 06/04/2024 - 17:42

Roma, Terme di Caracalla
LO SPECCHIO di HANNES PEER
La rinascita delle Terme di Caracalla si manifesta attraverso un intervento che trascende la mera architettura, diventando un’epopea sociale e culturale: l’introduzione dello “Specchio d’acqua” segna un ritorno alle origini per questo storico complesso, riportando l’elemento acquatico dopo un millennio e ottocento anni dalla sua fondazione.
Questo progetto, concepito sotto la visionaria guida della Soprintendenza Speciale di Roma, capitanata da Daniela Porro, e ispirato dall’ingegno di Mirella Serlorenzi, rappresenta non solo un rinnovo fisico, ma anche un rinvigorimento dell’essenza termale del sito. L’opera di Hannes Peer, in sinergia con Paolo Bornello, riflette un dialogo tra il presente e l’antichità, dove l’acqua a sfioro su tre lati della struttura evoca la grandiosità della Natatio originale, pur inserendosi con rispetto e armonia nel tessuto storico. Il legame intrinseco del sito con l’acqua, evidente già prima della sua urbanizzazione, viene ora rievocato e amplificato. Le Terme, un tempo cuore pulsante di attività balneari con le sue vasche e saune, vengono ora trasfigurate in un palcoscenico idrico multivalente. Questo spazio, minimalista nella sua elevazione di appena 10 centimetri dal suolo e ricco di getti d’acqua e riflettori sott’acqua, diventa teatro di espressioni artistiche, dove l’arte della danza, la musica e il teatro si fondono con l’elemento acquatico in una sinergia senza tempo. L’inaugurazione dello “Specchio d’acqua” con la coreografia di “Rhapsody in Blue” di Aterballetto nel centenario della composizione di George Gershwin suggella la nuova vocazione del sito come crocevia di cultura e spettacolo. Questa trasformazione è solo l’inizio di un ambizioso piano di rinnovamento che, sostenuto da fondi nazionali e locali, mira a riscrivere l’interazione tra il monumento e il suo contesto urbano e naturale, rendendolo un avamposto di cultura accessibile e sostenibile. Ridefinendo l’ingresso al sito, reintroducendo la flora e ripensando gli spazi per il pubblico, il progetto non solo rende omaggio all’eredità delle Terme di Caracalla ma anche li proietta nel futuro, creando un ponte tra il passato glorioso di Roma e la sua evoluzione come capitale culturale. La “Rivoluzione Caracalla” non è soltanto una testimonianza della grandezza romana, ma diventa un manifesto di come l’antico possa ispirare e riformare il moderno, dimostrando che l’arte, l’architettura e la storia sono tessere di un mosaico infinito di umanità e innovazione. L’epopea delle Terme di Caracalla inizia nel 216 d.C., sotto l’egida di Marco Aurelio Antonino Bassiano, meglio conosciuto come Caracalla, erede di Settimio Severo. La costruzione di questo colossale edificio termale richiese l’impegno quotidiano di 9.000 lavoratori per cinque anni, culminando nella sua probabile completazione nel 235 d.C. sotto l’auspicio di Eliogabalo e Severo Alessandro, che arricchirono il complesso con porticati e dettagli decorativi. Un’ulteriore modifica fu apportata da Costantino, che implementò un’abside nel caldarium, come testimonia un’iscrizione conservata nei labirinti sotterranei del sito. Queste terme, estendendosi su una superficie di circa 337 x 328 metri distribuiti su cinque livelli, rappresentavano un vero e proprio microcosmo urbano, alimentato dall’acqua Nova Antoniniana, una derivazione dell’acqua Marcia commissionata da Caracalla nel 212 d.C. Il sistema idrico, supportato da 18 cisterne, garantiva il funzionamento di vasche, fontane e i 50 forni necessari per il riscaldamento e la panificazione, consumando giornalmente 10 tonnellate di legname. La grandezza del complesso era sottolineata da 252 colonne, di cui 16 superavano i 12 metri di altezza, e 156 nicchie destinate ad ospitare statue, rendendo le terme un punto di riferimento per 6.000-8.000 visitatori quotidiani. Con l’assedio di Vitige nel 537 d.C., l’abbandono delle Terme fu segnato dal taglio degli acquedotti. Da quel momento, il complesso divenne una cava di materiali per l’edificazione di chiese e palazzi, fino alla spoliazione delle sculture sotto Papa Paolo III Farnese tra il 1545 e il 1547, tra cui spicca il Toro Farnese, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Col tempo, l’area venne adibita a vigne e orti. Gli scavi sistematici iniziarono nel 1824 e si protrassero per oltre un secolo, culminando con l’indagine dei sotterranei e del perimetro esterno. L’ultimo appuntamento lirico estivo all’interno del caldarium risale al 1993, con una tradizione che riprese nel 2001. Nel 1996 fu scoperta l’ultima statua acefala di Artemide. Dal 2012, le Terme di Caracalla hanno abbracciato l’arte contemporanea, iniziando con il dono del Terzo paradiso di Michelangelo Pistoletto, e proseguendo con varie iniziative artistiche che hanno reso il sito un palcoscenico vivace per l’espressione moderna. La mela reintegrata di Pistoletto nel 2016, le mostre dedicate a Antonio Biasiucci e Mauro Staccioli, insieme alle installazioni sonore di Alvin Curran e i progetti di Fabrizio Plessi e Giuseppe Penone, hanno segnato una nuova era di dialogo tra antico e contemporaneo. La ripresa delle visite guidate immersive in 3D, la riscoperta di una domus di età adrianea e le mostre fotografiche come quella di Letizia Battaglia, testimoniano l’impegno costante nella valorizzazione di questo storico complesso attraverso l’integrazione della cultura contemporanea. Photocredit:@FabioCaricchia @LeandroLentini

