Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2024-2025
“COSÌ FAN TUTTE”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Fiordiligi MARIA MUDRYAK
Dorabella LILLY JØRSTAD
Guglielmo JIRI RAJNIS
Ferrando ANTONIO MANDRILLO
Despina FRANCESCA CUCUZZA
Don Alfonso EMANUELE CORDARO
Orchestra Filarmonica del Teatro Comunale di Modena
Coro Lirico di Modena
Direttore Aldo Sisillo
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Stefano Vizioli
Scene e costumi Milo Manara
Luci Nevio Cavina
Nuovo allestimento in Coproduzione Fondazione Pergolesi Spontini, Teatro Verdi di Pisa, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Teatro Sociale di Rovigo e Opéra-Théâtre Eurométropole de Metz
Modena, 30 novembre 2024
Così fan tutte o, per gli amici, “il Così”, ovvero il trionfo della forma: compendio inarrivabile, esemplare e definitivo di quanto delizioso, svagato, raffinato e saggio abbia saputo essere il Settecento europeo, musicale e non. Ottimamente gli si addicono le tinte pastellate degli acquerelli di Milo Manara, le cui leggere linee vanno svincolandosi fra nuvolette olimpiche, tenere ninfe e turgidi dèi. Il ciclo, di cui a Modena si possono ammirare gli originali, esposti in una bella e pratica mostra al Museo della Figurina, a due passi due dal Comunale, si attiene ad un programma iconografico rigorosamente classico: gli amori dell’infaticabile Giove campeggiano in tondi medaglioni sospesi fra i gorgoglianti riccioli del siparietto, putti giocherelloni aleggiano sulla trasparenza di un tulle, mentre sul fondale le onde si rincorrono azzurrissime e le nuvole si gonfiano voluttuose. La quintatura all’italiana è invece decorata con scene di ninfe, satiri, centauri e, sull’arlecchino di boccascena, dagli dèi al completo, che si sporgono curiosi dalle loro nuvolette per spiare lo spettacolo. In uno stile grafico e contemporaneo che tuttavia dialoga affabilmente con le più stravaganti assurdità decorative del rococò. Graziosissimo, insomma, e, quel che più conta, pertinente. Dentro questa scatola di eterea astrazione si muove, senza agitarsi, una regia, quella di Stefano Vizioli, dalla narrazione piana e garbata. Più d’un omaggio rende ai mitologici Hampe, Ponnelle, e Strehler (postumo): ma, d’altra parte, come sarebbe possibile discostarsi da spettacoli davanti ai quali non si può far altro che esclamare convinti “è così!”? Quando un’idea è giusta, riprenderla non è delitto: è dovere. Accanto al Coro Lirico di Modena diretto da Giovanni Farina, relegato nei palchi di barcaccia, a farla da protagonista con la sua brillantissima prova è la Filarmonica di Modena, ora del Teatro Comunale di Modena, qui diretta da Aldo Sisillo. Che concerta con nitido rigore, prediligendo tempi sapidi e mossi, cui garantisce sempre quell’elasticità ch’è vitale, e optando per tinte belle vivaci e sgargianti. Sollecito, generoso, fin quasi apprensivo, con i suoi cantanti. Che sono sei, disposti in un gioco combinatorio di tre coppie, di cui due invertibili. Nella coppia stabile, dei burattinai, sta la corposa Despina di Francesca Cucuzza, dalla voce piena e fresca, e dal temperamento pepato ma sempre posato, e il Don Alfonso di Emanuele Cordaro, encomiabile fraseggiatore e sottile interprete. Nelle altre due coppie, quelle da intrecciare, è il tradimento a combinare gli abbinamenti (almeno musicalmente) migliori: è così che al soprano (Maria Mudryak, una Fiordiligi dalla bella figura slanciata e dai centri ben timbrati, che sa trovare sonorità dolcissime nella sua aria del second’atto) s’accoppia il tenore (Antonio Mandrillo, che traccia un Ferrando tenero e luminoso), mentre al mezzosoprano (Lilly Jørstad, Dorabella energica e brillante sulla scena, vocalmente ben voluminosa e morbida) s’accoppia il baritono (Jiri Rajnis, Guglielmo dal timbro morbidissimo e caldo, pieno e pastoso). Leggerezza e gravità s’insegnano insieme in questa scuola degli amanti in cui il godimento dell’ascoltatore è continuo. Così è il Così.
Como, Teatro Sociale, Stagione d’Opera 2024/25
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova PARIDE CATALDO
Rigoletto GIUSEPPE ALTOMARE
Gilda BIANCA TOGNOCCHI
Sparafucile MATTIA DENTI
Maddalena VICTÓRIA PITTS
Giovanna/ La contessa di Ceprano LARA ROTILI
Il conte di Monterone BAOPENG WANG
Marullo LORENZO LIBERALI
Matteo Borsa RAFFAELE FEO
Il conte di Ceprano GRAZIANO DALLAVALLE
Un usciere MARCO TOMASONI
Un paggio FEDERICA CASSETTI
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro OperaLombardia
Direttore Alessandro D’Agostini
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Regia e luci Matteo Marziano Graziano
Scene Francesca Sgariboldi
Costumi Laurent Pellissier
Nuovo Allestimento in coproduzione dei teatri di OperaLombardia
Como, 28 novembre 2024
Ci sarebbero tanti modi per iniziare una recensione del “Rigoletto” di OperaLombardia: si potrebbe cominciare con una lunga digressione sulla differenza tra regia “all’italiana” e “alla tedesca” (dato che il regista è un connazionale trapiantato a Berlino); si potrebbe partire da un assunto canoro: “non tutti i baritoni sono Rigoletto”; oppure si potrebbe puntare il dito sulla produzione, che ha tanti di quei difetti, forse, da non starci nemmeno in queste mille parole. Preferiamo, tuttavia, iniziare con una citazione delle streghe di “Macbeth”: “Bello è brutto, brutto è bello”. È un paradosso che serve a indicare il carattere spiccatamente “alla rovescia” del mondo demoniaco, secondo una ben collaudata tradizione cristiana – e infatti a chiosarlo sono le sacerdotesse infernali, le streghe. Ed essendo il teatro senz’altro anche un luogo dello spirito, ci sembra, questa citazione, aderirvi perfettamente: a teatro, infatti, la regola è questa, non vale la formula matematica “meno per meno fa più” – a teatro se si imbrocca una certa via, non c’è modo di tornare indietro, l’intera produzione rischia di capitolare. E, detto proprio chiaramente, è quanto abbiamo visto nel “Rigoletto” comasco: si comincia con un muro che taglia inspiegabilmente orizzontalmente in due il palco, estromettendone metà dall’azione; a questa scena (curata da Francesca Sgariboldi) a ridosso del proscenio si aggiunge un numero esagerato di figuranti e artisti per quello spazio esiguo, ognuno con dei gesti molto precisi, per carità, ma d’intralcio al prossimo; a questi si aggiungano delle coreografie fra l’amatoriale e il delirante, un disegno luci arbitrario che sovente lascia i cantanti al buio (su “Ella mi fu rapita”, su “Tutte le feste al tempio”, persino su “Bella figlia dell’amore”) e, last but not least, il progetto costumistico di Laurent Pellissier che dovrebbe rivelare la natura postmoderna/distopica dell’intera regia, e invece la caratterizza pesantemente sulla via dell’arbitrarietà e del cattivo gusto – trasformando Rigoletto in una specie di Charlot pastore sardo e il Duca in un malavitoso pronto per lo Studio 54. Tutte le rimanenti trovate della regia di Matteo Marziano Graziano sono “orpelli” all’insegna del politicamente corretto: niente gobba a Rigoletto, ma Ceprano è su una sedia a rotelle e Giovanna ha un tutore a una gamba; poi abbiamo nell’ordine: una figurante trans mtf e uno ipostaturico, una ballerina sovrappeso e una calva, una Madonna in drag vestita di tricot bianco e una sfilata di corpi quasi nudi che celebri la diversità – in realtà, trattandosi di trovate estemporanee e senza una ragione forte per esserci, più che celebrazione diventa una citazione di “Freaks” di Todd Browning, ma forse era proprio questa l’intenzione del regista. Di certo possiamo constatare come questa assai discutibile messa in scena abbia posto in imbarazzo il cast, almeno nel primo atto, nel quale i protagonisti non hanno brillato – meglio, invece, Lorenzo Liberali (Marullo) e Baopeng Wang (Monterone), forse più disinvolti, e che hanno fatto sfoggio di vocalità sonore ed interessanti. Dal secondo atto in poi, vuoi per l’abitudine, vuoi per la voglia per lo meno di onorare Verdi, Paride Cataldo sfodera la sua bella vocalità, aderentissima alla linea di canto e dall’acuto d’acciaio, e Bianca Tognocchi aggiusta il tiro, rispetto a un “Caro nome” decisamente sottotono; la voce continua a presentare qualche limite sul piano della proiezione, ma duetto e stretta danno l’occasione al soprano autoctono di sfoderare una tecnica solida e un fraseggio certamente corretto. Permangono invece fino alla fine i dubbi su Giuseppe Altomare come Rigoletto: manca qualcosa alla sua interpretazione, che non è solamente corpo vocale o coinvolgimento scenico, ma si può semplicemente definire personalità. Non riesce ad essere persuasivo:non è tagliente con Ceprano e Monterone, non è rancoroso in “Cortigiani, vil razza dannata”, non è impetuoso nella stretta del secondo atto, né spezzato sul duetto finale. La linea vocale è corretta, ma senza un guizzo di fraseggio e con delle tensioni in zona acuta. È un Rigoletto riverso su stesso, che non si accende nemmeno di fronte alla figlia morente. Fra gli altri ruoli, a parte i già citati, senza dubbio Raffaele Feo ci regala un buon Borsa, grazie al colore piacevole della sua emissione naturalissima; tuttavia è lo Sparafucile di Mattia Denti che, sul piano musicale, si distingue: i facili gravi di Denti, il colore brunito al punto giusto, il fraseggio efficace, fanno delVictoria suo Sparafucile probabilmente la performance migliore della serata; peccato, invece, per la Maddalena di Victória Pitts: fascinosa e sicura, purtroppo annaspa per la scarsa proiezione nei centri nei momenti di insieme (nel quartetto del “Bella figlia dell’amor”, ad esempio). Il direttore Alessandro D’Agostini, dal canto suo, non ci ha regalato una concertazione particolarmente memorabile o personale, dirigendo con molta prudenza l’orchestra dei Pomeriggi Musicali, forse anch’egli influenzato dalle dinamiche sceniche spesso incomprensibili; il coro, invece, non si è fatto scoraggiare e il suo intervento non ha mancato di vis scaenica né di correttezza musicale – bravo il suo storico direttore, Diego Maccagnola. Insomma, se sul piano musicale la recita in fondo si è salvata, rimaniamo francamente perplessi dell’esito scenico, un po’ troppo “alla tedesca”, anche per un pubblico esperto e avvezzo a molte regie ardite, e decisamente poco rispettosa della bellissima partitura verdiana. Ma qui, è evidente, “Bello è brutto, brutto è bello”, proprio come in “Macbeth”.
