A Verona La Cenerentola rossiniana torna per quattro recite sotto la direzione del maestro Francesco Lanzillotta, atteso ritorno sul podio di Orchestra di Fondazione Arena e Coro preparato da Roberto Gabbiani.
Angelina, la protagonista del titolo, è il mezzosoprano Maria Kataeva, al debutto al Filarmonico, mentre il Principe Don Ramiro è il tenore Pietro Adaini, già applaudito come esordiente proprio in questo ruolo otto anni fa. I buffi Dandini e Don Magnifico hanno voce e corpo rispettivamente del baritono Alessandro Luongo e del basso Carlo Lepore, mentre le sorellastre Clorinda e Tisbe sono interpretate dal soprano Daniela Cappiello e dal mezzosoprano Valeria Girardello,come l’Alidoro del bassoGabriele Sagona. L’opera è qui proposta nell’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino firmato da Manu Lalli, nato per il Giardino di Boboli e ripreso con successo anche al nuovo Teatro, con scene di Roberta Lazzeri e costumi di Gianna Poli. Dopo la prima di domenica 17 novembre alle 15.30 La Cenerentola replica mercoledì 20 novembre alle 19, venerdì 22 novembre alle 20 e domenica 24 novembre alle 15.30.
Biglietti, disponibili al link https://www.arena.it/it/teatro-filarmonico, alla Biglietteria dell’Arena e, due ore prima di ogni recita, alla Biglietteria stessa del Teatro Filarmonico in via Mutilati.
Roma, Teatro Sala Umberto
VORREI UNA VOCE
con le canzoni di Mina
ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto Il Teatro per Sognare di D’aRteventi
diretto da Daniela Ursino
disegno luci Luigi Biondi
costumi Aurora Damanti
regista assistente Alessandro Bandini
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione con Proxima Res
partner di produzione Gruppo Ospedaliero Moncucco
di e con Tindaro Granata
Roma, 12 novembre 2024
“E improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto.” MINA
“Vorrei una voce”, scritto e interpretato da Tindaro Granata, si configura come un’esperienza scenica di intensa delicatezza, dove la teatralità si fonde con il racconto umano per dare voce a chi vive ai margini. Lo spettacolo nasce dall’incontro dell’autore con le detenute-attrici del Teatro Piccolo Shakespeare, attivo nella Casa Circondariale di Messina, nell’ambito del progetto “Il Teatro per Sognare”, promosso da D’aRteventi sotto la direzione artistica di Daniela Ursino. In questo contesto, le canzoni di Mina si ergono a simbolo di un linguaggio universale capace di tradurre l’indicibile e di restituire frammenti di un’identità altrimenti sepolta. La produzione, affidata alla cura del LAC Lugano Arte e Cultura, in collaborazione con Proxima Res e sostenuta dal Gruppo Ospedaliero Moncucco, si avvale di un impianto scenico sobrio ma altamente evocativo. I costumi di Aurora Damanti delineano, con grazia sottile, un’umanità ricca di sfumature, mentre il disegno luci di Luigi Biondi modula spazi e stati d’animo, accompagnando lo spettatore in un viaggio emotivo che dal buio dell’isolamento conduce verso una tenue luminosità di speranza. Il lavoro di regia garantisce equilibrio tra la dimensione narrativa e quella visiva, permettendo al testo di fiorire in tutta la sua potenza comunicativa. La scelta drammaturgica di Granata, che utilizza il playback delle canzoni di Mina, si rivela una soluzione di rara forza espressiva. Le labbra che si muovono senza produrre suono amplificano il senso di una voce negata, spezzata dall’assenza di libertà. Ma al contempo, il canto che affiora da questa evocazione genera un cortocircuito emotivo, dove la musica diventa veicolo di resistenza, riscatto e trasformazione. Ogni nota sembra cucire, nel tessuto drammatico, le storie delle detenute, che emergono come tessere di un mosaico fatto di perdite, ricordi e sogni infranti. L’atmosfera scenica è un intreccio sapiente di malinconia e lirismo. Il palco spoglio, quasi ascetico, si trasforma in uno spazio immaginifico dove le luci e i movimenti di Granata costruiscono mondi invisibili, sospesi tra la memoria e il desiderio di un altrove. L’eco dell’ultimo concerto di Mina alla Bussola nel 1978, evocato nello spettacolo, non si limita a una rievocazione nostalgica, ma diventa simbolo di una femminilità perduta e ritrovata, un filo rosso che unisce le protagoniste delle storie al pubblico in un patto di comprensione e complicità. Granata, con un’interpretazione misurata e intensissima, si pone al centro di un rito collettivo di riconciliazione con l’umanità ferita. Non è solo narratore, ma diviene essenza incarnata di quelle voci, prestando loro il proprio corpo e la propria anima, restituendone la dignità con una sensibilità che sfiora il sublime poetico. Ogni gesto è ponderato, ogni pausa si carica di una tensione che sa sfidare il silenzio, ogni melodia s’insinua negli anfratti più profondi dell’animo dello spettatore, trasformando l’ascolto in un’esperienza viscerale. Con rara audacia, l’attore si spoglia delle convenzioni per raccontare di sé, delle proprie prigioni interiori. Granata non teme di rivelarsi carcerato e carcerata, un’identità molteplice e stratificata che si intreccia a quella delle vite narrate, trovando accoglienza e amore in un microcosmo parallelo, dove diviene, a sua volta, una donna tra le donne. È proprio in questa fusione che si compie la magia del teatro, quel luogo che consente di tradurre il dolore individuale in un canto universale, in cui il pubblico è chiamato a rispecchiarsi e a farsi partecipe. “Vorrei una voce” non è semplicemente un’opera teatrale, ma una vera e propria liturgia dell’umano, uno spettacolo che abbraccia chi assiste, trasportandolo in una dimensione altra, dove l’empatia si erge come strumento per scardinare le barriere del pregiudizio. E così che il suo protagonista, nel suo atto performativo, rinnova il senso più alto del teatro, rivelandone il potere catartico e sociale. È un canto sospeso nel tempo e nello spazio, un invito a volgere lo sguardo oltre le sbarre dell’esclusione, là dove, contro ogni aspettativa, si cela un frammento di bellezza inesprimibile.
Bergamo, Teatro Donizetti
FESTIVAL DONIZETTI OPERA
Toccano quota dieci le edizioni del festival Donizetti Opera – manifestazione di rilievo internazionale dedicata al compositore bergamasco e organizzata dalla Fondazione Teatro Donizetti presieduta da Giorgio Berta con la direzione generale di Massimo Boffelli, la direzione artistica di Francesco Micheli e quella musicale di Riccardo Frizza – che si svolgerà a Bergamo “Città di Gaetano Donizetti” dal 14 novembre al 1° dicembre 2024.
«È la decima edizione del Donizetti Opera – sottolinea il direttore artistico Francesco Micheli – il decimo anno in cui si lavora alla costruzione del monumento a questo artista la cui grandezza è ancora tutta da esplorare, un monumento di cui siamo fieri, e grati, di aver potuto costruire il primo tassello. Abbiamo cercato, da un lato, di risalire alla fonte dell’uomo e dell’artista, proponendo le sue opere, sia quelle più note che quelle che lo sono meno, in edizioni filologicamente ineccepibili e coerenti con la prassi esecutiva dell’epoca. Dall’altro, abbiamo voluto coniugare al presente la rivoluzionaria teatralità di Donizetti, convinti che nessun teatro sia contemporaneo, vitale e necessario come il suo. L’obiettivo è sempre lo stesso, oggi come dieci anni fa: divulgare l’opera di Donizetti, e diffondere il benefico contagio del nostro amore per lui a Bergamo, in Italia e nel mondo intero».
L’edizione 2024 del festival Donizetti Opera sarà quindi speciale e celebrativa, con i weekend che “cominciano” il giovedì. Sarà riproposta LU OpeRave (giovedì 14, giovedì 21 e venerdì 29 novembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/lu-operave-2/2024-11-14/), la nuova creazione 2023 ispirata alla più celebre delle opere donizettiane; per questa ripresa “con variazioni”, LU OpeRave sarà riallestita in un luogo diverso da quello del 2023, non specificatamente teatrale, aperto sempre alla convivialità e con uno sguardo verso la contemporaneità e l’innovazione. Al Teatro Donizetti andranno in scena due celebri capolavori di Gaetano Donizetti: “Roberto Devereux” (venerdì 15, sabato 23 e giovedì 28 novembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/roberto-devereux/2024-11-15/) con l’atteso debutto di Jessica Pratt nel Ruolo di Elisabetta I affiancata da John Osborn, Raffaella Lupinacci e Simone Piazzolla direzione di Riccardo Frizza e regia di Stephen Langridge e “Don Pasquale” (domenica 17, venerdì 22 e sabato 30 novembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/don-pasquale/2024-11-17/) con il ritorno a Bergamo di Javier Camarena al fianco di Roberto De Candia e dei giovani artisti della Bottega Donizetti, la direzione è affidata a Iván López Reynoso e la regia a Amélie Niemeyer. Andrà in scena al Teatro Sociale la versione “Roma 1824” di “Zoraida di Granata” (sabato 16 novembre, domenica 24 novembre, domenica 1° dicembre https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti-opera/zoraida-di-granata/2024-11-16/) per il ciclo #donizetti200 con le voci di Konu Kim, Zuzana Marková e Cecilia Molinari dirige l’orchestra Gli Originali – impegnata su strumenti d’epoca – Alberto Zanardi mentre la regia è di Bruno Ravella. Lo spettacolo è in coproduzione con il Wexford Festival Opera. Si tratta della prima ripresa moderna della versione del 1834 essendo andata in scena in Irlanda la precedente versione del 1822. E’ stata sottoscritta la firma di un accordo editoriale con la LIM – Libreria Musicale Italiana, una delle maggiori case editrici specializzate italiane, incentrato sulla valorizzazione delle iniziative di ricerca della sezione scientifica del festival. https://www.donizetti.org/it/festival-donizetti/donizetti-opera-2024/
“Difettosa” di Nagla Augelli
Un’autobiografia che parla di cicatrici, autonomia e tabù con l’ironia di chi non si prende mai troppo sul serio.
