Roma, Teatro Vascello
LA SCORTECATA
liberamente tratto da Lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile
testo e regia Emma Dante
con Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
produzione Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, e Carnezzeria.
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone
Roma, 20 Novembre 2024
“Ahi, sfortunata vecchiaia, quanto sei schernita e ingannata, non tanto dagli altri quanto da te stessa!”
Emma Dante, con La Scortecata, affronta l’arduo compito di trasporre per la scena una delle fiabe di Giambattista Basile, tratte dalla celeberrima raccolta Lo cunto de li cunti. Questa operazione, che di per sé potrebbe apparire come un mero esercizio filologico, si trasforma invece in un profondo studio sulla natura del linguaggio, della teatralità e della condizione umana. la regista non si limita a rievocare le radici dialettali e popolari del testo: ella compie un atto di riscrittura che restituisce modernità senza sradicare la fiaba dalla sua matrice barocca. Il dialetto napoletano di Basile, ricco di proverbi e lazzi, si riflette nella partitura drammatica con una cadenza ritmica che non tradisce mai l’oralità del testo originario, offrendo una densità semiotica che sollecita la partecipazione attiva del pubblico. La vicenda narrata è quella del decimo trattenimento della iornata primma del Pentamerone: due sorelle anziane, Rusinella e Carolina, vivono miseramente in una catapecchia finché la voce di una di loro non seduce un re che, ingannato dall’apparenza di un dito giovanile, la porta nel proprio letto. L’esito è grottesco: la vecchia, scoperta, viene gettata dalla finestra, ma salvata da una fata che la trasforma in una bellissima giovane. La morale della fiaba, con la seconda sorella che, cercando di imitarla, finisce scorticata, non si riduce a una semplice denuncia della vanità femminile. La regista ne fa un’indagine antropologica sulla solitudine, sull’inganno e sull’ossessione per un ideale di bellezza che trascende epoche e culture. L’analisi psicologica si fa tagliente, esaminando le ambiguità umane con un tono disincantato, quasi cinico, ma capace di far emergere la profondità dell’animo. Il cuore dell’opera non è solo la narrazione di una fiaba, ma un’esplorazione del senso esperienziale della storia stessa. Le due sorelle anziane rappresentano la disperazione umana nel tentativo di sfuggire alla propria condizione. L’illusione della bellezza, l’inganno che perpetuano su loro stesse e sugli altri, è simbolo di un desiderio universale: il bisogno di trasformazione, di redenzione dalla miseria quotidiana. Tuttavia, la trasformazione fisica non equivale mai a una metamorfosi interiore. Questo divario crea una tensione che risuona fortemente con il pubblico, suggerendo una riflessione filosofica sul rapporto tra l’essenza e l’apparenza, sul valore effimero dell’estetica rispetto alla sostanza dell’essere. La regista sembra quasi suggerire che la ricerca della bellezza, come forma di riscatto, sia un inganno crudele e, al contempo, un impulso inevitabile della natura umana ed allo stesso tempo imprime al suo lavoro la consueta capacità di trasformare il minimalismo scenico in un universo simbolico. La scena, affidata alla stessa la regista, è spoglia: due sedie, una porta e un castello in miniatura bastano a delineare spazi fisici e mentali. La catapecchia delle due sorelle diviene metafora di un’esistenza ridotta all’essenziale, mentre il castello in miniatura rappresenta un’illusione di grandezza, una trappola per sogni irrealizzabili. la regista crea una drammaturgia che non cerca di stupire con effetti visivi, ma che indaga l’essenza stessa della teatralità, esprimendo il contrasto tra l’illusione scenica e la realtà psicologica dei personaggi. L’ironia è palpabile: il castello in miniatura, con la sua pretesa di grandezza, è un’ironica metafora delle ambizioni che ci fanno inciampare. Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola offrono una prova attoriale che trascende la semplice interpretazione di un ruolo. Essi diventano corpi narranti, capaci di trasmettere la comicità farsesca e, al contempo, il dramma esistenziale. Le loro voci modulano il dialetto, facendolo oscillare tra il lirico e il grottesco, mentre i gesti amplificano la condizione deformata delle due anziane. la regista sembra voler mostrare il grottesco come elemento inevitabile della condizione umana, dando voce ai desideri più intimi e contraddittori. Gli attori si fanno autori di un linguaggio scenico che vibra di autenticità, con una sottile ironia che rivela la tragica comicità delle loro esistenze. Le luci di Cristian Zucaro disegnano i contorni di una scena che vive di chiaroscuri barocchi. Il buio diviene un elemento narrativo, uno spazio in cui i corpi degli attori emergono come reliquie, fantasmi che vivono una condizione sospesa tra il reale e il fiabesco. La scena non è mai completamente illuminata, riflettendo la dicotomia tra il sogno di bellezza e l’inesorabile decadenza. Questo gioco di luce e ombra suggerisce una ricerca della verità che è sempre parziale, un percorso che si snoda tra luci e tenebre, senza mai svelarsi interamente. L’ironia cinica di la regista si manifesta anche qui: la bellezza resta sempre nel mezzo, irraggiungibile, come un gioco crudele del destino. La Scortecata non si limita a raccontare una fiaba. La regista utilizza la struttura fiabesca come pretesto per un’indagine sul teatro stesso, inteso come luogo di trasformazione e illusione. L’operazione metateatrale è esplicita: i due attori non si limitano a interpretare, ma “inscenano” continuamente, rompendo la quarta parete con complicità e ironia. la regista vede la scena come un luogo in cui il reale e l’immaginario si incontrano, e il pubblico è chiamato a partecipare non solo emotivamente, ma anche intellettualmente, cogliendo i riferimenti e le implicazioni di un testo che riflette sull’inganno come fondamento della rappresentazione scenica. Con La Scortecata, La regista consegna al teatro contemporaneo un’opera che si muove su un crinale pericoloso ma estremamente affascinante: quello tra tradizione e innovazione, tra barocco e minimalismo, tra il comico e il tragico. Lo spettacolo si pone come un’operazione colta, raffinata e al contempo visceralmente teatrale, che riesce a rendere una fiaba secentesca specchio inquietante della modernità. la regista dimostra che il teatro può essere un luogo di dialogo tra il passato e il presente, tra il vero e l’illusione, capace di esplorare le profondità dell’animo umano con uno sguardo acuto, disincantato e, perché no, beffardo.
Roma, VIVE
TORNANO A SPLEDERE LE SCULTURE DELL’ALTARE DELLA PATRIA
A seguito del grande progetto di restauro avviato dal VIVE, diretto da Edith Gabrielli, tornano a splendere le sculture del prospetto principale del Vittoriano grazie al contributo di Bvlgari a conferma del forte legame della Maison con la città di Roma ed il suo inestimabile patrimonio. Un’iniziativa di alto mecenatismo nata da una piena condivisione di intenti e valori fra il VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia e Bvlgari nell’ambito della conservazione e della valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Diretto da Edith Gabrielli ed eseguito da Susanna Sarmati, il restauro – avviato a marzo scorso e concluso ad ottobre, nel pieno rispetto dei tempi previsti – ha coinvolto le sculture in marmo raffiguranti il Mare Adriatico di Emilio Quadrelli e il Mar Tirreno di Pietro Canonica, le sculture in bronzo dorato raffiguranti Il Pensiero di Giulio Monteverde e L’Azione di Francesco Jerace e i pennoni di Gaetano Vannicola con le Vittorie di Edoardo Rubino e Edoardo De Albertis. Nel pieno rispetto dei principi metodologici del restauro italiano, una équipe di esperti operatori, fra le eccellenze del settore, è intervenuta per assicurare la conservazione e la leggibilità delle sculture marmoree e bronzee realizzate agli inizi del Novecento da alcuni dei più importanti artisti del panorama nazionale. L’intervento – interamente sostenuto da Bvlgari tramite l’Art Bonus – ha consentito, in particolare, di bloccare le forme di degrado presenti e di restituire la qualità del modellato delle superfici lapidee delle fontane così come le finiture dorate degli elementi in bronzo. Contestualmente il restauro ha permesso una più approfondita conoscenza dei processi di realizzazione dei manufatti artistici del monumento eseguiti, tutti nel medesimo periodo, da autori diversi. “Il Vittoriano, monumento di straordinaria importanza per la storia e l’identità della Nazione, è insieme una significativa opera d’arte: lo è per l’architettura di Giuseppe Sacconi, lo è per la decorazione plastica, eseguita da alcuni dei principali scultori dell’epoca. Restituito l’accordo cromatico fra il candore del marmo Botticino e la finitura dorata degli elementi in bronzo, il prospetto principale del Vittoriano si presenta oggi agli occhi di cittadini e turisti in tutta la sua magnificenza. Si tratta di un percorso che abbiamo intrapreso insieme a Bvlgari, attraverso una proficua alleanza pubblico-privato per la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio storico-artistico”, dichiara Edith Gabrielli, Direttrice del VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia. Jean-Christophe Babin, Ceo del Gruppo Bvlgari commenta: “Siamo immensamente orgogliosi di aver contribuito al restauro delle sculture del Vittoriano, un monumento straordinario e imponente che, con la sua maestosità, incarna un legame profondo tra passato e presente, ergendosi nel cuore di Roma e celebrando l’unita d’Italia. Il nostro intervento è stato soprattutto focalizzato verso le sculture di marmo e di bronzo, che noi consideriamo i gioielli del Vittoriano. La Città Eterna è da sempre una fonte inesauribile di ispirazione per Bvlgari, e per noi è fondamentale valorizzare, conservare e rendere accessibile al pubblico il suo straordinario patrimonio storico e culturale. Questo impegno rappresenta non solo una responsabilità verso la nostra storia, ma anche un valore imprescindibile per costruire un futuro che permetta di trasmettere la nostra eredità alle generazioni a venire.” Un patrimonio storico-artistico unico al mondo che, per l’intera durata dei lavori, è rimasto accessibile a cittadini e turisti grazie ad un programma di visite guidate che ha riscosso grande apprezzamento da parte del pubblico anche grazie alla possibilità di salire sui ponteggi e vedere dal vivo gli operatori a lavoro sulle opere. Una modalità, quella del “cantiere aperto” già adottata dall’Istituto in occasione del restauro conservativo dell’Altare della Patria volta ad avvicinare il pubblico ad una piena conoscenza del monumento.
Bergamo, Donizetti opera 2024
“ZORAIDA DI GRANATA”
Melodramma eroico su libretto di Bartolomeo Merelli e Jacopo Ferretti (versione rinnovata)
Musica di Gaetano Donizetti
Almuzir KONU KIM
Zoraida ZUZANA MARKOVÁ
Abenamet CECILIA MOLINARI
Almanzor TUTY HERNÀNDEZ
Ines LILLA TAKÁCS
Alì VALERIO MORELLI
Orchestra Gli Originali
Coro dell’Accademia Teatri alla Scala
Direttore Alberto Zanardi
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Bruno Ravella
Scene e costumi Gary McCann
Luci Daniele Naldi
Bergamo, Teatro Sociale, 16 novembre 2024
Il progetto “#Donizetti200” è una sorta d’ideale percorso che di anno in anno accompagna la carriera di Donizetti presentando un’opera che compie duecento anni dalla rappresentazione valorizzando i titoli meno noti e frequentati. La proposta di quest’anno è parsa particolarmente interessante trattandosi della prima ripresa moderna di “Zoraida di Granata” nella versione rimaneggiata per Roma nel 1824. Il progetto complessivo – in collaborazione con il festival di Wexford – ha visto andare in scena nello stesso anno le due versioni con lo stesso allestimento. In Irlanda l’originale del 1822, a Bergamo la revisione del 1824 che segnò il primo autentico successo del compositore sulla scena romana destinato a segnare una svolta artistica – e anche umana (l’apertura dei salotti romani lo porterà a conoscere la futura moglie Virginia Vasselli) nella vita di Donizetti.
