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L’Orgue Soliste. Music for Organ & Orchestra

gbopera - Sab, 09/11/2024 - 08:06

Marco Enrico Bossi (1861-1925): Concerto for Organ, Strings, 4 Horns and Timpani in A minor Op.100. Joseph Jongen (1873-1953): Hymne, for Organ and Orchestra Op.78. Francis Poulenc (1899-1963): Organ Concerto in G minor FP.93 (1938). Tommaso Maria Mazzoletti (organo). Helvetica Orchestra. Eugène Carmona (direttore). Registrazione: 19-20 giugno presso St. Paul, protestant church in Gland, Switzerland. T. Time: 64′ 35″ 1 CD Brilliant Classics 96955
Rispetto ad altri strumenti, l’organo figura piuttosto raramente come solista in lavori con l’orchestra, anche perché la sua registrazione, a volte, può apparire in alcuni momenti troppo simile alle combinazioni orchestrali, soprattutto dei legni, creando poca varietà. Non a caso, infatti, nel non certo vastissimo repertorio per organo e orchestra, di cui alcuni brani sono proposti in questo CD dell’etichetta Brilliant Classics, si tende ad escludere la sezione dei legni. Il programma di questa interessantissima proposta discografica si apre con il Concerto per organo e orchestra di Marco Enrico Bossi, che, diventato ormai un classico e composto originariamente in mi bemolle minore e per una ampio organico orchestrale, fu modificato dal compositore in seguito alle critiche, occorse alla prima esecuzione, avvenuta nel mese di dicembre del 1895, e riguardanti la tonalità giudicata penalizzante per gli strumenti ad arco e il rapporto tra organo e orchestra con quest’ultima eccessivamente preponderante sul solista.

Le critiche indussero, infatti, Bossi a modificare l’organico, ridotto ai timpani, a quattro corni e agli archi e a trasportare l’intero brano in la minore. Aperto dal solista, il primo movimento, Allegro moderato si svolge per quanto attiene all’esposizione secondo i principi della forma-sonata con un primo tema di carattere armonico, al quale si contrappone il secondo dalla struttura assimilabile a quella del corale. All’esposizione segue un lungo sviluppo di carattere rapsodico e di grande intensità drammatica. Di carattere lirico è il secondo movimento, Adagio ma non troppo, dalla struttura tripartita (A-B-A1) basato su un tema esposto dai violoncelli in una scrittura cameristica e contrappuntistica estremamente raffinata. Un solenne tema armonico, esposto dal solista, apre l’ultimo movimento, Allegro, nel quale, quasi a dare all’intero concerto una struttura ciclica, ritornano elementi del primo tema del primo movimento. Una vera rarità è Hymne, for Organ and Orchestra Op.78 di Joseph Jongen, secondo brano in ascolto, nel quale l’organo, diversamente da quanto avviene nel Concerto di Bossi, diventa parte integrante dell’orchestra pur mantenendo un suono caldo e al tempo stesso misterioso che conferisce all’intero brano un particolare fascino.

Famosissimo è, infine, il Concerto per organo in sol minore FP.93 di Francis Poulenc, ultimo brano in programma, che, composto su commissione della Principessa di Polignac tra il 1934 e il 1938, si presenta come una poderosa struttura in un unico movimento diviso in 7 sezioni nelle quali si alternano diversi stili dal momento che si passa dal sacro al profano e da una scrittura che richiama il Barocco a un’altra più moderna. Di ottimo livello l’esecuzione da parte sia del solista, Tommaso Maria Mazzoletti che dell’Helvetica Orchestra, diretta da Eugène Carmona, i quali riescono ad integrarsi perfettamente dando vita, in alcuni passi, quasi ad un unico blocco sonoro, mentre in altri a una contrapposizione di colori e di sonorità. Il risultato è un’esecuzione veramente suggestiva e di forte impatto.

 

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro Malibran: “La vita è sogno” di Gian Francesco Malipiero

gbopera - Ven, 08/11/2024 - 19:02

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2023-2024
LA VITA È SOGNO”
Opera in tre atti e quattro quadri dal dramma “La vida es sueño” di Pedro Calderón de la Barca
Musica e libretto di Gian Francesco Malipiero
Il re RICCARDO ZANELLATO
Il principe LEONARDO CORTELLAZZI
Estrelle FRANCESCA GERBASI
Don Arias / Uno della folla LEVENT BAKIRCI
Clotaldo SIMONE ALBERGHINI
Diana VERONICA SIMEONI
Servo di Diana / Uno scudiero del re ENRICO DI GERONIMO
Mimi FRANCESCO NAPOLI, GIUSEPPE SARTORI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia Valentino Villa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Elena Cicorella
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 31 ottobre 2024
Novello Edipo, anche il protagonista de La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero (Il Principe) viene rifiutato, appena venuto al mondo, dal padre (Il Re). Questi – allarmato da funesti presagi, manifestatisi alla nascita del figlio e confermati dal responso degli astri, che vedono in lui un futuro tiranno – lo fa rinchiudere in una torre, dove vive da recluso. Ma, dopo vari anni, roso dal rimorso, il re ordina di liberare il giovane e di condurlo – narcotizzato – a palazzo, dove la vita da principe gli sembrerà un sogno: lo scopo è quello di verificare la vera indole del suo possibile successore. Il quale, appena appresa la verità, predice, infuriato, che il padre tra breve cadrà ai suoi piedi. Il re, convinto dell’ineluttabilità del destino, fa riportare il figlio – dormiente – nella torre, in modo che quella parentesi di libertà gli sembri nient’altro che un sogno. Ma, di fronte alle grida della folla – che, incurante dei presagi, reclama il suo principe – padre e figlio si abbracciano, tra l’esultanza del popolo. Questa, in sintesi, la vicenda drammatica, su cui si regge l’opera, tratta dalla celebre tragedia di Calderón de la Barca – composta da un Malipiero quasi sessantenne –, ora riproposta al Teatro Malibran, ad ottant’anni dalla prima italiana, avvenuta, nel 1944 al Teatro La Fenice, un anno dopo il suo debutto all’Opera di Breslau (oggi Wrocław), allora parte del Terzo Reich. Il regista Valentino Villa pone l’accento sulla semplificazione della linea narrativa operata dal compositore veneziano, che non si limita a ridurre la tragedia calderoniana, bensì evidenzia il lato archetipico delle vicende narrate, sottraendole ad una specifica collocazione spazio-temporale, ad esempio con l’assegnare ai personaggi un nome generico (Il Re, Il Principe) o un nome diverso rispetto all’originale (Diana anziché Rosaura). Quanto alla messinscena di quest’opera che, dopo ottant’anni dal suo debutto, risulta ai più sostanzialmente sconosciuta, il regista romano ha ritenuto opportuno non intromettersi più di tanto nel rapporto tra il pubblico e un titolo tutto da scoprire, usando un tratto leggero, non invasivo, ideando uno spettacolo che si possa riconoscere come coerente rispetto al barocco di Calderón. Nel contempo, di fronte alla didascalia iniziale del libretto, “Senza luogo né tempo in un mondo di fantasia”, ha preferito collocare la vicenda in un’epoca storica “astratta”, rientrando nella logica del sogno. Quello che ha immaginato insieme a Massimo Checchetto è un apparato scenografico essenziale, basato su due superfici cilindriche rotanti che permettono il succedersi di vari quadri, assecondando la concezione drammaturgica “a pannelli” di Malipiero. Quanto ai luoghi, fondamentale è la torre con funzione di carcere. Peraltro la reclusione – nella visione di Valentino Villa – non opprime solo il Principe, ma anche il Re fortemente condizionato dalle stelle e dalle profezie. All’astrologia praticata da lui rimanda il sestante (uno strumento, che misura l’angolo di elevazione di un corpo celeste sopra l’orizzonte), citato nell’apparato scenico, mentre all’Uomo Vitruviano sembra ricollegarsi l’idea di far apparire sulla scena il Principe legato – mani e piedi – ad un cerchio, sovrapposto a un quadrato, uno dei simboli del Rinascimento. Elementi scenografici, che simboleggiano il falso scientismo del Padre, cui si contrappone la rivoluzione culturale, rappresentata dal Principe. La conciliazione avviene nel finale, dove si impone una concezione culturale più evoluta. Meno astratti rispetto alla scenografia gli eleganti costumi di Elena Cicorella, che si richiamano ad un Seicento, che – pur nella sua vaghezza – spazia dalla Spagna ai Fiamminghi. Di ispirazione caravaggesca l’efficace disegno delle luci di Fabio Barettin. Nessun “cerebralismo” – termine talora usato da alcuni per definire la musica di Malipiero – coglie nella partitura Francesco Lanzillotta, il cui gesto direttoriale è teso a valorizzare la vena melodica – emancipata rispetto alla tradizione ottocentesca –, che si stempera nel continuo declamato delle voci, oltre alla raffinata sensibilità strumentale dell’autore, che considera l’orchestra come la somma di tanti ensemble cameristici, mettendo in luce il timbro dei singoli strumenti o delle singole sezioni. Ineccepibile il rapporto tra buca e palcoscenico, dove si è esibito un cast di prim’ordine, a cominciare dal tenore Leonardo Cortellazzi, capace di delineare, con generosa passione, il carattere del “sognante” principe – che nella rivisitazione malipieriana assume maggiore rilievo rispetto al testo di Calderón – combattuto tra afflizione e furore vendicativo, segnalandosi per il timbro brillante ed omogeneo. Analogamente espressiva è risultata Veronica Simeoni, che ha prestato la sua perlacea vocalità mezzosopranile, per regalarci un personaggio – Diana –, particolarmente affascinante per la sua varietà di accenti: dallo sconforto alla pietà. Di encomiabile professionalità il baritono Simone Alberghini e il basso Riccardo Zanellato, nei panni rispettivamente di Clotaldo e del Re, oltre al soprano Francesca Gerbasi (Estrella) e ai baritoni Levent Bakirci (Don Arias/Uno della folla) ed Enrico di Geronimo (Servo di Diana/Uno scudiero del re). Una menzione particolare merita il Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani, che ha brillato per sensibilità e fraseggio nei tre madrigali che vengono intonati al risveglio del Principe a corte e in apertura dell’ultimo atto, omaggio alla grande tradizione polifonica monteverdiana. Successo pieno e caloroso con numerose chiamate.

