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Roma, Teatro Parioli Costanzo: “La prospettiva” dal 26 marzo al 06 aprile 2025

gbopera - Mer, 19/03/2025 - 19:31

Roma, Teatro Il Parioli Costanzo
LA PROSPETTIVA
Massimiliano Bruno e Gianmarco Tognazzi
Scritto e diretto da Massimiliano Bruno
Con Sara Baccarini, Maurizio Lops, Malvina Ruggiano e Alessandra Scalabrini
Musiche Roberto Procaccini
Costumi Monica Rosini
Scenografia Andrea Cecchini
Aiuto regia Filippo Gentile
Assistente alla regia Dafne Montalbano
Disegno luci Beatrice Mitruccio
Organizzazione Giulia Angelini
Produzione Il Parioli Costanzo
Produzione esecutiva Enzo Gentile
Un appezzamento di terreno seminato a basilico, zucchine, melanzane e spinaci. Un grande casolare di campagna abitato dai tre cugini Jorio: Sasà (Gianmarco Tognazzi) il più grande, vedovo inconsolabile e padre di Sol (Alessandra Scalabrini), un’adolescente introversa ma con l’orecchio assoluto che le permette di suonare tutti gli strumenti. Tino, detto Zì Prete (Maurizio Lops), scapolo e scontento. E infine Tito (Massimiliano Bruno), arrabbiato con la vita, sposato con Donna (Sara Baccarini) sottomessa a un destino noioso. Una vita passata in quel campo, senza uscire mai e un Mondo visto solo attraverso il computer, il cellulare ed il tablet. I cinque rappresentanti della famiglia si sono tutti laureati grazie ad una università americana on line il cui valore non è riconosciuto in nessuno Paese nel mondo. Possono solo aggiungere “dottor” o “dottoressa” sul biglietto da visita. Ma non hanno mai stampato biglietti da visita. Le giornate si susseguono sempre uguali fino a che un giorno non si presenta al campo una donna misteriosa, Belinda (Malvina Ruggiano). La donna, con piglio imprenditoriale, propone alla famiglia Jorio di vendere il terreno alla società che rappresenta. C’è un super progetto da realizzare in quella campagna, un centro che valorizzerà la regione e produrrà tanti posti di lavoro. Per la famiglia ci sarebbero soldi a palate e la possibilità di andare via da quella campagna-prigione. Ma i Jorio si chiudono a riccio e rifiutano la proposta, mentre invece tutti gli altri proprietari terrieri intorno a loro iniziano a vendere. Finché succede qualcosa che li mette in una grossa crisi. Da quel momento tutto cambia. In questo spettacolo, in prima nazionale, Massimiliano Bruno racconta la difficoltà di lasciare andare le persone, la ritrosia al cambiamento, la resistenza alla trasformazione. In un clima monicelliano da Parenti Serpenti, i personaggi si incontrano e scontrano più volte per cercare di prevalere sugli altri salvo poi cercare di affrontare al meglio la separazione dal passato. Tutto il resto… è musica. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Erodiade” 25/26 marzo 2025

gbopera - Mer, 19/03/2025 - 19:21

Roma, Teatro Vascello
ERODIADE
di Giovanni Testori
Con Francesca Benedetti
Drammaturgia e regia di Marco Carniti
Video Artist Francesco Scandale
Musiche Originali David Barittoni
Aiuto regia Francesco Lonano
Produzione La Fabbrica dell’Attore
In collaborazione con l’Associazione Giovanni Testori
Due serate “Evento” per consacrare la grande carriera di un’attrice unica come Francesca Benedetti (Premio Flaiano 2024), Musa di Giovanni Testori che scrisse il Macbetto (1974) cucendolo addosso alla sua personalità di fuoriclasse. Un’icona del Teatro Italiano di oggi da far conoscere ai giovani attraverso la riscrittura contemporanea di un mito classico. Francesca Benedetti, seduta su un trono rosso sangue simbolico di una finzione continuamente dichiarata dall’autore, affronta la scrittura testoriana facendosi carne e sangue di un personaggio controverso e trasgressivo come Erodiade, che oggi si fa vittima più che carnefice. Il Mito di Erodiade per Giovanni Testori si fa corpo, metà Dio, metà donna scoprendo il lato ambiguo e fluido della sua virilità. Giovanni Testori, uno degli autori più significativi del panorama letterario e teatrale italiano, esplora la figura biblica della madre di Salomè e la ribalta. Lo fa spostando ambizione e passione da Salomè a Erodiade. Quindi non più Salomè ma la madre Erodiade, ama e desidera la testa del Battista e usa la figlia per ottenerla; il suo fascino di adolescente è lo strumento perfetto per tessere un piano diabolico: ottenere la testa del Profeta spingendo Salomè nel letto di suo marito. ERODIADE è messa al centro di uno scandalo politico e diventa protagonista di una storia d’amore che sa di orrore e carne. ERODIADE è un pugno alzato contro il cielo, un grido strozzato in gola, forte, aspro, verso un interlocutore sfuggente, un Dio, un Cristo fatto uomo, divenuto amante. Una sinfonia di parole amare e allo stesso tempo sublimi, erotiche ed evocative, con le quali il poeta scava nel profondo, in perpetuo conflitto tra la sua sfrenata voglia di libertà di esprimersi e l’educazione cattolica di un Italia borghese, dove la blasfemia e la carnalità di Testori squarciano lo stomaco ed il cuore creando un conflitto di religione. Vogliamo inoltre ricordare che è accaduto a Testori quello che era accaduto a Victor Hugo, ‘scrivere e disegnare’ nello stesso tempo: infatti Testori disegna lui stesso la metamorfosi della testa di Giovanni Battista in numerose tavole che vengono proiettate in scena con la stessa violenza con la quale Testori le ha disegnate. Un evento teatrale di grande impatto e un’esperienza forte per il pubblico. Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con Casa Testori di Milano dove si possono vedere esposti i 72 disegni originali delle Teste del Battista. “Nel teatro di Testori, l’impetuosa concretezza verbale fa scomparire la macchinosità dell’impianto, con sintassi da oratoria classica, gridata a perdifiato, dove la terrificante radicalità della bestemmia, la violenza quasi insostenibile e tuttavia plasticamente magnanima e pia dei pugni alzati.” Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Ti ho sposato per allegria” dal 25 al 30 marzo 2025

gbopera - Mer, 19/03/2025 - 19:02

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
di Natalia Ginzburg
Con Marianella Bargilli e Giampiero Ingrassia
e con Lucia Vasini, Claudia Donadoni, Viola Lucio
scenografie Fabiana Di Marco
costumi Pamela Aicardi
regia Emilio Russo
produzione Tieffe Teatro Milano, Compagnia Molière, Teatro Quirino
Ti ho sposato per allegria, scritta da Natalia Ginzburg nel 1965, è la prima delle sue undici commedie teatrali. In apparenza semplice, come tutta la sua produzione, affronta temi eterni e profondi: l’amore, i rapporti familiari, la morte, la diseguaglianza sociale. La narrazione si muove su un registro quotidiano e minimale, ma dietro il velo di leggerezza si cela un intreccio di riflessioni sul senso della vita e sulla difficoltà di trovare una reale “allegria” nei rapporti umani. La trama si concentra su Giuliana, una ragazza “randagia” che ha appena sposato Pietro, un uomo che conosce appena. La loro unione, fondata su un’intuizione più che su un sentimento profondo, diventa il pretesto per interrogarsi ossessivamente sulle ragioni e sul futuro di quel matrimonio. Attorno a loro si muovono figure borghesi segnate dall’indifferenza e dalla distanza emotiva, in un mondo dove i vincoli familiari sembrano più un dovere che una scelta. La commedia si distingue per un tono che richiama Cechov: i personaggi sono spesso incapaci di vera empatia, presi in una rete di obblighi sociali e familiari mal sopportati. Tuttavia, la Ginzburg inserisce una sincerità brutale nei loro dialoghi, che evita ogni retorica buonista o consolatoria. Il testo, pur essendo definito comico, non lo è secondo i canoni tradizionali. Non vi è intreccio, né battute di spirito, ma un ritmo di dialoghi che svelano la comicità nelle pieghe del disincanto e della tenerezza. È una commedia che evoca un’epoca di profondi cambiamenti sociali: il femminismo, la liberazione sessuale, il divorzio e l’aborto sono temi che la Ginzburg accenna con naturalezza, anticipando le rivoluzioni culturali che esploderanno di lì a poco. La regia, fedele all’ambientazione originale degli anni Sessanta, non cerca forzate attualizzazioni, ma valorizza l’universalità delle tematiche proposte. Così facendo, il testo continua a parlare al cuore e all’intelligenza del pubblico contemporaneo. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Deutsche Oper Berlin: “Intermezzo”

gbopera - Mer, 19/03/2025 - 18:54

Berlin, Deutsche Oper, sesason 2024/25
“INTERMEZZO
A bourgeois comedy with symphonic interludes in two acts
Libretto  & Music by Richard Strauss
Court Conductor Robert Storch PHILIPP JEKAL
Christine, his wife MARIA BENGTSSON
Franzl, her little son ELLIOTT WOODRUFF
Anna, the Chambermaid ANNA SCHOECK
Baron Lummer THOMAS BLONDELLE
Kapellmeister Stroh CLEMENS BIEBER
Notary GERARD FARRERAS
Wife of the notary NADINE SECUNDE
Kommerzienrat JOEL ALLISON
Judicial Council SIMON PAULY
Kammersänger TOBIAS KEHRER
Resi LILIT DAVTYAN
Live Camera SILKE BRIEL, REILLY CROUSE
Orchesters der Deutschen Oper Berlin
Conductor Sir Donald Runnicles
Director Tobias Kratzer
Set-design, Costume-design Rainer Sellmaier
Light-design Stefan Woinke
Video Jonas Dahl, Janic Bebi
Dramaturgy Jörg Königsdorf
Berlin, 13 March 2025
Richard Strauss’ 1924 Intermezzo is with good reason a theatrical rarity Turned down by his usual librettist, Hugo von Hofmannsthal and others, it is autobiographical, written in prose by the composer himself. It seemed archaic when written and involves a great deal of querulous parlando text, 13 different scenes, and hardly any dramatic conflict. Yet at the Deutsche Oper Berlin stage director Tobias Kratzer has created a revelatory, entertaining and unselfconsciously modern evening from this unlikely source. From the opening scene to the gracefully operatic red curtain which finishes it, this evening manages to engage, entertain and at the same time deepen our understanding of the bonds of a long term relationship. Kratzer integrates Strauass’ music into the piece-again in a modern outwardly simple way. The music adds important depth to the characters of Christeine and Robert Storch. Originally conceived as a barely disguised version of Strauss himself and his wife, Kratzer has transformed them into archetypes which we can recognize even in ourselves. Strauss’ music is made visual and relates directly to the characters onstage. We feel and understand that their dialogue is only the most superficial aspect of their actions and feelings. This synthesis make the whole evening thought provoking yet entertaining, turning what has been a difficult to understand and unsympathetic theatrical piece into an exploration of the complexity that our actions and words and the emotions they reflect. Kratzer has integrated videography into his storytelling, not as a modern affectation, but as a means of elevating his story. He unifies Strauss’ rather clumsy conglomeration of 13 scenes by having a cinematic black screen descend at the end of each scene. Rather than stop the action the blackout screen becomes a live video of the orchestra and conductor, keeping our eyes on the stage, and makes the music a direct expression of the opera’s characters. At the beginning of the next scene the screen lists the next scene it rises but often remains as a video strip above the stage, and gives closeups and/or shots of the music making, but never taking over from the stage. It clarifies, comments and entertains but doesn’t substitute for onstage interaction. Music, the story and the characters become one. The video team, led by Jonas Dahl and Janic Bebi, shot live footage during the performance and blended seamlessly with the pre recorded pieces. The set and costumes by Kratzer’s long time collaborator Rainer Sellmaier, told us at a glance all we need to know about the characters whith clothes, furniture and cars. The large open set with it’s angled rams, and two platforms, allowed for effective operatic movement and singing in varying stage configurations and was well lit by Stefan Weinke. A large plush white sofa and a parked car with an open trunk easily set the modern tone for the opening scene where the famous conductor and his wife bicker while preparing for his extended trip. Christine, feeling abandoned, later literally runs into a young Baron, not as in the original archaic collision of snowy toboggans, but in the immediately recognizable fender bender of Christine’s expensive BMW with the Baron’s much less financially imposing vehicle. The costumes too are modern and relaxed but are indicative and communicate almost instinctively. The balance of the visual with the emotive power of the music and the verbal dialogue elevates this production from a presentation of a rarity to an evening to remember.  All this would be lost without the music, and Sir Donald Runnicles and the wonderful Deutsche Opera Orchestra deliver a sumptuous and precise performance. The “small” Strauss orchestra included a piano and handled the accompanied dialogue and the famous lyrical orchestral interludes with aplomb, if not the last degree of sublimity. As Christine, Maria Bengtsson’s warm sympathetic soprano informs her character with a humanity which could all too easily be lost by a superficial reading of the text. High notes were ringing and consistent but her lower voice lacks sheen and power. Her Strauss cantilena was very good, but also lacked the last degree of sublimity. Philipp Jekal as Hofkapellmeister Robert Storch, aka Richard Strauss, produced a solid, bright and present baritone and delivered a stolid and accurate portrait of the artist as a normal person who depends very much on his wife. Thomas Blondelle, a longtime Deutsche Oper Berlin ensemble member, has just the right voice and physique for the importunate but sporty Baron Lummer. His tenor was always clear and attractive. In addition to 13 scenes, this piece has a total of 12 roles, and is ideal for an Ensemble Theater like the Deutsche Oper Berlin, which has a full time stable of experienced an talented singers. all of whom delivered performances with presence and professionalism, and there was not a single moment of letdown. Kratzer’s reinvention of such a difficult piece bodes well not only for him, but for opera theater as a whole. It led to his selection in February as “Director of the Year” by ‘Opera! Awards’ and in August he will assume the post of Intendant at the Hamburg State Opera. He has already revived Strauss, and it can be hoped that Hamburg will become a beacon for new and vibrant interpretations of this sometimes archaic art form. Photo Monika Rittershaus