Deutsche Oper Berlin, season 2024/2025
“MACBETH”
Opera in four acts by Giuseppe Verdi
Libretto by Francesco Maria Piave and Andrea Maffei, based on a tragedy by William Shakespeare
Macbeth ROMAN BURDENKO
Banquo MARKO MIMICA
Lady Macbeth FELICIA MOORE
Chambermaid of Lady Macbeth NINA SOLODOVNIKOVA
Macduff ATTILIO GLASER
Malcolm THOMAS CILLUFFO
Macbeth’s servant/A Messenger DEAN MURPHY
A doctor/An assassin GERARD FARRERAS
Senior with/call girl/Lady Macduff DANA MARIE ESCH
Deer man PIERRE EMÖ
Chor & Orchester der Deutschen Oper Berlin
Conductor Enrique Mazzola
Chorus master Jeremy Bines
Director Marie-Ève Signeyrole
Stage design Fabien Teigné
Costume design Yashi
Light design Sascha Zauner
Video Artis Dzerve
Berlin, 23rd November 2024
William Shakespeare was one of Giuseppe Verdi’s favourite poets and Macbeth became the first out of three great operas based on a play by the English bard. Premiered in Florence in 1847, Verdi revised it for a production at the Théâtre Lyrique in Paris in 1865 by essentially adding Lady Macbeth’s famous aria “La luce langue” in act 2 and the inevitable ballet music in act 3. He also dropped Macbeth’s final aria to replace it by the triumphal chorus Vittoria! There was a celebrated production of Verdi’s gloom-and-doom opera without a love story at the Deutsche Oper Berlin in the 1980s with Renato Bruson, Mara Zampieri and Giuseppe Sinopoli conducting, which led to a recording by Deutsche Grammophon. I still saw it around 2000, followed by a more modern one in 2011 that was running for few years only. On 23rd November 2024, the curtain rose to a new production by the French director Marie-Ève Signeyrole. She announced the action would take place today: Scotland becomes independent of the UK under the new king Duncan who nationalizes the oilfields in the Northern Sea, leading to an economic war between Scotland and Norway. The witches are lobbyists of a secret but powerful investment company that can make money only by privatized oilfieds. They want to dethrone the king to install Macbeth as a president they can manipulate… Unfortunately, there is not much left of that approach in the production but its text projected on a big screen where videos by Artis Dzerve are shown or close-ups of a live camera on stage. All that is distracting rather than helpful to understand symbols such as the head of a stag as part of Fabien Teigné’s stage design and the so-called deer man performed by Pierre Emö who wears the mask of a stag or hart. Does he refer to the Christian saint Hubert of Liège or is the stag a symbol of fertility or death? He already appears during the prelude along with Macbeth and Banquo who are wielding their swords on the battlefield in traditional kilts costume design by Yashi. Lady Macbeth disposes of baby clothes in her opening scene Ambizioso spirto, obviously after an abortion. Later she gets pregnant again by artificial insemination with Macbeth’s sperm to lose the baby again. Banquo is killed after a birthday party of children who die from poisoned cake, only Banquo’s son survives to re-appear with the stag’s mask. One idea after the other, a hotchpotch of symbols mulitplied by different media: stage, live camera, videos etc. All that seems to oppose rather than illustrate the music. Verdi made a point of the witches who are a main character along with Macbeth and the Lady. Signeyrole reduces them to a black-and-white uniformed mass of female programmers behind laptops, supervised by a senior witch played by Dana Marie Esch who appears in two video clips opening the two parts of the opera night before the music sets in. She praises the new era of AI as if she were an artificial intelligence herself. Signeyrole’s intention to bring the plot up-to-date ends up in a superficial, nearly ridiculous attempt to modernize it at any price. Too bad that her staging affects the musical performance as well. Italian and French opera specialist Enrique Mazzola starts to conduct the Orchester der Deutschen Oper Berlin in a loud, slow and little dynamic manner, which does not get better so that the performance takes nearly four hours, the more so as he plays the complete score of 1865, including the Parisian ballet music in act 3 and Macbeth’s aria Mal per me che m’affidai from 1847 in act 4. Chorus master Jeremy Bines did sterling work: the Chor der Deutschen Oper Berlin sings magnificently. There are big voices for the two leads:Roman Burdenko as Macbeth gives a vocal performance of amazing power, opulence and dramatic intensity, his baritone sounds warm and at times crystalline. Felicia Moore as Lady Macbeth follows suit. Her sumptuous, warm-timbered dramatic soprano climbs up to an effortlessly floating top at the end of Una macchia. Banquo is handsomely sung by Marko Mimica. Attilio Glaser is a moving Macduff: he sings O figli miei with refinement, despite live broadcast on big screen. Along with Thomas Cilluffo in strong form as Malcolm and the chorus, he makes a musical high light out of the concluding La patria tradita. To my mind, opera does function in a different way to film or theatre. I wonder why the director of the Deutsche Oper does not have the final say in what Marie-Ève Signeyrole was doing: lousing up Verdi’s masterpiece!Photos by Eike Walkenhorst
Nella precedente Cantata dedicata alla prima domenica di Avvento (Cantata BWV 62) si menzionava un personaggio simbolico, quello della “Figlia di Sion” che figura anche nelle due grandi Passioni di Bach (Giovanni e Matteo), ma il nome di Sion compare anche in altri luoghi del repertorio bachiano, ad esempio nelle Cantate BWV 119 e 120, scritte in occasione dei servizio liturgico che si celebrava all’atto dell’Investitura del Consiglio Municipale di Lipsia, cerimonia che aveva luogo sempre nel lunedì successivo al giorno di San Bartolomeo (il 24 agosto). Il fatto è comprensibile se si tiene presente il rapporto ideale che la cultura dell’epoca vuole cogliere tra la città di Lipsia e quella di Gerusalemme. Sion è in origine il nome della cittadella dei Gebusei, conquistata da Davide e poi identificata con la città del Profeta, ma Sion è soprattutto il nome del monte che negli scritti profetici è la sede del Signore, il quale da quella sede governerà le nazioni e giudicherà gli uomini. È appunto a questo significato che si richiama il testo iniziale della terza e, a nostra conoscenza, ultima Cantata scritta da Bach per la prima Domenica di Avvento Schwingt freudig euch empor BWV 36 . Il primo verso recita: “Elevatevi con gioia alle stelle supreme, voi lingue che ora esultate in Sion!”. La partitura è frutto di un laborioso processo lavorativo, frutto di cinque stesure, 3 profane e 2 sacre, cosa che non ha riscontro nella produzione bachiana. La matrice originale è una Cantata di auguri del 1725 poi ripresa nel 1726 e nel 1735 in differenti circostanze e su altri testi, per trovare la destinazione sacra nella prima domenica di Avvento, della quale esistono 2 differenti versioni, entrambe prive di recitativi, la prima delle quali risalente agli anni tra il 1726 e il 1730, la seconda al 1731 (eseguita a Lipsia il 2 dicembre 1731). Quest’ultima è composta di 8 numeri, 3 in più della precedente versione ed è divisa, cosa abbastanza rara, in 2 parti concepite come pannelli simmetrici di un dittico. I 3 brani nuovi utilizzano 3 strofe dell’Inno di Lutero “Nun kom der Heiden Heiland” che già abbiamo trattato. L’innesto di queste strofe può essere interpretato come il frutto di un ripensamento nei confronti del testo che era stato proposto al canto, probabilmente da Christian Friedrich Henrici che è l’autore dei testi delle 3 cantate profane utilizzanti la medesima musica e il ricorso di un unico Inno potrebbe provare che dovette trattarsi di un espediente per evitare di dover scrivere i recitativi mancanti nella prima versione della partitura. Non a caso i brani inseriti sono l’espressione di una sensibilità diversa rispetto a quella ravvisabile nelle pagine della prima stesura, chiaramente gioiose, proprie di una Cantata di Auguri e colgono il momento mistico e più intensamente devozionale.
Parte prima
Nr.1 – Coro
Elevatevi con gioia alle stelle supreme,
voi lingue che ora esultate in Sion!
Attente! Il vostro suono non vada lontano,
il Signore della gloria si avvicina.
Nr.2 – Corale / Duetto (Soprano, Contralto)
Vieni ora, salvatore dei pagani,
conosciuto come figlio della Vergine,
per il quale tutto il mondo si stupisce
che Dio gli abbia destinato tale nascita.
Nr.3 – Aria (Tenore)
L’amore attira a sé dolcemente
e gradualmente il suo amato.
Come una sposa è incantata
alla vista del suo sposo,
così il cuore segue Gesù.
Nr.4 – Corale
Suonate le corde a Cytera
e fate risuonare la dolce
musica ricca di gioia,
affinchè io possa camminare con amore
fedele affianco al piccolo Gesù,
il mio meraviglioso sposo!
Cantate,
danzate,
gioite, esultate, ringraziate il Signore!
Grande è il re della gloria.
Seconda parte
Nr.5 – Aria (Basso)
Benvenuto, tesoro prezioso!
Amore e fede preparano un posto
per te nel mio cuore puro,
vieni ad abitare in me!
Nr.6 – Corale (Tenore)
Tu che sei come il Padre,
conducici alla vittoria sulla carne,
la tua eterna forza divina
allontani le debolezze della carne.
Nr.7 – Aria (Soprano)
Anche con debole, flebile voce
la maestà di Dio sia onorata.
Poiché un solo suono dello spirito
diventa per lui un potente grido
che può ascoltare anche in cielo.
Nr.8 – Corale
Sia lode a Dio, il Padre,
sia lode a Dio, il suo unico figlio,
sia lode a Dio, lo Spirito Santo,
sempre e per l’eternità!
Traduzione Emanuele Antonacci
Domenica 1 Dicembre /Sabato 7 dicembre
Ore 10.00 / 10.15
“IL MONDO DELLA LUNA”
Musica Giovanni Paisiello
Direttore Massimo Pradella
Regia Mario Ferrero
Interpreti: Paolo Pedani, Edda Vincenzi, Lajos Kozma, Adriana Martino, Mario Boriello…
Napoli, 1966
Lunedì 2 dicembre
Ore 10.00
“IL MATRIMONIO SEGRETO”
Musica Domenico Cimarosa
Direttore Franco Caracciolo
Regia di Franco Enriquez.
Interpreti: Sesto Bruscantini, Franco Calabrese, Edda Vincenzi e Giuseppina Salvi…
RAI, 1956
Martedì 3 dicembre
Ore 10.00
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Nino Sanzogno
Regia Franco Enriquez
Interpreti: Aldo Protti, Virginia Zeani, Carlo Zampighi, Nicola Zaccaria, Luisa Ribacchi…
RAI, 1955
Mercoledì 4 dicembre
Ore 10.00
“LA TRAVIATA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Nino Sanzogno
Regia Franco Enriquez
Interpreti: Rosanna Carteri, Nicola Filacuridi, Carlo Tagliabue…
RAI, 1955
Giovedì 5 dicembre
Ore 10.00
“FEDORA“
Musica Umberto Giordano
Direttore Bruno Bartoletti
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Renata Heredia Capnist, Davide Poleri, Mafalda Micheluzzi e Mario Borriello
RAI, 1956
Ore 11.40
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Alberto Zedda
Regia Sandro Bolchi
Interpreti: Sesto Bruscantini, Italo Tajo, Valeria Mariconda, Ugo Benelli, Carlo Badioli.
RAI, 1965
Venerdì 6 dicembre
Ore 10.00
“MADAMA BUTTERFLY”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Oliviero De Fabritiis.
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Anna Moffo, Renato Cioni, Mitì Truccato Pace, Afro Poli.