A Roma l’originario libretto di Merelli – tratta da quel “Gonzalvo da Corboda” che era già servito a Cherubini per “Les Abencérages” – è rivisto e ampliato da Jacopo Ferretti mentre sul piano musicale oltre alla musica per le nuove sezioni si riscontra soprattutto la riscrittura della parte del protagonista Abenamet – originariamente concepita per tenore – per mezzosoprano richiamandosi alla grande tradizione rossiniana. Opera giovanile ma in cui per la prima volta le qualità del giovane compositore riescono a farsi valere in modo compiuto. Il modello rossiniano è certamente imperante ma qualcosa di nuovo comincia a farsi strada, le formule non seguono più lo svolgimento previsto e in alcuni brani – come l’aria di Zoraida “Rose un dì spiegaste” già si percepisce quella che sarà la futura arte donizettiana. L’esecuzione musicale è affidata ad Alberto Zanardi, giovane direttore già assistente di Frizza e in possesso di un senso storico e stilistico di questo repertorio davvero ammirevole. La sua è una direzione curata, giustamente brillante – molta di questa musica lo richiede – ma capace anche di esaltare quel lirismo soffuso che già traspare e che sarà una delle cifre dell’estetica donizettiana. Alle prese con una partitura assai complessa tiene in mano con sicurezza le redini e riesce a valorizzarne i dettagli senza mai perdere il senso del grande affresco complessivo. L’Orchestra Gli Originali non è sempre inappuntabile ma ha il merito di dare a questa musica il giusto colore e la giusta intensità che trovano ambito ideale negli spazi ridotti del Teatro Sociale. Il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala conferma i meriti che abbiamo riconosciuto nelle precedenti esibizioni.
Konu Kim – già nel cast di Wexford – affronta il tiranno Almuzir con notevole baldanza vocale. Alle prese con una parte ampia e impegnativa – si ricordi che fu scritta per Donzelli – mostra una grande sicurezza su tutta la tessitura, con gravi pieni e acuti sicuri e ben proiettati. Non così nel fraseggio che risulta un po’ povero nel gioco di colori e accenti. Il cantante è ancora giovane e su questo terreno può sicuramente ancora maturare perché il materiale vocale è di sicuro interessante.
Cecilia Molinari splende radiosa nelle vesti dell’eroico Abenamet. La voce non è di grande ampiezza – ma poco importa in uno spazio come questo e con questo peso orchestrale – ma qualità di canto e fraseggio da autentica belcantista. Timbro morbido e seducente e tecnica impeccabile sono unite a un’interprete di sensibilità non comune. La nobiltà di un eroismo araldico e stilizzato, autenticamente classico, si unisce nella sua prova a una sincerità di affetti e di accenti che non può lasciare indifferente.
L’amata Zoraida è Zuzana Marková soprano ceco dal timbro cristallino e dall’innata eleganza. Pulita e precisa nelle colorature supera con sicurezza i passaggi d’agilità ma è soprattutto nei momenti più lirici e dolenti – come la già citata aria delle rose – che emerge al meglio la qualità di un canto di aristocratico nitore. Interpretativamente coglie il carattere volitivo di Zoraida, forte di fronte alle avversità senza mai rinunciare alla sua innata dolcezza. La seducente figura e l’ottima dizione italiana completano ottimamente il quadro. Gli altri ruoli sono affidati ai giovani della Bottega Donizetti che hanno saputo farsi decisamente apprezzare. Valerio Morelli ha una voce di basso molto bella, ricca di suono e ben proiettata con cui da il giusto risalto al perfido Alì, vera anima nera della vicenda mentre la giovane ungherese Lilla Takács nei panni della schiava Ines affronta con gusto e bravura la non facile aria di sorbetto “Del destin la tirannia”. Troppo breve la parte di Almanzor per valutare più compiutamente la prova di Tuty Hernàndez.
La regia di Bruno Ravella declina il tema della guerra civile calandolo nella nostra contemporaneità. La scena si svolge nel luogo simbolo delle guerre balcaniche, la biblioteca di Sarajevo distrutta dai bombardamenti serbi e ricostruita in scena con notevole realismo. I costumi sono contemporanei, abiti eleganti per i civili e divise per i soldati. L’attualizzazione non aggiunge molto – certi temi sono sempre attuali e non è necessario modernizzarli forzatamente – però lo spettacolo e svolto con grande coerenza, e in fondo risulta convincente e non stridente con l’atmosfera dell’opera anche perché la vicenda è seguita con rigore e senza stravolgimenti narrativi. Le scene di Gary McCann sfruttano il ridotto palcoscenico del Teatro Sociale creando illusioni di monumentalità e molto suggestive risultano le luci di Daniele Naldi. Una nota di merito per l’ottima recitazione di tutti gli interpreti con un particolare elogio per la Molinari che si muove in scena con la naturalezza di una vera attrice. Foto Gianfranco Rota
William Byrd (c.1543-1623): “My Ladye Nevells Booke”. Pieter Jan Belder (clavicembalo). Registrazione: 26 maggio 2012 (tr. 8, 10-13), Novembre 2017 (tr.22-24), Marzo 2018 (tr. 31, 32 & 38) e 29-30 Settembre 2021, in Olanda. T. Time: 69′ 22″ (CD1), 68′ 27″ (CD2), 63′ 51″ (CD3). 3CD Brilliant Classics 96887
Il manoscritto “My Ladye Nevells Booke”, contenente musiche di William Byrd, sicuramente uno dei più famosi compositori inglesi del periodo rinascimentale insieme al più anziano Thomas Tallis, costituisce con il Fitzwilliam Virginal Book una delle principali fonti della musica inglese dell’epoca per strumenti a tastiera in area inglese. Copiato da John Baldwin, un corista della Cappella di Windsor, che, oltre a essere uno dei maggiori calligrafi dell’epoca, fu un grande ammiratore di William Byrd, questo manoscritto, risalente al 1591, consta di ben 192 fogli in formato oblungo, ciascuno dei quali composto da un pentagramma a 4 o a 6 linee, nei quali è possibile leggere ben 42 brani del compositore inglese. Passato alla storia come il “padre della musica”, secondo quanto fu scritto, dopo la sua morte, nei registri della Cappella Reale, Byrd visse in un periodo particolarmente turbolento della storia religiosa inglese, seguito allo scisma della chiesa Anglicana che tante divisioni aveva creato e che comunque non toccò il compositore inglese, il quale, nonostante fosse di fede cattolica, fu particolarmente apprezzato dalla regina Elisabetta I, amante della musica. In questa raccolta, della quale non si conosce con precisione la dedicataria, da identificarsi, secondo alcuni studiosi, in Elisabeth Nevill, moglie di Sir Henry Nevill della Casa di Billingbear, il cui stemma è riportato nel frontespizio, è possibile trovare una sintesi dello stile di Byrd che si esprime nelle varie forme dell’epoca, rappresentate dalle danze, come le pavane, per la verità un po’ cupe, e le gagliarde, dalle variazioni, dalle marce, dalle fantasie e da The Battell, scritta secondo alcuni dopo la vittoria della flotta inglese sull’Invincibile armata di Filippo II di Spagna o più verosimilmente ispirata alle Rivolte del Conte di Desmond per la presenza di una marcia irlandese . Non nuovo all’incisione di integrali, Pieter Jan Belder, al quale si deve una pregevole edizione di tutte le sonate di Scarlatti che, insieme a quella di Scott Ross, costituisce certamente un lavoro di riferimento, si accosta a queste composizioni con profondo senso dello stile e ne evidenzia la varietà sfruttando al meglio le possibilità foniche (il registro da quattro piedi per esempio in The flute and the droome della battaglia) e timbriche dei cinque strumenti di cui si è servito, tra i quali, insieme ad eccellenti copie, spicca un virginale originale di Johannes (?) Ruckers risalente al 1604. Si tratta, indefinitiva, di un’edizione di riferimento dell’opera del grande musicista inglese.