 

Categorie: Musica corale

Saronno, Teatro Giuditta Pasta: “Anna Karenina”

gbopera - Mer, 19/03/2025 - 13:33

Saronno (VA), Teatro “Giuditta Pasta”, Stagione 2024/25
“ANNA KARENINA”
di Lev Tolstoj
Adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
Anna Arkad’evna Karenina GALATEA RANZI
Conte Aleksej Kirillovič Vronskij GIACINTO PALMARINI
Aleksej Aleksandrovič Karenin PAOLO SERRA
Konstantin Dmitrič Levin FRANCESCO BISCIONE
Principessa Ekaterina “KittyAleksandrovna Ščerbaskaja MERSILA SOKOLI
Stepan “Stiva” Arkad’ič Oblonskij STEFANO SANTOSPAGO
Dar’ja “Dolly” Aleksandrovna Oblonskaja DEBORA BERNARDI
Principessa Elizaveta “Betsy” Fëdorovna Tverskaja GIOVANNA MANGIÙ
Contessa Lidija Ivanovna IRENE TETTO
Regia Luca De Fusco
Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta
Luci Gigi Saccomandi
Musiche Ran Bagno
Coreografie Alessandra Panzavolta
Proiezioni Alessandro Papa
Produzione Teatro Stabile di Catania / Teatro Biondo Palermo
Saronno (VA), 13 marzo 2025 – qui le altre date della tournée
Portare sulla scena un grande romanzo dell’Ottocento è un pericolo per tutti i registi e i drammaturghi, implumi o navigati: la scena infatti irrimediabilmente riduce, minimizza, e molto difficilmente sa aprire nuove prospettive o conferire nuovi significati a ciò che la narrazione su pagina, che non conosce alcun limite di sorta, non sia riuscita già a comunicarci. Il caso dell’“Anna Karenina“ di Luca de Fusco, tuttavia, presenta problemi lontani dal generico: il principale è la scelta registica di porre pesanti accenti sull’aspetto più sottilmente ironico, talvolta sarcastico, talaltra malinconico, della complessa partitura tolstoiana; spiegandoci meglio: ha ridotto Levin e Kitty ha due macchiette comiche, prima fidanzatini impacciati, poi Sandra e Raimondo di San Pietroburgo, quasi a preconizzare una loro fine come nuovi Dolly e Stepan, sebbene tutto ciò non esista nel romanzo di Tolstoj, anzi: per il loro autore, Levin e Kitty incarnano il modello matrimoniale sano, basato sul sacrificio di parte del proprio io, sull’impegno a conoscersi realmente e a condividere emozioni vere, che si oppone ai matrimoni sia di Dolly e Stiva (che procede nel mantenimento delle apparenze, ma falsamente e per forza di inerzia), sia, soprattutto, di Anna e Karenin, basato sulla pura idealizzazione dell’altro e che ha mostrato a tutta la società le proprie immedicabili ferite. Cosa ci sia mai, in questo sentimento puro, che si nutre di sofferenza da entrambe le parti, così come di profondo reciproco rispetto, vorremmo chiederlo a Luca de Fusco, giacché la sala del “Giuditta Pasta” di Saronno, l’altra sera, ha riso di gusto per metà dello spettacolo, anche quando si parlava di argomenti serissimi, come il sacrificio, il suicidio, la rispettabilità della donna. Inoltre, l’inevitabile adattamento, è stato proprio orientato non a diminuire, ma a sminuire il carattere di Levin, del cui fratello viene omessa la storia e dal cui carattere viene estirpato tutto lo spirito idealista, che, ai tempi della prima pubblicazione, portò la critica ai insinuarne l’autobiografismo. Purtroppo, o per fortuna, se si vuole lavorare su “Anna Karenina“, non ci si può fermare alle scaramouche dell’alta società, allo scandalo dell’amore adulterino, nemmeno alla disamina del complesso carattere della protagonista, prescindendo dalla storia di Levin e Kitty, quasi i veri protagonisti del romanzo: ridurla in questo modo non è solo ingiusto nei confronti di Tolstoj, ma anche nei confronti dei (probabilmente pochi, ce ne rendiamo conto) veri amanti ed esperti di questo romanzo, che si recano a teatro sperando di vedere in carne ed ossa quei personaggi che spesso da una vita li accompagnano, e invece si trovano poche macchiette e un paio di bravi interpreti – ci riferiamo ovviamente alla protagonista, Galatea Ranzi, il cui riconosciuto talento e il magnetico fascino scenico, accompagnato da un vocalità consapevole di tutta la lezione teatrale novecentesca, non può che dare vita a una magnifica Anna, multisfaccettata, coinvolta in primis sul piano fisico e mimico, tutta tesa a un personaggio al di là di qualsiasi regia, che sembra partorito direttamente dall’immaginazione dei lettori; ma accanto a lei anche Stefano Santospago è un Oblonskij di squisita maniera, lui si giustamente un po’ sornione e un po’ cinico, portati in scena anche fisicamente coi giusti vezzi la giusta cadenza confidenziale nel parlato; e anche Paolo Serra nel ruolo di Karenin sa tratteggiare tutta la meschinità di un uomo capace solo di introiettare i sentimenti altrui, vampirizzando la moglie persino sul letto di morte per l’unica soddisfazione del proprio ego – peccato che il pubblico sovente rida del personaggio, poiché presentato, nel contesto dello spettacolo, semplicemente come il becco della storia. Per il resto, il cast non si può che assestare sul livello di accettabilità che ci aspetteremo da qualunque attore professionista: il conte Vronskij di Giacinto Palmarini è compassato, molto, forse troppo per un personaggio che dovrebbe risvegliare indicibili ardori nelle donzelle; la Dar’ja Aleksandrovna di Debora Bernardi è ultramanierata, anche troppo cantilenante nella continua lamentatio, la Betsy di Giovanna Mangiù è poco più che corretta, la Lidia di Irene Tetto va in una direzione ammiccante e grottesca, onestamente fastidiosa. La cornice in cui questi personaggi si muovono (curata da Marta Crisolini Malatesta), d’altro canto, è bella e funzionale, una scena di interno borghese in scala di grigio, con tanto di vetrata e balconcini, davanti alla quale si proiettano citazioni del romanzo, o immagini evocative (il ballo, la cavalla Fru Fru morente, la neve che cade, i binari, eccetera), anch’esse in un bianco e nero nostalgico, ma efficace. Come suggestive si sono rivelate le luci di Gigi Saccomandi, la scelta musicale di Ran Bagno, e i bei costumi sempre della Crisolini Malatesta. Quanto sarebbe stato bello poter ammirare, in questo contesto, un’“Anna Karenina” rispettosa del proprio passato letterario, che non si celebra soltanto facendo leggere a mo’ di didascalia parti del romanzo agli attori in scena (trovata non nuova, ma tutto sommato interessante)? Foto Antonio Parrinello

Categorie: Musica corale

Bari, Teatro Piccinni: “Un Sabato, con gli Amici”

