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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Domenica di Quinquagesima

gbopera - Dom, 11/02/2024 - 00:06

Al concorso per il posto di Kantor alla at Thomasschule di Lipsia. resosi vacante nel giugno del 1722 per la morte di Johann Kuhnau (1660-1722), aveva preso parte come abbiamo scritto in precedenza,  anche il compositore Christoph Graupner (1683-1750) che aveva presentato 2 cantate. È quindi assai probabile che anche Bach si sia fatto valere presentando 2 lavori, la prima delle quali fu certamente la Cantata nr.22 che abbiamo trattato, l’altra partitura fu quasi sicuramente la Cantata nr.23 (“Du wahrer Gott und Davids Sons”) composta probabilmente tra il 1717 e il 1723 e a noi pervenuta in una versione riferita alla domenica di Quinquagesima del 20 febbraio 17124 e nella quale Bach apportò dei ritocchi alla parte strumentale e che presenta, in conclusione l’elaborazione del Corale  Christe, du Lamm Gottes, l’Agnus Dei tedesco che Bach utilizzò anche nella seconda versione della Passione secondo  Giovanni, sempre come finale, poi eliminato nella terza versione della stessa Passione. Anche se condotta in modo più severo rispetto la nr.22, questa composizione risulta ambientata nella stessa situazione spirituale. Due opere “gemelle” che godono anche della stessa intensità espressiva, entrambe impostate  su un vigoroso contrappunto che esprime quanto sia perfetto il dosaggio tra arte costruttiva e concentrazione spirituale, interiore. Appena accennati i riferimenti alla lettura evangelica della domenica di Quinquagesima tratta dal Vangelo di Luca (cap.18 vers.35-43):“Or avvenne che com’egli si avvicinava a Gerico, un certo cieco sedeva presso la strada, mendicando; e, udendo la folla che passava, domandò che cosa fosse. E gli fecero sapere che passava Gesù il Nazareno. Allora egli gridò: Gesù figliuol di Davide, abbi pietà di me! E quelli che precedevano, lo sgridavano perché tacesse; ma lui gridava più forte: Figliuol di Davide, abbi pietà di me! E Gesù, fermatosi, comandò che gli fosse menato; e quando gli fu vicino, gli domandò: Che vuoi tu ch’io ti faccia? Ed egli disse: Signore, ch’io ricuperi la vista. E Gesù gli disse: Ricupera la vista; la tua fede t’ha salvato. E in quell’istante ricuperò la vista, e lo seguiva glorificando Iddio; e tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio”. Troviamo questo riferimento nel recitativo del tenore (nr.2), mentre più evidente è il richiamo alla prima lettera ai Corinzi (cap.13):”…La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta… ” Sull’onda di questa dichiarazione, al centro di questa Cantata c’è l’invocazione della misericordia divina, la salvezza e la consolazione da ogni male.Il ciclo delle Cantate bachiane riprende con quella che era denominata la “Dominica Oculi” e che coincide con la terza domenica del tempo di Quaresima che, in questo 2024 cade il 3 marzo.
Nr.1 – Aria/Duetto (Soprano, Contralto)
Dio vero e figlio di Davide,
tu che dal fondo dell’eternità
hai già contemplato l’afflizione del mio cuore
e le sofferenze del mio corpo, abbi pietà di me!
E con la tua mano miracolosa,
che ha scacciato tanto male,
concedimi soccorso e consolazione.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
Ah, non passare ignorandomi;
tu, Salvatore di tutti gli uomini,
ti sei manifestato
per soccorrere i malati, non i sani. 1
Per questo partecipo della tua onnipotenza;
ti vedo su questo cammino
lungo il quale
sono stato abbandonato,
anche se cieco.
Mi afferro a te
e non ti lascio andare
senza aver avuto la tua benedizione.
Nr.3 – Coro
Gli occhi di tutti sono rivolti a te,
Signore, Dio onnipotente,
ed i miei in particolare.
Dona a loro forza e luce,
non lasciarli
mai più nelle tenebre!
I tuoi segni nel futuro siano
il punto di riferimento
di tutte le loro opere,
finché un giorno, con la morte,
tu deciderai di chiuderli di nuovo.
Nr.4 – Corale
Cristo, Agnello di Dio,
che togli i peccati del mondo,
abbi pietà di noi!
Cristo, Agnello di Dio,
che togli i peccati del mondo,
abbi pietà di noi!
Cristo, Agnello di Dio,
che togli i peccati del mondo,
dona a noi la pace. Amen.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Du wahrer Gott und Davids Sons” BWV 23

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Brancaccio: “La Divina Commedia Opera Musical” dal 13 al 25 Febbraio 2024

gbopera - Sab, 10/02/2024 - 14:40

Roma, Teatro Brancaccio
LA DIVINA COMMEDIA Opera Musical
Regia di Andrea Ortis
con
Dante ANTONELLO ANGIOLILLO
Virgilio ANDREA ORTIS
Beatrice MYRIAM SOMMA
Caronte, Ugolino, Cesare, San Bernardo GIPETO
Francesca, Matelda VALENTINA GULLACE
Pier delle Vigne, Arnaut Daniel ANTONIO SORRENTINO
Ulisse, Catone, Guido Guinizzelli LEONARDO DI MIMMO
Pia de’ Tolomei, La Donna SOFIA CASELLI
Voce Narrante GIANCARLO GIANNINI
Musiche Marco Frisina
Testi Gianmario Pagano, Andrea Ortis
Coreografie Massimiliano Volpini
Scene Gabriele Moreschi
Luci Valerio Tiberi
Video Virginio Levrio
Prodotto da MIC International Company
All’inizio dello spettacolo, Dante si ritrova solo nella selva, assalito da dubbi e incertezze. Maria anima il mondo. La relazione tra la donna e l’uomo dà un senso alle perplessità intime e che dà inizio al viaggio del poeta. Il suo cammino però viene interrotto bruscamente dall’incontro con le fiere. È Virgilio, consegnato alla scena da un’apparizione carica di mistero a prendere per mano Dante, conducendolo, con fermezza e protezione paterne, all’interno del Purgatorio. Insieme vengono traghettati dall’eccentrico Caronte, uomo grottesco e visibilmente folle che schernisce malamente le anime che traghetta verso le sponde opposte dell’Acheronte. La sua enorme barca in scena color petrolio è mortifera, immersa in una palude dai riflessi color petrolio. È Caronte che apre le porte a una sequela di straordinari incontri. Dante conoscerà Francesca da Rimini, incarnazione formidabile della passione amorosa che nel peccato di lussuria trova la propria dannazione, costretta a vivere nella tempesta infernale e irrimediabilmente abbracciata all’amato Paolo. Alla compassione per chi morì d’amore, segue il terrificante passaggio attraverso la città di Dite, in cui l’aggressione di demoni infernali, volanti, o striscianti, minaccia l’avanzata di Dante. Sempre al fianco del suo amato Maestro Virgilio, il poeta fiorentino approda nella mortifera foresta dei suicidi, che allo spettatore appare pietrificata, lugubre. Qui avviene l’incontro con Pier delle Vigne, altro personaggio storico, accusato in vita di tradimento: suicidatosi a causa di un onore irrimediabilmente compromesso, si presenta a Dante come tronco, impressionante immagine di sterilità e negazione della vita. Solo Dante riuscirà ad animarlo, anche se per poco, dandogli la possibilità di raccontare col canto la propria pena. Dante, profondamente scosso dalla crudeltà dei destini con cui entra in contatto, acquisisce una nuova consapevolezza. Poco dopo incontrerà sul proprio cammino Ulisse. Il loro incontro sarà reso in scena da contenuti visual animati in 3D. È il ghiaccio a chiudere il cerchio del passaggio infernale: con Ugolino, Dante raccoglie la disarmante testimonianza di un padre che divora i propri figli e ne rimane scosso e raggelato, tanto quanto la landa desolata all’interno della quale si consuma l’incontro con l’ultimo dannato. Dopo le immagini a tratti opprimenti, dalle forti tinte emotive del primo atto, Dante si ritrova immerso in uno scenario più rarefatto. Sulla spiaggia del Purgatorio incontra Catone, che con il proprio racconto canta la forza morale di chi non cedette al compromesso e si batté in modo integerrimo, in difesa della propria libertà di pensiero contro Cesare. Tra sfumature cangianti e paesaggi carichi di magia, Dante si imbatte in una processione di anime in preghiera, tra cui vi è Pia de’ Tolomei, vittima di femminicidio ad opera del marito. Dopo un malinconico canto notturno che incornicia Dante e Virgilio nell’unico momento di sosta lungo il viaggio, l’Angelo della Penitenza permette il passaggio attraverso la Porta del Purgatorio. Così Dante e Virgilio incontrano gli amici poeti Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel. A illuminare come un faro nella notte il percorso, le brevi e topiche apparizioni di Beatrice rinfrancano la fiducia di Dante, che adesso più che mai percepisce prossimo l’avvicinamento, come spinto da una felicità ancora incosciente. Sarà proprio Beatrice a distrarlo dal momento solo il viaggio. Da solo Dante approda dunque nel paradiso terrestre, in cui la stravagante e leggiadra figura di Matelda lo conduce al fatidico Incontro con l’amata. Una solenne processione introduce e sancisce il momento emozionante in cui Beatrice diventa luce che rischiara e guarisce dalle tenebre, simbolo di quell’ Amor che move il sole e l’altre stelle, unica possibile chiave di accesso alla felicità: solo nell’incontro con la donna e con l’amore, Dante – o meglio – l’uomo, ritrova se stesso, scioglie i nodi della selva, e trova Dio. Qui per tutti i dettagli.

 

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Argentina: “L’Albergo dei poveri” di Maksim Gor’kij adattamento di Emanuele Trevi di Massimo Popolizio