Roma, Teatro dell’Opera
SIMON BOCCANEGRA
di Giuseppe Verdi
su libretto di Francesco Maria Piave
Il Teatro dell’Opera di Roma si prepara a inaugurare un nuovo allestimento di Simon Boccanegra, il celebre melodramma in un prologo e tre atti di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave. Questo capolavoro, che intreccia potere, amore e riconciliazione, sarà presentato sotto la bacchetta del direttore musicale Michele Mariotti, per una produzione che promette emozioni intense e una qualità artistica eccelsa. La regia, affidata al visionario Richard Jones, si preannuncia innovativa, in grado di esplorare i risvolti più profondi del dramma verdiano. Le scene e i costumi, curati da Antony McDonald, offriranno un’esperienza visiva elegante e potente, arricchita dal lavoro del light designer Adam Silverman, capace di trasformare ogni attimo in un quadro vivido. La coreografia per i movimenti mimici è firmata da Sarah Kate Fahie, mentre il celebre Renzo Musumeci Greco, maestro d’armi di fama internazionale, si occuperà delle sequenze di duelli e azioni sceniche. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, sarà protagonista di momenti corali che esalteranno la ricchezza musicale e drammatica dell’opera. L’opera vedrà alternarsi interpreti di straordinaria levatura. Nel ruolo del protagonista, il doge Simon Boccanegra, si esibiranno Luca Salsi e Claudio Sgura (nelle repliche del 29 novembre, 1 e 4 dicembre). A dar voce alla sua tormentata figlia Maria, conosciuta come Amelia, saranno Eleonora Buratto e Maria Motolygina. Il personaggio di Jacopo Fiesco, figura cardine della vicenda, sarà interpretato da Michele Pertusi e Dmitry Ulyanov, mentre il giovane e impetuoso Gabriele Adorno avrà il timbro e la passione di Stefan Pop e Anthony Ciaramitaro. A completare il cast, il malvagio Paolo Albiani, interpretato da Gevorg Hakobyan, e Luciano Leoni nei panni di Pietro. L’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretta da Michele Mariotti, darà vita alla complessa e affascinante partitura verdiana, in un allestimento che si presenta come una nuova pietra miliare per il teatro romano. La profondità psicologica dei personaggi, unita all’impatto drammatico della musica e alla raffinatezza visiva della messa in scena, farà di questo Simon Boccanegra un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di opera. Le rappresentazioni si terranno dal 27 novembre al 05 dicembre, con un cast d’eccellenza pronto a rendere omaggio a uno dei titoli più amati del repertorio verdiano. Un’occasione unica per immergersi nell’intensità emotiva e nella bellezza musicale di un’opera senza tempo. Qui per tutti i dettagli.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
La Pirandelliana
presenta
TRAPPOLA PER TOPI
di Agatha Christie
traduzione e adattamento Edoardo Erba
con Ettore Bassi, Claudia Campagnola, Dario Merlini, Stefano Annoni, Maria Lauria, Marco Casazza, Matteo Palazzo, Raffaella Anzalone
scene Luigi Ferrigno
costumi Francesca Marsella
musiche Paolo Silvestri
luci Antonio Molinaro
regia Giorgio Gallione
Roma, 19 Novembre 2024
La tormenta di neve che avvolge la pensione Monkswell Manor non è soltanto un mero sfondo atmosferico, ma un simbolo pregnante di mistero e di isolamento, che avvolge i protagonisti e ne acuisce il senso di vulnerabilità. In questo microcosmo sospeso, dove il tempo sembra perdere consistenza, Mollie e Giles Ralston accolgono un eterogeneo consesso di ospiti, ciascuno dei quali reca con sé un bagaglio di segreti irrisolti e un’aura di ambiguità. L’arrivo del sergente Trotter, col compito di svelare il nesso tra un recente omicidio a Londra e i presenti nella pensione, rappresenta l’elemento catalizzatore di una tensione già palpabile: una tensione che Christie dosa magistralmente, alternando sprazzi di ironia a momenti di suspense di impeccabile precisione. La storia di “Trappola per topi” non è solo una pietra miliare nella produzione della giallista inglese, ma anche un capitolo significativo della storia teatrale stessa. Debuttato all’Ambassadors Theatre di Londra nel 1952, è oggi lo spettacolo più longevo della scena mondiale. Eppure, il fascino di questo dramma non si limita alla sua longevità: è la straordinaria capacità della Christie di sondare le più riposte pieghe dell’animo umano a conferirgli un carattere universale. La produzione italiana curata dalla Pirandelliana riesce a riproporre l’opera non come una semplice rievocazione nostalgica, ma come una riflessione sui meandri della natura umana, mettendo in luce l’attualità di un testo che ancora oggi suscita domande e inquietudini. Giorgio Gallione firma una regia che si distingue per l’equilibrio tra fedeltà al testo e inventiva interpretativa. La regia evita con saggezza la trappola della riproduzione storica pedissequa, offrendo al pubblico una versione che, pur rispettosa del contesto originale, riesce a dialogare con il nostro presente. In questo senso, la sua regia appare essenziale e al contempo audace: le convenzioni dell’ambientazione britannica vengono decostruite, rimosse da quei cliché che avrebbero potuto farne una fredda ricostruzione d’epoca. La pensione Monkswell diventa un non-luogo, uno spazio simbolico in cui il mistero si traduce in inquietudine psicologica, più che in un mero espediente narrativo. L’ambientazione, curata da Luigi Ferrigno, traduce in scena l’atmosfera di isolamento e mistero evocata dal testo. La pensione è un microcosmo di tensioni latenti, in cui ogni oggetto diviene parte integrante del racconto: i mobili austeri, i colori smorzati, tutto contribuisce a una sensazione di attesa carica di presagi. I costumi di Francesca Marsella, accurati e capaci di delineare con eleganza le personalità dei personaggi, sono parte di una messinscena in cui nulla è lasciato al caso, mentre il disegno luci di Antonio Molinaro, con i suoi passaggi studiati tra toni morbidi e tagli drammatici, amplifica la tensione e guida lo sguardo dello spettatore verso il cuore pulsante dell’azione. Il cast è elemento di primaria importanza in questa produzione, e ogni interprete contribuisce con intensità e partecipazione a restituire il complesso gioco di relazioni e segreti sotteso alla trama. Ettore Bassi, nei panni del sergente Trotter, si distingue per una presenza scenica autorevole, capace di unire rigore e ironia, mentre Claudia Campagnola, come Mollie Ralston, offre una performance che gioca con sapienza tra fragilità e determinazione. Gli altri attori – Dario Merlini, Stefano Annoni, Maria Lauria, Marco Casazza, Matteo Palazzo e Raffaella Anzalone – compongono un quadro corale che ben rende la complessità emotiva dei loro personaggi, ciascuno con le proprie ombre e vulnerabilità. Gallione dimostra di cogliere appieno la modernità dell’opera di Christie, esplorando, al di là dell’intreccio giallo, le tematiche più profonde che la sottendono: il labile confine tra innocenza e colpevolezza, la solitudine che si fa eco delle nostre paure più recondite, la fragilità dell’essere umano di fronte al sospetto e alla rivelazione. “Trappola per topi” non è solo un intricato gioco di indizi e false piste, è un’indagine sull’animo umano, su quel lato oscuro che ciascuno di noi preferirebbe non svelare. La produzione del Teatro Quirino è un omaggio rispettoso e insieme innovativo a un classico immortale, un’opera che riesce a sorprendere ancora oggi, nonostante i decenni trascorsi dalla sua prima rappresentazione. Lo spettatore viene coinvolto non soltanto nella risoluzione dell’enigma, ma anche in una riflessione più ampia sulle dinamiche del sospetto, sulle maschere che ciascuno indossa e sui segreti che vorrebbe celare. “Trappola per topi” si conferma così un capolavoro senza tempo, capace di affascinare e catturare il pubblico, regalando ancora una volta quell’emozione unica che solo il teatro sa dare.
Bergamo, Donizetti Opera 2024
“ROBERTO DEVEREUX”
Tragedia lirica in tre atti di Salvatore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti
Elisabetta JESSICA PRATT
Il duca di Nottingham SIMONE PIAZZOLA
Sara RAFFAELLA LUPINACCI
Roberto Devereux JOHN OSBORN
Lord Cecil DAVID ASTORGA
Sir Gualtiero Raleigh IGNAS MELKINAS
Un famigliare di Nottingham e un Cavaliere FULVIO VALENTI
Orchestra Donizetti Opera
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Stephen Langride
Scene e costumi Katie Davenport
Luci Peter Munford
Bergamo, Teatro Donizetti, 15 novembre 2024
Compie dieci il Donizetti Opera, dieci anni che hanno saputo porre questo Festival come punto importante non solo nell’ambito musicale internazionale, ma anche come appuntamento vissuto e partecipato dalla città stessa di Bergamo che vive nel segno di Donizetti. Dieci anni che segnano anche l’ultima stagione di Francesco Micheli che – al netto di qualche distinguo su alcune scelte artistiche – di questa visione aperta del Festival è stato il grande ideatore e artefice.
Decennale che si apre con uno degli estremi capolavori del maestro bergamasco quel “Roberto Devereux” in cui l’anima più oscura del romanticismo penetra nelle fibre più profonde dell’opera italiana, supera le convenzioni della stagione belcantista e apre a una visione drammatica che non solo apre a quella verdiana ma si spinge in avanti a livello d’intensità e coerenza che Verdi raggiungerà solo nella piena maturità.
Grande merito quindi quello di Riccardo Frizza di aver colto ed esaltato queste componenti. Frizza evita la trappola di quella cupezza che tende a caratterizzare l’opera e che può rischiare di schiacciarla per trovare una cifra di autentica drammaticità in cui la cupa cappa del destino che tutto domina si anima di tensione nervose profonde, scoppia di scariche elettriche vanamente represse, si apre in un lirismo che è gemito di cuori sofferenti. Una lettura di estrema coerenza ed efficacia che non solo conferma Frizza tra i massimi interpreti belcantisti del nostro tempo ma dimostra le sue qualità di uomo di teatro. Assai positive le prove dell’Orchestra Donizetti e del Coro dell’Accademia della Scala forgia di quella qualità unica che bisogna riconoscere alla tradizione corale scaligera.“Roberto Devereux” è anche uno degli estremi esiti del belcanto italiano pensato per qualità vocali fuori dal comune e autentico cimento per chiunque sia chiamato a interpretarlo. Protagonista assoluta – cui solo il titolo è negato – Elisabetta trova interprete di sommo interesse in Jessica Pratt. La cantante australiana poteva sulla carta non apparire interprete ideale, virtuosa cristallina ma più portata ad ambiti più lirici che drammatici. La Pratt però ci impone di riflettere sulla vocalità di Elisabetta e su come vada percepita ricollegandosi idealmente Giuseppina Ronzi de Begnis creatrice del ruolo che le fonti ricordano somma mozartiana e più rivolta al passato classico che proiettata ai futuri turgori. Una lettura quindi che si fa recupero di una vocalità che guarda oltre alla tradizione novecentesca per tornare alle origini stesse del titolo. La voce di bellissimo colore, la purezza di una linea di canto ineccepibile, la qualità della vocalista di rango – le puntature aggiunte sono abbaglianti per fermezza e sonorità – si uniscono a un’interprete sensibile e raffinata, capace di cogliere la natura lacerata di Elisabetta, divisa tra affetti e potere e capace di trovare accenti di autentica commozione – quanta verità in quel “Non sia chi dica in terra”.
Al debutto nel ruolo ha tradito un po’ di emozione in “L’amor suo mi fe beata” ma con lo scaldarsi della voce i timori sono scomparsi in uno straordinario crescendo.
John Osborn è un Devereux ideale. La voce unisce solidità e squillo, si è fatta robusta nei centri senza perdere slancio. Anche lui parte un po’ prudente ma passato il primo duetto acquisisce sicurezza e slancio fino a una magistrale esecuzione della grande aria dove alla prestazione vocale si unisce un’autentica partecipazione emotiva. Il suo è un Roberto nobile e sincero tanto nella passione per Sara quanto nella dedizione alla regina, un personaggio vero e profondo.
Raffaella Lupinacci riesce a dare risalto da autentica protagonista a una figura non facile da centrare come Sara. Voce particolare, forse non bellissima ma molto espressiva, timbro da mezzosoprano ma giustamente chiaro e luminoso, sicurissima su una tessitura decisamene alta rende pienamente la natura vocalmente ambigua di queste parti. Interpretativamente tratteggia un personaggio di forte spessore, nobile e appassionato, vittima non passiva del fato inesorabile.
Simone Piazzolla (Nottingham) ha qualche imprecisione nell’aria di sortita ma anche lui va crescendo nel corso dell’opera. Il timbro è davvero bello e lo aiuta non poco. Ci è parso più a suo agio nei furori del marito vendicatore che nell’astratta nobiltà dell’amico generoso. Ottime le prove di David Astorga, Ignas Melkinas e Fulvio Valenti nei ruoli di contorno. Lo spettacolo non manca di suggestione visiva. L’ambientazione è tradizionale anche se non pienamente realistica. Le scene di Katie Davenport sono essenziali e stilizzate e trasmettono un senso di cupa oppressione. Il tema della morte è onnipresente. Lo spettro futuro di Elisabetta si muove tra gli spazi, simboli funerari, teschi e fiori rinsecchiti dominano l’apparato scenico animato da proiezioni di documenti autografi d’epoca. L’immaginario è quello delle Vanitas tanto care all’arte tardo rinascimentale e barocca che ben si adatta al clima dell’opera. Lo stesso tema ritorna nel costume – splendido – di Elisabetta con la grande natura morta dominata da un teschio sepolcrale che ne decora la gonna. Molto belli anche gli altri costumi sospesi tra realismo e simbolo in una sorta di Cinquecento onirico e disturbante.
Ci lascia un po’ perplessi il lavoro registico di Stephen Langridge la cui mano di solida tradizione cede ad alcune cadute di gusto fino al limite del comico involontario – le guardie che giocano all’impiccato con le spade sullo steccato che imprigiona Roberto, l’inspiegata gravidanza di Sara – che rischiano di compromettere uno spettacolo nel complesso sobrio e funzionale.