gbopera - Mer, 19/03/2025 - 13:22

Bari, Teatro Piccinni
Rassegna nazionale “Camilleri 100”
UN SABATO CON GLI AMICI
Di Andrea Camilleri
Andrea ALBERTO MELONE
Renata SILVIA DEGRANDI
Fabio LUCA AVAGLIANO
Giulia MARCELLA FAVILLA
Gianni FABRIZIO LOMBARDO
Anna ALESSANDRA MORTELLITI
Matteo PIERLUIGI CORALLO
Una produzione “Malalingua” in collaborazione con “Alt Academy”, “Associazione Fondo Andrea Camilleri ETS”, “Puglia Culture”
Libero adattamento e regia Marco Grossi
Scene Filippo Sarcinelli
Musiche originali Oliviero Forni
Luci Claudio de Robertis
Costumi e assistenza alla regia Monica De Giuseppe
Organizzazione Marianna de Pinto
Bari, 15 marzo 2025, Prima Nazionale
Siamo nell’incantevole Teatro Piccinni di Bari. È un sabato di metà marzo. In scena, tutto il genio adombrato, meno conosciuto di Andrea Camilleri, ad aprire con un dramma, anticipo, magistralmente concertato e interpretato, la rassegna culturale nazionale “Camilleri 100” (per i cent’anni dalla nascita dello scrittore di Porto Empedocle). “Un sabato, con gli amici” (Mondadori, 2009), romanzo eponimo della pièce che si dipana sul palco, è una creatura particolare, lontana e di parecchio dalle assolate, bluastre, barocche ambientazioni «montalbaniane» che hanno reso famoso, in tutto il mondo, il prosatore siciliano. Diciamo pure che si tratta, concepita da quel filtro scintillante che è la mente stessa di Camilleri, di un’opera i cui antenati sono riscontrabili tanto nelle penne e nelle «visioni» di Pirandello e Moravia, quanto negli insegnamenti registici di Orazio Costa. Sì, perché è un romanzo «teatralissimo», una scrittura con una spiccata capacità di carotaggio, scavo, rinvenimento di quella cisterna sensibilissima agli stimoli ch’è l’animo umano, di tutto quel che di sordido questa può contenere e, una volta raggiunto il «carico di rottura», di tutto ciò che non riesce più a trattenere. Cala il silenzio, le luci impattano, nell’oscurità, il sipario ancora serrato, il cast si dispone a schiera e comincia a raccontare. Donne e uomini che parlano con tono bambino, impostazione e parole infantili; che raccontano, uno per uno, un evento che, da piccoli, li ha inequivocabilmente sfregiati, traumatizzati, segnati. Poi, il drappo vellutato si spalanca. Davanti agli occhi, in un vortice di luci (sapientemente gestite tanto nei predefiniti momenti di confusione, quanto negli assoli recitativi) e musiche mesmerizzanti (buona campionatura e riscrittura musicale dei motivetti dei videogiochi di fine millennio), tutti gli attori in causa che scorrazzano, in uno slalom fra grandi riproduzioni di giocattoli tardonovecenteschi, su macchinine elettriche, quasi fossero all’autoscontro o su go-kart. Una scelta, stando al parere di chi scrive, azzeccata che riesce a evidenziare – avrebbe detto il poeta campano Luigi Compagnone – «la giovinezza reale e l’irreale maturità» dei personaggi. Poi, di colpo, il buio e il silenzio nuovamente avvolgono tutto. Ed ecco, definitivo, l’atto unico, intervallato solo da sporadiche, torbide, solitarie confessioni dei personaggi (a «bocce ferme» e faro cianotico puntato, per l’appunto), utili a ricostruire la trama (colpo di regia Off Broadway quello di frastagliare, in questo modo, la narrazione). Siamo in una grande città italiana, contesto spudoratamente non proletario, a casa di una delle tre coppie di amici che, sin dai tempi dell’università, hanno eluso l’ipocritissimo «non facciamo che ci perdiamo», effettivamente restando «legati». Si incontrano, acchè la messinscena che smangia le loro esistenze riesca a tenersi senza troppa difficoltà, appena una volta al mese, organizzando cene a tema. La dimora in cui tutto il tragico di questa vicenda si svolge, sapientemente imbellettato di comico dal sempre impeccabile Marco Grossi alla regia, è quella di Andrea (Melone funziona bene nelle sue mansioni di «macchietta smorzante» – mentre si strugge per il risultato di una partita di calcio – e di mente dominata da un kink scellerato) e Renata (assieme a Mortelliti e Lombardo, la migliore: folgorante Degrandi al punto da ricordare la Nanà di Zolà) che, sin dalle prime battute, lasciano trapelare la vicendevole matrimoniale mal sopportazione. La cena è a tema thailandese, l’esotico noioso borghese. L’inciampo all’inizio, a cortina di finzione intoccata, è quello, al più, ridanciano, di non aver cucinato la portata più originale. Arriva, dunque, la seconda coppia, la più naif e «sana» della serata, composta da Fabio e Giulia (una recitazione curata, quella di Favilla e Avagliano, unici due personaggi con cui si riesca effettivamente a «empatizzare» prima del finale) e, nel dialogo odioso, viene svelato il composto chimico, un «povero diavolo ex-machina», che farà detonare la bauta che adorna la vita di questi sei individui. Costui è Gianni (interpretato da Lombardo, ineccepibile nel suo agire in scena e nella sua ormai proverbiale mimica parossistica), omossessuale, «compagno» e collega universitario del gruppo, da qualche tempo lanciatosi in politica; lì con loro, apparentemente, per racimolare voti. L’intreccio avanza, lo strappo rattoppato negli anni alla bell’e meglio si sdruce (e già che siamo in tema di stoffe, un plauso va alla costumista per aver cucito indosso ai cuori di questi personaggi, giacché forma e colore del vestiario sono dirette proiezioni dell’inner dei protagonisti). Emergono inganni, rapporti clandestini, violenze subite, osservate o perpetrate, feticismi spettrali, accadimenti conturbanti che ci costringono a tenere gli occhi incollati sui recitanti, che quasi obbligano ad una partecipazione emotiva allo spettacolo indubbiamente fuor di consuetudine. L’ultima coppia è quella formata da Anna (Mortelliti, nipote di Camilleri: disinibita, puntuale nelle nevrosi, travolgente… in una parola: perfetta) e Matteo (il contributo di Corallo è, al solito, di gran pregio), fra le figure più abiette della narrazione scenica. Nel momento in cui Gianni compare sul palco (come già detto arredato – un rischio corso, data la distanza dalla realtà, ma che paga – con grandi balocchi, valido contraltare alle tinte grottesche della storia), in un valzer di imbarazzi e moti animali, tentativi di resistenza e non più contenibili, profondissimi, mal camuffati raptus, comincia l’escalation delle contingenze, fino alla morte del corpo o dell’anima, senza sapere quale sia peggio. Dunque, il cerchio si chiude e in modo tremendamente doloroso (durevole, però, è lo scrosciare di applausi in conclusione), ma con una presa di coscienza epocale: in noi coesiste, senza soluzione di continuità, tutto ciò che abbiamo vissuto, tutto ciò che esperiamo e, forse, persino quello che non abbiamo ancora provato. Pertanto, anche solo una goccia di arsenico, soprattutto se assunta in tenera età, può contorcere una vita per l’intera sua durata. PhotocreditFabioLerario

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Sior Todaro Brontolon”

gbopera - Mar, 18/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
SIOR TODERO BRONTOLON
di Carlo Goldoni
drammaturgia Piermario Vescovo
Con Franco Branciaroli
e con Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin, Maria Grazia Plos, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Valentina Violo, Emanuele Fortunati, Andrea Germani, Roberta Colacino
in collaborazione con i Piccoli di Podrecca
scene Marta Crisolini Malatesta
costumi Stefano Nicolao
musiche Antonio Di Pofi
luci Gigi Saccomandi
movimenti di scena Monica Codena
regia Paolo Valerio
Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de gli Incamminati, Centro Teatrale Bresciano

Roma, 18 marzo 2025
C’è, nelle pagine della maturità goldoniana, quella medesima affilata coscienza della realtà sociale che il commediografo aveva già esercitato nella cronaca civile e morale della sua Venezia. Ma in Sior Todero Brontolon la sagacia dell’autore si concentra in una figura, quella dell’ostinato patriarca, che da privata diventa universale: il vecchio che brontola, che si oppone il proprio rugginoso buon senso all’incalzare dei tempi nuovi, non è che la maschera terminale di un’epoca che si ritrae dinanzi all’ineluttabile. La regia di Paolo Valerio, ispirandosi con misura e invenzione al teatro di figura, restituisce con accenti felicemente stranianti questa dialettica tra l’immobile e il mutevole, tra il burattinaio e la vita che sfugge di mano. Lo spettacolo si apre in un’atmosfera sospesa, dove la materia del teatro – corde, bastoni, pupazzi smembrati – giace come relitto di una tradizione in frantumi. La scena concepita da Marta Crisolini Malatesta, vera “macchina” che allude e costruisce, accoglie il pubblico nel retropalco di un teatrino di marionette, alludendo con grazia e finezza al teatro stesso come arte manipolatoria. Qui siede, o meglio impera, Sior Todero, un Franco Branciaroli che non si limita a vestire i panni dell’arcigno vecchio veneziano, ma lo sublima a figura mitica, marionettista egli stesso, che tira i fili delle esistenze con la presunzione di chi si crede onnipotente. La recitazione di Branciaroli si affina in ogni cadenza. L’attore padroneggia l’arte della variazione tonale, dall’imperioso comando al sarcasmo sferzante, dall’avarizia di gesti all’esplosione incontrollata del lamento: e ciò in un fraseggio che ha l’elasticità e il colore della parlata veneziana, senza mai cadere in compiaciute caricature. È questo uno dei meriti maggiori della compagnia diretta da Valerio: aver mantenuto, sotto il velo di un’arguta ironia, la verità profonda dei caratteri, che in Goldoni non sono mai semplici maschere, ma persone vive, afferrate nella loro tragica comicità. Maria Grazia Plos offre una Marcolina che ricorda le più nobili eroine goldoniane: energica senza scompostezza, accorta senza astuzia meschina, rappresenta quella forza silenziosa e tenace della femminilità che, nell’universo dell’autore veneziano, è il vero motore del mutamento sociale. La Plos ne dà un ritratto di limpida autenticità, dominando la scena con la sicurezza di chi sa difendere una causa giusta, quella della libertà e della felicità degli affetti. Accanto a lei, Piergiorgio Fasolo delinea un Pellegrin che è figura di disarmante debolezza e, proprio per questo, autentico: il figlio imbelle, incapace di opporsi all’autorità paterna se non con fughe velleitarie e piagnucolose, diventa emblema di quella generazione prigioniera dell’arbitrio dei padri e ancora timorosa di affermare la propria autonomia. Il disegno complessivo della regia trova un perfetto contrappunto negli altri interpretati. Ester Galazzi presta alla Siora Fortunata una maliziosa determinazione, mentre Emanuele Fortunati, nel Meneghetto, incarna la schiettezza del giovane che sa usare la ragione e la cortesia per contrastare l’arroganza. Degno di nota anche Riccardo Maranzana, un Desiderio che nella sua servile avidità ha tratti di sorprendente modernità, e Andrea Germani, che fa del Nicoletto uno svampito delizioso, quasi un Pulcinella addolcito, la cui voce in falsetto ei passi incerti svelano la precarietà di un mondo in decadenza. Le luci di Gigi Saccomandi, tutte sfumate e avvolgenti, contribuiscono a quella qualità onirica che sospende la commedia in un tempo fuori dal tempo, mentre i costumi di Stefano Nicolao si adagiano su toni pastello, evocando la fragilità di una Venezia che scivola verso la malinconia della fine. La musica di Antonio Di Pofi ed i movimenti di Monica Codena rendono, infine, più fluido e incantato il passaggio tra il gioco delle marionette e il dramma degli uomini. Il regista, che con questo allestimento riprende un’intuizione cara al Goldoni dei Mémoires , trasforma il teatro in un laboratorio di riflessione sulla manipolazione dei rapporti umani. Le marionette dei Piccoli di Podrecca, sapientemente animate dagli stessi attori, diventano il doppio simbolico dei personaggi: privi di volontà propria, essi si agitano in una danza grottesca che riflette l’immobilismo di un mondo che ancora crede nei fili invisibili del potere patriarcale. Eppure, se la marionetta è prigioniera del burattinaio, l’uomo può liberarsi. È questo il cuore della commedia goldoniana e il messaggio che Paolo Valerio restituisce con finezza: Marcolina ed i giovani vincono non perché rompono i fili, ma perché imparano a governarli secondo una nuova etica della responsabilità e dell’amore. Il “brontolon” ​​può essere vinto solo con l’intelligenza paziente e la generosità che Goldoni affidava alle sue figure femminili. Nel finale, quando Todero si piega all’evidenza della propria sconfitta, la commedia trova una conclusione non tanto lieta quanto necessaria: il vecchio si arrende non per conversazioni, ma per calcolo, mostrando che il cambiamento non è mai un moto dell’anima, ma un atto imposto dal tempo che scorre. Così, nella malinconia che avvolge l’ultima scena, si coglie quella verità profonda che rende Sior Todero Brontolon non soltanto una commedia divertente, ma un amaro apologo sulla decadenza dei poteri inetti e sull’avvento di un’epoca nuova. Applausi sinceri e convinti accolgono la compagnia, la cui prova, di equilibrio notevole e maturità ci ricorda che, nel teatro di Goldoni, si ride della miseria degli uomini non per scherno, ma per amore di verità. Photocredit Simone Di Luca