gbopera - Ven, 09/02/2024 - 23:03

Roma, Teatro Argentina
L’ALBERGO DEI POVERI
uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
riduzione teatrale Emanuele Trevi
con Massimo Popolizio
e con Giovanni Battaglia, Gabriele Brunelli, Luca Carbone, Martin Chishimba, Giampiero Cicciò, Carolina Ellero, Raffaele Esposito, Diamara Ferrero, Francesco Giordano, Marco Mavaracchio, Michele Nani, Aldo Ottobrino, Silvia Pietta, Sandra Toffolatti, Zoe Zolferino
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Noto anche come “I bassifondi” o “Sul fondo”, il monumentale dramma di Maksim Gor’kij, che fece la sua prima incursione teatrale a Mosca nel lontano 1902, ottenne una nuova identità nel 1947 grazie alla penna e alla regia magistrale di Giorgio Strehler, che lo battezzò “L’albergo dei poveri” in occasione della storica inaugurazione del Piccolo Teatro di Milano. È proprio sotto questo nome che Massimo Popolizio ha deciso di far rivivere l’opera al pubblico, consapevole del suo valore emblematico, poetico e storico. “L’albergo dei poveri” è un colossale dramma corale, che si distingue per il suo equilibrio sapiente tra pathos, denuncia sociale, amara comicità e riflessione filosofica e morale sul destino umano, unendo le tinte drammatiche dello Shakespeare più profondo. Il gran numero di attori in scena richiede alla regia un ritmo incalzante, capace di seguire le evoluzioni delle situazioni e dei punti di vista, mentre l’angustia dello spazio evocato, un rifugio di miseri e ubriaconi, amplifica la tensione fino al parossismo. Questa sfida, affrontata da illustri maestri della regia teatrale e cinematografica come Stanislavskij, Strehler e Kurosawa, è ora ripresa da Massimo Popolizio, il cui stile e la cui sensibilità sembrano destinati a scrivere un nuovo capitolo di questa saga di interpretazioni. Sebbene il mondo che circonda lo spettacolo sia diverso da quello del 1902 o del 1947, e il concetto stesso di “povertà” abbia subito mutamenti, l’energia drammatica e la lucidità disperata dei personaggi di Gor’kij rimangono intatte. Con il suo adattamento curato da Emanuele Trevi, il testo mantiene intatta la sua potenza visionaria e la sua capacità di scrutare negli abissi dell’animo umano, offrendo al pubblico una riflessione profonda e attuale sul destino dell’umanità e una denuncia delle ingiustizie ancora presenti nella nostra società. Il palcoscenico non è la cornice di un solo racconto, ma è pregno di storie intrecciate. Ogni personaggio emerge con la propria vicenda, dipinta non solo con parole, ma con il palpito del cuore, la forza del carattere, e l’urgenza disperata dell’anima. E in questo affollato scenario si staglia la figura di Luka, il pellegrino scapestrato, il saltimbanco dell’anima, che danza e canta sotto il peso degli anelli, dei braccialetti e delle collane sacre, simboli di una vanità intrisa di una spiritualità tutta sua. Le sue parole echeggiano nel teatro dell’esistenza, sollevando il sipario su temi profondi: Dio, la coscienza, l’angoscia per chi languisce nella fame, o per chi assiste impotente alla fine imminente dell’amata. Eppure, non c’è spazio per la retorica in questo dramma umano. Meglio plasmare il proprio universo, sussurra Luka, piuttosto che piegarsi a una verità che potrebbe rivelarsi solo un’illusione, un inganno crudele per l’anima in cerca di rifugio. E così, tra le luci del palcoscenico e il suono dei violini, Luka invita il pubblico a creare il proprio regno di verità, anche se incerto e fugace, piuttosto che sprofondare nell’oscurità della delusione, prigioniero delle catene di un dogma che sembra inattaccabile. In questo dramma dell’interpretazione, Massimo Popolizio si distingue per la sua capacità di immergersi con autenticità nei panni del pellegrino, raggiungendo un’intensità emotiva che non si smentisce mai, senza per questo trascurare l’essenza stessa dell’interpretazione. La carne stessa si fa voce, parole e azioni, eppure è un compito arduo, un viaggio nell’abisso dell’animo dove si possono incontrare verità scomode e oscure. Eppure, con fiducia e determinazione, Popolizio si affida completamente all’adattamento magistrale di Trevi, consapevole che solo così potrà far emergere pienamente quegli aspetti oscuri e complessi dei suoi personaggi, portandoli alla luce con una sincerità che tocca il cuore dello spettatore. Ci riesce con grande intesità ed alle volte con imbarazzante verità. Tra le note fragorose della vita, ognuno dei personaggi si lascia trasportare da un vortice di emozioni e sensazioni, mentre la vodka, con la sua presenza onnipresente, diventa il filo conduttore che li lega tutti in un’ebbrezza comune, una danza sfrenata nella notte oscura dell’anima umana. Assolutamente straordinari e intensi sono tutti gli attori del numeroso cast che anima questa scena teatrale. Ogni interprete porta con sé un bagaglio emotivo e una profondità d’interpretazione che cattura lo spettatore fin dal primo istante. Le scene di Marco Rossi sono caratterizzate da un’imponente altezza e profondità, arricchite da praticabili che si trasformano in letti e da corridoi che si estendono fino a perdersi nel centro scenico, da cui tutti gli attori si lanciano in corse mozzafiato. La scenografia, con la sua maestosità e la sua versatilità, crea un ambiente suggestivo e dinamico che incanta lo spettatore e offre agli interpreti uno spazio ricco di possibilità espressive. È un palcoscenico vivo e pulsante, dove ogni movimento e ogni gesto sono parte integrante di una coreografia teatrale che cattura l’attenzione I costumi di Gianluca Sbicca sono un valore aggiunto, un mosaico di suggestioni che abbracciano un vasto spettro di esperienze umane. Dai richiami agli homeless di Termini, con il loro abbigliamento logoro e trasandato, fino ai suggestivi abiti di preghiera musulmani, ogni dettaglio cattura l’essenza dei personaggi, anche quelli di estrazione borghese, che pur vivendo una vita agiata si trovano sull’orlo dell’abisso. I costumi diventano una sorta di linguaggio silenzioso, capace di raccontare storie complesse e vibranti. E la musica, con i suoi suoni balcanici, contribuisce a tessere l’atmosfera surreale e incantata dello spettacolo. Talvolta dissonante, talvolta melodiosa, la colonna sonora accompagna i personaggi nel loro viaggio emotivo, creando un contrappunto audace e suggestivo che sottolinea la ricchezza e la varietà delle esperienze umane rappresentate sulla scena. Il pubblico ha accolto lo spettacolo con entusiasmo e partecipazione, manifestando il proprio apprezzamento con applausi convinti. Qui per le atre date.

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro alla Scala: Smith / León & Lightfoot / Valastro

gbopera - Ven, 09/02/2024 - 09:05

Milano, Teatro alla Scala, stagione 2023/24
SMITH / LEÓN & LIGHTFOOT / VALASTRO
“Reveal”
Coreografia Garrett Smith
Musica Philip Glass​​​​​​​
Costumi Monica Guerra
Luci Michael Mazzola
Interpreti:
MARTINA ARDUINO, ALICE MARIANI, VIRNA TOPPI, AGNESE DI CLEMENTE, MARCO AGOSTINO, CLAUDIO COVIELLO, GABRIELE CORRADO, DOMENICO DI CRISTO, MATTIA SEMPERBONI, ANDREA CRESCENZI, ANDREA RISSO, RINALDO VENUTI
“Skew-Whiff”
Coreografia, scene e costumi Sol León e Paul Lightfoot
Musica Gioachino Rossini
Luci Tom Bevoort
Interpreti: MARIA CELESTE LOSA, NAVRIN TURNBULL, DARIUS GRAMADA, RINALDO VENUTI
“Memento”
Coreografia Simone Valastro, coreografia
Musiche Max Richter e David Lang
Scene e costumi Thomas Mika
Luci Konstantin Binkin
Interpreti: BENEDETTA MONTEFIORE, NICOLA DEL FREO, LINDA GIUBELLI, MARCO AGOSTINO, ANTONELLA ALBANO, CLAUDIO COVIELLO, GIOACCHINO STARACE, FRANK ADUCA, SAÏD RAMOS PONCE,
Corpo di ballo del Teatro alla Scala di Milano
Nuova produzione
Milano, 7 febbraio 2024
Nella Serata contemporanea nel cartellone di quest’anno del Teatro alla Scala ci sono due debutti scaligeri di opere già proposte altrove, più una prima assoluta. Lo spettacolo è iniziato con Reveal di Garrett Smith. Da sotto il mantello di una persona che cammina resta una traccia d’essere umano, una ballerina, da lì inizia una danza con quelle che sembrano delle “essenze” che possono esistere dentro ognuno di noi: una parte bianca (Martina Arduino) e una nera (Alice Mariani), una sorta di bene e male, di ciò che è angelico od oscuro; e tali parti danzano spesso assieme, le donne danzano con gli uomini, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, una donna è con il tutù classico, ma anche un uomo dai possenti muscoli danza con un tutù. Tutto scorre con grande fluidità. Queste dinamiche non sono certo nuove e Smith sfrutta i luoghi comuni delle tematiche presentate, compresi i discorsi sul gender oggi molto comuni, con una certa ingenuità e abbelliti con dei costumi affascinanti e ad effetto, come i lunghi cappotti che possono ricordare tanto Matrix. I palati più raffinati non rimarranno soddisfatti da questo spettacolo, ma la semplicità di decodifica dei momenti coreografici e le scelte spettacolari di appeal sono apprezzabili e possono aver soddisfatto gli altri.

La coppia Sol León, Paul Lightfood ha presentato un autentico divertissement sulla celeberrima ouverture della Gazza ladra di Rossini. Il titolo già fa intendere le intenzioni, Skew-Whiff: posizionato in modo errato, inclinato, storto. Non solo i tre ballerini e la ballerina, che si unisce ai tre successivamente con un “hellooo”, danzano passi frenetici e inconsueti, ma spesso li terminano in una smorfia. Inoltre, dipinti di bianco, i danzatori lasciano continuamente tracce di sé a terra, con manate, strisciate, calchi del proprio corpo. Abbiamo apprezzato in questo breve pezzo la musicalità dei passi e la coerenza della costruzione, oltre alla vaga ironia (che caratterizzava, anche se in altra veste, lo stesso Rossini). L’ultimo pezzo è Memento di Simone Valastro. L’impianto coreografico ci è sembrato un po’ debole ma supportato da una costruzione scenografica abbastanza accattivante, come la lunga pedana inclinata che parte dalla fossa dell’orchestra per poi terminare in salita in fondo al palcoscenico.

La facile velatura poetica dell’inizio, ma soprattutto della fine – in cui i danzatori percorrono camminando indifferenti tutta la lunghezza della pedana fino alla fine del palcoscenico, mentre il primo ballerino Nicola Del Freo muore in scena (ecco il memento del titolo) – non ci appare sufficiente a compensare la ripetitività della coreografia soprattutto dei passi di gruppo, che rappresentano una parte cospicua di questo pezzo. Apprezzabili sono i lavori delle braccia e l’insieme scenografico, oltre alla professionalità dei danzatori che qui e nei pezzi precedenti ha garantito una perfetta godibilità dello spettacolo. Se dovessimo effettuare un paragone con la serata contemporanea dello scorso anno, con protagonisti Dawson Duato Kratz e Kylián, questa ci appare più debole. Seppure siano sorte giuste discussioni e analisi critiche sul lavoro di quei quattro coreografi (la perfezione, per fortuna, non esiste) il loro lavoro ci è apparso senza dubbio solido.  Ciascuno degli spettacoli presentati sono stati comunque accolti in questa prima con grandi applausi e “bravi”, ma anche da pochi fischi, che al Teatro alla Scala quasi mai sono sintomo di accoglienza entusiastica. Repliche: 9, 10, 15, 16 e 18 febbraio.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Pinocchio” regia di Maria Grazia Cipriani