Un successo trionfale ha accolto tutti gli interpreti, splendido viatico per il prosieguo del festival e augurio per un futuro che appare ancora nebuloso.
Roma, Musei Capitolini
“Tiziano, Lotto, Crivelli E Guercino. Capolavori della Pinacoteca di Ancona”
dal 26 novembre 2024 al 30 marzo 2025
La maestosa Pala Gozzi (1520), capolavoro assoluto di Tiziano Vecellio insieme ad altre 5 celebri opere, tutte di carattere religioso e provenienti dalla Pinacoteca Podesti di Ancona, saranno eccezionalmente esposte, per la prima volta a Roma, in occasione del prossimo Giubileo, dal 26 novembre nelle sale di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini. 6 prestigiose tele – delle quali 5 pale d’altare di grandi dimensioni e una piccola ma lussuosa tempera su tavola – saranno protagoniste di un percorso espositivo che racconta l’importanza della collezione della Pinacoteca Podesti e, in filigrana, la ricchezza della città dorica committente dei maggiori artisti italiani fra Cinquecento e Seicento. Si potranno quindi ammirare la Circoncisione dalla chiesa di San Francesco ad Alto, opera di Olivuccio Ciccarello, interprete principale del rinnovamento della pittura anconetana che fiorì fra Trecento e Quattrocento; la preziosa Madonna con Bambino di Carlo Crivelli, icona della collezione dorica e somma realizzazione del pittore veneto che visse e operò nelle Marche; la Pala dell’Alabarda di Lorenzo Lotto, per la chiesa di Sant’Agostino, in cui si esplicita l’emozionante talento del pittore veneziano, esule a più riprese nella regione. Ancora di Tiziano sarà esposta la monumentale Crocifissione realizzata per la chiesa di San Domenico in cui l’artista esplora la tragedia e la sofferenza umana. Chiude la rassegna l’imponente Immacolata di Guercino, in cui la delicata figura della Vergine si staglia su un paesaggio marino il cui modello potrebbe essere la baia di Ancona. Con questa mostra si intende avviare un percorso di valorizzazione nazionale della collezione anconetana, con lo scopo di restituire ai cittadini e ai visitatori lo spaccato di un periodo cruciale della storia del gusto, del collezionismo e della museologia nella città marchigiana. Un lavoro che proseguirà con il riallestimento della Pinacoteca Civica Podesti, aperta nel dopoguerra dall’allora soprintendente Pietro Zampetti, con le opere salvate dai bombardamenti da un altro grande protagonista della storia della tutela, Pasquale Rotondi, l’eroico direttore del Palazzo Ducale di Urbino a cui si deve la salvaguardia del patrimonio artistico nazionale negli anni tumultuosi del secondo conflitto mondiale. La mostra romana, con questa importante esposizione delle pale d’altare della città dorica, oltre a testimoniare la sacralità e l’importanza che assunse l’arte adriatica del ‘500, anticipa gli eventi culturali previsti per il prossimo Giubileo. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni culturali, con il patrocinio di Giubileo 2025 – Dicastero per l’Evangelizzazione, la mostra è organizzata da Arthemisia in collaborazione con Comune di Ancona, Ancona Cultura, Pinacoteca Civica di Ancona, Regione Marche e Palazzo Ducale di Urbino – Direzione Regionale Musei Nazionali Marche ed è curata da Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche e da Ilaria Miarelli Mariani, Direttrice della Direzione dei Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina. Servizi museali di Zètema Progetto Cultura.
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione Lirica “Autunno 2024”
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Federico Maria Sardelli
Sopranista Bruno De Sá
Johann Anton Filtz: Sinfonia op.II n.2 in Sol minore; Wolfgang Amadeus Mozart: Aria di Sifare “Lungi da te mio bene” (da Mitridate, re di Ponto); Luigi Cherubini: Aria di Lauso “No, non cercar per ora” (da Mesenzio, re d’Etruria); Carl Philipp Emanuel Bach: Sinfonia in Re maggiore Wq 176, H 651; Wolfgang Amadeus Mozart: “Exultate, jubilate” K 165; Sinfonia n.39 in Mi bemolle maggiore K 543
Firenze, 15 novembre 2024
Quando due artisti fuori dal comune si uniscono all’interno dello stesso recital non desta stupore che un luogo enorme come la Sala Metha del Teatro del Maggio registri il tutto esaurito. Da un lato c’è squisito direttore d’orchestra che è anche compositore, flautista, romanziere, saggista, vignettista e pittore (di tale livello da venire esposto in modo permanente alla Galleria degli Uffizi); dall’altro il sopranista brasiliano, non ancora trentacinquenne, Bruno De Sá, fulgida stella in quel firmamento dei cantanti falsettisti che continua a esercitare grande fascino presso un pubblico sempre più trasversale, anche sul piano anagrafico. Se a tale vocalità è impossibile surrogare l’arte perduta dei castrati, è al contrario assai agevole diventare un simbolo di quella ‘fluidità di genere’ che in molti paesi viene a tutt’oggi osteggiata. Ascolteremmo, dunque, con lo stesso entusiasmo le performances di De Sá se fosse un soprano donna con la fascia delle note gravi che perde assai di volume (chi scrive distava dalla sua ugola sette metri) e nei sovracuti fa avvertire una certa contrazione? Probabilmente sì per il bellissimo e ottimamente proiettato suono del range medio-acuto, impreziosito da frequenti ‘filati’ (che di norma non associamo al repertorio barocco) o per i sempre ben sgranati passaggi di coloratura; ma ancor più per aver il coraggio di recuperare brani dimenticati di autori eccelsi (come Cherubini) o di carneadi (come il Luigi Caruso del bis, l’aria tratta dal Fanatico per la musica “In mezzo a mille affanni”) e confezionare con essi un CD per Warner Classic (il titolo è Mille affetti; oltre ai brani offerti in questo concerto contiene pagine inedite di Seydelmann, Reichardt e Alessandri). Di questa passione nell’indagare il repertorio serio e comico più scognito De Sá è capace di trasmettere tutta l’energia, conferendo una spiccata teatralità alle arie, specie nelle ampie cadenze (funzionali, va da sé, a esaltare i preziosi acuti che mandano il pubblico in visibilio). Non si dovrebbe mai giudicare un cantante dall’abbigliamento bizzarro o dalle stravaganze delle movenze sul palco, bensì dalla sua intelligenza interpretativa e De Sá ne possiede molta; non avrebbe raggiunto altrimenti un esito così intenso nella splendida aria di Sifare dove il suo timbro si sposava alla perfezione con quello del corno concertante, suonato in modo sublime da Alessio Dainese. Più tradizionale è apparsa l’interpretazione del mottetto Exultate, jubilate sulla quale gravava forse il ‘peso’ dei tanti falsettisti che, sin da Aris Christofellis, ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Negli affondi verso il registro grave dell’aria di Lauso dal Mesenzio cherubiniano si è ben percepito il ‘lato maschile’ di questo ‘male soprano’ (come ama definirsi) che sul fattore androgino punta per consolidare il proprio successo ma che, glielo si augura, farà sempre più leva sui suoi preziosi progetti di riscoperta del secondo Settecento dimenticato o, meglio, obnubilato dalla presenza titanica di Mozart. Sardelli, da tutti conosciuto come il custode del ‘verbo’ vivaldiano, è un fine conoscitore anche del genio salisburghese che egli interpreta ricollocandolo nel contesto stilistico d’appartenenza e quindi sottraendolo a una mitografia che lo vuole antesignano dei maestri del grande Ottocento e che, pertanto, esige sia cantato come Verdi, Wagner e Puccini o suonato come Brahms. La direzione di Sardelli fa sembrare nuovo un brano arcinoto come la terzultima Sinfonia di Mozart grazie ai tempi più rapidi negli Allegro, ai giochi di contrasti dinamici più spiccati (quegli sforzando indicati come fp nei manoscritti e trascurati da tanti direttori), alle distinzioni sofisticate fra diversi tipi di staccato o di articolazioni degli archi, alla presenza del cembalo (qui l’ottimo Andrea Perugi) come retaggio del basso continuo ancora ben presente nella Vienna del 1788. Stesso discorso si può fare per i brani assai meno conosciuti (ma oggi facilmente reperibili sul web) del violoncellista Filtz (morto a soli 26 anni ma autore di centinaia di brani sinfonici e cameristici alla corte di Mannheim) e di Carl Philipp Emanuel Bach, interpretati rimarcando il nervosismo di fraseggio e la varietà di colori dinamici. Sardelli dirige senza bacchetta perché concerta secondo la prassi di un’epoca in cui la classica figura del direttore d’orchestra era di là da venire; e lo fa con una sicurezza di gesto che gli deriva dal cospicuo studio condotto sulle fonti originali. Lo segue attenta e partecipe l’Orchestra del Maggio, pienamente a suo agio con un repertorio che non è certo abituale nella programmazione concertistica invalsa nei grandi enti lirico-sinfonici e che potrebbe essere ben più spesso frequentato considerando l’entusiasmo di un pubblico tanto numeroso quanto variegato. Foto Michele Monasta
Roma, Sala Umberto
JANNACCI E DINTORNI
UNA STORIA RACCONTATA E CANTATA
Con Simone Colombari e Max Paiella
e con Attilio Di Giovanni (pianoforte e direzione musicale), Gino Marinello (chitarra classica ed elettrica), Alberto Botta (batteria e percussioni), Flavio Cangialosi (basso e fisarmonica), Mario Caporilli (tromba e flicorno), Claudio Giusti (sax, tenore e contralto)
regia di Lorenzo Gioielli
Un concentrato di Jannacci in un’epoca non lontana, e di chi c’era nei dintorni Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Dario Fo. Ma anche i pazzi artistoidi che hanno prodotto capolavori come “El purtava i scarp del tenis” oppure “Vengo anch’io no tu no”. L’amore per il rock, per il jazz ma soprattutto per le persone e le loro storie raccontate nelle canzoni di Jannacci, qualcosa di indefinibile, leggere come aria e allo stesso tempo spesse e profonde, definitive. Jannacci noi lo possiamo vedere in tanti modi diversi, nei dialoghi al bar nel rigore sbagliato, nella foto di un figlio senza motorino, in Cochi e Renato, in Paolo Conte, in Walter Chiari, in Dario Fo, nel Jazz in un locale fumoso, nel cielo grigio ma anche n un prato verde in una foto in bianco e nero di una donna davanti ad una fabbrica in inverno che si chiamava vincenzina. La storia minima di Jannacci vista da un toscano e un romano, un po’ narrata, concentrata, un po’ cantata da Simone Colombari e Max Paiella. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Castel Sant’Angelo