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro Malibran: Enrico Onofri in concerto

gbopera - Lun, 17/03/2025 - 13:06

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2024-2025 del Teatro La Fenice.
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Enrico Onofri
Musiche di Franz Joseph Haydn, Antonio Sacchini, Michael Haydn, Joseph Martin Kraus, Giovanni Battista Sammartini, Luigi Boccherini
Venezia,14 marzo 2025
Il lento trascolorare del classicismo settecentesco verso una nuova sensibilità che, preannunciata dallo Sturm und Drang, sarebbe stata alla base del Romanticismo, si coglieva in molti brani proposti nel corso di questo concerto, davvero intrigante, anche per l’articolato programma, che – oltre ad offrire un saggio sull’evoluzione del genere sinfonico – si segnalava per i suoi numerosi titoli di rara esecuzione, tra cui una Chaconne di Antonio Sacchini rimasta inedita fino a poco tempo fa. Sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice Enrico Onofri, reduce dal grande successo tributatogli dal pubblico del Teatro Malibran, dove ha diretto, sempre in questo periodo, Il trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti. Donde l’ovazione con cui gli spettatori lo hanno salutato alla sua apparizione nella serata di cui ci occupiamo. Qualità e pienezza di suono, dinamismo ed energia, forte sottolineatura dei contrasti a livello dinamico ed agogico: questi i tratti salienti – così come sono emersi nella serata – dell’arte direttoriale del maestro ravennate, un artista poliedrico – direttore, violinista, didatta – in grado di padroneggiare un vasto repertorio, che spazia dal Seicento al Novecento, e animato da una particolare passione per le esecuzioni “storiche”. Il che si è colto nel concerto del 14 marzo, in cui è riuscito a soggiogare il pubblico con un’esecuzione che, se non prevedeva l’utilizzo di strumenti “antichi”, era pur sempre “storicamente informata”, e nel corso della quale nemmeno per un attimo la tensione drammatica o, di volta in volta, l’espansione lirica sono venute meno. La serata si è aperta con l’ouverture, in stile italiano, da Il mondo della luna, un opera, su libretto di Goldoni, che Joseph Haydn compose nel 1777, mentre era maestro di cappella presso il palazzo del principe Nicholas I Esterhazy. Dell’ouverture – in un unico movimento, Allegro luminoso ed energico – il direttore, sorretto, qui come negli altri pezzi, da un Orchestra in piena forma, ha saputo rendere la varietà di accenti veramente notevole: il tono grandioso creato dagli interventi di trombe e timpani, omaggio alla famiglia imperiale, che si sapeva avrebbe presenziato alla prima; il carattere misterioso e oscuro di ceri passaggi armonicamente instabili nella parte centrale. Una dolce mestizia, senza affettazione, si è colta nella Chaconne in do minore di Antonio Sacchini: fiorentino di nascita, ma formatosi a Napoli, svolse la sua attività nelle più importanti piazze italiane ed europee, meritandosi l’apprezzamento di Joseph Haydn, come dimostra il ritrovamento nel archivio personale del compositore austriaco di questa Chaconne in do minore, rimasta inedita, finché Enrico Onofri non ne commissionò la trascrizione. Al nome di Haydn era legato anche il terzo titolo in programma, la Sinfonia n. 39 in do maggiore p 31: si tratta però di Michael Haydn, fratello minore del celebre Joseph, da cui fu sempre messo in ombra. Il primo movimento, Allegro con spirito, procedeva ad un passo spedito ed energico; l’ Andante scorreva semplice e lineare, il conclusivo Molto vivace in stile fugato – che ha vari punti in comune con il grande fugato in do maggiore che conclude la Sinfonia n. 41 Jupiter di Mozart – rivelava un’ineccepibile condotta delle parti. Di Joseph Martin Kraus (Miltenberg, 1756 – Stoccolma, 1792) anch’egli penalizzato dall’inevitabile confronto con un suo più celebre coetaneo – Mozart –, si è ascoltata l’ouverture, delle musiche di scena per l’Olympie, una tragedia del poeta svedese Johan Henric Kellgren: solenne l’ Adagio dal ritmo puntato, tipico dell’ouverture francese; vigoroso nella melodia, vario nel ritmo, audace nell’armonia l’ Allegro ma non troppo, di cui Onofri ha sottolineato la tensione drammatica e l’inquietudine, che lo avvicinano allo spirito dello Sturm und Drang. Giovanni Battista Sammartini – un autore di una o due generazioni più anziano rispetto agli altri proposti, che offrì un contributo importante alla nascita della sinfonia classica – era invece rappresentato dalla Sinfonia in la maggiore j-c 62, appartenente a un gruppo di sei sinfonie pubblicate nel 1750. Articolata in tre brevi movimenti, sul modello della ‘sinfonia avanti l’opera’ italiana, la sua esecuzione si è segnalata per il grande slancio ritmico che si è colto nel Presto; l’andamento melodico del brevissimo Andante, velato di malinconia; la trascinante vivacità ritmica che ha percorso il frenetico Presto assai, in cui Sammartini anticipa quella che sarà la forma-sonata classica. Ultimo pezzo della serata la Sinfonia in do minore G 519 di Luigi Boccherini. Nato a Lucca nel 1743 e, dopo aver a lungo peregrinato, stabilitosi dal 1768 definitivamente a Madrid, morì, anch’egli, già immerso nell’ombra dell’oblio, che durò fino alla metà del Novecento. Composta nel 1788, la Sinfonia rivela la sua “modernità” rispetto a quella di Sammartini: i movimenti sono quattro e di maggior respiro, l’orchestra si è ampliata, il modello di riferimento è Joseph Haydn, ma senza le architetture sonore rigorose e robuste, care al compositore austriaco, bensì con uno un stile fluido e accattivante, associato alla freschezza melodica italiana. Anche qui Onofri ha confermato la sua capacità di aderire ad ogni inflessione della scrittura dell’autore: agitato e drammatico l’Allegro vivo assai, con il primo tema flessuoso ed inquieto, e il secondo tema più lirico e disteso; cullante e tenero il secondo movimento, Pastorale, Lentarello; misterioso e drammatico il Minuetto, al cui centro si è aperto un luminoso Trio; scatenato, irrefrenabile il finale, Allegro, molto vicino al popolare saltarello. Scroscianti applausi alla fine con un bis (il Presto assai di Sammartini, un vero pezzo di bravura, in cui ancora una volta l’orchestra ha superato se stessa).

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Palladium:” Les Fleurs” di Michela Lucenti/Balletto Civile

gbopera - Lun, 17/03/2025 - 12:20

Roma, Teatro Palladium
“LES FLEURS” DI MICHELA LUCENTI/BALLETTO CIVILE
Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita/Spellbound, stagione danza 2025 “In Levare” a cura di Valentina Marini
“LES FLEURS”
Michela Lucenti/Balletto Civile
Regia e coreografia Michela Lucenti
Drammaturgia Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Emanuela Serra
Progetto sonoro Guido Affini
Progetto luci Stefano Mazzanti
Consulenza spazio Alberto Favretto
Aiuto regia Giulio Spattini
Assistenza alla messa in scena Jacopo Squizzato
Interpreti Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi Arena, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra, Francesca Zaccaria
Collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Balletto Civile
Roma, Teatro Palladium, 7 marzo 2025
I fiori hanno da sempre affascinato il mondo della danza. Basti pensare al ‘Valzer dei fiori’ di Pëtr Il’ič Čajkovskij ne Lo Schiaccianoci, alle sontuose ghirlande che abbelliscono la scena ‘Le jardin animé’ in Le Corsaire, allo spettacolo del 1894 Il Risveglio di Flora con la coreografia di Marius Petipa, nonché al tardosettecentesco Flore et Zéphire di Charles Louis Didelot. Ai giardini delle residenze imperiali pietroburghesi pare si siano ispirati Vsevoložskij e Petipa nella creazione de La bella addormentata dove del resto a figurare tra i protagonisti della produzione era la famosa Fata dei lillà. Sono tali fiori non solo un elegante decoro, ma i simboli dell’aspirazione verso un mondo di bellezza ideale, ricercata con grande esaltazione nel mondo del balletto in quanto non possibile nel mondo reale. Di ideale parlava anche la prima sezione della raccolta di liriche Les fleurs du mal pubblicata nel 1857 da Charles Baudelaire, che intendeva avvalersi della poesia per estrarre la bellezza dal male. Nell’aspirare ad un mondo talmente surreale, qui il poeta si scontrava con una profonda angoscia esistenziale. Quanto più cercava di elevarsi verso il bello, maggiori diventavano gli scherni che tarpavano le ali della sua sensibilità. Ciò non impediva a Baudelaire di rivolgere lo sguardo alla terra, ed in particolare al mondo della città, dove si rinnegava la divinità per dedicarsi ai piaceri carnali ed a effimere consolazioni. È questo il tema che attrae ai nostri giorni Michela Lucenti, erede della danza teatrale di Pina Bausch. La compagnia da lei fondata nel 2003 porta il nome impegnativo di Balletto Civile, pur sostanziandosi di una forte contemporaneità. Il termine balletto è per lei sintomo di una significazione danzata che prende vita grazie al lavoro di danzatori lucidi, attenti a quello che avviene nel mondo che li circonda. Il lavoro teatrale è per lei un equilibrio vertiginoso tra diversi generi e linguaggi, al cui centro è sempre il corpo del performer. Se per aprirsi al mondo dell’immaginazione è necessario svuotarsi di tanti piani esteriori, della presenza fisica non ci si può sbarazzare. Occorre dunque darle un senso che attraversa il tempo e lo spazio, che penetra l’anima degli spettatori o li colpisce con un pugno nello stomaco. Di lavori ispirati alla letteratura ne ha già realizzati molti come Il Maestro e Margherita nel 2017, o come gli spettacoli di ascendenza shakespeariana Killing Desdemona (2016), Before Break (da La Tempesta, 2016) e L’amore segreto di Ofelia. Baudelaire non le fa paura, anzi le offre la possibilità di cimentarsi con un mondo di antieroi, di creature ai margini che chiedono riscatto, di corpi imperfetti e fragili. In crisi è lo stesso personaggio chiamato a rappresentare Baudelaire, di cui restano salde solo le iniziali in legno poste a terra. Su una lavagna vengono scritte le parole chiave cui sono ispirati i quadri di cui è costituito lo spettacolo. Oltre al tema del poeta, si tratta qui della bellezza, del tempo, dell’esilio, della rivolta, della ferita, della città, nonché naturalmente della poesia stessa. Nell’ambiente musicale creato da Guido Affini risuonano impattanti parole che contrappongono il mondo della felicità e della luce di un sole accecante ad una valanga di morte. Scarni ed essenziali gli oggetti scenici. Centrali i gesti dei performers, che nella loro fisicità teatrale incisiva chiedono una cosa sola: «Lasciateci fiorire». Foto Margherita Caprilli

 

Categorie: Musica corale

I “Folk Songs” diretti da Robert Treviño per il centenario della nascita di Luciano Berio