Categorie: Musica corale

Roma, Terme di Diocleziano: “Tony Cragg. Infinite forme e bellissime”

gbopera - Ven, 08/11/2024 - 17:35

Roma, Terme di Diocleziano
TONY CRAGG. INFINITE FORME E BELLISSIME
curata da Sergio Risaliti e Stéphane Verger
La mostra “Tony Cragg. Infinite forme e bellissime”, ospitata dal 9 novembre 2024 al 4 maggio 2025 nelle suggestive Terme di Diocleziano a Roma, rappresenta una rara occasione per avvicinarsi all’opera di uno dei maggiori scultori contemporanei, immerso in un contesto storico di straordinaria rilevanza
. L’esposizione, curata da Sergio Risaliti e Stéphane Verger, offre un percorso in cui antico e contemporaneo si intrecciano in un dialogo costante, una sinfonia di materia e spazio che affida la propria forza alla tensione tra la monumentalità delle terme romane e la fluidità delle sculture di Cragg. Il Museo Nazionale Romano, in collaborazione con BAM – Eventi d’Arte, ha dato vita a un allestimento che omaggia la maestria plastica di Cragg, celebrato per il suo uso di materiali non convenzionali e per la capacità di trasformare la materia in forme dinamiche e quasi organiche. Cragg, nato a Liverpool nel 1949, è emerso nel panorama artistico internazionale degli anni Settanta con una pratica che esplora la materia non come un semplice mezzo, ma come un vettore di senso capace di evocare emozioni profonde. La sua ricerca lo ha condotto a sperimentare materiali industriali e naturali—plastica, metallo, vetro, legno, pietra—trasformandoli in forme che suggeriscono un continuo divenire, quasi fossero parte di un organismo in perenne evoluzione. È in questo contesto che Cragg afferma: “La materia non è mai neutra; essa porta con sé una memoria e una storia che l’arte può liberare, trasformando gli oggetti quotidiani in frammenti di pensiero e sensazione”. Le Terme di Diocleziano, costruite tra il 298 e il 306 d.C., testimoniano una monumentalità architettonica che sfida il passare del tempo e si impone come un simbolo di permanenza e trascendenza. In questo contesto, le sculture di Cragg, poste in dialogo con la pietra antica, generano un contrasto visivo e concettuale in cui passato e presente si confrontano e si arricchiscono reciprocamente. Ogni opera sembra essersi organicamente adattata al proprio ambiente, come se le linee fluide e le spirali delle sculture fossero progettate per assecondare la rigidità delle strutture architettoniche, esaltandole e rinnovandole in una continua ridefinizione dello spazio. L’allestimento gioca un ruolo fondamentale nel valorizzare questa dialettica tra scultura e ambiente circostante. Le opere sono disposte in modo da rispettare la sacralità storica dello spazio, ma al contempo far emergere la vitalità delle forme di Cragg, che si collocano come presenze organiche tra le pietre. L’illuminazione è calibrata con precisione: la luce morbida e indiretta attraversa le superfici delle sculture, ora lucide e riflettenti, ora opache e stratificate, accentuando l’effetto di movimento e trasformazione. Questo gioco di ombre e luci crea un effetto visivo che arricchisce l’esperienza del visitatore, facendo apparire le sculture mutevoli, quasi eteree, come se fossero flussi di energia congelati nel momento del loro massimo vigore. Cragg si distingue per il suo uso di materiali plastici e metallici riciclati, che vengono reinterpretati con attenzione sia alla composizione visiva che al significato intrinseco della materia stessa. Le tecniche di assemblaggio, fusione e saldatura consentono alla scultura di assumere una fisicità che dialoga costantemente con l’elemento luminoso e con l’ambiente circostante. Alcune opere sembrano emergere come flussi di energia, altre si slanciano verso l’alto in spirali che invitano lo sguardo a percorrere la loro superficie, suggerendo un movimento senza fine. È come se ogni materiale raccontasse una storia, rivelando, attraverso pieghe e sporgenze, la propria memoria e la propria origine. L’inserimento delle sculture di Cragg nelle Terme di Diocleziano crea una temporalità sospesa, in cui il passato e il presente si fondono e si trasformano in una nuova narrazione visiva. Ogni opera si configura come una “presenza” che arricchisce lo spazio storico delle terme, creando un percorso di riflessione in cui il visitatore è invitato a lasciarsi guidare dalle variazioni di luce e dalla complessità delle forme. Questo dialogo tra materia e spazio suggerisce una nuova modalità di osservazione, una riflessione sull’essenza stessa della scultura e sul rapporto che essa stabilisce con il contesto in cui è inserita. La mostra è frutto di una collaborazione tra il Municipio I di Roma e Banca Ifis, che attraverso il programma Ifis Art sostiene da anni la promozione dell’arte contemporanea in Italia. Tale sinergia tra istituzioni pubbliche e private ha reso possibile la realizzazione di un evento che arricchisce il patrimonio culturale della città, offrendo al pubblico un’esperienza di rara intensità. L’allestimento, curato con estrema attenzione ai dettagli e rispetto per la sensibilità dei luoghi storici, permette alle opere di Cragg di trovare una collocazione naturale e significativa all’interno delle terme, trasformando lo spazio in un vero e proprio palcoscenico per un dialogo tra materia e storia. La presenza tra i curatori di Stéphane Verger, recentemente non più direttore del Museo Nazionale Romano, conferisce alla mostra un significato ulteriore. A Verger va un sentito ringraziamento per il lavoro svolto con dedizione e passione negli anni passati, caratterizzato da un rigore etico e disciplinare che ha portato a una serie di iniziative culturali di grande rilievo. La sua guida, improntata al rispetto del patrimonio e alla promozione di un dialogo continuo tra passato e presente, lascia un’impronta indelebile che continuerà a ispirare il futuro del museo e delle sue attività espositive. Photocredit@MonkeysVideoLab

