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Roma, Teatro Vascello: “Kabbarett Weimar” 22-23-24 aprile 2024

gbopera - Sab, 20/04/2024 - 21:55

Roma, Teatro Vascello
KABBARETT WEIMAR
di Antonella Ottai
con Chiara Bonome e Bruno Maccalini
Musice dal vivo Pino Cangialosi
Al Vascello la trilogia teatrale ispirata alla storica Repubblica che fu punto di riferimento per il pensiero artistico e politico prima dell’avvento del nazismo. Oltre cento anni fa nasceva la Repubblica di Weimar, punto di riferimento per la storia contemporanea: arti, pensiero, politica. Difficile raccontarla, però, sottraendosi al clamore della fine, imposta dal nazismo quattordici anni dopo la sua concitata esistenza. Dal 22 al 24 aprile, va in scena la trilogia di spettacoli Kabarett Weimar che ne evoca il mood tutto speciale, addentrandosi nelle arie dei caffè, nel vivo dei kabarett, per ascoltarne gli umori: da canzoni, provocazioni dada, witz, testi celebri e reportage d’autore erompono le emergenze della modernità. A partire dalle rivendicazioni della Donna. Il progetto è firmato da Bruno Maccallini e Antonella Ottai e e vede la regia di quest’ultimo per i tre spettacoli; le musiche originali sono di Pino Cangialosi.

Categorie: Musica corale

Roma, Villa Medici: “Concerto dell’Accademia Opera for Peace”

gbopera - Sab, 20/04/2024 - 16:59

Roma, Villa Medici
CONCERTO ACCADEMIA OPERA FOR PEACE
Roma, 19 Aprile 2024
L’Accademia Opera for Peace ha saputo coniugare arte e dialogo internazionale in una serata che ha visto protagonisti dodici giovani cantanti lirici provenienti dai quattro angoli del mondo.
Il concerto, che ha avuto luogo sotto l’egida della Banca Europea per gli Investimenti, con il sostegno della Fondazione BNP Paribas e la Città di Parigi, ha offerto un palcoscenico di rara intensità per la promozione della pace attraverso il linguaggio universale della musica. Il direttore artistico Kamal Khan ha orchestrato la serata con una passione indiscutibile, assistito al pianoforte dall’attento giapponese Naoki Hayashi. L’evento è stato anche l’epilogo di un percorso di crescita e apprendimento per gli artisti, che hanno avuto l’opportunità di affinare la loro arte partecipando a lezioni di canto, conferenze e masterclass, il tutto sotto la guida di illustri figure del mondo operistico internazionale. Provenienti da nazioni così diverse come Cina, Corea del Sud, Giappone, Ucraina, Russia, Sudafrica, Stati Uniti, Kosovo e Francia, i giovani artisti hanno dimostrato non solo il loro talento ma anche un’energia e un’affinità che hanno trasformato un saggio di fine corso in un momento di vero e proprio incontro culturale. La regia dell’evento ha messo in luce il dinamismo e la freschezza di questi giovani cantanti, che pur avendo ancora molto da esplorare, hanno mostrato una passione e un impegno che promettono di farli crescere nel mondo dell’opera. Il repertorio della serata ha spaziato dalle immortali arie di Puccini, Verdi e Rossini fino a pezzi meno conosciuti ma non meno affascinanti, offrendo così al pubblico una panoramica completa e variata del vasto universo operistico. In tal modo, l’Accademia Opera for Peace non ha solo celebrato la diversità culturale e la bellezza dell’opera, ma ha anche rafforzato il proprio impegno nel promuovere l’arte come strumento di unità e sostegno . Nel prestigioso Gran Salone di Villa Medici, un pubblico eclettico e numeroso ha gremito l’ambiente, portando con sé un’energia contagiosa. La varietà degli spettatori, un mosaico di appassionati d’arte di diverse età e background, ha sottolineato l’universalità e il richiamo trasversale dell’evento ospitato. Con il procedere della serata, l’entusiasmo e la partecipazione del pubblico sono cresciuti visibilmente, culminando in un finale che ha visto un’effusiva richiesta di bis. Nonostante la chiara dimostrazione di affetto e il desiderio del pubblico di prolungare l’esperienza, la richiesta di un ulteriore performance è stata, purtroppo, disattesa, lasciando nell’aria un misto di delusione e di riconoscenza per quanto già condiviso. Photocredit:VillaMedici/AccademiaOperaFor Peace

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Anna dei miracoli” dal 24 al 28 Aprile 2024

gbopera - Ven, 19/04/2024 - 20:00

Roma, Teatro Parioli Costanzo
ANNA DEI MIRACOLI 
di William Gibson 
con Mascia Musy, Fabrizio Coniglio, Anna Mallamaci, Laura Nard
adattamento e regia Emanuela Giordano 
Scene e Luci Angelo Linzalata 
Costumi Emanuela Giordano 
Musiche Carmine Iuvone e Tommaso Di Giulio 
Produzione La Pirandelliana
“Cosa succede quando in una famiglia arriva il figlio “difettato”, quello che pensavi nascesse solo in casa d’altri? Cosa succede ad un padre ed una madre che si confrontano quotidianamente con l’esistenza di una creatura con cui non possono comunicare? La pietà e la rabbia, la speranza e il senso di sconfitta, ogni sentimento è concesso, ogni reazione è imprevedibile, anche se si tenta in tutti i modi di simulare una normalità che non esiste. E lei, Helen, la figlia, cosa percepisce di quello che ha intorno? In un mondo dove solo il bello è vincente, solo il sano è tollerato, padre e madre non hanno scampo: Helen va allontanata, messa in un istituto, nascosta, dimenticata. Ma in casa arriva Anna, con una vita trascorsa in mezzo ad altre creature “difettate”. Mi sono concentrata su un adattamento essenziale, via i soprammobili, le zie e i cagnolini. Ho immaginato una famiglia difficile come ce ne sono tante e una casa da cui madre e figlia non escono mai, quasi recluse, per vergogna, per mancanza di autonomia. Ho collocato i personaggi in un silenzio domestico che non prevede ancora la TV e Internet. Ho “visto” quel padre imprigionato nel ruolo di capo famiglia, ma capace, a sorpresa, di mettersi in gioco e quella madre che lotta ad oltranza per sua figlia, anche se in modo contraddittorio e confuso. Ho intuito che le tre donne hanno qualcosa in comune, per questo le ho volute, per qualche tratto, simili. La scena è evocazione di spazi che si aprono e si chiudono, isole di luce, sospese in un racconto musicale che ci suggerisce quello che le parole non ci possono dire. Una bellissima esperienza umana”. Emanuela Giordano

 

Categorie: Musica corale

“L’eterno presente di un’attrice” – Intervista a Elena Russo Arman

gbopera - Ven, 19/04/2024 - 11:49

Chi è Elena Russo Arman e com’è arrivata al Teatro dell’Elfo?
Penso che ognuno di noi sia in continua evoluzione. Non ho mai amato guardarmi indietro, soprattutto non mi identifico con la mia storia. Potrei dirle che ho iniziato per caso a fare l’attrice, la mia vocazione era legata all’arte, alla scenografia, ma poi Luca Ronconi ha aperto la sua scuola di recitazione al Teatro Stabile di Torino, la mia città, e per gioco ho fatto il provino. Sono stata fortunata a incontrare maestri straordinari che mi hanno subito mostrato un’altezza, un livello molto elevati. Giovanissima ho iniziato a lavorare e mi sono imbattuta in uno spettacolo degli Elfi. Li ho amati subito. Ho sentito che il loro lavoro risuonava in me e ho sentito il desiderio di far parte di quel progetto. Ci siamo riconosciuti e da allora non ci siamo più lasciati. Dopo tanti anni il mio ruolo all’interno della compagnia ovviamente si è evoluto, ma è come una grande famiglia e sono ancora felice di farne parte.
 C’è un’attrice che la ha ispirata, che ammira più delle altre?
Credo che, come d’altronde accade per tutte le altre arti, sia un po’ riduttivo limitarsi al proprio campo. Non penso che sia necessariamente un’attrice a ispirarmi, solo perché io sono un’attrice. Io sono ispirata da tutto (artisti/e, registi/e, musicisti/e, filosofi/e, scrittori/e). L’ispirazione di cui penso di aver bisogno non sta tanto nel cosa fa qualcuno, ma nella visione più ampia con cui qualcuno opera o ha operato. Si impara anche dalle persone più giovani, ad esempio, non solo da chi ci ha preceduto, perché è importante confrontarsi con un nuovo modo di vedere il mondo. L’anno scorso, a Parigi, ho visto una mostra su Sarah Bernhardt: ecco, lei mi ha ispirata enormemente, per l’ampiezza della sua esistenza, per la quantità di ambiti e interessi in cui si è mossa e che, sicuramente, avranno nutrito la sua arte.
Quale produzione/quale ruolo le ha dato maggiore soddisfazione, sia sul piano professionale che su quello umano?
Come ho già detto non amo guardarmi indietro, sono sempre nel presente e, a volte, sono costretta a essere anche nel futuro! E il presente attuale è estremamente felice per me perché quest’anno sono stata coinvolta in due dei progetti tra i più esaltanti della mia carriera. Ho iniziato la stagione con I corpi di Elizabeth di Hella Hickson, diretto da Elio De Capitani e Cristina Crippa, uno spettacolo nel quale interpreto Elisabetta I in una veste transfemminista e moderna [qui la nostra recensione, ndr]. Questo personaggio mi ha dato la possibilità di esplorare e lavorare sulla mia maturità, sia quella attoriale che quella esistenziale, e sono felice che il lavoro andrà ancora avanti. In questi giorni, invece, sono Winnie in Giorni felici di Samuel Beckett con la regia di Francesco Frongia [qui la relativa recensione, ndr]. Dico “sono” perché è un ruolo che ti si incolla addosso tanto è profondo, insinuante e ci parla di qualcosa di molto intimo. Ogni sera recito col corpo costretto all’immobilità e ogni sera, mentre dico quel che dico, ho delle continue epifanie. È uno di quei rari preziosi casi in cui senti che hai un dialogo continuo con chi ha scritto quel che stai dicendo. È un personaggio/non personaggio, da cui mi sento attraversata. Ringrazio molto Francesco che mi ha proposto di farlo insieme.
Da alcuni anni accosta al lavoro di attrice anche quello di regista. Come affronta questi diversi ruoli, e ad oggi quale dei due sente esserle più vicino?
Sono ruoli intercambiabili e molto più vicini di quanto non si immagini. Avere dei miei progetti mi ha dato modo di essere molto libera in alcune scelte stilistiche, artistiche, mi ha dato modo di esplorare nuovi linguaggi e nuovi modi di agire la scena, come nel caso di La mia vita era un fucile carico, il mio spettacolo su Emily Dickinson. In alcuni sono stata anche autrice, ma nella maggior parte dei casi è stata un’occasione preziosa per lavorare con nuove drammaturghe, in particolare Valentina Diana, con cui ho fatto La palestra della felicità, e Magdalena Barile che ha scritto per me Gentleman Anne. Nei miei lavori, inoltre, do sfogo anche al mio primo amore, la scenografia, che per me è sempre totalmente connessa con il progetto. Quando dirigo sono meno interessata al mio ruolo di attrice all’interno dello spettacolo.
L’Elfo è un teatro dalla vocazione dichiaratamente inclusiva e queer. In quanto donna, tuttavia, sente che nella sua carriera ha subito trattamenti diversi o ingiusti rispetto ai suoi colleghi uomini? E più in generale, pensa che la condizione femminile nel teatro italiano sia soggetta a discriminazione o si tratta più di un safe space?
Sono stata fortunata a lavorare con una compagnia che è sempre stata sensibile a tematiche queer e inclusive, e non posso dire di essermi sentita discriminata in quanto donna. Ma devo dire che sono molto grata ad Amleta [associazione di promozione sociale il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, ndr] che, in questi ultimi anni, sta mettendo in luce il fatto che pochissime donne, nel teatro italiano, ricoprano ruoli importanti, di potere, se vogliamo usare questo termine antipatico.
Ultima domanda: potesse realizzare un sogno nel cassetto professionale, quale sarebbe? E personale?
Non ho sogni nel cassetto, non irrealizzabili almeno. Ho dei desideri che spero di riuscire a realizzare. Ma ce n’è uno che probabilmente resterà un sogno, il che non è male però perché è bello vivere di astrazioni qualche volta. Vorrei tanto poter fare uno spettacolo usando solo degli automi progettati da me! Un sogno personale, invece, è più difficile da immaginare. Io sono molto grata alla vita che ho, sento che mi assomiglia, che mi corrisponde e temo che non tutti possano dire lo stesso.
Foto Laila Pozzo

