Roma, Teatro Sistina
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
Tony LUCA GAUDIANO
Maria NATALIA SCARPOLINI
Anita ROSITA DENTI
Bernardo ANTONIO CATALANO
Riff ROBERTO TORRI
originariamente diretto e coreografato da Jerome Robbins
Coreografie Billy Mitchell
Direzione Musicale Emanuele Friello
Regia e adattamento italiano di Massimo Romeo Piparo
Roma, 07 dicembre 2024
West Side Story al Teatro Sistina, nella versione adattata da Massimo Romeo Piparo, si presenta come un tentativo ambizioso di riportare in scena uno dei musical più iconici della storia, adattandolo per il pubblico italiano. L’operazione, tuttavia, risulta disomogenea: mentre alcuni elementi si distinguono, altri rimangono poco sviluppati, compromettendo la coesione di uno spettacolo che, per intensità drammatica e ricchezza musicale, avrebbe potuto esprimere maggior potenziale. Luca Gaudiano, nel ruolo di Tony, rappresenta senza dubbio il punto di forza della produzione. Il giovane interprete sfoggia una solidità tecnica invidiabile e una versatilità vocale che gli consentono di affrontare la complessa partitura di Leonard Bernstein con naturalezza. La sua estensione vocale, sostenuta da un controllo del fiato impeccabile, gli permette di passare dai registri più lirici a quelli drammatici senza difficoltà. I suoi acuti, centrati e privi di tensioni, sono eseguiti con una padronanza che mette in evidenza la maturità della sua tecnica. Particolarmente incisivo il momento di “Maria”, dove Gaudiano riesce a restituire la bellezza e l’intensità del brano, arricchendolo di dinamiche emozionali e sensibilità interpretativa. Se da un lato la vocalità di Gaudiano spicca, dall’altro la sua interpretazione recitativa lascia intravedere qualche margine di crescita. Il suo Tony, per quanto emozionante, appare ancora un po’ acerbo, con una caratterizzazione che a volte risulta fanciullesca e non sempre pienamente tridimensionale. Tuttavia, queste lievi mancanze non tolgono nulla alla sua capacità di dominare la scena, rendendolo il protagonista indiscusso dello spettacolo. Natalia Scarpolini, nei panni di Maria, non riesce a eguagliare la presenza scenica e vocale del suo partner. La sua voce mostra una tecnica non sempre precisa e spesso risulta appesantita da vibrati sovraccarichi, che pur tecnicamente corretti, finiscono per deviare dall’intento espressivo del personaggio. Maria, un ruolo che richiede complessità interpretativa e una gamma timbrica ampia, appare qui priva della profondità necessaria per tradurre appieno il dramma e l’intensità del suo arco narrativo. Inoltre, nonostante l’uso dei microfoni, la proiezione vocale di Scarpolini risulta insufficiente, tanto che nei momenti corali e nei duetti la sua voce viene sovrastata dagli altri interpreti, penalizzando ulteriormente l’impatto del personaggio. Il resto del cast cerca di gestire al meglio la sfida, offrendo interpretazioni vocali e recitative di massima funzionali. Tra questi spiccano Antonio Catalano, che regala un Bernardo convincente e carismatico, e una spumeggiante Rosita Denti che brilla nel ruolo di Anita. La sua espressività vocale, insieme alla versatilità interpretativa, le permette di alternare con naturalezza momenti di leggerezza e intensità, rendendo il suo personaggio convincente e ben delineato. A lei il pubblico regala forse gli applausi più convinti. Roberto Torri, nel ruolo di Riff, si distingue per una solida interpretazione recitativa che valorizza il personaggio, risultando più a suo agio nella dimensione attoriale rispetto a quella vocale, meno incisiva ma comunque funzionale al ruolo. Uno degli aspetti più discussi è l’adattamento in italiano dei testi. Pur nato con l’intento di rendere l’opera più vicina al pubblico, il risultato non sempre convince. La musicalità intrinseca dei testi originali di Stephen Sondheim si perde in traduzioni che, spesso, appaiono forzate e prive della stessa forza emotiva. In un’epoca in cui il linguaggio è arricchito da contaminazioni culturali e linguistiche globali, lasciare i testi in inglese avrebbe probabilmente conferito maggiore autenticità e impatto alla messa in scena. La regia di Massimo Romeo Piparo si limita a un movimento funzionale delle scene, permettendo al pubblico di intuire le dinamiche narrative senza approfondirle. Non emerge una visione unitaria capace di valorizzare i temi universali di amore e conflitto che costituiscono il cuore pulsante di West Side Story. Ci si sarebbe aspettati una regia più incisiva, che non solo collegasse le diverse componenti dello spettacolo, ma le elevasse in un’interpretazione drammaturgica più coesa e significativa. Anche l’aspetto musicale lascia spazio a critiche. L’orchestra dal vivo, sotto la direzione del Maestro Emanuele Friello, ha mostrato limiti significativi nel rendere la complessità e la profondità richieste dalla partitura di Leonard Bernstein. L’esecuzione è apparsa priva della pienezza sonora necessaria per valorizzare i momenti di maggiore intensità musicale, con una tessitura che raramente è riuscita a trasmettere l’emozione e la drammaticità dell’opera. Il bilanciamento tra il suono orchestrale e le voci degli interpreti è risultato spesso sbilanciato, con un volume che ha finito per prevalere sui cantanti in scena. Questo squilibrio, accompagnato da un mancato allineamento ritmico, ha generato una sensazione di disconnessione tra l’accompagnamento musicale e l’azione drammatica. In alcune sezioni, l’orchestra sembrava non dialogare con il palco, seguendo tempi non pienamente coerenti con l’interpretazione vocale e scenica. Inoltre, in più di un’occasione, il suono ha assunto una qualità quasi bandistica, mancando di quel carattere raffinato e della profondità che sono essenziali per una partitura così sfaccettata. Le coreografie di Billy Mitchell cercano di portare energia e dinamismo alla produzione, ma non sempre riescono a raggiungere l’efficacia desiderata. I movimenti risultano in alcuni momenti approssimativi e privi della precisione necessaria per valorizzare appieno la tensione drammatica dell’opera. L’esecuzione da parte del cast, numeroso e certamente impegnato, manca talvolta di compattezza e coordinazione, generando un effetto visivo di affollamento che risulta privo di armonia. Applausi generosi hanno comunque scandito la serata, quasi a voler premiare l’impegno più che il risultato. Una dimostrazione, forse, che il teatro riesce ancora a far breccia nei cuori, anche quando si presenta con più ombre che luci. E, tutto sommato, fa piacere vedere che il pubblico abbia trovato qualcosa da applaudire: dopotutto, se l’arte performativa riesce a creare un legame, anche se un po’ traballante, si può dire che abbia fatto il suo dovere. Photocredit @Gianluca Sarago’
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Settembre-Dicembre 2024
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti; libretto di Francesco Maria Piave da “La dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry JULIA MUZYCHENKO
Alfredo Germont MATHEUS POMPEU
Giorgio Germont MIN KIM
Flora Bervoix ALEKSANDRA METELEVA
Annina OLHA SMOKOLINA
Gastone ORONZO D’URSO
Il barone Douphol YURII STRAKHOV
Il dottor Grenvil HUIGANG LIU
Il Marchese d’Obigny GONZALO GODOY SEPÚLVEDA
Giuseppe ALESSANDRO LANZI
Un servo NICOLÒ AYROLDI
Un commissionario LISANDRO GUINIS
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Stefania Grazioli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Veronica Pattuelli
Luci Valerio Tiberi
Movimenti coreografici Elena Barsotti
Firenze, 1 dicembre 2024
Si potrebbe ipotizzare che il libretto di Piave e la musica di Verdi erano forieri di ‘tanti palpiti’. In realtà tale binomio non è stato sempre vincente tanto che alla prima (Venezia, Fenice 6 marzo 1853) Verdi sulla «Gazzetta musicale di Milano», ammettendo il fiasco ed interrogandosi sull’insuccesso, lasciava al tempo e al destino le sorti del suo melodramma. Il tempo ha decretato una tale notorietà da annoverare l’opera nella cosiddetta “trilogia popolare”. Riassumendo le motivazioni del successo di Traviata al Maggio si sottolinea l’adesione di ogni componente dello spettacolo ottemperando al verdiano: «Torniamo all’antico e sarà un progresso»: pur con una lettura teatrale ‘moderna’ in cui sono rielaborate le convenzioni, era possibile individuare inequivocabilmente le fonti e la tradizione. La regia di Stefania Grazioli ha proposto una versione ‘ripulita’ da intellettualismi moderni in virtù di una ricerca psicologica ed autentica del personaggio, così come l’efficace direzione di Renato Palumbo che, oltre a dimostrare grande e sicura padronanza del testo musicale, ha posto enorme attenzione verso aspetti interpretativi ormai consolidati dalla tradizione. A rendere il tutto più interessante l’ottima Orchestra, duttile ed efficace, sempre capace di restituire la multiforme partitura come nell’Andantino (Atto III: “È strano!… – Che! – Cessarono gli spasmi del dolore”) per percepire nel solo canto dei violini (due Imi soli), insieme al tremolo degli altri archi (pppp), la sensazione della rinascita di Violetta (“rinasce… m’agita insolito vigor! …) ma anche la sua eccitazione (agitatissimo) (“ma io ritorno a viver!! O gioia!”). In tale contesto è il crescendo dell’orchestra, unitamente all’ispessimento della scrittura, a sfociare nel ff dell’Allegro ad organico completo, che porta alla morte di Violetta e al calare del sipario sotto la scure degli ultimi pesanti accordi. Riguardo al Coro è bastato ascoltare “Si ridesta in ciel l’aurora” (Stretta dell’Introduzione Atto I-Allegro vivo) per rendersi conto delle qualità e potenzialità della compagine: il pp che diventa il più piano possibile, realizzato con una tale leggerezza fino ad un autentico sottovoce, tanto che l’accurata concertazione del direttore Lorenzo Fratini, pur di ripulire certe ‘incrostazioni’ del tempo, lasciava immaginare un ‘restauro di tipo conservativo’. Allargando il focus vi era la figura femminile incarnata da Violetta, eroina perseguitata che, da cortigiana, sceglie di cambiare per amore di Alfredo; percepisce che si sta innamorando ma, consapevole della propria condizione, decide di rimanere ‘sempre libera’. Nello spettacolo la visione era ancor più “moderna” e autenticamente femminile cosicché, a parte la funzionale scelta delle luci di Valerio Tiberi, sembrava non casuale l’affidamento di Scene, Costumi e Movimenti coreografici a donne: Roberta Lazzeri, Veronica Pattuelli e Elena Barsotti cui va il plauso di aver contribuito a ‘dipingere’ una narrazione che faceva percepire l’ ‘eterno femminino’ (leitmotiv) nelle parole di Violetta ad Alfredo: “di questo core non puoi comprendere tutto l’amore”. Segnalo Julia Muzychenko nel ruolo della protagonista: ha colpito per la bella presenza scenica e relativa recitazione quanto per le doti, musicali affrontando con una certa naturalezza un ruolo non facile ove necessita un soprano triadico (lirico leggero, intenso e spinto) coadiuvata da un vibrante e appassionato Alfredo (Matheus Pompeu). Traviata non è solo festa, sfarzo e gioia in cui, visto che l’amore “è un fior che nasce e muore”, si invita a vivere “il gaudio dell’amor”. L’ascolto del N. 1. Preludio (Adagio), con i soli violini in ppp, sintetizzava e offriva una lettura a ritroso dell’opera (non è casuale che il primo tema presenti somiglianze con quello del III atto con ovvie implicazioni e corrispondenze con Violetta ormai moribonda). Ciò catturava l’attenzione del pubblico ma offriva un’autentica interpretazione figurale. Attingendo alla memoria si potevano cogliere richiami, echi e quant’altro (compresa la protagonista che si riflette in uno specchio e si rivede piccola) come la celeberrima melodia, ora anticipata rispetto all’Atto II, ove, nel congedarsi dall’amato, intona “Amami, Alfredo!”. Una certa tradizione interpretativa, di cui Palumbo ha dimostrato di esserne fedele interprete, è stata percepita anche negli stacchi dei tempi, nei passaggi (da 4 a 2) così come negli effetti d’eco (primo Preludio) con la reiterazione di figure di semicrome dei violini Imi con acciaccatura e trillo. Del direttore ha colpito anche la sua efficace mano sinistra sempre molto funzionale nel far andare insieme (suddivisioni dei soli dei cantanti come in “Fra cari amici qui sei soltanto”) così come il giusto equilibrio nell’inserimento di uno strumento in rapporto alla voce del solista, ecc. A proposito dei due protagonisti ecco un altro momento interessante: la disperata urgenza d’amore di Violetta (II Atto: “Amami, Alfredo”), grazie al (con passione e forza) di Violetta e il ff culminato da tutta l’orchestra fino al diminuendo (“t’amo”) in cui ritorna una certa calma, diventava un altro momento perfetto dello spettacolo in cui partitura e drammaturgia sapevano cogliere l’essenziale. Molto convincente anche l’intervento di Giorgio Germont, padre di Alfredo (Atto II: “Di Provenza il mar, il suol”) in cui la forte sensibilità interpretativa di Min Kim sembrava voler ricordare il luogo natìo come unico nido ed isola felice nei momenti difficili. Questa Traviata è stata una bella versione, classica e spettacolare al tempo stesso e, nonostante l’epilogo della storia, sono riaffiorate le vibranti emozioni dell’amore, l’unico sentimento che “move il sole e l’altre stelle”. Foto Michele Monasta
Torino, Tempio Valdese
“GIOSEFFO CHE INTERPRETA I SOGNI”
Oratorio in due parti su libretto di Giovan Battista Neri. Prima esecuzione moderna con trascrizione dal manoscritto di Elena Camoletto.