RAI, 1956
Ore 21.15
“DON CARLO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Lluis Pasqual
Interpreti: Francesco Meli, Anna Netrebko, Elina Garanca, Luca Salsi, Michele Pertusi…
Milano, 2023
Sabato 7 dicembre
Ore 18.00 – RAI 1
“LA FORZA DEL DESTINO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Leo Muscato
Interpreti: Anna Netrebko, Brian Jadge, Ludovic Tezier, Alexander Vinogradov, Vasilisa Berzhanskaya, Marco Filippo Romano…
Domenica 8 dicembre
Ore 10.02
“FRANCESCA DA RIMINI”
Musica Riccardo Zandonai
Direttore Arturo Basile
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Marcella Pobbe, Nicoletta Panni, Ugo Novelli, Fernando Lidonni, Giuseppe Campora, Sergio Tedesco…
RAI, 1958
Lunedì 9 dicembre
Ore 10.00
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Claudio Scimone
Regia Tobias Richter
Interpreti: Leo Nucci, Cecilia Gasdia, Ramon Vargas, Enzo Dara, Ruggero Raimondi, Andrea Snarski, Daniella Streiff
Verona, 1996
Martedì 10 dicembre
Ore 10.00
“CARMEN”
Musica Georges Bizet
Direttore Zubin Mehta
Regia Daniele Finzi Pasca
Interpreti: Maria José Montiel, Brian Jugde, Eleonora Buratto, Aris Argiris…
Napoli, 2015
Mercoledì 11 dicembre
Ore 10.00
“IDOMENEO, RE DI CRETA”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Daniel Harding
Regia Luc Bondy
Interpreti: Steve Davislim, Monica Bacelli, Camilla Tilling, Emma Bell, Francesco Meli
Giovedì 12 dicembre
Ore 10.00
“SALOME”
Musica Richard Strauss
Direttore Daniel Harding
Regia Luc Bondy
Interpreti: Peter Bronder, Iris Vermillion, Nadja Michael, Falk Struckmann, Matthias Klink, Natela Nicoli….
Venerdì 13 dicembre
Ore 10.00
“FALSTAFF”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Tullio Serafin
Regia Herbert Graf
Interpreti: Giuseppe Taddei, Scipio Colombo, Luigi Alva, Rosanna Carteri, Anna Moffo, Fedora Barbieri, Anna Maria Canali, Renato Ercolani, Franco Calabrese, Mario Carlin.
RAI, 1956
Roma, Musei Capitolini
AGRIPPA IULIUS CAESAR, L’EREDE RIPUDIATO
Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto
Nella prestigiosa cornice della Sala degli Arazzi dei Musei Capitolini, dal 29 novembre 2024 al 27 aprile 2025, si svolge un’esposizione straordinaria che riunisce per la prima volta tre ritratti marmorei di Agrippa Postumo, ultimo erede della gens giulio-claudia, figlio di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia, figlia di Augusto. Questa mostra, che segna un momento di rilievo nella valorizzazione del patrimonio storico-artistico romano, è il frutto di una collaborazione tra istituzioni pubbliche e private, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura e Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il supporto della Fondazione Sorgente Group. Il fulcro dell’esposizione è rappresentato dal ritratto marmoreo della Fondazione Sorgente Group, recentemente identificato dal professor Eugenio La Rocca come raffigurazione di Agrippa Postumo. L’opera, mai esposta al pubblico prima d’ora, dialoga idealmente con altre due sculture: una proveniente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze e l’altra dalle Collezioni Capitoline. Le tre opere, databili tra il 4 e il 7 d.C., testimoniano il momento in cui Agrippa Postumo era designato erede al trono imperiale, offrendo un ritratto della sua immagine pubblica, costruita attraverso un linguaggio iconografico che univa autorità e introspezione. In occasione della presentazione della mostra, Valter Mainetti, Presidente della Fondazione Sorgente Group, ha dichiarato: “Ci riempie di orgoglio l’aver promosso questa mostra monografica dedicata alla presentazione, per la prima volta al pubblico, del volto del giovane principe giulio-claudio, identificato dal professor Eugenio La Rocca con Agrippa Postumo. L’esposizione dei tre ritratti, riuniti per la prima volta, rappresenta un’importante occasione di conoscenza e studio, e soprattutto un’opportunità per la nostra Fondazione di collaborare con una sede prestigiosa come i Musei Capitolini. Questo rapporto di stima reciproca ha permesso la realizzazione di numerosi progetti culturali, contribuendo alla valorizzazione del nostro patrimonio storico-artistico.” La Vicepresidente della Fondazione, Paola Mainetti, ha aggiunto: “Una parte importante della collezione archeologica della nostra Fondazione riguarda proprio la ritrattistica della gens giulio-claudia, con particolare attenzione agli eredi designati da Augusto. Attraverso questa mostra, vogliamo proseguire nella nostra missione di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale, mettendo in luce la complessità storica e artistica di figure come Agrippa Postumo. Il confronto tra i tre ritratti esposti rappresenta un’occasione unica per approfondire la conoscenza di un’epoca cruciale della storia romana e delle dinamiche politiche che l’hanno segnata.” Il ritratto della Fondazione Sorgente Group si distingue per la sua intensa espressività. I tratti marcati della fronte accigliata, gli occhi profondamente infossati e lo sguardo torvo conferiscono al giovane principe un’aura di introspezione e gravitas, elementi che incarnano la costruzione simbolica dell’erede imperiale. La torsione della testa, un elemento comune ai tre ritratti, aggiunge un senso di dinamismo e tensione, riflettendo il contesto storico-politico in cui queste opere furono realizzate. Le vicende di Agrippa Postumo, figlio postumo di Marco Vipsanio Agrippa e adottato da Augusto nel 4 d.C., si intrecciano con le complesse dinamiche della successione imperiale. Il giovane, ribattezzato Agrippa Iulius Caesar, sembrava destinato a succedere al princeps insieme a Tiberio. Tuttavia, solo tre anni dopo, venne ripudiato ed esiliato prima a Sorrento e successivamente sull’isola di Pianosa, dove visse fino alla sua misteriosa morte, avvenuta poco dopo l’ascesa al trono di Tiberio. Le fonti antiche, tra cui Tacito e Svetonio, attribuiscono l’esclusione di Agrippa Postumo a un carattere difficile, ma le recenti analisi storiche e archeologiche suggeriscono che le lotte di potere all’interno della corte augustea, influenzate da Livia Drusilla, madre di Tiberio, abbiano avuto un ruolo determinante nella sua caduta in disgrazia. L’esposizione ai Musei Capitolini invita a riflettere sul ruolo della propaganda visiva nell’età augustea. I tre ritratti, realizzati in occasione della sua adozione e successiva designazione come erede, rappresentano un esempio emblematico di come l’immagine pubblica di un individuo fosse costruita per rispondere a precise esigenze politiche e dinastiche. Il linguaggio artistico dell’epoca, caratterizzato da un realismo idealizzato, si riflette nei tratti fisionomici di Agrippa Postumo, che trasmettono autorità, determinazione e introspezione. La mostra è curata da Laura Buccino, Eugenio La Rocca e Valentina Nicolucci, ed è un esempio virtuoso di collaborazione tra istituzioni pubbliche e private. Come sottolineato da Claudio Parisi Presicce, Sovrintendente Capitolino, “Questa esposizione rappresenta un modello di sinergia tra enti che condividono l’obiettivo comune di promuovere la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale. Attraverso il dialogo tra i tre ritratti, offriamo al pubblico un’occasione unica per esplorare un periodo cruciale della storia di Roma.” L’iniziativa si inserisce in un percorso più ampio volto a promuovere lo studio della ritrattistica imperiale e delle sue implicazioni storiche. La Fondazione Sorgente Group, in particolare, ha dedicato grande attenzione alla collezione e valorizzazione di opere legate alla gens giulio-claudia, come i ritratti di Lucio e Gaio Cesare, fratelli maggiori di Agrippa Postumo, e quello di Germanico, figlio di Druso e Antonia Minore. Questa esposizione non è solo un viaggio nella storia e nell’arte dell’età augustea, ma anche un’opportunità per interrogarsi sulle complesse dinamiche politiche e culturali che hanno definito la transizione dalla Repubblica all’Impero. Il volto di Agrippa Postumo, con la sua intensa espressività, riaffiora come un simbolo delle ambizioni e delle tragedie che hanno segnato una delle epoche più affascinanti e tormentate della storia romana. Un’occasione imperdibile per riscoprire, attraverso l’arte, le vicende umane e politiche che hanno plasmato il corso della storia.
Bohuslav Martinů: “Nipponari” H68: “Modrá hodina”, “Stáří”, “Vzpomínka”, “Prosněný život”, “Stopy ve sněhu”, “Pohled nazpět”, U posvátného jezera; “Songs on One Page” H. 294: “Rosička”, “Otevření slovečkem”, “Cesta k milé”, “Chodníček”, “U maměnky”, “Sen Panny Marie”, “Rozmarýn”; Antonín Dvořák: “Evening Songs” Op. 3: “Když jsem se díval do nebe!”, “Umlklo stromů šumění”, “Mně zdálo se”, “Já jsem ten rytíř”, “Když Bůh byl nejvíc rozkochán”; “Songs” Op. 2: “Ó byl to krásný zlatý sen”, “Mé srdce často v bolesti”; Hans Krása: “Four Orchestral Songs” Op. 1: “Geiß und Schleiche”, “Nein!”, “Der Seufzer”, “Galgenbruders Lied an Sophie, die Henkersmaid”; Gideon Klein: “Lullaby”. Magdalena Kožená (mezzoprano), Czech Philharmonic, Simon Rattle (Direttore). Registrazione: Dvořák Hall of the Rudolfinum, Praga, Novembre 2022. 1 Cd Pentatone PTC 5187 077
Magdalena Kožená torna – dopo la registrazione DG del 2000 – a offrire una selezione di composizioni liederistiche ceche. In questo caso la scelta è andata su composizione per canto e orchestra – alcune così pensate originariamente, altre appositamente orchestrate da Jiří Gemrot e Jiří Teml – dove a sostenere il canto è il sempre meraviglioso velluto della Filarmonica Ceca diretta con raffinata sensibilità da Simon Rattle.
Il programma è alquanto interessante e fa conoscere una serie di piccole gemme praticamente sconosciute. È il caso di “Nipponari” op. 68 di Bohuslav Martinů. Composta nel 1912 ma eseguita solo dopo la morte del compositore si presenta come una piccola cantata su poesie tradizionali giapponesi – tradotte in ceco – giocate sull’alternanza di temi primaverili e invernali. E’ palese la suggestione di “Das Lied von der Erde” palesemente ricercata dalla direzione particolarmente mahleriana di Rattle che della composizione ricerca soprattutto il carattere tardo-romantico andando un po’ a scapito di un colore più folklorico e orientaleggiante che la raffinatissima orchestrazione di Martinů rivela in più di un passaggio. Il primo ciclo mostra pienamente anche il taglio vocale della Kozena. Il mezzosoprano boemo presenta ancora una voce di grande fascino, morbida e carezzevole che nel corso degli anni si è fatta più brunita – perfetta per i toni arcani e misteriosi di “Modrá hodina”. La musicalità della linea e la naturale predisposizione per un canto intriso di malinconia compensano ampiamente qualche durezza che gli anni hanno lasciato sul settore acuto.
Sempre di Martinů ma originariamente pensata per canto e pianoforte è “Canti di un paggio” H.294 una serie di brevi schizzi musicali – il più lungo “Sen Panny Marie” non arriva a due minuti – caratterizzati da una irresistibile freschezza espressiva che dà vita a piccoli quadretti di gusto popolaresco perfettamente riusciti. Pur più convenzionale rispetto ai brani autografi di Martinů l’orchestrazione di Teml è comunque godibilissima.