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro del Simposio, fACTORy 32: “Reparto n.6”

gbopera - Ven, 19/04/2024 - 08:30

Milano, Teatro del Simposio, fACTORy 32, Stagione 2023/24
REPARTO N. 6”
da Anton Cechov
Adattamento drammaturgico Antonello Antinolfi e Francesco Leschiera
Ivan Gromov/ Mikhail ETTORE DISTASIO
Dottor Jefimjc FRANCESCO LESCHIERA
Compagno di stanza ALESSANDRO MACCHI
Regia Francesco Leschiera
Scene e costumi Paola Ghiano e Francesco Leschiera
Elaborazioni e scelte musicali Antonello Antinolfi
Produzione Teatro del Simposio
Milano, 14 aprile 2024
Teatro del Simposio è una realtà milanese che dal 2012 porta in scena quei testi e quegli autori che hanno saputo gettare ponti verso di noi, con opere che ci guidino a una più profonda comprensione del nostro presente. “Reparto N. 6“, tratto da un racconto di Anton Cechov, non fa eccezione: qui il tema non è semplicemente la malattia mentale, ma la liceità del manicomio, del luogo di contenimento dei cosiddetti “pazzi”. Apprezziamo in primis, oltre al soggetto di indiscutibile interesse, il rispetto con cui la compagnia si è avvicinata al testo cecoviano, senza sentire il bisogno di attualizzarlo o stravolgerlo, né intervenendo in maniera grossolana tramite messe in scene alla moda: Cechov ci ha promesso e Cechov ci ha dato, con la sua grazia da sognatore, il leggero sarcasmo, ma anche l’afflato totalmente introspettivo, che indiscutibilmente tende a sfociare nel cerebrale. Con misura ammirevole, la regia interviene proprio su questi punti più deboli, aprendo il testo alla performance, alla ricerca di linguaggi più immediati. L’operazione può dirsi tutto sommato riuscita: infatti, benché permanga la tendenza tipicamente cecoviana al monologo interiore e al dialogo sui massimi sistemi, l’interpretazione, soprattutto di Ettore Distasio, cerca punti di contatto con l’intrattenimento, tiene desta la tensione del pubblico, usando senz’altro una punta di maniera e gigioneria, che tuttavia in questo contesto sono funzionali (oltre che mai esagerati); egli è Ivan Gromov, il paziente la cui stralunata vitalità risveglia nel suo medico dubbi antichissimi, non solo sulla sua professione, ma sulla sua stessa natura; nella mente del dottore, quindi, Gromov prende anche le fattezze di un vecchio amico, Michail, il ruolo in cui Distasio si lascia più andare a giochi, caratterizzazioni, amene buffonerie che ci rivelano la totale inconsistenza umana del “saggio Michail“. Il dottor Jefimjc, interpretato da Andrea Leschiera, è il vero personaggio cecoviano del racconto, il sano che si riscopre malato, incarnazione stessa della fallacia del sistema scientifico borghese: Leschiera è senz’altro un interprete navigato, ma gli manca un guizzo, una grammatura più solida – e la sua pronuncia, afflitta da una erre pesantemente blesa, in alcuni punti rischia di inficiare la sua prova persino sul livello della comprensione. Molto meglio il Leschiera regista, che costruisce uno spazio scenico sobrio ed efficace, e guida i suoi interpreti con precisione all’indagine del personaggio; l’uso della macchina del fumo tra una scena e l’altra, per quanto non piacevolissimo in uno spazio raccolto come quello della Factory 32, dà chiaramente il senso dell’ottundimento della ratio, del manicomio come realtà purgatoriale, mediana, dove tutto è per metà anche il suo contrario. Altro interessante intervento sul testo è la presenza in scena di un terzo attore, una specie di compagno di stanza di Gromov, dal movimento autisticamente ondulatorio e in grado solo di emettere suoni disarticolati, almeno fino al finale, nel quale prende vita per riferirci una chiave di lettura, o forse solo un’altra piccola e sanguinante testimonianza (un plauso ad Alessandro Macchi, che interpreta questo personaggio, fin da 20 minuti prima dell’inizio dello spettacolo, in scena). Il sonoro, curato da Antonello Antinolfi, è, infine, un’interessante cornice, composta di rumori ambientali più o meno inquietanti, di commenti musicali abbozzati, almeno fino al finale in cui esplode “By this river” di Brian Eno quasi come atto liberatorio. Nel complesso un piccolo spettacolo che tuttavia comunica non solo la riflessione di cui si fa portavoce, ma anche una cura, quella ricerca di qualità che vogliamo credere ancora caratterizzi il teatro “alto”.

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo Altemps: “Terme di Diocleziano. Fotografare il Museo Nazionale Romano”

gbopera - Gio, 18/04/2024 - 09:43

Roma, Palazzo Altemps
TERME DI DIOCLEZIANO. FOTOGRAFARE IL MUSEO NAZIONALE ROMANO
Roma, 12 Aprile 2024
Nel cuore di Roma, il Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps ha recentemente ospitato l’inaugurazione della mostra Terme di Diocleziano. Fotografare il Museo Nazionale Romano”. Curata da Giorgio Di Noto, docente presso la Rome University of Fine Arts (RUFA), e Chiara Giobbe, responsabile di Palazzo Altemps, l’esposizione ha messo in luce il lavoro di documentazione fotografica realizzato dagli studenti di fotografia di RUFA nelle storiche Terme di Diocleziano, uno degli spazi più antichi e suggestivi del museo. In concomitanza con l’evento è stato presentato un volume, pubblicato dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), che offre una panoramica completa del progetto fotografico, inserendosi in una più ampia iniziativa annuale di documentazione che vede RUFA collaborare con l’ICCD per esplorare il patrimonio dei musei e delle istituzioni culturali italiane. Palazzo Altemps ha fatto da cornice al dibattito “Documentare il Patrimonio Culturale”, arricchito dagli interventi dei direttori delle istituzioni partecipanti, che hanno discusso le sfide e le soddisfazioni del progetto. Gli spazi della sede storica delle Terme di Diocleziano sono stati accessibili agli studenti di RUFA, che hanno esplorato e fotografato le Grandi Aule, il Chiostro di Michelangelo, e vari ambienti interni ed esterni del complesso. Questa opportunità unica è stata amplificata dalla possibilità di documentare gli spazi durante una mostra archeologica internazionale ” L’istante e l’eternità. Tra noi e gli antichi” e successivamente durante le fasi preparatorie di un importante progettò di restauro chiamato URBS, dalla città alla campagna romana. Gli studenti hanno documentato questi ambienti sotto diverse condizioni di luce, di giorno e di notte, creando immagini che riflettono la maestosità e l’atmosfera temporaneamente spoglia delle Terme, offrendo una visione personale e innovativa del sito attraverso il loro obiettivo. Questo non solo come esercizio accademico ma come vera e propria esplorazione artistica e tecnica. Questa esposizione fotografica non è soltanto quindi un’esibizione delle capacità tecniche degli studenti di fotografia della Rome University of Fine Arts, ma un’immersione profonda nel loro processo creativo e interpretativo. Ogni fotografia, accuratamente selezionata per l’esposizione, non è solo un’immagine fissa di un momento, ma una narrazione visiva che riflette diversi approcci personali e artistici: tecnico, emotivo, dinamico, strutturato e concettuale. Il modo in cui le fotografie sono state presentate al pubblico rivela un ulteriore livello di pensiero e cura artistica. Alcuni degli scatti sono stati stampati su pergamene sospese dal soffitto, fluttuanti nell’aria come delicate vele che catturano e diffondono la luce in modo suggestivo. Altri sono stati disposti su tavolini a cavalletto, simili a provini di stampa, offrendo una visione più immediata e intima delle opere. Questo allestimento minimalista, ma estremamente efficace, amplifica il potere visivo delle immagini, enfatizzando l’estetica e guidando i visitatori attraverso un percorso morbido e coinvolgente. La semplicità nella costruzione della mostra non solo esalta le opere esposte ma si integra con esse, creando un ambiente in cui ogni elemento contribuisce all’esperienza complessiva. Gli studenti non si sono limitati a cimentarsi nella sola fotografia; hanno anche assunto un ruolo attivo nella progettazione e realizzazione dell’insieme, dimostrando le loro competenze non solo come fotografi ma anche come curatori e scenografi dell’esposizione. Il Prof. Stéphane Verger, Direttore del Museo Nazionale Romano, ha evidenziato l’importanza del progetto come testimonianza delle trasformazioni in corso nei diversi spazi del museo, sottolineando la speranza di continuare la fruttuosa collaborazione con l’ICCD e RUFA. Il Direttore dell’ICCD, Carlo Birrozzi, ha ricordato come il progetto si inserisca nella tradizione secolare del Gabinetto Fotografico Nazionale, dedicato alla documentazione del patrimonio culturale italiano, con risultati che arricchiranno l’archivio fotografico online dell’istituto. L’Arch. Fabio Mongelli, Direttore di RUFA, ha lodato l’impegno degli studenti nel progetto, che ha permesso loro di immergersi completamente in tutte le fasi della documentazione, contribuendo così a un dialogo continuo tra accademia e istituzioni museali per la valorizzazione dei patrimoni culturali e artistici. Il progetto “-Z“, ora alla sua seconda edizione, continua a evolversi, promettendo nuove e intriganti iniziative per il futuro, come anticipato durante l’incontro a Palazzo Altemps, stabilendo un modello di collaborazione culturale che potrebbe servire da esempio a livello nazionale e internazionale. Il Museo Nazionale Romano continua a incarnare la sua vocazione di fulcro culturale e educativo, rimanendo fedele alla sua missione di divulgazione. In quest’ottica, il museo non solo custodisce e valorizza le testimonianze del passato, ma si apre anche a innovative collaborazioni che trascendono i confini nazionali, coinvolgendo scuole e istituzioni internazionali in una serie di iniziative culturali ed educative. Questo approccio permette al museo di fungere da piattaforma di scambio culturale e di apprendimento interculturale, dove studenti e accademici di varie nazionalità possono condividere conoscenze, idee e prospettive. Attraverso esposizioni, workshop, conferenze e collaborazioni con università e altre istituzioni culturali, il Museo Nazionale Romano non solo amplifica il suo raggio d’azione educativo, ma contribuisce anche a formare una comunità globale più consapevole e sensibile verso il patrimonio storico e artistico. La continua apertura a nuove iniziative testimonia l’impegno del museo nel promuovere un dialogo costante tra il passato e il presente, rendendo la cultura accessibile e rilevante per le nuove generazioni e per un pubblico internazionale. In questo modo, il Museo Nazionale Romano si conferma come un istituto che, pur radicato nella storia, guarda al futuro con un impegno proattivo verso l’educazione e la cultura globale. Photocredit @RUFA

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Ambra Jovinelli:” Cyrano De Bergerac” per la regia di Arturo Cirillo