Musica Antonio Caldara
Gioseffo MARIA MARGHERITA SALA
Faraone LUIGI DE DONATO
Sedecía ARIANNA VENDITTELLI
Coppiere ELEONORA BELLOCCI
Panatiere LORRIE GARCIA
Testo (baritono) MAURO BORGIONI
Ensemble vocale e strumentale Consort Maghini
Direttore Alessandro de Marchi
Maestro del coro Claudio Chiavazza
Torino, 29 novembre 2024
A Torino si festeggiano i 200 anni del prestigioso Museo Egizio, vanto e lustro della città. In questo ambito, l’Associazione Sistema Musica, promossa, tra gli altri, dall’Assessorato alla Cultura cittadino, ha organizzato Incanto Egizio, una serie di 13 appuntamenti musicali molto vagamente riferibili all’antico Egitto. Le sedi dei concerti sono sparse per la città e gli esecutori fanno parte, pure loro, del mondo musicale e artistico cittadino. Per il sesto appuntamento, la metà del percorso, ci si ritrova con Antonio Caldara al Tempio Valdese, luogo d’elezione, in città, per le esecuzioni di Musica Barocca a cui auditori e teatri si ostinano a tener porte ben serrate. Eppur gli spazi del tempio sono limitati, i banchi duri e scomodi, il riscaldamento centellinato, forse si ritiene ancora che il Barocco debba essere prevalentemente sacro e penitenziale. È promotrice e protagonista dell’evento l’Accademia Maghini che tanta parte ha nelle iniziative e nei programmi di due festival cittadini: Turin Baroque Music festival e Back to Bach. Alla ricerca di un’opera che soddisfacesse l’occasione, Elena Camoletto, compositrice e membro chiave nelle attività del coro Maghini, si imbatte nel manoscritto dell’oratorio di Caldara Gioseffo che interpreta i sogni, giacente presso la Biblioteca Nazione di Vienna. Antonio Caldara, come Vivaldi, trascorse a Vienna gli ultimi 25 anni di vita, stimato vicemaestro di cappella alla corte imperiale. L’oratorio vi fu composto ed eseguito nel 1726, per giacere poi come manoscritto, non mai stampato, negli scaffali della biblioteca e mai più presentato in esecuzioni pubbliche. L’Accademia Maghini decide quindi di fare dell’opera il centro di un progetto che prevede: trascrizione, pubblicazione, esecuzione e registrazione per la diffusione discografica. La serata del 29 novembre è quindi sia prima esecuzione pubblica dal 1726 e, con microfoni diffusi in ogni dove, seduta d’incisione. L’oratorio ha due parti frazionate in una quarantina di numeri musicali e narra la vicenda di Gioseffo che, imprigionato nelle carceri egizie, disvela ai suoi due compagni di cella, il Coppiere e il Panatiere, il significato dei loro sogni; il Coppiere, a sua volta, lo promuove presso il Faraone, anch’egli angosciato dall’incubo delle sette vacche magre che annientano le sette grasse. Si inizia con una tipica Sinfonia tripartita all’italiana che, oltre agli archi, conta sull’intervento di fiati e ottoni. Seguono una quarantina di numeri: recitativi secchi ed arie con basso continuo e con strumento obbligato, tre duetti e due cori a quattro voci a chiudere ciascuna delle due sezioni. Se i recitativi sono secchissimi, col solo basso continuo di sfondo, le arie, alcune delle quali con fantastici accompagnamenti obbligati, costituiscono il preziosissimo tesoro di un’opera coeva a quelle di Vivaldi, di Scarlatti e assimilabile, con qualche azzardo, agli stupefacenti cieli di Gianbattista Tiepolo, anch’egli contemporaneo cittadino veneziano. L’opera è forse carente della continuità drammatica che altri, Bach ed Handel, hanno saputo dare con interventi decisivi di un narratore; qui il Testo, pur con magnifico lirismo, dà un flebile contributo alla teatralità della narrazione. Le stesse magnifiche arie riescono a stento a descrivere e a rendere univoci i personaggi: sono comunque di splendida fattura e di isolata affettuosità. Si fanno citare per l’eccezionalità dell’intervento dell’obbligato: l’aria di pianto di Gioseffo “E quando mai potrò cessar di piangere?” che una fantastica Maria Margherita Sala, esegue, con spericolate variazioni del “da capo” col chalumeau, sorta di clarinetto ante-litteram, di Luca Lucchetta; ancora di Gioseffo “Libertà cara e gradita” che l’ultraterreno suono del salterio di Margit Űbellacker colloca immediatamente tra le soffici nubi e gli svolazzanti angioletti del Tiepolo. Festanti trombe naturali esaltano il duetto del Coppiere Eleonora Bellocci e del Faraone Luigi De Donato. Il tonitruante ed imperioso Mauro Borgioni, il Testo, esibisce la sua grande esperienza barocca, con una manciata di recitativi e soprattutto con due arie, portali d’avvio delle due parti dell’opera. Ciascuna delle due sezioni conta un personaggio che vi si esaurisce, nella prima lo sventurato Panatiere dalla sorte avversa, nella seconda Sedacía l’indovino che nulla disvela. Panatiere è la brillante Lorrie Garcia, contralto di splendida voce e di tecnica formidabile; Sedacía, Arianna Vendittelli, che in una ripresa del da capo variata al fulmicotone ti “inchioda” alla … panca. Il Coro del Maghini, che Claudio Chiavazza validissimamente regge ed istruisce, come gli è consueto, se la cava ottimamente nei due non stratosferici interventi di chiusura. La ventina di strumentisti dell’Orchestra del Consort Maghini meritano tutti gli applausi che il non strabocchevole pubblico gli ha ampiamente tributato. Gli archi hanno corde di budello, gli strumentini sono di legno e gli ottoni sono naturali senza tasti e coulisse, il continuo consta di organo e clavicembalo il diapason a cui sono tutti accordati è filologicamente fissato a 415Hrz. Alessandro De Marchi, su un altro clavicembalo, associa ad un’entusiasmante e puntuale direzione, fantasiosi ed efficaci accompagnamenti del canto. Grande serata e grande successo artistico. Un rammarico per la scarsità di pubblico, per il gran lavoro che viene esaurito in un’unica occasione e per la trascuratezza che le “grandi” istituzioni musicali hanno verso questo repertorio tipicamente italiano che ha, per almeno due secoli, determinato e fecondato tutte le correnti della musica europea.
Roma, Museo Nazionale Archeologico di Traquinia
Palazzo Vitelleschi
LA MADONNA DI TARQUINIA: IL RITORNO TEMPORANEO
Tarquinia, 05 dicembre 2024
Il ritorno temporaneo de La Madonna di Tarquinia di Filippo Lippi nella sua collocazione originaria, Palazzo Vitelleschi, oggi sede del Museo Nazionale Archeologico di Tarquinia, si configura come un evento di rara eleganza e potenza evocativa. Dal 5 dicembre al 4 marzo 2025, questa preziosa tavola quattrocentesca, capolavoro dell’artista fiorentino, sarà esposta nell’abside della cappella del secondo piano del palazzo, dove il cardinale mecenate Giovanni Vitelleschi l’aveva idealmente immaginata e commissionata. La mostra, intitolata 1437. La Madonna di Filippo Lippi, Tarquinia e il cardinale Vitelleschi, chiude le celebrazioni per il centenario del museo e offre una rara occasione di contemplare il capolavoro nel contesto per cui fu pensato. Promossa dal Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia (PACT), in collaborazione con il Comune di Tarquinia e la Diocesi di Civitavecchia-Tarquinia, l’esposizione si pone come un viaggio nel tempo, riproponendo con rigore scientifico e raffinatezza narrativa il legame profondo fra arte, religione e potere nella Tarquinia del Quattrocento. L’allestimento coinvolge, oltre a Palazzo Vitelleschi, altri luoghi simbolo del centro storico: il Duomo, la chiesa di Santa Maria in Castello, il palazzetto di Santo Spirito, sede dell’archivio comunale, e la Sala degli Affreschi del Palazzo Comunale, in un percorso che invita il visitatore a riscoprire la complessità storica e culturale della città. Il progetto scientifico, diretto dal professor Vincenzo Bellelli, intreccia la storia del museo con quella del palazzo, gioiello del Rinascimento italiano. Bellelli sottolinea come Palazzo Vitelleschi, dalla sua fondazione alla sua trasformazione in museo statale nel 1924, rappresenti un esempio virtuoso di gestione del patrimonio culturale e di servizio alla comunità. La presenza della Madonna di Lippi, custodita abitualmente a Palazzo Barberini, restituisce al palazzo un pezzo del suo cuore originario, offrendo al pubblico un’esperienza estetica e spirituale di straordinaria intensità. Il dipinto, una delle più raffinate composizioni sacre del Quattrocento, rappresenta la Vergine col Bambino immersa in un’atmosfera di solenne intimità. Lo stile di Filippo Lippi, con la sua capacità di unire un rigoroso equilibrio compositivo a un’emozione pittorica vibrante, emerge con forza in quest’opera, che riflette non solo l’influenza della scuola fiorentina ma anche l’attenzione dell’artista per il contesto spirituale e culturale del committente. Il cardinale Vitelleschi, figura emblematica del mecenatismo rinascimentale, volle quest’opera per celebrare la propria città e la propria fede, e il ritorno temporaneo della tavola nella sua destinazione originaria suggella idealmente questa intenzione. Le parole del sindaco Francesco Sposetti e del vescovo Gianrico Ruzza evidenziano il valore simbolico e culturale della mostra. Per il sindaco, l’evento non solo rafforza l’identità di Tarquinia, ma consente di esplorare un capitolo della sua storia spesso oscurato dal primato della civiltà etrusca. Il vescovo, dal canto suo, celebra l’arte come veicolo di pace e spiritualità, sottolineando la coincidenza della mostra con l’inizio del Giubileo, un’occasione unica per vivere l’esperienza della bellezza come riflesso della Luce divina. Questo ritorno, seppur temporaneo, si configura non solo come un gesto di restituzione culturale, ma come un invito a riflettere sul significato profondo dell’arte come ponte fra epoche, comunità e spiritualità. La Madonna di Tarquinia non è solo un capolavoro pittorico, ma il simbolo vivo di un dialogo incessante fra passato e presente, fra arte e fede, fra un luogo e la sua memoria più intima.
Roma, Teatro Brancaccio
AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA
una commedia musicale di Garinei e Giovannini
scritta con Jaja Fiastri
liberamente ispirata a “After Me The Deluge” di David Forrest
musiche di Armando Trovajoli
regia originale di Pietro Garinei e Sandro Giovannini
ripresa teatrale di Marco Simeoli
Un classico immortale del teatro musicale italiano.
Presentato da Alessandro Longobardi – Una produzione di Viola Produzioni Srl.