Il programma prosiegue con le “Canzoni della sera” op. 3 di Antonín Dvořák stranamente presentate senza seguire l’ordine originale di numerazione. In questo caso si alternano brani orchestrati dall’autore e nuove orchestrazioni di Jiří Gemrot e se queste ultime non mancano di piacevolezza è palese come gli originali, intrisi di una sensibilità di sapore brahmsiano, si pongano su ben altro livello. La scrittura di Dvořák alterna momenti di esplicita teatralità come “Já jsem ten rytíř” dal taglio operistico ad altri in cui prevale un raccoglimento autenticamente cameristico come “Mně zdálo se” che nell’impeccabile gioco di cesello rappresenta uno dei punti più altri dell’interpretazione della Kožená. Particolarmente interessante la linea melodico in cui fa capolino il celeberrimo tema della “Canzone della luna” di “Rusalka” in “Mé srdce často v bolesti”.
Si passa alla Vienna delle avanguardie con “Quattro lieder per orchestra” di Hans Krása composti nel 1920 quando il giovane compositore boemo era allievo di Alexander von Zemlinsky. Le composizioni tradiscono lo spirito avanguardista del circolo dei giovani compositori viennesi con caratteri decisamente espressionisti sia nella vocalità che nell’orchestrazione pur senza arrivare all’autentica atonalità. Per quanto giovanile la composizione mostra già una notevole maturità compositiva. I testi in tedesco tradiscono l’origine viennese della composizione. Chiude il programma “Lullaby” di Gideon Klein – qui l’orchestrazione è di Jiří Gemrot – ninna nanna ebraica composta da un internato nel campo di concentramento di Terezin in cui la Kožená è magistrale nel far percepire le lugubri ombre che avvolgono una melodia apparentemente così serena.
Teatro dell’Opera di Roma
Stagiona Lirica 2024- 2025
SIMON BOCCANEGRA
Melodramma in un prologo e tre atti
libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra CLAUDIO SGURA
Maria Boccanegra (Amelia) MARIA MOTOLYGINA
Jacopo Fiesco RICCARDO ZANELLATO
Gabriele Adorno ANTHONY CIARAMITARO
Paolo Albiani GEVORG HAKOBYAN
Pietro LUCIANO LEONI
Un capitano dei balestrieri ENRICO PORCARELLI
Un’ancella di Amelia CATERINA D’ANGELO
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Richard Jones
Scene e costumi Antony McDonald
Luci Adam Silverman
Coreografia per i movimenti coreografici Sarah Fahie
Maestro d’Armi Renzo Musumeci Greco
Nuovo Allestimento del Teatro dell’Opera
Roma, 29 novembre 2024
Proseguono al Teatro dell’Opera di Roma le repliche di Simon Boccanegra di Verdi, questa volta con il debutto del cast alternativo, occasione per analizzare più a fondo la proposta scenica. Richard Jones, con il supporto del talentuoso scenografo e costumista Antony McDonald, offre un’interpretazione visiva che mette in risalto soprattutto la profonda contrapposizione politica tra popolo e aristocrazia, nucleo centrale del dramma verdiano. La Genova ideata per questo allestimento assume tratti di un universo sospeso, con rimandi alle atmosfere metafisiche e surreali dei lavori di de Chirico e Carrà. I costumi, collocati in un vago scenario novecentesco, trovano una peculiare cifra stilistica nei mantelli dorati e ornati di pelliccia, simboli del potere dei notabili, che si trasformano in elementi quasi mascherati, contribuendo a una lettura più simbolica che introspettiva. La regia adotta un’impostazione minimalista e rarefatta, optando per una narrazione visiva essenziale che però, in alcune fasi, si traduce in una scarsa esplorazione delle sfumature psicologiche dei personaggi. Questa scelta, pur coerente con il disegno generale, si rivela talvolta incapace di generare una tensione drammatica pienamente coinvolgente, specialmente nel prologo e nel primo atto, dove le dinamiche appaiono statiche e poco incisive. Nel secondo e terzo atto, tuttavia, i duetti e i terzetti soffrono dell’assenza di un maggiore approfondimento emotivo, che avrebbe potuto conferire maggiore intensità alle relazioni tra i personaggi, rafforzando il loro spessore interpretativo. Nonostante queste riserve, la regia si fa apprezzare per una costruzione narrativa chiara e funzionale, che riesce a mantenere una coerenza drammaturgica. Tuttavia, il distacco emotivo che permea l’intera rappresentazione ne riduce l’impatto, ancorandola a una dimensione prevalentemente visiva e concettuale, che, seppur esteticamente valida, risulta poco coinvolgente sul piano emozionale. Simon Boccanegra si conferma un’opera di straordinaria profondità, ricca di dettagli e di preziosità musicali che testimoniano il progresso evolutivo di Verdi verso una maturità artistica complessa e raffinata. Michele Mariotti, alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, ne coglie pienamente la logica drammaturgica, esaltandola con una solidità strutturale che si fonde con un impetuoso slancio teatrale. La sua direzione si distingue per un’attenzione meticolosa ai particolari strumentali, che la partitura verdiana offre in abbondanza, e per una visione unitaria che restituisce un’interpretazione vivida e appassionata. Sotto la sua bacchetta, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma non si limita a una resa precisa e morbida, ma diviene il cuore pulsante della narrazione musicale. La ricca tavolozza cromatica, i timbri nitidi e la capacità di scolpire ogni dettaglio con chiarezza emergono con forza, rifuggendo da una sterile lettura metronomica. Mariotti riesce a dare respiro alla musica, facendo sì che l’orchestra ‘canti’ con intensità lirica e ‘galleggi’ sulle note, trasformando l’insieme in una vera costruzione teatrale di rara efficacia. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto con sicurezza da Ciro Visco, completa l’impresa con una performance impeccabile. La coesione e l’espressività corale si fondono armoniosamente con l’orchestra, accentuando la teatralità e il pathos richiesti dall’opera. Il risultato è un’esecuzione che si distingue per equilibrio, forza drammatica e una sensibilità musicale che rende piena giustizia alla grandezza dell’opera verdiana. Nel ruolo di Simone Boccanegra, Claudio Sgura dà vita a un ritratto vibrante di un uomo del popolo divenuto sovrano, diviso tra i conflitti con il fiero antagonista Jacopo Fiesco e la struggente tenerezza verso la figlia Amelia, ritrovata dopo anni di angosciosa separazione. Sgura si rivela un artista dalla tavolozza espressiva variegata: se da un lato la partitura verdiana esige slanci drammatici e accenti potenti, dall’altro richiede una capacità di introspezione e delicatezza che l’artista padroneggia con sorprendente sensibilità. Le sue esplosioni di rabbia e disperazione sono scolpite con autorità, ma è nei momenti di amore, speranza e malinconia che il suo timbro accarezza l’anima dell’ascoltatore. In particolare, nei registri acuti, Sgura regala un fraseggio morbido e sfumato che amplifica la dimensione umana del personaggio, fondendo tecnica impeccabile e un pathos vibrante che si imprime nella memoria dello spettatore. Maria Motolygina si distingue per una voce di straordinaria potenza, sapientemente controllata e calibrata in ogni sfumatura. Il timbro, pieno e luminoso, si sposa con una tecnica impeccabile, capace di affrontare con sicurezza le dinamiche più ardite senza mai sacrificare la qualità del suono. La sua esecuzione rivela una padronanza assoluta dello strumento vocale, unita a una sensibilità interpretativa che le permette di plasmare ogni frase con espressività e precisione. Una presenza scenica e musicale che lascia il segno per solidità e intensità. Riccardo Zanellato interpreta un Fiesco di straordinaria imponenza, scolpito da un timbro profondo e da una cavata vocale di notevole ampiezza. Il suo fraseggio, nobile e misurato, esalta la tensione drammatica del personaggio, mentre la padronanza tecnica si intreccia con una sensibilità interpretativa capace di restituirne la complessità emotiva. Con fierezza e sdegno, la sua presenza scenica incarna appieno l’autentico spirito verdiano, in un equilibrio che unisce forza espressiva e raffinatezza stilistica. Anthony Ciaramitaro ha saputo conquistare il pubblico con una pasta vocale di grande fascino, caratterizzata da un colore caldo e ricco di sfumature. Il fraseggio, intriso di passione e precisione, si è rivelato particolarmente adatto a dar vita al tormento e alla nobiltà di Gabriele Adorno. La sua espansione vocale e l’intensità interpretativa hanno conferito al personaggio una dimensione drammatica di notevole impatto, rivelando una rara capacità espressiva. Ben riuscito il Paolo Albiani di Gevorg Hakobyan, il quale si distingue per un’importante ampiezza vocale. Bene tutto il resto del cast. Photocredit FabrizioSansoni
Napoli, Teatro Bellini di Napoli
COSE CHE SO ESSERE VERE
(Things I Know to Be True)
di Andrew Bovell
regia Valerio Binasco
con Giuliana De Sio, Valerio Binasco
e con (in o.a.) Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Stefania Medri
produzione Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile Bolzano, TSV Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
Valerio Binasco e Giuliana De Sio sono i due principali protagonisti di un toccante, divertente e coraggioso dramma che ruota intorno alla storia di una famiglia e di un matrimonio, nel primo allestimento italiano del potente testo di Andrew Bovell, coprodotto dal Teatro Stabile di Torino, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile del Veneto. Quando Rosie torna rocambolescamente a casa dopo un breve viaggio in giro per l’Europa è certa di far parte di una famiglia solida, inossidabile: ma all’arrivo della giovane le crepe che silenziosamente si sono insinuante nei rapporti tra i familiari ribaltano ogni certezza. Una fotografia complessa e acuta dei meccanismi domestici e matrimoniali che muta continuamente punto di vista, attraverso gli occhi di quattro fratelli che lottano per definire se stessi al di là dell’amore e delle aspettative dei genitori. Bovell (1962), scrittore e drammaturgo australiano pluripremiato, autore di numerosi testi tra cui Speaking in Tongues di cui ha curato l’adattamento cinematografico dal titolo Lantana, e di When the Rain Stops Falling, affronta in questo dramma la perdita di fiducia e il potere del passato di plasmare il futuro. Qui per tutte le informazioni.
Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025
“LE NOZZE DI FIGARO”
Dramma giocoso in quattro atti di Lorenzo da Ponte da La Folle Journée, ou le Mariage de Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Conte d’Almaviva JARRETT OTT
Contessa d’Almaviva KIRSTEN MACKINNON
Susanna MARTINA RUSSOMANNO
Figaro CHRISTIAN FEDERICI
Cherubino SIPHOKAZI MOLTENO*
Marcellina CHIARA TIROTTA
Don Bartolo GIOVANNI ROMEO
Don Basilio JUAN JOSE’ MEDINA*
Don Curzio CRISTIANO OLIVIERI
Barbarina ALBINA TONKIKH*
Antonio JANUSZ NOSEK*
Prima contadina CATERINA BORRUSO Seconda contadina IVANA CRAVERO Maestro al fortepiano CARLO CAPUTO *Artista del Regio Ensemble
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore d’orchestra Leonardo Sini
Maestro del coro Ulisse Tabacchin
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Renata Schussheim
Luci Eduardo Bravo riprese da Vladi Spigarolo
Coreografie Nuria Castejon
Allestimento Teatro Regio di Torino. Produzione originale Teatro Real de Madrid (2009) in coproduzione con Asociasiòn Bilbaìna de Amigos de la Ópera (A.B.A.O.)