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Brancaccio: “Sherlock Holmes”

gbopera - Ven, 08/11/2024 - 00:31

Roma, Teatro Brancaccio, Stagione 2024/25
SHERLOCK HOLMES – IL MUSICAL
Sherlock Holmes NERI MARCORE’
Dottor John H. Watson  PAOLO GIANGRASSO
Molly O’Neill  FRANCESCA CIAVAGLIA
Ispettore G. Lestrade  GIUSEPPE VERZICCO
Signora Hudson  BARBARA CORRADINI
Mycroft Holmes NICCOLÒ CURRADI
Michael Osborne SIMONE MARZOLA
Robert Scott MATTIA BRAGHERO
Pastore della Chiesa di Saint Mary-Le-Bow – RICCARDO GIANNINI
Cover di: Robert Scott / Pastore / Agente / Michael Osborne – LAPO BRASCHI
Produzione: Ad Astra Entertainment S.r.l., Compagnia delle Formiche, Artisti Riuniti
Supervisione e approvazione del testo a cura dell’Associazione Sherlockiana Italiana “Uno Studio in Holmes Aps”
Regia di Andrea Cecchi
Roma, 07 novembre 2024
“Sherlock Holmes – Il Musical” si presenta come un ambizioso tentativo di trasfigurare l’investigatore di Baker Street nel linguaggio del teatro musicale. Un progetto che ambisce a ricontestualizzare la celebre figura letteraria di Arthur Conan Doyle in una dimensione scenica dove la parola, la musica e il gesto si fondono per dar vita a un’esperienza sinestetica. Tuttavia, malgrado le premesse e la nobile intenzione di esplorare un nuovo registro artistico per il detective, lo spettacolo dimostra diverse criticità, che ne minano la realizzazione complessiva e impediscono di mantenere quella vivacità che ci si aspetterebbe da un’opera di tale portata. La scenografia, curata nei minimi dettagli da Gabriele Moreschi, è senza dubbio uno dei punti di forza della produzione. La Londra vittoriana che Moreschi ricostruisce sul palcoscenico è suggestiva, caratterizzata da una precisione architettonica che rievoca le atmosfere gotiche e cupe della metropoli ottocentesca. Le strade immerse nella nebbia, i lampioni a gas che rischiarano i vicoli e le facciate degli edifici suggeriscono un contesto urbano vivo, palpabile, ricco di quel mistero che è parte integrante dell’universo holmesiano. La scenografia, tuttavia, sembra non trovare pieno sostegno negli altri elementi dello spettacolo, a partire dalla performance del protagonista. Neri Marcorè veste i panni di Sherlock Holmes con una compostezza che, pur aderendo formalmente al personaggio, finisce per risultare eccessivamente contenuta e priva di quella tensione intellettuale che definisce il celebre detective. Holmes, nella penna di Conan Doyle, è un personaggio animato da una mente febbricitante, un investigatore che vive costantemente in bilico tra la lucidità analitica e un certo tormento interiore. Questa complessità psicologica non trova piena espressione nella recitazione di Marcorè, che appare troppo spesso distaccato, quasi inerte di fronte agli enigmi che dovrebbe risolvere. La presenza scenica di Holmes diviene così più passiva che attiva, privando il pubblico di quell’identificazione emotiva che è il cuore di ogni esperienza teatrale riuscita. Anche l’aspetto canoro di Marcorè non riesce a sopperire alle mancanze interpretative: il canto risulta privo di dinamiche emotive significative. Le arie di Holmes, che dovrebbero essere l’occasione per esplorare il suo mondo interiore, finiscono per apparire uniformi, senza quei picchi e quelle variazioni che possano comunicare la complessità dei pensieri del detective. Il personaggio di Holmes, di conseguenza, fatica a emergere come figura centrale e carismatica, rimanendo piuttosto un’ombra scolpita nella trama dello spettacolo. In netto contrasto, la performance di Giuseppe Verzicco nei panni dell’ispettore Lestrade risulta la più convincente e vitale dell’intera produzione. Verzicco dona al suo Lestrade un’energia vivace e una presenza scenica che arricchiscono la narrazione. Lungi dall’essere un semplice comprimario, il suo Lestrade assume una centralità che funge da contrappunto al protagonista, riuscendo a portare in scena non solo la figura del funzionario di polizia, ma un personaggio tridimensionale, dotato di dinamismo e vivacità. Verzicco riesce a dare corpo a quella tensione necessaria tra l’ufficiale pragmatico e l’investigatore eccentrico, creando una dialettica scenica che è tra i momenti più riusciti dello spettacolo. Francesca Ciavaglia, nel ruolo di Molly O’Neill, offre una prestazione elegante, caratterizzata da una delicatezza rispettosa che ben si adatta al personaggio, ma che non riesce a emergere se non in sporadici momenti cantati. Il suo contributo alla narrazione resta contenuto, aggiungendo una presenza delicata che non incide in maniera determinante sullo sviluppo drammatico. Analogamente, Barbara Corradini nel ruolo della Signora Hudson interpreta una figura rassicurante e di contorno, ma la sua partecipazione si limita a tratteggiare un’ombra domestica che non si impone mai realmente sulla scena se non durante il duetto con il collega Verzicco. Sotto il profilo tecnico, il musical presenta alcune criticità che minano l’armonia dell’insieme indubbiamente migliorabili. In particolare, si notano problemi di sincronizzazione tra l’audio e le basi musicali, che compromettono la fluidità dello spettacolo e riducono il coinvolgimento emotivo del pubblico. Le musiche, curate da Andrea Sardi, sono efficaci nel rievocare l’atmosfera dell’epoca e risultano pertinenti al contesto narrativo, ma la mancanza di coesione tecnica impedisce loro di raggiungere quell’efficacia immersiva che sarebbe stata auspicabile. I momenti di sfasamento audio creano un distacco percettibile tra ciò che accade in scena e ciò che viene udito, interrompendo la sospensione dell’incredulità e distogliendo l’attenzione degli spettatori. La regia delle luci, affidata a Emanuele Agliati, è uno degli elementi che maggiormente contribuiscono a creare la giusta atmosfera. Le luci sono utilizzate per plasmare chiaroscuri suggestivi, alternando scene intime e momenti più drammatici, e riescono a suggerire quella dimensione crepuscolare che è essenziale per un’opera come questa. Tuttavia, la potenzialità espressiva delle luci non è sufficientemente valorizzata da una regia che appare incerta nel trovare il giusto ritmo. Il risultato è una discontinuità tra la forza visiva delle luci e l’interpretazione scenica, che impedisce la creazione di un’unica tensione drammatica coesa. Anche le coreografie di Roberto Colombo e Caterina Pini soffrono di una certa frammentarietà. I movimenti scenici, per quanto curati e armoniosi, non riescono a integrarsi pienamente con la narrazione. Le coreografie sembrano essere più decorative che funzionali, un abbellimento che arricchisce la visione d’insieme ma che non apporta un reale significato narrativo. Manca un legame profondo tra i movimenti e la storia che viene raccontata, e questo finisce per ridurre l’impatto emotivo delle scene danzate, che non riescono a raggiungere quella forza espressiva necessaria per rendere le coreografie parte integrante del dramma. Un pubblico educato e partecipe ma non particolarmente coinvolto. Peccato veramente.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia: “Metamorfosi” dal 08 novembre al 01 dicembre 2024