Il cuore che ride, anche quando il mondo inciampa. “Difettosa” di Nagla Augelli è il diario di una vita che si ribella al pietismo, un’autobiografia che trasforma ogni cicatrice in una risata sorniona e ogni ostacolo in un invito a ballare su un palcoscenico un po’ traballante. La copertina è già un manifesto di intenti: un cuore stilizzato, spezzato e ricucito. Senza promesse di redenzione epica o drammatismi hollywoodiani; un cuore che esiste, punto e basta, e ti guarda con l’aria di chi è passato attraverso l’inferno solo per scoprire che non era poi così caldo. Con lo stesso spirito, l’autrice racconta la sua vita con capitoli chirurgicamente precisi (ventuno operazioni, per chi ama la precisione) e avventure che sembrano uscite dalla penna di un regista con un debole per l’assurdo. “Difettosa” è ironico, diretto e a tratti spietato come quell’amico sincero che non ha paura di farti notare quando stai dicendo delle scemenze. Augelli narra senza veli e senza sconti: genitori che se ne vanno come comparse svogliate e un corpo che si diverte a demolire il concetto di “normalità“. Ma niente lacrime facili qui, per favore. L’abbandono genitoriale è trattato quasi come un favore inatteso (“Meno adulti inutili intorno, meglio si sta”) e le cicatrici diventano pezzi di un puzzle più interessante di qualsiasi figura patinata. Non c’è vittimismo, solo una cronaca di battaglie vinte o perse senza troppe cerimonie. La sessualità – il grande tabù della disabilità – è affrontata con la schiettezza di chi apre la porta e ti invita ad accomodarti, dicendoti però di lasciare fuori dalla soglia ogni tabù. Il desiderio, l’intimità, il bisogno di contatto: non sono mica spariti per magia, semplicemente sono ignorati dagli altri, il che è tutta un’altra faccenda. Augelli ne parla con la naturalezza che imbarazza chi è abituato a girare la testa dall’altra parte: è proprio questo imbarazzo che, nelle sue pagine, viene schernito con una risata liberatoria. L’autonomia non è la ricerca della perfezione, ma piuttosto una lotta grottesca contro un mondo pensato per tutti, tranne che per chiunque sia realmente diverso. Porte strette, leggi contorte scritte da burocrati in stato d’ebbrezza, e quegli sguardi pieni di una compassione paternalistica che ti fanno venire voglia di ridere. Qui non si cerca indulgenza, men che meno approvazione: si cerca la libertà, quella autentica, quella che si trova nel riuscire a ridere degli ostacoli quotidiani. Quanto al pietismo, è lasciato fuori scena. “Difettosa” è un atto di resistenza contro il vittimismo e contro quel paternalismo soffocante che vorrebbe farla diventare un’eroina a tutti i costi. L’autrice smonta pezzo per pezzo ogni tentativo di idealizzarla, e lo fa con un sarcasmo raffinato, mai gratuito, che colpisce dritto al bersaglio: non vuole essere speciale, vuole essere libera, e ogni battuta è un invito a smettere di costruire altari per le differenze invece di imparare a comprenderle davvero. C’è una forza intrinseca in ogni pagina di “Difettosa”, una forza che deriva dalla capacità dell’autrice di affrontare con coraggio e umorismo anche i momenti più difficili. Il libro è popolato da personaggi secondari che, pur restando sullo sfondo, contribuiscono a delineare il contesto in cui la protagonista vive e cresce. Ci sono amici fedeli, compagni di viaggio e figure che, con le loro contraddizioni, rappresentano un mondo spesso troppo impreparato ad accogliere la diversità. Ma più di tutto, c’è una protagonista che non si lascia definire dagli altri, che non accetta etichette preconfezionate e che, con una risata, manda all’aria ogni tentativo di incasellarla. Un altro aspetto affascinante di “Difettosa” è il modo in cui Augelli descrive la sua relazione con il corpo. Un corpo che non è mai stato docile, mai stato “normale” secondo i canoni imposti, ma che ha comunque imparato ad amare. La narrazione diventa qui quasi poetica, un inno all’accettazione di sé stessi al di là di qualsiasi limite imposto dalla società. C’è una bellezza in questa libertà, una bellezza che va oltre l’apparenza, che si radica nella verità di chi ha imparato a convivere con le proprie imperfezioni e a farne una forza. La sua scrittura è potente proprio perché non cerca di addolcire la realtà: ci sono momenti di sconforto, momenti in cui la sofferenza sembra prendere il sopravvento, ma c’è sempre, sullo sfondo, una luce, una speranza che non viene mai meno. Questo equilibrio tra la crudezza della realtà e la leggerezza dell’ironia è uno degli aspetti che rendono “Difettosa” un libro unico. Le barriere architettoniche diventano metafora di quelle mentali, e la lotta per l’accessibilità diventa una lotta per il riconoscimento del diritto di esistere e di partecipare. Ogni ostacolo fisico è un simbolo delle barriere invisibili che le persone con disabilità devono affrontare ogni giorno, e ogni superamento di questi ostacoli è un atto di resistenza contro una società che spesso preferisce ignorare ciò che non riesce a comprendere. Ma “Difettosa” non è un libro amaro: è un libro che, pur denunciando le ingiustizie, lo fa con un sorriso, con la consapevolezza che la risata è una delle armi più potenti contro l’assurdità del mondo. “Difettosa” è un invito a guardare oltre le apparenze, a capire che la diversità non è qualcosa da temere, ma una fonte di ricchezza. È un libro che ci insegna che la vera forza non sta nella perfezione, ma nella capacità di affrontare le proprie fragilità con coraggio e con un pizzico di ironia. Come quel cuore cucito sulla copertina, “Difettosa” non chiede di essere perfetto, chiede di essere vero. Ed è proprio questa autenticità a renderlo un libro bellissimo. Un libro che, una volta chiuso, lascia un segno, una traccia indelebile nel cuore di chi l’ha letto. La bellezza sta nell’imperfezione, che la forza sta nella vulnerabilità, e che, alla fine, quello che conta davvero è avere il coraggio di essere se stessi, senza vergogna. E questo è un messaggio di cui tutti , in fondo, abbiamo bisogno.
Giovedì 7 novembre, in occasione dei tre giorni dedicati ad un’importante personalità del Rinascimento italiano dal titolo «Redescubriendo a un genio: Luca Pacioli», si è tenuto un concerto memorabile per ricordare Giacomo Puccini nella ricorrenza dei cento anni dalla sua morte. Il grande evento, alla presenza di una delegazione ufficiale (sindaco, assessore alla cultura e bibliotecaria) della città natale di Pacioli, Sansepolcro (Ar) – organizzato dal Grupo Salinas, eccellenza nel campo imprenditoriale del Messico – per l’alto valore scientifico, culturale ed artistico (6-8 novembre: https://www.geniuspacioli.com/) è stato un’autentica celebrazione del genio italiano. Protagonista del concerto l’Orquesta Sinfónica del Instituto Superior de Música Esperanza Azteca sostenuta dal Grupo Salinas e concepita secondo il celeberrimo modello di El Sistema promosso da José Antonio Abreu, molto apprezzato e sostenuto in tutto il mondo, in primis da Claudio Abbado. Ascoltare quest’orchestra è stato un autentico caleidoscopio di emozioni e non poteva essere diversamente considerando i vari input ricevuti dalle significative collaborazioni con direttori e star internazionali come Valery Gergiev, Placido Domingo o Yo-Yo Ma, senza dimenticare che «Far parte dell’orchestra e Coro Esperanza Azteca permette ai bambini e ai giovani di immaginare un futuro migliore» (Ricardo B. Salinas Pliego). Il concerto sinfonico è stato diretto dal maestro italiano Salvatore Dell’Atti, presente anche in veste di musicologo con la relazione «Speculazioni artistico-musicali al tempo di Luca Pacioli». La sua lettura esegetica del programma musicale è stata definita dai media «interpretación magistral». Già dall’esecuzione dell’inno nazionale italiano (quello messicano diretto dal primo violino m. Julio Saldaña) si poteva percepire sia il solenne spirito di unità nazionale, coinvolgendo tutti gli italiani presenti nel canto, quanto lo spirito di amicizia che unisce i due popoli. Il programma, dalla significativa correspondence libretto – musica lasciava trapelare l’intenzione del direttore a non tradire la dimensione lirica delle composizioni con realismo drammaturgico tanto da poter ascoltare agevolmente le struggenti melodie di A sera e Crisantemi, i cui temi vengono in seguito utilizzati rispettivamente nel Preludio dell’Atto III di Wally e nell’ultimo atto di Manon Lescaut. Si è trattato di una full immersion di sentimenti, valori e passioni di un’umanità sempre più desiderosa di incanto che, in questo contesto ‘matematico’ e di proporzioni, come ha sottolineato il maestro Dell’Atti, i giovani dell’orchestra rappresentavano i tanti numeri capaci di generare armonia e bellezza. Il programma lasciava subito intendere il fil rouge che gravitava intorno alla figura di Puccini e i tre intermezzi in programma, secondo il direttore italiano, «più che brani sinfonici posti tra atti diversi di un’opera, vanno percepiti non disgiunti per il loro descrittivismo verista e per un’ispirazione melodica tipicamente italiana». Alla dolcezza, unitamente al carattere energico e struggente, del primo brano di Mascagni (si segnala l’incisivo ’canto dell’oboe’ e la dolcezza dell’arpa) è seguito l’Andante mesto di Catalani A sera con il suono smorzato (in sordina) dei soli archi e nell’interpretazione del maestro italiano hanno restituito un’autentica pace interiore. L’Andante cantabile di Giordano è stato un avvicinarsi allo stile più pucciniano in cui tutta l’orchestra, nella divisione dei compiti tra archi e fiati, ha saputo restituire il giusto lirismo e i caldi colori della partitura. A concludere il programma due celeberrime composizioni di Puccini. Con Crisantemi (Andante mesto), composto in una notte del 1890 «Alla memoria di Amedeo di Savoia Duca d’Aosta», si è percepita l’inquieta ricerca del mistero della morte nella stessa spasmodica interpretazione delle reiterate indicazioni dell’ampio ventaglio di variazioni agogiche. L’orchestra è riuscita ad offrire allo stesso tempo un’intensa fusione del colore unitamente ad una vivida chiarezza nel fraseggio. Con il celeberrimo intermezzo tratto da Manon è stato un crescendo di emozioni: se all’inizio i soli del violoncello, viola e violino (con chiara e bella espressività) sembravano ricercare il doloroso ‘canto’ di Des Grieux nel disperato tentativo di ottenere la libertà della donna amata, le melodie struggenti – così come i contrasti di colore provenienti dalle diverse sezioni dell’orchestra – hanno reso un risultato di grande pathos in cui il suono ed il fraseggio impeccabile dell’orchestra erano sempre in simbiosi con quelli del direttore, un musicista che, nel servizio incondizionato alla partitura, ha sempre valorizzato il respiro della melodia, la ricchezza del colore ed il talento dei musicisti messicani. Grande successo per tutti conclusosi con molti applausi ed un graditissimo omaggio al maestro Dell’Atti (autentico dono agli italiani presenti e al nostro Paese) con Danzón n. 2, brano del compositore messicano Arturo Márquez (1950-) diretto dal maestro Saldaña. Ancora una volta si è voluto così sottolineare l’apprezzamento della cultura italiana, per molti aspetti unica nel panorama mondiale.