gbopera - Mer, 17/04/2024 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
CYRANO DE BERGERAC
da Edmond Rostand
adattamento e regia Arturo Cirillo
con Arturo Cirillo
e con ( in o.a) Irene Ciani, Rosario Giglio, Francesco Petruzzelli, Giulia Trippetta, Giacomo Vigentini
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi 
luci Paolo Manti
musica originale e rielaborazioni Federico Odling
produzione MARCHE TEATRO,  Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro / ERT Teatro Nazionale
Roma, 17 Aprile 2024
“Cyrano de Bergerac”, la rinomata tragedia in cinque atti di Edmond Rostand, ispirata al personaggio storico e scrittore francese del XVII secolo, Savinien Cyrano de Bergerac, debuttò con successo il 28 dicembre 1897 a Parigi. Dopo un iniziale fallimento nel 1892, Rostand conquistò pubblico e critica, ricevendo onorificenze quali la Legion d’onore e l’elezione all’Académie française. L’ultima creazione di Arturo Cirillo trae ispirazione da un momento profondamente personale: la sua esperienza al Politeama di Napoli, alla fine degli anni ’70, assistendo alla performance di Modugno e Pazzaglia nel ruolo di Cyrano. Benché anch’essa un’opera musicale, la visione di Cirillo si distacca nettamente da quella memoria: non si tratta di una mera replica di quel musical, ma di un’interpretazione innovativa che Cirillo definisce “teatro canzone”. Questo approccio unico mira a narrare il celebre e malinconico triangolo amoroso di Cyrano, Rossana e Cristiano, fondendo parole e melodie in un racconto emotivamente coinvolgente. Cyrano, segretamente innamorato della sua cugina Rossana, è frenato dalla vergogna per il suo grande naso e rimanda il momento di confessarle i suoi sentimenti. Quando finalmente trova il coraggio, scopre che Rossana ha perso la testa per Cristiano, un giovane cadetto di bell’aspetto ma poco eloquente. Cyrano decide quindi di aiutare Cristiano, prestandogli la sua poetica abilità per corteggiare Rossana attraverso lettere d’amore e sussurri romantici sotto il suo balcone. L’inganno ha successo, e Rossana si innamora perdutamente di quello che crede essere l’anima di Cristiano. La situazione si complica quando Cristiano è chiamato al fronte, dove anche Cyrano si trova a combattere. Cyrano continua la sua missione epistolare, ma Cristiano inizia a sospettare che Rossana sia innamorata non di lui, ma delle parole che Cyrano gli mette in bocca. Prima che possa confessare questa realizzazione, Cristiano muore in battaglia. Rossana, inconsolabile, si ritira in convento. Cyrano, che non ha mai smesso di amarla, la visita in segreto, mantenendo il suo amore nascosto fino all’ultimo. Un tragico destino lo attende: ferito mortalmente in un agguato orchestrato dai suoi nemici politici, Cyrano riesce a parlare un’ultima volta con Rossana, svelandole involontariamente la verità sulle lettere d’amore. Solo in punto di morte, Rossana capisce che il vero oggetto del suo amore era l’anima nobile di Cyrano, celata dietro la bellezza effimera di Cristiano. Il regista e attore Arturo Cirillo rinnova la classica storia di Cyrano de Bergerac, intrecciandola con le note musicali e versi rimatori che ricordano i varietà del passato, e la arricchisce con elementi tratti da “Pinocchio”, in un omaggio allo spettacolo di Carmelo Bene. Attraverso questa fusione artistica, Cyrano e la marionetta di Collodi condividono non solo la peculiarità di un naso pronunciato, ma anche avventure di bugie, combattimenti e desideri amorosi, in un cast che evoca figure familiari come la lumachina o il Grillo Parlante. Questa versione di Cyrano rappresenta un tributo al mondo del teatro stesso.  La scenografia, ideata da Dario Gessati, presenta una pedana rotante da cui emergono, in un gioco di luci e colori, personaggi vestiti con costumi che rimandano a figure iconiche come Wanda Osiris e Raffaella Carrà, in un’atmosfera che evoca la vivacità del Carnevale brasiliano. Al di sotto di questa esteriorità brillante, la rappresentazione tocca temi profondi come l’amore non corrisposto, la lotta contro gli ostacoli della vita, rappresentati da figure allegoriche come i Gatti e le Volpi, e la triste realtà di non poter amare o essere amati come si desidererebbe. Tuttavia, l’opera trova nella poesia una speranza, un mezzo per trasformare la bruttezza in bellezza, la falsità in verità. La musica composta da Federico Odling emerge come protagonista indiscussa, tessendo un ricco tappeto sonoro che per oltre due ore di spettacolo avvolge e anima ogni scena. La composizione di Odling, con la sua vivacità e profondità emotiva, diventa l’anima portante di un’esperienza teatrale che si distingue per dinamismo e originalità. Accompagnata da una regia che fa ampio uso di giochi di luci innovativi, a cura di Paolo Manti, e da un ritmo narrativo che mantiene lo spettatore costantemente al centro dell’azione, la musica guida il pubblico attraverso un viaggio che è tanto visivo quanto uditivo. Manti, con il suo sapiente utilizzo delle luci, non si limita a illuminare gli attori e le scene, ma crea veri e propri quadri viventi che arricchiscono la narrazione e accentuano le emozioni trasmesse dalla musica. I costumi, disegnati da Gianluca Falaschi, aggiungono un ulteriore strato di magia allo spettacolo, con le loro tinte sgargianti e il loro design fiabesco. Falaschi, noto per la sua capacità di trasformare tessuti e materiali in veri e propri capolavori visivi, qui supera se stesso, proponendo costumi che non solo riflettono la personalità dei personaggi ma contribuiscono anche a definire il tono unico e immersivo dello spettacolo. La rielaborazione artistica che intreccia i mondi di Cyrano e Pinocchio non si ferma alla comune caratteristica del naso prominente, unendo questi due personaggi outsider. Cirillo, con un’energia costante, fonde lo stile di Petrolini e Rascel ricordando anche Proietti in uno spettacolo di quasi due ore. Con un’atmosfera sempre vibrante offre un’esperienza totale e un regalo memorabile al pubblico. Oltre a Rossana, interpretata magistralmente da Valentina Picello, che richiama la Fata Turchina, troviamo parallelismi con altri personaggi  fino a Cyrano che assume i tratti di Geppetto nel finale. L’allestimento, un gioco intellettuale di ricerca di connessioni che esplora accettazione e amore oltre l’aspetto fisico, ha ricevuto un caloroso applauso dal pubblico, che ha grandemente apprezzato lo spettacolo. Photocredit@TommasoLePera

Categorie: Musica corale

Roma, Musei di San Salvatore in Lauro: “Figurazione anni ’60 e ’70” dal 24 aprile al 21 luglio 2024

gbopera - Mer, 17/04/2024 - 08:00

Roma, Musei di San Salvatore in Lauro
FIGURAZIONE ANNI ’60 E ’70
Una mostra su due decenni del Novecento caratterizzati da grande vitalità, che si propone di intercettare il nuovo interesse internazionale per la pittura e la scultura attraverso importanti artisti che hanno segnato un momento di intenso fervore creativo: promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale, presieduta dalla Prof.ssa Alessandra Taccone, e realizzata da Poema S.p.A. in collaborazione con Cigno Arte, l’esposizione dal titolo Figurazione anni ’60 e ’70, ospitata nei Musei di San Salvatore in Lauro a Roma dal 24 aprile al 21 luglio 2024, presenta un’ampia rassegna dedicata alla pittura e alla scultura di figurazione in Italia a cavallo tra i due decenni artistici più vitali del Ventesimo secolo. La mostra, curata da Lorenzo e Enrico Lombardi, è infatti dedicata alle esperienze della pittura e della scultura figurative in Italia delle generazioni attive in particolare tra gli anni Sessanta e Settanta, un contesto molto complesso e differenziato che oggi merita di essere approfondito e, in moltissimi casi, riscoperto. In questo periodo, tra l’altro, gli artisti visivi hanno di sovente operato in stretto dialogo di poetica e di rappresentazione con scrittori e registi come Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Alberto Moravia, Giovanni Testori, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Leonardo Sciascia, in una condivisione spesso diretta alla narrazione delle nuove realtà delle metropoli e della società in rapida e, talvolta drammatica, trasformazione. Le linee iconiche italiane rappresentano, infatti, un intreccio di esperienze spesso collocate in un contesto internazionale, in cui si sono incrociate visioni e suggestioni di varia provenienza: dal Realismo di matrice sociale e politica al Naturalismo, fino alla Pop Art e all’Iperrealismo, senza dimenticare le importanti influenze della pittura metafisica. Il progetto espositivo è diviso in quattro sezioni: FIGURA SCULTURA, dedicata alla grande tradizione della scultura italiana figurativa; POLITICA SOCIETÀ REALTÀ, che illustra le variegate ricerche dei protagonisti di quegli anni, tra impegno politico e contaminazioni con design e nuovi media; NATURA PITTURA, focalizzata sul nuovo Naturalismo del ‘900, spesso collegato anche ai primi, embrionali movimenti ecologisti; METAFISICI E VISIONARI, dedicata agli artisti che, andando oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile, scelsero di rappresentare gli aspetti della realtà da loro considerati autentici e fondamentali, secondo la prospettiva più ampia e universale possibile. Alla mostra è dedicato un catalogo edito da Il Cigno GG Edizioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La ragazza sul divano” regia di Valerio Binasco

gbopera - Mer, 17/04/2024 - 00:38

Roma, Teatro Vascello
LA RAGAZZA SUL DIVANO
di Jon Fosse
traduzione Graziella Perin
regia Valerio Binasco
con Pamela Villoresi, Valerio Binasco, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramonte e con Isabella Ferrari
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
suono Filippo Conti
video Simone Rosset
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Biondo Palermo
In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di Colombine
Teaterförlag
Roma, 16 Aprile 2024
Jon Fosse, drammaturgo, romanziere e poeta norvegese nato nel 1959, si afferma come una figura cardine della drammaturgia contemporanea. La sua opera si caratterizza per una struttura narrativa frugale e uno stile distintivo, attraverso il quale esplora con profondità il disagio umano generato dalle barriere comunicative in vari contesti sociali e personali. Le opere di Fosse, che prendono vita sul palcoscenico a partire dal 1994, si districano tra silenzi carichi e dialoghi essenziali, rivelando le sfide della comunicazione nell’epoca moderna. I suoi personaggi, spesso delineati attraverso poche, incisive battute, riflettono la lotta interiore contro l’indifferenza che permea le relazioni umane, esplorando tematiche come la fragilità dei rapporti di coppia, il divario generazionale, e la percezione della morte. Anche in questo dramma “La Ragazza sul divano” portato in scena al Teatro Vascello è evidente il suo stile, intenzionalmente anemico e afasico che riflette la scelta di una comunicazione ridotta all’essenziale. Questa piece , priva di una struttura convenzionale e con una “punteggiatura” spesso assente, costringe , così, lo spettatore a confrontarsi con l’essenzialità del testo e la potenza del non detto. Le ispirazioni di Fosse derivano da una vasta gamma di fonti, tra cui  la musica rock, la pittura e un ascolto profondo delle voci marginalizzate, con un forte senso di incertezza. La trama si dipana attraverso due filoni principali: da un lato chi ricorda e osserva, e dall’altro chi è ricordato e osservato, entrambi legati al quadro incompiuto al centro della storia. Il dialogo costante tra passato e presente scandisce lo spettacolo, in cui la protagonista affronta la sua giovane versione, intensamente interpretata da Giordana Faggiano. La giovane appare frequentemente assorta su un divano, avvolta in un’aura di malinconia dovuta alla costante assenza del padre marinaio, le cui rare comunicazioni arrivano sotto forma di cartoline da lontani porti. La trama si arricchisce ulteriormente con la presenza di personaggi che orbitano attorno alla protagonista, tra cui il marito, Valerio Binasco, che non riesce a placare il tormento di lei, e Isabella Ferrari, nei panni di una madre nevrotica che intraprende una relazione con Michele Di Mauro, lo zio delle ragazze. Completa il quadro familiare la sorella maggiore, interpretata da Giulia Chiaramonte, il cui dinamismo sensuale aggiunge una vivace complessità alla narrazione. Sul palco si è distinta una compagnia di attori straordinari, ciascuno con un notevole talento e una partecipazione intensa, sotto la sapiente regia di Valerio Binasco. Al centro dello spettacolo, una riflessione pronunciata dalla protagonista svela la complessità degli eventi: «Succede. Perché si vede una cosa e poi non si riesce più a scordarla». Queste parole aprono una finestra sul tema del tradimento materno, suggerendo che potrebbe essere la chiave degli intricati drammi personali, ma ponendo anche il dubbio se sia davvero il fulcro delle difficoltà della donna a “essere brava a vivere” o solo un pretesto per le sue insufficienze esistenziali. Le dinamiche sul palco, caratterizzate da interazioni non convenzionali tra i personaggi del presente e quelli del passato, si traducono in un complesso gioco di echi e rimandi che intensificano l’eco emotivo delle loro storie. La protagonista, con una sorta di rassegnazione filosofica, afferma: «In un certo senso anche la vita è un’eternità». In questa visione, il tempo emerge come il vero protagonista dello spettacolo, ma non come un flusso liberatorio bensì come una gabbia paralizzante, una prigione da cui sembra impossibile evadere. La realtà viene percepita come immutabile, un eterno ritorno dell’uguale che condanna i personaggi a ripetere gli stessi schemi dolorosi. Di fronte a potenziali vie di fuga dalla monotonia esistenziale — come l’accettazione dell’amore di un uomo innamorato o la riconciliazione con la madre morente — la protagonista opta per un rifiuto sistematico e coerente. Questa scelta non solo accentua la sua alienazione e solitudine ma consolida anche il carattere tragico della narrazione, in cui le possibilità di redenzione o cambiamento vengono deliberate e ripetutamente respinte, sottolineando un fatalismo profondamente radicato nel tessuto della rappresentazione. L’ambiente scenico dello spettacolo è magistralmente delineato dalla scenografia innovativa di Simone Rosset, che introduce un elemento dinamico e visivamente suggestivo. Rosset ha realizzato un fondale che si trasforma progressivamente con i colori di un dipinto in via di elaborazione. Questo quadro, visibile attraverso un sottile telo trasparente, non solo evoca le linee di una camera da letto ma diventa anche un elemento vivente della scena. Per effetto delle luci e delle trasparenze, la parete ora assume l’aspetto del quadro che la protagonista sta dipingendo, ora si dissolve come un velo che rivela un altro spazio scenico. In questi momenti di delirio artistico, i colori sembrano quasi uscire dalla tela per aggredire la donna, creando un intenso gioco di realtà e immaginazione. Parallelamente, la presenza di un giradischi sul palcoscenico introduce una dimensione musicale che si affianca e si intreccia al testo teatrale. La scelta di brani come “You Don’t Own Me” di Lesley Gore e, verso il finale, una canzone di Lou Reed, non solo arricchisce l’atmosfera ma anche approfondisce il dialogo tra i temi musicali e la narrativa visiva. Il design delle luci, magistralmente curato da Nicolas Bovey, assume un ruolo fondamentale nell’intensificare le tensioni emotive dello spettacolo. L’illuminazione concepita da Bovey fa più che semplicemente rischiarare la scena: penetra gli angoli più reconditi delle psiche dei personaggi e trascende le tradizionali dimensioni spaziali di altezza, larghezza e profondità, impreziosendo la messa in scena con una dimensione fisica che evoca i ricordi, il rimpianto e il fluire inesorabile del tempo. Al termine dello spettacolo, il pubblico ha risposto con un applauso forte e partecipativo. PhotoCredit:VirginiaMingolla