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Roma, Villa Medici: “Concerto: Opera for Peace”

gbopera - Sab, 06/04/2024 - 12:06

Roma, Villa Medici
CONCERTO:OPERA FOR PEACE
Venerdì 19 aprile
20:00
GRAND SALON
Sotto la sponsorizzazione principale della Banca Europea per gli Investimenti e in collaborazione con la Fondazione BNP Paribas e la Città di Parigi, l’Accademia Opera for Peace offre un’opportunità unica ad artisti di talento provenienti da Paesi come Cina, Corea del Sud, Giappone, Ucraina, Russia, Sudafrica, Stati Uniti, Kosovo e Francia di partecipare a lezioni di canto, conferenze, workshop e masterclass, guidati da rinomate icone della scena lirica internazionale. Questo evento segna l’incontro di una diversità di culture musicali e una celebrazione della bellezza universale dell’opera. Il programma presenta alcune delle arie, dei duetti e degli ensemble più famosi del repertorio – Puccini, Verdi, Rossini – e alcune sorprese meno conosciute. Nell’ambito dell’Accademia Opera for Peace 2024, da lunedì 15 a venerdì 19 aprile Villa Medici ospiterà quattordici artisti lirici emergenti per una serie di masterclass, lezioni di canto, conferenze e workshop. La collaborazione tra Villa Medici e Opera for Peace si basa su valori condivisi quali l’eccellenza artistica, la promozione dei giovani talenti e l’apertura al mondo. Opera For Peace è un’organizzazione no-profit che sviluppa carriere di alto livello per i più grandi talenti dei 6 continenti, che altrimenti non avrebbero queste opportunità. A loro volta, si impegnano a guidare e ispirare le nuove generazioni. Qui per tutte le informazioni.

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“Giorni Felici” di Samuel Beckett al Teatro Elfo-Puccini di Milano, fino al 21 aprile

gbopera - Sab, 06/04/2024 - 10:07

La nuova produzione del Teatro dell’Elfo, in prima nazionale, è “Giorni Felici” di Beckett, una delle pietre miliari della drammaturgia novecentesca, portata in scena dal solido duo del teatro milanese Francesco Frongia (alla regia) e Ferdinando Bruni (per scene e costumi), e intrpretato da una delle attrici simbolo dell’Elfo, Elena Russo Arman. Accanto a lei, cui tocca il ruolo monstrum di Winnie, troviamo Roberto Dibitonto, a sua volta alle prese col complesso ruolo di Willie, impegnato nel difficilissimo compito di punteggiare la loro vita incastrata in un deserto al confine del mondo. Due esseri solitari in un mondo che si sta estinguendo.
Per altre info, qui

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