DON SILVESTRO Giovanni Scifoni
CONSOLAZIONE Special Guest Lorella Cuccarini
SINDACO CRISPINO Marco Simeoli
CLEMENTINA Sofia Panizzi
TOTO Francesco Zaccaro
ORTENSIA Francesca Nunzi
LA VOCE DI LASSÙ Enzo Garinei
Roma, 5 novembre 2024
Aggiungi un posto a tavola, capolavoro senza tempo di Garinei e Giovannini, torna al Teatro Brancaccio di Roma per celebrare cinquant’anni dal suo debutto. La commedia musicale, scritta con Jaja Fiastri e musicata dall’inarrivabile Armando Trovajoli, non è solo uno spettacolo, ma un’esperienza collettiva che attraversa le generazioni, capace di trasformare un intreccio apparentemente semplice in un racconto universale sull’umanità, la fede e la comunità. Il cuore narrativo dell’opera ruota attorno a Don Silvestro, parroco di un villaggio montano che riceve un incarico divino: costruire un’arca per salvare la comunità da un secondo diluvio universale. Tuttavia, l’arca non è solo un elemento funzionale alla trama, ma un simbolo che evolve insieme alla narrazione, rappresentando la possibilità di un’unità che supera le divisioni. La parabola, apparentemente ingenua, si fa metafora di una condizione esistenziale condivisa: l’essere umano, fragile e contraddittorio, che cerca salvezza in un progetto collettivo. Giovanni Scifoni interpreta Don Silvestro con rara profondità, conferendo al personaggio un’umanità palpabile. La sua presenza scenica e la vocalità calda lo trasformano in una figura vicina allo spettatore, un uomo di fede ma anche di dubbi, la cui resilienza si nutre di empatia. Accanto a lui, Francesco Zaccaro, nel ruolo di Toto, si distingue per una recitazione fresca e spontanea che dona al personaggio una vivacità popolare e autentica. La sua capacità di muoversi tra comicità e intensità arricchisce il tessuto narrativo con un’energia che cattura. Lorella Cuccarini, nel ruolo di Consolazione, illumina il palcoscenico con una grazia che unisce ironia e profondità. Il suo personaggio, donna di facili costumi ma dal cuore grande, rompe con leggerezza ogni stereotipo, dimostrando che la redenzione passa dall’amore e non dai rigidi dettami sociali. Sofia Panizzi, nei panni di Clementina, porta in scena l’archetipo dell’amore puro con una dolcezza mai ingenua, mentre Marco Simeoli, nel doppio ruolo di regista e interprete del sindaco Crispino, riesce a bilanciare comicità e umanità con grande sapienza teatrale. La dimensione visiva dello spettacolo è altrettanto straordinaria. Le scenografie non si limitano a rappresentare il villaggio, ma lo animano, lo trasformano in un microcosmo che pulsa al ritmo della storia. L’arca stessa, al centro della scena, è più di un elemento scenico: diventa un organismo simbolico che cresce, evolve, si trasforma. I movimenti scenici, calibrati con precisione, si intrecciano ai dettagli scenografici in una coreografia invisibile che amplifica la coralità del racconto. Le luci, con toni che oscillano tra il calore intimo e l’intensità drammatica, sottolineano i passaggi emotivi con una maestria che sfiora il pittorico. Momenti come la costruzione dell’arca o la colomba che si posa sulla sedia vuota si trasformano in veri e propri quadri viventi. La musica di Armando Trovajoli rimane il cuore pulsante dello spettacolo. Brani iconici come Aggiungi un posto a tavola e Peccato che sia peccato non solo accompagnano la narrazione, ma la amplificano, dialogando con i personaggi e il pubblico. Ogni nota è carica di significato, ogni orchestrazione unisce tradizione popolare e complessità drammaturgica, creando un universo sonoro che abbraccia lo spettatore. In scena, ogni elemento è al servizio di una narrazione che non si limita a divertire ma cerca di parlare all’animo umano, intrecciando leggerezza e profondità con la maestria di un grande classico. E mentre il pubblico ride, si commuove e applaude, emerge con forza il messaggio centrale: non c’è sfida che non si possa affrontare, né diluvio che non si possa superare, se si è disposti ad aggiungere un posto a tavola.
Roma, Palazzo Barberini
CARLO MARATTI E IL RITRATTO. PAPI E PRINCIPI DEL BAROCCO ROMANO
curata da Simonetta Prosperi Valenti Rodinò e Yuri Primarosa
La mostra Carlo Maratti e il ritratto. Papi e Principi del Barocco romano, allestita a Palazzo Barberini, rappresenta un’indagine raffinata sulla ritrattistica di Carlo Maratti, un maestro capace di fondere la monumentalità del Barocco con un’intimità che trascende i confini del genere. L’esposizione, curata da Simonetta Prosperi Valenti Rodinò e Yuri Primarosa, offre un’occasione unica per esplorare non solo le opere, ma anche le intricate relazioni umane e professionali che hanno definito la carriera dell’artista. Maratti, celebrato in vita come uno dei maggiori pittori d’Europa, emerge in questa mostra in una veste più personale, dove il ritratto diventa non solo un mezzo di rappresentazione, ma un teatro dell’anima. Nato a Camerano, nelle Marche, nel 1625, Maratti giunge a Roma all’età di undici anni, inserendosi in un ambiente artistico ricco di tensioni tra il naturalismo caravaggesco e il Classicismo idealizzato. La sua formazione e il suo sviluppo artistico lo portano a incarnare l’essenza del Classicismo, ma con una versatilità che lo distingue dai suoi contemporanei. Se le sue opere a soggetto sacro o mitologico riflettono la ricerca della bellezza ideale, i suoi ritratti rivelano un’attenzione più sottile ai legami personali, ai dettagli psicologici e alle dinamiche sociali dei suoi soggetti. Tra i ritratti in mostra spicca quello di Giovan Pietro Bellori, storico dell’arte e intellettuale che fu tra i maggiori sostenitori di Maratti. Dipinto nel 1672-73, questo ritratto non è solo un omaggio a un amico, ma una dichiarazione di intenti: Bellori, con la mano, indica il volume delle sue Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, un’opera ispirata a Vasari, ma volta a celebrare il primato del Classicismo. Per Bellori, Maratti rappresentava l’incarnazione pittorica dell’idea platonica di bellezza: un ideale universale, purificato dalle imperfezioni della natura e sublimato in una forma astratta di grazia. Questo ritratto non si limita a raffigurare Bellori, ma lo inserisce in un discorso più ampio sull’arte come veicolo di verità superiore. Un’altra opera emblematica è il Ritratto di Clemente IX Rospigliosi, un lavoro che testimonia la stretta relazione tra Maratti e il pontefice. Secondo Bellori, Maratti ottenne il privilegio di dipingere il papa seduto, una concessione straordinaria che sottolinea il rapporto di fiducia e complicità tra i due. La narrazione che circonda la creazione di questo ritratto, con le sue lunghe sedute presso il convento di Santa Sabina, aggiunge un ulteriore strato di intimità e autenticità a un’opera che altrimenti avrebbe potuto limitarsi a un’esibizione di status. La dimensione familiare e personale di Maratti emerge in modo particolarmente toccante nel Ritratto della figlia Faustina come Allegoria della Pittura (1698). Faustina, con un’espressione sognante, incarna non solo l’amore paterno, ma anche un ideale artistico che trascende il genere. Questo dipinto, legato agli ideali letterari dell’Accademia dell’Arcadia, riflette la fusione tra vita privata e produzione artistica, un tema che attraversa molte delle opere di Maratti. La madre di Faustina, Francesca Gommi, appare in un altro ritratto allegorico, dove la figura femminile è legata al simbolismo dell’amore e della creazione, rafforzando l’idea di un’arte che attinge continuamente alle dinamiche affettive dell’artista. Accanto ai ritratti di amici e familiari, la mostra include una serie di opere che testimoniano l’abilità di Maratti nel rappresentare figure della società aristocratica e ecclesiastica. Tra queste spiccano i ritratti della famiglia Barberini, come quello di Maffeo Barberini e del cardinale Carlo Barberini, che riflettono la capacità del pittore di unire precisione tecnica e profondità psicologica. Questi ritratti, con la loro attenzione ai dettagli dei costumi e degli attributi, non sono solo documenti visivi, ma anche dichiarazioni di identità sociale e culturale. Di particolare interesse sono anche i ritratti di figure meno note, come quello del teologo irlandese Luke Wedding e del giurista Ercole Ronconi. In questi dipinti, Maratti dimostra la sua maestria nel rappresentare non solo i volti, ma anche il contesto intellettuale e spirituale dei suoi soggetti. Il virtuosismo tecnico del pittore emerge nei dettagli dei tessuti, nelle texture delle superfici e nella vividezza dei gesti, che conferiscono a ogni ritratto una presenza quasi palpabile. Il rapporto di Maratti con la nobiltà italiana ed europea è ulteriormente evidenziato dal ritratto di Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana, dipinto nel 1700. Questo ritratto, creato quando Maratti era ormai anziano, testimonia non solo la sua abilità artistica, ma anche il suo ruolo di mediatore culturale e figura di spicco nel panorama artistico romano. Come Soprintendente delle fabbriche vaticane, Maratti non era solo un pittore, ma un attore chiave nella gestione e nella promozione dell’arte nella Roma barocca. La mostra di Palazzo Barberini si distingue non solo per la qualità delle opere esposte, ma anche per la sua capacità di contestualizzare il lavoro di Maratti all’interno di una rete di relazioni personali, intellettuali e professionali. Ogni ritratto diventa una finestra su un mondo in cui l’arte non è mai isolata, ma intimamente connessa alla vita e alle aspirazioni dei suoi protagonisti. Maratti, con il suo pennello, non si limita a rappresentare; crea ponti tra passato e presente, tra l’individuale e l’universale. Questa esposizione rivela un artista che, pur radicato nella tradizione del Classicismo, ha saputo innovare e adattarsi alle esigenze del suo tempo. Carlo Maratti emerge non solo come un pittore di straordinario talento, ma come un interprete sensibile delle dinamiche umane, capace di trasformare ogni ritratto in un dialogo tra il visibile e l’invisibile.
Roma, Sala Umberto
L’ERBA DEL VICINO È SEMPRE PIÙ VERDE!