Categorie: Musica corale

Amici della Musica di Firenze: «Una raffinata conversazione attraverso i suoni» con Marco Rizzo, Alessio Pellegrini e Benedetto Lupo

gbopera - Mar, 16/04/2024 - 00:42

Firenze, Teatro della Pergola, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2023/4
Violino Marco Rizzi
Corno Alessio Pellegrini
Pianoforte Benedetto Lupo
Johannes Brahms: Tre Intermezzi, op. 117 per pianoforte; György Ligeti: Trio per violino, corno e pianoforte; Béla Bartók: Tempo di Ciaccona, dalla Sonata in sol minore per violino solo; Johannes Brahms: Trio in mi bemolle maggiore per violino, corno e pianoforte, op. 40
Firenze, 13 aprile 2024
Nel Saloncino del Teatro della Pergola di Firenze, sold out per il penultimo concerto della Stagione Concertistica 2023-2024 degli Amici della Musica, con un singolare programma che, partendo dal Romanticismo cercava ramificazioni nei linguaggi e architetture del Novecento. Ai musicisti Marco Rizzi, Alessio Pellegrini e Benedetto Lupo il compito di svelarne i contenuti passando attraverso una lettura pluridirezionale dell’agire nella musica del Novecento e contemporanea.
I Tre Intermezzi brahmsiani (1892), nell’interpretazione di Benedetto Lupo erano intesi come autentici componimenti poetici atti ad introdurre un programma caratterizzato dal dialogo e da una proposta percettiva prismatica dei suoni. Ma se nella conversazione è necessario l’ascolto, lo stesso ‘invito’ al pubblico a far tacere i propri pensieri per lasciarsi coinvolgere nel monologo del pianoforte era talmente necessario affinché, già dal cullante tema dell’Andante moderato (mi b maggiore), si potesse entrare nello spirito romantico di Brahms. Il pianista, con la sua intima cantabilità, sembrava attingere all’espressività dei mendelssohniani Lieder ohne Worte, pur nello spazio delle tripartite miniature formali, riusciva a restituire un autentico crogiolo di emozioni. La tavolozza dei colori e il controllo perfetto del suono erano così onirici da produrre stati d’animo contrastanti e carezzevoli. Il Trio per violino, corno e pianoforte di Ligeti (1982), pregevole esempio di musica da camera, rappresenta, citando lo stesso compositore, un ritorno alla «relazione ambivalente con la tradizione [in cui il passato è inteso] non come spunto per citazioni musicali, neppure come modello di magistero artigianale, piuttosto come aura, come allusione» tanto da comprendere l’«Hommage à Brahms», ovvero al Trio op. 40, lavoro composto per organico simile, in occasione del 150 anniversario della nascita del compositore tedesco suggerisce la genesi, le tracce e la memoria della sua complessità. A dipanare la laboriosità di un ascolto non facile erano i riferimenti, pur ‘trasfigurati’ con la tradizione. Si potevano cogliere tratti con la classica forma tripartita (A-B-A) nel primo e terzo movimento o le famose “quinte del corno” mentre nel Vivacissimo molto ritmico l’ostinato della mano sinistra del pianoforte rappresentava la ‘guida’ per non perdersi nella narrazione che conduceva a una «danza polimetrica molto vivace». Grazie ad un’interpretazione traslucida si percepivano legami con musiche della tradizione popolare e, in particolari momenti di densità cromatica, la ricerca dei musicisti si esplicitava attraverso un impegno e una maggiore attenzione al più piccolo dettaglio. Le stesse sfumature timbriche, soprattutto nella parte del corno, richiedevano un grande e difficile controllo del suono. Ad un ascolto più analitico non sfuggiva la successione dei bicordi dello strumento ad arco che, nell’introduzione al «Lamento» e nell’elaborazione ligetiana, facevano cogliere lontani bagliori dell’Adagio mesto dell’op. 40 di Brahms. Procedendo a ritroso la pagina tratta da una sonata bartókiana «Tempo di Ciaccona» (1944) per alcuni aspetti sembrava avvicinarsi alle prime esperienze compositive di Ligeti o all’eredità bartokiana. Da questo primo movimento della Sonata, dal chiaro riferimento alla musica per danza dei secc. XVII-XVIII colpiva, nell’interpretazione riflessiva di Marco Rizzi, la complessità del brano e il coraggio nel valorizzare una scrittura, a tratti molto insidiosa. Il ritorno a Brahms portava alla conclusione e il pubblico, con il Trio op.40 (1865) quasi del tutto concepito nell’eroica tonalità di mi b maggiore ascoltava il corno suonato dal versatile Alessio Allegrini, anziché la viola o violoncello. Colpisce l’inizio con un Andante (2/4) invece dell’Allegro di Sonata tanto da, pur in presenza del principio della variazione, sezioni contrastanti, ecc., ravvisare un procedimento compositivo più fantasioso. È bastato ascoltare già all’inizio il primo tema, riconoscibile dall’intervallo di quinta ascendente (sib-fa) con il suono rotondo ed espressivo del violino e sostenuto dall’essenziale scrittura pianistica (ben 4 battute con un accordo sospensivo di settima di dominante), tanto da desiderarne la reiterazione che, grazie al bel suono pastoso del corno, sembrava inondare di suoni tutto lo spazio architettonico. Poi l’ingresso del canto al pianoforte, imitato dal violino, apriva al raffinato dialogo più inclusivo dei tre strumenti. Tanti i momenti che hanno caratterizzato la bella interpretazione dell’intera composizione come l’alternanza dei colori, gli interventi omoritmici (violino e corno), il tema quasi sussurrato e ben scandito in ottave del pianoforte all’inizio dello Scherzo reiterato dopo il malinconico Trio (Molto meno Allegro in la b minore) cui segue l’Adagio mesto (mi bemolle minore) ove la cupa introduzione pianistica si è rivelata un autentico canto a due voci, non di rado struggente, tra il violino e il corno. Non sono inoltre mancati episodi più squisitamente contrappuntistici che impegnavano gli interpreti a restituire nitidezza nei fraseggi, in altri momenti la fusione del colore, grazie ad un costante ascolto e dosaggio sonoro delle singole parti, offriva una percezione più caleidoscopica. Il Finale. Allegro con brio, oltre che a ritornare alla tonalità d’impianto costituiva anche il ‘ritorno’ alla tradizionale struttura sonatistica e alla caratterizzazione dei singoli strumenti in cui la ‘diversità’, oltre a costituire la forza e la bellezza del fare musica insieme, diventava espressione di pluralità volta alla ricerca continua del pensiero compositivo brahmsiano rintracciabile in una scrittura di grande effetto in cui, grazie alla possibilità di individuare i classici tòpoi, l’ascoltatore poteva rilassarsi per godersi la bella musica. Ai ripetuti applausi del pubblico i musicisti hanno ringraziato bissando l’ultimo movimento del Trio: dono di una gioia che in quanto tale meritava condividere.

Categorie: Musica corale

Roma, Villa Bonaparte: “Il ritorno di Paolina Bonaparte”

gbopera - Lun, 15/04/2024 - 21:02

Roma, Villa Bonaparte
Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
IL RITORNO DI PAOLINA BONAPARTE
In una dimostrazione di eccezionale impegno culturale, l’Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, Sua Eccellenza la Signora Florence Mangin, e suo marito, Pino Adriano, hanno dato vita a un progetto di grande rilievo storico e artistico. Nonostante la complessità dei vincoli normativi in merito alle copie artistiche, la coppia ha lavorato con fervore e determinazione per l’installazione di una riproduzione del busto di Paolina Bonaparte (attribuito ad Antonio Canova) all’interno di Villa Bonaparte, la sede dell’ Ambasciata. Questo sforzo non solo arricchisce il patrimonio culturale della residenza, ma funge anche da omaggio vibrante alla memoria di Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone e figura storica di risonanza, la cui presenza è ancora palpabile tra le mura di quella che fu la sua dimora. L’iniziativa, concepita da Pino Adriano e vigorosamente supportata dall’Ambasciatrice Mangin, trascende la mera installazione artistica per assumere il ruolo di simbolo del continuo intreccio culturale tra Francia e Italia. Attraverso questo gesto, si celebra non solo l’eredità di una donna che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia di entrambe le nazioni, ma si riaffermano anche i legami secolari che uniscono i due paesi. Il busto di Paolina, quindi, non rappresenta solamente un tributo estetico alla sua figura, ma è anche un pilastro su cui si fondano rinnovate aspirazioni di unità e collaborazione culturale tra i due popoli. In quest’ottica, l’operazione si configura come un autentico ponte culturale, riaffermando l’impegno della Francia e dell’Italia nel preservare e valorizzare il loro condiviso patrimonio storico e artistico. La realizzazione di una copia di questo busto è il risultato di una collaborazione straordinariamente sinergica. Coinvolti nel progetto sono la direzione del Museo Napoleonico, guidata da Marco Pupillo, e quella dei Musei Civici, sotto la Sovrintendenza di Roma Capitale, rappresentata da Ilaria Miarelli Mariani, insieme all’Ambasciata. Utilizzando tecnologie avanzate, la scultura originale presente nelle sale del Museo Napoleonico a Roma è stata sottoposta a un minuzioso processo di digitalizzazione 3D. Questa tecnica ha permesso di catturare ogni dettaglio con una precisione sorprendente, garantendo che la replica mantenesse l’integrità artistica e storica dell’originale. Il compito di trasformare questa riproduzione digitale in una scultura fisica è stato affidato a Massimo di Pirro, uno scultore romano di notevole talento. Di Pirro, conosciuto per la sua abilità nel cesellare e scolpire seguendo le più alte tradizioni artistiche italiane, ha lavorato con dedizione per garantire che ogni linea e curvatura del busto originale fosse fedelmente riprodotta. Il risultato è una scultura che non solo emula la maestria di Canova, ma che trasmette anche un senso di continuità storica e culturale pur mantendendo una propria identità. Nel 1793, all’età di tredici anni, Paolina Bonaparte lasciò la Corsica natale per raggiungere Tolone insieme a sua madre, Maria Letizia Ramolino. Sotto l’egida di un Napoleone Bonaparte in rapida ascesa – da generale dell’Armata Repubblicana a primo console della Repubblica Francese, fino a imperatore dei Francesi – Paolina diventò parte di un calcolato scambio matrimoniale orchestrato dal fratello. Napoleone la diede in sposa a suo amico, il generale Leclerc, comandante dell’Armata d’Italia. Nonostante l’amore per Leclerc, Paolina non gli fu mai fedele, continuando a intrattenere numerose relazioni extraconiugali che divennero parte integrante della sua vita. Il suo comportamento scandaloso spinse Napoleone a inviare Leclerc e la sua famiglia a Santo Domingo per sedare una ribellione guidata dall’ex schiavo Toussaint Louverture, in un tentativo velato di allontanare lo scandalo. Tuttavia, Leclerc morì nell’isola nel 1802 a causa della febbre gialla. Vedova ma non inconsolabile, Paolina trovò consolazione tra le braccia del generale Humbert durante il ritorno in patria. Una volta rientrata a Parigi, riprese la sua vita mondana e incontrò Camillo Borghese, un giovane principe di una delle famiglie più ricche e nobili di Roma. Nonostante le limitate capacità intellettuali di Camillo, Napoleone approvò il matrimonio, chiedendo a Paolina di rispettarlo. Tuttavia, Paolina continuò a cercare amanti a Roma, stancandosi presto del marito. La loro relazione si deteriorò ulteriormente dopo la morte del loro figlio Dermide, avvenuta per malaria. Camillo tentò di riconquistare il favore di Paolina commissionando al famoso scultore Antonio Canova una statua di lei come “Venere vincitrice”, che suscitò scandalo per il suo realismo. Nonostante ciò, i due si separarono fisicamente dal 1810, con Paolina che seguì Napoleone in esilio e Camillo che si rifugiò a Firenze. Solo alla morte, i due si “riunirono” nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, dove Paolina fu sepolta nella Cappella Borghese, accanto ai prelati della famiglia, ironicamente vicina ai mariti dai quali aveva sempre cercato di distanziarsi in vita. Il busto riprodotto di Paolina Bonaparte, da oggi esposto nelle sua storica dimora, offre ai visitatori una connessione diretta e tangibile con la sua figura così carismatica. Questa opera non solo arricchisce l’esperienza visiva per chi esplora le eleganti stanze che lei un tempo abitò, ma funge anche da ponte tra il presente e l’epoca napoleonica, avvicinando i visitatori alla vita e al carattere di Paolina. L’affluenza crescente di visitatori nell’ultimo anno testimonia l’attrazione verso la sua eredità culturale e l’importanza storica di questa evocativa riproduzione. Da non perdere. Prenota qui la tua visita.