gbopera - Gio, 08/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
PINOCCHIO di Collodi
Adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
Scene e costumi Graziano Gregori
Attori   Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami
Suoni  Hubert Westkemper
Luci Angelo Linzalata
Foto di scena Filippo Brancoli Pantera
produzione compagnia Teatro Del Carretto
Roma, 08 Febbraio 2024
“Le Avventure di Pinocchio” vede la luce come racconto seriale sul giornale per ragazzi nel 1881, con una conclusione drammatica al quindicesimo capitolo, con l’impiccagione del burattino da parte della losca coppia di truffatori, il Gatto e la Volpe. Tuttavia, la richiesta fervente dei giovani lettori affinché Pinocchio tornasse in vita ha condotto alla ripresa della pubblicazione, portando alla forma finale nota nel gennaio 1883 con il trentacinquesimo capitolo.
Quest’opera, nata in Toscana in un periodo di povertà post-unitaria, si distingue per essere un testo educativo e formativo per i bambini, ma sorprendentemente anche un’opera apprezzata dagli adulti. Scritta in un linguaggio quotidiano e distante dall’eloquenza poetica, rappresenta una critica partecipe e libertaria della società circostante da parte dell’autore. Pinocchio, il burattino o ragazzo burattino protagonista, incarna l’irrequietezza e l’eterna fame, riflesso delle condizioni di vita dell’epoca, in cui la fame era una realtà pervasiva. Come molti personaggi letterari, Pinocchio ha tratti vagamente autobiografici per l’autore, che come Flaubert con “Madame Bovary”, potrebbe aver pensato “Pinocchio sono io”. Carlo Collodi, nato in una famiglia modesta e primogenito di una numerosa prole, con un padre cuoco e una madre sarta, può aver tratto ispirazione dalla nostalgia per la figura materna nella scelta del cognome Collodi, derivato dal villaggio della madre anziché dal paterno Lorenzini. Partendo dall’esperienza personale di ascolto di “O mio babbino caro” dal Gianni Schicchi di Puccini, interpretata magistralmente da Maria Callas, la regia di Maria Grazia Cipriani ha trovato l’ispirazione per il suo adattamento di Pinocchio. Questo brano, il  leitmotiv all’interno dello spettacolo, si rivela la chiave narrativa, poiché rappresenta la ricerca di un’assenza. L’unica traccia tangibile di Geppetto sul palco è una giacca, toccata e sfiorata dal burattino. Pinocchio, desideroso di affetto e nutrimento, si impegna in un lavoro instancabile, sentendo l’urgente necessità di farlo per il suo “babbino“. Così, Geppetto diviene una figura paterna proiettata, sia immaginata che celeste, assumendo un ruolo archetipico. Per la regista, il cuore del lavoro teatrale risiede infatti nell’approcciare il testo con una sensibilità contemporanea, evidenziando così la pertinenza e l’attualità della storia di Pinocchio all’interno delle dinamiche familiari e relazionali più che l’approccio letterario in senso stretto conducendo lo spettatore nei recessi oscuri della mente, nei più profondi incubi, trasformando il burattino da eroe a vittima dei propri sogni e tentazioni.  Pinocchio, interpretato dal sorprendente Giandomenico Cupaiolo, nel suggestivo allestimento del Teatro del Carretto, diviene per quanto detto l’emblema di un viaggio attraverso la memoria e le ansie del celebre burattino di Carlo Collodi. Nell’arena scenografica, ideata da Graziano Gregori, si svolge un perpetuo racconto delle avventure di Pinocchio, quasi una necessità di mantenere viva la memoria per sconfiggere la tendenza a mentire e ingannare se stesso e gli altri. Attraverso un suono amplificato curato da Hubert Westkemper e la presenza evocativa di tutti i personaggi della favola interpretati da un cast di talento, tra cui Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, e altri, lo spettacolo si snoda interamente nella psiche di Pinocchio. Ad eccezione dei dialoghi con la Fatina, il racconto è interamente affidato all’intensità e al talento di Cupaiolo, che incarna un Pinocchio vibrante di emozioni, un omaggio al precedente lavoro di Carmelo Bene. Il suo personaggio è un bambino iperattivo, in perenne movimento, come se cercasse di liberarsi da invisibili fili che lo costringono a gesti prefissati. È un personaggio dall’ampio spettro emotivo: simpatico, divertente, ma anche capace di manifestare aspetti odiosi e crudeli, comuni all’innocenza infantile. L’attore si immerge completamente nel ruolo, superando talvolta i confini del personaggio e sacrificandosi fisicamente. Questo processo di catarsi va oltre la semplice interpretazione, consentendo all’attore di raggiungere una dimensione in cui non è né sé stesso né il personaggio, ma una terza entità che si manifesta sulla scena. Il Teatro del Carretto, noto per la sua rigorosa ricerca estetica sui grandi testi epici e fiabeschi, dimostra una maturità invidiabile in questa rappresentazione di Pinocchio. Oltre alla consueta intensità scenica e alla gestione dell’ambiguità delle maschere, il gruppo toscano ha affinato e reso convincente il lavoro sugli attori, offrendo al pubblico una serata di teatro intelligente e maturo, una lettura contemporanea e creativa del classico di Collodi. Da non perdere. PhotoCredit@Filippo Brancoli Pantera Qui per tutte le altre date.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Magnifica Presenza” di Ferzan Ozpetek

gbopera - Gio, 08/02/2024 - 17:18

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
MAGNIFICA PRESENZA – UNO SPETTACOLO DI FERZAN OZPETEK
con  Serra Yilmaz, Tosca D’Aquino, Federico Cesari 
e con Toni Fornari, Luciano Scarpa, Tina Agrippino, Sara Bosi, Fabio Zarrella
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana
Roma, 08/02/2024
Dopo il trionfo di “Mine vaganti” nella scorsa stagione, il rinomato regista Ferzan Ozpetek torna sul palcoscenico teatrale con un nuovo adattamento di uno dei suoi indimenticabili successi cinematografici, “Magnifica Presenza”. Pietro, con la cugina Maria  a cui è legatissimo, va a visitare un appartamento da prendere in affitto nel cuore di Monteverde Vecchio a Roma. Le condizioni della casa effettivamente lasciano molto a desiderare, ma il giovane non ascolta le obiezioni della cugina, e rapito dal fascino dell’abitazione, firma il contratto di affitto. Un primo passo verso l’indipendenza e magari un futuro con l’uomo amato? Niente affatto…Sin dalla prima notte il ragazzo inizia ad avere strane visioni, fino a scoprire la che la casa è infestata dagli spiriti dei componenti di una compagnia teatrale molto in auge negli anni ‘40. Dopo l’iniziale scontro, Pietro si affeziona al gruppo al punto di assecondare la loro richiesta, presentatagli da Filippo Verni di cercare la loro compagna Livia Morosini e sapere se sia scampata alla retata nazista di cui furono vittime. La compagnia infatti faceva parte della Resistenza e compieva azioni di spionaggio. Il viaggio nel passato porta ad una nuova consapevolezza sia per i fantasmi ( che teneramente ricordano quelli di Fantasmi a Roma, con l’indimenticabile Edoardo) che per il protagonista Pietro. Ferzan Özpetek è un mago nell’intrecciare le trame narrative, mescolando abilmente realtà e finzione, sfide temporali e spaziali. Con un tocco commovente, ci regala una parentesi sulla sua Turchia insieme all’iconica Serra Yilmaz , preparando così uno scenario maestoso, arricchito da una colonna sonora avvolgente, per il suo affiatatissimo  cast. Ancora una volta, lo splendore del suo talento si dispiega come un mantello dorato e profumato di spezie che avvolge i temi a lui più cari con sincerità e profondità. Pietro, pasticciere ed aspirante attore,  una volta superato lo stupore iniziale, abbraccia con un misto di accettazione e solitudine la “presenza” degli spiriti. Sono innocui, sì, ma sono anche la sua unica compagnia in questo teatro della vita. Egli è un uomo solo, e forse, come suggerisce Özpetek, ha evocato quei fantasmi per lenire il peso della sua solitudine. Ma che importa? Per il regista italo-turco, realtà e fantasia si intrecciano come rami d’un albero millenario, tanto che il protagonista stesso riflette: “non c’è niente di più naturale di una finzione reale”. Eppure, il tema della recitazione autentica rispetto alla realtà non costituisce l’unico filo conduttore di “Magnifica presenza”. Gli attori, manovrati con destrezza dalle mani del maestro regista, danzano su una trama intrisa di mistero e pathos. Ma c’è qualcosa di più, qualcosa che risiede nell’animo di ogni personaggio, qualcosa che si cela dietro le quinte, pronto a emergere e a svelare la sua essenza più profonda. Nel tessuto drammaturgico affiorano i temi cari al regista, vibranti di rispetto e accettazione delle diversità, specialmente in ambito sessuale. Qui, la convivialità e l’amicizia si ergono come pilastri, celebrati attraverso l’arte e la bellezza, come danze di luce sulle pareti di un teatro cosmico. Ma c’è un altro strato, più oscuro e profondo, come un’ombra che si staglia contro il bagliore della ribalta. “Magnifica presenza” svela nuovi contorni, intrecciando i fili del passato con le trame del presente. Padri fondatori e eroi della resistenza si sfiorano con un’epoca presente che sembra aver smarrito la sua voce artistica, soffocando la creatività come gli attori sepolti vivi nel loro nascondiglio. Le magnifiche presenze che animano la scena sono custodi di sfide e dolori, riflessi delle difficoltà nell’essere autentici in un mondo di maschere e convenzioni. La magia e la creatività, relegati nelle viscere del sotterraneo, lottano per emergere in un panorama dominato da un crudele gioco di apparenze, dove gli “altri” diventano estranei se non si piegano al volere della massa. Il titolo stesso, in un’armoniosa sinfonia di significati, evoca la scoperta reciproca di esistenze che plasmano e trasformano il destino altrui. Questa pièce sussurra le paure più intime di ogni essere umano, come la solitudine e la morte, ma al contempo rivela la sua straordinaria capacità di oltrepassare le barriere dell’illusione, di unire realtà e finzione in un abbraccio etereo. Sfida alcuni stereotipi del teatro convenzionale, svelando la verità celata dietro le maschere dell’umanità. Le scene sono di una suggestione avvolgente, trasportando lo spettatore in un mondo di sogni e illusioni che si armonizza perfettamente con la trama dello spettacolo. Un sapiente gioco di specchi e proiezioni contribuisce a creare questa atmosfera sognante, mantenendo una forte coesione con il filo conduttore della narrazione. Le luci, talvolta proiettate anche sulla platea, sottolineano l’importanza dello spettatore come parte attiva della rappresentazione, trasformandolo in presenze silenziose e osservanti che contribuiscono alla magia dell’esperienza teatrale. Il coro di attori, guidato magistralmente da uno straordinario ed emozionato Federico Cesari nel ruolo principale ( attento, empatico, concentrato e con una straordinaria capacità di mutare gli accenti ed il timbro vocale nel porgere ogni parola in scena ) , con il supporto notevole di Tosca D’Aquino (purtroppo sempre legata ad uno stereotipo di vivacità partenopea alle volte un po’ eccessivo) chiude con un saldo positivo il resoconto di uno spettacolo  che sembra concedere l’autore stesso a ciascun personaggio, ognuno desideroso di trovarlo. Di supporto il resto del cast. Il pubblico ha applaudito calorosamente , omaggiando ciascun attore e il regista al termine dello spettacolo con entusiasmo e forte partecipazione.  Photocredit @Stefania Casellato    Qui per le atre recite.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Argentina: “L’albergo dei poveri” dal 09 Febbraio al 03 Marzo 2024