scritto e diretto da Carlo Buccirosso
con Carlo Buccirosso, Fabrizio Miano, Donatella De Felice, Peppe Miale, Elvira Zingone, Maria Bolignano, Fiorella Zullo
scene Gilda Cerullo e Renato Lori
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Luigi Della Monica
musiche Cosimo Lombardi
aiuto regia Fabrizio Miano
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro • A.G. Spettacoli
Roma, 04 Novembre 2024
Alla Sala Umberto di Roma, L’erba del vicino è sempre più verde, scritto, diretto e interpretato da Carlo Buccirosso, si afferma come uno spettacolo in grado di fondere con maestria ironia, tensione e riflessione, rispettando la tradizione della commedia teatrale italiana, ma arricchendola di elementi noir e grotteschi. Una narrazione ricca di colpi di scena che intrappola lo spettatore in un vortice di equivoci e risate amare, spingendolo a interrogarsi sul senso del cambiamento, sul desiderio di una vita migliore e sul peso delle illusioni. La vicenda ruota intorno a Mario Martusciello, funzionario bancario cinquantenne, timido e insicuro, che si trova in un momento di profonda crisi personale. L’insoddisfazione per una carriera mai decollata e il logorio di un matrimonio ormai al capolinea lo portano a compiere un gesto simbolico: abbandona la vita coniugale e si trasferisce in una mansarda carica di ricordi giovanili, un tempo luogo di incontri con la moglie Margherita. Mario spera di ritrovare se stesso e, forse, di vivere quella vita avventurosa che aveva sempre sognato, ma che gli era sfuggita. La mansarda diventa il palcoscenico di una serie di eventi esilaranti e drammatici. Qui entra in scena Lorenzo, il vicino del piano sottostante, un uomo affascinante e carismatico, apparentemente vincente, che incarna il mito di una vita scintillante e desiderabile. Lorenzo, con il suo fare mellifluo, conquista la fiducia di Mario, proponendosi come mentore per il suo riscatto personale. La sua introduzione nella vita di Mario è l’esca per un cambiamento che si rivelerà presto illusorio. A completare il quadro arriva Carlotta, giovane e determinata influencer, emblema della modernità e delle sue contraddizioni, che si presenta come una possibile via di fuga per Mario, ma che finisce per complicare ulteriormente la situazione. L’equilibrio precario costruito da Mario viene completamente ribaltato dall’irruzione di Margherita, la moglie furiosa, e della sorella avvocato Teresa, due presenze ingombranti che non intendono lasciare la vita del protagonista. Seguono scene di litigi, accuse e situazioni paradossali che sfiorano l’assurdo, culminando in uno scambio di oggetti ambiguo e simbolico: una bustina di prezzemolo viene confusa con una contenente cicuta, elemento che porta la tensione narrativa a un livello più alto, sfiorando il noir. Ma è nel secondo atto che la commedia svela tutta la sua potenza. La narrazione si ribalta attraverso un sapiente utilizzo del flashback, riportando lo spettatore a un antefatto inquietante: un cadavere avvolto in un tappeto con i piedi che sporgono, mentre Mario, tremante e confuso, tenta di nasconderlo sotto il letto. Questo momento segna il passaggio dalla commedia all’indagine psicologica e svela la vera anima noir dello spettacolo. La figura di Lorenzo, simbolo dell’erba del vicino apparentemente più verde, si sgretola sotto il peso della realtà, mostrando che ciò che sembra desiderabile spesso nasconde lati oscuri e problematici. Carlo Buccirosso, mattatore indiscusso, dà vita a un Mario Martusciello ricco di sfumature, un personaggio in bilico tra il tragico e il comico. La sua interpretazione, che richiama alla memoria la tradizione partenopea di attori come Troisi e Peppino De Filippo, è un inno alla versatilità: battute fulminanti, momenti di riflessione intensa e persino incursioni nel ballo rendono il suo Mario indimenticabile. Accanto a lui, il cast si dimostra altrettanto solido e affiatato. Maria Bolignano, nel ruolo di Margherita, brilla per ironia e intensità, mentre Elvira Zingone, nei panni di Carlotta, dona al personaggio una sofisticata ambiguità. Peppe Miale, che interpreta Lorenzo, incarna perfettamente il ruolo del seduttore manipolatore, mentre Donatella De Felice e Fiorella Zullo, rispettivamente Teresa e la sorella di Margherita, si ritagliano momenti memorabili con interpretazioni precise e cariche di umorismo. Il cast è completato da Fabrizio Miano, che oltre a essere aiuto regista, si distingue anche sul palcoscenico, e da Zaira De Vincentiis, responsabile dei costumi, che arricchisce la messinscena con abiti che riflettono perfettamente i caratteri dei personaggi. La forza dello spettacolo risiede anche negli elementi tecnici. Le scene, firmate da Gilda Cerullo e Renato Lori, offrono un’ambientazione versatile che si trasforma con rapidità grazie al magistrale disegno luci di Luigi Della Monica. Le musiche di Cosimo Lombardi, sempre puntuali, sottolineano con discrezione e efficacia i momenti più drammatici o surreali, contribuendo a creare un’atmosfera in cui il confine tra realtà e immaginazione si fa labile. La regia, curata dallo stesso Buccirosso con la collaborazione di Miano, si dimostra generosa e intelligente. Ogni personaggio ha il suo momento di luce, e l’intera compagnia lavora in perfetta sintonia, offrendo uno spettacolo dal ritmo incalzante che non conosce pause. Anche la scenografia, capace di creare suggestioni cinematografiche con un semplice cambio di prospettiva, contribuisce a rendere lo spettacolo un’esperienza visiva oltre che emotiva. Prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro e A.G. Spettacoli, L’erba del vicino è sempre più verde! si presenta come un’opera che travalica i confini del genere, mescolando commedia dell’equivoco, tradizione partenopea e incursioni nel noir. Il pubblico della Sala Umberto di Roma ha risposto con entusiasmo, tributando applausi calorosi anche a scena aperta e confermando il successo di una pièce che sa divertire, sorprendere e lasciare una traccia profonda nella memoria degli spettatori. Alla fine, come suggerisce il titolo stesso, l’erba del vicino non è mai realmente più verde: ciò che si desidera può rivelarsi un’illusione, e il vero cambiamento parte da una riflessione sincera sulla propria condizione. Questo messaggio, sapientemente intrecciato alla narrazione, rende lo spettacolo non solo un intrattenimento di qualità, ma anche un’occasione per riflettere con leggerezza su temi universali come l’insoddisfazione, il desiderio e l’inganno delle apparenze. @ph GildaValenza
Roma, Teatro Parioli Costanzo
DIVAGAZIONI E DELIZIE
di John Gay
traduzione e regia Daniele Pecci
con Daniele Pecci
regista assistente Raffaele Latagliata
costumi Alessandro Lai
musiche originali Patrizio Maria D’Artista
foto di scena Tommaso Le Pera
“Divagazioni e Delizie” è il testo teatrale di John Gay, autore statunitense recentemente scomparso. E’ formato totalmente da scritti di Oscar Wilde, siano essi romanzi, brevi racconti, commedie, saggi, lettere o semplicemente aforismi.
La bravura dell’autore èstata quella di inventare il presupposto per cui Wilde, nell’ultimo anno della sua vita (1899), uscito dal carcere ed esule in Francia, stanco, grasso, malato e completamente in bancarotta, per cercare di tirare avanti, affitti piccole sale teatrali per dar spettacolo di sé, presentandosi al pubblico parigino come il ‘mostro’, ‘lo scandalo vivente’. Una sorta di conferenza autobiografica, a tratti interrotta da piccoli colpi di scena, happenings, e contrasti con i due inservienti/macchinisti del teatro. Seppur velata da una costante malinconia e da un sarcasmo feroce, la prima parte del testo scivola via fra vecchi ricordi, aneddoti, e racconti spesso molto divertenti. La seconda parte invece, attinge a piene mani dal quel doloroso e terribile atto d’accusa che è il De Profundis. Il fatale amore per Lord Alfred Douglas, il processo il carcere, gli ultimi anni esule tra la Francia e Napoli, la malattia e il presagio della morte ormai imminente. Scritto negli anni ’70 e interpretato con enorme successo a Broadway e poi in tutto il mondo da Vincent Price, in Italia è famoso per una fortunata edizione di Romolo Valli del 1978 per la regia di Giorgio De Lullo. Daniele Pecci ne fa, oggi, uno spettacolo straordinario, poetico, ironico, pieno di bellezza e malinconia, una prova d’attore indimenticabile. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
FAUST
tratto da Faust I e II di Johann Wolfgang von Goethe
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara,
Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
costumi Rossana Gea Cavallo
light design Marco D’Amelio
Music and Sound Franco Visioli
fonico Filippo Lilli
direzione tecnica e datore luci David Ghollasi
macchinista Giuseppe Russo
assistente scenografo Caterina Rossi
aiuto regia Virginia Sisti
collaborazione organizzativa Elisa Pavolini
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione Teatro della Toscana Teatro Nazionale
si ringrazia per la collaborazione l’associazione Cadmo
Atteso debutto al Teatro Vascello in prima Nazionale per Leonardo Manzan, giovane regista che si è già distinto per l’originalità dei suoi lavori e che – a partire dai riconoscimenti ricevuti alla Biennale di Venezia con Cirano deve morire e Glory Wall – ha negli ultimi anni riscosso importanti apprezzamenti in Italia e all’estero. “C’era una volta un uomo che fece un patto col diavolo”. La storia è semplice. Eppure, si dice che il Faust di Goethe sia un testo irrappresentabile. Un’opera monumentale che rispecchia la modernità a partire dalla figura del protagonista, eroe perennemente insoddisfatto incapace di essere felice, che vuole possedere l’assoluto e l’eternità. L’ormai affiatata coppia Leonardo Manzan & Rocco Placidi firma l’originale adattamento che, con un linguaggio contemporanea, riesce ad avvicinare anche i più giovani grazie alla musica che mette in risalto tutta la potenza e la modernità del testo. Una vera e propria opera musicale. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Sala Umberto
LITTLE BOY: storia incredibile e vera della bomba atomica
con Roberto Mercadini
musiche dal vivo di Dario Giovannini
prodotto da Sillaba
distribuzione Terry Chegia
scritto e diretto da Roberto Mercadini
“Little boy”, alla lettera “ragazzino”: questo è il nome in codice della bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Con un sarcasmo atroce, si è dato un nomignolo affettuoso all’ordigno che provocherà la più grande strage di tutti i tempi: 160 000 vittime. Questa storia è tutta così, dall’inizio alla fine: cioè dai primi risultati della fisica quantistica all’esplosione. Così: ossia piena di estremi che si toccano: piena di ironia e di orrore, di calcoli perfetti e di casualità assurde, genio e idiozia, domande che hanno troppe risposte o che non ne hanno nessuna. Ed è piena anche di “little boys”, di “ragazzini”: Niels Bohr che, ancora studente, sbalordisce il suo insegnante di fisica con una risposta apparentemente sconclusionata; Werner Heisenberg che a soli 21 anni sarà già collaboratore di Bohr e che vincerà il premio Nobel a 31; Enrico Fermi che a 14 anni darà già segno di una intelligenza quasi inquietante divorando un libro apparentemente illeggibile: un testo di fisica del 1800, scritto in latino e lungo 900 pagine. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Stefano Francioni Produzioni
presenta
Cristiana Capotondi
LA VITTORIA È LA BALIA DEI VINTI
di Marco Bonini
musiche Jonis Bascir
regia Marco Bonini
Una mamma di oggi mette al letto la sua bambina di 6 anni che le chiede, come storia della buonanotte, di raccontarle qualcosa di quando lei, la sua mamma, era bambina. La mamma pesca nella memoria e le viene in mente l’avventura della bis-nonna Vittoria e di come il 25 settembre 1943, giorno del bombardamento a Firenze, aveva aiutato due gemelli. In un racconto tra l’evocazione fiabesca e la ricostruzione storica, la mamma rievoca la notte di Firenze sotto il fuoco “alleato” quando uno stormo di 36 aerei Wellington inglesi, mirando all’importante nodo ferroviario della stazione di Campo di Marte, manca inesorabilmente l’obiettivo ferroviario causando così la morte di centinaia di civili e pesanti devastazioni nelle zone adiacenti la ferrovia. Quella notte Nonna Vittoria è nascosta nel rifugio improvvisato nelle cantine di Palazzo Pitti, dove risiede in quanto moglie del sovraintendente ai beni culturali di Firenze. Quella notte Nonna Vittoria non si trova ad affrontare solo l’incubo della guerra, ma anche la vertigine di tabù sociale, allattare i due gemelli della sua balia che per lo shock aveva perso il latte. La guerra è uguale per tutti e sotto le bombe non ci sono più corti e signorie, piani alti e piani bassi, scale da scendere o da salire. Quando cadono le bombe dal cielo siamo tutti allo stesso piano, tutti nascosti in cantina. Lì sotto una madre vale una madre, un bambino un bambino, una balia un seno pieno di latte. Quando siamo tutti sotto le bombe non ci sono più vincitori né vinti. Sotto le bombe la Signora può servire la serva. Sotto le bombe la Vittoria è la balia dei vinti. Qui per tutte le informazioni.
Melodramma eroico in due parti su libretto di Domenico Gilardoni. Nicola Alaimo (Murena), Albina Shagimuratova (Argelia), Sergey Romanovsky (Settimio), Lluís Calvet i Prey (Publio), Kezia Bienek (Leontina), André Henriques (Lucio, Fulvio). Opera Rara Chorus, Stephen Harris (maestro del coro), Britten Sinfonia, Carlo Rizzi (direttore). Registrazione: Fairfield Halls, Croydon, maggio 2023. 2 CD OPERA RARA ORC64.
Gaetano Donizetti vantava nel 1828 già un buon numero di titoli ma nessun autentico successo e soprattutto sembrava ancora cercare una propria, autentica strada. La lezione di Rossini era ancora dominante così come la necessità di andare oltre al pur illustre modello. Una nuova commissione per il San Carlo era occasione prestigiosa per l’ancor giovane compositore ma il libretto de “L’esule di Roma” che Domenico Gilardoni aveva liberamente tratto dal dramma “Androclès ou le Lion reconnaissant” di Louis-Charles Caigniez (1804) ispirato all’apologo di Androclo e il leone presente in Eliano e Aulo Gellio non sembrava fornire l’opportunità ideale per far brillare il giovane compositore. Testo datato, ancora legato a un’estetica neoclassica che stava rapidamente declinando il libretto fornì invece a Donizetti inattese occasioni di sperimentazione. Come sarà più tardi con “Belisario” proprio questi testi più convenzionali sembrano spingere il compositore alla ricerca di nuovi equilibri formali in cui la tradizione si apre verso inattesi sperimentalismi. Si veda sul piano strettamente formale la chiusura del I atto dove il classico finale è sostituito da un intenso e drammatico terzetto con una soluzione che Bellini riprenderà per il finale primo di “Norma”. L’opera è però soprattutto l’occasione per il primo incontro di Donizetti con un tema che sarà centrale della sua poetica: quello della follia. Follia che qui però non è quella gorgheggiante e astratta delle future eroine sopranili ma quella declamatoria e baritonale del senatore Murena, schiacciato dai sensi di colpa per le ingiuste accuse verso Settimio – innamorato della figlia Argelia e rivale politico dello stesso Murena – nonché per essersi abbassato a esecutore delle perfide trame di Seiano contro un innocente. Una follia virile – tema che in Donizetti tornerà solo nel “Torquato Tasso” del 1833 e in forme indefinite tra realtà e simulazione nel “Furioso all’isola di San Domingo” dello stesso 1833 – in cui l’evidente modello dell’Assur rossiniano viene calato in una dimensione più umana e dolorosa, in cui l’eroismo oscuro del tiranno babilonese cede alla pietà paterna e al senso di colpa civile del senatore romano.