Categorie: Musica corale

Roma, Spazio Rossellini: “Monumentum the second sleep” di Cristina Kristal Rizzo

gbopera - Lun, 15/04/2024 - 20:53

Roma, Spazio Rossellini
Centro Nazionale di Produzione della Danza ORBITA/SPELLBOUND
Stagione Danza 2024 “Vertigine”
“MONUMENTUM THE SECOND SLEEP/ SECONDA PARTE, IL QUARTETTO”
Concept, coreografia, costumi Cristina Kristal Rizzo
Danza Annamaria Ajmone, Marta Bellu, Jari Boldrini, Violetta Cottini, Sara Sguotti
Elaborazione sonora live Cristina Kristal Rizzo
Riferimento cinematografico Memoria di Apichatpong Weerasethakul (2021)
Disegno luci Gianni Staropoli
Direzione Tecnica per la data di Roma Roberto Cafaggini
Collaborazione teorica Lucia Amara e Laura Pante
Produzione Tir Danza
Roma, 04 aprile 2024
Un titolo insolito, quello di Monumentum the second sleep, scelto dalla coreografa e danzatrice basata a Firenze Cristina Kristal Rizzo per lo spettacolo presentato il 4 aprile scorso allo Spazio Rossellini nell’ambito della stagione danza Vertigine del Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita/Spellbound a cura di Valentina Marini. Come recita il comunicato, “il termine Monumentum vuol dire memoria, documento, segno di riconoscimento, qualcosa che viene dal passato”. A questo desiderio di strutturazione, di costruzione di una peculiare impronta, si contrappone però qui la dimensione onirica dell’inconscio, il piacere di entrare in contatto con la dimensione più intima, naturale, e anche sensuale dell’essere, alla ricerca di una visione che è pertanto vertiginosa, in quanto capace di modificare gli equilibri, di sovvertire gli ordini precostituiti e le relative costrizioni, alla ricerca di una profonda libertà. Ecco, dunque, i singoli danzatori intenti a decostruire i linguaggi di movimento più formali. Il corpo indaga lo spazio quasi come a volervi sciare. I gesti lenti delle mani che si cercano tra loro, anziché compattarsi si traducono fisicamente in polvere. Il corpo si attorciglia su se stesso in frenetiche convulsioni. Su una musica che rimanda agli anni Settanta e Ottanta mescolandosi a sigle pubblicitarie, la danza si propone come penetrante dimensione dell’esistenza, coniugata a una esibita sessualità. Un breve rimando alla nota coreografia di Flashdance segnala un avviato processo di liberazione, che dall’espressione della più pura individualità si spinge adesso alla ricerca di una nuova comunità, di traiettorie che si intersecano, per separarsi e poi riavvicinarsi, di un sentire contemporaneo che pur nell’isolamento di uno sguardo rivolto allo schermo di uno smartphone rende i performers partecipi di una rinnovata emancipazione che passa inizialmente attraverso il disegno di un rossetto sulle labbra. “La performance sarebbe finita”, avvisa uno dei danzatori. Eppure, essa continua, in un omaggio a The Goldberg Variations del recentemente scomparso Steve Paxton, nella cui traccia si vuole inserire il lavoro presentato. Il suo percorso di ricerca fondato su improvvisazione e casualità si unisce in quest’occasione a un manifesto intento politico presentato dalla stessa autrice che si presenta in scena alla fine dello spettacolo per protestare contro il genocidio. Un invito verbale a una estrema liberazione che dal campo del sentire deve spostarsi sul piano delle azioni per trovare una risonante significazione. Foto Giuseppe Follacchio

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Roma, Teatro dell’Opera: “La Sonnambula”

gbopera - Lun, 15/04/2024 - 19:16

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2023/2024
“LA SONNAMBULA”
Melodramma in due atti
libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Il Conte Rodolfo ROBERTO TAGLIAVINI
Teresa MONICA BACELLI
Amina LISETTE OROPESA
Elvino JOHN OSBORN
Lisa FRANCESCA BENITEZ
Alessio MATTIA ROSSI*
Il Notaro GIORDANO MASSARO
*dal progetto “Fabrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia scene e costumi Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil > Le Lab
Collaboratore alle scene e alle luci Christophe Pitoiset
Drammaturgia Luc Borrousse
Video Pascal Boudet e Timothée Buisson
Graphic design Julien Roques
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 09 aprile 2024
Assente dal palcoscenico del Teatro dell’opera di Roma dal 2018, torna la Sonnambula di Bellini in un nuovo allestimento affidato alla direzione del maestro Francesco Lanzillotta ed alla regia del collettivo Le Lab di Bordeaux guidato da due registi, Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil al debutto in Italia. Come loro abitudine l’opera viene ambientata nella città nella quale viene rappresentata e lo spettacolo inizia con un video nel quale la protagonista è una nubenda ospite dell’Hotel Quirinale di callassiana e forse non completamente serena memoria, in ansia perché certa e preoccupata che il promesso sposo giungerà sicuramente tardi il giorno delle nozze. Pare che questi poveri maschi di oggi non abbiano scampo neppure se devono portare un fiore sulla tomba della madre il giorno del matrimonio e siano in torto per principio ancor prima di aver sbagliato. Addormentatasi finalmente con una miscela di alcool e ipnoinducenti per fortuna in pochi minuti, sarà utile averne la ricetta, ha inizio la musica. L’opera è ambientata in una moderna e grigia galleria d’arte nella quale viene organizzata la festa nuziale e nel sogno della sonnambula si svolge la vicenda, con un immenso tavolo al centro che ruota in continuazione funzionando ora proprio da tavolo, ora da letto o da spazio altro e così via e con tre schermi sul fondale sui quali si alternano quadri della classicità esposti nei musei romani in versione originale e modernizzata e video della protagonista che per lo più vaga inquieta girando per Roma. Enorme poi lo sfoggio di particolari alcuni con intenzione simbolica altri francamente indecifrabili e forse solo di “libera” interpretazione. L’idea registica a nostro avviso in questo caso non ha funzionato e non per questioni di gusto personale ma per ragioni tecniche. L’Opera da Monteverdi ad oggi non è affatto un genere multimediale come va di moda dire e fare oggi o almeno non lo è sempre e soprattutto la quantità non fa necessariamente la qualità o quello che aiuta ad esprimere lo spirito di una partitura. Non è che Bellini non sapesse orchestrare o concertare, non vogliamo qui difendere la statura di un simile genio, ma in questa composizione la sua ricerca è stata volta al prosciugamento per sottrazione della scrittura musicale per affidare l’espressione alla sola, purissima linea melodica e dunque tutto ciò già confligge a priori con il concetto di multimedialità. Infine lo schiaffo di Amina nel finale primo, gli spintoni di Elvino e il conte Rodolfo in mutande trasportano la vicenda più a livello di una riunione di condominio della periferia romana, realtà emozionalmente assai lontana e comunque altra senza naturalmente addentrarsi in giudizi di valore rispetto alla infinitamente sfumata e soave poesia del luogo letterario della montagna svizzera. E veniamo alla parte musicale che, tutta di livello più che alto, nonostante le difficoltà pratiche della regia tipo mantenere la purezza della linea di canto stando in piedi su delle sedie traballanti, ha saputo esprimere lo spirito del canto belliniano con la dovuta elegante gentilezza. Il direttore maestro Francesco Lanzillotta ha offerto una concertazione chiara e lineare della partitura con una attenta cura dei particolari senza perder di vista l’architettura dell’insieme e cercando sempre un suono bello e rotondo anche nei fortissimo. Le linee melodiche infine sono state declinate con una infinità di intenzioni, colori ed esitazioni dando l’impressione, mutatis mutandis, di un pianista alle prese con i temi di Chopin. Magnifica la prova del coro diretto dal maestro Ciro Visco per chiarezza di dizione, intenzioni espressive, varietà di colori, precisione musicale e bellezza del suono nonostante alcuni momenti della regia non sempre ne abbiano favorito al meglio l’apprezzamento. Lisette Oropesa nel ruolo della protagonista ha offerto una interpretazione inappuntabile sul piano musicale ed espressivo raccogliendo un meritato successo personale grazie ad una disinvolta presenza scenica e ad una voce omogenea e compatta. Leggermente a disagio ma crediamo forse più per questioni contingenti che per i risultati oggettivi nel complesso molto buoni è apparso il tenore John Osborn. Il timbro non è probabilmente quello di un giovane ma l’eleganza del fraseggio musicale, la sicurezza degli acuti e la simpatia della presenza scenica hanno offerto un ritratto di Elvino credibile e piacevole. Splendido conte Rodolfo è stato il basso Roberto Tagliavini per bellezza del timbro vocale, fraseggio nobile, ampiezza di volume e chiarezza di dizione. Francesca Benitez ha tratteggiato una Lisa infelice e acidula con timbro volutamente adeguato e ottima precisione musicale. Infine Monica Bacelli è stata una Teresa attenta ed affettuosa, vera autorevole madre della protagonista a dispetto della brevità della parte. Bravi pure Alessio Rossi dall’ormai collaudato progetto “Fabbrica” del teatro e Giordano Massaro rispettivamente nelle parti di Alessio e del Notaro. Alla fine sentiti applausi per la parte musicale ma vivaci dissensi all’insegna di una regia tanto confusionaria quanto estranea allo spirito dell’opera.

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Venezia, Teatro La Fenice: “Mefistofele”