gbopera - Gio, 07/11/2024 - 19:34
Roma, Museo nazionale Etrusco di Villa Giulia
METAMORFOSI
acqueforti di Roberto Mariotti In collaborazione con il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Venerdì 8 novembre 2024, alle ore 17.00, sarà inaugurata presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma la mostra intitolata “METAMORFOSI”, quindici opere d’arte grafica realizzate dall’architetto Roberto Mariotti con la tecnica dell’acquaforte, frammenti di paesaggi e di luoghi segnati dalla presenza archeologica etrusco-italica. Le acqueforti sono state realizzate dopo aver visitato siti archeologici quali Castel d’Asso, Norchia, Barbarano Romano, Blera, “tutti luoghi incantati” scrive Mariotti. “Sono tornato più volte e sempre più affascinato e coinvolto. All’inizio non ne capivo il motivo, poi, lentamente, ho riflettuto. Tutti questi luoghi hanno una caratteristica comune: edicole, resti di pietra, frontoni, embrioni di architettura, colombari nascosti…, tutti immersi e sovrastati dalla natura, che a malapena riescono a farsi vedere, e solo quando l’uomo si accorge che esistono”. Il fascino esercitato da questi luoghi è sicuramente dovuto alla sovrapposizione degli elementi della natura alle evidenze archeologiche, alcune volte in maniera prepotente, come a Norchia, Barbarano Romano o Blera, altre volte in modo meno invasivo, come a Sutri o Castel d’Asso, ma comunque sovrastante. Questa attuale condizione è quella che ha stimolato la fantasia dell’artista e l’evidente contrasto ha creato, in tempi successivi, diverse sensazioni ed emozioni. La mostra, il cui obiettivo è riscoprire il legame tra i ritrovamenti e i territori della civiltà etrusca, è nata dalla collaborazione con l’Associazione A.M.M. Architettura Arte Moderna di Francesco Moschini ed è il risultato di un progetto iniziato nel 2017, quando Mariotti, conclusa l’esperienza professionale di architetto, ha iniziato a studiare seriamente l’incisione. “Siamo lieti di poter accogliere una proposta culturale e artistica come quella dell’Associazione AAM ARCHITETTURA ARTE MODERNA che unisce alla qualità grafica, uno sguardo del tutto particolare sui territori protagonisti della cultura etrusca e italica – afferma la Direttrice Luana Toniolo.  Il lavoro di Roberto Mariotti ci consente di ampliare la prospettiva del Museo tornando a quei luoghi carichi di fascino, storia e significati, ci permette di rileggere i paesaggi attuali attraverso le testimonianze archeologiche mediati dall’intervento della natura”. Nato a Roma nel luglio del 1937 e laureato in architettura nel 1963, Roberto Mariotti è uno dei fondatori dello studio Grau – Gruppo Romano Architetti Urbanisti (1964) con il quale condivide sia l’attività di ricerca che quella professionale. In questo ambito partecipa nel 1980 alla I° Biennale di Architettura di Venezia The Presence of the Past. A partire dagli anni ’90, alternando collaborazioni anche con lo studio Stec, conduce lunghe esperienze in situazioni complesse e disagiate come il Post sisma in Irpinia, la Cooperazione in Africa. Realizza, sempre in collaborazione, alcuni complessi scolastici e il cimitero monumentale di Nizza, vince il concorso di idee per la risistemazione di Piazza Navona a Roma, partecipa a molti bandi europei di progettazione fra cui l’utilizzo di Fondi comunitari per un Piano di 90 scuole in Albania. Durante tutto l’arco della sua attività professionale coltiva assiduamente l’arte del disegno. Pubblica, come autore singolo, S. Gregorio Magno e la ricostruzione con il blu cobalto (ed. Kappa ’65) e con lo studio Grau Isti mirant stella (ed. Kappa ’81). Sempre con il Grau, nel 2010, vede acquisiti agli Archivi del Centre Pompidou di Parigi 120 progetti per oltre 1300 disegni relativi agli anni ’64-’84. Pubblica su riviste e partecipa a mostre, sia collettive che personali, sia in Italia che all’estero. La mostra è compresa nel biglietto di ingresso al Museo rimarrà aperta fino al 1° dicembre 2024. Progetto selezionato dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia con l’avviso pubblico per manifestazione di interesse 2023 rivolta alle associazioni del terzo settore per la presentazione di progetti di alto profilo culturale.
Categorie: Musica corale

Roma, Teatro India: “Riccardo III”

gbopera - Gio, 07/11/2024 - 18:56

Roma, Teatro India
RICCARDO III
Un’interpretazione contemporanea di Shakespeare al Teatro India
progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
regia Luca Ariano
con Pietro Faiella, Roberto Baldassari, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser
aiuto regia traduzione e adattamento Natalia Magni
scene Luca Ariano con la collaborazione di Alessandra Solimene
costumi Elisa Leclè
disegno luci Luca Ariano
assistente alla regia Tessa Perrone
foto di Manuela Giusto
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in collaborazione con Lubox
Roma, 05 novembre 2024
La sala è completamente buia, pochi istanti prima di essere sommersi da una luce bianca accecante. Una luce che, gradualmente, cambia colore, riflettendo i sentimenti che animano tutti i personaggi di Riccardo III di Shakespeare: la rabbia, l’invidia, la fame di vendetta, il rancore. L’uso delle luci in “Riccardo III” evoca l’artista Dan Flavin, che le considera come un mezzo in grado di modificare l’ambiente e la sua percezione. Così come Flavin utilizza la luce per creare un’esperienza immersiva, anche qui diventa parte integrante della narrazione, amplificando la tensione emotiva e psicologica, diventando non solo un elemento visivo, ma un veicolo di significato che definisce lo spazio teatrale e le lotte interiori dei personaggi. Questo bianco, decontestualizzato dall’epoca del dramma, sottolinea l’attualità di una storia che sfida il tempo e lo spazio. E a proposito di spazio, inizialmente lo spettatore si sente catapultato in “2001: Odissea nello spazio”, un effetto amplificato non solo dal bianco della “navicella” scenica, ma anche dagli abiti realizzati da Elisa Leclè. In particolare, quello di Riccardo, leader di questo universo sospeso, che, come un platonico demiurgo, conferisce ordine e misura a suo volere, ordina e disordina colori e pensieri, espressi anche attraverso la musica. Riccardo III è interpretato da Pietro Faiella, che, come un direttore d’orchestra, avvia piacevoli melodie a suo piacimento, le quali si alternano alle voci dei vari personaggi. Tutti sono sotto di lui; il futuro re riesce ad ammaliarli e a guidarli verso il suo obiettivo di vendetta, mosso da una fame insaziabile di supremazia. La sua recitazione è realistica, sempre più penetrante, permettendoci di comprendere come questi sentimenti siano sempre contemporanei. Riccardo si mostra con mille maschere e sfumature, tutte magistralmente interpretate da Faiella: dalla voce al corpo, ma ciò che ho apprezzato di più è stato il suo sguardo, sempre penetrante e in continuo mutamento. Capace di suscitare pietà, ma anche di rivelare, nei suoi momenti da solista, una brama di dominio che non lascia margine a incertezze. I vari attori hanno saputo mantenere un ritmo costante, mettendo in luce la loro interiorità con delicatezza e senza eccessi, esprimendo con naturalezza alti sentimenti come la paura e la sottomissione, la rabbia e il desiderio di vendetta, il dolore e il lutto, la lealtà e il tradimento, il timore reverenziale e la speranza. Tuttavia, avrei voluto assaporarli di più, osservando con maggiore lentezza i passaggi emotivi e i cambi di stato d’animo. Ad un certo punto la musica classica, che inizialmente accompagna un ritmo moderato, intessuto dai piani del protagonista, e guidata dai gesti della sua mano storpia, si tinge improvvisamente delle note rock dei Guns N’ Roses con “Sympathy for the Devil”, che d’impatto sconvolge il pubblico e pare ancora più evidente il cambiamento delle sue emozioni, “la natura del suo gioco”. Così come “il diavolo” della canzone giustifica i suoi crimini come parte di un piano più grande, in una performance visibilmente scenica, Riccardo si auto-incorona re, appagato, nel massimo del suo piacere. È proprio in questo momento che la sua recitazione evoca l’immagine di dittatori più vicini al nostro tempo, come Mussolini. E in questo, Pietro Faiella, nelle vesti di re Riccardo III, incarna la stupidità e l’arroganza di chi si crede padrone assoluto e indiscutibile delle vite e dei destini altrui. Da qui inizia la discesa: il re, ormai dispotico, non ha fatto i conti con sé stesso e inizia a guardarsi le spalle, consapevole di tutte le persone che ha ferito, rinnegato, ignorato. Da padrone assoluto, ora si trova a dover affrontare i suoi stessi inganni. La musica si trasforma in un rumore assordante, che risuona nella sua mente e nelle orecchie del pubblico. Non riesce più a controllare nulla: colori, suoni, sentimenti e i pensieri degli altri gli sfuggono; e deve fare i conti con la sua stessa solitudine. Ed è qui che non può fare altro che impazzire. A un certo punto sembra di trovarsi in un centro psichiatrico; una coscienza troppo sporca per essere perdonata. Le mura si tingono di viola, e ritorna la musica con un omaggio a Frank Sinatra e la sua “My Way”; è l’ultimo saluto di chi ha osato fare il passo più lungo della sua gamba.  “And now the end is here, and so I face that final curtain…” E come Sinatra, canta al mondo la storia di un uomo che guardando in faccia la morte non rinnega nulla della sua vita, di ciò che ha fatto, poiché in fondo riconosce di essere sempre stato fedele a sé stesso, di aver fatto le cose “a modo suo”. Così, si chiude il sipario. Così, si torna al buio. Photocredit: Manuela Giusto / Redazione Gbopera