La presente edizione Opera Rara – registrata in occasione di alcune recite in forma di concerto – presenta per la prima volta la nuova edizione critica a cura di Roger Parker e si arricchisce del solito ricco apparato testuale che caratterizza le produzioni dell’etichetta inglese.
Carlo Rizzi è un collaboratore abituale di Opera Rara ma con quest’opera trova una particolare sintonia riuscendo a rendere alla perfezione il clima sospeso tra rigore neoclassico e accensioni romantiche che la caratterizza. Vantaggio non trascurabile il disporre di una compagine strumentale della qualità della Britten Sinfonia che esalta una scrittura orchestrale a tratti particolarmente ispirata. Si ascolti il magnifico andate “Vagiva Emilia ancora” il cui l’arpa e i fiati accompagnano il canto del baritono in una melodia non dimentica del finale del “Mosè in Egitto” rossiniano ma che riporta l’abbandono mistico di questi in un dolore vivo e prettamente umano. Molto positiva anche la prova del coro discretamente impegnato e con una scrittura di sapore quasi oratoriale.
Nel cast spicca Nicola Alaimo autore di una prestazione esemplare tanto sul piano vocale quanto su quello interpretativo. La morbidezza del canto, l’eleganza del fraseggio e la facilità degli acuti – tutti i da capo sono variati secondo la prassi esecutiva d’epoca – si uniscono infatti a una dizione di esemplare chiarezza, quanto mai importante in un ruolo tanto caratterizzato da ampi declamati e un canto di esemplare compostezza, mai plateale ma sempre raccolto e raffinato e proprio per questo ancor più incisivo del tratteggiare la dolente umanità del personaggio. La scena della follia è – anche al solo ascolto – un momento di autentico teatro grazie alle qualità di Alaimo. Il resto del cast rientra nell’ambito della correttezza. Sergey Romanovsky viene dall’Accademia Rossiniana di Pesaro e quindi ha il gusto aplomb stilistico per la parte di Settimio di cui coglie soprattutto il lato più lirico. Il canto è facile, gli acuti sicuri, la quadratura musicale estremamente corretta. Resta però un sentore d’incompiuto, come se tutto fosse fatto si bene ma in modo molto artificioso, priva di quella naturalezza che si vorrebbe. Vale per la dizione – pulita ma che sa un po’ d’inamidato. Nulla fuori posto ma non riesce a entusiasmare a lasciare il segno. Mancano – e non sarebbe dispiaciuto averle in appendice – le arie aggiunte per Donzelli nel 1840.
Albina Shagimuratova è notevole soprano di coloratura ma alle prese con una parte non ideale per la sua vocalità. Certo non manca di qualità e con acuti facilissimi, ottimo controllo del fiato e coloratura sgranate con abbagliante facilità a facile gioco a trionfare nel rondò finale. Questi pregi sono anche il suo limite perchè abbiamo una visione monodimensionale del personaggio, privo di una più autentica intensità drammatica che la parte sembra in più punti richiedere ma che facciamo fatica a trovare. Lluis Calvet i Prey fa buona impressione nei panni di Publio e molto valide tutte le parti di fianco. Resta comunque un’ottima occasione per conoscere un’opera poco documentata – in precedenza una sola edizione discografica – e ancor meno rappresentata ma non per questo priva d’interesse.
Roma, Pantheon
OCULUS SPEI
di Annalaura di Luggo
L’installazione multimediale interattiva “Oculus-Spei” di Annalaura di Luggo, ospitata nel Pantheon di Roma, rappresenta un esempio emblematico di come l’arte contemporanea possa interagire con spazi storici, simbolici e spirituali per veicolare messaggi di inclusione e riflessione universale. Quest’opera, concepita in stretta relazione con il tema della speranza, trova la sua matrice concettuale nell’incipit della bolla papale del Giubileo 2025, dove si afferma che “Spes non confundit” (“La speranza non delude”). La scelta del Pantheon come sede dell’intervento appare particolarmente significativa: luogo emblematico della classicità, esso è stato riconfigurato nei secoli come spazio sacro cristiano, costituendo un unicum nella stratificazione storica, culturale e simbolica della città di Roma. L’artista ha saputo cogliere e amplificare questa stratificazione, trasformando l’edificio in un laboratorio esperienziale dove arte, tecnologia e spiritualità si intrecciano per proporre una riflessione profonda sulla condizione umana. Il progetto si struttura intorno a un’interazione simbolica e fisica con il fascio di luce proveniente dall’oculus sommitale del Pantheon, elemento architettonico e simbolico di straordinaria potenza evocativa. Questo raggio luminoso diviene la guida che conduce i visitatori attraverso un percorso scandito da cinque porte, le cosiddette Porte Sante. Esse non sono semplicemente varchi materiali, ma piuttosto elementi carichi di significati simbolici, rappresentazioni di altrettante tappe di un viaggio spirituale e culturale. L’esperienza non si limita a una dimensione visiva, ma coinvolge attivamente il pubblico, chiamato a interagire con le porte, bussando concretamente a esse. Questo gesto fisico, apparentemente semplice, acquisisce una valenza metaforica profonda, rappresentando l’atto di ricerca, apertura e trasformazione interiore. Le guide in questo pellegrinaggio simbolico sono persone con disabilità, figure che, nella concezione della di Luggo, si configurano come veri e propri Virgilio moderni. La loro presenza non è puramente rappresentativa, ma parte integrante della narrazione proposta dall’artista. Essi illuminano il percorso dei visitatori, trasfigurati a loro volta dalla luce, incarnando il potenziale trasformativo della speranza e della resilienza. Questo incontro tra arte, spiritualità e inclusione sociale si traduce in uno “sguardo” inedito sulla realtà e sulla bellezza interiore, capace di superare i limiti imposti dalle convenzioni estetiche e culturali. Le quattro vele del logo del Giubileo 2025, simbolicamente associate ai quattro angoli del mondo, costituiscono il riferimento iconografico principale delle prime quattro porte. Ognuna di esse rappresenta una dimensione universale, un varco verso un altrove che invita alla scoperta, all’apertura e alla connessione. Il viaggio culmina nella quinta porta, situata idealmente presso il Carcere di Rebibbia, che Papa Francesco ha voluto simbolicamente elevare a Porta Santa aggiuntiva. In questa fase finale del percorso, il visitatore è messo di fronte a sé stesso attraverso un sistema tecnologico avanzato di gesture recognition, che permette di interagire in tempo reale con la propria immagine riflessa e con l’ambiente circostante. Questa esperienza, resa possibile dalla luce come medium principale, stimola una riflessione profonda sulla condizione umana, sul rapporto tra il sé e l’altro, e sul significato della speranza come motore di cambiamento. L’intera installazione può essere letta come una metafora della spiritualità universale, un invito a superare le barriere culturali, sociali e personali attraverso un linguaggio artistico che coniuga profondità simbolica e accessibilità esperienziale. L’opera, inoltre, si colloca nel contesto della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità nei musei, sottolineando la necessità di rendere l’arte e la cultura strumenti inclusivi, capaci di promuovere pari opportunità e dignità per tutti. La scelta della di Luggo di affidare alle persone con disabilità un ruolo centrale nel progetto non è meramente decorativa, ma rappresenta un atto politico e culturale, un richiamo alla responsabilità collettiva verso una società più equa e solidale. In termini estetici e concettuali, Oculus-Spei si pone come un esempio paradigmatico di come l’arte contemporanea possa dialogare con i grandi temi della tradizione senza cadere nella banalizzazione o nella retorica. L’affermazione di Gerhard Richter secondo cui “L’arte è una forma di speranza” trova in quest’opera una realizzazione tangibile. La di Luggo declina questa speranza in una molteplicità di forme: dall’invito alla riflessione personale alla proposta di una visione collettiva e universale, passando per l’interazione tecnologica che amplia le possibilità percettive ed emotive del pubblico. Le porte stesse, con la loro presenza imponente e il loro significato simbolico, diventano elementi enigmatici e affascinanti, capaci di suscitare l’immaginazione e di stimolare una riflessione sul rapporto tra il visibile e l’invisibile. Esse si configurano come totem arcaici che, attraverso il loro disvelamento progressivo, conducono a una rivelazione epifanica. In questo contesto, la luce gioca un ruolo fondamentale, non solo come elemento fisico e tecnologico, ma anche come simbolo della conoscenza, della speranza e della trasformazione interiore. L’artista utilizza la luce per “attivare” gli spazi, rendendoli vivi e capaci di interagire con il pubblico in modi profondamente significativi. L’intero progetto si inserisce nel percorso artistico di Annalaura di Luggo, caratterizzato da una costante attenzione ai temi della sostenibilità, dell’inclusione e della trasformazione sociale. Le sue opere precedenti, come “Blind Vision” e “Napoli Eden”, testimoniano un impegno costante nel coniugare arte e responsabilità etica. In “Oculus-Spei”, questo impegno si traduce in una proposta che non solo celebra il valore dell’arte come strumento di conoscenza e riflessione, ma la rende anche un mezzo per promuovere un cambiamento reale nella percezione e nella comprensione del mondo. L’opera, infine, rappresenta un esempio emblematico di come l’arte possa essere un ponte tra tradizione e innovazione, tra spiritualità e laicità, tra dimensione individuale e collettiva. Oculus-Spei non è solo un’installazione artistica, ma un’esperienza trasformativa che invita a ripensare il ruolo dell’arte nella società contemporanea e a riscoprire il valore della speranza come forza generatrice e rigeneratrice. Essa ci ricorda che l’arte, quando autentica e profondamente radicata nei valori umani universali, può davvero rappresentare una forma di resistenza all’omologazione e un faro luminoso in un mondo sempre più frammentato e complesso.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
FRANCISCUS
Il folle che parlava agli uccelli
di e con Simone Cristicchi
scritto con Simona Orlando
canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara
musiche e sonorizzazioni Tony Canto
scenografia Giacomo Andrico
luci Cesare Agoni
costumi Rossella Zucchi
aiuto regia Ariele Vincenti
regia Simone Cristicchi
Centro Teatrale Bresciano
Accademia Perduta Romagna Teatri
Roma, 03 dicembre 2024
C’è un momento nel teatro in cui la scena smette di essere un luogo fisico e diventa un altrove. In Franciscus – Il folle che parlava agli uccelli di Simone Cristicchi, questo momento si manifesta in un silenzio carico di significato, quando la narrazione si arresta, la musica si espande e la luce scolpisce spazi di sacralità. È qui che l’arte performativa compie il suo miracolo: quello di trasformare una storia antica in un’esperienza contemporanea, capace di interrogare chi siamo e dove stiamo andando. Simone Cristicchi, con una sensibilità che ricorda i menestrelli medievali, costruisce un’opera polifonica in cui teatro, musica e poesia si intrecciano con un rigore quasi liturgico. Il punto di partenza non è semplicemente la figura di San Francesco, ma il concetto di “santità” come ribellione all’ordine costituito. Francesco, nel racconto di Cristicchi, non è solo il poverello di Assisi, ma il folle che parla agli uccelli per sfidare il linguaggio umano, ormai corrotto dalla logica del potere e del possesso. La struttura drammaturgica si basa su un equilibrio instabile, ma calcolato, tra narrazione e rappresentazione simbolica. Il personaggio di Cencio, lo stracciaiolo marginale, non è una semplice invenzione narrativa: è una figura metateatrale, un demiurgo inconsapevole che guida lo spettatore in un viaggio di decostruzione della realtà. Con il suo dialetto impastato di umbro, latino e francese antico, Cencio non solo osserva Francesco, ma lo traduce per noi, rendendolo comprensibile e, al tempo stesso, misterioso. La scelta di frammentare il linguaggio si rifà a un’idea ben precisa: quella di ricreare la Babelica incomprensione che precede ogni vera rivelazione. La scenografia, curata da Giacomo Andrico, è un esempio perfetto di come l’essenzialità possa diventare il veicolo di un’estetica complessa. Le gigantesche colonne che dominano il palcoscenico non si limitano a evocare