Valletta (Malta), Valletta Early Opera Festival 2024
“IL RE PASTORE”
Dramma per musica in due atti di Pietro Metastasio.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Aminta FEDERICO FIORIO
Elisa CATHERINE TROTTMAN
Alessandro NICO DARMANIN
Agenore RAFFAELE GIORDANI
Tamiri CLAIRE DEBONO
Orchestra Arianna Art Ensemble
Direttore Giulio Prandi
Regia Tommaso Franchin
Scene Fabio Carpene
Costumi Giovanna Fiorentini
Nuova produzione Festivals Malta in collaborazione col Teatro Manoel
Valletta, 8 novembre 2024
Da anni Valletta si propone come la capitale europea della musica barocca, proponendo un festival musicale e produzioni d’opera di alto livello – grazie al lavoro instancabile di un team organizzativo giovane guidato dall’esperto direttore artistico Kenneth Zammit Tabona. Questo novembre ha visto un’anticipazione del Festival 2025 con la produzione de “Il re pastore” di Mozart, ideale prosecuzione di una trilogia sul giovane salisburghese, iniziata l’anno passato con “Apollo et Hyacinthus” e che si concluderà l’anno prossimo con un titolo ancora non reso noto. La scelta è molto felice, poiché la breve opera si adatta perfettamente sia all’atmosfera del Teatro Manoel (un gioiellino barocco, una bomboniera in toni di verde nel cuore di Valletta), sia alla misura ridotta del suo golfo mistico. Inoltre la compagnia cantante è di livello decisamente alto, guidata dai talenti adamantini dei due protagonisti: Federico Fiorio (Aminta) è un apprezzato controtenore sopranista grazie al suo colore nitidissimo, il fraseggio ben cesellato sulla linea di canto, la presenza bella e morigerata; la misura è senz’altro la sua cifra, e infatti troviamo che gli si addicano i momenti più patetici, come “L’amerò, sarò costante”, sebbene anche nelle prove di coloratura sappia destreggiarsi con maestria; accanto a lui la francese Catherine Trottman risplende come Elisa: il timbro è tondo, il colore smaltato, le agilità perfettamente integrate alla sicura linea di canto; la sua “Barbaro! O Dio mi vedi” è giustamente a lungo applaudita, soprattutto per la capacità della Trottman di conferire calore ed espressività anche ai momenti più virtuosistici. Accanto a questi due troviamo due apprezzatissimi talenti locali: il tenore Nico Darmanin è un Alessandro padrone sia della scena (forse anche un filo sopra le righe) che della tessitura, con una certa facilità all’acuto e piacevoli portamenti – la sua impostazione sembra trasportarci già in atmosfere belcantistiche, che, trattandosi di Mozart, potrebbero non essere del tutto fuori luogo; la soprano Claire Debono è una Tamiri molto coinvolta scenicamente e dal colore caldo e vellutato – peccato per una certa debolezza nei centri. Conclude questo novero Raffaele Giordani (Agenore), cantore esperto in canto rinascimentale e primo barocco, dall’emissione naturalissima (praticamente mai immascherata), il suono ricco, la timbratura efficace: rimaniamo scettici sull’aderenza al repertorio mozartiano, ma comunque la sua si profila come una performance innegabilmente apprezzabile, per quanto tecnicamente differente da quelle dei suoi colleghi. La direzione d’orchestra di Giulio Prandi si mantiene nell’alveo di un’aurea mediocritas: tempi, agogiche e dinamiche sono corrette, la coesione con la scena costante. È l’apparato creativo di questa produzione a destare le maggiori perplessità: la scena di Fabio Carpene è minimale, ma presenta una bella fusione tra algore contemporaneo (il fondo bianco illuminato dal basso, le pecore trasformate in mazzi di palloncini bianchi, le sfere bianche usate come punti d’appoggio) e tradizione, usando alcuni antichi fondali dipinti presenti nel tesoro del teatro; parimenti, il progetto luci è senz’altro ben pensato nel valorizzare gli stati d’animo dei personaggi. I tasti dolenti sono la regia e i costumi, operanti verso una diminutio francamente disorientante: la regia di Tommaso Franchin ignora totalmente il libretto e il suo portato politico e socio-culturale, facendo di Aminta ed Elisa due bon sauvage tristemente vicini agli idiot savant, di Alessandro una specie di bullo buono, poco savant e molto idiot, di Agenore e Tamiri non si occupa neppure (e per fortuna che gli interpreti sono in grado di dare delle caratterizzazioni convincenti per quanto convenzionali). I costumi di Giovanna Fiorentini seguono a ruota: Aminta sembra un clown, con una vistosa parrucca ricciuta e e una salopette multicolore, Elisa una sorta di elfo punk, Alessandro un teddy boy in pelle nera e ciuffo selvaggio, Agenore un nerd in tuta da operaio, Tamiri ancora non abbiamo capito cosa (letteralmente vestita a caso con una parrucca di dreadlocks). In generale tutti si comportano come affetti da qualche forma di ritardo cognitivo o della crescita, imitando i bambini e gli adolescenti, giocando e baciandosi tutto il tempo, anche senza un’apparente ragione, e in generale cercando un effetto grottesco o buffonesco (come la carriola guidata da Aminta o i pantaloni troppi corti di Agenore) che non riesce mai autenticamente divertente, quanto semplicemente degradante. Pensiamo che Mozart, specialmente cantato da un simile cast, meritasse di meglio – sebbene il (non molto) pubblico abbia mostrato di gradire, per la soddisfazione di tutti, o quasi. Foto Elisa Von Brockdorff
mich genommen hat. Und man hat mich nie in der Welt für etwas anderes genommen als was ich bin” era davvero uno di quei dettagli interpretativi che si ricorderanno a lungo. Eccellenti erano anche la raffigurazioni sceniche e vocali di Claudia Mahnke, che ha interpretato la Contessa Geschwitz con una bella intensità di fraseggio e una notevole flessibilità nel seguire una scrittura vocale assai impegnativa, del baritono inglese Simon Neal che nel doppio ruolo del Dr.Schon e di Jack the Ripper ha messo in mostra una voce di timbro chiaro e buona proiezione, del tenore americano AJ Glueckert, che ha interpretato un appassionato e ardente Alwa, e di Alfred Reiter come Schigolch. Successo vibrante per tutti gli interpreti di una rappresentazione che sicuramente si colloca fra i migliori spettacoli della stagione in corso e che conferma il ruolo di punta raggiunto dall’ Oper Frankfurt, attualmente senza dubbio il migliore tra i teatri lirici tedeschi. Foto: Barbara Aumüller
Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2023/24
“DAS RHEINGOLD”
Prologo in un atto su libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
Wotan MICHAEL VOLLE
Donner ANDRÈ SCHUEN
Froh SIYABONGA MAQUNGO
Loge NORBERT ERNST
Alberich ÓLAFUR SIGURDASON
Mime WOLFGANG ABLINGER-SPERRHACKE
Fasolt JONGMIN PARK
Fafner AIN ANGER
Fricka OKKA VON DER DAMERAU
Freia OLGA BESZMERTNA
Erda CHRISTA MAYER
Woglinde ANDREA CARROLL
Wellgunde SVETLINA STOYANOVA
Flosshilde VIRGINIE VERREZ
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Alexander Soddy
Regia David McVicar
Scene David McVicar e Hannah Postethwaite
Costumi Emma Kingsbury
Luci David Finn
Coreografie Gareth Mole
Video Katy Tucker
Milano, 10 novembre 2024
Un nuovo Ring è sempre un evento e il nuovo ciclo scaligero partito con spolvero di nomi altisonanti si è subito scontrato con la perdita di quella che doveva essere l’anima del progetto ovvero Christian Thielemann, costretto a rinunciare per motivi di salute. Una perdita molto pesante cui il teatro ha però saputo rispondere con prontezza dividendo le recite tra Simone Young cui è stata affidata la prima e le recite seguenti e Alexander Soddy, direttore inglese in forte ascesa cui sono state destinate le recite successive. Abbiamo ascoltato lo spettacolo con la direzione di Soddy e ne siamo stati pienamente convinti. Il direttore inglese è ancora giovane ma possiede una solidissima formazione alle spalle comprendente prove wagneriane su palcoscenici del peso di Vienna, Londra e Berlino fornisce una lettura di grande coerenza formale. Soddy opta per un suono ricco, morbido, avvolgente, di grande suggestione che trova nei momenti più luminosi il terreno ideale ma è capace di dare giusto rilievo anche ai momenti più drammatici – nella scena dei giganti ci sono lamine sonore che entrano nella pelle. In Soddy si apprezza una cura estrema per i dettagli, una capacità di evidenziare e valorizzare i singoli leitmotiv mantenendo sempre una rigorosa costruzione unitaria. Il debutto è stato certo molto positivo, si attende con interesse il prosieguo della Tetralogia. David McVicar firma uno spettacolo molto stratificato, apparentemente trasparente ma ricco di simboli e di rimandi. Il regista scozzese rinuncia ad attualizzazioni e forzature, non cerca abissi psicanalitici e per una volta assistiamo a un Ring forse non tradizionale ma che a quell’immaginario rimanda rileggendolo con gli occhi della fiaba e del fantasy (che in fondo proprio dal Ring trae le sue prime mosse).Il racconto è lineare, le scene hanno un sapore incantato – le grandi mani lapidee avvolte da una luce azzurra e acquatica sui cui giocano le Figlie del Reno, la semplice scalinata della Valhalla che le luci trasformano quasi in un corpo vivo ma in queste strutture semplici McVicar deposita stratificazioni di simboli e di rimandi lasciando allo spettatore il gioco di coglierli. La tradizionale estetica nibelungica è qui sostituita da richiami al teatro barocco, come se l’idea stessa di opera d’arte totale riportasse alla nascita stessa dell’opera. Gli abiti delle divinità richiamano quelli della storica trilogia monteverdiana di Ponnelle e la natura sessualmente ambigua, spesso ermafroditica, delle divinità norrene porta il regista a giocare sul tema. Esemplare la figura di Loge tenore in abiti femminili, essere sfuggente a ogni classificazione anche sessuale ma al contempo richiamo ai tenori en travesti cui il teatro barocco affidava spesso ruolo di subdole consigliere. Una sorta di Loge-Arnalta in cui il gioco dell’ambiguità e i richiami meta-teatrali si fondono in modo inscindibile. Molto bello il quadro di Nibelheim. Il rifiuto dell’Amore ha creato un mondo morto e quello che Alberich può creare è solo una falsa illusione di morte vivente. L’oro ha creato un gigantesco teschio-forno che divora tutto ciò che viene prodotto e le trasformazioni di Alberich altro non sono che scheletri in cui una falsa magia evoca fittiziamente la vita. Ancora un riferimento a Ponnelle si riconosce nei servi muti che non muovono gli oggetti di scena ma ne diventano essi stessi parte come il danzatore chiamato a impersonare l’Oro, figura immateriale coperta da una maschera aurea che ricorda le linee di Brancusi che nell’ultima scena ritornerà ingigantita in una sorta di sarcofago in cui va celata la figura di Freia mentre il danzatore ricompare con il volto coperto di sangue dove la maschera è stata strappata. Spettacolo quindi molto più ricco di quanto appaia di primo acchito cui si può forse imputare solo un lavoro attoriale un po’ generico. Nel cast emerge il Wotan vocalmente e scenicamente autorevole di Michael Volle. Voce ampia, possente, ricchissima di armonici, dal colore scuro e già da subito come venato di sentori tragici. Interprete di qualità superiore scava il fraseggio in ogni piega in un gioco di accenti e inflessioni perfettamente riuscito. Vocalmente sontuoso il Donner di Andrè Schuen capace di far brillare un ruolo in fondo secondario, Siyabonga Maqungo è un Froh dal timbro radioso e dal canto morbidissimo, elegante e facile sugli acuti. Interprete sensibile ma vocalmente un po’ spento il Loge di Norbert Ernst, sono comunque parse eccessive le contestazioni di cui è stato fatto oggetto. Voce un po’ chiara ma ampia e sonora e interpretazione nobilmente misurata per la Fricka di Okka von der Damerau mentre la Freia di Olga Bezsmertna sfoggia un timbro morbido e sensuale che ben si addice alla Dea dell’amore unito a una linea di grande musicalità. L’Erda di Christa Mayer manca forse di volume sui gravi ma la voce è molto bella e il canto ha un’intensità morbida e quasi materna non scevra di una sensualità che giustifica le preoccupazioni di Fricka. Di grande rilievo l’Alberich di Ólafur Sigurdarson. Voce di notevole ampiezza, robusta e ben controllata e interprete efficacie, di una malvagità meno plateale ma più sfumata e insidiosa. Ottimo il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke voce duttile e puntuale, perfettamente piegata al ruolo. Tra i giganti bene il Fasot di Jongmin Park voce ampia e morbida, ricca di armonici e dal canto rifinito mentre Ain Anger (Fafner) è sicuramente efficacie come interprete ma è aspro e faticoso nel canto. La Figlie del Reno cantano in modo squisito e con tutta la freschezza richiesta. Foto Brescia & Amisano
Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Constantinos Carydis
Violino Karen Gomyo
Periklis Koukos (1960): Adagio per orchestra d’archi (1993); Leonard Bernstein: Serenade per violino, orchestra d’archi, arpa e percussioni dal Symposium di Platone; Charles Ives Hymn: Largo cantabile. S 84/1; Robert Schumann: Sinfonia n.3 in MI bemolle Maggiore op.97. “Renana”.