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 18:37

Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Robert Treviño
Soprano Justina Gringyte
Luciano Berio: “Folk Songs” (1973);  Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.4 in do minore, op.43
Torino, 13 marzo 2025.
1973 è la data dei Folk songs di Luciano Berio e nel 1961 Dmitrij Šostakovič, rimette insieme, ricostruendola dalle parti per orchestra, la sua Sinfonia n4 visto che la partitura originale manoscritta, del 1936, gli era stata persa. Le due opere risultano quindi non così lontane nel tempo e neppure nelle intenzioni. Ambedue trovano una ragione nel gesto musicale in sé, ovvero: nel suono per il suono. Berio fa un bouquet di canti popolari, mescolando strumenti e idiomi per un effetto complessivo magnificamente estetico che non racconta nulla, non esprime nulla, filtrato com’è da un egocentrico intellettualismo assolutamente né pop né folk. Questa bellezza in sé si rivelò essere, in allora, strettamente funzionale ad esaltare l’iperbolica vocalità di Cathy Berberian, dall’estensione formidabile, arricchita, in sovrappiù, da un funambolico virtuosismo. L’attacco delle due viole coi due violoncelli a seguire, nella prima canzone, non è che un preludio che sostiene il velluto vocale della mitica Cathy. Il bello che si giustifica col piacere del suono. È vano cercarvi altro. Il soprano lettone Justina Gringyte, moglie di Treviño, con voce, nelle note basse, assai poitrinée, ce la mette tutta per reggere il difficile confronto con il ricordo della grande Cathy e, fortunatamente, non soccombe. Robert Treviño l’accompagna con amorevole distacco, badando a curare al meglio il ricercato suono cameristico della splendida Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI che, seppur ripiegata su un volume ridotto, si espande in uno smagliante e variegato tripudio timbrico. Il pubblico, a ranghi ridottissimi, ha, questa volta con molta regione, applaudito cantante e orchestra. Forse è tempo che anche le sale da concerto si dotino di schermi per sottotitoli: si fornirebbero così, ad un pubblico non sempre avvertito, alcuni aiuti ad una maggior consapevolezza d’ascolto. Ad esempio, i testi di quanto viene cantato e la segnalazione dei punti cruciali dell’esecuzione, quali le indicazioni di tempo e di movimento, come la numerazione di eventuali variazioni, che il troppo buio della sala impedisce di cogliere dalla lettura del programma. Nel nostro caso poi, i testi dei folk songs assenti e la prescrizione dello spartito che impone l’attacca subito senza pause, lasciavano il pubblico ignaro, senza alcun punto di riferimento. I burocrati staliniani, dando seguito ad una smorfia di disgusto dell’acciaioso despota nel corso della Lady Macbeth, si impegnarono con tutti i mezzi ad accusare il povero Dmitrij di “formalismo”, spaventandolo a morte e con lui ne sortirono terrorizzati anche gli esecutori della sua musica. Si era, a Leningrado, nel 1936 e le Prove della 4° sinfonia, ormai in corso, furono perentoriamente interrotte. Ci fu un fuggi-fuggi generale e qualcuno si adopererò per smarrire l’autografo della sinfonia. I burocrati, pur moralmente deprecabili, nella valutazione effettiva del lavoro ci avevano preso. Se per “formalismo” s’intende una musica che si esaurisce, seppur magnificamente, in sé stessa; una forma che non ha agganci con la realtà e col popolo, questa sinfonia ha effettivamente solo suono, puro ed assoluto. Per quanto in molti ci abbiano provato, nessuno è riuscito a costruirci sopra una trama e una drammaturgia coerente con quanto espongono le note e i suoni. Né in questo affanno c’è stato, da parte dell’autore, un pur minimo soccorso con scritti e con parole. L’opera si pone come un avventuroso universo sonoro che si evolve inesorabilmente su se stesso. Come dalla materia dispersa dal big-bang si agglomerarono, grazie alla gravità, diverse strutture singolari e misteriosamente interdipendenti, così, dal caos musicale europeo di fine Ottocento e dalla sua confusa ristrutturazione tonale, Šostakovič fa coagulare i grumi della sua nuova costruzione. Bruckner, Strauss, Mahler, i musicisti della seconda scuola di Vienna, i russi suoi contemporanei e chissà quanti altri contribuirono a fornire spunti per il nuovo percorso iniziato da Šostakovič. Avrebbe potuto portare, senza lo stop imposto dal populismo di regime, a una strana e personale adesione all’opinione di Stravinskij che la musica si giustifichi solo con la musica e che questa si esprima solo con la strutturazione del suono. Se questo fosse stato l’intento, rimase congelato fino al 1961, quando però il mondo della musica e la realtà sovietica erano ormai definitivamente cambiate. La guerra, la vittoria, le stragi e, non ultime, le vicende personali avevano ormai, e con forza irresistibile, provveduto a soppiantare il “formalismo” e l’autosufficienza con contenuti e trame sempre più ineludibili. Il texano Treviño, esente da questi affanni tipicamente europei, gran maestro della bacchetta e provetto conduttore di masse orchestrali, può riallacciarsi all’impostazione originaria e, a tutta forza, riaffermare la primaria importanza di forma e suono. Si trapassa, con naturalezza e assoluto controllo, dai fortissimi assordanti che impegnano più di cento orchestrali, ai pianissimi, quasi inudibili, di consistenza cameristica. Il suono si mantiene sempre pieno e chiaro, i timbri con inesauribile cura vengono esaltati e sovraesposti. L’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, grazie a una flessibilità pronta e formidabile, si auto promuove come più strepitosamente non si potrebbe. Tutte le prime parti, ma pure le seconde e le terze (vedi ottoni e legni) sarebbero da citare singolarmente se non si scadesse, visto lo spazio, ad una sterile elencazione. Giustamente, a concerto concluso, Treviño associa, con una lunga sfilata di ringraziamenti, agli applausi a lui indirizzati, tutte le singole prime parti, le file e i ranghi. Si ripete venerdì 14 e si può trovare il live streaming video su raicultura.it.

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Roma, Teatro Vascello: “Behind the light” dal 21 al 23 marzo 2025

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 18:23

Roma, Teatro Vascello
BEHIND THE LIGHT
coreografia, drammaturgia e interpretazione Cristiana Morganti
regia Cristiana Morganti e Gloria Paris
disegno luci Laurent P. Berger
creazione video Connie Prantera
datore luci Matteo Mattioli
audio/video Giovanni Ghezzi
una produzione Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale in coproduzione con Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Théâtre de la Ville – Paris, MA scène nationale-Pays de Montbéliard e con il sostegno di Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento
distribuzione per l’Italia Roberta Righi
international management Aldo Grompone
Gemo in un pianto e fremo
Fosco mi sembra il giorno
Ho cento affanni intorno
Ho mille furie in sen
Pietro Metastasio, L’Olimpiade, musica di Antonio Vivaldi
Dopo il successo di Moving with Pina e Jessica and Me tutt’ora in tour, e dopo aver firmato altri quattro spettacoli come autrice e coreografa (A Fury Tale del 2016, Non sapevano dove lasciarmi del 2017, Another Round for Five del 2019 e Young Birds del 2023) e dopo il Trio In Another Place creato nel 2021 in collaborazione con il danzatore Kenji Takagi e la violoncellista Emily Wittbrodt , ecco un nuovo assolo dell’artista italiana di base a Wuppertal, che fin dalle prime battute conferma e rilancia, alla luce di una nuova maturità interiore, la grande ironia alternata a momenti di intensa poesia che sono la sua cifra distintiva. Spettacolo fortemente autobiografico, che racconta di una crisi familiare, professionale e intima, una sequela di eventi con il tipico “effetto domino”, in cui una disgrazia pare chiamarne un’altra, in cui sembra venga meno ogni singolo punto di riferimento, ogni certezza. La vicenda personale risuona con intensità in chi guarda, dalla platea, in un momento storico che, una crisi economica e di valori, si può definire fra i più destabilizzanti della contemporaneità. Questa “personale crisi globale” viene mostrata, presa in giro, aggirata, attraversata, evasa, superata grazie al potere rigenerativo della confessione e soprattutto dell’arte, ora urlata, ora sussurrata tra le lacrime, con il capo adagiato sul pavimento. Scorre un montaggio di quadri, che vede la protagonista recitare, danzare, cantare su una scena bianca e sospesa in cui irrompono, per dialogare con l’interprete, gli originali e raffinati video di Connie Prantera. È una danza che fa venire voglia di danzare quella di Cristiana Morganti, complice l’esplosione di energia che fa seguito alla catarsi di questa confessione aperta, sincera, sofferente ma di un dolore mai autocompiaciuto, anzi immediatamente lenito dalla risata, anche di sé, con il pubblico. Accompagnati da un collage musicale che spazia da Vivaldi al punk-rock di Peaches, da Giselle, di Adolphe Adam alla musica elettronica di Ryoji Ikeda, si alternano momenti di danza e di parola, come l’irresistibile sfogo sui divieti stilistici che imbrigliano chi è cresciuto sotto la direzione di uno dei più grandi nomi della danza di sempre, Pina Bausch. Oppure il tentativo ripetuto, e inevitabilmente sempre fallito, di spiegare lo spettacolo a chi guarda, così che poi “ci si possa rilassare”. Numerose altre piccole, deliziose storie conducono a un finale che è un delicato ritorno all’interiorità. Lo spettacolo non va spiegato, sembra dire Cristiana Morganti, meglio godersi il viaggio, esattamente come nella vita. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: ” A Mirror” dal 18 al 30 marzo 2025

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 18:12

Roma, Teatro Sala Umberto
A MIRROR
di Sam Holcroft
con Ninni Bruschetta, Claudio ‘Greg’ Gregori, Fabrizio Colica, Paola Michelini, Gianluca Musiu
Scene Alessandro Chiti
Costumi Giulia Pagliarulo
Musiche Mario Incudine
Disegno Luci Sofia Xella
Aiuto regia Giuditta Vasile
per gentile concessione dell’Agenzia Danesi Tolnay
Una coproduzione Altra Scena
Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale
Regia di Giancarlo Nicoletti
Con un meccanismo geniale, esilarante e imprevedibile di teatro-nel-teatro-nel-teatro – a metà fra Pirandello e Rumorifuoriscena – “Spettacolo falso e non autorizzato (A Mirror)” arriva in Italia, dopo l’enorme successo inglese, con un cast e un adattamento sorprendenti. Affrontando temi come la libertà di parola, l’autoritarismo e la censura, è un elettrizzante thriller dark ad alto tasso di ironia e adrenalina, in cui nulla è come sembra e che chiede al pubblico di essere continuamente parte attiva della messinscena. Siete tutti invitati al matrimonio di Nina e Leo, nell’elegante sala eventi di uno stato totalitario in cui le opere teatrali e cinematografiche devono passare il vaglio della censura del Ministero. La cerimonia, però, è solo una copertura, per cui siate pronti a essere testimoni e complici di una performance clandestina e non autorizzata. Dove stia la verità è continuamente in discussione, i ruoli sono pronti a capovolgersi e le forze dell’ordine attendono in agguato, riducendo sempre più ogni distanza fra il dietro le quinte e il palcoscenico. Ce la farà il gruppo di attori ribelli a portare lo spettacolo fino alla fine, evitando di fare arrestare anche il pubblico per questo gesto di insubordinazione? Protagonisti del falso matrimonio e pronti ad accogliervi in teatro, una variegata compagnia di amatissimi attori “ribelli”: Ninni Bruschetta, Claudio “Greg” Gregori, Fabrizio Colica, Paola Michelini e Gianluca Musiu. La regia e l’adattamento italiano sono di Giancarlo Nicoletti, le scene di Alessandro Chiti, le musiche originali di Mario Incudine, i costumi di Giulia Pagliarulo, il disegno luci di Sofia Xella e la produzione è firmata da Altra Scena e Viola Produzioni. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Marco Schiavo & Sergio Marchegiani :”Mozart For Two”

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 16:46

Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791): Sonata in F KV 497; Andante and Variations in G KV 501; Fantasia in F minor for mechanical organ KV 594; Fantasia in F minor for mechanical organ KV 608; Sonata in G KV 357. Marco Schiavo (pianoforte). Sergio Marchegiani (pianoforte). Registrazione: 8-10 febbraio, 2023 presso la Wiener Saal at the Mozarteum, Salzburg. T. Time: 80′ 1CD Decca  4851327
Produzione destinata ai nobili dilettanti che amavano suonare sia il più “moderno” per l’epoca pianoforte che il clavicembalo, indicato quest’ultimo nel frontespizio della Grande sonata in fa maggiore K. 497, composta nel 1786, quella a quattro mani costituisce, comunque, una parte interessante all’interno dell’opera di Mozart, che, in un certo qual modo, come spesso fece nella sua carriera di compositore, “trasgredì” a quelle regole non scritte secondo le quali questo repertorio avrebbe dovuto rispondere a criteri di semplicità compositiva. In effetti, se l’irrealistica indicazione del clavicembalo, uno strumento che, all’epoca di Mozart, incominciava ad essere desueto, sembra corrispondere all’intenzione dell’editore di allargare la sua clientela, l’aggettivo “grande” mostra, invece, la volontà del compositore di scrivere un lavoro artisticamente di un certo livello. In effetti si tratta di un sonata estremamente impegnativa, il cui primo movimento si apre con un Adagio introduttivo di 29 battute piuttosto lungo, già per una sinfonia dell’epoca alla quale essa si accosta. In questo CD la Sonata è, però, accompagnata da pagine impegnative come l’Andante e 5 variazioni K. 501 e la Sonata in G KV 357, risalenti entrambi al 1786, nel quale la scrittura ammicca in modo molto più smaccato a un pubblico di esecutori dilettanti. Al 1791 risalgono, invece, le due Fantasie per organo meccanico K. 594 K. 608, due pagine di intensa drammaticità qui presentate in una versione per pianoforte a 4 mani circolante già all’epoca di Mozart. Queste pagine sono egregiamente eseguite da Marco Schiavo Sergio Marchegiani che riescono a rendere molto bene i valori espressivi di questi pezzi e mostrano un affiatamento tale da dare l’impressione di essere di fronte a un unico interprete anche nei brevi passi in imitazione tra il primo e il secondo che contraddistinguono la terza variazione.