una cattedrale incompiuta, ma suggeriscono anche la tensione tra il cielo e la terra, tra la grandezza divina e la fragilità umana. È un linguaggio visivo che richiama le geometrie simboliche di Piero della Francesca: ogni elemento è disposto con precisione, ogni vuoto è carico di significato. L’albero della vita che compare nel finale non è solo un’epifania scenografica, ma una metafora del continuo rigenerarsi della fede, un memento della ciclicità che caratterizza la relazione tra uomo e natura. Dal punto di vista musicale, Franciscus si presenta come una partitura che alterna momenti lirici e corali a episodi di pura introspezione. Le canzoni, scritte dallo stesso Cristicchi in collaborazione con la cantautrice Amara, non sono semplici intermezzi: esse fungono da controcanto emotivo alla narrazione. La musica si muove su un registro minimalista, con arrangiamenti che privilegiano la trasparenza timbrica e la purezza delle linee melodiche. Gli strumenti – chitarre, archi e percussioni leggere – dialogano con la voce di Cristicchi in un continuo gioco di richiami e pause, creando un tessuto sonoro che avvolge lo spettatore senza mai sovrastarlo. Un esempio emblematico è il brano che accompagna il momento in cui Francesco abbandona le ricchezze del padre. Qui, la musica si spoglia progressivamente, passando da un arrangiamento orchestrale a un semplice pizzicato di chitarra, come a suggerire la nudità dell’anima di fronte a Dio. È un procedimento che richiama le tecniche della musica sacra barocca, ma con una sensibilità contemporanea che rende ogni nota vibrante di modernità. Dal punto di vista tecnico, è interessante notare come Cristicchi utilizzi la sua voce non solo come strumento narrativo, ma anche come elemento drammaturgico. La sua interpretazione si muove tra il parlato e il cantato, con una fluidità che ricorda il teatro di narrazione di Dario Fo, ma con un’intimità che lo avvicina al Lied romantico. Ogni parola è calibrata, ogni pausa è un invito al raccoglimento. È un’arte della misura che rivela una profonda consapevolezza dei tempi teatrali e musicali. Il disegno luci di Cesare Agoni, fondamentale per la costruzione dell’atmosfera, alterna chiaroscuri caravaggeschi a improvvise esplosioni di colore, come nel momento in cui Francesco si rivolge al sole e alla luna. La luce, in questo caso, diventa essa stessa protagonista, modellando lo spazio scenico e amplificando la dimensione simbolica dell’azione. Un aspetto particolarmente interessante dello spettacolo è il suo rapporto con il pubblico. Franciscus non si limita a raccontare una storia, ma interpella direttamente lo spettatore, lo sfida a diventare parte attiva del processo interpretativo. Non ci sono risposte preconfezionate, né facili soluzioni: tutto è lasciato aperto, come a suggerire che la vera comprensione non è un punto di arrivo, ma un cammino continuo. In questo senso, lo spettacolo si configura anche come un atto politico, nel senso più alto del termine. Parlando di Francesco, Cristicchi ci invita a riflettere su temi universali come la povertà, l’amore per il Creato, la necessità di un’etica che trascenda il materialismo. Ma lo fa senza mai scadere nella retorica, lasciando che siano le immagini, i suoni e i silenzi a parlare. È impossibile uscire da Franciscus senza sentirsi trasformati. Non si tratta solo di uno spettacolo, ma di un’esperienza totalizzante che coinvolge i sensi e lo spirito. In un’epoca in cui il teatro rischia di essere relegato a mero intrattenimento, Cristicchi ci ricorda che esso può – e deve – essere anche un luogo di interrogazione, di ricerca, di speranza. Franciscus – Il folle che parlava agli uccelli non è semplicemente un omaggio a San Francesco: è una celebrazione del potere dell’arte di aprire nuove prospettive, di farci volare al di là delle nostre gabbie quotidiane. Come Francesco parlava agli uccelli, Cristicchi parla a noi, con una voce che è al tempo stesso antica e nuova, capace di risvegliare in noi il desiderio di guardare il mondo con occhi diversi. E, forse, di viverlo con un cuore più aperto. @photocredit Edoardo Scremin
Roma, Casa Balla
CASA BALLA RIAPRE LE SUE PORTE
in occasione dell’apertura della mostra “Il Tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea da giovedì 5 dicembre riprendono le visite alla straordinaria casa futurista di Giacomo Balla, vera e propria opera d’arte totale nel cuore di Roma
Progetto a cura del MAXXI
in collaborazione con la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma
In occasione dell’apertura della mostra Il Tempo del Futurismo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la straordinaria casa futurista di Giacomo Balla riapre le sue porte al pubblico da giovedì 5 dicembre 2024 (info e biglietti casaballa.maxxi.art). Nell’ambito di questa iniziativa, il quadro Espansione Fiore n.17 (1929 circa), di recente entrato a far parte della collezione permanente del MAXXI, verrà esposto nella casa di Via Oslavia, segnando così il ritorno dell’opera nel suo spazio originario, lì dove Balla si trasferì nel 1929 con tutta la famiglia. Da quel momento ebbe inizio la trasformazione della casa stessa in un’opera d’arte “totale” in cui oggetti, strutture e arredi sono frutto del suo estro creativo e della sua capacità trasformativa applicata al quotidiano domestico. A seguito di un intervento conservativo realizzato grazie al sostegno di IGT, Espansione Fiore n.17, l’unica tra le originali disperse in tutto il mondo, viene così restituita alla serie di tele poste nella parte superiore delle pareti del corridoio della Casa. Giacomo Balla (Torino 1871- Roma 1958) visse e lavorò nella casa di via Oslavia a partire dal 1929. Un appartamento che per Balla, la moglie Elisa Marcucci e le due figlie Luce ed Elica, anch’esse pittrici, diverrà la casa di tutta la vita, il luogo eletto trasformato dalla famiglia in opera d’arte. Casa Balla è un laboratorio di sperimentazione fatto di pareti e porte dipinte, mobili e arredi decorati, utensili autocostruiti, quadri e sculture, abiti disegnati e cuciti in casa e tanti altri oggetti che, insieme, hanno creato un unico e caleidoscopico progetto totale. La Casa è un’officina, un universo costellato di forme e colori nel quale tutt’oggi si respira un’atmosfera che riflette le idee espresse nel manifesto sulla Ricostruzione futurista dell’universo, firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero nel 1915. Nell’universo balliano convivono funzionalità ed estetica creando un connubio nuovo e vitale: l’Arte investe tutto e gli oggetti ideati e costruiti per l’uso quotidiano, tavolini, sedie, scaffali, cavalletti, posacenere, piatti, piastrelle, seppur poveri nei materiali, sono ricchissimi nella vena creativa e rendono l’appartamento un luogo magico di metamorfosi. Salotto intellettuale per molte personalità dell’arte e della cultura, Casa Balla ha chiuso le sue porte negli anni novanta con la scomparsa delle figlie. È stata aperta a giugno 2021 per la prima volta dopo 30 anni, in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita del maestro (Torino 1871- Roma 1958), grazie alla collaborazione interistituzionale del MAXXI con la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma e il contributo di Banca d’Italia. La sua apertura al pubblico ha aggiunto un tassello fondamentale nella cultura e nella storia dell’arte italiana e mondiale e la casa è finalmente tornata a essere fonte di ispirazione e punto di riferimento per le giovani generazioni di artisti.
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
L’ALBA DELL’AUTOSTRADA DEL SOLE
realizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura e l’Archivio Storico Luce Cinecittà
con il contributo visivo delle fotografie di Luca Campigotto, Silvia Camporesi e Barbara Cannizzaro
Roma, 03 dicembre 2024
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea celebra una delle imprese più straordinarie del Novecento italiano con una mostra che racconta la storia e l’anima dell’Autostrada del Sole, simbolo dell’unità nazionale e trionfo dell’ingegneria moderna. Un viaggio espositivo che unisce arte, memoria storica e riflessione sociale, realizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura e l’Archivio Storico Luce Cinecittà, con il contributo visivo delle fotografie di Luca Campigotto, Silvia Camporesi e Barbara Cannizzaro. L’Autostrada del Sole non è soltanto una via di comunicazione: è una narrazione epica che ha segnato un’epoca e ha ridefinito i confini culturali e infrastrutturali del Paese. Inaugurata il 4 ottobre 1964, questa arteria che collega il Nord e il Sud Italia ha rappresentato un ambizioso progetto ingegneristico, realizzato in soli otto anni, dall’avvio dei lavori nel maggio del 1956 a San Donato Milanese fino al completamento dell’opera. Con 113 ponti e 38 gallerie, essa ha richiesto soluzioni progettuali innovative firmate da grandi nomi dell’ingegneria e dell’architettura, come Riccardo Morandi e Giorgio Macchi, diventando uno dei simboli del boom economico e della modernizzazione dell’Italia. La mostra, aperta al pubblico dal 4 dicembre 2024 al 28 febbraio 2025, guida i visitatori in un percorso che intreccia le immagini contemporanee di Campigotto, Camporesi e Cannizzaro con materiali d’epoca provenienti dall’Archivio Luce. Questo dialogo visivo mette in luce il ruolo dell’Autostrada del Sole non solo come infrastruttura, ma come un segno indelebile nella memoria collettiva, espressione di una volontà di progresso che ha unito territori e persone. La collaborazione tra pubblico e privato, tra operai, ingegneri e dirigenti, è raccontata attraverso documenti, filmati e immagini che testimoniano lo straordinario impegno di aziende come Agip, Fiat, Italcementi e Pirelli, protagoniste nel sostenere questa opera titanica. L’esposizione non si limita a narrare le imprese ingegneristiche: essa si sofferma anche sulle trasformazioni culturali e sociali che hanno accompagnato la nascita dell’Autostrada del Sole. La visione poetica dei fotografi contemporanei si unisce a documentari e film storici, come Viadotto sull’Aglio di Carlo Nebiolo, per restituire l’impatto di questa arteria sulla società italiana, così come raccontato anche da opere cinematografiche iconiche come Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica, premiato con l’Oscar. Tra le curiosità della mostra, spicca l’evoluzione architettonica ispirata dall’Autostrada, rappresentata dalla celebre Chiesa dell’Autostrada di Giovanni Michelucci, capolavoro che interpreta la mobilità come metafora di incontro, e dalla prima stazione di ristoro “a ponte”, progettata da Angelo Bianchetti. Questi elementi non solo segnano un’epoca, ma illustrano il dialogo tra funzionalità e estetica che caratterizza le grandi opere infrastrutturali. Le parole di Lucia Borgonzoni, sottosegretario di Stato alla Cultura con delega alla Fotografia, sottolineano l’importanza di questo progetto: “Celebriamo un’impresa leggendaria che ha cambiato la vita degli italiani, rappresentando un effetto volano per l’economia nonché un tassello fondamentale delle eccellenze italiane all’estero. La volontà di unire persone e territori, infatti, fu più forte di tutti gli ostacoli che si incontrarono durante la costruzione dell’opera. Il lavoro del Ministero della Cultura, dell’Archivio Storico Luce Cinecittà e dei fotografi e artisti coinvolti vuole celebrare il ricordo dell’intera narrazione storica che precede e rende quest’opera un eterno simbolo dell’unità nazionale”. Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà e curatrice della mostra, aggiunge: “L’Autostrada del Sole è l’arteria principale del Paese, un luogo che non abbiamo mai smesso di attraversare, ognuno con la propria sensibilità e il proprio sguardo. La mostra ripercorre quel viaggio dalla posa della prima pietra fino ad oggi, attraverso i volti dei passeggeri e conducenti, i paesaggi poetici e i monumenti che costeggiano la grande infrastruttura che ha unito l’Italia. Ogni immagine vuole essere immaginata, è un appello rivolto agli spettatori, e questa mostra fotografica vuole ricordare e celebrare il sessantesimo compleanno della regina delle nostre strade moderne”. Questa mostra non si limita a celebrare un’infrastruttura: racconta il passaggio cruciale dell’Italia verso la modernità, unendo memoria e innovazione in un percorso visivo che riflette sul significato profondo dell’Autostrada del Sole come simbolo di progresso e di unione nazionale. Photocredit Agnese-Sbaffi-©-Ministero-della-Cultura