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro Bellini: “Tragudia – Il Canto di Edipo” dal 12 al 17 novembre 2024

gbopera - Gio, 07/11/2024 - 18:28
Napoli, Teatro Bellini 
TRAGUDIA – IL CANTO DI EDIPO di Alessandro Serra
regia, scene, luci, suoni e costumi Alessandro Serra
con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino
traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera
voci e canti Bruno de Franceschi
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
collaborazione al suono Gup Alcaro
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai costumi Serena Trevisi Marceddu
direzione tecnica e tecnica del suono Giorgia Mascia
direzione di scena Luca Berettoni
costruzione scene Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin
produzione Sardegna Teatro, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia Il linguaggio è ciò che vogliamo dire .(Italo Calvino)
Macerie.
In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco.
Ciò che resta della tragedia:
parole senza suono.
Ciò che resta della polis:
una società di estranei. Ciò che resta del rito:
una drammaturgia spenta. Ciò che resta di un mito:
una storiella venuta a noia. Ciò che resta di un eroe:
un personaggio fuori fuoco.
Il canto di Edipo si edifica sulle macerie.
Scrive Antifane nella commedia Poiesis:
La tragedia è un’arte fortunata, perché gli spettatori conoscono l’intreccio già prima che il poeta lo racconti, basta ricordarglielo. Appena pronunziato il nome di «Edipo», già si sa tutto il resto – il padre Laio, la madre Giocasta, le figlie, i figli, che cosa ha sofferto, la sua colpa.
Come ricostruire oggi quel sapere collettivo che esonerava il poeta tragico dal dover volgere in prosa il mito e lo legittimava a sollecitare immediate visioni nel pubblico?
Come compiere il tragico oggi? Quale linguaggio è, ciò che tramite Sofocle, vogliamo dire allo spettatore? E in quale lingua? Il greco di Sofocle era volutamente alto e musicale, una lingua che ci strappa dal piano di realtà e ci pone su un livello di trascendenza. Come consegnare al pubblico la drammatizzazione perfetta del mito perfetto in una lingua non ostile e concettuale ma musicale, istintiva e sensuale? L’italiano sembra abbassare il tragico a un fatto drammatico. Abbiamo perciò scelto il grecanico, lingua che ancora oggi risuona in un angolo remoto di quella che fu la Magna Grecia, una striscia di terra che dal mare si arrampica sull’Aspromonte scrutando all’orizzonte l’Etna. Vestigia sonore di un antico greco oggi parlato da pochi individui figli di una generazione che aveva vergogna della lingua di Omero e ha smesso di insegnarla ai figli, per concedersi la speranza di un futuro migliore, in una società in cui la lingua dei poeti è stata scalzata da quella della televisione. Un idioma antichissimo sporcato da lingue piovute dall’alto e da dialetti subalterni cresciuti spontanei nel campo sublime seminato dai greci come il calabro e il pugliese. La tragedia di Edipo è ambientata in una città ridotta al lumicino, arida, sterile, in decomposizione. Eppure Sofocle guida lo spettatore verso una luce interiore che si manifesterà a Colono, nel bosco sacro in cui Edipo verrà letteralmente assorbito dagli dei. La tragedia perfetta della quale Aristotele si serve costantemente come modello ideale nel corso della sua trattazione teorica. Tragedia freudiana per antonomasia. Archetipo stesso di qualsiasi tragedia. Ripartiamo dalle crudeli visioni di Artaud: “È stupido rimproverare alle masse di non avere il senso del sublime, quando si confonde il sublime con una sua manifestazione formale, che oltretutto è sempre una manifestazione morta. Se per esempio la folla contemporanea non capisce più Edipo re, oserei dire che è di Edipo re la colpa, non della folla.” Come consegnare Edipo alla folla contemporanea nella sua funzione primigenia di pharmakos? Capro espiatorio espulso dalla stessa città che lo aveva salutato come re. Come rendere Sofocle accessibile a tutti? Come elaborare il lutto per la perdita della polis e del sacro? Come liberare Edipo dalla sua colpa? Edipo, il fortunato salvatore della polis che risponde a un indovinello per bambini. Edipo, l’incestuoso e il parricida. Edipo, che ha il coraggio supremo di voler conoscere sé stesso. Edipo che rinnega gli dèi e i veggenti, Edipo che discende alle radici marce del suo albero genealogico, si riconosce e si acceca gli occhi. Non per punirsi ma per acquisire una vista profetica. Privato della vista esteriore finalmente Edipo vede il suo cammino senza perdere la sua umana fragilità. Vaga nelle tenebre in cerca della sorgente di luce. Cammina senza guida in direzione del bosco caro alle Eumenidi e in un bagliore luminoso si congiunge agli dei, conquistando così, come Krishna, la liberazione da questo mondo materiale. Qui per tutte le informazioni.
Categorie: Musica corale