Torino, 8 novembre 2024.
La locandina annunciava una serata difficile, poco noti, ad essere ottimisti, gli esecutori ed altrettanto, ad eccezione della Renana di Schumann, i pezzi. Quando poi vuol andare storta ci si mette anche lo sciopero dei mezzi pubblici e la sala semi-vuota è ineluttabile. Tutti, ma tanti, una quarantina, gli archi sul palco per l’ineffabile Adagio di Periklis Koukos. Parrebbe questi essere un autore assai prolifico, da noi comunque non praticato e quindi sconosciuto. Purtroppo, i 5 minuti dell’Adagio non si mostrano sufficienti a promuoverne la fama. Direttore greco, autore greco, forse l’incontro era inevitabile. Tutto soffuso e tutto sfumato, piacevole e in conclusione: garbata musica d’altri tempi. Con sempre in formazione la quarantina di archi addizionati di due arpe e cinque postazioni di percussioni: batteria, campane, piatti, timpani e vibrafono; è l’insolita formazione che Leonard Bernstein, nel 1954, vuole per la sua Serenade per violino. Il pezzo è sostanzialmente un concerto per violino e orchestra d’archi in cinque tempi. La fantasia di Bernstein e i suoi “marchi”, echi delle opere passate e di quelle future, sono ben individuabili, compresi gli onnipresenti temi della West Side Story che verrà. L’atmosfera è quella “radical chic”, così fu definita da Tom Wolfe, creata dall’assembramento, soprattutto gayo, che si coagulava, in estate, su un’isola di Bernstein, nel Massachusetts, di fronte all’Atlantico. Il Simposio di Platone, e che altro poteva essere, era l’oggetto degli scambi di dottissime e amorose considerazioni tra i convenuti. Bernstein ne fa l’assai forzata trama della sua Serenata. Cinque protagonisti del dialogo platonico, vengono trasferiti nei titoli dei tempi della musica. L’atmosfera che si crea è serena, tranquilla e amorevole, gli archi vi sottolineano, con tranquilla passione, la partecipazione psicologica dell’autore con l’inevitabile coinvolgimento del pubblico. Il violino, un ignoto di nome e di data Stradivari, sotto le portentose dita dell’elegantissima ed affascinante Karem Gomyo, sostiene e riassume, con inaudito virtuosismo, lo spirito dell’opera. Le percussioni, che mai si sono udite così discrete in una composizione novecentesca, rafforzano la sensazione di scambi lontani nel tempo e nello spazio. Nell’adagio Agathon, quarto movimento, c’è poi una formidabile cadenza che, con il violino solista, ha fatto ammirare il meraviglioso timbro e la stupenda cavata di Luca Magariello, primo violoncello dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. L’esecuzione ha suscitato un’unanime approvazione, intensificata all’indirizzo della solista che, per i ripetuti battimani, ha concesso come fuori programma due languidi e appassionati Tanghi di Astor Piazzolla, sua specialità e opportuna promozione di un suo recente CD.
Dopo l’intervallo, l’orchestra si ricostituisce nei suoi ranghi completi e attacca i 3 minuti, ancora per soli archi, di Hymn di Charles Ives. Il pezzo è la citazione elaborata di due canti della chiesa presbiteriana, un tocca e fuggi cui, con grande sorpresa del pubblico, Carydis fa immediatamente seguire, senza pausa, le fanfare iniziali della Renana di Schumann. Non è chiara la ragione di questa scelta direttoriale, tanto valeva quindi, in qualche modo, anticiparla al pubblico. Visto che, tra gli sprovveduti in sala, si è naturalmente portati a credere che tra Ives e Schumann le affinità stilistiche e psicologiche scarseggino. La sinfonia, nelle mani del direttore greco, appare assolutamente scombinata, istintiva e impulsiva, carica comunque di gran fascino. Timbri e ritmi dominano, esaltando così le grandissime qualità dell’OSNRAI e dei suoi solisti, in specie legni e ottoni che rifulgono in tutta la loro chiara evidenza. Carydis su questo spirito istintivo fonda la sua interpretazione, così intenzionalmente dimentica e trascura come, nelle sinfonie del romantico Schumann, la “forma”, la logica, le simmetrie e le polifonie abbiano una fondamentale consistenza costruttiva. Pare che il direttore tenga, come unica traccia del lavoro, gli intemperati disorientamenti mentali di cui l’autore era vittima. A noi, che non la riteniamo una strada del tutto errata ma innovativa, suscita comunque un grande fascino. Il giudizio su Carydis deve necessariamente essere cautelativo, una sola serata e un solo Schumann non bastano a fissare un’opinione. Ci vorrebbero, a conferma dell’immediato innegabile fascino, delle riprove. Il pubblico, che pur si è mostrato non completamente convinto dalla validità di quanto ascoltato, non si è sottratto dall’applaudire. Foto Sergio Bertani
Roma, Galleria Borghese
POESIA E PITTURA NEL SEICENTO. GIOVAN BATTISTA MARINO E LA MERAVIGLIOSA PASSIONE
Con Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione la mostra in programma dal 19 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, la Galleria Borghese esplora con un progetto inedito le connessioni tra poesia e pittura, sacro e profano, letteratura, arte e potere nel primo Seicento. Seguendo la traccia offerta dai testi di Giovan Battista Marino (1569-1625), la mostra disegna un percorso attraverso la grande arte rinascimentale e barocca, da Tiziano a Tintoretto, da Correggio ai Carracci, da Rubens a Poussin, celebrando il più grande poeta italiano del Seicento e la sua “meravigliosa” passione per la pittura. A cura di Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza, l’esposizione si concentra sulla stagione d’oro del Barocco in pittura e in letteratura, un periodo durante il quale il rapporto tra le due arti trova forse l’espressione più alta nella vita e nelle opere del poeta. Noto per il suo poema Adone (1623), incentrato sulla storia d’amore tra Adone e Venere, Giovan Battista Marino è infatti autore anche de La Galeria (1619), una raccolta di 624 componimenti poetici dedicati ad altrettante opere d’arte divise tra Pitture e Sculture, Favole e Historie, realizzata con un gioco di rispecchiamenti e di continua sfida espressiva tra testi poetici e opere d’arte, reali o immaginarie. La vita e la produzione letteraria di Giovan Battista Marino sono strettamente legate ai maestri e ai capolavori dell’arte figurativa di primo Seicento, con i quali entra in contatto nei circoli intellettuali e nelle corti più importanti dell’epoca, quella di Matteo di Capua a Napoli, di papa Clemente VIII Aldobrandini a Roma, di Giovan Carlo Doria e Giovan Vincenzo Imperiali a Genova, di Carlo Emanuele I a Torino; in questi ambienti, al cospetto di ricche collezioni, il poeta stringe rapporti diretti con artisti come il Cavalier d’Arpino, Bernardo Castello, Caravaggio, Agostino Carracci, Ludovico Cigoli e Palma il Giovane. Nel 1615, perseguitato dall’Inquisizione, Giovan Battista Marino è costretto a lasciare l’Italia trovando rifugio a Parigi, alla corte di Luigi XIII e Maria de’ Medici, dove rimane fino al 1623: lì conosce Nicolas Poussin, per il quale scrive una sorta di lettera di presentazione che l’artista avrebbe portato con sé al suo arrivo a Roma. Con questo passaggio simbolico l’ultima fase della parabola del poeta si lega al decisivo approdo romano del grande pittore francese. Con la sua collezione unica di capolavori iniziata dal cardinale Scipione Borghese nei primi decenni del Seicento, la cura delle opere e l’allestimento scenografico prettamente barocco, la Galleria Borghese rappresenta il contesto ideale per rileggere la figura di Giovan Battista Marino poeta e il suo rapporto con le arti figurative, e di come nel Seicento queste ultime abbiano cominciato a influenzarsi vicendevolmente con la produzione letteraria. Con Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione la Galleria Borghese invita il pubblico a esplorare l’affascinante intreccio di parole e immagini che ammaliò Giovan Battista Marino, portando a riscoprire l’eredità seminale di un letterato che ha saputo intrecciare la bellezza della poesia e la seduzione dell’arte figurativa.
Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2024/25
“LO ZOO DI VETRO”
di Tennessee Williams
Tom Wingfield FRANCESCO SFERRAZZA PAPA
Amanda Wingfield VALENTINA BARTOLO
Laura Wingfield ZOE SOLFERINO
Jim O’Connor LUCA CARBONE
Regia Luigi Siracusa
Scene e Costumi Francesco Esposito
Luci Pasquale Mari
Musiche Laurence Mazzoni
Produzione Teatro Franco Parenti/ Compagnia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”
Milano, 02 novembre 2024
Dall’anno passato il teatro “Franco Parenti” di Milano ha iniziato un focus sui principali testi di Tennessee Williams, e quest’anno ha deciso – dopo alcuni atti unici, in parte inediti – di produrre “Lo zoo di vetro”, uno dei più celebri testi del drammaturgo americano, oltre che quello che gli diede popolarità per la prima volta nel lontano 1944. Si tratta di un testo profondamente radicato nel suo contesto e metatesto, a causa soprattutto della conclamata radice autobiografica, e per questa ragione entriamo in sala pensando di sapere cosa aspettarci. Il primo merito di questa produzione è quello, invece, di offrirci una messa in scena davvero innovativa rispetto alla tradizione: una scena gelida e del tutto vuota, circondata da velluti blu e dominata unicamente da uno schermo in plexiglass con una citazione tratta dal testo stesso che non viene mai spostata; di primo acchito ci aspetteremmo una pièce attuale o qualcosa di sperimentale o postdrammatico, invece no – ed ecco la seconda sorpresa: tutto lo spettacolo si svolge esattamente in quello spazio con pochissimi impercettibili cambi – una tenda che si apre, una luce su una parete che simboleggia il padre fuggito – e, cosa più importante, funziona, da ogni punto di vista, estetico e drammaturgico. La scommessa di Luigi Siracusa di ridurre tutto alle dinamiche tra personaggi, azzerando il contesto del malconcio appartamento degli Wingfield, può dirsi ampiamente vinta: pur non essendoci, noi vediamo la cena, il divano, la scala, il telefono, grazie al preciso e instancabile coinvolgimento dei quattro interpreti; forse l’unico aspetto su cui si sarebbe potuto lavorare di più sono i costumi di Tom e Amanda (entrambi un po’ fuori contesto), mentre perfetti sono gli abiti di Laura, oltre che la sua postura, la sua camminata, l’espressione atona del viso, la voce sospesa tra l’infantile e il sognante – complimenti a Zoe Solferino, l’interprete senz’altro più apprezzata della recita. Anche la scelta di Valentina Bartolo come Amanda è senz’altro disorientante all’inizio, poiché siamo abituati a un’Amanda vecchia signora del Sud, coi suoi vezzi e i suoi manierismi, mentre la Bartolo è una donna bella e schietta, così disinvolta nella sua fisicità; eppure con l’andar del tempo la vediamo, Amanda Wingfield, emergere nitida e nuova, ma sempre lei, e ci accorgiamo che un grande personaggio non ha bisogno di tutto il bagaglio di mossettine e toni rétro che immaginiamo: questa Amanda è viscerale, disperata, e nasconde la tragedia di tutta la sua vita proprio dietro l’ostentata eleganza di un completo pantalone e di una audace chioma biondo fragola – non siamo più sicuri, adesso, di rivolere la petulante creatura menopausale di un tempo. Le interpretazioni maschili, ancorché molto efficaci, si muovono su un binario assolutamente più tradizionale: Luca Carbone è un Jim O’Connor da copione, stolido e di buon cuore, incapace di prevedere la tempesta in cui si sta gettando – e qui, probabilmente, si sarebbe potuto produrre una resa più a 360° del personaggio: egli davvero non sa di piacere a Laura? Davvero non sa cosa significhi il loro bacio? Mentre Francesco Sferrazza Papa è un Tom accoratissimo, di grande asciuttezza e misura – riduce al minimo l’isteria del giovane turbolento, senza per questo risultare poco credibile, anzi: incarna probabilmente il vero Tennessee Williams (il cui vero nome era proprio Thomas), che pagò il manicomio alla sorella tutta la vita senza andare a trovarla praticamente mai, incapace di gestire quel buco nero emotivo che ha risucchiato la sua sfera dei sentimenti, e per il quale si gettò a capofitto in un altro buco nero, quello della bottiglia. Sferrazza Papa è bello il giusto, bravo il giusto, non versa una lacrima per la sorella, né si abbandona a melancolie d’antan quando incarna la voce narrante. Questi quattro personaggi si muovono come fantasmi bergmaniani sulla scena algida di Francesco Esposito, ma vengono incorniciati alla perfezione soprattutto dalle luci di Pasquale Mari, il cui freddo artico inizia a scaldarsi durante il dialogo di Jim e Laura, per esplodere in un prisma multicolore proprio sul finale, a circondare una Laura ormai non più reale, ma essa stessa creatura vitrea nel ricordo del fratello (e proprio “Portrait of a young girl in glass” è il titolo del suo racconto da cui Williams trasse il dramma). Non c’è presente in cui Tom sia in grado di vivere, ma come un Leopardi della Rust Belt riesce ad emozionarsi per l’affetto della sorella solo dopo averla perduta – senza intento morale, senza catechesi sociologica, la volontà del dramma è solo portare a galla, nudo, il dolore inaffrontabile di una paralisi che sfocia nella colpa, di un abbandono che tuttavia, se trascolorato nel ricordo, potrebbe fare meno male. Condizionale d’obbligo. Foto Manuela Giusto
Seconda, ed ultima, Cantata per la ventiquattresima Domenica dopo la Trinità è Ach wie flüchtig, ach wie nichtig BWV 26 eseguita la prima volta a Lipsia il 19 novembre 1724. Il testo dell’Inno originale di tredici strofe, del 1652 di Michael Franck (1609-1667) risulta qui sensibilmente condensato. Nel primo recitativo (Nr.3), ad esempio, racchiude il contenuto delle strofe dal 3 al 9. Il concetto dominante espresso nella Cantata è ancora quello della morte e della caducità delle cose umane. Bach ancora una volta si destreggia abilmente nella rappresentazione di questo pensiero mediante un “cursus” rapido e fluidissimo all’apparato vocale e strumentale già nel Coro iniziale (Nr.1) e ancor più nella prima aria tripartita (Nr.2) cantata dal tenore, con due strumenti concertanti, un flauto traverso e un violino impegnati in una autentica gara di destrezza e virtuosismo con il tenore impegnato in agili vocalizzi su parole chiave come “rapidi” e “le ore fuggono”. Troviamo poi 3 oboi (già presenti nel coro iniziale) che caratterizzano l’aria del basso (Nr.4) in tempo di “bourrée” quasi una inquietante “danza della morte” nella quale si condanna questo mondo insensato compiuta con il concorso dell’allucinante simbologia che la cultura medievale aveva ideato per rendere più cupo e perverso il senso della morte. Capovolgendo i termini di questo dramma della morte, Bach ci consegna invece un ritratto in “stile galante”, quasi riconoscendo in essa, nella morte, i connotati della dolcezza.
Nr.1 – Coro
Ah, quanto fugace, quanto effimera
è la vita umana!
Come una nebbia che subito si alza
e altrettanto subito svanisce,
così, guardate, è la nostra vita!
Nr.2 – Aria (Tenore)
Tanto rapidi come i getti di una cascata,
così fluiscono i giorni della nostra vita.
Il tempo passa, le ore fuggono,
come gocce di pioggia che presto si disperdono
quando precipitano nell’abisso.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
La gioia si trasforma in tristezza,
la bellezza appassisce come un fiore,
la più grande forza si indebolisce,
la fortuna cambia col passare del tempo,
onore e gloria finiscono presto,
la scienza e tutte le creazioni dell’uomo
scompaiono infine nella tomba.
Nr.4 – Aria (Basso)
Attaccare il proprio cuore ai beni terreni
è una tentazione di questo mondo insensato.
Come presto si infiammano i tizzoni ardenti,
come fluiscono via le acque impetuose,
così tutte le cose si distruggono e vanno in rovina.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Alta magnificenza e splendore
sono infine oscurate dalla notte della morte.
Chi è venerato come un dio
non sfugge alla polvere e alla cenere,
e quando suona l’ultima ora
in cui viene sepolto nella terra
e crollano le fondamenta della sua grandezza,
il suo ricordo sarà completamente cancellato.
Nr.6 – Corale
Ah, quanto fugaci, quanto effimere
sono le cose umane!
Tutto, tutto ciò che vediamo
dovrà cadere e scomparire.
Ma chi teme Dio vivrà in eterno.