gbopera - Mer, 07/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
L’ALBERGO DEI POVERI
uno spettacolo di Massimo Popolizio
tratto dall’opera di Maksim Gor’kij
riduzione teatrale Emanuele Trevi
con Massimo Popolizio
e con Giovanni Battaglia, Gabriele Brunelli, Luca Carbone, Martin Chishimba, Giampiero Cicciò, Carolina Ellero, Raffaele Esposito, Diamara Ferrero, Francesco Giordano, Marco Mavaracchio, Michele Nani, Aldo Ottobrino, Silvia Pietta, Sandra Toffolatti, Zoe Zolferino
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
foto di Claudia Pajewski 
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Conosciuto anche come I bassifondi, o Sul fondo, o ancora Il dormitorio, grande dramma di Maksim Gor’kij, rappresentato per la prima volta a Mosca nel 1902, fu ribattezzato L’albergo dei poveri da Giorgio Strehler nel 1947, in occasione della memorabile regia che inaugurò il Piccolo Teatro di Milano nel maggio del 1947. È quest’ultimo titolo che Massimo Popolizio ha deciso di riproporre al pubblico, in virtù del suo valore emblematico e poetico, oltre che storico. L’albergo dei poveri è un grande dramma corale, che si potrebbe definire shakespeariano nel suo sapiente dosaggio di pathos, denuncia sociale, amara comicità, riflessione filosofica e morale sul destino umano. Il numero elevato degli attori in scena impone alla regia la ricerca di un ritmo adeguato al continuo mutare delle situazioni e dei punti di vista, in un crescendo di tensione reso ancora più evidente dall’angustia dello spazio evocato: un rifugio di derelitti e alcolizzati dove i personaggi trascorrono i loro giorni tentando di non soccombere alla disperazione e all’inerzia della sconfitta. Si tratta di una sfida che, dopo Stanislavskij che fu il primo regista del dramma di Gor’kij, è stata raccolta da grandi maestri della regia teatrale, come Strehler, e anche cinematografica, tra gli altri, Resnais e Kurosawa. Se le grandi opere viaggiano nel tempo per essere rilette a ogni generazione da angolature diverse, lo stile di regia di Popolizio, la sua maniera di dirigere gli attori e il meccanismo teatrale nel suo complesso, sembra particolarmente adeguato a scrivere un nuovo capitolo di questa storia di interpretazioni. Il nostro non è il mondo del 1902, e nemmeno quello del 1947: è mutato anche il concetto stesso di «povertà», ma l’energia drammatica, la forza visionaria, la disperata lucidità dei personaggi di Gor’kij è ancora intatta. Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “Hotel Paradiso”

gbopera - Mer, 07/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Sala Umberto
HOTEL PARADISO
un’opera di Familie Flöz
Regia Michael Vogel
di Sebastian Kautz, Anna Kistel, Thomas Rascher, Frederik Rohn, Hajo Schüler, Michael Vogel, Nicolas Witte
con Marina Rodriguez Llorente, Frederik Rohn, Nicolas Witte, Sebastian Kautz
maschere Thomas Raschern, Hajo Schüler
Scenografia Michael Ottopal
costumi Eliseu R. Weide
musica Dirk Schröder
disegno luci Reinhard Hubert
produzione Familie Flöz, Theaterhaus Stuttgart, Theater Duisburg
Roma, 06 Febbraio 2024
La compagnia Familie Floz, composta da talentuosi artisti provenienti da 10 diverse nazioni, ha visto la luce nel 1996 e si è affermata come un’entità teatrale di spicco in tutta Europa. Grazie alle straordinarie creazioni sceniche, il gruppo riesce a coinvolgere un pubblico vastissimo, variegato nelle sue appartenenze culturali, sociali e generazionali, sfruttando al massimo le abilità creative dei suoi membri. Clownerie, teatro di figura, gioco di maschere, trasformismo, magia e un uso elevato della recitazione, il tutto senza l’ausilio di parole, caratterizzano questa straordinaria formazione, divenuta una delle realtà teatrali più originali e amate in Europa. Tra le loro opere più recenti spicca “Hotel Paradiso”, una tragicomica pochade che vede una famiglia gestire un albergo alle prese con una schiera di ospiti eccentrici. Nel contesto di questo albergo alpino, l’energica e autoritaria madre, il timido e impacciato figlio, la volitiva e ninfomane figlia, la cameriera dispettosa e cleptomane, e persino il sanguinario cuoco-macellaio, accolgono una varietà di personaggi strampalati, tra cui un rapinatore in fuga e una coppia di poliziotti sprovveduti. Nell’intreccio della trama si susseguono omicidi, tradimenti, morti naturali e misteriose sparizioni di cadaveri, creando uno scenario teatrale ricco di suspense e umorismo nero. Ogni personaggio incarna un archetipo umano, delineato con precisione attraverso maschere, azioni ed espressioni corporee. Queste rappresentazioni emergono in una profondità spaziale unica, grazie alla maestria degli attori e alla struttura drammaturgica. La trama attinge da cliché del genere thriller-investigativo e horror sci-fi, ribaltandoli con paradosso e parodia come elementi chiave delle relazioni e dell’azione. Un’analisi teatrale e tecnica rileva una certa stanchezza nel corso degli anni di rappresentazione globale dello spettacolo. Si avverte infatti sottilmente il bisogno di rinnovare le dinamiche interne della trama, che talvolta presentano spazi vuoti o dilatati, interrompendo la continuità ironico-onirica che richiede precisione e studio. Questa tendenza sembra caratterizzare tutti gli spettacoli della compagnia, e sebbene “Hotel Paradiso” mantenga un affascinante decadimento nell’ambientazione, emerge la necessità, a tratti evidente, di modernizzare alcune dinamiche sceniche. Il Teatro di Familie Flöz si distingue e merita applausi costanti per l’eccezionale abilità degli interpreti. Questi artisti riescono a trasformarsi in diversi personaggi con maestria, un’impresa notevole data la limitata presenza di attori e il doppio numero di personaggi. La dimensione sognante, sapientemente creata in ogni occasione a partire da gesti scenici apparentemente semplici, evidenzia la maestria del “fare teatro”. Un esempio di questa abilità è evidente in questa piece , quando il figlio della proprietaria dell’albergo intraprende una danza su se stesso all’inizio dello spettacolo, facendosi cadere addosso coriandoli al ritmo di una vecchia aria di Marlene Dietrich su vinile. Tra tutti gli investigatori impegnati nella ricerca di un rapinatore ospitato presso l’Hotel Paradiso risultano particolarmente divertenti. Al contempo, si notano situazioni comiche quando il responsabile della reception rivolge avances alle clienti dell’albergo. La scenografia si presenta plasticamente artificiale, intenzionalmente elaborata con complessità e diversificazione in termini di livelli e illuminazione. La luce, a seconda del suo colore e della colonna sonora sottostante, assume il ruolo di delineare spazi narrativi, estendendosi anche al di là della scena e, in certi casi, persino al di fuori dell’ambito prettamente teatrale. Un elemento cruciale è rappresentato dalla porta girevole d’ingresso, un’originale fonte di equivoci e di scene comiche di grande effetto. Questa porta contribuisce anche a situazioni che, sfondando il tono comico, si immergono decisamente nel tragico. I suoni di scena rivestono un ruolo chiave, delineando atmosfere e tempi nell’ambito teatrale. Dal freddo e sibilante vento del palco, ancora immerso nell’oscurità, si transita al canto mattutino degli uccellini e alle sonorità caratteristiche degli ambienti di montagna. In questo contesto, il suono assume la responsabilità di scandire il ritmo dello spettacolo, collaborando sinergicamente con l’illuminazione che progressivamente aumenta in intensità e varia in colore. Elementi poetici e ironici permeano lo spettacolo, rispondendo alla missione più elevata del Teatro di Familie Flöz: restituire allo spettatore la dualità dell’effimero e dell’eterno nel contesto teatrale specifico. Una performance che suscita nostalgia e gratitudine per l’esperienza fugace di una serata, destinata a scomparire, ripetersi e scomparire nuovamente. L’arte che abbandona l’uso della parola supera con successo le barriere linguistiche e generazionali. Attraversa il controllo della mente conscia, eludendo difese e repressioni, per liberare la fantasia e la forza immaginifica. Questa forma d’arte, pulita e priva di fronzoli, raggiunge l’emisfero destro del cervello, aprendo la porta alla fascinazione emotiva. Si configura come un rito che esorcizza l’influenza pervasiva della tecnologia contemporanea. Il pubblico presente nella Sala Umberto ha manifestato apprezzamento con entusiasmo, esprimendo il proprio gradimento attraverso applausi intensi e fervidi e ben meritati.  Photo@Simona Fossi. Qui per le altre date.

Categorie: Musica corale

Roma, Accademia di Santa Cecilia: “Requiem” di Giuseppe Verdi in memoria di Claudio Abbado

gbopera - Mer, 07/02/2024 - 02:00

Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Stagione 2023-24
MESSA DA REQUIEM
Musica di Giuseppe Verdi
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
direttore: Antonio Pappano
maestro del Coro: Andrea Secchi
soprano MASABANE CECILIA RANGWANASHA
mezzosoprano ELINA GARANCA
tenore SEOKJONG BAEK
basso GIORGI MANOSHVILI
Roma, 05 Febbraio 2024
Appuntamento molto atteso dal pubblico questo requiem verdiano dedicato alla memoria di Claudio Abbado e affidato alle cure del direttore Antonio Pappano e ad un quartetto di eccellenti professionisti nella stagione dei concerti in corso presso l’Accademia di Santa Cecilia di Roma. La messa, scritta da Verdi in occasione della morte del da lui venerato Alessandro Manzoni, esprime le perplessità dell’uomo verdiano di fronte al mistero della morte e ben rappresenta nella varietà degli stili scelti e delle emozioni che trasmette le contraddizioni e le confessioni di un uomo profondamente  e dichiaratamente laico che giunse alla propria maturità nel pieno della crisi culturale che attraversò  le coscienze dei cattolici dopo il 1870 con la fine del potere temporale del papato e l’unificazione dell’Italia sotto il dominio dello stato piemontese liberalmassonico. A questo va aggiunto che anche lo stesso Manzoni ebbe un percorso di ricerca nell’ambito della fede indiscutibilmente fecondo ma tutt’altro che lineare. Antonio Pappano ha offerto una interpretazione molto accurata ed intensa di questa colossale partitura guidandoci attraverso i vari episodi che la compongono con assoluto equilibrio formale ed intensa partecipazione come se si trattasse veramente di una celebrazione sacra e non di un concerto. Raramente si è avuto occasione di udire pronunciare il testo latino con così tanto chiara significazione, tale da rendere superflua la traduzione italiana che veniva proiettata, con la stessa chiarezza che si aveva l’impressione di trovare, si perdoni il paragone, in Papa Benedetto XVI nelle Sue celebrazioni o nella lettura dei testi in latino. La parola scenica, così tanto ricercata da Verdi in senso teatrale è qui apparsa in tutta la sua valenza espressiva in ambito religioso, posta in evidenza e curata in un evidente lavoro musicale di insieme sui solisti e sul coro e tale da rendere l’insieme una sorta di cattedrale sonora nella quale sono stati  scolpiti i dubbi, il dolore, i timori ma in ultimo le speranze del cristiano davanti alla morte. Il lungo assoluto e profondissimo silenzio che regnava in sala tra la fine del  Dies Irae e l’inizio  dell’Offertorio crediamo che ben possa illustrare la altissima cifra interpretativa della serata. Magnifica la prova del coro diretto da Andrea Secchi e splendido il quartetto dei solisti. Il soprano Masabane Cecilia Rangwanasha ha ben espresso i sentimenti di una vivida eroina verdiana con voce monumentale, calda ed omogenea guidata con elegante fraseggio e generosità e assai ben amalgamata timbricamente alla voce sontuosa e ricca di colori del mezzosoprano Elina Garanca. Altrettanto ben equilibrate sono apparse  le due parti maschili, rispettivamente il tenore Seokjong Baek ed il basso Giorgi Manoshvili che se forse non hanno impressionato per ampiezza vocale certamente hanno seguito in maniera ottima le intenzioni esecutive del direttore con una raffinata, impeccabile e soprattutto partecipe musicalità. Tale era il clima di raccoglimento e di concentrazione creatosi  che gli applausi alla fine del concerto, inopportunamente iniziati da una piccola parte del pubblico un istante prima che il direttore deponesse la bacchetta, sono apparsi una vera e propria profanazione. Alla fine la sala ha decretato un meritato e grato trionfo a tutti i protagonisti di questa magnifica e coinvolgente esecuzione. Photo Credit ©Accademia Nazionale di Santa Cecilia / foto Musacchio, Pasqualini & Fucilla / MUSA