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Roma, Teatro Brancaccio: “Prova a prendermi” dal 19 al 23 marzo 2025

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 16:04

Roma, Teatro Brancaccio
PROVA A PRENDERMI
basato sul film Dreamworks
libretto di Terrence McNally
musiche di Marc Shaiman
liriche di Scott Wittman & Marc Shaiman
con Claudio Castrogiovanni e Tommaso Cassissa
e con Simone Montedoro
regia di Piero Di Blasio
coreografie di Rita Pivano
scenografie di Lele Moreschi
costumi di Francesca Grossi
luci di Emanuele Agliati
produzione di Alessandro Longobardi per VIOLA PRODUZIONI – Centro di Produzione Teatrale
Dai Produttori di Aggiungi un Posto a Tavola e Rapunzel il musical arriva per la prima volta in Italia, PROVA A PRENDERMI IL MUSICAL, tratto dal film cult con Leonardo Di Caprio e Tom Hanks, con orchestra dal vivo. Il film PROVA A PRENDERMI del 2002 è stato campione di incassi superando i 350 milioni di dollari in tutto il mondo. Ha riunito star di primordine come Leonardo Di Caprio, Tom Hanks e Christopher Walken. Ha raccontato la storia vera di Frank Abagnale Junior e di come, negli anni ’60, riuscì a imbrogliare l’America (banche, compagnie aeree, ospedali, alberghi…) per crearsi il proprio sogno americano. Sotto la guida della vorticosa regia di Steven Spielberg, PROVA A PRENDERMI (Catch me if you can) ha stupito il mondo. Nel 2012, dopo quasi 10 anni e alcune preview, la storia di Frank Abagnale Junior approda a Broadway con Aaron Tveit, Norbert Leo Butz e Tom Wopat.
Il racconto del giovane truffatore, arrestato dall’Agente dell’FBI (e poi amico) Carl Hanratty, è stato preso e adattato per il teatro grazie alla maestria dei più illustri compositori e scrittori americani: Terence McNally (The Full Monty, Anastasia, Kiss of the Spider Woman e tanti altri) al libretto e Marc Shaiman e Scott Wittman (candidati agli Oscar e vincitori di Tony Awards, Grammy, Olvier Awards per Hairspray, Smash, Il Ritorno di Mary Poppins e tantissimi altri) per testi e musiche. Dopo repliche in tutto il mondo finalmente, per la prima volta, arriva nei teatri italiani! Alessandro Longobardi, per Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale, è lieto di annunciare questa anteprima assoluta per l’Italia, in accordo con Music Theatre International. A dare voce e corpo ai divi del grande schermo, ci saranno CLAUDIO CASTROGIOVANNI che interpreterà Carl Hanratty (ruolo che fu al cinema di Tom Hanks), TOMMASO CASSISSA nel camaleontico ruolo di Frank Abagnale Junior (interpretato da Leonardo Di Caprio) e SIMONE MONTEDORO sarà il padre Frank Abagnale Senior (ruolo cesellato dal premio Oscar Christopher Walken). Claudio Castrogiovanni torna al musical, suo primo grande amore, senza mai abbandonare il cinema e le serie televisive tanto amate come Il capo dei capiVaninaLa SquadraIl giovane MontalbanoIl silenzio dell’AcquaUn medico in famiglia e tantissimi altri. Per Tommaso Cassissa, invece, è un debutto assoluto nel mondo del musical. La giovane star dei social (solo su TikTok, con il nome di @tommycassi, ha superato i 2 milioni e mezzo di follower!) non è stata certo ferma in questi anni tra cinema, libri e televisione, fino alla sua ultima partecipazione al programma cult LOL 5. Anche per SIMONE MONTEDORO siamo al debutto assoluto in un musical. Volto storico della tv italiana (per quasi dieci anni è stato il commissario Tommasi in una delle serie più amate della Rai “Don Matteo”) con incursioni anche nel mondo della danza (semifinalista di Ballando Con Le Stelle) e del canto (Tale e Quale show con Carlo Conti), ha dimostrato di sapersi muovere con grande abilità in tutte le sfaccettature del suo mestiere, dal teatro, che ha segnato l’inizio della sua carriera, al cinema, alla tv. L’adattamento e la regia dello spettacolo sono stati affidati a Piero Di Blasio (Tutti Parlano di JamieLa piccola Bottega degli Orrori e tanti altri); Rita Pivano (RapunzelSister ActPeter PanLa regina di ghiaccio e tanti altri) curerà le coreografie sulle musiche originali dei favolosi anni ’60 americani suonate dal vivo. La direzione musicale è nelle abili mani di un veterano del musical in Italia, il maestro Angelo Racz (Kinky BootsHairspraySpamalotLa febbre del sabato sera e tanti altri) che dirigerà dal vivo una splendida orchestra jazz/swing. Francesca Grossi (Rapunzel il musicalAggiungi un posto a tavolaTutti Parlano di Jamie il musicalLa regina di Ghiaccio il musical) disegna i meravigliosi costumi realizzati dalla sartoria Brancaccio. Le scenografie sono firmate da Gabriele Moreschi (Aggiungi un posto a tavolaSister Act il musicalE… se il tempo fosse un gamberoGrease e tanti altri). Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Sior Todaro Brontolon” dal 18 al 23 marzo 2025

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 12:33

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
SIOR TODERO BRONTOLON
di Carlo Goldoni
drammaturgia Piermario Vescovo
Con Franco Branciaroli
e con Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin, Maria Grazia Plos, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Valentina Violo, Emanuele Fortunati, Andrea Germani, Roberta Colacino
in collaborazione con i Piccoli di Podrecca
scene Marta Crisolini Malatesta
costumi Stefano Nicolao
musiche Antonio Di Pofi
luci Gigi Saccomandi
movimenti di scena Monica Codena
regia Paolo Valerio
Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de gli Incamminati, Centro Teatrale Bresciano
«Quale maggior disgrazia per un uomo, che rendersi l’odio del pubblico, il flagello della famiglia, il ridicolo della servitù? Eppure non è il mio Todero un carattere immaginario. Purtroppo vi sono al mondo di quelli che lo somigliano; e in tempo che rappresentavasi questa commedia, intesi nominare più e più originali, dai quali credevano ch’io lo avessi copiato». Anche oggi non è raro incappare in un “brontolòn” come il Todero di Carlo Goldoni che precedeva la commedia racchiudendo queste riflessioni ne “L’autore a chi legge” e si stupiva di come un lavoro incentrato su un personaggio tanto odioso e negativo potesse aver ricevuto dal pubblico un tale successo. “Sior Todero Brontolòn” scritta nel 1761 e presentata al Teatro San Luca di Venezia l’anno successivo, fu infatti accolta con molto calore, ripresa per 10 repliche a gennaio e poi nuovamente a febbraio, a ottobre… Sior Todero risponde – come carattere – al modello dei rusteghi, ma dei quattro burberi veneziani perde qualsiasi accento bonario. La trama lo vuole avaro, imperioso, irritante con la servitù, opprimente con il figlio e la nipote, diffidente e permaloso verso il mondo. Sembrerebbe impossibile empatizzare con una simile figura. Eppure il capolavoro di Goldoni – e la figura di Todero, scritta in modo magistrale – sono stati molto ambiti dai teatri e dai più grandi attori, da Cesco Baseggio, a Giulio Bosetti, a Gastone Moschin. Ora questo indifendibile “brontolòn” attira un maestro del palcoscenico contemporaneo come Franco Branciaroli, che – diretto da Paolo Valerio – ne offrirà una nuova straordinaria e inaspettata interpretazione. Dopo l’originale e dissacrante interpretazione di Shylock nel “Mercante di Venezia” shakespeariano, Paolo Valerio e Franco Branciaroli si apprestano a stupire il pubblico con la rilettura di un classico del teatro italiano, che molto ancora può suggerire alla sensibilità contemporanea. Basti pensare – a fronte di una figura di protagonista tanto imponente e attrattiva – al ruolo sottile e risolutivo che Goldoni affida, nella commedia, al mondo femminile, l’unico che nello sviluppo drammaturgico appare pienamente positivo: sarà l’alleanza fra la coraggiosa nuora del vecchio avaro e l’intelligente vedova Fortunata a salvare la giovane Zanetta da un matrimonio impostole per mero interesse e foriero di infelicità. Sarà riconsegnata all’amore generoso e vero in un finale che – in tempi in cui il concetto di “patriarcato” domina le nostre cronache nelle sue accezioni più distorte e plumbee – intreccia in prospettiva, alla gioiosità della risoluzione, una venatura di turbamento. Qui per tutte le informazioni.

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: “Durchlauchtster Leopold” BWV 173a

gbopera - Dom, 16/03/2025 - 10:44

“Durchlauchtster Leopold” BWV 173a è una  cantata profana per il  compleanno per il principe Leopoldo di Anhalt-Köthen. Una composizione relativamente poco impegnativa, che ha portato alcuni a sospettare che sia stata composta piuttosto rapidamente già nel 1717, ma un esame più attento della partitura autografa indica che è stata ovviamente scritta qualche anno dopo, intorno al 1722. Su libretto di Anonimo, questa Cantata evidenzia la relativa irrilevanza che viene data ai recitativi (ne troviamo solo 2) La strumentazione prevede archi e continuo con l’aggiunta di flauti traversi e fagotto. L’utilizzo di due voci solistiche (possiamo anche supporre che il Coro fosse realmente cantato da questi due solisti). Forse Bach considerava un aspetto allegorico. Si può immaginare la parte del soprano sia  sorta di dea protettrice, una personificazione della fama o della poesia; La prima aria con “da capo” (nr. 2) ricorda un movimento  di danza, poiché ha un ritornello introduttivo chiaramente diviso in due ritmi. Il carattere estremamente accattivante della melodia, interrotto da pause e dominato da ritmi di terzine, nonché la delicata strumentazione confermano la bellezza di questa pagina. Particolarmente breve è il nr 3, che Bach ha intenzionalmente evitato di chiamare “aria”. Il  tempo “vivace” e l’irrequietezza degli archi di accompagnamento caratterizzano l’entusiasmo con cui si sta diffondendo la fama di Leopold. Il duetto (Nr. 4), contrassegnato “Al tempo di minuetto”, è una delle arie più originali di Bach Il recitativo del duetto (nr. 5),  assume la forma di un arioso, nel corso del quale i sospiri riverenti che salgono al cielo sono resi pittoricamente nella musica da figure di scale. L’aria nr.. 6  del soprano ha ancora un carattere di danza (“bourrée”)come nelle arie precedenti. Nell’aria  nr. 7,  al fianco della  voce del basso, con il “Continuo” costituito da violone e clavicembalo, spiccano il fagotto e il  violoncello che suonano all’unisono. Un tempo di “polonaise” ,  un altro movimento di danza chiude la Cantata. 
Nr.1 – Recitativo
(Soprano)
Serenissimo Leopoldo,
il mondo di Anhalt  con gioia di celebrare,
la tua Köthen si presenta a te,
si inchina davanti a te,
Serenissimo Leopoldo!
Nr.2 – Aria (Soprano)
Il sole e il cielo sereno,
si sono nuovamente riunite
e diffondono la sua gloria!
Nr.3 – Arioso (Basso)
Quello che eccelle in Leopoldo
è celebrato ogni momento;
la bocca e il cuore,
l’orecchio e l’occhio cantano e con ragione
la sua fortuna.
Nr.4 – Aria/Duetto (Basso, Soprano)
Basso
Sotto il suo stemma di porpora
dopo la sofferenza ora c’è la gioia,
Egli elargisce a tutti ampio spazio
per godere dei doni di grazia
che scorrono come ricchi fiumi.
Soprano
Con paternità nutre e scongiura le sofferenze;
ora è viva la speranza  che lui riporti
la terra di Anhalts a vivere nella felicità.
Soprano, Basso
Ma non ci lasceremo sfuggire
il dovere di pensare a questa gioia,
oggi che la luce del cielo rende felici
i suoi servi e gioisce  del suo scettro.
Nr.5 – Recitativo (Soprano, Basso)
Illustrissimo, che Anhalt chiama padre,
porteremo allora i nostri cuori anche  al sacrificio;
dal nostro petto, che arde di devozione,
con il nostro fervore che sale al cielo,
Nr.6 – Aria (Soprano)
Guardate dunque la luce
di questo bel giorno e per molti
altri a venire,
e come ora ci accompagna
il benessere e la felicità,
la luce che darà la forza
anche quando ritornerà il dolore.
Nr.7 – Aria (Basso)
Il tuo nome  è vicino al Sole,
circondato dalle stelle!
Leopoldo farà risplendere le terre di Anhalt
di gloria principesca.
Nr.8 – Coro/ Duetto (Soprano, Basso)
Anche noi ti onoriamo, grande principe,
per quello che ci elargisci;
sia felice corso della corso di vita,
che sia una benedizione sul capo del tuo popolo!