gbopera - Lun, 15/04/2024 - 12:57

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2023-2024
MEFISTOFELE”
Opera in un prologo, quattro atti e un epilogo. Libretto e musica di Arrigo Boito, dal dramma in versi “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe
Mefistofele ALEX ESPOSITO
Faust PIERO PRETTI
Margherita MARIA AGRESTA
Marta/Pantalis KAMELIA KADER
Elena MARIA TERESA LEVA
Wagner/Nereo ENRICO CASARI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del Coro Diana D’Alessio
Regia Moshe Leiser e Patrice Caurier
Scene Moshe Leiser
Costumi Agostino Cavalca
Light designer Christophe Forey
Video designer Étienne Guiol
Coreografia Beate Vollack
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 12 aprile 2024
“Noi siamo i figli dei padri ammalati: / aquile al tempo di mutar le piume, / svolazziam muti, attoniti, affamati, / sull’agonia di un nume. […] // Casto poeta che l’Italia adora, / vegliardo in sante visïoni assorto, / tu puoi morir!… Degli anticristi è l’ora! / Cristo è rimorto!”: sono due strofe della poesia Preludio – manifesto della scapigliatura milanese – , dove Emilio Praga denuncia la crisi di valori, che colpì la generazione successiva alla stagione romantico-risorgimentale, annunciando l’avvento degli Anticristi, i nuovi intellettuali dissacratori. Tra essi una posizione di rilievo spetta al giovane Arrigo Boito, che militò fra gli “scapigliati” milanesi, assumendone gli atteggiamenti più anticonformisti. Risale al 1862 L’ Ode saffica col bicchiere alla mano, recitata dal poeta ventunenne, durante una cena, per brindare “Alla salute dell’Arte Italiana! / Perché la scappi fuora un momentino / Dalla cerchia del vecchio e del cretino, / Giovane e sana. […] / Forse già nacque chi sovra l’altare / Rizzerà l’arte, verecondo e puro, / Su quell’altar bruttato, come un muro di lupanare”. Pubblicata su un periodico, suscitò la risentita reazione di Verdi: “Se anch’io fra gli altri ho sporcato l’altare, come dice Boito, egli lo netti, ed io sarò il primo a venire ad accendere un moccolo”, scrisse a Tito Ricordi. Animato da questa vis polemica l’autore concepì il Mefistofele: ne nacque un’opera sui generis, il cui libretto – con inserti di metrica “barbara” – è caratterizzato da una carica eversiva, dissacrante e innovatrice, nonché da un sottofondo di matrice massonica e gnostica, che glorifica l’Apocalisse dell’Anticristo, annunciata dai sette tuoni e dalle sette trombe del Prologo in Cielo. Rinnovando l’impianto e lo stile del libretto, Boito intendeva affrancare il melodramma dalla canonica suddivisione in pezzi chiusi, per giungere, valicando anche i tradizionali confini ritmici e armonici, a un rinnovamento del teatro musicale. Il primo Mefistofele (1868) era una monumentale provocazione di più di cinque ore con cui il battagliero scapigliato intendeva sfidare il pubblico. Il 5 marzo del ’68, al Teatro alla Scala, Boito fu fischiato, ma ricambiò gli spettatori con la stessa moneta, tramite il suo alter ego, Mefistofele, che nella Canzone “del fischio”, li investì col suo sibilante nichilismo, dopo aver ammesso nel Prologo in Cielo “il rischio / di buscar qualche fischio”. Questa prima, sfortunata versione fu poi sottoposta a successive revisioni – da quella rappresentata con successo nella “wagneriana” Bologna (1875) a quella proposta a Milano (1881) – dando origine all’opera che tutti conosciamo, in cui Faust, originariamente baritono, diviene tenore, mentre la durata si dimezza, in seguito a sostanziosi tagli. Un’opera dalla genesi così travagliata rappresenta una sfida per ogni regista. Ne erano consapevoli Moshe Leiser e Patrice Caurier, ideando la messinscena del capolavoro boitiano – tornato alla Fenice dopo cinquantacinque anni di assenza –, in cui Mefistofele, il personaggio principale, è l’alter ego dell’autore, che ne condivide lo sprezzante nichilismo. Un nichilismo, che si traduce visivamente, all’inizio dello spettacolo (Prologo in Cielo), in un palcoscenico pressoché vuoto, a parte una poltrona su cui il protagonista si siede, accendendo poi la televisione, ma – suprema ironia! – il telecomando difettoso gli consente di guardare esclusivamente una rete, CattoTv, non proprio a lui gradita. È un non-luogo, un teatro abbandonato, dove nulla viene rappresentato. Peraltro anche le scene successive – il giardino, il carnevale, i due sabba – non rappresentano luoghi reali, bensì allucinazioni provocate in Faust dalla droga, che Mefistofele gli inietta nel corso della stipula del patto demoniaco, a conclusione della domenica di Pasqua, dominata da una chiassosa partita di calcio. La Scena del giardino, in particolare, si svolge nello squallido scoperto di una Bier Stube, mentre il Sabba infernale è – come in altri allestimenti – una festa scatenata e sinistra. Originale il Sabba classico, grazie all’espediente del teatro nel teatro, con Elena primadonna accanto a un pianoforte senza pianista. Un po’ ingenua la simbologia dell’Epilogo, dove Faust attende la morte suonando il violoncello, a cercare nella musica l’estrema consolazione. All’efficacia dello spettacolo contribuiscono anche le scene dello stesso Leiser, le luci di Christophe Forey, i costumi di Agostino Cavalca, le proiezioni di Etienne Guiol e le coreografie di Beate Vollack. Quanto alla direzione musicale Nicola Luisotti, sorretto da un’orchestra sensibile e partecipe, ha offerto una lettura fondata su un’ampia gamma dinamica ed agogica, come richiede una partitura, in cui non mancano i contrasti, assecondando le scelte registiche come le esigenze dei cantanti, peraltro tutti in grado di confrontarsi anche con sonorità orchestrali ragguardevoli. Tra gli interpreti vocali, mattatore della serata è stato Alex Esposito – fattosi recentemente apprezzare alla Fenice nei Contes d’Hoffmann in apertura della corrente Stagione lirica – confermandosi interprete di riferimento nei ruoli diabolici. Anche come Mefistofele ha coniugato una notevole presenza scenica a eccellenti doti vocali e interpretative: brillantezza del timbro, potenza dell’emissione, chiarezza del fraseggio, intensa espressività. Si è fatto onore anche Piero Pretti, che con voce analogamente potente e timbrata ha offerto un Faust pacato anche nel gesto, brillando nelle espansioni liriche. Un po’ sotto tono nella scena della prigione (lieve défaillance in “L’altra notte in fondo al mare”) è apparsa Maria Agresta, che comunque ha tratteggiato una Margherita nel complesso credibile. Ottime prestazioni hanno offerto Maria Teresa Leva (Elena), Kamelia Kader (Marta/Pantalis) ed Enrico Casari (Wagner/Nereo). Ottimi i due Cori: quello feniceo, guidato da Alfonso Caiani e i Piccoli Cantori Veneziani istruiti da Diana d’Alessio. Entusiastico successo personale per Alex Esposito.

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Bologna, Comunale Nouveau: “Macbeth”

gbopera - Dom, 14/04/2024 - 17:08
Bologna, Comunale Nouveau, Stagione d’Opera 2024 “MACBETH” Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei da William Shakespeare Musica di Giuseppe Verdi Macbeth ROMAN BURDENKO Banco RICCARDO FASSI Lady Macbeth EKATERINA SEMENCHUK Dama Lady Macbeth ANNA CIMMARRUSTI Macduff ANTONIO POLI Malcom MARCO MIGLIETTA Il medico KWANGSIK PARK Un domestico di Macbeth/Il sicario/L’araldo GABRIELE RIBIS Prima apparizione SANDRO PUCCI Seconda apparizione CHIARA SALENTINO Terza apparizione BENEDETTA ZANETTI OLIVA (CVB) Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna Direttore Daniel Oren Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Preparatore voci bianche Alhambra Superchi Regia Jacopo Gassmann Scene Gregorio Zurla Costumi Gianluca Sbicca Luci Gianni Staropoli Video Marco Grassivaro Movimenti scenici Marco Angelilli Nuovo allestimento del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 12 aprile 2024

La caldaia è scomparsa”, quella delle streghe: ma c’è quella in eterna ebollizione di Oren, magica del pari. Inconfondibile il suo apporto alla qualità del suono: corposo, avvolgente, luccicante. E l’ineguagliato fraseggio: il legato regna, soffice e dolce, su cantabili sdilinquimenti e infiammati fervori di cabalette. Con la sua sincera, inestinguibile passione. Il momento più alto della serata è Patria oppressa: merito anche del Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, che conserva sempre vigore e compattezza, eleganza e morbidezza. Del resto il Macbeth è straordinario davvero, fatto com’è di convivenze fiorentine del ‘47 e parigine (seppur volte in italiano) del ‘65. Sarebbe un affascinante gioco intellettuale metterne in luce le differenze: Oren invece avvolge tutto in levigate tinte fosche, infondendo un sorprendente senso di organicità all’opera. La luce langue, per esempio, non sembra più una strana cometa novecentesca, apparsa per caso nella tempestosa volta del giovane Verdi. Il cast, di prim’ordine, è stato molto festeggiato dal pubblico. Ekaterina Semenchuk ha un bel volume da un capo all’altro della tessitura, con esiti piuttosto impressionanti nel registro grave: ricorrendo all’uso, e non all’abuso, della cosiddetta risonanza di petto. La dizione è cartavetrata di cattiveria, e nel timbro si scorge talvolta un velo d’acidità che giova al personaggio: perché soprattutto qui c’è l’interprete. Di grande efficacia la spedizione, condottiero Oren, agli estremi confini del pianissimo, del senza suono. In tale audace impresa il protagonista resta un passo indietro. Roman Burdenko ha voce di grande morbidezza, ben timbrata, e solida: insomma canta assai bene. Ma forse in un ruolo così il canto è, come dire?, quasi secondario. È l’accento, l’inflessione, l’attitudine, l’intenzione della parola a fare il personaggio, più ancora della linea di canto. Riccardo Fassi è un cantante di riguardo: basso autentico, senza esitazioni baritonali, dalla voce già completa ma destinata ad un ulteriore sviluppo, con impeccabile proiezione del suono e splendida dizione, quel che si dice “canto sul fiato”. Quella di Antonio Poli è un’altra natura vocale di valore, con quella tenorile baldanza e quel piglio scattante che si conviene a questo repertorio. Con lui duetta vivacemente Marco Miglietta nella trascinante cabaletta che smuove il pubblico e la foresta di Birnamo. Nella scena del sonnambulismo i brevi ma decisivi interventi del medico e della Dama della Lady sono stati sostenuti con ottima dizione e proprietà espressiva da Kwangsik Park e Anna Cimmarrusti. La regia di Jacopo Gassman, al suo debutto all’opera, è intellettualmente assai raffinata. Ha il pregio ed insieme il limite di servirsi della grammatica teatrale che domina con maestria: quella del cosiddetto teatro di regia. I cappotti doppiopetto, gli anfibi, i mantelli, i colori simbolici, qualche sedia, le coroncine ritagliate nella carta: tutti elementi chiaramente leggibili ma che forse non esaudiscono appieno tutte le necessità del teatro musicale, quello che della forma fa il principale contenuto, e dove se non importa più di tanto cosa si dicano è perché importa come se lo dicono. Lo spettacolo, scene di Gregorio Zurla e costumi di Gianluca Sbicca, è molto sobrio, di un’eleganza fin scarna nella sua pulizia. Ma si imperna su un’intuizione a dir poco geniale: i sipari. Così si sfrutta l’esasperata orizzontalità del Nouveau con uno strumento semplice ma di grande efficacia teatrale. Velare e disvelare: un gioco vecchio come il teatro, ma proprio perché squisitamente teatrale funziona più e meglio di mille led-wall.

 

 

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Seconda Domenica dopo Pasqua

gbopera - Dom, 14/04/2024 - 00:35

Per la seconda domenica dopo la Pasqua, Bach ci ha lasciato 3 Cantate. La seconda, in ordine di tempo, è quella che porta il numero di catalogo BWV 85, “Ich bin ein guter Hirt (“Io sono un buon Pastore”), eseguita la prima volta a Lipsia, il 15 aprile 1725. Impostata su testi di Cornelius Becker (1561-1604), di Christoph Homburg (1605-1681) e di Anonimo, come per la Cantata  BWV 104, che abbiamo già trattato,  questa partitura  ruota attorno al tema del Buon Pastore, questa volta concentrandosi sul sacrificio che l’amore di Cristo ha compiuto per noi. Un sentimento che viene espresso già dal tono malinconico dell’aria d’apertura, affidata al Basso (nr.1 – “Io sono un buon Pastore”) che vede la presenza di un’oboe concertante che esprime un tema malinconico su una  contromelodia degli archi.  Questo sentimento di sacrificio del Pastore, è ribadito nella successiva aria, affidata alla voce di Contralto (Nr.2 – Gesù un buon Pastore”). Anche qui spicca il dialogo, dai toni più virtuosistici, tra la voce e uno strumento concertante, in questo caso un Violoncello piccolo. Su un movimento di trio-sonata, per 2 oboi e Continuo, si inserisce la voce del Soprano che intona il Corale di Becker (Nr.3 – “Il Signore è il mio fidato Pastore”), basato sul Salmo 23. Al nr.4, un espressivo recitativo accompagnato per tenore (“Quando i mercenari dormono”) che porta alla successiva aria (Nr.5 – “Contemplate l’amore cosa fa”), affidata alla stessa voce del tenore. Il canto e gli archi esprimono un senso di gioia e dolcezza verso l’amore di Cristo. Al classico Corale (Nr.6 – “Se Dio è mio Pastore e fidato Pastore”) la chiusura della Cantata.
Nr. 1 – Aria (Basso)
Io sono un buon pastore,
un buon pastore dona la propria vita per le sue pecore.
Nr.2 – Aria (Contralto)
Gesù è un buon pastore;
Poiché egli ha già donato
La sua vita per le sue pecore,
Nessuno potrà rubargliela.
Gesù è un buon pastore.
Nr.3 – Aria/Corale (Soprano)
Il Signore è il mio fidato pastore,
Nel quale io confido pienamente,
Mi porta, sua pecorella, a pascermi
Su verdi pascoli erbosi,
A fresche acque mi conduce,
Per ristorare con forza la mia anima
Con la beata parola della Grazia.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Quando i mercenari dormono,
Il buon pastore vigila sulle sue pecore,
Così che ciascuna
Nella pace possa godere dei pascoli,
Nei quali scorrono torrenti di vita.
Poiché se il lupo infernale provasse ad entrarvi,
Per divorare le pecore,
Il buon pastore terrebbe a bada la sua furia.
Nr.5 – Aria (Tenore)
Contemplate l’amore cosa fa.
Il mio Gesù tiene ben riparati
I suoi in sicura custodia
E ha versato per loro il suo prezioso sangue
Sul legno della croce.
Nr.6 – Corale
Se Dio è mio rifugio e fidato pastore,
Nessuna sciagura mi potrà colpire:
Fuggite tutti, o miei nemici,
Voi che mi causate paura e dolore,
Questa sarà la vostra perdizione,
Perchè io ho Dio come amico.
Traduzione Alberto Lazzari