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro India: Uno straordinario “Boston Marriage”

gbopera - Mar, 06/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro India
BOSTON MARRIAGE
di David Mamet
traduzione Masolino D’Amico
regia Giorgio Sangati
con Maria Paiato, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria
scene Alberto Nonnato
luci Cesare Agoni
costumi Gianluca Sbicca
musiche Giovanni Frison
assistente alla regia Michele Tonicello
produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Biondo di Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
Roma, 06 Febbraio 2024
La brillante commedia di David Mamet, datata 1999 ed ambientata alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti, fa la sua affascinante comparsa sul palcoscenico del Teatro India di Roma, grazie alla regia sapiente del talentuoso Giorgio Sangati. Le eccezionali interpreti Maria Paiato e Mariangela Granelli, affiancate da Ludovica D’Auria, danno vita a un triangolo affascinante e complesso, in cui tra i vari sentimenti trattati, l’amore non è l’unico motore. Negli Stati Uniti, tra il XIX e il XX secolo, il termine “Boston Marriage” si imponeva per descrivere l’intima coabitazione tra donne, spesso caratterizzata da legami sentimentali, e contraddistinta da una notevole indipendenza economica dalle figure maschili. La trama, giocata su una sottile gioco di potere e interesse, svela le dinamiche relazionali con la stessa intensità dei matrimoni più convenzionali, arricchita da un tocco di pizzi, merletti e vivacità borghese. In un sontuoso interno di fine Ottocento si dipana un incontro tra due dame dall’apparenza signorile e una cameriera. Tuttavia, la raffinatezza delle prime si svela presto essere una maschera, poiché occasionalmente sfuggono loro qualche parolaccia e modo di dire volgare. La cameriera, maldestra e ignorante, sembra un elemento fuori posto in un contesto che ambisce a qualche forma di prestigio. Risalta subito come tra le due dame, la signorilità apparente nasconda retroscena più complessi. Una volta affiatate, ora si rivelano estranee l’una all’altra. La padrona di casa, Anna (Maria Paiato), ha trovato rifugio nell’agio materiale offertole da un ricco benefattore, di cui vorrebbe sfruttare la protezione per riavere con sé l’ex compagna Claire (Mariangela Granelli). Quest’ultima, giunta in visita, sembra aver mantenuto un legame più diretto con il mondo di prima. Il motivo della visita di Claire emerge, rivelando un intento audace. La donna chiede ad Anna l’utilizzo dell’appartamento per sedurre una giovane fanciulla. La padrona, pur reprimendo una certa delusione, alla fine accetta, ponendo però la condizione di assistere alla scena, nascosta nell’ombra. Claire inizialmente si sottrae, ma finisce per cedere al ricatto. Tuttavia, quando la giovane arriva, si scopre essere la figlia del mecenate che sostiene finanziariamente Anna. La situazione si complica, gettando un’inaspettata ombra sulla tranquillità della padrona di casa. L’inganno e la complicazione emergono in questo intreccio di relazioni, sottolineando la fragilità delle apparenze e la complessità delle dinamiche umane nell’interno di fine Ottocento. La drammaturgia, magistralmente curata da Masolino D’Amico attraverso la traduzione del testo di Mamet, pone la parola come fulcro gravitazionale dell’atto unico. Le parole e i dialoghi si dipanano come una ragnatela, tessendo la storia di un rapporto tra donne: inizialmente interrotto, poi ricondotto sulla retta via. Tradimenti e sequenze di incomprensioni vengono abilmente abbandonati, grazie all’intervento non di una freccia del Dio Amore, ma di una preziosa collana di smeraldi illegittimamente sottratta. In questo contesto teatrale, Mamet regala una trama intricata e avvincente, dove l’umorismo si intreccia con la profondità delle relazioni umane. La scenografia accogliente e raffinata, magistralmente concepita da Alberto Nonnato, introduce il pubblico in un sontuoso interno d’epoca. Un salotto avvolto da tessuti vellutati, con predominanza di tonalità come il rosso pompeiano e il rosa cipria, si dispiega come un quadro vivente di eleganza. Una singola, imponente finestra si affaccia su uno scenario grigio, simile a un set cinematografico, mentre la presenza di fari ben visibili e la scritta rossa “On Air” lampeggiante in alto concorrono a consolidare l’illusione di trovarsi di fronte alla riproduzione di una straordinaria rappresentazione teatrale. Le luci di Cesare Agoni  sono un trionfo di maestria scenica, orchestrando con fervore e meticolosità giochi di ombre che infondono alle scene un’aura di tridimensionalità e vivacità notevoli per nitidezza e precisione tecnica. Tra le interpreti è innegabile che Maria Paiato riesca a imporsi in modo indiscusso sulla scena. La sua presenza è dominante sia per il personaggio che interpreta, sia per le straordinarie performance che ci ha sempre regalato. Mariangela Granelli non si fa certo superare e contribuisce a bilanciare la dinamica con un linguaggio più radicato nella tradizione, ricco di sfumature ridondanti, ma allo stesso tempo dissacrante e sprezzante. Non è affatto scontato imbattersi in due interpreti capaci di elevare il dialogo a livelli di meta-linguaggio, con una conoscenza tecnica della recitazione così profonda. Ludovica D’ Auria, nel ruolo della cameriera scozzese Catherine, con maestria e grande professionalità, si fa valere come elemento di equilibrio in questa straordinaria coppia scenica. La sua abilità nel muoversi con agilità tra i dialoghi serrati delle colleghe conferisce al suo contributo una notevole rilevanza, aggiungendo una preziosa dinamica alla performance complessiva. Le evocative incursioni musicali di Giovanni Frison si rivelano estremamente suggestive, sapientemente dosate tra momenti di piena intensità e accenni più sottolineati, amplificando l’impatto emotivo delle scene e conferendo un’aura distintiva alla rappresentazione. In scena si dipana una storia di straordinaria attualità, un racconto che ci tocca da vicino. La tematica della parità di genere, insieme al diritto di vivere amori liberi e autentici, emerge con forza, rimarcando quanto ancora sia distante il traguardo di una piena uguaglianza. Il pubblico, partecipe e coinvolto, ha riempito il Teatro India con applausi scroscianti, tributando il meritato riconoscimento a tutte le protagoniste che con maestria e impegno hanno portato avanti questo potente messaggio scenico. Qui per le altre date.

Categorie: Musica corale

Roma, Musei Capitolini, Villa Caffarelli: ” Il Colosso di Costantino: la sua ricostruzione”

gbopera - Mar, 06/02/2024 - 18:27

Roma, Giardini di Villa Caffarelli
COLOSSO DI COSTANTINO. LA SUA RICOSTRUZIONE
Roma, 6 febbraio 2024
Tra le opere più importanti dell’antichità, con i suoi 13 metri circa di altezza, la statua colossale di Costantino (IV secolo d.C.) è uno degli esempi più significativi della scultura romana tardo-antica. Dell’intera statua, riscoperta nel XV secolo presso la Basilica di Massenzio, oggi rimangono solo pochi monumentali frammenti marmorei, ospitati nel cortile di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini: testa, braccio destro, polso, mano destra, ginocchio destro, stinco destro, piede destro, piede sinistro. Da oggi nel giardino di Villa Caffarelli è possibile ammirare, in tutta la sua imponenza, la straordinaria ricostruzione del Colosso in scala 1:1, risultato della collaborazione tra la Sovrintendenza CapitolinaFondazione Prada e Factum Foundation for Digital Technology in Preservation con la supervisione scientifica di Claudio Parisi Presicce, sovrintendente capitolino ai Beni Culturali. La replica del monumento è stata presentata al pubblico oggi dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri, dall’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, dal sovrintendente Claudio Parisi Presicce, dal componente del Comitato di indirizzo di Fondazione Prada Salvatore Settis, e da Adam Lowe, della Factum Foundation for Digital Technology in Preservation. Il progetto è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e realizzato in collaborazione con Fondazione Prada che ha presentato per la prima volta l’opera a Milano dal 17 novembre 2022 al 27 febbraio 2023, in occasione della mostra Recycling Beauty a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica. Il Giardino di Villa Caffarelli, dove è stata collocata la riproduzione del Colosso di Costantino, insiste in parte sull’area occupata dal Tempio di Giove Ottimo Massimo, che un tempo ospitava la statua di Giove, la stessa forse da cui il Colosso fu ricavato o che comunque ne costituisce il modello di derivazione. I resti del tempio sono oggi visibili all’interno dell’Esedra di Marco Aurelio. “A Roma stiamo cercando di recuperare le dimensioni dell’antichità e la nostra conoscenza e percezione dei capolavori del passato, di cui conserviamo tracce e frammenti. Lo abbiamo fatto poco tempo fa con il Museo della Forma Urbis, lo facciamo andando in profondità con gli scavi della Metropolitana, lo facciamo attraverso l’anastilosi della Basilica Ulpia e adesso rendendo fruibile da tutti questa statua colossale, sia per essere ammirata in se, sia per essere una porta di accesso a quello scrigno di tesori che è il Colle Capitolino e che sono i Musei Capitolini. Voglio davvero ringraziare tutti quelli che hanno reso possibile questa creazione e questa ricostruzione che contribuisce a farci comprendere meglio il passato e quindi a capire meglio chi siamo” ha spiegato il Sindaco Roberto Gualtieri. Il progetto di ricostruzione della statua colossale di Costantino è partito da un importante lavoro di analisi archeologica, storica e funzionale dei frammenti, supportata dalla lettura delle fonti letterarie ed epigrafiche. I nove frammenti in marmo pario, attualmente conservati presso i Musei Capitolini, sono stati rinvenuti nel 1486 all’interno dell’abside di un edificio che al tempo si riteneva il Tempio della Pace di Vespasiano, e che solo agli inizi dell’Ottocento sarà correttamente identificato con la Basilica di Massenzio lungo la Via Sacra. Si pensava che appartenessero a una statua dell’imperatore Commodo e, data la loro eccezionale importanza, furono allestiti nel Palazzo dei Conservatori durante i lavori di ristrutturazione dello stesso eseguiti su progetto di Michelangelo tra il 1567 e il 1569. I frammenti sono stati identificati come ritratto colossale dell’imperatore Costantino solo alla fine dell’Ottocento. Un decimo frammento, parte del torace, rinvenuto nel 1951, è in procinto di essere trasferito dal Parco Archeologico del Colosseo nel cortile del Palazzo dei Conservatori, accanto agli altri frammenti. Lo studio archeologico dei frammenti ha permesso di ipotizzare che il Colosso fosse seduto e che fosse realizzato come acrolito, ovvero con le parti nude in marmo bianco e il panneggio in metallo o in stucco dorato. Secondo uno schema iconografico tipico del tempo, che assimilava l’imperatore alla divinità, Costantino è rappresentato come Giove con la parte superiore del corpo scoperta e il mantello adagiato sulla spalla; il braccio destro che impugna lo scettro ad asta lunga e la mano sinistra che sorregge il globo. A fine marzo 2022 un team della Factum Foundation ha trascorso tre giorni nel cortile dei Musei Capitolini per scansionare i frammenti presenti con la tecnica della fotogrammetria. Ogni frammento è stato modellato in 3D e posizionato sul corpo digitale della statua creata utilizzando come esempio iconografico altre statue di culto di età imperiale in pose simili, tra cui la colossale statua di Giove (I secolo d.C.) conservata al Museo statale Ermitage di San Pietroburgo, probabilmente ispirata allo Zeus di Olimpia ad opera di Fidia e la grande copia in gesso della statua dell’imperatore Claudio, ritratto come Giove, allestita al Museo dell’Ara Pacis. La complessa operazione di ricostruzione realizzata da Factum ha tenuto conto di molteplici fattori: il tipo di marmo delle parti originali, i restauri e le aggiunte; i dettagli del panneggio mancante e l’aspetto del bronzo dorato di cui era composto; il rapporto tra la ricostruzione e i frammenti superstiti, le condizioni di questi e la loro esatta posizione. Dopo aver ultimato il modello 3D ad altissima risoluzione, si è poi proceduto con la ricostruzione materiale del Colosso. Resina e poliuretano, insieme a polvere di marmo, foglia d’oro e gesso, sono stati scelti come materiali per rendere le superfici materiche del marmo e del bronzo, mentre per la struttura interna (originariamente forse composta di mattoni, legno e barre di metallo) è stato impiegato un supporto in alluminio facilmente assemblabile e rimovibile. Il risultato finale permette di ammirare, in una magnifica illusione, il Colosso nel suo complesso, in cui si distinguono visivamente le “ricuciture” tra le parti rimaterializzate e le copie dei frammenti originali presenti nel cortile di Palazzo dei Conservatori. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: Serata giovani coreografi