Firenze, Teatro della Pergola, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2024/25
Pianoforte Sir András Schiff
Johann Sebastian Bach: Die Kunst Der Fuge, BWV 1080
Firenze, 30 novembre 2024
Avvicinarsi a Bach è sempre un’esperienza significativa. Compositore molto fecondo tanto che l’opera omnia, superando un migliaio di lavori fa convivere, in una fitta rete di rimandi, dottrina musicale, teologia, matematica, cabala, retorica, ecc. Ascoltarlo e studiarlo è come immaginare il più complesso ‘contrappunto alla mente e allo spirito’ che si possa concepire in una musica che, pur generatrice di armonia e bellezza, per nostra imperfezione non si è in grado di ‘comprendere’ attraverso la percezione uditiva come accade similmente con la musica humana di boeziana memoria. Pensando alla sua produzione sacra, egli si serve del binomio predicazione/insegnamento tanto da non stupire l’influenza di Athanasius Kircher e, più in particolare, della sua Musurgia universalis. Pur di nutrirsi del ‘verbo bachiano’, attingendo alla metafora, basterebbe l’accettazione al suo invito (Quaerendo invenietis) consapevoli di quanto egli, pur saldamente radicato al passato, costituisca ancora oggi la radice principale da cui far nascere qualsiasi tipo di pianta. Entrando in medias res il concerto che ha visto interprete al pianoforte Sir András Schiff nell’Arte della fuga (Die Kunst Der Fuge), la celeberrima raccolta di composizioni strumentali, senza una specifica destinazione, che insieme all’Offerta musicale (Musicalisches Opfer) BWV 1079 costituisce la summa mai raggiunta nell’arte del contrappunto, è stato un evento indimenticabile. L’espressione del pianista («uno dei più importanti interpreti di Bach del nostro tempo» e Medaglia Bach della città di Lipsia nel 2022): «Bach il più grande della musica», non solo ricorda la communis opinio, ma richiama alla mente il debito che tutti hanno nei confronti degli antichi. La dottrina del compositore (indiscussa auctoritas) dona il privilegio di vedere e intuire lontano solo per il fatto di essere “seduti sulle spalle dei giganti”. Lo stesso cognome, come ricordato da Schiff (riferendosi al sistema tedesco di notazione), è musica (B = Sib; A = La; C = Do; H = si naturale) e oltre ad essere scritto in alcune sue opere, si è ascoltato nel terzo soggetto dell’ultima fuga. L’efficacia della natura del soggetto è talmente forte che molti grandi del passato lo hanno preso in prestito per comporre. Pregevole l’iniziativa del musicista nel presentare e far ascoltare al pianoforte ogni elemento costitutivo ed aspetto trasformativo dell’opera, a partire dalla prima esposizione del soggetto in re minore (Re-La-Fa-Re- Do#-Re-Mi-Fa-Sol-Fa-Mi-Re). Sinceramente però non si può stabilire quanto il pubblico avrà percepito dalla lectio magistralis del visionario maestro ungherese. Di fatto tutta la narrazione, già ardua per gli sprovvisti di competenze compositivo-musicologiche, era ancora più difficile in assenza della partitura e di una consapevolezza di un linguaggio così denso di tecnicismi e rimandi al ragionare con i suoni. Tuttavia, si può affermare che l’operazione di Schiff è stata lodevole in quanto, grazie al suo carisma, è riuscito a far percepire quel ‘profumo paradisiaco’ che si può ammirare attraverso una visione scientifica della musica (Ars Musica) con lo stupore di cui ogni essere umano è dotato. A comprendere l’interpretazione del pianista, nel suo aspirare al logos, era richiesto silenzio onde entrare in contatto con il verbo bachiano. Ascoltare Schiff nello scolpire michelangiolescamente ogni elemento della fuga rimandava alla concezione goethiana dell’architettura come «musica pietrificata», per la sublime ricerca dei colori sul pianoforte, a tratti sembrava ascoltare la significativa varietà e sfumature di alcuni strumenti a tastiera (clavicordo, clavicembalo, organo, fortepiano e pianoforte). Al pubblico, oltre a restituire ogni parte essenziale dei contrapuncta, grazie ad una timbrica molto ricercata, era proposto quanto presentato nell’esposizione della fuga e, pur nell’attraversamento delle tonalità e di alcune mutazioni, si poteva comunque rintracciare ogni elemento della scrittura bachiana. Chissà, quasi avvicinandosi a certi Salomoni, se per comprendere questa musica occorre recuperare la retorica di Quintiliano o le ‘purgatissime orecchie dei principi’, conoscere il pensiero sulla musica di Leibniz, l’opera omnia di Bach oppure guardare agli obiettivi scientifico-musicali rintracciabili in quella Società musicologica tedesca (Die Correspondierende Societät der musicalischen Wissenschaften), quasi ripartenza dalle Arti liberali (in particolare del Quadrivium), eretta nel 1738 dal suo allievo Lorenz Christoph Mizler? O ancora guardare alla musica del ‘600, in particolare a Frescobaldi di cui sappiamo che Bach conosceva ed aveva copiato per studio i Fiori musicali? Di fatto la musica del Kantor è il respiro che mette in contatto con un universo che ancora attende di essere conosciuto del tutto e che, citando il frescobaldiano «Non senza fatiga si giunge al fine», allude al Quaerendo bachiano. Grazie all’eloquenza musicale di Schiff si potevano percepire esempi significativi come il Contrapunctus 6 [per Diminutionem] in Stylo Francese (il ritmo puntato restituisce la sua stessa maestosità) in cui il soggetto è presentato all’inizio dal basso, per diminuzione e per moto contrario nel soprano e ancora, per diminuzione e moto retto, nell’ alto così come la risposta per diminuzione e per moto contrario nel tenore, ecc.Al grande successo del concerto, presenti anche alcuni musicisti (qualcuno seguiva con la partitura) si deve aggiungere il fuori programma con il Tema delle Variazioni Goldberg (BWV 988). Durante l’esecuzione le mutevoli espressioni facciali del maestro di volta in volta sembravano alludere all’attesa del ‘già e non ancora’: in particolare si sono colte nel silenzio del gremitissimo teatro di fronte alla brusca interruzione della Die Kunst Der Fuge la quale ricorda l’incompiutezza dell’opera che si ferma alla battuta 239, ma anche il suo incantevole enigma.
Roma, Teatro di Documenti
GLI ESCLUSI: Insane Situation Procedure
Un esperimento psico‐teatrale
Di Roberta Calandra
Adattamento e Regia Valentina Ghetti
Con Caterina Gramaglia, Camilla Ferranti, Alessio De Persio, Dario Masciello, Luca Di Giovanni, Leonardo Zarra
Fotografie Beniamino Finocchiaro
in collaborazione con Centro Culturale Mobilità delle Arti, Roberto D’Alessandro e Obiettivo Roma
Roma, 01 dicembre 2024
Un’esperienza teatrale di rara intensità emotiva, capace di scuotere e commuovere, GLI ESCLUSI è molto più di una rappresentazione scenica: è un viaggio dentro l’animo umano e la memoria storica. Ideato da Roberta Calandra, con l’adattamento e la regia di Valentina Ghetti, lo spettacolo ci accompagna in un esperimento psico-teatrale che esplora il delicato equilibrio tra follia e normalità, tra esclusione e riconoscimento. In un misterioso stanzone di una clinica psichiatrica, sei personaggi – figli dimenticati di famiglie illustri – si incontrano e si confrontano. Einstein, Joyce, Togliatti, Agnelli, Kennedy, Mussolini. Chi non conosce questi cognomi? Eppure, se cambiamo i nomi di battesimo, emergono figure inaspettate: figli e parenti protagonisti di storie incredibili, spesso celate nell’ombra della fama altrui. Questi personaggi, il lato nascosto e fragile di famiglie potenti, rappresentano un universo sommerso che il pubblico è chiamato a scoprire. Sono storie che non conosciamo, ma che è necessario conoscere, perché danno voce a ciò che spesso viene escluso, taciuto, ignorato. Questo confronto tra le sei anime – abbandonate o dimenticate, – trasforma la follia in un terreno fertile per la solidarietà e l’amore. Lo spettatore non è solo un osservatore, ma diventa parte integrante di un viaggio che riflette sulla fragilità umana e sull’importanza di accogliere le nostre zone d’ombra. Ogni scena è curata nei minimi dettagli, creando un equilibrio tra spaesamento e intimità. Il ritmo narrativo alterna momenti di tensione a esplosioni emotive che toccano nel profondo, immergendo il pubblico in una dimensione intensa. L’intelligenza della regia si rivela anche nella gestione delle pause, dei silenzi e dei movimenti scenici, che diventano essi stessi veicoli di significato. Il cast offre interpretazioni straordinarie, ognuno con tratti distintivi che rendono i personaggi vivi e indimenticabili. Caterina Gramaglia, nel ruolo di Rosemary Kennedy, è semplicemente magnetica. La sua voce pacata, quasi infantile, amplifica il senso di fragilità del personaggio, mentre il suo corpo sembra continuamente in bilico tra l’obbedienza e il desiderio di ribellione. Anche nei cambi scena, la Gramaglia rimane sempre presente, mai banale, regalando un ritratto che si insinua nell’animo dello spettatore. Camilla Ferranti dà vita a una Lucia Joyce esplosiva e poetica. Lei c’è, la sua presenza scenica è viva, con movimenti fluidi e imprevedibili che riflettono la creatività irrequieta del personaggio. La sua voce, con tonalità che oscillano, trasmette un’anima tormentata e piena di bellezza. Leonardo Zarra, nel ruolo di Benito Albino Mussolini, colpisce per l’intensità del suo sguardo. Assente e al contempo presente, il suo corpo comunica un’inquietudine costante, un senso di attesa irrisolta. Il contrasto tra la rigidità fisica e la vulnerabilità emotiva lo rende vero. Luca Di Giovanni interpreta Aldo Togliatti con una precisa fisicità. Il suo corpo trasmette con forza il peso della storia del personaggio, e ogni gesto, per quanto piccolo, sembra carico di significato. La sua voce, misurata, aggiunge ulteriore profondità, mentre l’uso degli oggetti – la sigaretta, gli scacchi, la settimana enigmistica – è delicato, intimo. Dario Masciello entra in scena nel ruolo di Giorgio Agnelli. La sua eleganza e il suo distacco sono maschere che nascondono una fragilità palpabile. La sua voce ha un tono sommesso, quasi spezzato, che rende ancora più evidente il contrasto tra la sua forza esteriore e la fragilità interiore. Alessio De Persio, nei panni di Eduard Einstein, offre una performance toccante. Il suo tratto distintivo è quel “riso-pianto” struggente, capace di evocare una gamma incredibile di emozioni. Il suo corpo, sempre teso e quasi fuori equilibrio, e la sua voce, che alterna momenti di lucidità a esplosioni emotive, trasportano il pubblico nel cuore della sua tormentata interiorità. Forti i suoi cambi di tono. Lo stanzone della clinica diventa uno spazio simbolico, dove realtà e memoria si intrecciano in un gioco di luci e ombre che amplifica la tensione emotiva. Le musiche, dosate, accompagnano ogni scena con grande forza. Dai brani classici ai suoni alienanti, ogni scelta musicale è calibrata per amplificare le emozioni degli attori e del pubblico, rendendo visibile la psiche dei protagonisti, ma anche quella del pubblico. Durante lo spettacolo, il nome di Friedrich Nietzsche è stato evocato in un momento cruciale. Questo richiamo al filosofo ha avuto un forte impatto emotivo e intellettuale. Nietzsche, con la sua esplorazione del caos interiore come forza creativa e la sua riflessione sulla fragilità dell’esistenza, incarna perfettamente le tensioni vissute dai personaggi de Gli Esclusi. Come infatti afferma “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante.” Nel testo delle “note di sala”, l’autrice Roberta Calandra e la regista Valentina Ghetti invitano il pubblico a osservare con un approccio scientifico le reazioni suscitate dai diversi stimoli proposti. Il pubblico in realtà diventa parte integrante dell’esperimento: ciò che sembra inizialmente un ruolo passivo di osservatori si rivela invece un coinvolgimento diretto, poiché l’obiettivo finale si scopre essere quello di essere osservati. Chi sono, dunque, i veri folli? Lo spazio scenico è progettato per favorire un’interazione intensa, costringendo ogni spettatore a confrontarsi inevitabilmente con le proprie fragilità, rendendo la distanza tra osservatori e osservati sempre più labile. Alla fine dello spettacolo l’applauso è lungo e commosso. Nessuno rimane indifferente. Gli attori, ancora nei loro ruoli, salutano il pubblico con una presenza che mantiene viva l’atmosfera dello spettacolo fino alla fine. GLI ESCLUSI – Insane Situation Procedure è uno spettacolo necessario. È un monito sul potere del teatro di scavare nelle pieghe più profonde dell’animo umano, restituendo dignità a figure dimenticate e invitandoci a riconoscere le nostre stesse esclusioni interiori. È un’esperienza che scuote, trasforma, lascia il pubblico con occhi nuovi e una rinnovata consapevolezza. Photocredit Beniamino Finocchiaro
Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2024
“WERTHER”
Drame lyrique in quattro atti su libretto di Édouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann dal romanzo epistolare I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe
Musica di JULES MASSENET
Werther FRANCESCO DEMURO
Le Bailli ANDREA PORTA
Charlotte EGLE WYSS
Albert DOMENICO BALZANI
Schmidt NICOLAS RESINELLI
Johann MICHAEL ZENI
Sophie ILARIA VANACORE
Brühlmann SIMONE CASU
Käthchen AURORA CARTA
Orchestra e Coro di Voci bianche dell’ Ente Concerti Marialisa De Carolis
Direttore Daniele Agiman
Maestro del coro Salvatore Rizzu
Regia Stefano Vizioli
Costumi Anna Maria Heinrich
Scene Emanuele Sinisi
Luci Vincenzo Raponi
Allestimento Teatro Sociale di Como/Aslico in coproduzione con i Teatri di OperaLombardia
Sassari, 29 novembre 2024
La coincidenza esatta col centenario dalla scomparsa di Puccini non ha portato fortuna al “Puccini francese”: tale sarebbe infatti Jules Massenet secondo un consolidato, ed errato, luogo comune. Un incidente tecnico, che ha bloccato il sipario tagliafuoco in posizione di chiusura, ha ridotto il palcoscenico del Teatro Comunale a pochi metri di proscenio, inficiando di fatto la realizzazione dell’allestimento di Stefano Vizioli, già progettato per l’Aslico nel 2020. In attesa di chiarire cause ed eventuali responsabilità del danno, si è cercato di rimediare imbastendo una regia ovviamente molto limitata dalla contingenza, con entrate dalle porte laterali, sfruttando i corridoi di platea e recuperando qualche proiezione ed elemento di arredo. Con molta buona volontà, capacità di arrangiarsi e spirito di adattamento lo spettacolo è comunque andato in porto tra gli applausi del pubblico che ha mostrato simpatia e comprensione nonostante l’evidente penalizzazione. Oltretutto le problematiche hanno ovviamente avuto la loro influenza sugli equilibri fonici e l’acustica, impedendo quindi il pieno apprezzamento di una produzione che aveva vari motivi d’interesse, a partire dalla partecipazione nel ruolo del titolo di Francesco Demuro, artista locale ora di casa in palcoscenici internazionali di assoluto prestigio. Va quindi notata la capacità di resilienza, usando un termine alla moda, di artisti e maestranze tecniche per aver messo in scena uno spettacolo complesso in una situazione difficile, tra l’altro con temperature tropicali, probabilmente dovute a un riscaldamento non regolato sull’imprevisto taglio della cubatura. Quindi è difficile, per scontate ragioni, esprimere un giudizio completo sulla produzione e soprattutto, viste le difficoltà, che non metta in rilievo solo ciò che di positivo è emerso da tale emergenza. A partire dai protagonisti: Demuro ha svettato per bellezza timbrica, fraseggio ed espressione, specialmente in mezze voci di rara intensità; l’unica aria ben conosciuta dal grande pubblico Pourquoi me reveiller è stata un gioiello di gusto e dinamiche dosate alla perfezione, ma è da sottolineare anche il bellissimo finale su ostinato, capace di coniugare controllo ed emozione in maniera superba. Ma la vera sorpresa è stata l’eccellente prestazione di Egle Wyss, veramente apprezzabile nella parte di Charlotte per vocalità, espressione, varietà dinamica, uguaglianza dell’emissione e sicurezza tecnica: il suo terzo atto è stato emozionante e, in generale, il punto più alto dello spettacolo. Gli altri interpreti, nell’opera su un secondo piano rispetto allo spazio di quelli principali, hanno nel complesso dato tutti una buona dimostrazione di professionalità e delle loro doti: sarebbe da segnalare in proposito la fresca vivacità di Ilaria Vanacore, nel ruolo di Sophie, la buona resa scenica di Domenico Balzani e Andrea Porta e la fluida intesa di Nicolas Resinelli e Michael Zeni, di cui va segnalata inoltre l’importante vocalità. Come detto l’inedita situazione ha probabilmente favorito, vista anche l’orchestrazione talvolta pesante, alcuni eccessi strumentali che hanno occasionalmente sovrastato i cantanti, penalizzando soprattutto il protagonista; a parte ciò Daniele Agiman ha diretto con una certa finezza l’insieme, grazie a una buona orchestra del De Carolis, di cui va notata la pulizia ed espressione nei numerosi soli degli archi. Una menzione doverosa va inoltre alle voci bianche del coro De Carolis, ben preparate da Salvatore Rizzu, precise e duttili nonostante la scena modificata. Dell’allestimento abbiamo quindi potuto ammirare solo la pulizia di certi movimenti, i bei costumi di Anna Maria Heinrich e l’idea interessante del finale tra una Charlotte anziana e limitata da una carrozzina che, nell’ambiguità tra memoria, sogno e realtà, neanche davanti alla morte prossima del suo amore irrisolto riesce a stargli fisicamente vicina, pur contraddicendo il testo: difficile poter esprimere un giudizio senza vedere la regia realizzata integralmente, ma sarebbe probabilmente molto interessante se tale principio di distanza fisica/costrizione morale fosse allora coerentemente espresso in tutte le scene tra i protagonisti. Che dire infine di quest’opera, mai entrata veramente nel cuore dei melomani nostrani? È un bel lavoro: si sentono in Massenet tutti i pregi della scuola francese, a partire dalla solida costruzione armonica fino all’originale orchestrazione, con soluzioni come l’utilizzo del sassofono o dei suoni bouchés allora quasi sconosciuti alla nostra tradizione; ma d’altra parte sentire, a fine ottocento, certi recitativi fuori tempo massimo e varie lentezze nel ritmo teatrale, testimonia qualche ritardo storico. Probabilmente, proprio nell’anniversario dalla scomparsa dell’ultimo grande genio del melodramma italiano, con una data in cartellone e tutto il mondo che lo ricordava, sarebbe stato opportuno un altro titolo o comunque un grande evento che il “Puccini vero” avrebbe meritato.
Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna e contemporanea
IL TEMPO DEL FUTURISMO
A cura di Gabriele Simongini
Roma, 02 dicembre 2024
La mostra “Il Tempo del Futurismo”, ospitata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, rappresenta un ritorno coraggioso e necessario su un movimento che non ha mai smesso di dividere, provocare e ispirare. Non è una semplice retrospettiva, ma un tentativo di riconfigurare il Futurismo come una forza viva, capace di interrogare il nostro presente con la stessa veemenza con cui, oltre un secolo fa, rifiutava il passato. Questo approccio, che unisce analisi storica e sociologia culturale, colloca l’esposizione in una posizione di dialogo tra l’estetica, la tecnologia e l’evoluzione antropologica, evitando la trappola della celebrazione sterile. La rassegna si distingue da altre celebri mostre dedicate al movimento, come Futurismo & Futurismi curata da Pontus Hultén a Palazzo Grassi nel 1986, o le retrospettive firmate da Enrico Crispolti a Torino e Roma. Le difficoltà logistiche e finanziarie di oggi – come il costo proibitivo dei prestiti internazionali – rendono impossibile riproporre quelle operazioni imponenti, ma la GNAM ha trasformato queste limitazioni in un punto di forza. Attribuendo grande rilievo alle sue straordinarie collezioni e alle connessioni interdisciplinari, la mostra si configura come un atto di resistenza intellettuale contro l’immobilismo. Il cuore pulsante di questa esposizione risiede nella capacità di rimettere il pensiero al centro. Il Futurismo, prima ancora che arte, è stato una filosofia: un’idea radicale che ha scardinato le certezze della modernità per proiettare il mondo verso un futuro mai visto. Ogni pennellata, ogni scultura, ogni manifestazione artistica non è altro che la concretizzazione di una visione che abbraccia il dinamismo, la velocità, il progresso. La mostra sottolinea come l’arte futurista sia il veicolo di una rivoluzione mentale e culturale, in cui la tecnologia e l’innovazione scientifica diventano protagonisti tanto quanto gli artisti stessi. In questo contesto, l’esposizione non si limita a un percorso cronologico. Attraverso le sue 26 sale e le circa 400 opere esposte, tra dipinti, sculture e oggetti, invita il visitatore a immergersi in un’esperienza totale. Eppure, la densità del materiale esposto non è priva di rischi: l’abbondanza di capolavori, talvolta affastellati, e il percorso obbligato possono generare una certa dispersione visiva. Tuttavia, questa sovrabbondanza, quasi caotica, sembra in linea con lo spirito del Futurismo stesso, un movimento che non ha mai cercato di essere rassicurante o ordinato. Tra i momenti più significativi della mostra emerge il dialogo tra Il Sole di Giuseppe Pellizza da Volpedo e Lampada ad arco di Giacomo Balla. Questo accostamento, tra il simbolo di un’Italia rurale e quello di un paese proiettato verso l’industrializzazione, incarna il cambiamento epocale che i futuristi hanno esaltato con entusiasmo quasi fanatico. L’elettrificazione, definita da Boccioni come “Modernolatria”, non è solo un tema visivo, ma una rivoluzione sensoriale e concettuale che permea gran parte della produzione futurista. Accanto ai dipinti, la mostra integra una selezione di oggetti e strumenti tecnologici che testimoniano l’evoluzione del pensiero e della percezione umana. La Fiat Record Chiribiri del 1913, la Maserati di Tazio Nuvolari e l’idrovolante Macchi Castoldi Mc 72 rappresentano la celebrazione futurista della velocità, della potenza e del dinamismo. Questi oggetti, che un tempo erano simboli del progresso tecnologico, dialogano con opere come le Velocità d’automobile di Balla, rivelando la straordinaria capacità dei futuristi di trasformare l’innovazione tecnica in mito estetico. La mostra approfondisce anche l’impatto delle nuove scoperte scientifiche sull’immaginario futurista. Dall’elettricità alle onde radio, dal cinema alla teoria della relatività di Einstein, il Futurismo non ha solo osservato i cambiamenti del mondo, ma li ha assorbiti, anticipandone le implicazioni culturali. In questo senso, gli aeroplani e le motociclette non sono semplici strumenti, ma estensioni dell’idea di un mondo senza confini, in cui la velocità diventa una nuova dimensione esistenziale. L’aeropittura, a lungo sottovalutata, trova qui una rivalutazione che la collega alle odierne visioni satellitari e ai droni, mostrando come la prospettiva verticale immaginata dai futuristi sia diventata parte integrante della nostra quotidianità. L’esposizione dedica particolare attenzione ai fondatori del movimento – Balla, Boccioni, Carrà, Russolo e Severini – ma non trascura figure come Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, la cui importanza cresce sempre più grazie a recenti studi. Le sezioni tematiche, che spaziano dal dinamismo plastico all’aeropittura, dall’arte meccanica al cinema futurista, sono arricchite da manifesti, libri e film che offrono un’immersione totale nel pensiero e nella pratica del Futurismo. Eppure, questa non è solo un’operazione estetica. Al di là delle polemiche, delle inevitabili critiche e degli scandali che da sempre accompagnano il Futurismo, “Il Tempo del Futurismo” si impone come un atto di coraggio. Riportare il Futurismo sotto i riflettori significa confrontarsi con le sue contraddizioni, le sue tensioni irrisolte e il suo potenziale provocatorio. Non è un omaggio elegante e pacificato, ma un campo di battaglia intellettuale che invita a riflettere sul ruolo dell’arte nella società contemporanea. Come scriveva Marinetti: “Bisogna distruggere la sintassi! Bisogna mettere il sostantivo in libertà!” Questa mostra sembra seguire lo stesso principio, abbandonando la rigidità dei canoni museali per offrire un’esperienza che sfida le convenzioni e mette in discussione la nostra percezione del Futurismo. “Il Tempo del Futurismo” non è solo una mostra, ma un manifesto. È un richiamo a guardare oltre, a considerare l’arte come un veicolo per immaginare il futuro, un futuro che non è mai lineare, ma sempre in movimento. In un’epoca di incertezze, questa esposizione ci ricorda che il cambiamento, anche quando è tumultuoso, è il motore della creatività e del progresso. Un messaggio che, oggi più che mai, vale la pena ascoltare.