Roma, Accademia Nazionale di San Luca: “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento”

gbopera - Gio, 07/11/2024 - 12:09

Roma, Palazzo Carpegna
Accademia Nazionale di San Luca
MICHAEL SWEERTS. REALTA’ E MISTERI NELLA ROMA DEL SEICENTO
Roma, 07 Novembre 2024
La mostra “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento”, ospitata presso l’Accademia Nazionale di San Luca a Palazzo Carpegna, rappresenta una rara opportunità di esplorare la produzione di un artista enigmatico come Michael Sweerts, la cui vicenda umana e artistica si colloca tra la Bruxelles fiamminga e la Roma seicentesca, fino a giungere alle coste lontane di Goa
. L’esposizione, curata da Andrea G. De Marchi e Claudio Seccaroni, intende svelare la complessità e l’unicità della figura di Sweerts, il cui lavoro si è arricchito recentemente di nuove letture e importanti scoperte archivistiche e di restauro, che hanno permesso collegamenti fra opere e tracce documentali, nonché riesami tecnici. Michael Sweerts è uno dei pittori fiamminghi più enigmatici, complessi e intimamente internazionali, il cui percorso biografico sembra costantemente avvolto dal mistero, quasi come se la storia avesse voluto lasciarci solo frammenti di una vicenda complessa, fatta di sfide e di ambizioni. Nato a Bruxelles intorno al 1624, Sweerts è stato ignorato dagli storici della sua epoca, ma riscoperto dai critici nordeuropei attorno al 1900 e, a metà del secolo, da italiani come Giuliano Briganti e Roberto Longhi. Le ricerche hanno rivelato che Sweerts era di origini aristocratiche e che non seguì le maggiori correnti artistiche del suo tempo, grazie anche a un’indipendenza economica e intellettuale che lo ha reso libero dai capricci della committenza. Sweerts si forma artisticamente in un contesto in cui l’influenza della pittura fiamminga, con la sua attenzione al dettaglio e alla rappresentazione del reale, si mescola alla tradizione italiana del chiaroscuro e della teatralità. Soggiornò a Roma dal 1643 al 1653, vivendo in via Margutta dal 1646 al 1651 e sicuramente venne a contatto con l’indisciplinata comunità dei pittori olandesi e fiamminghi. Aprì uno studio dove raccolse calchi in gesso di frammenti scultorei antichi e moderni, ricorrenti nelle sue tele quali tracce classiciste di Roma e strumenti di una rivendicata pratica d’artista, contrapposta ai consueti approcci astratti e teoretici. La sua arte si è sviluppata in un’epoca in cui Roma — centro pulsante dell’arte e della cultura barocca — accoglieva artisti provenienti da ogni angolo d’Europa, in un fervente scambio di idee e tecniche. Influenzato dai Bamboccianti e dallo studio diretto dei dipinti del giovane Caravaggio, in particolare quelli Pamphilj, Sweerts conquistò in breve una chiara autonomia poetica, dedicandosi a pungenti rappresentazioni di atelier in cui è frequente la presenza di giovani allievi dediti alla copia dei modelli antichi. La Roma da lui narrata riunisce tutte le classi sociali, soprattutto quelle popolari, con giovani prostitute e vecchi bevitori situati in scorci urbani tra miseria e nobiltà. Sempre al periodo romano si può ricondurre l’interesse di Sweerts per le rappresentazioni del cielo, tema che svilupperà anche dopo il ritorno in patria. La mostra, allestita nelle sale storiche di Palazzo Carpegna, si sviluppa come un percorso di scoperta e riflessione sulla dualità del reale e del mistero, temi centrali nell’opera di Sweerts. Le sue tele sono caratterizzate da un’attenzione quasi ossessiva ai dettagli del quotidiano, ai volti di uomini e donne catturati nella loro realtà più autentica, e allo stesso tempo da un velo di ambiguità che lascia spazio all’invisibile, al non detto. Questa tensione tra realtà e mistero, tra chiarezza e opacità, emerge in ogni pennellata, trasformando le sue opere in un continuo dialogo tra il mondo tangibile e quello enigmatico, tra ciò che vediamo e ciò che resta celato. Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è la possibilità di osservare da vicino il lavoro di restauro e le recenti scoperte archivistiche che hanno gettato nuova luce su Sweerts e la sua attività. Tali scoperte hanno permesso di delineare con maggior precisione alcuni aspetti della sua produzione artistica e della sua vita, rivelando nuove connessioni tra la sua pittura e il contesto culturale e sociale del suo tempo. Le sue opere testimoniano una capacità unica di cogliere la dignità del quotidiano, con una sensibilità che sfida le convenzioni del tempo e anticipa una visione più intima e personale della realtà. La curatela di Andrea G. De Marchi e Claudio Seccaroni ha mirato a esaltare proprio questa tensione tra l’apparente semplicità della rappresentazione e la complessità del significato sottostante. Le opere di Sweerts sono disposte in un modo che invita il visitatore a riflettere sul dualismo che caratterizza il suo stile: scene di vita quotidiana, ritratti di giovani apprendisti, uomini al lavoro, ma anche momenti di raccoglimento spirituale, con figure avvolte in una luce che sembra provenire dall’interno piuttosto che dall’esterno. Questo contrasto è amplificato dall’allestimento, che utilizza la luce naturale filtrata dalle grandi finestre del Palazzo Carpegna per creare un’atmosfera di sospensione e introspezione. La scelta di ospitare la mostra all’Accademia Nazionale di San Luca — istituzione secolare che ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione e promozione degli artisti — non è casuale, ma vuole sottolineare il legame profondo tra la ricerca artistica di Sweerts e l’ambiente romano in cui operò. Roma non è solo lo scenario fisico delle sue opere, ma anche un luogo di trasformazione spirituale e intellettuale, dove l’artista ha potuto confrontarsi con i grandi maestri del passato e con la complessità culturale del Seicento. Divenuto profondamente religioso, Sweerts si imbarcò nel 1661 da Marsiglia verso l’Oriente, per seguire una missione lazzarista francese, trovando la morte probabilmente a Goa. La mostra è un’occasione straordinaria per scoprire e approfondire la sua assoluta singolarità e chiarire alcuni dei misteri che aleggiavano sul suo conto, tra cui la sua vocazione all’insegnamento e all’avvio professionale dei giovani artisti. Questo aspetto del suo lavoro, spesso ignorato, viene ora rivalutato come una vera e propria scuola di formazione, in cui non sembra aver imposto il proprio linguaggio. La mostra “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento” si presenta dunque come un viaggio attraverso il visibile e l’invisibile, in cui il visitatore è chiamato a interrogarsi sulla natura stessa della rappresentazione e sul ruolo dell’artista come mediatore tra realtà e immaginazione.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera di Roma: “Il rosso e il nero”