gbopera - Mar, 06/02/2024 - 16:13

Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2023/2024
Serata Giovani Coreografi
“YELLOW”
Coreografia Adriano Bolognino
Musica Autori vari con editing di Giuseppe Villarosa
Testi Adriano Bolognino con supporto di Rosa Coppola
“I DIED FOR LOVE”
Coreografia Simone Repele e Sasha Riva
Musica Autori Vari
Voce Parvaneh Scharafali
Scene Michele Della Cioppa
Costumi Anna Biagiotti
Luci Alessandro Caso
Interpreti: étoiles, Primi Ballerini, Solisti e Corpo di Ballo del teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Musiche su base registrata
Roma,  2 febbraio 2024
Una “novità della programmazione”. Così spiega l’intento della Serata Giovani Coreografi tenutasi per tre sere al Teatro Nazionale la direttrice del Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma Eleonora Abbagnato. Dopo i grandi nomi della coreografia contemporanea, la crescita della compagnia viene affidata al confronto con i linguaggi di giovani autori in ascesa. Si tratta in primo luogo di Adriano Bolognino, classe 1995, vincitore di prestigiosi premi (Danza&Danza 2002, Prospettiva Danza 2019), creatore di un duetto per la stessa Abbagnato e per Jacopo Tissi in occasione della Milano Fashion Week 2022. Al Teatro Nazionale presenta Yellow, sogno nel cassetto ideato fin dal 2018, ma ancora non rappresentato. Alla base della creazione e del suo stile “pulsante” è il ricordo d’infanzia di quando il coreografo bambino muoveva le matite colorate rivestendole di tulle. Il giallo, colore preferito della madre, è ora consegnato allo sfondo scenico, mentre le matite sono i danzatori che si stagliano da esso per contrasto rivestendosi di tute blu. Ad emergere per primo è l’interprete Simone Agrò che alterna movimenti più piccoli, tesi quasi ad afferrare affannosamente qualcosa, ad altri più ampi, nell’intento di ritrovare un momento di respiro. Si affianca una lei, Eugenia Brezzi, che inizialmente non viene vista, né percepita. Anche lei in cerca di qualcosa. Il loro percorso si intreccia e finalmente si prendono per mano, godendo dell’affiatata sintonia. Ma basta un attimo per arrivare a una frattura. I due non si vedono più, come simbolicamente indica il corpo di ballo portando una mano davanti agli occhi. Lei indietreggia. Lui resta di spalle, destinato a restare attratto da una figura all’apparenza più determinata, interpretata da Nadia Khan. Permane un attaccamento al passato, come testimoniano delle foto appese al muro. Il presente si slancia comunque nella libertà di una danza in grande accordo con la musica. Il pianoforte ne detta la struttura. Gli archi ne permettono il volo. Il seguente assolo di Agrò acquista intensità. E improvvisamente appare una visione rappresentata dall’uso del colore. La prima interprete in rosso è seguita dalle altre figure femminili in un arcobaleno di abiti lunghi. Il colore è simbolo di identità, ma nella ricerca maschile al rosso della passione si associa il gesto di un figlio che posa il capo sul grembo della madre. In questa riflessione autobiografica sulla propria vicenda umana e sul proprio lavoro artistico, si arriva a una conclusione piena di senso: la musica non è necessaria, bastano i conti per trasformare il movimento in danza, purché ci si riconosca nelle proprie individualità, e uno sguardo di lato contribuisca a definire meglio la propria immaginazione grazie a una profonda complicità. Il secondo lavoro della serata, I Died for Love, è presentato dai coreografi Simone Repele, torinese, classe 1993, e Sasha Riva, statunitense, classe 1991. Il loro primo lavoro congiunto a serata intera, Lili Erbe Show, è stato messo in scena in diversi Paesi europei durante la stagione 2022/2023 ed il loro linguaggio si distingue per potenza teatrale. In I Died for Love i due coreografi riprendono il tema della morte per amore, che anima da sempre il teatro d’opera e balletto, coniugandolo alla contemporaneità. Alla base è la canzone folk The Butcher Boy, in cui l’amata esprime il desiderio di essere sepolta con una colomba posta sul petto. Da qui la levità di questo pezzo, in cui la dimensione narrativa, benché più esplicita, è ricondotta a sognanti immagini sceniche che compongono la cornice di giocose danze del corpo di ballo, armoniosi passi a due, e potenti assolo. All’inizio troviamo uno sfondo celeste, un albero ai cui piedi è posata una bambola, una panchina. Alessandro Amato, qui seduta, è raggiunta dalla figura del suo amante, personificato da Jacopo Giarda, che le porta in dono un palloncino. Questa promessa d’amore diventerà una scena di teatro nel teatro dal forte sapore evocativo. Più tardi lei si spoglierà dei suoi abiti per lasciare fuoriuscire la sua anima e i palloncini scoppieranno per segnare la sua fine. Ma senza peso, né per i danzatori, né per il pubblico, che possono lasciarsi trascinare dalla poetica melodia e godere della grande maturità scenica di Alessandra Amato, del corposo snodarsi delle linee leggere di Rebecca Bianchi in duo con Simone Agrò, nonché del rivelarsi del talento di Jacopo Giarda. Nuova fioritura per il corpo di ballo nel suo complesso. Foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Magnifica presenza” di Ferzan Ozpetek dal 07 al 18 Febbraio 2024

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
MAGNIFICA PRESENZA – UNO SPETTACOLO DI FERZAN OZPETEK
con  Serra Yilmaz, Tosca D’Aquino, Federico Cesari 
e con Toni Fornari, Luciano Scarpa, Tina Agrippino, Sara Bosi, Fabio Zarrella
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana
Dopo il successo di MINE VAGANTI, Ferzan Ozpetek torna in Teatro con un nuovo adattamento scenico di uno dei suoi successi cinematografici. Dal 7 al 18 febbraio l’Ambra Jovinelli accoglie un grande evento: Ferzan Ozpetek torna a teatro con il nuovo adattamento scenico di uno dei suoi successi cinematografici, Magnifica presenza. Il regista, tra i più amati del nostro cinema, prosegue così il percorso inaugurato con Mine vaganti, e fa rivivere in teatro uno dei suoi film cult portando con sé in questa avventura una compagnia di attori esplosivi: Serra Yilmaz, Tosca D’aquino, Federico Cesari, Toni Fornari, Luciano Scarpa, Tina Agrippino, Sara Bosi, Fabio Zarrella saranno i grandi protagonisti di questa commedia tra illusione e realtà, sogno e verità, amore e cinismo, cinema, teatro e incanto. Qui per tutte le informazioni.

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Luigi Cherubini (1760-1842): “Les Abencérages” (1813)

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 22:00

Opera in tre atti su libretto di Victor-Joseph-Étienne de Jouy. Anaïs Constans (Noraïme), Edgaras Montvidas (Almanzor), Thomas Dolié (Alémar), Artavazd Sargsyan (Gonzalve, le Troubadour), Philippe-Nicolas Martin (Kaled), Tomislav Lavoie (Alamir), Douglas Williams (Abdérame), Lóránt Najbauer (Octaïr, le Héraut d’armes), Ágnes Pintér (Égilone). Purcell Choir, Orfeo Orchestra, György Vashegyi (direttore). Registrazione: Béla Bartók National Concert Hall, Müpa Budapest, 7-9 marzo 2022. 3 CD Fondazione Palazzetto Bru-Zane BZ1050.
Cherubini oltre “Medea” questo sembra essere uno degli obiettivi della nuova incisione del Palazzetto Bru Zane che propone per la prima volta in edizione critica “Les Abencérages” noto quasi solo per la ripresa fiorentina del 1957 in lingua italiana e lontanissima da qualunque forma di approfondimento critico. Composta nel 1813 l’opera rappresenta uno dei momenti più significativi della carriera parigina del compositore italiano, uno dei suoi maggiori successi e un lavoro emblematico della sua produzione forse non ispiratissima ma capace di cogliere alla perfezione lo spirito di quel momento di transizione e di traghettare la tradizione lirica francese verso i climi del nascente romanticismo.
Commissionata direttamente dalla corte e rappresentata la prima volta in presenza delle loro maestà imperiali Napoleone e Maria Luigia l’opera rappresenta insieme alla “Vestale” di Spontini – con cui condivide il librettista Victor-Joseph-Étienne de Jouy – uno snodo fondamentale nel passaggio tra la tragedie lyrique tardo settecentesca e il nuovo genere del grand’opéra. Tratta da un romanzo storico di Jean-Pierre Claris de Florian e ambientata alla corte di Granada alla metà del XV secolo l’opera si caratterizza per una cura della costruzione ambientale e per un’attenzione alla verosimiglianza storica in cui ormai già vediamo il gusto che si affermerà nei decenni a venire. Per quanto lo schema sia ancora in tre atti l’equilibrio tra parti cantate e ballabili, l’importanza del coro e dell’orchestra nella costruzione ambientale – quasi tutto il primo atto è così caratterizzato mentre l’azione prenderà di fatto via solo nel finale di questi per svilupparsi nel successivo, mostrano illuminanti aperture verso i tempi nuovi.
La musica di Cherubini – tutt’altro che spregevole e non inferiore a quella più nota di “Medée” – mostra la stessa natura. Le forme acquisite dalla tradizione sono ancora perfettamente leggibili ma si caricano di un’intensità nuova in cui già si ascoltano i semi dell’ormai prossima fioritura romantica e non è forse un caso che tra i più convinti ammiratori di quest’opera si annoverino Hector Berlioz e Felix Mendelssohn. Una musica cui manca forse il colpo d’ala del genio ma in cui si apprezzano un mestiere sommo e un intuito non comune e l’ascolto riserva autentica piacevolezza e non solo stimoli intellettuali.