Torino, 24 novembre 2024
Il Maestro Leonardo Sini, tramite l’ottima e sonora Orchestra del Teatro Regio di Torino, parte con una entusiasmante velocissima, seppur a tratti rumorosa, sinfonia che fa ben sperare in un taglio delle Nozze che esalti gioventù e passione; che si tuffi anche in quelle cascate di pulsioni fisiche che Mozart sapeva consapevolmente far scrosciare dalle pagine del suo teatro. Nulla avviene: al levar del sipario ci si distende nella più inoffensiva e sbiancata delle storie. Il dialogo orchestra palcoscenico si snoda prudente e neppure gli interventi, troppo frenati, di Carlo Caputo al fortepiano, valgono a dargli brio. Per molti versi si è tornati allo stile salisburghese degli anni ’60: cura estrema delle arie (ma le voci non son più quelle!), precisione (ma qui con troppa cautela) dei concertati, inespressività (come se Muti fosse passato invano) dei recitativi. È pur vero che tre dei cinque protagonisti sono stranieri e quindi per loro la lingua italiana potrebbe rappresentare un impervio ostacolo al raggiungimento di scorrevolezza e mobilità psicologica. Si vedrà, nelle prossime recite, se l’espressività e la scioltezza in scena ne sortiranno migliorate. Al trentasettenne baritono Jarrett Ott, fisico e portamento ideali per il Conte d’Almaviva, è carente la protervia e l’arroganza vocale di un Grande di Spagna. Volume non debordante, seppur con timbro accattivante, ma in teatro “corre poco” e l’impaccio nei recitativi lo limita nell’efficacia comunicativa. Il soprano Kirsten MacKinnon, la Contessa, ha voce generosa che, quando forza, viene penalizzata da un suono metallico accentuato da un fastidioso vibrato. Parrebbe essere una voce più adatta ai picchettati glaciali della Regina della Notte che ai languori della Contessa. Le sue due grandi arie, sono state assai applaudite, ed è sempre efficace e ben caratterizzata negli insieme. Christian Federici, come Figaro, coniuga moderatezza brillante a vivacità controllata. Non strafà mai, né vocalmente né scenicamente, rende così evidente che, nonostante gli oscuri trascorsi, non è un barbiere di strada ma un figlio di dottore. Voce dal bel colore che, pur con qualche sporadica forzatura, riesce a farsi apprezzare. Il colore della voce, più scuro di quello del Conte, promuove una buona differenziazione delle personalità nei concertati. “Non più andrai.. non memorabile ma degno del lungo applauso che l’ha accolto così come il poco veemente “Aprite un po’ quegl’occhi …”. Martina Russomanno è una Susanna apprezzabile sia nella voce che nella recitazione. Ad un mese dalla sua brillante prestazione, sempre al Regio, come Manon in una replica del capolavoro di Massenet, ritorna sul palco di Piazza Castello con una prestazione più che ragguardevole. Giunse alfin il momento … Dé vieni non tardare … se non da antologia, comunque di un gran bel livello. Canto immacolato e preciso che coglie tutte le sfumature, e sono infinite, del personaggio. È un’amorosa appassionata con vene sensuali che fanno presagire soddisfazioni e felicità, almeno momentanee, della coppia. La giovane Siphokazi Molteno, membro del Regio Ensemble, impersona, con qualche discrepanza nell’aspetto, il giovane Cherubino. Tutti ci rifacciamo, da sempre, all’immagine di un paggio scattante, sfrontato e intemperante per cui non risulta facile superare lo scoglio di una personificazione che lo contraddice. La voce, sopranile con venature, seppur forzate ed artificiose di contralto, è bella e lo stile è corretto e ben educato. Le sue due arie, idiomatiche come poche altre, hanno il falstaffiano handicap di star curve come una buona lama di Bilbao in un panierin di dama. Pur senza capriole aggiuntive, riesce ad attirarsi le simpatie di gran parte del pubblico e con esse una certa oculata dose di applausi. Efficacemente in parte e in canto la Marcellina di Chiara Tirotta che ben dipana il duettino del primo atto con Susanna. Un poco più difficoltoso, per Giovanni Romeo, il sillabato della Vendetta di Bartolo tanto che, esausto, il proseguo se lo canta per sé stesso. A fuoco ed untuoso al punto giusto il Basilio di Juan José Medina, così come sono professionali e corretti il Don Curzio di Cristiano Olivieri e l’Antonio di Janutsz Nosek che vaga disperatamente per la scena coi suoi vasi di fiori ormai malamente calpestati da Cherubino in fuga. Caterina Borruso e Ivana Cravero sono le brave e festanti contadine che si emancipano dal Coro del Teatro Regio di Torino che Ulisse Trabacchin validamente regge. Albina Tonkikh dà infine un saggio della sua bravura nell’ambigua aria della … Spilla perduta. L’allestimento, scene di Daniel Bianco, luci di Eduardo Bravo e costumi di Renata Schussheim, originariamente (2009) del madrileno Teatro Real, con la Regia di Emilio Sagi, è forse troppo lineare e pulito per l’ambientazione rococò della commedia. Qualche intemperanza la si coglie solo nel decoro del letto della Contessa e nello strafloreale giardino del quarto atto; la sostituzione della provvidenziale poltrona del primo atto con il telaio del letto dei prossimi sposi costituisce una veniale deviazione dalla consolidata tradizione. Con gran gioia del botteghino, è il “tutto esaurito” di tutte le date. L’entusiasmo, senza riserve, che fortunatamente si coglie in tutte le occasioni mozartiane, esalta ulteriormente la recita.
Roma, Nuovo Teatro Ateneo, Stagione Teatrale Sperimentale
“PREMIÈRE”
Coreografia Andrea Costanzo Martini
Musica Planningtorock, Matmos, Olafur Arnalds, Dean Hurley, David Wenngren, Major Iazer
Lighting Design Fabiana Piccioli
Costumi Shira Wise
Corpo di ballo Balletto di Roma (Paolo Barbonaglia, Roberta De Simone, Alessio Di Traglia, Alice Fenu, Marcello Giovani, Francesco Moro, Aurora Paoloni, Giulia Strambini)
Direzione Artistica Francesca Magnini
Organizzazione evento Prof. Vito Di Bernardi
Roma, Nuovo Teatro Ateneo, 26 settembre 2024
Première, si intitola lo spettacolo presentato dal Balletto di Roma al Nuovo Teatro Ateneo in occasione della stagione sperimentale chiamata a valorizzare la riapertura dello stesso teatro. Ma è davvero una prima? Nel cercare la risposta a questa domanda ci confrontiamo con un processo creativo molto peculiare e affascinante. Nato dalla volontà di collaborare con il coreografo Andrea Costanzo Martini, già distintosi per il lavoro sullo spettacolo Intro nel 2018, lo spettacolo è stato portato avanti tramite la piattaforma digitale Zoom mentre il coreografo si trovava a Tel Aviv in tempo di pandemia. Da qui è poi derivata la trasmissione in streaming al Teatro Quirino nel dicembre 2020, per poi approdare finalmente in presenza il 23 luglio 2022 al Teatro Rossini di Civitanova Marche. Come spettacolo teatrale lo spettacolo si è potuto quindi arricchire dei contributi del lighting design di Fabiana Piccioli e dei costumi di Shira Wise, che ne riflettevano la sua singolare specificità. Prima di tutto lo spettacolo ha però dovuto misurarsi con la sua natura coreografica, ponendo importanti interrogativi su cosa sia la danza stessa. Nella consapevolezza di quanto sia difficile formulare una valida definizione, ci lasciamo guidare da quanto visto in scena. Ad apertura di sipario, lo spettacolo si presenta già avviato in un’esplosione di suoni, colori e movimenti. I danzatori si cimentano con la tecnica classica e i suoi virtuosismi, lasciandosi andare di tanto in tanto a delle gestualità più espressive. Nel farlo dimostrano una grande sicurezza, da cui però l’individualità non riesce ad affiorare pienamente se non sotto forme alquanto velate. Piano piano si introducono nella coreografia anche dei movimenti improntati alla tecnica moderna, ma essa appare ancora piuttosto costruita ed artificiale, inducendo gli interpreti a cercare il senso della loro presenza scenica nei gruppi, nelle pose plastiche, così come nella flessuosa mobilità del corpo, nei rimandi all’erotismo e negli urli muti alla Munch. Si fa quindi strada l’idea della potenza fisica, tradotta a volte in suoni vocali che danno il là a sequenze coreografiche di gruppo. Allo stesso modo è forte l’idea di un sofferto rapporto con la corporeità, che tramite accenni di cadute, movimenti a contatto con il pavimento, singole resistenze al gruppo, lasciano finalmente intravedere nella danza l’emergere di urgenze interiori. La coreografia diviene simile a una metafora, a un linguaggio in codice afferrato dai partecipanti a questo rito collettivo. La musica si fa più dolce, i temi coreografici pur nel ripetersi acquistano ora un senso diverso. Interviene quindi il lighting design: vi sono dei cambiamenti di luce, si avvertono delle sfumature rosse in una nuvola densa scura che avvolge i danzatori. All’improvviso dei cambiamenti nel pattern coreografico lasciano spezzato lo spettatore, che si chiede oltretutto quale sia il ruolo dei costumi colorati da circensi diaghileviani e perché alla base vi sia quindi l’idea del grottesco. Ci offre un suggerimento una danzatrice che nell’incoraggiare gli applausi riflette la necessità di un vivo rapporto con il pubblico. Lo spettacolo coreografico si sostanzia in fondo nel suo essere una forma di spettacolo dal vivo. La presenza, il rapporto fisico con il proprio corpo e con quello altrui, così come il confronto con lo spettatore sono elementi primari. Qui non vi è dubbio che lo spettatore sia felice di applaudire, che nel ricongiungersi mentalmente con gli interpreti provi una grande gioia esperienziale. Lo spettacolo nella sua astrazione ha saputo coinvolgerlo, proprio perché attraverso un clima di lieve scherzo ha posto delle forti domande. Non essendoci scenografie, bensì solo quinte, l’attenzione si è spostata naturalmente sulla danza. Il movimento da casuale ha acquisito una sua drammaturgia. Il quesito non è solo cosa spinga il danzatore in scena ma cosa lo lega al pubblico. Pur di fronte ad uno spettacolo astratto, decostruito, è il pubblico a cercare una sua drammaturgia, che riconnette prima di tutto alla ricerca del senso nella propria vita. Foto Giuseppe Distefano
Teatro dell’Opera di Roma Stagione di Opere e Balletti 2024- 2025
SIMON BOCCANEGRA
Melodramma in un prologo e tre atti
libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra LUCA SALSI
Maria Boccanegra (Amelia) ELEONORA BURATTO
Jacopo Fiesco MICHELE PERTUSI
Gabriele Adorno STEFAN POP
Paolo Albiani GEVORG HAKOBYAN
Pietro LUCIANO LEONI
Un capitano dei balestrieri MICHAEL ALFONSI
Un’ancella di Amelia ANGELA NICOLI
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Richard Jones
Scene e costumi Antony McDonald
Luci Adam Silverman
Coreografia per i movimenti coreografici Sarah Fahie
Maestro d’Armi Renzo Musumeci Greco
Nuovo Allestimento del Teatro dell’Opera
Roma, 27 novembre 2024