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Durchlauchtster Leopold” BWV 137a

 

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Roma, Museo della Fanteria: “Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray”

gbopera - Sab, 15/03/2025 - 18:29

Roma, Museo Storico della Fanteria
FRIDA KAHLO: THROUGH THE LENS OF NICKOLAS MURAY
Curatori: Touring Exhibitions Organization e Museo Frida Kahlo di Città del Messico
Mostra prodotta da: Next Exhibition e ONO arte contemporanea
Fotografo: Nickolas Muray
Roma, 15 marzo 2025
Ci sono volti che sembrano parlare, anche quando tacciono. Volti che conservano un silenzio pieno di storie, come una lettera mai spedita o una finestra socchiusa sul cortile interno di una casa messicana. Frida Kahlo aveva un volto così: severo e gentile al tempo stesso, fragile ma indomito, scavato da un dolore che sembrava riscriverle i lineamenti e allo stesso tempo illuminarli. Guardarla era un po’ come guardarsi dentro. C’è qualcosa di molto umano, di molto prossimo, in quel suo sguardo diritto e limpido, che pare sempre cercare qualcuno. Passeggiando tra le fotografie esposte nella mostra Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray, si ha la sensazione di entrare in un tempo altro, fatto di colori caldi e ombre dolci, di risate smorzate e parole tenute in sospeso. La mostra, che si terrà a Roma, al Museo Storico della Fanteria, dal 15 marzo al 20 luglio 2025, raccoglie sessanta fotografie che raccontano il rapporto tra due persone che si sono volute bene. Prima che il mito di Frida si gonfiasse fino a diventare un’immagine onnipresente, c’era la donna. E davanti a quella donna, con una macchina fotografica tra le mani, c’era Nickolas Muray. Era arrivato a New York con pochi soldi in tasca e un sogno ostinato: diventare qualcuno. E forse non sapeva nemmeno bene cosa volesse dire “diventare qualcuno”. Nato in Ungheria, a Seghedino, nel 1892, Muray era un uomo di determinazione e passione. Lavorò come incisore, fu anche schermidore olimpionico, ma la sua strada era la fotografia. Sapeva guardare, prima ancora di saper scattare. E questa, credo, sia la qualità che fa la differenza. Ci sono persone che sanno vedere. Non solo guardare, ma vedere. E lui vide Frida, in un giorno del 1931, nella casa azzurra di Coyoacán, e non smise più di vederla, anche quando la loro storia d’amore finì. La storia fra loro cominciò piano, come accade con le cose che restano a lungo. Si conobbero grazie a un amico comune, Miguel Covarrubias, artista e intellettuale che li mise in contatto. Frida all’epoca era la giovane moglie di Diego Rivera, ancora poco conosciuta fuori dal Messico. Nick, che già collaborava con Harper’s Bazaar e Vanity Fair, vide qualcosa in lei che andava oltre l’apparenza. Una bellezza non convenzionale, certo, ma anche una forza che sembrava provenire da un altro tempo. Frida gli scrisse una lettera subito dopo il loro incontro, con parole dolcissime: “Nick, I love you like I would love an angel.” E in quelle parole si coglie una fame d’amore che commuove. Era una donna che aveva sofferto molto, eppure sapeva ancora desiderare con la semplicità di una ragazza. Nick e Frida si amarono per dieci anni. Si scrissero lettere, si cercarono tra Messico e Stati Uniti. Ma più che raccontare la cronaca di un amore, queste fotografie parlano della comprensione reciproca tra due persone che si sono accolte per quello che erano. Non c’è forzatura nelle immagini che Muray scattò a Frida tra il 1937 e il 1946. Sono fotografie piene di silenzio, di confidenza. Frida è vestita con i suoi abiti tradizionali tehuana, i capelli raccolti in corone fiorite, i gioielli pesanti di corallo e d’argento. È consapevole di essere osservata, ma non è intimidita. È come se dicesse: “Sì, questo sono io. Guarda pure.” E lui la guarda con rispetto, senza mai tradire l’intimità che la lega a lui. Muray fu un pioniere della fotografia a colori. In quegli anni, pochi si avventuravano nel campo del colore con la sicurezza che ebbe lui. Eppure, guardando queste fotografie, si capisce quanto il colore fosse necessario per raccontare Frida. I rossi accesi delle sue gonne, i verdi profondi dei muri alle sue spalle, il blu del cielo che si intravede dietro di lei—tutto parla di vita, nonostante il dolore. Frida aveva un rapporto intenso con il proprio corpo, che era stato segnato dall’incidente subito da ragazza e dalle continue operazioni. Eppure, sapeva ornarsi, trasformare la sofferenza in qualcosa di forte e bello. Nickolas Muray colse questo aspetto senza mai scivolare nel pietismo. Non c’è compassione nei suoi scatti. C’è ammirazione. Molte di queste fotografie sono oggi considerate iconiche. Rappresentano Frida Kahlo come la conosciamo: una figura che si staglia fiera contro fondali vibranti di colore, con uno sguardo serio e pieno di consapevolezza. Eppure, dietro quell’immagine diventata popolare, si avverte ancora una donna reale. Muray ci ha regalato un ritratto in cui l’intimità e la dignità si fondono. Guardando questi scatti, si ha la sensazione di avvicinarsi a Frida non come simbolo, ma come persona. Certo, Frida Kahlo era già un’artista consapevole del proprio potere iconico. Nei suoi autoritratti si mise in scena come un’araldica, cucendo nella sua immagine elementi della tradizione messicana, della sofferenza fisica e dell’identità femminile. Ma nelle fotografie di Muray c’è qualcosa di diverso. Non è lei a scegliere come mostrarsi: è lui a guardarla e a restituire quello che vede. Non c’è manipolazione, non c’è posa forzata. C’è una donna che si lascia vedere da un uomo che ha saputo amarla e rispettarla. Alla fine della mostra, si esce con una sensazione dolceamara. Le immagini sono ferme, non possono cambiare, eppure raccontano un tempo in cui tutto era in divenire. Frida Kahlo sarebbe diventata un’icona globale; Muray avrebbe continuato a fotografare altri volti, altre storie. Eppure, in quelle fotografie, si conserva un tempo sospeso, in cui due persone si sono trovate e riconosciute. A me piace pensare che le fotografie siano un modo per trattenere le persone, per dire loro: “Rimani ancora un po’”. Nickolas Muray, con la sua Leica e la sua Rolleiflex, ha fermato Frida Kahlo nel tempo, ma non l’ha mai imprigionata. Ha permesso che continuasse a guardarci, così come guardava lui. Con lo stesso sguardo diretto, fiero e umano.

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Venezia, Teatro Malibran: “Il trionfo dell’onore” di Alessandro Scarlatti