L’esecuzione proposta – registrata a Budapest nel 2022 – è quasi integrale mancando solo alcuni numeri dei ballabili successivamente aggiunti da Cherubini su pressione dei primi ballerini dell’Opéra – ed è affidata a un complesso di assoluti specialisti come L’Orchestra Orfeo e il Purcell Choir sotto la guida di György Vashegyi. Abbiamo già apprezzato i complessi magiari in altri titoli del repertorio classico e barocco francese e in questo caso il risultato esecutivo non potrebbe essere migliore. Vashegyi coglie perfettamente il carattere ibrido della partitura sospesa tra tradizione e innovazione, evidenziandone il rigore classico delle forme ma accendendolo con i nuovi fuochi della sensibilità romantica senza dimenticare quell’edonismo espressivo che appare delle scene di genere e che sarà così tipico del gusto aulico francese. Ritmi quindi sostenuti e grande ricchezza di colori orchestrale ma sembra all’interno di una visione rigorosa e nitida. L’orchestra suona assai bene e veramente encomiabile la prova dell’impegnatissimo caro.
La compagnia di canto si trova a scontrarsi con la particolare vocalità prevista per questo repertorio. Scritte per due divi conclamati come Alexandrine Branchu e Louis Nourrit la parti principali si caratterizzano per uno stile vocale aulico e magniloquente che puntava a trasportare nel canto i modi della recitazione classica francese. Una vocalità in cui l’aspetto declamatorio e retorico prevaleva su quello melodico – tipico invece dell’opera italiana – dando a questi lavori un carattere autenticamente francese. Il problema oggi è riproporre questo tipo di canto e allo stesso tempo renderlo godibile per un pubblico ormai lontanissimo da quella sensibilità. Obiettivi entrambi troppo ambiziosi per questa produzione che si affida a ottime voci ma incapaci di cogliere quella particolare essenza.
Anaïs Constans coglie di Noraïme soprattutto il tratto lirico e patetico. La voce è bella e luminosa, ricca di armonici e sicura in acuto, l’accento pulito e pertinente ma manca un po’ di magniloquenza. L’interprete gioca però bene le sue carte puntando a una lettura personale e nel complesso funzionale del personaggio.
Soffre un po’ di più Edgaras Montvidas nella parte dell’amato Almanzor. Il tenore lituano è uno specialista di questo repertorio che conosce molto bene e affronta con successo da diversi anni ma in questo caso manca un po’ di peso specifico. La voce è innegabilmente bella, molto musicale e curata, il fraseggio elegante e tornito, gli acuti nitidi e squillanti così che i momenti più lirici come i duetti con Noraïme risultano assai suggestivi. Almanzor è però spesso chiamato a un canto aulico, eroico, tragico come nella perorazione difensiva di fronte alle accuse di Alémar che richiederebbe un’altra pasta vocale anche se la cura dell’accento compensano in parte i limiti di peso specifico.
Il malvagio Alémar è cantato con voce un po’ chiara – da baritono lirico in un ruolo che sembra volere una voce più scura e drammatica – ma con dizione esemplare e forza d’accenti da Thomas Dolié. Artavazd Sargsyan domina con sicurezza la tessitura acuta e il canto nobile e araldico di Gonzalve e perfettamente funzionali le numerose parti di fianco.

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Roma, Palazzo Merulana: “Antonio Donghi. La magia del silenzio.” dal 09 Febbraio al 26 Maggio 2024

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 21:25

Roma, Palazzo Merulana
ANTONIO DONGHI. LA MAGIA DEL SILENZIO
Dal 09/02/2024 al 26/05/2024
Palazzo Merulana, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi e gestito e valorizzato da CoopCulture, è lieto di presentare “Antonio Donghi. La magia del silenzio”, a cura di Fabio Benzi.La mostra è prodotta da CoopCulture. Main sponsor UniCredit, che ha anche contribuito con 16 importanti prestiti delle opere di Donghi, provenienti dalla straordinaria collezione esposta a Palazzo De Carolis. La mostra è realizzata anche con il contributo  della Regione Lazio L.R. 24/2019, Piano Annuale 2023 per attività e ammodernamento – Musei e il patrocinio gratuito di Roma Capitale. Antonio Donghi fu uno dei maggiori interpreti del realismo magico in Italia; il suo immaginario astrattivo e al tempo stesso realista ha impressionato, dopo un silenzio critico di molti decenni, gli studiosi e il pubblico a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, al punto che le sue opere sono ormai incluse nella maggior parte delle rassegne internazionali sugli anni venti e trenta, fino a comparire sulle copertine dei relativi cataloghi come immagine iconica di quel contesto.La sua ricerca appartata e silenziosa aveva, nella sua epoca, attirato l’interesse di critici importanti, ma la sua altezza si è rivelata appieno con la sua riscoperta relativamente recente.Questo progetto vuole aggiungere alla sua rivisitazione non solo uno studio, ancora mancante, sulle sue fonti culturali estremamente eclettiche, ma anche il ruolo importante che alcune collezioni pubbliche romane hanno svolto, attraverso la raccolta delle sue opere, per la conoscenza e diffusione della sua arte.In questo senso la mostra intende presentare i nuclei più significativi formati dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma, della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, della Banca d’Italia, della collezione UniCredit (già della Banca di Roma) e della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, che nel loro insieme rappresentano l’intero percorso dell’artista, toccandone tutti i temi principali: paesaggi, nature morte, ritratti, figure in interni ed esterni, personaggi del circo e dell’avanspettacolo. Solo tre dipinti particolarmente iconici (PollarolaRitratto di Lauro De BosisAnnunciata), legati in diverso modo alla collezione Elena e Claudio Cerasi, si sono inseriti nella mostra al di fuori del nucleo delle collezioni pubbliche.Sono raccolte in mostra oltre trenta opere prevalentemente acquistate direttamente alle maggiori mostre del tempo (Biennali di Venezia, Quadriennali di Roma, ecc.), o altrimenti reperite sul mercato rendendole di pubblica fruizione. La mostra si pone come approfondimento di uno dei principali nuclei pittorici rappresentati nella Fondazione Elena e Claudio Cerasi, che possiede ed espone in permanenza tre fondamentali capolavori donghiani: Lavandaie (1922-23), primo vertice in assoluto del maestro; Gita in barca (1934); Piccoli saltimbanchi (1938). Sulla trama delle opere di Donghi in queste collezioni è possibile ricostruire interamente il suo percorso artistico, attraverso una serie di autentici capolavori. Rimeditare il ruolo, il metodo, le aspirazioni di questo artista chiuso e difficile, ma al tempo stesso creatore di opere uniche e impressionanti per il loro clima sospeso, per la densità di interrogativi che pone allo spettatore pur nell’apparentemente nuda realtà in cui sono presentati gli anonimi protagonisti dei quadri, appare oggi un doveroso passo in avanti per la sua conoscenza. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro dell’ Opera: “Gianni Schicchi e L’heure espagnole” dal 07 al 16 febbraio 2024

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 20:00

Roma, Teatro dell’Opera
Teatro Costanzi
GIANNI SCHICCHI e L’HEURE ESPAGNOLE
Immergetevi nella splendida architettura del Teatro dell’Opera di Roma per un concerto che risveglierà la vostra comprensione dell’opera.
Seconda parte del progetto triennale “Trittico ricomposto”
In collaborazione con il Festival Puccini di Torre del Lago per celebrare il centenario della morte del compositore.
Direttore Michele Mariotti
Regia e scene Ersan Mondtag
Costume Design Johanna Stenzel
Light Designer Sascha Zauner
Video Luis August Krawen
Drammaturgia Till Briegleb
Gianni Schicchi
Musica di Giacomo Puccini
Opera in un atto
Libretto di Giovacchino Forzano ispirato a un episodio della Commedia di Dante Alighieri
Prima mondiale: Metropolitan di New York, 14 dicembre 1918
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi: 11 gennaio 1919 (prima italiana)
L’heure espagnole
Musica di Maurice Ravel
Comédie Musicale in un atto
Libretto di Franc‐Nohain dopo la commedia omonima
Prima mondiale: Opéra‐Comique Parigi, 19 maggio 1911
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi: 20 febbraio 1940
Qui per tutte le informazioni.

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Amici della Musica di Padova: Fleur Barron & Julius Drake in concerto

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 19:50

Debutto padovano per la mezzosoprano britannica Fleur Barron, accompagnata al piano da Julius Drake, nel concerto di martedì 6 febbraio, alle ore 20.15 all’Auditorium Pollini, nell’ambito della 67a stagione concertistica degli Amici della Musica di Padova.
Il programma del concerto offre due parti molto diverse: la prima affianca la Grecia immaginaria di P. Louys e Debussy ad una altrettanto immaginaria evocazione dell’Oriente di T. Klingsor e Ravel (1903), così come appartengono al mondo francese le liriche scritte da Respighi nel 1909 e nel 1912. La seconda parte ci presenta invece la re-invenzione del canto popolare nella voce di Brahms (Deutsche Volkslieder) e di Dvořák e delle sue Zigeunermelodien del 1890.
Per info: www.amicimusicapadova.org – info@amicimusicapadova.org Tel. 049 8756763

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Il ritorno di Enrico Dindo con l’orchestra RAI. Sul podio Andris Poga. In programma brani di Weinberg, Boulanger e Stravinskij