Traduzione di Emanuele Antonacci
Pompei, Parco Archeologico
Il DNA svela le origini e i legami delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, ribaltando vecchie convinzioni e rivelando una Pompei multietnica e cosmopolita
L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. non ha soltanto lasciato un’impronta indelebile sulla storia del mondo antico, ma ha anche congelato un istante di vita, tragico e toccante, che le generazioni successive hanno cercato di decifrare. Grazie a studi innovativi, come quello recentemente pubblicato su Current Biology, stiamo riscoprendo non solo le vite degli abitanti di Pompei, ma anche la complessità delle loro identità e dei legami che un tempo sembravano evidenti, ma che ora si rivelano molto più sfumati e complessi. Ogni elemento della storia è un segno, un codice che richiede una nuova interpretazione alla luce dei dati scientifici più recenti. Il nuovo studio, frutto della collaborazione tra le università di Harvard, Firenze e altri istituti europei e statunitensi, ha analizzato il DNA delle ossa ritrovate all’interno dei celebri calchi delle vittime pompeiane. I calchi, a lungo intesi come simboli pietrificati di una tragedia umana, si rivelano ora essere non solo contenitori di resti fisici, ma anche scrigni di informazioni capaci di sovvertire narrazioni consolidate. Non più semplici immagini romantiche del passato, i calchi ci spingono verso una lettura più ricca e stratificata. I calchi delle vittime non sono corpi pietrificati, come spesso si crede, ma rappresentazioni ottenute versando gesso nelle cavità lasciate dai corpi nello strato di pomici e cenere. Questo processo, inventato da Giuseppe Fiorelli nel XIX secolo, ha permesso di catturare le pose finali delle vittime, congelando per sempre un attimo di fuga, di disperazione, o forse di rassegnazione. Tuttavia, è essenziale ricordare che questi calchi sono il prodotto di un’epoca in cui la metodologia archeologica era ancora in fase embrionale: molte pose sono state rielaborate per enfatizzare la drammaticità, costruendo storie più vicine al melodramma che alla verità storica. Gli studiosi ottocenteschi, più attenti a stupire il pubblico che a perseguire un rigoroso metodo scientifico, hanno creato narrazioni attorno ai calchi, conferendo a queste figure mute ruoli e relazioni che, alla luce delle nuove evidenze scientifiche, risultano essere costruzioni arbitrarie. La scienza moderna, però, ci offre un nuovo strumento per avvicinarci alla realtà storica: il DNA. Attraverso l’analisi genetica, possiamo scoprire dettagli sorprendenti che ci aiutano a rivedere radicalmente il passato. Lo studio del DNA ha portato alla luce dati che stravolgono molte delle convinzioni tramandate fino a oggi. Un esempio emblematico è il gruppo ritrovato nella cosiddetta “Casa del bracciale d’oro”. Nel 1974, quattro individui vennero trovati insieme: due adulti e due bambini, con uno dei piccoli apparentemente in braccio a uno degli adulti, che indossava un prezioso bracciale d’oro. La ricchezza dell’ornamento e la disposizione dei corpi avevano portato gli archeologi a ipotizzare che si trattasse di una famiglia. Tuttavia, l’analisi genetica ha smentito tale interpretazione: non solo non c’era alcun legame familiare tra i quattro, ma l’individuo con il bracciale – creduto essere la madre – era in realtà un uomo. Questo episodio illustra come il passato possa spesso deluderci nelle nostre aspettative. La figura del padre protettivo o della madre affettuosa si dissolve sotto il rigore della scienza, lasciandoci con un mosaico di persone unite non da legami di sangue, ma da circostanze fortuite e imprevedibili. La bellezza di questa complessità risiede proprio nell’impossibilità di ridurre le vite umane a semplici schemi predefiniti. Le evidenze archeogenetiche ci mostrano come spesso le relazioni tra gli individui siano state mal interpretate, basate su indizi visivi e stereotipi culturali piuttosto che su dati scientifici solidi. Allo stesso modo, i ritrovamenti della “Casa del criptoportico” offrono un ulteriore esempio di quanto le apparenze possano ingannare. Due individui, ritrovati abbracciati, sono stati descritti come due sorelle. Ma anche qui il DNA ha svelato una realtà diversa: uno dei due individui era un uomo, mentre l’identità biologica dell’altro non è stata determinata con certezza. Questo dato, lungi dal ridurre l’impatto emotivo della scoperta, ci ricorda come la nostra visione del passato sia sempre parziale e frammentaria, soggetta a continue revisioni. Questo abbraccio potrebbe non rappresentare un legame familiare, ma un tentativo di conforto reciproco di fronte alla catastrofe imminente, lasciandoci con una scena ancora più umana e toccante. Un aspetto particolarmente affascinante dello studio è la possibilità di ricostruire l’origine etnica di alcune delle vittime. Le analisi del DNA hanno dimostrato che gli individui della “Casa del bracciale d’oro” avevano legami genetici con le popolazioni dell’Africa settentrionale e del Mediterraneo orientale, un dato che conferma il cosmopolitismo dell’Impero Romano nel I secolo d.C. Pompei, lungi dall’essere una città isolata, era un crogiolo di culture, etnie e identità diverse, un microcosmo dell’impero stesso. Questa scoperta mette in luce l’estrema mobilità delle popolazioni romane, rendendo visibile quanto la società dell’epoca fosse interconnessa su vasta scala. L’individuo maschile col bracciale d’oro aveva tratti genetici compatibili con le popolazioni del Nordafrica, mentre l’individuo abbracciato della “Casa del criptoportico” mostrava segni di un’origine mediorientale. Questo elemento ci consente di immaginare Pompei non come un mondo cristallizzato nel tempo, ma come una realtà dinamica, pulsante di vita e scambi culturali. Gli scambi commerciali, le migrazioni, e le rotte mercantili del Mediterraneo avevano fatto sì che uomini e donne di diverse origini giungessero a Pompei, stabilendo legami, intrattenendo rapporti economici e culturali, integrandosi in un tessuto sociale variegato. Il DNA antico ci fornisce la prova tangibile di queste connessioni. Esso ci mostra come i cittadini di Pompei potessero avere ascendenze che attraversavano tutto il bacino del Mediterraneo, mettendo in crisi l’idea di una città omogenea e offrendo invece l’immagine di una comunità multietnica. Le storie di questi individui non erano isolate, ma parte di una narrazione più ampia che abbracciava le rotte del commercio e dell’espansione imperiale. Il loro sangue, mescolato con quello di popoli diversi, rappresenta una testimonianza dell’integrazione che caratterizzava la vita all’interno dell’impero. Il passato non è mai univoco e definitivo. Ogni scoperta può cambiare la configurazione dell’intero mosaico, ogni dato genetico apre nuovi orizzonti interpretativi.
Marco Enrico Bossi (1861-1925): Concerto for Organ, Strings, 4 Horns and Timpani in A minor Op.100. Joseph Jongen (1873-1953): Hymne, for Organ and Orchestra Op.78. Francis Poulenc (1899-1963): Organ Concerto in G minor FP.93 (1938). Tommaso Maria Mazzoletti (organo). Helvetica Orchestra. Eugène Carmona (direttore). Registrazione: 19-20 giugno presso St. Paul, protestant church in Gland, Switzerland. T. Time: 64′ 35″ 1 CD Brilliant Classics 96955
Rispetto ad altri strumenti, l’organo figura piuttosto raramente come solista in lavori con l’orchestra, anche perché la sua registrazione, a volte, può apparire in alcuni momenti troppo simile alle combinazioni orchestrali, soprattutto dei legni, creando poca varietà. Non a caso, infatti, nel non certo vastissimo repertorio per organo e orchestra, di cui alcuni brani sono proposti in questo CD dell’etichetta Brilliant Classics, si tende ad escludere la sezione dei legni. Il programma di questa interessantissima proposta discografica si apre con il Concerto per organo e orchestra di Marco Enrico Bossi, che, diventato ormai un classico e composto originariamente in mi bemolle minore e per una ampio organico orchestrale, fu modificato dal compositore in seguito alle critiche, occorse alla prima esecuzione, avvenuta nel mese di dicembre del 1895, e riguardanti la tonalità giudicata penalizzante per gli strumenti ad arco e il rapporto tra organo e orchestra con quest’ultima eccessivamente preponderante sul solista.
Le critiche indussero, infatti, Bossi a modificare l’organico, ridotto ai timpani, a quattro corni e agli archi e a trasportare l’intero brano in la minore. Aperto dal solista, il primo movimento, Allegro moderato si svolge per quanto attiene all’esposizione secondo i principi della forma-sonata con un primo tema di carattere armonico, al quale si contrappone il secondo dalla struttura assimilabile a quella del corale. All’esposizione segue un lungo sviluppo di carattere rapsodico e di grande intensità drammatica. Di carattere lirico è il secondo movimento, Adagio ma non troppo, dalla struttura tripartita (A-B-A1) basato su un tema esposto dai violoncelli in una scrittura cameristica e contrappuntistica estremamente raffinata. Un solenne tema armonico, esposto dal solista, apre l’ultimo movimento, Allegro, nel quale, quasi a dare all’intero concerto una struttura ciclica, ritornano elementi del primo tema del primo movimento. Una vera rarità è Hymne, for Organ and Orchestra Op.78 di Joseph Jongen, secondo brano in ascolto, nel quale l’organo, diversamente da quanto avviene nel Concerto di Bossi, diventa parte integrante dell’orchestra pur mantenendo un suono caldo e al tempo stesso misterioso che conferisce all’intero brano un particolare fascino.
Famosissimo è, infine, il Concerto per organo in sol minore FP.93 di Francis Poulenc, ultimo brano in programma, che, composto su commissione della Principessa di Polignac tra il 1934 e il 1938, si presenta come una poderosa struttura in un unico movimento diviso in 7 sezioni nelle quali si alternano diversi stili dal momento che si passa dal sacro al profano e da una scrittura che richiama il Barocco a un’altra più moderna. Di ottimo livello l’esecuzione da parte sia del solista, Tommaso Maria Mazzoletti che dell’Helvetica Orchestra, diretta da Eugène Carmona, i quali riescono ad integrarsi perfettamente dando vita, in alcuni passi, quasi ad un unico blocco sonoro, mentre in altri a una contrapposizione di colori e di sonorità. Il risultato è un’esecuzione veramente suggestiva e di forte impatto.