gbopera - Sab, 15/03/2025 - 00:03

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025 del Teatro La Fenice
IL TRIONFO DELL’ONORE”
Commedia posta in musica in tre atti Libretto di Francesco Antonio Tullio
Musica di Alessandro Scarlatti
Revisione del manoscritto originale a cura di Aaron Carpenè
Riccardo Albenori GIULIA BOLCATO
Leonora Dorini ROSA BOVE
Erminio Dorini RAFFAELE PE
Doralice Rossetti FRANCESCA LOMBARDI MAZZULLI
Flaminio Castravacca DAVE MONACO
Cornelia Buffacci LUCA CERVONI
Rosina Caruccia GIUSEPPINA BRIDELLI
Capitano Rodimarte Bombarda TOMMASO BAREA
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Enrico Onofri
Regia Stefano Vizioli
Scene e costumi Ugo Nespolo
Costumista realizzatore Carlos Tieppo
Light designer Nevio Cavina
Venezia, 11 marzo 2025
Nel trecentesimo anniversario della morte di Alessandro Scarlatti, debutta a Venezia Il trionfo dell’onore, l’unica “commedia posta in musica” dal sommo musicista di Palermo, insigne rappresentante della Scuola napoletana. Gli spettatori, che assistettero alla prima assoluta dell’opera, il 26 novembre del 1718, presso il Teatro dei Fiorentini in Napoli, salutarono con entusiasmo questo capolavoro, che pure li metteva di fronte a tanti aspetti nuovi: l’utilizzo dell’italiano invece del dialetto; la dovizia di pezzi d’insieme anziché la solita ininterrotta successione di arie; la cura nel definire i caratteri e gli affetti; la presenza di personaggi tutt’altro che aristocratici o eroici, che preannunciava l’imminente affermazione sociale della borghesia. Il pregevole libretto confezionato dall’esperto Francesco Antonio Tullio – che prevede otto personaggi, partecipanti a un funambolico gioco di coppie – permise a Scarlatti di spaziare, dimostrando un estroso humor musicale, tra forme e stili diversi, nell’intento di rinnovare il genere buffo e, verosimilmente, fare anche la parodia dell’opera seria con evidente au­toironia. La regia di Stefano Vizioli si basa su un giusto equilibrio tra verosimiglianza e fantasia, grazie anche all’accattivante apparato scenico progettato dal pop artist Ugo Nespolo: una scenografia abbastanza tradizionale, che utilizza fondali, quinte, siparietti, ma che sa essere anche originale ed estroversa, basti considerare il suo acceso cromatismo. Vi campeggiano le raffigurazioni – di stampo vagamente naïf – di vari animali: il gufo, la gallina, il pavone, il cigno, le oche, altrettante allusioni ai caratteri dei personaggi. Alla fantasia di Nespolo si devono anche i costumi – colorati ed estrosi –, realizzati da Carlos Tieppo. Libertà e inventiva si sono colte anche nei movimenti scenici talora con risvolti erotici, nel continuo gioco di seduzione che impegna i personaggi. Questi sono suddivisi in quattro coppie (Riccardo e Leonora, Erminio e Doralice, Flaminio e Cornelia, Rodimarte e Rosina), ma alcuni di essi sono sempre pronti al tradimento. Almeno prima dell’improbabile, edificante finalino. Vizioli nella sua messinscena, pone in risalto il legame fra Il trionfo dell’onore e il mozartiano Don Giovanni. Nell’opera di Scarlatti, il “dissoluto” è Riccardo, privo però dell’alone satanico che circonda l’eroe mozartiano. Ma ci sono altre analogie – secondo il regista napoletano – rispetto al capolavoro di Mozart e Da Ponte: Leonora, sedotta e abbandonata da Riccardo, è una specie di donna Elvira, il fratello di lei Erminio un don Ottavio, tutto legalità e senso della giustizia, il fanfarone capitano Rodimarte, che accompagna Riccardo nelle sue avventure, somiglia a Leporello. Vizioli riesce a evidenziare la psicologia dei personaggi “seri” (Riccardo, Leonora, Erminio) così come rende irresistibili le figure stereotipate: oltre a Rodimarte, il vecchio scapolo impenitente Flaminio, che assedia in modo ossessivo la servetta Rosina, o l’anziana Cornelia con le sue smanie erotiche, affidata alla voce di tenore. Eccellente il livello degli interpreti vocali. Il soprano Giulia Bolcato – un Riccardo Albenori anticonformista in giubbotto e pantaloni rossi – ha sfoggiato una voce omogenea e corposa, oltre che adeguata presenza scenica nel delineare la figura di Riccardo da seduttore incallito (“È ben far come l’ape”) a seduttore pentito (“Ricevi il mio core / non più mancatore”). Analogamente autorevole la prova del mezzosoprano Rosa Bove – in un corto vestito azzurro –, che ha saputo rendere il patetismo autentico di Leonora fin dalla prima aria, “Mio destin fiero e spietato”, quasi interrotta per un eccesso di commozione, come nelle successive (“Sospirando, penosa, dolente” e “Ne vuoi più, mia fiera sorte?”). Si è positivamente segnalato anche il controtenore Raffale Pe nei panni – giaccone e collana – di un anticonformista Erminio, che medita di vendicare la sorella Leonora (“Daranno al petto / ira e furore”) e l’amata Doralice (“Per quell’impuro indegno”). Ingenua e capricciosa la Doralice – di verde vestita – offerta dal soprano Francesca Lombardi Mazzulli. Ottima la prestazione del tenore Dave Monaco, in redingote verde, che ha ben caratterizzato il vecchio Flaminio, caricatura dello scapolo attempato che si crede ancora un Ganimede (“Con quegli occhi ladroncelli”). Assolutamente irresistibile, per vocalità e presenza scenica, il tenore Luca Cervoni, che ha interpretato – con la verve di Michael Aspinall e di Paolo Poli – un’estroversa Cornelia in vestaglia da camera. Altrettanto travolgente la Rosina delineata dal mezzosoprano Giuseppina Bridelli nei classici panni da cameriera: quintessenza dell’astuzia femminile (“Il farsi sposa”) ma anche disposta alla tenerezza (“Avete nel volto”). Le ha pienamente corrisposto il Rodimarte del basso-baritono Tommaso Barea – costume azzurro con pantaloni alla turca e tricorno che ha sfoggiato una voce ben timbrata e una forte presenza scenica, brillando in “Quando ruoto feroce il mio brando”, grottesca imitazione dell’aria di tipo eroico, con una lunga coloratura, in corrispondenza della parola “espugnando”, e un’aria di portamento nel Lento centrale. Duttile e scattante l’Orchestra del Teatro La Fenice ha assecondato il gesto direttoriale di Enrico Onofri, che con mano sicura quanto delicata ha ottenuto un suono cristallino e scandito dei tempi alquanto serrati. Il maestro ravennate ha guidato strumenti e voci, affrontando da par suo la scrittura estremamente varia ed elegante con cui Scarlatti esprime ogni gesto, ogni affetto, e in particolare coniugando il rigore del contrappunto all’espressività del canto. Successo travolgente senza “se” e senza “ma”.

 

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Milano, Teatro Carcano: “Lo zoo di vetro”

gbopera - Ven, 14/03/2025 - 14:37

Milano, Teatro Carcano, Stagione 2024/25
LO ZOO DI VETRO”
di Tennessee Williams traduzione di Gerardo Guerrieri
Amanda Wingfield MARIANGELA D’ABBRACCIO
Tom Wingfield GABRIELE ANAGNI
Laura Wingfield ELISABETTA MIRRA
Jim O’Connor PAVEL ZELINSKIY
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Musiche originali Stefano Mainetti
Light designer Pietro Sperduti
Produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e Best Live srl
Milano, 8 marzo 2025
Pier Luigi Pizzi ha deciso di rileggere, in questi anni, l’opera di Tennessee Williams, e ci propone quest’anno “Lo zoo di vetro“, sempre con protagonista Mariangela D’abbraccio, che in questo repertorio, in effetti, trova un po’ la sua dimensione: qui è, naturalmente, Amanda Wingfield, la garrula e onnipresente madre dei giovani Tom e Laura, un personaggio sicuramente nelle corde della D’abbraccio, che può mettervi tutta la maniera dell’attrice navigata, l’intensità, ma anche i vezzi, supportata da una fisicità ancora piacente e della nota vocalità calda e pastosa. Insomma, con questo ciclo williamsiano la abbraccio cerca quella che solitamente viene chiamata “consacrazione”, e probabilmente la otterrà, dato il grande impegno che negli ultimi trent’anni ha profuso sulle scene italiane. Tuttavia, la carica che ripone nella sua interpretazione rischia di mettere in ombra quelle dei suoi colleghi, specie dei più giovani e/o inesperti: questo “Zoo di vetro“, ad esempio, vede nella parte di Laura un’attrice – Elisabetta Mirra – troppo al di sotto della collega, potremmo dire a malapena accettabile nella sua performance, che non conosce toni, carattere, profondità; è evidente che incorra in un errore, ovvero che confonda il carattere del personaggio (una ragazza drammaticamente asociale, al principio di diverse turbe psichiche, modellata da Williams sul ricordo della sorella in manicomio), con il carattere dell’interprete, cioè la sua capacità di comunicarci questa incapacità di comunicare, di imitarla in modo da renderla evidente, e potervi costruire sopra una specifica personalità. Nella stessa trappola rischia di cadere anche Pavel Zelinskiy, un Jim O’Connor forse un po’ troppo disinvolto e facilone, quando anche questo personaggio meriterebbe una più attenta di esamina, soprattutto in relazione al suo passato rapporto con Laura. Tiene testa alla madre, ma anche all’attrice, invece, Gabriele Anagni, nei panni di Tom, che pur con qualche prudenza di troppo sul piano espressivo risulta comunque ben interpretato, merito anche di una fisicità e una vocalità molto gradevoli. Alle solite scene bianche à la Pizzi, qui si sostituisce un legno chiaro dall’evidente sapore rétro, che rende perfettamente la piccolezza, l’ordinarietà della dimensione familiare e umana degli Wingfield, oltre alla povertà di un interno che sembra incompiuto, con legno vivo ovunque. Le dinamiche tra personaggi si muovono su un binario tradizionale, molto già visto, ma comunque di risultato apprezzabile. Il ritmo a volte latita e cede il passo alla didascalia, ma, trattandosi di Pizzi, non potremmo aspettarci diversamente; tuttavia, almeno in questo “Zoo di vetro” occhieggiano almeno alcune scene conturbanti, soprattutto legati ai rapporti familiari dai toni nemmeno troppo occultamente malati. Forse ci saremmo aspettati più coraggio dall’insieme della produzione, ma, in fondo, sono altri gli artisti dai quali pretendere ancora qualcosa, non certo un vero Maestro del XX secolo, miracolosamente ancora così lucido e attivo nel XXI. Dunque, bene così.

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Roma, Teatro Vascello: “Moby Dick alla prova”

gbopera - Gio, 13/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
MOBY DICK ALLA PROVA
di Orson Welles
adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di Herman Melville
con Elio De Capitani
e Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari
traduzione Cristina Viti
uno spettacolo di Elio De Capitani
costumi Ferdinando Bruni
musiche dal vivo Mario Arcari
direzione del coro Francesca Breschi
maschere Marco Bonadei
luci Michele Ceglia
suono Gianfranco Turco
coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Roma, 13 marzo 2025
C’è qualcosa di ipnotico, di ineluttabile, in “Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani. Uno spettacolo che si insinua nella mente e nella carne, proprio come la disperata caccia alla balena bianca che da più di un secolo e mezzo continua a tormentarci. Andare a teatro e lasciarsi travolgere da quest’opera è un’esperienza che oscilla tra il naufragio e l’estasi. Debuttato all’Elfo Puccini di Milano, il lavoro di De Capitani prende le mosse dall’adattamento scritto nel 1955 da Orson Welles. Un testo inedito in Italia, che si fa materia viva nelle mani del regista e attore, restituendo tutta la grandezza della tragedia di Achab con una sintesi folgorante del capolavoro di Melville. Ora in scena al Teatro Vascello di Roma, lo spettacolo si riempie di tensione fin dalle prime battute: non ci sono mare aperto, navi o balene in carne ed ossa, ma solo attori che, con la forza della parola e del gesto, costruiscono un universo teatrale che ingloba il pubblico. Il cuore dello spettacolo è proprio Achab, interpretato da un magistrale Elio De Capitani, che ne fa un monolite d’ossessione e ferocia. La sua voce si impasta con l’aria, scandendo parole che risuonano come condanne. Il parallelismo con il “Re Lear” è esplicito: Achab, come il vecchio re shakespeariano, è divorato dalla sua stessa furia, ma se Lear trova una redenzione finale, il capitano del Pequod si inabissa nel suo delirio di onnipotenza. Il suo Achab non è un semplice capitano ossessionato dalla vendetta: è la personificazione di un potere che divora tutto ciò che lo circonda, perfino se stesso. La messa in scena è essenziale, eppure potentissima. Il fondale è una superficie cangiante, quasi impalpabile, che suggerisce l’immensità dell’oceano e il respiro della bestia. Ma la vera meraviglia è la balena stessa: un’apparizione evocata con un semplice trucco teatrale che, nel momento clou dello spettacolo, si materializza in una visione che gela il sangue. Non servono effetti speciali per rendere Moby Dick una presenza reale: basta il teatro, nella sua forma più pura e magica. Il cast è straordinario, capace di tenere il ritmo di un’opera che gioca su diversi livelli di narrazione e simbolismo. Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana e Vincenzo Zampa creano un intreccio sonoro e fisico che amplifica il senso di viaggio e di abisso. La musica dal vivo di Mario Arcari e i canti curati da Francesca Breschi – rielaborazioni dei tradizionali sea shanties – aggiungono una dimensione quasi rituale, rendendo il Pequod una nave che solca le acque del tempo e della memoria. Welles, con il suo testo, aveva già gettato un ponte tra Melville e Shakespeare, ma De Capitani spinge ancora oltre, facendo vibrare le parole di una modernità inquietante. Perché Achab non è solo il capitano di un veliero ottocentesco: è l’incarnazione di un vitalismo distruttivo, di quella parte dell’umanità che corre a capofitto verso il disastro, incurante delle conseguenze. La Pequod si inabissa, la sesta estinzione di massa avanza, il riscaldamento globale incombe. E noi? Siamo forse gli uomini dell’equipaggio, sottomessi alla volontà del comandante, incapaci di opporci a una rotta che sappiamo già essere mortale? “Moby Dick alla prova” non è solo teatro. È una ferita aperta, un monito, un’esperienza che non si dimentica. De Capitani e il Teatro Vascello consegnano al pubblico un’opera che scuote e fa tremare, in cui la parola si fa tempesta e la scena diventa oceano. Uno spettacolo totale, che dimostra – ancora una volta – come il teatro sia il luogo dove l’invisibile prende forma, e la bellezza può ancora lasciarci senza fiato. Photocredit Marcella Foccardi

 

Categorie: Musica corale

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