“FORME E COLORI DELL’ITALIA PREROMANA, CANOSA DI PUGLIA”
Curata da Massimo Osanna (Direttore Generale Musei) e Luca Mercuri (Direttore Regionale Musei Puglia)
Roma, 18 Novembre 2024
Nel maestoso abbraccio di Castel Sant’Angelo, luogo intriso di storia millenaria, si è aperta la mostra “Forme e Colori dall’Italia Preromana. Canosa di Puglia”. Questo straordinario evento non è una semplice esposizione di reperti, ma un viaggio emotivo e intellettuale attraverso il tempo, una celebrazione della civiltà Dauna che fiorì tra il IV e il II secolo a.C. Curata con maestria da Massimo Osanna, Direttore Generale Musei, e Luca Mercuri, Direttore Regionale Musei Puglia, la mostra è un trionfo di rigore scientifico e sensibilità artistica, capace di trasportare il visitatore in un universo di simboli, rituali e bellezza senza tempo. Il percorso espositivo è stato concepito con un’attenzione minuziosa alla narrazione visiva e spaziale, trasformando le sale di Castel Sant’Angelo in un teatro dove i reperti diventano protagonisti di una storia dimenticata. La luce, morbida e direzionale, accarezza le superfici degli oggetti, esaltando i dettagli dei mosaici, la lucentezza dei bronzi e le sfumature cromatiche delle ceramiche. La scelta di una palette luminosa calda e dorata non è casuale: essa richiama i toni del tufo pugliese, materiale che ha dato forma agli ipogei dauni, creando un legame simbolico tra il luogo d’origine dei reperti e lo spazio espositivo. Gli oggetti sono collocati in teche di vetro minimaliste, che sembrano sospese nell’aria, quasi a voler sottolineare la loro natura eterea e il loro ruolo di testimonianze di un passato che sfida il tempo. Ogni teca è accompagnata da pannelli esplicativi che coniugano rigore accademico e una prosa evocativa, permettendo al visitatore di comprendere non solo l’oggetto in sé, ma anche il contesto culturale e sociale in cui esso fu creato e utilizzato. Tra i protagonisti della mostra spiccano gli ipogei, tombe scavate nel tufo locale che ospitavano le sepolture delle élite daune. Ogni oggetto recuperato da queste necropoli racconta una storia: le armature, simbolo di potere e prestigio, evocano il ruolo dei guerrieri nelle dinamiche sociali; le ceramiche dipinte con motivi geometrici o figurativi narrano di un’estetica raffinata e di una cultura che intrecciava il sacro e il profano. E poi vi sono i gioielli, ornamenti preziosi che non erano solo simboli di ricchezza, ma amuleti carichi di significati apotropaici, strumenti di comunicazione tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Uno dei pezzi più affascinanti è una corona d’oro, finemente decorata con motivi vegetali, che, come una voce sussurrata attraverso i secoli, ci parla della sacralità attribuita al rito funebre e del legame indissolubile tra i vivi e i morti. Accanto ad essa, le statuette votive in terracotta sembrano dialogare con il visitatore, invitandolo a immaginare il fervore religioso e il senso di appartenenza comunitaria che permeava la vita quotidiana dei Dauni. L’allestimento si sviluppa in un crescendo emotivo, conducendo il visitatore attraverso un percorso che alterna la grandiosità degli oggetti cerimoniali alla delicatezza dei manufatti di uso quotidiano. Le sale, scandite da archi e nicchie, amplificano l’effetto scenografico, mentre una colonna sonora discreta, composta da suoni naturali e melodie evocative, accompagna il visitatore, immergendolo in un’atmosfera che oscilla tra il reale e l’immaginario. Un’installazione multimediale posta al centro di una delle sale principali proietta immagini degli ipogei di Canosa, ricostruiti con tecnologie avanzate. Questa scelta non solo arricchisce l’esperienza visiva, ma rende tangibile l’architettura funeraria dauna, permettendo al pubblico di entrare, seppur virtualmente, in quegli spazi sacri. È un’esperienza che amplifica la percezione del tempo come fluido, dove passato e presente si intrecciano in una danza eterna. Canosa, definita dal sindaco Vito Malcangio “una piccola Roma”, è un gioiello dell’archeologia italiana. Situata nella regione della Daunia, questa città fu un crocevia culturale dove convivevano influenze greche, romane e locali. Tra i suoi tesori più celebri si annoverano l’Ipogeo del Cerbero, l’Ipogeo Lagrasta e l’Ipogeo degli Scocchera, complessi monumentali che testimoniano l’abilità tecnica e artistica delle popolazioni antiche. Oltre agli ipogei, Canosa vanta un patrimonio archeologico che include il Battistero di San Giovanni, un esempio unico di architettura paleocristiana, e i resti del tempio dedicato alla dea Minerva. Questi luoghi, insieme ai reperti esposti a Castel Sant’Angelo, raccontano una storia di connessioni culturali e trasformazioni che continua ad affascinare studiosi e appassionati. La mostra, che rimarrà aperta fino al 2 febbraio 2025, non è solo un omaggio al passato, ma un invito a riflettere sul valore della tutela del patrimonio culturale. Ogni reperto esposto è un testimone silenzioso che ci ricorda l’importanza di custodire e tramandare le radici della nostra identità. Come ha sottolineato l’europarlamentare Francesco Ventola, questa esposizione è solo l’inizio di un viaggio che porterà le meraviglie di Canosa in altre città, consolidando il ruolo della cultura come ponte tra passato e presente, tra locale e globale. La scelta di Castel Sant’Angelo come luogo ospitante non è casuale: esso stesso è un simbolo di stratificazione storica, un monumento che unisce in sé epoche e stili, creando un dialogo tra le diverse anime del nostro patrimonio. “Forme e Colori dall’Italia Preromana. Canosa di Puglia” significa intraprendere un viaggio nell’essenza dell’umanità, un viaggio che ci ricorda quanto il passato sia una bussola per orientare il nostro presente e costruire il futuro. Qui il nostro link sulla mostra a Città del Messico.
Napoli, Teatro San Carlo
RESPIRO/ BREATH
LA STAGIONE 2024 – 2025
Dodici titoli operistici, quattro balletti e ventuno concerti, insieme alla quarta edizione del Festival Pianistico e della rassegna di Musica da Camera: il Teatro di San Carlo presenta “Respiro / Breath”, la Stagione 2024-2025 che inaugura mercoledì 20 novembre 2024 con Rusalka di Antonín Dvořák per la regia di Dmitri Tcherniakov, al suo debutto al Lirico di Napoli. Sul podio il direttore musicale Dan Ettinger. Respiro / Breath è il claim individuato per questa stagione, un invito alla riflessione, a “prendere fiato” – come in musica – e ascoltare il canto del silenzio prima di diventare suono. Respiro / Breath è la possibilità di acquisire una sempre maggiore consapevolezza nel quotidiano, un segno leggero nel flusso del tempo che scorre, la forza indelebile, quanto evanescente, dell’arte che genera il soffio della vita. È il respiro dell’essere umano che duetta col respiro della terra, a tutela della quale bisogna operare adottando importanti azioni di salvaguardia ambientale; è il respiro del mare, dimensione vitale la cui biodiversità è soggetta a continue minacce. A partire dall’opera inaugurale Rusalka, i cui universi hanno ispirato queste e altre suggestioni, la nuova Stagione del Teatro di San Carlo desidera essere un respiro di pace come forte auspicio per il presente. La Stagione d’Opera vedrà per la prima volta al Lirico napoletano non soltanto Tcherniakov, ma con lui vi debuttano in veste di regista Stéphane Braunschweig, Giorgia Guerra e Daniel Jeanneteau. Tornano Hugo De Ana, Edoardo De Angelis, Massimo Gasparon, Claus Guth, Damiano Michieletto, Jetske Mijnssen e Manfred Schweigkofler. Nel cast vocale dei titoli in cartellone, invece, risaltano i nomi di Alessio Arduini, Gábor Bretz, Gianluca Buratto, Javier Camarena, Marianne Crebassa, Luciano Ganci, Ruzil Gatin, Asmik Grigorian, Ekaterina Gubanova, Jonas Kaufmann, Emily Magee, Roberta Mantegna, Ricarda Merbeth, Beate Mordal, Martin Muehle, Brian Mulligan, Anna Netrebko, Ernesto Petti, Anna Pirozzi, Piero Pretti, Anna Prohaska, Anita Rachvelishvili, Sondra Radvanovsky, Alberto Robert, Cameron Shahbazi, Nadine Sierra, Adam Smith, Annalisa Stroppa, Ludovic Tézier, Alexander Tsymbalyuk, Christian Van Horn, Gabriele Viviani, Charles Workman, Pretty Yende. La Stagione di Danza apre con Lo Schiaccianoci di Čajkovskij, per il quale si presenta una nuova coreografia curata da Simone Valastro. Chiuderà Giselle di Adolphe Adam, con un omaggio a Patricia Ruanne, di cui si riproporrà la coreografia. Tre titoli operistici vedranno impegnato il direttore musicale Dan Ettinger, a sua volta protagonista di quattro appuntamenti della Stagione di Concerti. In questa, il Teatro di San Carlo accoglierà il ritorno di grandi direttori quali Marco Armiliato, Renaud Capuçon, Michele Mariotti, Pablo Mielgo e Constantin Trinks. Per la prima volta al Lirico di Napoli, invece, saranno sul podio Constantinos Carydis, Oksana Lyniv e George Petrou. Una particolare attenzione è dedicata alle grandi voci della lirica contemporanea con, in calendario, i recital di Franco Fagioli, Rosa Feola, Elīna Garanča, Asmik Grigorian, Lisette Oropesa e Luca Salsi mentre, in concerto con l’Orchestra del Teatro di San Carlo, vi saranno Maria Agresta ed Ekaterina Gubanova. Numerosi sono i debutti anche per i solisti che condivideranno il palcoscenico con la compagine orchestrale sancarliana: Truls Mørk al violoncello, Simone Lamsma al violino, Sergei Babayan, Marc-André Hamelin e Juan Pérez Floristán al pianoforte. Quattro debutti anche per i quattro appuntamenti del Festival Pianistico: Daniil Trifonov, Jean-Paul Gasparian, Igor Levit ed Elena Bashkirova. QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.