gbopera - Gio, 07/11/2024 - 11:18

Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2023-2024
“IL ROSSO E IL NERO” DI UWE SCHOLTZ
Balletto in tre atti dall’omonimo romanzo di Stendhal
Musica Hector Berlioz
Direttore Martin Georgiev
Coreografia Uwe Scholz
Coreografo ripetitore Giovanni Di Palma
Julien Sorel MICHELE SATRIANO
Madame De Rénal REBECCA BIANCHI
Mathilde De La Mole MARIANNA SURIANO
Monsieur De Rénal ANTONELLO MASTRANGELO
Marquis De La Mole FRANCESCO MARZOLA
Orchestra, Étoiles, Primi ballerini, Solisti e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Scene Ignasi Monreal
Costumi Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Roma, Teatro Costanzi, 30 ottobre 2024
Grande il richiamo di un titolo come Il rosso e il nero, preso in prestito dall’opera letteraria di Stendhal. Sicuramente in molti avranno provato la curiosità nella loro vita di accostarsi al romanzo scritto dal letterato francese nel 1830, epoca del romanticismo nelle sue varie sfumature. Amato persino da Italo Calvino per la sua tensione morale e gli slanci vitali, in realtà Stendhal ci presenta una sorta di romanzo storico ravvivato dalle ambizioni del protagonista Julien Sorel e dai suoi amori travolgenti. La scrittura è lineare, anche se a tratti presenta frasi iconiche quali “l’amore crea le uguaglianze e non le cerca”. Può dare questo vita a un balletto di rilievo? In risposta a tale quesito, il Teatro dell’Opera di Roma ci ha offerto la visione del balletto omonimo, realizzato dal coreografo Uwe Scholz nel 1988 all’Opera di Zurigo. Il coreografo tedesco aveva studiato a Stuttgart con John Cranko, uno dei più grandi maestri del filone del balletto narrativo novecentesco. La produzione che oggi vediamo nella ripresa di Giovanni di Palma era nata come un omaggio al maestro scomparso in occasione della ricorrenza dei 60 anni dalla nascita. Tale eredità si associa qui però al tentativo di utilizzare la musica sinfonica del geniale compositore francese Hector Berlioz. Il clima respirato in Francia all’epoca della Restaurazione è qui reso in maniera simbolico-surreale dalle scenografie di Ignasi Monreal, giovane creativo spagnolo reduce da importanti collaborazioni con i più noti brand della moda. La difficoltà e l’interesse maggiore presentato dallo spettacolo è capire chi sia veramente Julien Sorel, se sia un’opportunista dedito alla scalata sociale tramite manipolative relazioni sentimentali o se mantenga fino alla fine fede ai propri ideali formatisi in lui fin dall’adolescenza grazie a ferventi letture. Per tradurre in danza gli spunti psicologici offerti dal romanzo, Uwe Scholtz parte dalla tradizione. Julien Sorel si presenta con il libro in mano, mentre il contesto contadino e la sua energia quasi scomposta richiama alla mente il balletto Giselle. Le grandi teste marmoree raffigurate in scena ricordano l’epoca del pittore neoclassico francese Jacques-Louis David, unendovi un particolare fascino che sembra derivare da De Chirico. Il reale incipit drammatico è però affidato alla raffinata scena ambientata nell’appartamento di Monsieur de Rȇnal, dove fin da subito si nota la ritrosia della moglie. Ella tenterebbe di abbandonarsi a qualche tiepido slancio verso il marito, ma la distrazione di lui ne limita i voli. Diversa la tensione espressa con un semplice sguardo nel notare la comparsa di Julien Sorel. Egli la ricambia all’istante. Attraverso baldanzosi grand jetés, attitudes e pirouettes il protagonista maschile esprime la potenza dei suoi sogni di affermazione che includono anche l’amore. Tutto sembra concretizzarsi nella camera da letto, quando l’étoile Rebecca Bianchi dopo infinite reticenze cede infine al corteggiamento di Sorel, abbandonandosi con lui a eloquenti slanci lirici sulla musica della Nuit sereine et scène d’amour da Roméo et Juliette di Berlioz. In lei pare di rivedere la Ferri nel Romeo e Giulietta di Cranko, ma nel continuo cercare di divincolarsi unito al grande impeto musicale ci sembra di ravvisare anche l’impronta lasciata da Galina Ulanova nella tradizione russa del drambalet. Il Julien Sorel del primo ballerino Michele Satriano si rivela anche qui energico, volitivo, gioioso, distinguendosi dalla romantica interpretazione di Claudio Cocino in altre serate, e questo fa capire il grande ruolo e la libertà offerti nella coreografia di Scholz ai protagonisti principali. L’intrigo è scoperto, e ad attendere Julien è l’oscurità del seminario con il trionfante simbolo della croce. Nel secondo tempo dello spettacolo è invece il rosso a campeggiare accompagnato da vistose passioni. Tra grandi candelabri ispirati al mondo di Versailles, Julien Sorel nell’interpretazione di Michele Satriano si mostra decisamente sognante in languide arabesques. La sua partner diviene adesso la capricciosa Mathilde de la Mole interpretata dalla nuova prima ballerina del teatro Marianna Suriano che non esita a coniugare fierezza e sensualità. Il nuovo duetto d’amore diviene adesso una sfida, un simbolico duello che riprende motivi tratti dalla follia di Giselle coniugandoli a un linguaggio coreografico particolarmente eccentrico. Necessariamente gli accenti delle pose femminili sono in fuori e non pare qui di ravvisare una reale sintonia amorosa, bensì solo l’accostamento di due imperiose individualità. Facile passare ai dinamici intrecci dell’esercito e al tentativo di omicidio. Al delitto segue il castigo, la condanna, l’esecuzione, ma i sentimenti non si estinguono e si rivela infine chi è Sorel per Uwe Scholtz. ..Quando le amanti vanno a salutarlo a prevalere è il rapporto con Madame de Rȇnal. La morte è accolta con eroismo (lo sfondo è qui significativamente illuminato di rosso), ma non desta particolari clamori. È la musica della Marche Funébre dalla Grande symphonie funèbre et triomphale a manifestare la gravità del momento. Il balletto si conclude in chiave gotica-biblica soffermandosi sulla folle visionarietà di Mathilde de la Mole. Un nuovo banco di prova per la compagnia che si mostra decisamente all’altezza. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Categorie: Musica corale

Roma, Vittoriano e Palazzo Venezia: “Guglielmo Marconi. Vedere l’Invisibile”