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 15:34

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2023-24.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andris Poga
Violoncello Enrico Dindo
Lili Boulanger:”D’un matin de printemps”;  Mieczysław Weinberg: Concerto in do minore per violoncello e orchestra, op43; Lilli Boulanger “D’un soir triste”; Igor Stravnskij: “L’oiseau de feu”, Suite dal balletto op.20 (Vers,1919)
Torino, 3 febbraio 2024
Ad eccezione dell’Uccello di fuoco di Stravinskij, ultimo brano del programma, il concerto presenta musiche di autori sostanzialmente da noi sconosciuti e mai eseguite in Auditorio RAI. Lili Boulanger, sorella minore della più nota Nadia, maestra di noti musicisti, apre ambedue le parti del concerto con pezzi dai titoli suggestivi, D’un matin de printemps e D’un soir triste, ma dal contenuto quanto mai realisticamente solido e compatto. Sono brani orchestrali, datati 1917-1918, che la musicista venticinquenne, da sempre ammalata e a pochi mesi dalla morte, costruisce con una sorprendente e meravigliosa orchestrazione per una compagine gigantesca, ricca anche di strumenti dal raro utilizzo: il clarinetto-basso giganteggia tra le file dei legni. Si coglie, nel primo brano, più che il suono imitato di una Primavera, alla Vivaldi, il rimpianto per trascorsi tempi goduti che non torneranno; allo stesso modo la Sera triste è immagine concreta delle paure per ciò che intuitivamente avverrà. La triste biografia della Boulanger ne condiziona inevitabilmente l’ascolto e crediamo anche la commossa interpretazione di Andris Poga, l’eccellente direttore lituano della serata. Del tutto biografico è poi il Concerto per Violoncello op.43 di Mieczysław Weinberg che traduce nel suono dello strumento solista le traversie subite e sofferte. Vi si rispecchiano le tristi vicende di una famiglia di ebrei russi rifugiata in Polonia. Il compositore poi, dopo l’invasione tedesca della Polonia, rientrato in Russia per evitare la furia nazista, viene lo stesso perseguitato, sia come transfuga che come ebreo, fino a che la morte di Stalin lo scampa fortunosamente dalle purghe in corso. Il Concerto per violoncello mostra una musica molto lineare, né grottesca né acida né irridente com’è quella, espressa in circostanze analoghe, dall’amico Šostakovič. Vi abbondano, fin dall’inizio, con l’intonazione di un bel cantabile del violoncello, i temi popolareggianti; ciò avrebbe dovuto escludergli qualsiasi accusa di “formalismo occidentale” che, al contrario, non gli fu risparmiata. Si evidenzia poi un’assoluta ingenuità nella concezione formale e nell’orchestrazione, che si limita ad episodici interventi di accompagnamento del solista. Di positivo c’è che l’opera offre un ulteriore titolo alla non certo abbondante letteratura dei concerti per violoncello, rivelandosi pure una buona palestra per mostrare la maestria del solista. Enrico Dindo illustra brillantemente al meglio la sua parte con un suono plastico e potente, arricchito da agilità da giocoliere e sensibilità appassionata, doti che si evidenziano lungo tutta l’opera e che trovano poi, nella lunga cadenza solistica al termine dell’Allegro, l’opportunità di imporsi prepotentemente. “Dalla Memoria” di Carlo Boccadoro è il bis offerto, più un omaggio al compositore amico che l’autocelebrazione del proprio virtuosismo. Stravinskij con la sua suite, versione 1919, dell’Uccello di fuoco ha chiuso molto felicemente la serata. La partitura è straordinaria, l’orchestrazione iperbolica e la potenza espressiva inchioda alla poltrona. L’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, in un repertorio che la esalta, è completamente a suo agio e risplende. Andris Poga, con gesto discreto e atteggiamenti inappuntabilmente sobri, pur mantenendo l’opera agganciata alla tradizione russa di Čaikovskij, le assicura il decisivo slancio verso le mutevolezze ritmiche di Petruška e le rivoluzionarie irregolarità timbriche e armoniche del Sacre. L’auditorio ne viene conquistato e gli applausi scrosciano. Poga fa alzare, per i ringraziamenti, gli strumentisti che l’han giocata da solisti, a cominciare da Alessandro Milani, violino di spalla della serata.

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Roma, Teatro India: “Boston Marriage” dal 06 all’11 Febbraio 2024

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 08:00

Roma, Teatro India
BOSTON MARRIAGE
di David Mamet
traduzione Masolino D’Amico
regia Giorgio Sangati
con Maria Paiato, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria
scene Alberto Nonnato
luci Cesare Agoni
costumi Gianluca Sbicca
musiche Giovanni Frison
assistente alla regia Michele Tonicello
produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Biondo di Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
Stati Uniti, fine Ottocento, un salotto, due dame e una cameriera. Tutto farebbe pensare a una trama convenzionale, un incontro tra amiche un po’ affettate, ma alla forma non corrisponde la sostanza: nella conversazione dal vocabolario ricercato fioccano volgarità e veniamo a sapere che le due dame sono state un tempo una coppia molto affiatata. L’espressione “Boston Marriage” era in uso nel New England a cavallo tra il XIX e il XX secolo per alludere a una convivenza tra donne economicamente indipendenti da uomini. Viene subito in mente il romanzo The Bostonians di Henry James (1886), nel quale l’autore affronta senza censure il tema dell’omosessualità e dipinge l’affresco di una società in bilico tra valori antiquati e spinte progressiste, con particolare attenzione alla condizione femminile. Dopo la separazione, Anna, la protagonista e padrona di casa, ha trovato un uomo ricco che la mantiene e vorrebbe ora approfittare della protezione di lui per riprendere con sé Claire, appena arrivata in visita. Ma Claire non è lì per quello; è tornata per ben altri motivi e la riconquista si rivelerà molto più complicata del previsto, con colpi di scena rocamboleschi che coinvolgeranno anche la giovane cameriera, ritmando l’opera e donandole una facciata esilarante, quasi di farsa. Voce tra le più rappresentative della scena americana – già premio Pulitzer del 1984 e più volte nominato agli Oscar per le sceneggiature cinematografiche di alcuni indimenticabili film – David Mamet ci consegna un piccolo capolavoro teatrale che strizza l’occhio agli esperimenti brillanti di Tennessee Williams, ma, soprattutto, all’Importanza di essere Franco di Oscar Wilde. Prendendosi una vacanza dalla gravità e concedendosi il lusso del gioco, Mamet eleva a protagonista assoluto, insieme alle interpreti, il linguaggio e, di contro, il non-detto, l’allusione, la stravaganza, il paradosso. Mamet si diverte a parodiare la prosa ampollosa dell’epoca, ma dietro l’apparente assurdità si nasconde l’intento ambizioso di rovesciare la realtà attraverso uno scherzo, che mira a creare anche un po’ di raffinatissimo scandalo. Qui sta il senso anche “politico” di un testo che divertiva e stupiva insieme il pubblico americano del 1999. Qui per tutte le informazioni.

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Amici della Musica di Firenze: Concerto della Klezmerata Fiorentina

gbopera - Lun, 05/02/2024 - 00:47

Figline e Incisa Valdarno, Teatro Comunale Garibaldi,
Klezmerata Fiorentina
Clarinetto Riccardo Crocilla
Contrabbasso Riccardo Donati
Fisarmonica Francesco Furla
Violino Igor Polesitsky
Musica tradizionale proveniente dal Nord-Est Europeo:Al principio (creazione del mondo); Ot Azoi! Git azoi! (così sia, così bene!); Benvenuto alla sposa (suite); Kosher-tanz (suite); La suite della steppa: Danza dei mietitori; Antico canto dei chumak (i portatori del sale); La danza del vento del Sud; Canto dei consuoceri; Lamento; 7:40: treno della vita; Epilogo: La domanda e la risposta.
Figline Valdarno, 2 febbraio 2024
Il concerto della Klezmerata Fiorentina – formata da quattro straordinari musicisti dell’Orchestra del Maggio Fiorentino, presente nel panorama internazionale dal 2005 dopo la presenza al Festival a Lugano “Martha Argerich Project” dedicato ai vari aspetti della musica ebraica -, un altro importante appuntamento degli Amici della Musica di Firenze, è stato realizzato nel Ridotto del Teatro Comunale Garibaldi di Figline e Incisa Valdarno (città metropolitana di Firenze). L’organico strumentale, unitamente alla proposta della grande musica tradizionale proveniente dal Nord-Est Europeo incuriosiva. Già dal primo brano (Al principio) emergevano le significative doti di versatilità e capacità improvvisative del quartetto.
Agli Amici della Musica di Firenze va il plauso dell’inserimento del concerto nella programmazione, avvicinandosi così alle eterogenee sensibilità del pubblico, mentre al quartetto il merito di diffondere questi repertori tenendo alta l’attenzione dei presenti. Anche se le peculiarità della musica sono rintracciabili in forme e stilemi come: Skochne, Freilachs, Gas-Nign, Bulgar, in sostanza costituiscono vere e proprie ‘storie musicali’ in cui, attraverso il dialogo volto alla concordia dei quattro musicisti, ne scaturisce una narrazione che guarda a prassi esecutive affascinanti e ai valori senza tempo. Per l’ideatore del gruppo (Igor Polesitsky) il rapporto simbiotico con questa musica risale alla sua infanzia quando con il violino imitava i canti popolari Yiddish intonati dalla nonna e imparava la tecnica klezmer da Abram Shtern. Invece per gli altri musicisti probabilmente l’approccio a questa musica è arrivato grazie alla frequentazione con i capolavori musicali del Novecento che attingono al recupero del passato, dalla musica popolare e dai risultati delle ricerche in ambito etnomusicologico a cura dello studioso ebreo Moshe Beregovsky a Kyiv di cui alcuni esempi, tratti dalla raccolta Yiddish Ucraino, erano in programma. Vedere e sentire questo gruppo è stato come assistere ad una ‘germinazione’ continua di stupore partendo da antiche e suggestive melodie in cui ogni musicista, estemporaneamente e seguendo stilemi strutturati che appartengono alla memoria, riusciva a proporre una propria e profonda elaborazione (nata esclusivamente dal melos, spesso in un autentico alternatim tra il violino e il clarinetto), da rintracciare nel patrimonio musicale ed umano della tradizione. Il termine Klezmer (dall’ebraico kley zemer) con i suoi plurisignificati musicali ascrivibili ad un genere della tradizione ebraica dal carattere rituale-celebrativo, attingendo alla riflessione del violinista, si può sintetizzare come «Musica da camera libera per quartetto Klezmer». Per diversi aspetti ciò rimanda al concetto ‘autosignificante’ poiché: «la musica […] non è mai sola» (Berio). Curioso anche il nome del gruppo, ispirato alla Camerata fiorentina, che evidenzia un modo di ‘suonar cantando’ (bastava osservare le particolari risorse timbriche messe in atto per comprendere il lavoro di ricerca del suono volto allo stupore) per il linguaggio gestuale e il modo di relazionarsi, ognuno autentico interprete di un teatro che guarda all’umana vita in cui ciascuno, pur di concorrere all’armonia, è chiamato a saper far bene la propria parte. Per esprimere ciò era necessario attingere all’inconscio della percezione ricreando, attraverso una raffinata grammatica e sensibilità artistica (stilemi arcaici comprendenti melopee, scale ed armonie; suonare ‘ad libitum’ ma anche, soprattutto nelle danze, saper stare dentro ritmi ben strutturati, accompagnamenti basati su reiterati moduli, ecc.) immagini sonore e di vita che ricordano una sorta di ‘crocevia di popoli e di culture’. I contenuti erano esplicitati nel titolo: «Parlando della vita-Antiche musiche tradizionali yiddish dell’Ucraina per quartetto klezmer» e lo stesso programma sembrava quasi il passare in rassegna le ‘stagioni della vita’ in cui, se per l’alternanza dei cambiamenti improvvisi dalla tristezza all’esuberanza ricordava certi repertori strumentali slavi, come in alcune musiche di Dvořák, dall’altro portava, anche attraverso la metafora, alla riflessione dei grandi temi della vita. Il Benvenuto alla sposa era caratterizzato dal solo della fisarmonica, così trainante da invitare a suonare con molta naturalezza gli altri musicisti, mentre particolarmente commovente risultava il Lamento del violino, ricordo dedicato alla ‘Giornata della Memoria’; 7:40: treno della vita, con il suono onomatopeico in accelerazione del contrabbasso, ricordava l’importanza dell’essere sempre pronti perché, una volta che il treno è partito ed effettua il suo percorso, porta all’ Epilogo ora inteso non solo come conclusione e atto finale ma anche momento ove far convergere l’emozione nei presenti. La serata si è conclusa con grande successo e agli applausi del pubblico i musicisti hanno risposto con altri brani tratti dal repertorio bulgar (Sud Ucraina e Moldavia), musica popolare coreutica poi presente nelle raccolte americane dall’inizio del XX secolo. Ripensando alla coinvolgente introduzione dei brani da parte di Polesitsky, alla caleidoscopica esecuzione e all’incontro con i musicisti a fine concerto, posso affermare che l’evento è riuscito ad esprimere l’umano in cui le vibrazioni della coscienza si contrappuntavano con quelle della musica: connubio sottile ed ideale per continuare a credere ancora nei valori della bellezza, gli unici capaci di allontanare gli ‘errori’ di un’umanità sempre sul crinale dell’assurdo.

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