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Ich bin ein guter Hirt” BWV 85

 

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Roberta Invernizzi: “Arias for Anna Renzi the first opera diva”

gbopera - Sab, 13/04/2024 - 16:29

Claudio Monteverdi: “Disprezzata regina” (“L’incoronazione di Poppea”); Antonio Cesti: “Sinfonia”, “S’un guardo mi vinse(“Argia”); Luigi Rossi: “Passacaglia del Signor Luigi”; Giovanni Paolo Cima: “Sonoata due, violino e violone”; Filiberto Laurenzi: “O cara libertà” (“Concerti ed arie”); Girolamo Frescobaldi: “Canzo prima a basso solo” (“Canzoni da sonora ad una due tre quattro con il Basso Continuo”); Giovanni Ceresini: “Simulacro d’amore”; Antonio Cesti: “Ecco l’alba che ridente” (“Argia”); Filiberto Laurenzi: “Spero, aspetto e non viene”, “Per far nascere un Chirone”, Stolta Melanto ignuda” (“La finta savia”). Roberta Invernizzi (soprano); Lucia Cortese (soprano), Ensemble Sezione Aurea, Filippo Pantieri (direttore e maestro al cembalo). Registrazione: Sala dell’Arengo del Castello Malatestiano di Longiano (FC), dicembre 2017. 1 CD Brilliant Classics 96716
Cosa sarebbe stata l’opera lirica senza il divismo? Senza le prime donne capaci di creare attorno a se un’aura persino superiore alle proprie qualità effettive? Probabilmente un fenomeno molto più marginale e meno capillarmente diffuso di quello che fu dalla metà del Seicento a quella del Novecento. Un nuovo cd Brilliant ci porta sulle tracce della prima vera diva della storia dell’opera lirica, la romana Anna Renzi (1620 – dopo il 1662) allieva di Laurenzi, prediletta da Monteverdi e autentica dominatrice della scena lirica veneziana intorno alla metà del Seicento quando la città lagunare aveva saputo trasformare gli sperimentalismi accademici e cortesi in un genere di ampio consumo. La Renzi ci appare come archetipo di tutte le dive future. Autentica virtuosa – con lei il recitar cantando comincia sempre più ad animarsi di quei passaggi di bravura che alla fine del secolo porteranno all’affermazione del belcantismo barocco – artista sensibile e convincente, figura scenica affascinante “una suavissima Sirena, che dolcemente rapisce gli animi, e alletta gli occhi, e l’orecchie degli ascoltanti” come la definisce nel 1641 Giulio Strozzi. Il gran numero di dediche da parte di musicisti, poeti e amatori delle arti documentano l’enorme popolarità di cui godeva la Renzi.

A dar voce alla prima diva è Roberta Invernizzi, specialista assoluta di questo repertorio, accompagnata dall’Ensemble Sezione Aurea. La compagine orchestrale impone al prodotto il proprio taglio in modo assai evidente. Si tratta di una formazione molto ridotta, composta quasi solo di solisti che quindi concentra la propria attenzione sul gioco delle singole sonorità. L’approccio è molto rigoroso, non si procede a integrare le scarse indicazioni presenti sulle partiture – normalmente intese come linee guida da adattare caso per caso – ma le realizza in modo rigoroso. In totale la compagine strumentale conta di otto elementi sotto la guida di Filippo Pantieri nel doppio ruolo di direttore e maestro al cembalo.
Il programma si apre con “L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, opera della definitiva affermazione della Renzi la cui prima vide la cantante romana impegnata in ben tre ruoli (Ottavia, Drusilla e Virtù) accomunati da tratti simili di scrittura e mai presenti congiuntamente in scene. La scelta cade qui sul lamento di Ottavia “Disprezzata regina” dove la Invernizzi sfoggia una dizione autorevole e autenticamente tragica anche se forse un poco più di dolcezza non avrebbe guastato.
Troviamo poi una serie di arie e canzoni tratte da opere di Cesti e Laurenzi compreso il duetto “Ecco l’alba che ridente” dall’”Argia” di Cesti (1655) in cui la Invernizzi è affiancata da Lucia Cortese membro dell’Ensemble. I brani dell’”Argia” testimoniano la rapida evoluzione del gusto. L’impostazione è tradizionale e non manca di senso drammatico ma il gusto prettamente musicale, la piacevolezza melodica e la presenza sempre più massiccia di fiorettature sono il segno di un’evoluzione cui le doti vocali della Renzi non devono essere state estranee.
La voce della Invernizzi è molto solida, sicura su tutta la linea e facile nelle colorature. Si nota qualche asprezza ma nel complesso non disturba e quasi si adatta al carattere di certi brani. La dizione è sempre molto chiara, elemento fondamentale in questo repertorio.

Il programma è chiuso da tre arie da “La finta savia” di Filiberto Laurenzi del 1643. Il clima è totalmente diverse, prevale qui un taglio gusto e brillante, una sincera alla gioia del fare musica e di farla ascoltare che non può lasciare indifferenti e rende assai curiosi di poter ascoltare integralmente quest’opera così come altri lavori del compositore emiliano. La scrittura vocale è qui particolarmente ricca e brillante, Laurenzi sapeva come esaltare al massimo le qualità della sua alleva e farla brillare nel migliore dei modi.
Mancano estratti da alcuni dei maggiori successi della Renzi come “La finta pazza” di Sacrati e il “Bellerofonte” di Sartori. Il cd è completato da una serie di brani strumentali sia per clavicembalo solo – particolarmente apprezzabile per il suo virtuosismo “Simulacro d’amore” di Ceresini – sia per gruppi strumentali variabili. Si tratta di composizioni di Cesti, Cima e Frescobaldi che vanno da divisione tra i brani cantati e contribuiscono a creare il clima sonoro del tempo.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Villa Bonaparte: un Portale Aperto sull’Eleganza e la Storia

gbopera - Ven, 12/04/2024 - 20:00

Roma, Villa Bonaparte
VILLA BONAPARTE: UN PORTALE APERTO SULL’ELEGANZA E LA STORIA

Nel cuore di Roma, adagiata contro le antiche Mura Aureliane, sorge Villa Bonaparte, un elegante edificio settecentesco circondato da un giardino rigoglioso, situato tra Porta Salaria e Porta Pia. Attualmente dimora dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, questa villa nasconde tra le sue mura una storia profondamente intrecciata con gli eventi che hanno segnato l’unificazione dell’Italia. È qui, infatti, che la storia d’Italia ha compiuto uno dei suoi passi più decisivi: il 20 settembre 1870, quando i bersaglieri dell’esercito italiano, guidati dal generale Raffaele Cadorna, varcarono quelle mura creando la celebre breccia di Porta Pia, simbolo dell’ingresso di Roma nell’Italia unita. Un episodio storico che ha visto Villa Bonaparte, all’epoca proprietà di Paolina Bonaparte, vivace sorella del noto condottiero francese Napoleone, al centro di un evento fondamentale per la nazione. Grazie all’iniziativa di Sua Eccellenza la Sig.ra Florence Mangin, Ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, Villa Bonaparte è ora accessibile ai cittadini di Roma, offrendo un tuffo nel tempo in un luogo che unisce storia e cultura. Aprire un’ambasciata a visite non è affatto scontato, soprattutto in tempi così difficili. Questo sforzo sottolinea la cooperazione franco-vaticana e l’impegno condiviso per il patrimonio culturale, arricchendo la vita culturale di Roma e promuovendo il dialogo interculturale. Accessibile attraverso due ingressi principali, su via XX Settembre e via Piave, la villa accoglie i visitatori per tour guidati su prenotazione, permettendo di esplorare non solo l’architettura e gli splendori interni, ma anche di immergersi nella ricca storia che ha plasmato l’identità stessa del luogo. Ripercorrendo le vicende di Villa Bonaparte, ci troviamo a viaggiare indietro nel tempo fino all’epoca romana, quando l’area era sfruttata dai nobili per le loro coltivazioni. La trasformazione del sito in quello che oggi conosciamo inizia veramente nel XVIII secolo, quando il Cardinale Silvio Valenti Gonzaga, Segretario di Stato di Papa Benedetto XIV, ne fece l’acquisto, dando vita alla costruzione dell’edificio che sarebbe poi divenuto uno dei primi esempi di architettura neoclassica a Roma. Erigendosi maestosamente al centro di un vasto giardino, la Villa si impone all’osservatore con la sua inconfondibile compostezza espressiva, una manifestazione di linearità e di una sobria eleganza formale e decorativa che si distanzia audacemente dallo sfarzo tardo-barocco dominante nell’ambiente urbano dell’epoca, anticipando invece le future correnti neo-rinascimentali che avrebbero trovato piena espressione nell’era del neoclassicismo. Durante il periodo di residenza del cardinale Valenti Gonzaga, la Villa si trasformò in un vero e proprio scrigno di meraviglie artistiche, luogo d’incontro prediletto da figure preminenti del panorama culturale, artistico e scientifico di quel tempo. Gli ambienti interni, sia quelli del piano terra che quelli del piano nobile, erano arricchiti da una selezione di parati di provenienza cinese, opere pittoriche, preziose porcellane, e vari oggetti d’arte orientale, oltre a strumentazioni scientifiche e meccaniche, che insieme conferivano agli spazi il fascino di una wunderkammer, una camera delle meraviglie di inestimabile valore. Tra le invenzioni più sorprendenti vi era un tavolo meccanico, capace di ascendere dalle cucine fino alla sala da pranzo attraverso un complicato sistema di meccanismi, destando stupore e ammirazione tra gli ospiti del cardinale. Il giardino che abbracciava dolcemente la Villa si presentava arricchito da fontane scintillanti e da un’ampia varietà di piante esotiche, creando un’oasi di serenità e bellezza che invitava alla contemplazione e al riposo dell’anima. Questo meraviglioso spazio verde, insieme all’elegante architettura della Villa e ai tesori che custodiva all’interno, costituiva un rifugio di rara bellezza, un luogo dove l’arte e la natura si fondevano in un’armonia perfetta, riflettendo lo spirito illuminato e la sofisticata sensibilità del suo illustre proprietario. Affascinato dall’arte in tutte le sue forme, Valenti Gonzaga seppe circondarsi di una collezione che annoverava oltre ottocento pezzi, testimonianza della sua inesausta ricerca della bellezza e del sapere. Tra le opere che celebrano la sua passione, spicca un dipinto del 1740, opera del maestro Giovanni Paolo Pannini. In questa tela di notevole fascino, l’artista dà vita a una galleria immaginaria, un luogo fuori dal tempo dove fanno bella mostra di sé centocinquanta capolavori che un tempo abbellivano le stanze del cardinale. Particolarmente significativa è la scena raffigurata nella porzione sinistra del dipinto, dove alcuni eruditi sono intenti nello studio della pianta architettonica della Villa, all’epoca ancora un sogno nel cassetto, un progetto in attesa di concretizzarsi. Dopo il passaggio di proprietà tra vari nobili, fu Paolina Bonaparte, nel 1816, a trasformare la villa in una dimora di grande eleganza, riflettendo i gusti dell’epoca con il suo intervento di restauro. Sotto la proprietà Bonaparte, e successivamente, la villa ha attraversato diversi cambi di mano, fino a quando, nel dopoguerra, divenne proprietà dello Stato francese, stabilendosi come sede dell’Ambasciata presso la Santa Sede. Ogni angolo di Villa Bonaparte, dai lussureggianti giardini ridimensionati rispetto alla loro estensione originaria, alla cappella con stucchi voluti dal Cardinale Gonzaga, fino all’imponente ingresso e agli interni decorati con gusto neoclassico, narra storie di nobiltà, intrighi politici e profondi cambiamenti sociali. La villa, oggi, non è solo un pezzo di storia italiana e francese, ma un luogo dove l’arte, l’architettura e la diplomazia si fondono, offrendo ai visitatori un’esperienza unica. Dal Grand Salon con le sue decorazioni settecentesche riscoperte, alla sala da pranzo sempre pronta con le sue porcellane di Sèvres, fino alla camera da letto utilizzata per accogliere ospiti illustri come i presidenti Emmanuel Macron e Joe Biden, Villa Bonaparte si rivela un tesoro nascosto nel cuore di Roma, custode di una storia che ha attraversato secoli. La possibilità di visitare questo luogo storico, percorrendo i suoi saloni e i giardini, rappresenta non solo un viaggio nel passato, ma anche un momento di riflessione sul cammino che ha portato all’Italia di oggi. Villa Bonaparte, con la sua eleganza e la sua storia, continua a essere un punto di incontro tra culture, un ponte tra passato e presente, e una testimonianza vivente dell’arte di accogliere e di celebrare la storia. Villa Bonaparte è visitabile solo con visita guidata, acquistata esclusivamente attraverso questo sito internet: clicca qui. Photocredit@UfficioStampaAmbasciatadiFranciapressolaSantaSede