Napoli, Teatro San Carlo
Inaugurazione Stagione d’Opera 2024/25
RUSALKA
di Antonín Dvořák
firmata da Dmitri Tcherniakov
diretta da Dan Ettinger
Nel cast vocale Asmik Grigorian, Adam Smith, Ekaterina Gubanova e Anita Rachvelishvili
È Rusalka, la fiaba lirica di Antonín Dvořák, a inaugurare la Stagione 2024-2025 del Teatro di San Carlo.Il sipario si alzerà mercoledì 20 novembre alle ore 20:00 sulla nuova produzione per la regia di Dmitri Tcherniakov, per la prima volta al Lirico napoletano. La direzione è affidata al direttore musicale Dan Ettinger, sul podio alla guida di Orchestra e Coro del Teatro San Carlo, quest’ultimo preparato da Fabrizio Cassi. Come di consueto per ogni sua produzione, Dmitri Tcherniakov firma, per Rusalka, anche la scenografia. I costumi sono di Elena Zaytseva, le luci di Gleb Filshtinsky. Video Designer è Alexej Poluboyarinov con Maria Kalatozishvili come Lead Animation Artist. La drammaturgia è di Tatiana Werestschagina. Un cast internazionale vede in primo piano Asmik Grigorian nel ruolo del titolo. è una Rusalka che segna il debutto sul palcoscenico del Teatro San Carlo non solo per il soprano lituano, ma anche per Adam Smith, che dà voce e volto al Principe. Ekaterina Gubanova sarà La Principessa Straniera, Anita Rachvelishvili Ježibaba. Interpreta Vodník Gabor Bretz. Peter Hoare e Maria Riccarda Wesseling vestiranno i panni del Guardiacaccia e dello Sguattero, che nella inedita visione del regista saranno rispettivamente il Padre e la Madre di Rusalka. Completano il cast vocale le tre Ninfe del Bosco, Julietta Aleksanyan, Iulia Maria Dan e Valentina Pluzhnikova, con Andrey Zhilikhovsky nel ruolo del Cacciatore. Tra i più rinomati registi d’opera della scena contemporanea, Tcherniakov ha ricevuto nel corso della sua carriera numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Tra gli altri, vince nel 2008 il Premio della Critica Musicale Franco Abbiati e nel 2014 il Premio Lírico Campoamor. Nella sua rilettura, l’opera sarà lontana dal suo immaginario fiabesco: “Lo scopo è di avere una Rusalka diversa, non una Rusalka da fiaba, ma una Rusalka vera” – afferma. “Quando andiamo in teatro deve esserci sempre una scossa elettrica e per questo prendo molto sul serio Rusalka. Che sia una fiaba lo sappiamo tutti. Ma a cosa serve portare in scena un’altra volta una fiaba per far vedere allo spettatore ciò che sa già? È inutile. Importante è invece decifrare quello che cela, il suo segreto.” Prosegue: “La passionalità e complessità della musica fanno intendere un complesso ed intrecciato puzzle dei rapporti e conflitti umani. Parleremo proprio di questo. Tutte le situazioni saranno per noi riconoscibili. E racconteremo delle difficoltà di interazioni umane: della paura dell’abbandono, della vergogna, del sacrificio in nome di qualcuno, di una prolungata situazione di abuso, dell’impossibilità di esprimere qualcosa di doloroso, della dipendenza, dello stalking, dell’ossessione amorosa che oltrepassa tutti i limiti.” Il Sovrintendente Stéphane Lissner dichiara: “Per l’Inaugurazione della mia ultima Stagione al Teatro di San Carlo ho voluto Dmitri Tcherniakov, che considero il più importante regista sulla scena della regia lirica contemporanea. È da anni che gli propongo questo titolo e la conferma è avvenuta proprio quando Asmik Grigorian ha dato la sua disponibilità al regista: una straordinaria congiuntura artistica ha permesso di costruire questa speciale produzione. Rusalka è un’opera meravigliosa, sia dal punto di vista musicale che drammaturgico e Tcherniakov, con la sua rilettura, la arricchisce di uno sguardo inedito per la sua abilità nel trasporre personaggi e vicende delle opere liriche nel mondo contemporaneo.” È una Rusalka che dialoga in maniera speciale anche con la città di Napoli. Una delle immagini create appositamente dai videoartisti per questa produzione ha invaso le strade di Napoli attraverso le opere di Trisha, artista di strada. E su questo progetto di comunicazione, che connette arte e città, la Direttrice Generale Emmanuela Spedaliere afferma: “L’immaginario di Rusalka, che richiama il tema del mito acquatico e della leggenda, è perfettamente in sintonia con il legame storico della città con la figura di Parthenope, la sirena simbolo di Napoli. La sua leggenda continua a essere un’ispirazione per la città e per i suoi abitanti, che celebrano l’unione tra umano e sovrannaturale, tra il reale e l’immaginario. È una fusione che si riflette anche in Rusalka, un’opera che, proprio come la leggenda partenopea, mette in scena il mistero della natura e dell’amore attraverso il destino di una creatura che abita mondi diversi.” QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.
Roma, Galleria Borghese
POESIA E PITTURA NEL SEICENTO. GIOVAN BATTISTA MARINO E LA MERAVIGLIOSA PASSIONE
Curata da Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza
“Pittore, hai colori, hai la tela e il pennello; ma non perciò dipingi, se il merto ha più cervello” G.B. Marino
Roma, 18 Novembre 2024
Con la mostra “Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione”, la Galleria Borghese propone un raffinato viaggio che abbraccia le profonde connessioni tra poesia, pittura, sacro e profano, letteratura, arte e potere, immergendosi nel cuore del primo Seicento italiano. Dal 19 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, questo inedito percorso espositivo guida i visitatori attraverso un dialogo tra i capolavori della pittura rinascimentale e barocca, da Tiziano a Tintoretto, da Correggio ai Carracci, da Rubens a Poussin, ispirandosi alla “meravigliosa” passione per la pittura del più grande poeta del Seicento, Giovan Battista Marino. Curata da Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza, l’esposizione celebra l’età d’oro del Barocco, un periodo durante il quale il rapporto tra poesia e pittura raggiunse il suo apice. Giovan Battista Marino, autore di capolavori come “Adone” (1623) e “La Galeria” (1619), è protagonista di un viaggio artistico e letterario in cui poesia e pittura si fondono, sfidandosi reciprocamente e giocando con riflessi e rimandi simbolici. Marino, noto per la sua abilità di sedurre i lettori con immagini evocative, trasforma l’arte figurativa in versi poetici che descrivono opere reali e immaginarie, creando un continuo scambio tra immagine e parola. La mostra guida i visitatori attraverso questo intricato mondo di riflessi artistici, invitandoli a riscoprire le connessioni profonde tra le arti visive e la letteratura del Seicento. Il poeta, immerso nelle corti e nei circoli intellettuali più prestigiosi dell’epoca – dalla corte di Matteo di Capua a Napoli, alla corte papale di Clemente VIII Aldobrandini a Roma, fino alle corti genovesi di Giovan Carlo Doria e Giovan Vincenzo Imperiali e quella torinese di Carlo Emanuele I – riuscì a intrecciare relazioni con artisti di primo piano come il Cavalier d’Arpino, Bernardo Castello, Caravaggio, Agostino Carracci, Ludovico Cigoli e Palma il Giovane. La figura di Marino, costretto a lasciare l’Italia nel 1615 a causa delle persecuzioni dell’Inquisizione, è centrale nella mostra. Rifugiatosi a Parigi alla corte di Luigi XIII e Maria de’ Medici, Marino vi restò fino al 1623, stringendo rapporti con artisti come Nicolas Poussin, per il quale scrisse una lettera di presentazione destinata a Roma, una sorta di passaggio del testimone tra poesia e pittura che si rinnova nel contesto romano. Questo momento è simbolicamente significativo, in quanto sancisce l’incontro tra la parabola letteraria del poeta e il definitivo approdo del grande pittore francese a Roma, segnando una congiunzione tra le due arti. La Galleria Borghese, con la sua collezione unica di capolavori iniziata dal cardinale Scipione Borghese nei primi decenni del Seicento, offre il contesto ideale per rileggere la figura del poeta e il suo legame con le arti figurative. Le opere esposte, disposte in un allestimento che celebra la teatralità barocca, sono scelte per illustrare il dialogo continuo tra poesia e pittura: un dialogo che è stato non solo simbolico, ma anche profondamente pratico, influenzando la produzione artistica e letteraria del tempo. “La Galeria” di Marino è una testimonianza chiave di questo rapporto. Composta da 624 componimenti poetici, questa raccolta è divisa in sezioni dedicate a pitture, sculture, favole e storie, e rappresenta un omaggio alle arti figurative dell’epoca. Ogni componimento è un viaggio poetico, una descrizione che vuole tradurre l’immagine in parola, esaltando la bellezza delle opere, spesso presenti solo nella mente dell’autore, e trasformandole in un’esperienza estetica per il lettore. La mostra mette in luce proprio questa fusione creativa: un gioco continuo di rispecchiamenti tra testi poetici e opere d’arte che ben rappresenta l’ambizione barocca di superare i limiti di ogni singola forma artistica per raggiungere la “meraviglia”. L’allestimento scenografico della Galleria Borghese, fedele allo spirito barocco, accentua il senso di stupore e coinvolgimento estetico, immergendo il visitatore nell’universo artistico di Giovan Battista Marino. La “meravigliosa passione” di Marino per l’arte figurativa non era solo un esercizio intellettuale, ma un vero e proprio modo di vivere e sentire l’arte, in cui la poesia diveniva uno strumento per esaltare la pittura e la pittura si nutriva del linguaggio poetico per acquisire nuovi significati e profondità. La mostra è quindi non solo un omaggio a Marino, ma anche un’esplorazione del Barocco come epoca di meraviglia, in cui l’arte figurativa e la letteratura si compenetrano a vicenda. Attraverso il percorso espositivo, i visitatori possono osservare opere di artisti come Tiziano, Tintoretto, Rubens e Poussin, messe in relazione con i versi di Marino, in un dialogo che restituisce il senso di stupore e di bellezza tipico del Seicento. Ogni sala della mostra rappresenta un capitolo di questa narrazione intrecciata, una finestra aperta su un’epoca in cui l’arte non conosceva confini tra i generi e la poesia poteva diventare pittura, e viceversa. “Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione” è un invito a esplorare le meraviglie di un’epoca in cui le arti vivevano in simbiosi, e a riscoprire l’eredità di un poeta capace di elevare la parola al livello dell’immagine, creando un connubio inscindibile tra letteratura e arte figurativa. La Galleria Borghese, con la sua atmosfera unica e la sua straordinaria collezione, rappresenta il luogo perfetto per rivivere questa stagione d’oro dell’arte italiana, offrendo al pubblico un’occasione preziosa per entrare in contatto con la “meraviglia” barocca e con l’eredità di uno dei più grandi poeti e intellettuali del Seicento.