Venezia, Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2023-2024
“LA VITA È SOGNO”
Opera in tre atti e quattro quadri dal dramma “La vida es sueño” di Pedro Calderón de la Barca
Musica e libretto di Gian Francesco Malipiero
Il re RICCARDO ZANELLATO
Il principe LEONARDO CORTELLAZZI
Estrelle FRANCESCA GERBASI
Don Arias / Uno della folla LEVENT BAKIRCI
Clotaldo SIMONE ALBERGHINI
Diana VERONICA SIMEONI
Servo di Diana / Uno scudiero del re ENRICO DI GERONIMO
Mimi FRANCESCO NAPOLI, GIUSEPPE SARTORI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia Valentino Villa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Elena Cicorella
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 31 ottobre 2024
Novello Edipo, anche il protagonista de La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero (Il Principe) viene rifiutato, appena venuto al mondo, dal padre (Il Re). Questi – allarmato da funesti presagi, manifestatisi alla nascita del figlio e confermati dal responso degli astri, che vedono in lui un futuro tiranno – lo fa rinchiudere in una torre, dove vive da recluso. Ma, dopo vari anni, roso dal rimorso, il re ordina di liberare il giovane e di condurlo – narcotizzato – a palazzo, dove la vita da principe gli sembrerà un sogno: lo scopo è quello di verificare la vera indole del suo possibile successore. Il quale, appena appresa la verità, predice, infuriato, che il padre tra breve cadrà ai suoi piedi. Il re, convinto dell’ineluttabilità del destino, fa riportare il figlio – dormiente – nella torre, in modo che quella parentesi di libertà gli sembri nient’altro che un sogno. Ma, di fronte alle grida della folla – che, incurante dei presagi, reclama il suo principe – padre e figlio si abbracciano, tra l’esultanza del popolo. Questa, in sintesi, la vicenda drammatica, su cui si regge l’opera, tratta dalla celebre tragedia di Calderón de la Barca – composta da un Malipiero quasi sessantenne –, ora riproposta al Teatro Malibran, ad ottant’anni dalla prima italiana, avvenuta, nel 1944 al Teatro La Fenice, un anno dopo il suo debutto all’Opera di Breslau (oggi Wrocław), allora parte del Terzo Reich. Il regista Valentino Villa pone l’accento sulla semplificazione della linea narrativa operata dal compositore veneziano, che non si limita a ridurre la tragedia calderoniana, bensì evidenzia il lato archetipico delle vicende narrate, sottraendole ad una specifica collocazione spazio-temporale, ad esempio con l’assegnare ai personaggi un nome generico (Il Re, Il Principe) o un nome diverso rispetto all’originale (Diana anziché Rosaura). Quanto alla messinscena di quest’opera che, dopo ottant’anni dal suo debutto, risulta ai più sostanzialmente sconosciuta, il regista romano ha ritenuto opportuno non intromettersi più di tanto nel rapporto tra il pubblico e un titolo tutto da scoprire, usando un tratto leggero, non invasivo, ideando uno spettacolo che si possa riconoscere come coerente rispetto al barocco di Calderón. Nel contempo, di fronte alla didascalia iniziale del libretto, “Senza luogo né tempo in un mondo di fantasia”, ha preferito collocare la vicenda in un’epoca storica “astratta”, rientrando nella logica del sogno. Quello che ha immaginato insieme a Massimo Checchetto è un apparato scenografico essenziale, basato su due superfici cilindriche rotanti che permettono il succedersi di vari quadri, assecondando la concezione drammaturgica “a pannelli” di Malipiero. Quanto ai luoghi, fondamentale è la torre con funzione di carcere. Peraltro la reclusione – nella visione di Valentino Villa – non opprime solo il Principe, ma anche il Re fortemente condizionato dalle stelle e dalle profezie. All’astrologia praticata da lui rimanda il sestante (uno strumento, che misura l’angolo di elevazione di un corpo celeste sopra l’orizzonte), citato nell’apparato scenico, mentre all’Uomo Vitruviano sembra ricollegarsi l’idea di far apparire sulla scena il Principe legato – mani e piedi – ad un cerchio, sovrapposto a un quadrato, uno dei simboli del Rinascimento. Elementi scenografici, che simboleggiano il falso scientismo del Padre, cui si contrappone la rivoluzione culturale, rappresentata dal Principe. La conciliazione avviene nel finale, dove si impone una concezione culturale più evoluta. Meno astratti rispetto alla scenografia gli eleganti costumi di Elena Cicorella, che si richiamano ad un Seicento, che – pur nella sua vaghezza – spazia dalla Spagna ai Fiamminghi. Di ispirazione caravaggesca l’efficace disegno delle luci di Fabio Barettin. Nessun “cerebralismo” – termine talora usato da alcuni per definire la musica di Malipiero – coglie nella partitura Francesco Lanzillotta, il cui gesto direttoriale è teso a valorizzare la vena melodica – emancipata rispetto alla tradizione ottocentesca –, che si stempera nel continuo declamato delle voci, oltre alla raffinata sensibilità strumentale dell’autore, che considera l’orchestra come la somma di tanti ensemble cameristici, mettendo in luce il timbro dei singoli strumenti o delle singole sezioni. Ineccepibile il rapporto tra buca e palcoscenico, dove si è esibito un cast di prim’ordine, a cominciare dal tenore Leonardo Cortellazzi, capace di delineare, con generosa passione, il carattere del “sognante” principe – che nella rivisitazione malipieriana assume maggiore rilievo rispetto al testo di Calderón – combattuto tra afflizione e furore vendicativo, segnalandosi per il timbro brillante ed omogeneo. Analogamente espressiva è risultata Veronica Simeoni, che ha prestato la sua perlacea vocalità mezzosopranile, per regalarci un personaggio – Diana –, particolarmente affascinante per la sua varietà di accenti: dallo sconforto alla pietà. Di encomiabile professionalità il baritono Simone Alberghini e il basso Riccardo Zanellato, nei panni rispettivamente di Clotaldo e del Re, oltre al soprano Francesca Gerbasi (Estrella) e ai baritoni Levent Bakirci (Don Arias/Uno della folla) ed Enrico di Geronimo (Servo di Diana/Uno scudiero del re). Una menzione particolare merita il Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani, che ha brillato per sensibilità e fraseggio nei tre madrigali che vengono intonati al risveglio del Principe a corte e in apertura dell’ultimo atto, omaggio alla grande tradizione polifonica monteverdiana. Successo pieno e caloroso con numerose chiamate.
Roma, Terme di Diocleziano
TONY CRAGG. INFINITE FORME E BELLISSIME
curata da Sergio Risaliti e Stéphane Verger
La mostra “Tony Cragg. Infinite forme e bellissime”, ospitata dal 9 novembre 2024 al 4 maggio 2025 nelle suggestive Terme di Diocleziano a Roma, rappresenta una rara occasione per avvicinarsi all’opera di uno dei maggiori scultori contemporanei, immerso in un contesto storico di straordinaria rilevanza. L’esposizione, curata da Sergio Risaliti e Stéphane Verger, offre un percorso in cui antico e contemporaneo si intrecciano in un dialogo costante, una sinfonia di materia e spazio che affida la propria forza alla tensione tra la monumentalità delle terme romane e la fluidità delle sculture di Cragg. Il Museo Nazionale Romano, in collaborazione con BAM – Eventi d’Arte, ha dato vita a un allestimento che omaggia la maestria plastica di Cragg, celebrato per il suo uso di materiali non convenzionali e per la capacità di trasformare la materia in forme dinamiche e quasi organiche. Cragg, nato a Liverpool nel 1949, è emerso nel panorama artistico internazionale degli anni Settanta con una pratica che esplora la materia non come un semplice mezzo, ma come un vettore di senso capace di evocare emozioni profonde. La sua ricerca lo ha condotto a sperimentare materiali industriali e naturali—plastica, metallo, vetro, legno, pietra—trasformandoli in forme che suggeriscono un continuo divenire, quasi fossero parte di un organismo in perenne evoluzione. È in questo contesto che Cragg afferma: “La materia non è mai neutra; essa porta con sé una memoria e una storia che l’arte può liberare, trasformando gli oggetti quotidiani in frammenti di pensiero e sensazione”. Le Terme di Diocleziano, costruite tra il 298 e il 306 d.C., testimoniano una monumentalità architettonica che sfida il passare del tempo e si impone come un simbolo di permanenza e trascendenza. In questo contesto, le sculture di Cragg, poste in dialogo con la pietra antica, generano un contrasto visivo e concettuale in cui passato e presente si confrontano e si arricchiscono reciprocamente. Ogni opera sembra essersi organicamente adattata al proprio ambiente, come se le linee fluide e le spirali delle sculture fossero progettate per assecondare la rigidità delle strutture architettoniche, esaltandole e rinnovandole in una continua ridefinizione dello spazio. L’allestimento gioca un ruolo fondamentale nel valorizzare questa dialettica tra scultura e ambiente circostante. Le opere sono disposte in modo da rispettare la sacralità storica dello spazio, ma al contempo far emergere la vitalità delle forme di Cragg, che si collocano come presenze organiche tra le pietre. L’illuminazione è calibrata con precisione: la luce morbida e indiretta attraversa le superfici delle sculture, ora lucide e riflettenti, ora opache e stratificate, accentuando l’effetto di movimento e trasformazione. Questo gioco di ombre e luci crea un effetto visivo che arricchisce l’esperienza del visitatore, facendo apparire le sculture mutevoli, quasi eteree, come se fossero flussi di energia congelati nel momento del loro massimo vigore. Cragg si distingue per il suo uso di materiali plastici e metallici riciclati, che vengono reinterpretati con attenzione sia alla composizione visiva che al significato intrinseco della materia stessa. Le tecniche di assemblaggio, fusione e saldatura consentono alla scultura di assumere una fisicità che dialoga costantemente con l’elemento luminoso e con l’ambiente circostante. Alcune opere sembrano emergere come flussi di energia, altre si slanciano verso l’alto in spirali che invitano lo sguardo a percorrere la loro superficie, suggerendo un movimento senza fine. È come se ogni materiale raccontasse una storia, rivelando, attraverso pieghe e sporgenze, la propria memoria e la propria origine. L’inserimento delle sculture di Cragg nelle Terme di Diocleziano crea una temporalità sospesa, in cui il passato e il presente si fondono e si trasformano in una nuova narrazione visiva. Ogni opera si configura come una “presenza” che arricchisce lo spazio storico delle terme, creando un percorso di riflessione in cui il visitatore è invitato a lasciarsi guidare dalle variazioni di luce e dalla complessità delle forme. Questo dialogo tra materia e spazio suggerisce una nuova modalità di osservazione, una riflessione sull’essenza stessa della scultura e sul rapporto che essa stabilisce con il contesto in cui è inserita. La mostra è frutto di una collaborazione tra il Municipio I di Roma e Banca Ifis, che attraverso il programma Ifis Art sostiene da anni la promozione dell’arte contemporanea in Italia. Tale sinergia tra istituzioni pubbliche e private ha reso possibile la realizzazione di un evento che arricchisce il patrimonio culturale della città, offrendo al pubblico un’esperienza di rara intensità. L’allestimento, curato con estrema attenzione ai dettagli e rispetto per la sensibilità dei luoghi storici, permette alle opere di Cragg di trovare una collocazione naturale e significativa all’interno delle terme, trasformando lo spazio in un vero e proprio palcoscenico per un dialogo tra materia e storia. La presenza tra i curatori di Stéphane Verger, recentemente non più direttore del Museo Nazionale Romano, conferisce alla mostra un significato ulteriore. A Verger va un sentito ringraziamento per il lavoro svolto con dedizione e passione negli anni passati, caratterizzato da un rigore etico e disciplinare che ha portato a una serie di iniziative culturali di grande rilievo. La sua guida, improntata al rispetto del patrimonio e alla promozione di un dialogo continuo tra passato e presente, lascia un’impronta indelebile che continuerà a ispirare il futuro del museo e delle sue attività espositive. Photocredit@MonkeysVideoLab
Roma, Teatro Brancaccio, Stagione 2024/25