Spettacolo inaugurale della nuova stagione di opere e balletti del Teatro dell’Opera di Roma è questo Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi riproposto nella tradizionale versione del 1881 rivista dall’autore con la collaborazione di Arrigo Boito ed affidato alla direzione del maestro Michele Mariotti e del regista inglese Richard Jones. Questi trova la malinconia come fondamentale cifra espressiva dell’opera e pertanto ritiene di voler trasporre la vicenda in una Genova dell’immediato secondo dopoguerra nella quale il pensiero di una Italia non ancora risollevatasi dalla caduta del Fascismo gli susciterebbe, per analogia, l’evocazione di questo sentimento per le dolorose privazioni subite dalla popolazione. Ogni percorso può essere foriero di nuove letture e va accolto con attenzione ma bisogna far bene attenzione a non rendere “la tinta” di un dramma che già di suo certamente non è dei più allegri e soprattutto vari, troppo uniforme per dirla con Verdi. Nella trama e nella musica del Simone vi sono anche altri sentimenti che ne rendono articolata la vicenda e contribuiscono a scolpirne a tutto tondo i vari personaggi. Così come, volendo proseguire nel parallelo emotivo, l’immediato dopoguerra fu senza dubbio un momento molto duro per la nostra patria ma anche un’epoca di rinnovate energie e di alte tensioni morali. Per esempio tutto lo spettacolo è ambientato in una piazza italiana che ricorda la pittura di De Chirico, sovrastata perennemente da un nero profondissimo ed incombente e il mare, protagonista silenzioso è rievocato solo da un faro e da una grigia scogliera, non si vede né si respira mai. Altro aspetto sottolineato dallo spettacolo e ben presente nel dramma è la lotta fratricida tra patrizi e plebei, i quali spesso si muovono in scena senza una particolare caratterizzazione sociale nel gesto ma si affrontano con singolare ferocia e Simone, uomo magnanimo, d’amore e di pace nel finale ricompone tutti i contrasti. Volendo proseguire nel parallelismo con le recenti vicende storiche italiane ma forse andando un po’ oltre le intenzioni della regia, è bene non dimenticare che all’epoca nella quale viene artificiosamente trasferita l’opera fummo un paese a rischio di precipitare in una sanguinosa guerra civile che avemmo la grazia e l’abilità politica di evitare. Simone ben si colloca in quella temperie ideale esprimendo valori nobili, assoluti e senza tempo che trascendono tanto la Genova trecentesca quanto l’Italia dei primi anni ’50. Curatissima è parsa la recitazione dei vari personaggi anche se prescindendo da aspetti legati al gusto personale, l’idea di far scivolare il dramma storico nella commedia borghese ci lascia molto perplessi e sembra nella sostanza giovare poco alla narrazione. Quanto forse difettava nella parte visiva viceversa viene restituito ampiamente sul versante musicale. Il maestro Mariotti ha trovato accenti diversificati e di rara nobiltà nella ricerca delle atmosfere timbriche, nella chiarezza della concertazione e nelle ispirate pause musicali che si fanno esse stesse teatro. Il mare di Genova, la marina brezza e l’abissale profondità dei sentimenti negati dalle immagini sono tornati prepotentemente, restituiti dalla capacità descrittiva della musica e dal giusto risalto dato alla parola scenica. Ugualmente assai notevole è stata la prova data dal Coro del teatro diretto dal maestro Visco. Sebbene non sempre collocato in posizioni favorevoli per privilegiare la valorizzazione del suono, ha saputo offrire una ottima prestazione in termini di varietà di colori, precisione musicale e cura del declamato. Momento altissimo della serata è risultato la scena del Gran Consiglio nel quale le pennellate di suono hanno davvero saputo tratteggiare l’individualità di un altro unico e ben definito personaggio. E veniamo agli interpreti vocali. Il Simone sebbene storicamente non sia stata un’opera in assoluto molto rappresentata è stata viceversa per la sua innegabile forza teatrale, il cavallo di battaglia dei grandi protagonisti soprattutto della corda grave. Scorretto metodologicamente e sgarbatamente inutile è il fare paragoni. Spesso poi la memoria inganna e in teatro alla fine contano i risultati della singola serata. Tutto il cast si è dimostrato nel complesso omogeneo e di alto livello soprattutto per l’accuratezza della preparazione, la tensione emotiva e l’intensità della prestazione. Nel ruolo eponimo Luca Salsi ha tratteggiato un corsaro fiero e magnanimo ma anche commosso ed affettuoso, con ricca varietà di accenti e colori vocali raffinati e personali. Eleonora Buratto è stata una Amelia soave ma anche decisa e vocalmente ha regalato momenti di intensa commozione. Michele Pertusi con la sua linea di canto nobile ha conferito tutta la alterigia aristocratica unita ad una sofferta, sincera umanità necessarie al personaggio di Fiesco, degno contraltare morale sul fronte “gentilesco” dei valori espressi dal Doge “plebeo”. Il tenore Stefan Pop è stato un Gabriele Adorno giovane, eroico ed amoroso grazie ad un timbro vocale oggettivamente bello ed omogeneo e ad un fraseggio sicuro ed elegante. Buono anche il Paolo Albiani di Gevorg Hakobyan anche se risolto più sulla ampiezza vocale che non sullo scavo psicologico nel personaggio. Infine funzionali e più che validi sono apparsi Luciano Leoni, Angela Nicoli e Michael Alfonsi rispettivamente nei ruoli di Pietro, dell’ancella e del capitano. Alla fine lunghissimi e sentiti applausi hanno premiato gli interpreti di una serata felice, nella quale tutti si sono espressi con generosa e alta professionalità. Photocredit Fabrizio Sansoni
Torino, Tetro Regio, stagione d’opera e balletto 2024-25
“LE NOZZE DI FIGARO”
Dramma giocoso in quattro atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Il Conte di Almaviva VITO PRIANTE
La Contessa d’Almaviva RUZAN MANTASHYAN
Figaro GIORGIO CAODURO
Susanna GIULIA SEMENZATO
Cherubino JOSE’ MARIA LO MONACO
Marcellina CHIARA TIROTTA
Bartolo ANDREA CONCETTI
Basilio JUAN JOSE’ MEDINA
Don Curzio CRISTIANO OLIVIERI
Antonio JANUSZ NOSEK
Barbarina ALBINA TONKIKH
Prima contadina EUGENIA BRAYNOVA
Seconda Contadina DANIELA VALDENASSI
Orchestra e coro del Teatro Regio
Direttore Leonardo Sini
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Maestro al fortepiano Carlo Caputo
Regia Emilio Sagi
Scene Daniel Bianco
Costumi Renata Schussheim
Luci Eduardo Bravo
Coreografie Nuria Castejon
Torino, Teatro Regio, 26 novembre 2024
Il Regio apre la stagione in grande stile con una produzione de “Le nozze di Figaro” giustamente sontuosa per l’importante occasione. La parte scenica è la ripresa dello storico spettacolo realizzato nel 2009 da Emilio Sagi per il Teatro Real di Madrid e che rimane nonostante gli anni trascorsi semplicemente splendido. Sagi non forza, non attualizza, non si mette mai in contrasto con il testo e la musica quello che fa è mettere in scena la Spagna del tardo Settecento al massimo della sua bellezza, una produzione che si fa pittura visiva senza rinunciare a essere teatro. Quello che ritroviamo nella regia di Sagi è quello stupore del bello cui troppo spesso il teatro moderno rinuncia. Le grandi sale del castello con le teorie di archi e i muri decorati di azulejos che sembrano vibrare alla calda luce del meriggio mediterraneo; il lussureggiante giardino – quasi un eden impregnato di voluttà – su cui si alza una radiosa luna estiva. Altrettanto belli i costumi, curati fino al minimo dettaglio, si nota un’attenzione quasi manicale per i tessuti, per le decorazioni, per gli ornati che sono sempre semplici e rigorosi – come la nuova moda neoclassica imponeva – ma sempre raffinatissimi.
La bellezza visiva si unisce a una lettura moderna nel senso migliore del termine fatta di una recitazione spigliata e naturale, lontanissima dalle ciprie e dalle statuine di biscuit cui troppo a lungo si è ridotto Mozart ma vibrante di vita, di energia, di calore. Una splendida dimostrazione di come la tradizione possa essere viva e moderna, un perfetto equilibrio che potrebbe servire da lezione. Nel taglio dello spettacolo non stona il carattere fortemente spagnolo – con tanto di nacchere di accompagnamento – con cui Nuria Castejon rilegge il fandango del III atto.Bellissima sorpresa Leonardo Sini, giovane direttore al debutto al Regio. Il suo gesto molto bello, ampio, morbido si ritrova nelle scelte stilistiche. Un suono chiaro, limpido, autenticamente mediterraneo, una leggerezza mai superficiale, una vivacità sempre pienamente controllata e mai fine a se stessa e sempre soffusa di un trepido lirismo. Ottimamente diretta l’orchestra del Regio suona al meglio delle proprie possibilità e sempre impeccabile è la prova del coro. Il cast ha purtroppo dovuto fare i conti con una stagione particolarmente infida. Principale vittima è stata Monica Conesa costretta a rinunciare alle prime recite e sostituita in extremis da Ruzan Mantashyan. La cantante armena ha una voce timbricamente assai piacevole e potenzialmente ideale per il ruolo, soffre però di un vibrato non sempre ben controllato che inficia in parte i momenti di abbandono più lirico. Sul piano interpretativo s’impegna ma sicuramente la situazione non l’agevola. Bellissima ed elegante giustifica almeno sul piano visivo le infatuazioni di Cherubino. Non ci è parsa al meglio delle condizioni neppure Giulia Semenzato (Susanna) che ha regolarmente cantato e assai bene ma una certa prudenza era palese. La Semenzato è forse uno dei talenti più puri sulla scena attuale nel campo dell’opera barocca e settecentesca e l’identificazione con il personaggio di Susanna è assoluta, però è innegabile che i problemi di salute le creino qualche opacità e la costringano a essere molto prudente nelle discese al grave. Ha però le qualità per venirne a capo e la sicura forza comunicativa le permette di costruire un personaggio teatralmente riuscito. Solo lodi per il Cherubino di José Maria Lo Monaco. La voce mezzosopranile ma chiara e luminosa è perfetta per il ruolo di cui trasmette tutta l’efebica freschezza. Il canto è impeccabile, precisissimo, di una musicalità assoluta e l’interprete sfoggia un fraseggio vario e articolato capace di cogliere il senso di ogni frase, di ogni parola giocando sul peso vocale, sui colori, sull’agogica – quanto stupita inquietudine nel rallentando di “E, se non ho chi m’oda, parlo d’amor con me”. Impeccabile il Conte di Vito Priante che nel ruolo oggi conosce pochi rivali. Non solo la voce è perfetta per la parte nel suo nobile calore timbrico, non solo l’emissione è solidissima ma soprattutto è la capacità di cogliere l’essenza più vera del personaggio. Un Conte godereccio ma mai triviale, sempre aristocratico e signorile, padrone delle proprie emozioni e solo incapace di adattarsi al mondo che cambia; il suo “Contessa perdono” è di un’intensità tale da non lasciare dubbi sulla sincerità del suo cuore. Giorgio Caoduro è un Figaro dalla voce chiara ma è bella e sonora, magistrale il lavoro sulla parola e sugli accenti. La dizione nitidissima, il fraseggio mercuriale, la ricchezza e la sincerità espressiva arrivano al cuore. Non a caso è forse nel IV atto che il suo Figaro emerge in tutta la sua umanità, nella frustrazione di “Aprite un po’ quegli occhi” cui però segue il trionfo di una vivissima intelligenza capace di trionfare sul caos della vita.Andrea Concetti cesella in modo magistrale la parte di Bartolo; Chiara Tirotta è forse un po’ troppo giovanile timbricamente come Marcellina ma canta in modo squisito l’aria del IV atto giustamente reinserita. Avrebbe meritato la sua anche il Basilio di Juan José Medina, benissimo cantato e ancor meglio interpretato. D’incantevole freschezza la Barbarina di Albina Tonkikh, un po’ troppo caricato l’effetto balbuzie del Don Curzio di Cristiano Olivieri e ottime le parti di contorno, tutti membri – come la stessa Tonkikh – del Regio Ensemble.