Roma, MAXXI
BVLGARI PRIZE 2024
Nel panorama dell’arte contemporanea, ogni iniziativa che si propone di mettere in dialogo la creatività emergente con istituzioni consolidate costituisce un evento che va oltre la mera celebrazione estetica. Il MAXXI BVLGARI PRIZE 2024 non fa eccezione. Si presenta come un complesso intreccio di significati, un dispositivo che riflette, plasma e interroga il sistema artistico attuale, esplorando al contempo le tensioni sociali, culturali e tecnologiche del presente. Il premio, con le sue molteplici componenti, si configura non solo come una piattaforma espositiva, ma come un vero e proprio campo di forze semiotiche, dove ogni elemento concorre alla costruzione di un discorso stratificato. Le opere site-specific presentate dai finalisti – Riccardo Benassi, Monia Ben Hamouda e Binta Diaw – costituiscono non tanto una risposta quanto una domanda posta allo spettatore, al sistema dell’arte e alla contemporaneità stessa. Ogni lavoro si inserisce in uno spazio che è sia fisico che simbolico, il Museo MAXXI, il quale, con la sua architettura e il suo ruolo istituzionale, diventa il contesto necessario per un dialogo complesso tra tradizione e innovazione, tra la specificità locale e l’apertura globale. La mostra, a cura di Giulia Ferracci, trova nella sala Gian Ferrari non solo una cornice, ma una cassa di risonanza che amplifica la pluralità di voci rappresentate dai tre artisti. Benassi, nato a Cremona nel 1982, esplora attraverso le sue installazioni il rapporto tra corpo, spazio e tecnologia, sfidando le convenzioni narrative dell’arte visiva. Monia Ben Hamouda, milanese classe 1991, intreccia nella sua ricerca le radici culturali e le identità stratificate, offrendo opere che sono al contempo meditazioni intime e riflessioni universali. Binta Diaw, anch’essa milanese ma di origini senegalesi, nata nel 1995, pone al centro della sua pratica la memoria collettiva, declinata attraverso materiali e forme che evocano una profonda connessione tra presente e passato. Questi tre protagonisti sono stati selezionati da una giuria internazionale che, lungi dall’essere un semplice organo decisionale, rappresenta un mosaico di prospettive critiche e geografie culturali. Composta da personalità di spicco come Francesco Stocchi, Direttore artistico del MAXXI, e Diana Campbell, Direttrice artistica della Samdani Art Foundation, la giuria riflette una visione ampia e inclusiva, capace di cogliere le sfide dell’arte contemporanea su scala globale. È significativo che l’annuncio dei finalisti sia avvenuto a Parigi, presso l’Ambasciata d’Italia: un gesto che non è solo logistico, ma simbolico, sottolineando l’intreccio tra rappresentanza nazionale e vocazione internazionale che caratterizza il premio. Il processo di selezione, rigoroso e articolato, vede il coinvolgimento di figure autorevoli del panorama artistico italiano, le quali, attraverso la loro sensibilità curatoriale, contribuiscono a delineare una mappa delle tendenze più innovative. Tra i nomi spiccano quelli di critici e curatori come Antonia Alampi, Maria Alicata e Martina Angelotti, ciascuno portatore di una visione unica che arricchisce il dialogo complessivo. Questa pluralità di sguardi conferisce al premio una profondità che trascende la dimensione individuale, rendendolo un evento collettivo in cui convergono molteplici narrazioni. Un elemento distintivo di questa edizione è l’introduzione del MAXXI BVLGARI PRIZE for Digital Art, che premia progetti capaci di esplorare i confini tra arte e tecnologia. Roberto Fassone, insignito della menzione speciale per il suo lavoro, rappresenta una voce che indaga i limiti dell’immaginazione e le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, mettendo in discussione le logiche autoreferenziali del sistema artistico. Questa nuova sezione non è solo un ampliamento del premio, ma una riflessione sulla direzione che l’arte potrebbe prendere in un’epoca sempre più dominata dal digitale. Il percorso del premio, che culminerà nel gennaio 2025 con l’annuncio del vincitore, non si esaurisce nella celebrazione di un singolo artista, ma si configura come un processo continuo di negoziazione e scoperta. La possibilità per il pubblico di esprimere una preferenza sull’opera più apprezzata introduce un elemento di partecipazione che sfida la tradizionale distanza tra arte e spettatore. In questo senso, il MAXXI BVLGARI PRIZE diventa anche un esperimento sociale, un campo in cui si ridefinisce il ruolo del visitatore, chiamato non solo a osservare, ma a contribuire attivamente alla costruzione del significato. Nato nel 2001 come Premio per la Giovane Arte, e trasformato nel 2018 grazie al supporto di Bulgari, il premio ha assunto un ruolo centrale nel panorama culturale italiano. Non è solo un trampolino di lancio per giovani talenti, ma un punto di riferimento che documenta e promuove le espressioni più sperimentali e innovative dell’arte contemporanea. Attraverso le sue edizioni, il premio ha costruito un nucleo fondamentale della collezione del MAXXI, contribuendo a definirne l’identità. Ciò che rende il MAXXI BVLGARI PRIZE un fenomeno unico è la sua capacità di intersecare i piani del discorso istituzionale e dell’esplorazione creativa. Le opere selezionate non sono solo oggetti estetici, ma dispositivi che interrogano il presente, esplorandone le contraddizioni e le possibilità. Ogni installazione, ogni progetto digitale, ogni intervento curatoriale diventa un tassello di una narrazione più ampia, che coinvolge non solo gli artisti e i curatori, ma anche il pubblico e il contesto sociale in cui si inseriscono. Il MAXXI BVLGARI PRIZE non è dunque semplicemente una mostra, ma un’esperienza che invita a riflettere sul senso dell’arte e sul suo ruolo nel mondo contemporaneo. Ogni elemento – dall’allestimento al coinvolgimento del pubblico, dalla giuria internazionale alla nuova sezione digitale – contribuisce a creare un discorso stratificato, in cui la bellezza, l’innovazione e la critica convivono in un equilibrio dinamico. È in questo dialogo costante, in questa tensione tra passato e futuro, che risiede la vera essenza del premio, che non si limita a premiare, ma a interrogare, ispirare e trasformare.
Napoli, Gallerie d’Italia
SIR WILLIAM E LADY HAMILTON
a cura di Francesco Leone e Fernando Mazzocca
Napoli accoglie, con lo splendore che le è proprio, una mostra che non si limita a celebrare il passato ma lo trasforma in una narrazione viva e pulsante. “Sir William e Lady Hamilton“, inaugurata alle Gallerie d’Italia di via Toledo il 25 ottobre 2024 e visitabile fino al 2 marzo 2025, è un viaggio raffinato e suggestivo nel cuore del Settecento, secolo di grandi scoperte, di estetiche rivoluzioni e di appassionate vicende umane. L’esposizione, curata con maestria da Francesco Leone e Fernando Mazzocca, offre una lettura profonda della figura di Sir William Hamilton, ambasciatore inglese presso la corte di Ferdinando IV di Borbone, e della sua celebre consorte, Lady Emma Hamilton. Napoli, crocevia del Grand Tour e fucina di ispirazioni per artisti, scienziati e intellettuali, fu per Hamilton una patria elettiva, un laboratorio di esperienze che intrecciarono il fascino dell’antico con la modernità nascente. Questa mostra non è solo un tributo al loro lascito culturale, ma una celebrazione del dialogo incessante tra passato e presente, tra mondi apparentemente lontani che si incontrano nell’arte e nella storia. L’allestimento, che si sviluppa attraverso settantotto opere tra dipinti, ceramiche, sculture e manufatti, rivela il respiro internazionale di un progetto ambizioso. Provenienti da collezioni pubbliche e private di grande prestigio – tra cui la Reggia di Caserta, il British Museum, la National Portrait Gallery e il Thyssen-Bornemisza – i capolavori in mostra delineano un ritratto complesso di William Hamilton, figura poliedrica che seppe coniugare diplomazia, scienza, collezionismo e arte. È impossibile non restare affascinati dall’intensità dei ritratti di Lady Emma, dipinti da maestri come George Romney e Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, che ne immortalano la bellezza radiosa e il carisma magnetico. Emma, figura leggendaria per la sua avvenenza e la sua audacia, incarna lo spirito del tempo, un’epoca in cui il mito classico tornava a vivere attraverso il filtro dell’immaginazione moderna. Nei tableaux vivants che la resero celebre presso la corte napoletana e oltre, Lady Hamilton interpretava le dee e le eroine dell’antichità con una teatralità che esaltava il fascino della sua personalità. La mostra esplora anche questa dimensione performativa della sua figura, amplificata da un video della Fondazione Cineteca Italiana che raccoglie rappresentazioni cinematografiche ispirate alla sua storia. Accanto alla dimensione mondana e mitologica, il percorso espositivo illumina l’originalità del collezionismo di Hamilton. La sua raccolta di vasi greci, molti dei quali provenienti da Ercolano e Pompei, non era solo un esercizio estetico, ma una manifestazione di un’intuizione profonda: l’antichità non è un semplice passato, ma un modello capace di dialogare con il presente. La pubblicazione delle Antiquités étrusques, grecques et romaines, magnificamente illustrata e acquerellata, testimonia questa visione. Hamilton, con il contributo dell’erudito Pierre-François Hugues d’Hancarville e, in parte, di Johann Joachim Winckelmann, non intendeva solo documentare, ma ispirare. Le raffinate illustrazioni dei vasi diventarono un riferimento per gli artisti del Neoclassicismo, come John Flaxman e Josiah Wedgwood, i cui lavori dimostrano come la pittura vascolare potesse rivivere attraverso nuovi linguaggi artistici. Ma Hamilton non fu solo un collezionista. La sua curiosità si estendeva alla scienza, in particolare alla vulcanologia, disciplina in cui fu un pioniere. Attraverso le magnifiche illustrazioni dei Campi Phlegraei, realizzate da Pietro Fabris, la mostra rende omaggio alla passione di Hamilton per i vulcani, simboli potenti del dinamismo della natura e dell’irrequietezza dell’animo umano. Queste opere, colorate a mano con straordinaria perizia, non sono solo documenti scientifici, ma vere e proprie opere d’arte, che catturano l’essenza della terra napoletana, dalle eruzioni del Vesuvio ai paesaggi suggestivi delle sue pendici. Il legame di Hamilton con Napoli si intrecciò anche con il fermento artistico dell’epoca. La mostra dedica uno spazio significativo al suo rapporto con pittori come Giovanni Battista Lusieri, Joseph Wright of Derby e Thomas Jones, che trovavano nelle vedute napoletane e nei fenomeni naturali locali una fonte inesauribile di ispirazione. Hamilton, ospitandoli e incoraggiandoli, contribuì a trasformare Napoli in un centro nevralgico per l’arte del paesaggio moderno, un luogo in cui la tradizione del vedutismo si evolveva in una nuova sensibilità estetica, capace di catturare l’atmosfera fugace e la luce mutevole. Non meno affascinante è la dimensione politica e sociale della mostra. Hamilton, con il suo secondo matrimonio, divenne un protagonista della mondanità europea, intrecciando relazioni che spaziavano dal mondo aristocratico a quello intellettuale. La figura di Lady Emma, con il suo spirito libero e la sua relazione con l’ammiraglio Horatio Nelson, aggiunge un elemento di scandalo e leggenda che permea tutta l’esposizione. I ritratti esposti, impregnati di classicismo, non solo celebrano la bellezza di Emma, ma riflettono il ruolo che la donna ebbe come musa e intermediaria culturale. La mostra “Sir William e Lady Hamilton” non si limita a narrare una storia, ma invita a riflettere sul significato stesso della memoria culturale. Napoli, con la sua stratificazione di epoche e civiltà, diventa il luogo ideale per questa celebrazione. Attraverso un allestimento che combina arte, scienza e storia, il visitatore è chiamato non solo a osservare, ma a immergersi in un’esperienza che restituisce l’atmosfera di un’epoca irripetibile. Le Gallerie d’Italia, grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo e al dialogo con istituzioni internazionali, si confermano come un polo culturale di eccellenza, capace di portare avanti una visione moderna del museo come spazio vivo, in cui passato e presente si incontrano. Il catalogo della mostra, pubblicato da Skira, arricchisce questa esperienza, offrendo una testimonianza duratura di un progetto che non è solo espositivo, ma profondamente culturale. Così, nell’intreccio tra la dimensione personale di William ed Emma e il loro contributo al panorama artistico e scientifico, la mostra si rivela un’opera corale, un’ode alla bellezza e alla complessità della Napoli del Settecento. Sir William e Lady Hamilton non sono solo personaggi storici, ma simboli di un’epoca in cui l’arte, la scienza e la vita mondana si fondevano in un’unica, luminosa visione del mondo.