SHERLOCK HOLMES – IL MUSICAL
Sherlock Holmes NERI MARCORE’
Dottor John H. Watson PAOLO GIANGRASSO
Molly O’Neill FRANCESCA CIAVAGLIA
Ispettore G. Lestrade GIUSEPPE VERZICCO
Signora Hudson BARBARA CORRADINI
Mycroft Holmes NICCOLÒ CURRADI
Michael Osborne SIMONE MARZOLA
Robert Scott MATTIA BRAGHERO
Pastore della Chiesa di Saint Mary-Le-Bow – RICCARDO GIANNINI
Cover di: Robert Scott / Pastore / Agente / Michael Osborne – LAPO BRASCHI
Produzione: Ad Astra Entertainment S.r.l., Compagnia delle Formiche, Artisti Riuniti
Supervisione e approvazione del testo a cura dell’Associazione Sherlockiana Italiana “Uno Studio in Holmes Aps”
Regia di Andrea Cecchi
Roma, 07 novembre 2024
“Sherlock Holmes – Il Musical” si presenta come un ambizioso tentativo di trasfigurare l’investigatore di Baker Street nel linguaggio del teatro musicale. Un progetto che ambisce a ricontestualizzare la celebre figura letteraria di Arthur Conan Doyle in una dimensione scenica dove la parola, la musica e il gesto si fondono per dar vita a un’esperienza sinestetica. Tuttavia, malgrado le premesse e la nobile intenzione di esplorare un nuovo registro artistico per il detective, lo spettacolo dimostra diverse criticità, che ne minano la realizzazione complessiva e impediscono di mantenere quella vivacità che ci si aspetterebbe da un’opera di tale portata. La scenografia, curata nei minimi dettagli da Gabriele Moreschi, è senza dubbio uno dei punti di forza della produzione. La Londra vittoriana che Moreschi ricostruisce sul palcoscenico è suggestiva, caratterizzata da una precisione architettonica che rievoca le atmosfere gotiche e cupe della metropoli ottocentesca. Le strade immerse nella nebbia, i lampioni a gas che rischiarano i vicoli e le facciate degli edifici suggeriscono un contesto urbano vivo, palpabile, ricco di quel mistero che è parte integrante dell’universo holmesiano. La scenografia, tuttavia, sembra non trovare pieno sostegno negli altri elementi dello spettacolo, a partire dalla performance del protagonista. Neri Marcorè veste i panni di Sherlock Holmes con una compostezza che, pur aderendo formalmente al personaggio, finisce per risultare eccessivamente contenuta e priva di quella tensione intellettuale che definisce il celebre detective. Holmes, nella penna di Conan Doyle, è un personaggio animato da una mente febbricitante, un investigatore che vive costantemente in bilico tra la lucidità analitica e un certo tormento interiore. Questa complessità psicologica non trova piena espressione nella recitazione di Marcorè, che appare troppo spesso distaccato, quasi inerte di fronte agli enigmi che dovrebbe risolvere. La presenza scenica di Holmes diviene così più passiva che attiva, privando il pubblico di quell’identificazione emotiva che è il cuore di ogni esperienza teatrale riuscita. Anche l’aspetto canoro di Marcorè non riesce a sopperire alle mancanze interpretative: il canto risulta privo di dinamiche emotive significative. Le arie di Holmes, che dovrebbero essere l’occasione per esplorare il suo mondo interiore, finiscono per apparire uniformi, senza quei picchi e quelle variazioni che possano comunicare la complessità dei pensieri del detective. Il personaggio di Holmes, di conseguenza, fatica a emergere come figura centrale e carismatica, rimanendo piuttosto un’ombra scolpita nella trama dello spettacolo. In netto contrasto, la performance di Giuseppe Verzicco nei panni dell’ispettore Lestrade risulta la più convincente e vitale dell’intera produzione. Verzicco dona al suo Lestrade un’energia vivace e una presenza scenica che arricchiscono la narrazione. Lungi dall’essere un semplice comprimario, il suo Lestrade assume una centralità che funge da contrappunto al protagonista, riuscendo a portare in scena non solo la figura del funzionario di polizia, ma un personaggio tridimensionale, dotato di dinamismo e vivacità. Verzicco riesce a dare corpo a quella tensione necessaria tra l’ufficiale pragmatico e l’investigatore eccentrico, creando una dialettica scenica che è tra i momenti più riusciti dello spettacolo. Francesca Ciavaglia, nel ruolo di Molly O’Neill, offre una prestazione elegante, caratterizzata da una delicatezza rispettosa che ben si adatta al personaggio, ma che non riesce a emergere se non in sporadici momenti cantati. Il suo contributo alla narrazione resta contenuto, aggiungendo una presenza delicata che non incide in maniera determinante sullo sviluppo drammatico. Analogamente, Barbara Corradini nel ruolo della Signora Hudson interpreta una figura rassicurante e di contorno, ma la sua partecipazione si limita a tratteggiare un’ombra domestica che non si impone mai realmente sulla scena se non durante il duetto con il collega Verzicco. Sotto il profilo tecnico, il musical presenta alcune criticità che minano l’armonia dell’insieme indubbiamente migliorabili. In particolare, si notano problemi di sincronizzazione tra l’audio e le basi musicali, che compromettono la fluidità dello spettacolo e riducono il coinvolgimento emotivo del pubblico. Le musiche, curate da Andrea Sardi, sono efficaci nel rievocare l’atmosfera dell’epoca e risultano pertinenti al contesto narrativo, ma la mancanza di coesione tecnica impedisce loro di raggiungere quell’efficacia immersiva che sarebbe stata auspicabile. I momenti di sfasamento audio creano un distacco percettibile tra ciò che accade in scena e ciò che viene udito, interrompendo la sospensione dell’incredulità e distogliendo l’attenzione degli spettatori. La regia delle luci, affidata a Emanuele Agliati, è uno degli elementi che maggiormente contribuiscono a creare la giusta atmosfera. Le luci sono utilizzate per plasmare chiaroscuri suggestivi, alternando scene intime e momenti più drammatici, e riescono a suggerire quella dimensione crepuscolare che è essenziale per un’opera come questa. Tuttavia, la potenzialità espressiva delle luci non è sufficientemente valorizzata da una regia che appare incerta nel trovare il giusto ritmo. Il risultato è una discontinuità tra la forza visiva delle luci e l’interpretazione scenica, che impedisce la creazione di un’unica tensione drammatica coesa. Anche le coreografie di Roberto Colombo e Caterina Pini soffrono di una certa frammentarietà. I movimenti scenici, per quanto curati e armoniosi, non riescono a integrarsi pienamente con la narrazione. Le coreografie sembrano essere più decorative che funzionali, un abbellimento che arricchisce la visione d’insieme ma che non apporta un reale significato narrativo. Manca un legame profondo tra i movimenti e la storia che viene raccontata, e questo finisce per ridurre l’impatto emotivo delle scene danzate, che non riescono a raggiungere quella forza espressiva necessaria per rendere le coreografie parte integrante del dramma. Un pubblico educato e partecipe ma non particolarmente coinvolto. Peccato veramente.
Roma, Teatro India
RICCARDO III
Un’interpretazione contemporanea di Shakespeare al Teatro India
progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
regia Luca Ariano
con Pietro Faiella, Roberto Baldassari, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser
aiuto regia traduzione e adattamento Natalia Magni
scene Luca Ariano con la collaborazione di Alessandra Solimene
costumi Elisa Leclè
disegno luci Luca Ariano
assistente alla regia Tessa Perrone
foto di Manuela Giusto
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in collaborazione con Lubox
Roma, 05 novembre 2024
La sala è completamente buia, pochi istanti prima di essere sommersi da una luce bianca accecante. Una luce che, gradualmente, cambia colore, riflettendo i sentimenti che animano tutti i personaggi di Riccardo III di Shakespeare: la rabbia, l’invidia, la fame di vendetta, il rancore. L’uso delle luci in “Riccardo III” evoca l’artista Dan Flavin, che le considera come un mezzo in grado di modificare l’ambiente e la sua percezione. Così come Flavin utilizza la luce per creare un’esperienza immersiva, anche qui diventa parte integrante della narrazione, amplificando la tensione emotiva e psicologica, diventando non solo un elemento visivo, ma un veicolo di significato che definisce lo spazio teatrale e le lotte interiori dei personaggi. Questo bianco, decontestualizzato dall’epoca del dramma, sottolinea l’attualità di una storia che sfida il tempo e lo spazio. E a proposito di spazio, inizialmente lo spettatore si sente catapultato in “2001: Odissea nello spazio”, un effetto amplificato non solo dal bianco della “navicella” scenica, ma anche dagli abiti realizzati da Elisa Leclè. In particolare, quello di Riccardo, leader di questo universo sospeso, che, come un platonico demiurgo, conferisce ordine e misura a suo volere, ordina e disordina colori e pensieri, espressi anche attraverso la musica. Riccardo III è interpretato da Pietro Faiella, che, come un direttore d’orchestra, avvia piacevoli melodie a suo piacimento, le quali si alternano alle voci dei vari personaggi. Tutti sono sotto di lui; il futuro re riesce ad ammaliarli e a guidarli verso il suo obiettivo di vendetta, mosso da una fame insaziabile di supremazia. La sua recitazione è realistica, sempre più penetrante, permettendoci di comprendere come questi sentimenti siano sempre contemporanei. Riccardo si mostra con mille maschere e sfumature, tutte magistralmente interpretate da Faiella: dalla voce al corpo, ma ciò che ho apprezzato di più è stato il suo sguardo, sempre penetrante e in continuo mutamento. Capace di suscitare pietà, ma anche di rivelare, nei suoi momenti da solista, una brama di dominio che non lascia margine a incertezze. I vari attori hanno saputo mantenere un ritmo costante, mettendo in luce la loro interiorità con delicatezza e senza eccessi, esprimendo con naturalezza alti sentimenti come la paura e la sottomissione, la rabbia e il desiderio di vendetta, il dolore e il lutto, la lealtà e il tradimento, il timore reverenziale e la speranza. Tuttavia, avrei voluto assaporarli di più, osservando con maggiore lentezza i passaggi emotivi e i cambi di stato d’animo. Ad un certo punto la musica classica, che inizialmente accompagna un ritmo moderato, intessuto dai piani del protagonista, e guidata dai gesti della sua mano storpia, si tinge improvvisamente delle note rock dei Guns N’ Roses con “Sympathy for the Devil”, che d’impatto sconvolge il pubblico e pare ancora più evidente il cambiamento delle sue emozioni, “la natura del suo gioco”. Così come “il diavolo” della canzone giustifica i suoi crimini come parte di un piano più grande, in una performance visibilmente scenica, Riccardo si auto-incorona re, appagato, nel massimo del suo piacere. È proprio in questo momento che la sua recitazione evoca l’immagine di dittatori più vicini al nostro tempo, come Mussolini. E in questo, Pietro Faiella, nelle vesti di re Riccardo III, incarna la stupidità e l’arroganza di chi si crede padrone assoluto e indiscutibile delle vite e dei destini altrui. Da qui inizia la discesa: il re, ormai dispotico, non ha fatto i conti con sé stesso e inizia a guardarsi le spalle, consapevole di tutte le persone che ha ferito, rinnegato, ignorato. Da padrone assoluto, ora si trova a dover affrontare i suoi stessi inganni. La musica si trasforma in un rumore assordante, che risuona nella sua mente e nelle orecchie del pubblico. Non riesce più a controllare nulla: colori, suoni, sentimenti e i pensieri degli altri gli sfuggono; e deve fare i conti con la sua stessa solitudine. Ed è qui che non può fare altro che impazzire. A un certo punto sembra di trovarsi in un centro psichiatrico; una coscienza troppo sporca per essere perdonata. Le mura si tingono di viola, e ritorna la musica con un omaggio a Frank Sinatra e la sua “My Way”; è l’ultimo saluto di chi ha osato fare il passo più lungo della sua gamba. “And now the end is here, and so I face that final curtain…” E come Sinatra, canta al mondo la storia di un uomo che guardando in faccia la morte non rinnega nulla della sua vita, di ciò che ha fatto, poiché in fondo riconosce di essere sempre stato fedele a sé stesso, di aver fatto le cose “a modo suo”. Così, si chiude il sipario. Così, si torna al buio. Photocredit: Manuela Giusto / Redazione Gbopera