Roma, Teatro Parioli Costanzo
IL NUOTATORE DI AUSCHWITZ
Ispirato alla vera storia di Alfred Nakache e al libro Uno psicologo nei lager di Viktor E. Frankl
Con Raoul Bova
Testo e Regia Luca De Bei
Disegno Luci Marco Laudando
Contributi Video Marco Renda
Musiche Originali Francesco Bova
Aiuto Regia: Barbara Porta
Costumi Francesca Schiavon
Roma, 27 novembre 2024
“Il nuotatore di Auschwitz” intreccia le vite di Alfred Nakache e Viktor Frankl, due uomini accomunati dall’esperienza nei lager nazisti e dalla capacità di resistere e trovare un senso anche nell’abisso dell’umanità. Alfred Nakache, nuotatore di fama mondiale ebreo di origine algerina, deportato ad Auschwitz come detenuto 172763, trova nella sua passione per l’acqua una via per sopravvivere all’orrore. Malgrado le privazioni, la fame e la perdita dei suoi cari, non si arrende. Dopo la liberazione, torna a gareggiare e raggiunge il traguardo delle Olimpiadi di Londra del 1948. Parallelamente, la figura di Viktor Frankl, psichiatra e autore di Uno psicologo nei lager, offre una prospettiva sull’importanza di trovare un significato all’esistenza anche nelle situazioni più estreme, diventando il contrappunto intellettuale ed emotivo alla storia di Nakache. Luca De Bei sceglie un’impostazione minimalista per la regia, valorizzando la parola e le immagini. La narrazione è sostenuta dalla forza del testo e dall’evocazione visiva, con pochi elementi scenografici che suggeriscono piuttosto che mostrare. L’acqua, filo conduttore della storia di Nakache, viene richiamata con semplicità con quattro linee luminose parallele che attraversano il palco, che ricordano le corsie di una piscina, ma anche quelle dei binari che portano al viaggio della sofferenza di Auschwitz. Questo approccio sobrio evita ogni spettacolarizzazione, lasciando che l’intensità della narrazione emerga attraverso dettagli simbolici. Il disegno luci di Marco Laudando gioca un ruolo centrale nell’atmosfera. I colori variano tra azzurri, grigi, bianchi freddi e rossi, richiamando il gelo del lager, il fluire dell’acqua e una luce simbolica di speranza. I chiaroscuri accompagnano i momenti di maggiore introspezione, isolando l’attore e amplificando il senso di solitudine e resilienza. La scenografia, essenziale ma efficace, trova nei giochi di luce la sua forza comunicativa. I costumi, curati da Francesca Schiavon, si distinguono per la loro semplicità e coerenza simbolica. Raoul Bova indossa una maglia e un pantalone grigio, un abbigliamento che richiama un uniforme quasi anonima e spersonalizzante dei detenuti del lager, ma che al contempo evidenzia il legame con la scena essenziale e con la tonalità cromatica dello spettacolo. Raoul Bova, unico attore in scena, affronta un ruolo complesso che richiede equilibrio e profondità. Per chi conosce il suo passato di atleta e campione di nuoto, il legame con il personaggio appare quasi fortuito, la sua esperienza personale come atleta aggiunge autenticità alla figura di Nakache. La sua interpretazione si caratterizza per una compostezza che riflette la tensione del racconto. Si alterna con equilibrio le vite di Nakache e di Frankl, grazie a una performance mai eccessiva, che evita ogni enfasi per lasciare spazio alla loro storia. I due leggii e il centro del palco rappresentano i punti focali da cui si irradia la sua voce. Nella recitazione, il passaggio dal personaggio al narratore mantiene quasi la stessa linea tonale, creando un effetto di continuità che, se da un lato restituisce la sensazione di un unico flusso narrativo coerente, dall’altro potrebbe attenuare la distinzione emotiva tra le diverse voci. Le musiche originali di Francesco Bova sono sobrie, accompagnano lo sviluppo della storia senza mai sovrastarla. I suoni creano un’atmosfera sospesa, accentuando la dimensione riflessiva dello spettacolo e il senso di attesa che permea la narrazione. Il nuotatore di Auschwitz non cerca il forte impatto emotivo, ma punta sulla capacità di suggerire e stimolare riflessioni profonde. Il tema centrale – la resistenza umana contro ogni avversità – viene trattato con rispetto e misura, celebrando il coraggio e la speranza anche nei momenti più bui. È una storia che ricorda a ciascuno di noi che, anche quando si affrontano le acque più gelide della vita, si può continuare a nuotare, trovando nel coraggio e nell’amore la forza per andare avanti. Un inno alla resistenza umana, capace di trasformare l’orrore in un trampolino di lancio verso il senso più profondo della vita.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
DIOGGENE
con Stefano Fresi
Scritto e diretto da Giacomo Battiato
Musiche Germano Mazzocchetti
Costumi Valentina Monticelli
Scultore Oscar Aciar
Luci Marco Palmieri
Decoratore Bartolomeo Gobbo
Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo, Stefano Francioni Produzioni, Argot Produzioni
Roma, 27 novembre 2024
L’ultimo spettacolo interpretato da Stefano Fresi, “Dioggene”, scritto e diretto da Giacomo Battiato, si configura come un’ardita esplorazione delle infinite potenzialità dell’arte teatrale nel dipanare il paradosso dell’esistenza umana. Lo spettacolo, suddiviso in tre quadri, è un percorso a spirale che scava nella psiche del protagonista, Nemesio Rea, restituendo la condizione umana in tutta la sua cruda contraddittorietà, sfuggendo alle convenzioni più rassicuranti e stabilite. La struttura narrativa di “Dioggene” si articola attraverso tre lingue e tre ambientazioni simboliche che si riflettono nella parabola del protagonista: una progressiva discesa verso l’essenza più autentica dell’essere. Nel primo quadro, “Historia de Oddi, Bifolcho“, Nemesio interpreta un testo in autentico volgare duecentesco, immergendosi nella crudezza della battaglia di Montaperti, evocando un’atmosfera epica, popolata da eroi contadini spogliati di qualsiasi retorica romantica. La rappresentazione è rafforzata da una scenografia essenziale ma potentemente evocativa, dominata da un mostruoso spaventapasseri, simbolo di terrore atavico, emblema di un’umanità inerme e inconsapevole della propria fragilità. La scultura di Oscar Aciar dona alla scena una dimensione mitologica, capace di far emergere le paure più profonde dell’essere. Le opere di Oscar Aciar contribuiscono alla profondità simbolica dello spettacolo, amplificando i temi e le emozioni che permeano la narrazione. Nel primo quadro, lo spaventapasseri di Aciar incarna il terrore e l’afflizione dell’umanità, un simbolo della condizione precaria e vulnerabile dell’uomo. Nel secondo quadro, “L’attore e il buon Dio“, il testo si fa confessionale, e la scena si trasforma nel luogo sacro e profano del camerino, santuario della metamorfosi dell’attore. Qui, il linguaggio è diretto e brutale, aderente alla realtà cruda della frattura coniugale che il protagonista racconta. L’armatura posta sul palco è simbolo della fragilità celata dietro una parvenza di forza, sospeso tra maschera e verità. Anche qui, la scultura di Aciar gioca un ruolo fondamentale: l’armatura non è solo oggetto di scena, ma diventa un’opera d’arte che amplifica il significato del conflitto interiore, rendendo tangibile la lotta del protagonista tra apparenza e sostanza. Nel terzo quadro, “Er Cane de via der fosso d’a Maijana“, si giunge al culmine del processo di spoliazione del protagonista. Nemesio rinuncia a ogni possesso e apparenza, abbandonando carriera e identità sociale per vivere, come un moderno Diogene, in un bidone dell’immondizia. La scelta del romanesco, lingua della strada, accompagna la metamorfosi di Nemesio in un filosofo dei nostri tempi, che attraverso il rifiuto delle convenzioni si riappropria della propria libertà. La scenografia essenziale presenta il bidone dell’immondizia come simbolo dei rifiuti di una società che rigetta e abbandona, ma che allo stesso tempo diviene rifugio, luogo di rinascita. L’opera di Aciar, qui, incarna il degrado e la rinascita, trasformandosi da oggetto di scarto a culla filosofica, dove il protagonista riscopre la propria essenza. La regia di Giacomo Battiato gioca sapientemente sulla dissonanza tra testo e azione scenica. L’apparente semplicità dei gesti è frutto di un lavoro accurato e calibrato che mira a svuotare la scena di ogni orpello, concentrando tutta l’attenzione sulla parola e sulla presenza fisica dell’attore, valorizzando così il carisma di Stefano Fresi. Il protagonista si erge come monumentale perno dell’intero spettacolo, offrendo una performance titanica, capace di spaziare dall’epicità alla commedia con una fluidità straordinaria, intrisa di umanità e in grado di incarnare sia la tragicommedia della vita che la sua dimensione poetica. La sinergia tra la visione registica e la presenza scenica di Fresi rappresenta il punto più alto di questo spettacolo, che si fa appello alla meraviglia del mondo e della vita, proprio attraverso la violenza, la rabbia e la malinconia che segnano il percorso esistenziale. Fresi si muove con disinvoltura tra le tre lingue, costruendo un’architettura narrativa in cui ogni gesto e parola sono carichi di significati stratificati, suggerendo allo spettatore una continua ricerca di senso, senza risposte definitive, ma con il conforto del dubbio. Una performance di complessità e profondità rare, capace di toccare il pubblico e restituire al teatro la sua dimensione più pura e vera: quella dell’incontro tra umano e umano.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
IL TEMPO DEL FUTURISMO
3 dicembre 2024 – 28 febbraio 2025
A cura di Gabriele Simongini
La mostra “Il Tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, promossa e sostenuta dal Ministero della Cultura e curata da Gabriele Simongini, celebra l’ottantesimo anniversario dalla scomparsa di Filippo Tommaso Marinetti, avvenuta il 2 dicembre 1944. Diversamente dalle mostre del passato dedicate al rivoluzionario movimento d’avanguardia fondato nel 1909 da Marinetti, questa mostra si concentra sul rapporto tra arte e scienza/tecnologia e illustra quel “completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche” posto alla base della nascita del Futurismo. Una riflessione oggi attualissima, se si pensa che lo tsunami tecnologico dell’intelligenza artificiale sta investendo l’umanità, avverando la profezia della macchinizzazione dell’umano e dell’umanizzazione della macchina preconizzata proprio dai futuristi. La mostra punta a essere inclusiva, didattica e multidisciplinare, si rivolge al grande pubblico e in particolare alle nuove generazioni. Per questo illustra i concetti di velocità, di spazio, di distanza e di sensibilità percettiva evidenti nei capolavori del Futurismo contestualizzandoli nella società dell’epoca, rivoluzionata dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Saranno esposte circa 350 opere fra quadri, sculture, progetti, disegni, oggetti d’arredo, film, oltre a un centinaio fra libri e manifesti, con un’attenzione alla matrice letteraria del movimento marinettiano che non ha precedenti, insieme con un idrovolante, automobili, motociclette e strumenti scientifici d’epoca. Per descrivere al meglio l’atmosfera futurista, l’esposizione sarà arricchita da due installazioni site-specific di Magister Art e di Lorenzo Marini e sarà vivacizzata da incontri di approfondimento a cura della Fondazione Magna Carta. Si ringraziano i musei italiani e stranieri, tra cui il MOMA, il Metropolitan Museum di New York, il Philadelphia Museum of Art, la Estorick Collection di Londra e il Kunstmuseum Den Haag de L’Aia che con i loro prestiti hanno generosamente contribuito alla mostra. Il catalogo sarà pubblicato da Treccani. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Sistina
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
originariamente diretto e coreografato da Jerome Robbins
Coreografie Billy Mitchell
Direzione Musicale Emanuele Friello
Regia e adattamento italiano di Massimo Romeo Piparo
Acclamata dagli spettatori di tutto il mondo, la storia d’amore “per eccellenza” sta per infiammare il palco del Teatro Sistina: il Musical-Kolossal “West Side Story“, nella versione adattata per il pubblico italiano da Massimo Romeo Piparo che ne firma anche la regia, si annuncia come una delle novità più attese dell’anno. Con la grandiosa colonna sonora composta da Bernstein, suonata dall’Orchestra dal vivo di 18 elementi diretta dal Maestro Emanuele Friello, ed oltre 30 artisti sul palco coreografati da Billy Mitchell, stella emergente del West End londinese, lo spettacolo vedrà protagonisti, nel ruolo di Tony, Luca Gaudiano (vincitore di Sanremo Giovani nel 2021 e della 13° edizione del varietà di Rai1 “Tale e Quale Show”) e in quello di Maria, Natalia Scarpolini, già nel cast di “Cats” di M.R. Piparo. Tratto dall’omonimo Musical che Arthur Laurents, Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Jerome Robbins crearono nel 1957 ispirandosi al “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, da cui poi nel 1961 venne realizzato anche il celebre film diretto dallo stesso Robbins con Robert Wise, questo autentico gioiello promette intense emozioni grazie anche ai suoi temi forti, come l’amore contrastato tra due giovani e la rivalità tra due gang contrapposte destinata a sfociare in tragedia. In ormai quasi 70 anni di vita, “West Side Story” ha saputo parlare a ogni epoca e a tutte le età: una gloriosa carriera testimoniata da una lunga scia di successi di pubblico e critica, nonché dai tantissimi premi vinti. Se la commedia teatrale ottenne una strepitosa accoglienza a Broadway e a Londra, rimanendo sulle scene di fatto fino a oggi e continuando a essere rappresentato in numerosi revival, il film consacrò definitivamente il successo di questa storia appassionante, in cui l’amore e il coraggio si contrappongono alla violenza e all’intolleranza. La pellicola di Robbins e Wise infatti ottenne la candidatura a undici premi Oscar, vincendone dieci e diventando così il musical più premiato agli Academy Awards. “West Side Story” è stato anche il primo film a ottenere un doppio Oscar al miglior regista, per Wise e Robbins. Robbins fu inoltre insignito di un Oscar speciale per i suoi meriti in campo coreografico.