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Milano, Teatro Elfo-Puccini: “Giorni Felici”

gbopera - Ven, 12/04/2024 - 10:12

Milano, Teatro Elfo-Puccini, Stagione 2023/24
GIORNI FELICI”
di Samuel Beckett
Traduzione Gabriele Frasca
Winnie ELENA RUSSO ARMAN
Willie ROBERTO DIBITONTO
Regia Francesco Frongia
Scene e costumi Ferdinando Bruni
Luci Roberta Faiolo
Suono Lorenzo Crippa
Produzione Teatro dell’Elfo in accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di Curtis Brown Group Ltd
Milano, 07 aprile 2024
Altrove ci siamo espressi (non senza un tocco polemico) in maniera assai cauta circa le possibilità dell’opera beckettiana oggi, in riferimento ad “Aspettando Godot“. La medesima perplessità, naturalmente, dovrebbe sorgerci per “Giorni felici“, anzi: considerata la natura assolutamente antiteatrale di questo testo, occorre partire, nel giudicarne la realizzazione, proprio da questi limiti oggettivi e dalla loro possibile ricezione presso il pubblico contemporaneo. Tuttavia, c’è un aspetto che “salva“ “Giorni felici“, ossia il fatto che fin dalla sua prima pubblicazione esso abbia rivelato in pieno tutte le caratteristiche del pezzo di bravura per attrice, caratteristiche che, inevitabilmente, l’altro testo non possiede. In poche parole: mentre in “Aspettando Godot“ il talento degli attori sembra passare del tutto in secondo piano, in “Giorni felici“ esso si rivela l’unico cardine su cui si possa imperniare una messa in scena. Ecco, allora, che la scelta dell’interprete di Winnie diventa essenziale e il regista si deve riscoprire pedagogo teatrale, se intende lasciare davvero la sua firma sullo spettacolo. Arriviamo, dunque, alla produzione del Teatro dell’Elfo di Milano correntemente in scena: essa rispetta chiaramente questi due fondamentali, portando in scena il talento adamantino e rutilante di Elena Russo Arman, interprete certamente più a suo agio col drammatico che col comico, ma che nel ruolo grottesco e tentacolare della vecchia Winnie si riscopre ultrasfaccettata, generosa nel darsi e ancor più nel ritrarsi, capace di intessere una rete di silenziosi rimandi all’interno dell’ intreccio più grande di luoghi comuni e ripetizioni ossessive concepito da Beckett. Francesco Frongia, dal canto suo, vuole calcare la mano sul grotesque e sull’aspetto intimamente kitsch di tutta la pièce – vane e stucchevoli quelle produzioni che ne vogliono invece sottolineare i valori, la trappola dell’incomunicabilità ed altre amene sciocchezzuole pseudointellettuali: “Giorni felici” appartiene molto più al kitsch, inteso nella sua forma più alta, postmoderna (arbasiniana, per intenderci), che al teatro dell’assurdo tout court cui i critici vogliono sempre relegarlo, e vivaddio Frongia l’ha capito, e in sana combutta con Ferdinando Bruni crea una scena da cartoon americano Anni Sessanta, con nuvole attaccate con lo scotch e colori lisergici, cui manca solo un roadrunner di passaggio. Winnie è la regina di questo cattivo gusto così pop, bionda bambola senza fascino, si lava i denti, si annusa le ascelle, si preoccupa della cofana che ha in testa, e intanto sciorina versi degli elisabettiani assieme a ricordi zuccherosi e discorsi mortiferi. Il ruolo mostruoso di Winnie è pericolosamente affine a certi ruoli di Tennessee Williams (Alma di “Estate e fumo”, Amanda de “Lo zoo di vetro”, persino Violet di “Improvvisamente, l’estate scorsa”), e come loro la protagonista di “Giorni felici” è un vulcano in costante eruzione, per questo è inglobata in un monte dalla vita in giù: ella stessa è un’esplosione, di rimorsi e rimpianti, di scuse e accuse, di vita. Il finale, dunque, non va preso in maniera tragica, ma con la leggerezza che ha contraddistinto tutta la magnifica, impeccabile prova della Russo Arman: si muore un po’ tutti i giorni, non solo in quel giorno specifico cui assistiamo; la metateatralità è tale che ci rassicura il finale di questi “Giorni felici”, augurandoci un po’ di pace per la cara Winnie e il caro Willie – a proposito: Roberto Dibitonto è l’efficace interprete di un personaggio tanto complesso che alcune produzioni pavidamente eliminano, riducono a voce registrata; bene Frongia che, invece, ce lo regala come il testo vuole, insondabile relitto postumano cui anche il linguaggio risulta inutile, paradossale specchio della moglie, implacabile mascolino sempre a cavallo tra oppresso e oppressore. Lo spettacolo in sé è questo spasmodico anelito di pace, paradossalmente incarnato nella paralisi delle nostre coscienze (Winnie), a loro volta sottratte a un sistema di valori putrescente (Willie); la vera sorpresa è che lo spettatore non possa smettere di guardarlo per un secondo. Foto Laila Pozzo

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Roma, Teatro dell’Opera: “La Sonnambula” Cast alternativo

gbopera - Gio, 11/04/2024 - 23:59

Roma, Teatro dell’Opera
“LA SONNAMBULA”
Melodramma in due atti con libretto di Felice Romani, basato sul balletto-pantomima La sonnambule, ou l’arrivée d’un nouveau seigneur di Eugène Scribe
Musica Vincenzo Bellini
Lisa FRANCESCA BENITEZ
Alessio MATTIA ROSSI*
Amina RUTH INIESTA
Teresa MONICA BACELLI
Il Notaro LEONARDO TRINCIARELLI
Elvino MARCO CIAPONI
Il Conte Rodolfo MANUEL FUENTES
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia, Scene e Costumi Jean-Philippe Clarac & Olivier Deloeuil “LE LAB”
Drammaturgia Luc Bourrousse
Video Pascal Boudet e Timothée Buisson
Graphic Design Julien Roques
* Dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 11 Aprile 2024
Nella rinomata cornice del Teatro dell’Opera di Roma, la produzione della Sonnambula di Vincenzo Bellini continua a catturare l’attenzione del pubblico con l’alternanza di due cast distinti. Il fulcro del nostro approfondimento verte, quindi, sull’elemento più dinamico e potenzialmente trasformativo di questa produzione della Sonnambula al Teatro Costanzi: gli interpreti. Ogni voce porta con sé un timbro unico, un’intensità e una capacità espressiva che possono variare significativamente l’atmosfera di un’opera, la percezione dei personaggi e, di conseguenza, la reazione del pubblico. Nel caso della Sonnambula al Costanzi, l’alternanza dei cast si traduce in una doppia opportunità di scoperta per gli spettatori: quella di ascoltare le celebri melodie belliniane sotto nuove luci interpretative e quella di assistere a un rinnovato dialogo emotivo tra i personaggi. Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil hanno adottato un approccio innovativo, concentrandosi sull’introspezione del personaggio di Amina piuttosto che sull’epifania del suo risveglio, un elemento che emerge già dall’ouverture. La messinscena, collocata nella Galleria Elvezia, una struttura pop-up all’interno del teatro, guida il pubblico in un viaggio attraverso il complesso universo onirico di Amina, con l’ausilio di riprese video realizzate in una camera d’albergo e nel Palazzo Barberini. Numerosi sono i riferimenti artistici nei pannelli di sfondo: dalla “Fornarina” di Raffaello alla “Vestale Tuccia” di Corradini, passando per il “Cristo Velato” di Giuseppe Sanmartino e arrivando alla “Maddalena Penitente” di Charles Mellin. Questa scelta registica offre una nuova dimensione all’opera, puntando su un’interpretazione più intima e psicologica e che tenta di creare un dialogo visivo ricco di affascinazione. Il collettivo Clarac-Deloeuil, noto per il suo approccio multidisciplinare e per l’integrazione di questioni socio-politiche nelle sue produzioni, ha introdotto numerose innovazioni per rinfrescare la narrazione. Tra queste, la reinterpretazione di personaggi come Lisa, che contrasta la fragile innocenza di Amina, creando una tensione narrativa significativa. Questi elementi modernizzanti, tuttavia, hanno ricevuto un’accoglienza mista dal pubblico, abituato a interpretazioni più tradizionali dell’opera belliniana, culminando in numerosi chiacchiericci di disapprovazione durante la recita. La direzione di Francesco Lanzillotta porta in luce l’eleganza nascosta della musica di Bellini, mostrando una sensibilità unica nell’esplorare le dinamiche e le sfumature timbriche. La revisione critica dell’opera sottolinea la necessità di un approccio rifinito e consapevole, liberando la composizione dalle modifiche eccessive e dalle abitudini consolidate negli anni. In questa chiave di lettura, l’orchestra assume un ruolo cruciale, non solo supportando le voci ma arricchendole, integrando le melodie con colori e dettagli sottili. Questa sinergia tra voce e strumenti, arricchita dalle variazioni ritmiche e dalle pause che Lanzillotta infonde con maestria, culmina in momenti di pura emozione, dimostrando la profondità e la complessità dell’opera di Bellini. La performance del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, sotto la direzione attenta e infaticabile di Ciro Cisco, ha brillato in una dimostrazione di talento e competenza. Ruth Iniesta, nel ruolo di Amina, dimostra evidenti competenze vocali caratterizzate da una notevole agilità e potenza, unite a una profonda padronanza tecnica. La sua capacità di modulare con precisione la dinamica vocale, spaziando abilmente tra delicatezza dei filati e l’intensità dei fortissimi, nonché attraverso tutti i gradi intermedi, evidenzia una tecnica raffinata e una versatilità notevole. In aggiunta, il suo fraseggio è eseguito con un’intelligenza musicale che contribuisce a una resa emotiva abbastanza intensa e sfaccettata, mentre la sua presenza scenica (compatibilmente con le scelte registiche) è marcata da un’autorevolezza e una convinzione che rafforzano ulteriormente la sua interpretazione. Manuel Fuentes ha dato vita al Conte Rodolfo con una performance vocale di spicco, caratterizzata da una maturità e una dolcezza cantabile che hanno raggiunto il loro apice nell’aria “Vi ravviso o luoghi ameni”. Al suo fianco, Marco Ciaponi nel ruolo di Elvino ha dimostrato una sicurezza e un’intensità notevoli, affrontando con coraggio l’intero arco narrativo del personaggio, nonostante alcuni momenti in cui la brillantezza della sua voce abbia leggermente vacillato. Francesca Benitez, vestendo i panni di Lisa, ha lasciato il pubblico a bocca aperta con una presenza scenica audace e aggressiva, arricchita da una qualità vocale pressoché impeccabile, fatta eccezione per rare imperfezioni nell’aria d’apertura. A completare questo quadro, Monica Bacelli ha interpretato il ruolo di Teresa, distinguendosi per un’ottima dizione e una credibilità scenica di rilievo. Il pubblico ha riservato appalusi ai cantanti e al direttore d’orchestra, ma ha reagito con disapprovazione alla regia. Questa dicotomia suscita una riflessione. Nell’ambito della regia teatrale, l’obiettivo non è mai stato quello di rimanere nell’ombra o passare inosservati. Al contrario, l’aspirazione è sempre stata quella di lasciare un’impronta indelebile, non tanto attraverso stratagemmi visivi eclatanti o manipolazioni audaci del materiale originale, ma piuttosto mediante la capacità di illuminare le profondità nascoste di un personaggio, di svelare i sottintesi intricati e di navigare le complessità di una situazione con sensibilità e intelligenza. L’arte della regia, quindi, si misura nella sua capacità di rendere comprensibile l’incompreso, di dare voce all’inaudito, senza mai stravolgere l’essenza del testo per mero vezzo di modernità o nostalgia del passato. È in questo equilibrio delicato e rispettoso che una regia si distingue, diventando un ponte tra l’opera e il suo pubblico, una guida che conduce alla comprensione senza mai perdere di vista l’autenticità e la sincerità dell’interpretazione.  Nel caso specifico, pur non brillando per estetica, la regia non ha compromesso l’integrità del linguaggio musicale, il che non è affatto trascurabile. Photocredit@Fabrizio-Sansoni Teatro dell’Opera di Roma.

Categorie: Musica corale

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