Paestum, Museo Archeologico Nazionale
PAESTUM: DALLA CITTA’ ROMANA A OGGI
La riapertura della Sezione Romana a Paestum rappresenta un evento straordinario, un ponte tra presente e passato che getta nuova luce sulle radici di una città dalla storia complessa e stratificata. Il Parco Archeologico di Paestum, rinomato per le sue grandiose vestigia greche, si rivela nuovamente come un luogo in cui epoche differenti si sovrappongono e si intersecano, generando nuove narrazioni e identità. La Sezione Romana, finalmente restituita al pubblico, testimonia il passaggio del sito dal periodo lucano e greco a quello romano, quando Paestum cambiò volto, accogliendo una nuova popolazione, nuove architetture e nuovi costumi, in un processo di trasformazione che segnò profondamente la storia della città. A venticinque anni dal primo allestimento, ha aperto al pubblico la sezione “Paestum: dalla città romana a oggi” del Museo Archeologico Nazionale di Paestum, intitolata all’archeologo Mario Torelli. La mostra è un viaggio attraverso il tempo, dedicato al racconto della città dalla fondazione romana del 273 a.C. fino al Medioevo, esplorando la religiosità, gli spazi pubblici e privati, e la vita quotidiana attraverso reperti inediti. L’esposizione si sviluppa attraverso incisioni e acquerelli del Grand Tour provenienti dalla collezione della Fondazione Giambattista Vico, per concludersi con documenti e fotografie del XX secolo che illustrano gli scavi e gli studi ancora in corso, restituendo un legame immediato tra romanità e contemporaneità. Il taglio del nastro di questo importante traguardo per i Parchi Archeologici di Paestum e Velia è avvenuto venerdì 15 novembre 2024, alle ore 12. Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato figure di spicco del panorama culturale italiano: Massimo Osanna, Direttore Generale Musei; Tiziana D’Angelo, Direttrice dei Parchi Archeologici di Paestum e Velia; e Teresa Marino, Funzionario Archeologo dei Parchi. Ha concluso l’intervento Alfonsina Russo, Capo Dipartimento per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale. A seguito della cerimonia, si è svolta la visita alla domus del mosaico di Nettuno, offrendo ai presenti l’opportunità di immergersi ulteriormente nelle testimonianze della romanità di Paestum. La Sezione Romana si trova all’interno del Museo Archeologico di Paestum e si distingue per l’accurata esposizione di reperti che documentano l’importante trasformazione della colonia a partire dal 273 a.C., quando Paestum entrò ufficialmente a far parte dell’orbita romana. Tra i reperti più significativi si annoverano frammenti di decorazioni architettoniche, statue, iscrizioni e oggetti di uso quotidiano, che delineano il profilo di una città pienamente integrata nella sfera romana. Paestum, un tempo conosciuta come Poseidonia, assunse un nuovo volto, romano, che si intrecciò con le tradizioni e la cultura greco-lucana, creando un esempio emblematico dell’integrazione culturale che ha caratterizzato la storia del sud della penisola italiana. Una delle caratteristiche più affascinanti della Sezione Romana è la narrazione della monumentalità pubblica e della vita privata, due dimensioni imprescindibili della città romana. Le nuove scoperte comprendono tratti della viabilità romana che attraversava Paestum, nonché i resti delle antiche domus, le abitazioni che raccontano il vissuto di una classe sociale composita, formata da proprietari terrieri di origine romana e popolazioni locali. I mosaici, con i loro motivi geometrici e dettagli floreali, evocano l’atmosfera delle dimore dell’epoca, suggerendo un’estetica del bello che permeava ogni angolo della casa. L’attenzione ai dettagli decorativi riflette il gusto romano per la simmetria e l’equilibrio, creando una continuità tra architettura e vita quotidiana. Di particolare rilevanza è la rappresentazione del foro, l’antica piazza principale che costituiva il cuore pulsante della Paestum romana. Qui, tra il II e il I secolo a.C., vennero edificati i principali edifici pubblici: la basilica, luogo in cui si amministrava la giustizia e si svolgevano le attività economiche, e il tempio, simbolo dell’integrazione delle divinità romane in un contesto già sacralizzato dalla presenza del pantheon greco. La ricostruzione del foro all’interno del museo è estremamente suggestiva, con pannelli illustrativi e modellini che permettono al visitatore di comprendere la trasformazione della topografia urbana e la centralità degli spazi pubblici nella vita della comunità. La riapertura della Sezione Romana è stata accompagnata da un lavoro minuzioso di restauro e riallestimento, che ha riportato alla luce i colori, le forme e la vivacità della città romana. I visitatori possono ammirare non solo i resti materiali, ma anche immergersi in una narrazione che restituisce la quotidianità dell’epoca, grazie all’ausilio di supporti multimediali che rendono l’esperienza più immersiva. Camminando tra le strade lastricate, è possibile intravedere le botteghe aperte lungo le vie principali e percepire l’eco delle voci che animavano il foro. Le ricostruzioni digitali offrono uno sguardo inedito sul modo in cui i Romani adattarono la città al loro stile di vita, con infrastrutture come le terme e le strade ben progettate che facevano di Paestum una città moderna e ben collegata. La nuova Sezione Romana rappresenta anche uno spunto di riflessione sull’importanza della conservazione del patrimonio archeologico e sulla responsabilità collettiva di tutelare la memoria storica. Ogni frammento, ogni iscrizione ci parla non solo di un passato lontano, ma anche della nostra identità culturale, offrendo una chiave di lettura del presente. Paestum non è solo una finestra sul mondo greco, con i suoi templi dorici maestosi e il santuario di Hera, ma è anche un racconto della romanità, del modo in cui Roma seppe assorbire e ridefinire le culture locali, dando vita a un tessuto sociale e culturale ricco e articolato. Come ha osservato Italo Calvino nelle sue “Città invisibili”, ogni città è fatta di stratificazioni, di storie che si sovrappongono e dialogano tra loro, ed è proprio questo dialogo incessante che rende i luoghi affascinanti e degni di essere esplorati e compresi. La Sezione Romana è un invito a scoprire quelle storie, a comprendere come la città, pur cambiando volto e nome, abbia mantenuto una continuità culturale e sociale che giunge fino a noi. Con la riapertura della Sezione Romana, Paestum non è solo la culla dei templi dorici meglio conservati d’Italia, ma diventa anche una testimonianza eloquente del dialogo tra civiltà, del passaggio dalla cultura greca a quella romana, e di come questo passaggio abbia forgiato l’identità del territorio.
Sonata No.1 in E-flat BWV 525; Sonata No.2 in C minor BWV 526; Sonata No.3 in D minor BWV 527; Sonata No.4 in E minor BWV 528; Sonata No.5 in C BWV 529; Sonata No.6 in G BWV530. Manuel Tomadin (organo). Registrazione: 20 e 21 ottobre 2021 presso Hervormde Gemeente Vollenhove, The Netherlands. T. Time: 79′ 33″ 1 CD Brilliant Classics 96438
Composte tra il 1727 e il 1732 a scopo didattico per il figlio maggiore Wilhelm Friedemann, le Sei sonate in trio per organo di Bach si ispirano alle composizioni per due violini, ma anche per flauto, oboe o altri strumenti e basso continuo. Anzi secondo un’ipotesi, non del tutto verificabile, ma suggestiva e basata sul fatto che il primo movimento della quarta sonata è la trascrizione della sinfonia di apertura della seconda parte della cantata Die Himmel erzählen die Ehre Gott, questi lavori deriverebbero da precedenti composizioni di Bach che, però, non sono attestate. A prescindere dalla loro origine si tratta comunque di piccoli gioielli del genio di Bach che, in questo caso, sfrutta benissimo le possibilità di colore offerte dai due manuali, suscettibili di essere utilizzati con registrazioni diverse, e del pedale dell’organo per creare dei trii particolarmente elaborati anche sul piano contrappuntistico. Ad interpretarle in modo impeccabile, con senso dello stile e con grande attenzione alla polifonia costitutiva di questi lavori è Manuel Tomadin che si avvale dell’organo della Hervormde Gemeente Vollenhove, del quale sfrutta le possibilità timbriche attraverso una registrazione adeguata a queste composizioni, di cui si rende conto nell’esaustivo, sebbene sintetico, Booklet.
La seconda e ultima Cantata per la venticinquesima Domenica dopo la Trinità è Du Friedefürst, Herr Jesu Christ BWV 116 eseguita la prima volta a Lipsia il 26 novembre 1724. A caratterizzare questa Cantata è lo stile concertante del brano iniziale, con il primo violino che emerge su una articolazione del discorso vocale ben differenziata nell’intonare i primi 2 versetti del Corale di Jakob Ebert alla base di questa partitura che viene esposto dai soprani con il rinforzo di un corno a valori larghi e dal quale si distacca autonomamente. I versetti 3 e 4 sono invece in stile mottettistico, polifonico, con le parti strumentali che raddoppiano quelle vocali. Nei versetti 5 e 6 si instaura invece una sorta di condotta dialogica tra la linea di canto del soprano e le altre voci che si inseriscono a contrasto tra le maglie delle melodia con valori larghi, al “superior”, mentre gli strumenti hanno una funzione autonoma. L’ultimo versetto, il nr.7 ripropone lo stile già adottato nella coppia iniziale. e quelli interni. Subito nella delicata aria per contralto (Nr.2) che segue il coro iniziale la scrittura è cromatica e angosciosa. La voce è accompagnata da una linea di oboe d’amore di carattere completamente diverso da quello spesso assegnato da Bach a questo strumento. Dopo il recitativo (Nr.3) c’è un rarissimo esempio di terzetto per soprano, tenore e basso, con il solo supporto del Continuo. Nelle Cantate sacre gli esempi di terzetto vocale sono solo 2.
Nr.1 – Coro
Principe della pace, Signore Gesù Cristo,
vero uomo e vero Dio,
vero soccorso nel bisogno,
nella vita e nella morte.
Dunque solamente
nel tuo nome
possiamo invocare tuo Padre.
Nr.2 – Aria (Contralto)
Ah, indicibile è la nostra sofferenza
e la minaccia di un furioso giudizio!
Siamo appena capaci, nella nostra angoscia,
di invocare Dio nel tuo nome,
come tu stesso, o Gesù, ci chiedi.
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
Ah, non farci sanguinare troppo
sotto le frustate delle verghe!
O Dio, tu che sei un Dio di ordine,
tu sai quanta crudeltà e ingiustizia
c’è nella collera dell’avversario.
Allora stendi la tua mano
su questo paese impaurito e tormentato,
essa può vincere la potenza del nemico
e portarci una pace durevole!
Nr.4 – Terzetto (Soprano, Tenore, Basso)
Ah, riconosciamo la nostra colpa,
chiediamo solo la tua pazienza
ed il tuo amore incommensurabile.
Il tuo cuore misericordioso si è spezzato
quando il dolore di coloro che sono caduti
ti ha condotto a noi nel mondo.
Nr.5 – Recitativo (Contralto)
Ah, non farci sanguinare troppo
sotto le frustate delle verghe!
O Dio, tu che sei un Dio di ordine,
tu sai quanta crudeltà e ingiustizia
c’è nella collera dell’avversario.
Allora stendi la tua mano
su questo paese impaurito e tormentato,
essa può vincere la potenza del nemico
e portarci una pace durevole!
Nr.6 – Corale
Illumina i nostri cuori e le nostre menti
con lo spirito della tua grazia,
affinchè non ci comportiamo con leggerezza
danneggiando le nostre anime.
O Gesù Cristo,
tu solo puoi compierlo.
Traduzione Emanuele Antonacci