Ambientato negli anni ’50, “West Side Story” racconta la contrastata storia d’amore tra Tony e Maria, due giovani appartenenti a mondi completamente diversi, e i dissidi tra due bande che si contendono il predominio sul quartiere dell’Upper West Side: i Jets, un gruppo di nativi bianchi guidato da Riff, e gli Sharks, immigrati portoricani capitanati da Bernardo. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
PROGETTO ČECHOV – terza tappa
IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o.a.): Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Immersi nell’inutilità del nostro giardino.
Leggendo il Giardino dei Ciliegi di Anton Čechov mi è sempre sembrato palese – e magari ho sempre sbagliato – che il nostro giardino è sinonimo di nostro teatro. Ed avendo avuto il progetto Čechov una validità politica dal suo principio, dal rientro post pandemico con Gabbiano per interrogarci sul come ripartire nell’incontro con il pubblico, mi sembra stimolante chiudere il cerchio con questo testo così profondo nelle sue domande. Un testo, l’ultimo di Čechov, che presenta a tratti monologhi più concettuali e smaccatamente filosofici rispetto ai precedenti, ma che continua a sballottarci da un personaggio all’altro, spostando la “ragione” su più punti e facendoci letteralmente girare la testa. Termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte. Ecco, forse, cosa vuol dire drammaturgia. Ecco perché Čechov, sopravvissuto al tempo, dovrebbe essere il maestro di riferimento del teatro del domani: un simpatico individuo che prendendosi un po’ in giro immette generosamente una riflessione nell’altro. Con la cura verso l’altro e la noncuranza del proprio io. In un teatro dove bisogna autodefinirsi pedagoghi e maestri per salvarsi dalla mediocrità, Čechov ci rassicura nel dubbio, citando Amleto attraverso le mani troppo in movimento di Lopachin e ci ricorda che il dubbio fa parte del nostro mestiere e che senza di quello non potremmo sopravvivere, che senza il dubbio la creatività perde appetito. In un Italia che cerca sempre di più sintetiche risposte sbertucciando la complessità, il progetto Čechov rischia di non sapere. Si potrebbe scomodare il paradosso socratico del “allora capii che veramente io ero il più sapiente perché ero l’unico che non sa né pensa di sapere” ma sono certo di poter esprimere lo stesso concetto con qualche canzoncina da Festivalbar nella prossima messa inscena. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
FRANCISCUS
Il folle che parlava agli uccelli
in collaborazione con Corvino Produzioni
presentano
Simone Cristicchi
di Simone Cristicchi
scritto con Simona Orlando
canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara
musiche e sonorizzazioni Tony Canto
scenografia Giacomo Andrico
luci Cesare Agoni
costumi Rossella Zucchi
aiuto regia Ariele Vincenti
regia Simone Cristicchi
Centro Teatrale Bresciano
Accademia Perduta Romagna Teatri
Franciscus, il rivoluzionario, Franciscus, l’estremista, Franciscus, l’innamorato della vita, Franciscus, che visse per un sogno, Franciscus, il folle che parlava agli uccelli, Franciscus, che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni volto di persona ma anche di animale, e non solo in essi ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri, In cosa risiede l’attualità, del suo messaggio, Cosa può dirci la filosofia del “ricchissimo” di Assisi, nella confusione della modernità affamata di senso, nelle promesse tradite del progresso, Dopo il grande successo di Happy Next, Simone Cristicchi continua a stupire il pubblico teatrale con un nuovo progetto in solo che realizza con il Centro Teatrale Bresciano, dedicato questa volta a San Francesco, Tra riflessioni, domande e canzoni inedite – che portano la firma dello stesso Cristicchi e della cantautrice Amara – l’artista romano indaga e racconta il “Santo di tutti”, che è stato innanzitutto un uomo in crisi, consumato dai dubbi, un laico che imparava facendo, si perfezionava incontrando, e il cui esempio riuscì ad attrarre una comunità, ma non senza destare sospetti di alcuni del popolo, Uno in particolare, Cencio, stracciaiolo girovago, inventore di una lingua solo sua, osservatore critico del viaggio di Francesco, interpretato dallo stesso Cristicchi, Al centro di questo spettacolo, il labile confine tra follia e santità, tema cardine della vita personale e spirituale di Francesco, Ma anche la povertà, la ricerca della perfetta letizia, la spiritualità universale, l’utopia necessaria di una nuova umanità che riesca a vivere in armonia con il creato, Temi che nel frastuono della società in cui viviamo diventano ancora più urgenti e vividi, Uno spettacolo ad alta intensità emotiva, che fa risuonare potenti in noi le domande più profonde e ci spinge a ricercarne una possibile risposta. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Sala Umberto
L’ERBA DEL VICINO È SEMPRE PIÙ VERDE!
scritto e diretto da Carlo Buccirosso
con Carlo Buccirosso, Fabrizio Miano, Donatella De Felice, Peppe Miale, Elvira Zingone, Maria Bolignano, Fiorella Zullo
scene Gilda Cerullo e Renato Lori
costumi Zaira De Vincentiis
disegno luci Luigi Della Monica
musiche Cosimo Lombardi
aiuto regia Fabrizio Miano
produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro • A.G. Spettacoli
Un irreprensibile funzionario di banca, da tempo in crisi matrimoniale, vive un momento di profonda insoddisfazione. In continua spasmodica ricerca di libertà e di nuove esperienze di vita, si ritroverà presto soggiogato dalla sindrome dell’erba del vicino. E se quel senso di attrazione verso colui che è diverso da te e che riesce in tutto più di te si trasformasse in un’irrefrenabile follia omicida? Uno spettacolo travolgente, carico di mistero e ironia, che ci terrà con il fiato sospeso! Mario Martusciello, funzionario benestante di banca, da tempo in aperta burrascosa crisi matrimoniale con sua moglie, si è rifugiato da alcuni mesi in un moderno monolocale, vivendo un momento di profonda depressione, insoddisfatto del proprio tenore di vita, delle proprie ambizioni, delle proprie scelte, delle proprie amicizie, e non di meno di sua sorella, rea di preoccuparsi eccessivamente del suo inaspettato isolamento. In continua spasmodica ricerca di libertà, di cambiamenti, di nuove esperienze di vita e di un’apertura mentale che gli è sempre stata ostacolata dai sensi di inferiorità e dalla mancanza di spregiudicatezza, Mario guarda il mondo e le persone che lo circondano alla stessa stregua di un fanciullo smanioso di cimentarsi con le attrazioni più insidiose di un immenso parco giochi, cui non ha mai avuto l’opportunità di poter accedere… Ed è così che pervaso dall’adrenalina della novità, dall’eccitazione del rischio, nonché dalla paura dell’ignoto, si ritroverà presto soggiogato dalla sindrome dell’”Erba del vicino”, ovverosia dalla sopravvalutazione di tutto quanto non gli appartenga, di ogni essere umano diverso da sé stesso, di qualsiasi tipo di emozione possa procurargli una donna che non sia uguale a sua moglie, come “una giovane avvenente influencer” conosciuta solo per caso… il tutto accompagnato da un senso di autocommiserazione, ed da un’ammirazione spropositata verso chi nella vita ha saputo guadagnarsi, con grande fortuna, soldi e successo a sbafo, a discapito suo che mai ha avuto il fegato di osare, né di cambiare modo di essere pur di raggiungere qualcosa d’importante… È allora che quel senso di attrazione verso chi è diverso da te, che riesce in tutto più di te, e che sa essere quello che giocoforza non sei mai stato tu, potrebbe anche trasformarsi in un’irrefrenabile follia omicida, e a quel punto… sotto a chi tocca! In un simile spiazzante panorama, chiunque avesse la malaugurata idea di suonare alla porta di casa Martusciello per qualsivoglia motivo, come per la consegna della ordinazione del giapponese o di un pacco postale o, peggio ancora, per uno sventurato errore domiciliare, si troverebbe invischiato in una situazione non facilmente gestibile, con l’arduo compito poi di tentare di uscire dall’appartamento in tempi brevi, e possibilmente nelle migliori condizioni di salute!… In definitiva, “l’erba del vicino” sarà pure più verde di quella dell’altro, ma ciò che conta è che non si macchi di rosso “sangue”… E se invece fosse proprio il vicino di casa in carne ed ossa, a sfidare la sorte suonando alla porta dell’appartamento di Mario, magari solo per chiedere la cortesia di qualche foglia di prezzemolo, cambierebbe qualcosa al finale della nostra vicenda?… Carlo Buccirosso Qui per dettagli ed informazioni. phGildaValenza