gbopera - Mer, 06/11/2024 - 18:42

Roma, Vittoriano e Palazzo Venezia
GUGLIELMO MARCONI. VEDERE L’INVISIBILE
Nelle sale del Vittoriano e di Palazzo Venezia, emerge un uomo complesso, quasi evanescente, come avvolto nel mistero di ciò che ha reso visibile l’invisibile. Guglielmo Marconi non è più il trionfatore celebrato sui manuali, ma appare qui in tutta la sua intimità, attraverso un itinerario che intreccia tecnologia e anima, ricerca e inquietudine. La mostra, “Guglielmo Marconi. Vedere l’invisibile,” si snoda tra due ambienti in apparente contrapposizione, quasi a suggerire la doppia natura dell’inventore e la sua incessante ricerca. Da un lato, la Sala Reale di Palazzo Venezia, ampia e luminosa, dove la luce naturale si riversa sugli oggetti esposti, sembra aprire uno spazio di respiro, di ammirazione silenziosa. Qui, radio d’epoca, strumenti tecnici complessi, cavi attorcigliati e raffinati congegni in ottone disposti in ordine, raccontano la dimensione pubblica di Marconi. Un pioniere, un visionario, colui che ha visto l’onda prima che esistesse. Osservare questi strumenti è come assistere alla materializzazione del progresso, un progresso che sembra respirare la stessa luce che li illumina. Dall’altro lato, nella Sala Zanardelli al Vittoriano, l’atmosfera cambia: uno spazio lungo e stretto, quasi soffocante, illuminato da faretti artificiali che creano ombre sui documenti e sugli oggetti personali, accentuandone i dettagli più intimi. È qui che emerge un Marconi più umano, un uomo di lettere, di relazioni e di scelte difficili. Le lettere di corrispondenza, alcune vergate a mano e altre battute a macchina, ci riportano a un tempo in cui comunicare era un gesto solenne, ponderato. I toni, le riflessioni, i dubbi su carta sono lì a mostrare il lato fragile e pensieroso di un uomo che, dietro alla sua genialità, custodiva anche timori e incertezze. Questi documenti, insieme agli oggetti personali – una penna, un paio di occhiali dalla montatura sottile, una vecchia cartolina ingiallita – sembrano sospesi in un silenzio che racconta, senza parole, il prezzo dell’isolamento. Il percorso espositivo, suddiviso in otto sezioni, accompagna il visitatore attraverso tappe che vanno dalla giovinezza del giovane curioso e visionario alla conquista delle onde radio. In ogni angolo, installazioni interattive e filmati animano la storia, portando alla luce il volto di un Marconi imprenditore e stratega, oltre che inventore. Una delle sezioni più suggestive include il documentario sull’Elettra, la “nave laboratorio” di Marconi, uno spazio fluttuante che divenne il suo rifugio scientifico e umano, un luogo dove poteva sperimentare e osservare in solitudine. È quasi palpabile la sensazione che, su quella nave, Marconi non cercasse solo risposte tecniche, ma un equilibrio interiore lontano dagli applausi e dal clamore. Con la collaborazione di Cinecittà, dell’Archivio Luce e di istituzioni prestigiose come le Bodleian Libraries di Oxford e il Museo Storico della Comunicazione di Roma, la mostra si arricchisce di materiale raro e prezioso. Cavi, strumentazioni tecniche, fotografie d’epoca e reperti provenienti da 34 enti prestatori sembrano narrare una storia in ogni piccolo dettaglio, come se il peso del passato continuasse a vibrare, offrendo al pubblico un viaggio che va oltre la semplice osservazione. Il supporto di sponsor come ENEL, Fincantieri e Terna e la collaborazione della Fondazione Leonardo, che ha contribuito con contenuti multimediali sviluppati con l’intelligenza artificiale, rende l’esperienza completa, senza mai cadere nel superfluo. In questa dicotomia di spazi – tra la solennità luminosa di Palazzo Venezia e l’ombra quasi claustrofobica del Vittoriano – emerge una narrazione che non si limita a celebrare un genio, ma ne mette in scena la tensione, la solitudine e il desiderio di comprendere ciò che agli occhi degli altri sfuggiva. Ogni strumento, ogni cavo e lettera, diventa una tessera che ricostruisce la personalità di Marconi, mostrandoci non solo un inventore acclamato, ma un uomo che ha pagato con la propria intimità il desiderio di esplorare l’invisibile. Marconi, in qualche modo, si allontana tra le ombre e la luce, come un’eco che vibra nell’etere, ricordandoci che il tentativo di afferrare l’invisibile richiede sacrifici di cui resta traccia solo tra le pieghe di una penombra, dietro le lenti di un paio di occhiali o nel riflesso di una radio d’epoca. Guglielmo Marconi fu non solo il pioniere delle trasmissioni radio, ma un rivoluzionario che aprì nuovi orizzonti, spingendo l’umanità oltre il visibile, verso un’era di comunicazioni senza confini.Era da poco trascorso mezzogiorno, quel 12 dicembre 1901, quando portai la cuffia all’orecchio e mi misi all’ascolto. Il ricevitore appoggiato sul tavolo di fronte era molto rudimentale, con solo qualche bobina, senza valvole, né amplificatori, senza neanche un cristallo”. Queste parole evocano un momento storico: un giovane di appena 27 anni che sfida le convenzioni della fisica, dimostrando che la comunicazione poteva travalicare l’Oceano Atlantico, collegando il vecchio e il nuovo mondo in un simbolico abbraccio. Più di cento anni fa, alle 12.30 post-meridiane, a St. John’s, sull’isola di Terranova, il ricevitore di Marconi captò il messaggio del primo telegrafo senza fili che attraversò l’Atlantico. I tre punti della lettera S dell’alfabeto Morse, partiti dall’antenna di Poldhu in Cornovaglia, rappresentarono un punto di svolta nella storia delle comunicazioni. Un trionfo che non solo dimostrò il potere delle onde radio di curvare insieme alla Terra, ma gettò le basi per la radio moderna. Dopo quel successo, la radio iniziò a trasmettere musica e parole, diventando parte della quotidianità e trasformandosi in uno strumento di salvezza per molte vite, come nel caso del Titanic. Quando Marconi morì, nel 1937, il mondo gli rese omaggio con un gesto unico: tutte le stazioni radio si interruppero per un minuto, silenzio che risuonò come un tributo all’uomo che aveva rivoluzionato il modo di comunicare.  La mostra “Vedere l’invisibile” è, dunque, più di un omaggio a un genio. È un viaggio attraverso i paradossi della modernità: tra la ricerca della connessione e il prezzo dell’isolamento, tra l’avanzamento tecnologico e le inquietudini di un uomo. Marconi ci invita a guardare oltre, a cercare la verità invisibile che vibra nell’etere, consapevoli che il progresso non è mai solo un accumulo di invenzioni, ma una tensione continua verso l’invisibile, un sacrificio umano che si cela dietro ogni grande conquista.

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Roma, Sala Umberto: “Appuntamento a Londra”

gbopera - Mer, 06/11/2024 - 00:34

Roma, Teatro Sala Umberto
APPUNTAMENTO A LONDRA
Con Luigi Tabita e Lucia Lavia
Scene e costumi Anna Varaldo
Musiche originali nogravity4monks
Regia Carlo Sciaccaluga
Roma, 04 Novembre 2024
Dal 4 al 6 novembre, il Teatro Sala Umberto di Roma accoglie l’atteso spettacolo “Appuntamento a Londra”, ispirato all’opera del premio Nobel Mario Vargas Llosa, il quale ha dichiarato: “La scena teatrale è lo spazio privilegiato per rappresentare la magia di cui è intessuta anche la vita della gente: quell’altra vita che inventiamo perché non possiamo viverla davvero, ma solo sognarla grazie alle splendide menzogne della finzione”. Con una regia sensibile e attenta di Carlo Sciaccaluga, i personaggi Raquel e Chispas diventano Maddalena e Luca, magistralmente interpretati da Lucia Lavia e Luigi Tabita. La trama si svolge in una camera d’albergo, un luogo intimo e isolato dal resto del mondo, dove un uomo d’affari, Luca, riceve la visita di una donna che si presenta come la sorella di un vecchio amico, Nino. Ma la verità, ben più complessa, non tarda a emergere: è lei stessa Nino, che ha completato da poco il percorso di transizione. La scoperta scuote profondamente Luca, che, da inizialmente sicuro di sé, inizia a vacillare, rivelando insicurezze e paure finora celate dietro una maschera di apparente stabilità. In questo scambio intimo e serrato, il ricordo di schiaffi e baci non dati, riaprono ferite antiche e sentimenti mai risolti, dando vita a un viaggio introspettivo che tocca la scoperta di sé, tra l’amore e il tormento, il desiderio e il rimpianto. L’atmosfera si fa densa e sospesa, mentre il gioco di luci di Gaetano La Mela accentua i chiaroscuri della scena, creando un’ambientazione onirica che fonde sogno e realtà. Le scenografie, le luci e i suoi colori, richiamano le atmosfere del pittore Edward Hopper, con un realismo che evoca al contempo uno straniamento sottile, una sospensione temporale che amplifica il senso di isolamento umano e la complessità dell’anima. È un realismo che si perde, che sfuma i confini della stanza d’albergo come una bolla fuori dal tempo. La camera d’albergo appare così un microcosmo di tensioni emotive, capace di contenere tutte le sfumature dei personaggi, dalla fragilità alla forza, dall’amore al dolore. I costumi e le scene di Anna Varaldo contribuiscono a questa dicotomia, donando concretezza al mondo tangibile ma suggerendo, al tempo stesso, una dimensione sospesa. Lucia Lavia, nei panni di Maddalena, si distingue per la sua presenza scenica magnetica, dando vita a un personaggio complesso e sfaccettato. Con un linguaggio diretto e a tratti crudo, riesce a trasmettere l’intensità del ruolo che interpreta, mantenendo un distacco quasi onirico dalla realtà. In un momento di particolare forza emotiva, recita un monologo tratto da Io canto il corpo elettrico di Walt Whitman, un inno alle meraviglie del corpo sensuale. Il suo corpo diventa fluido, la sua voce riecheggia tra il pubblico, portando gli spettatori a interrogarsi su temi come identità, corporeità e ruolo sociale. Le sue parole richiamano il tormento e la tensione interiore dei personaggi di “Persona” di Ingmar Bergman, che si rivelano attraverso una dialettica di parole e silenzi. Come in quel film, emerge il desiderio profondo di “essere, non sembrare di essere,” oscillando tra ciò che si è per sé stessi e ciò che si è agli occhi degli altri. Luigi Tabita, nel ruolo di Luca, intraprende un viaggio di vulnerabilità e auto disvelamento altrettanto toccante. Tenta di liberarsi dalla maschera che ha deciso di indossare nella vita, e che gli altri gli hanno imposto, quella del “bravo ragazzo” reso felice dai soldi, dal lavoro; ora però non si riconosce più. Cerca di strapparsela, quella maschera, dall’inizio alla fine, in un gesto lento che parte dalla sua bocca e sembra gridare in un urlo silente.  Ogni movimento e ogni parola rivelano progressivamente la fragilità del suo personaggio, evocando la vulnerabilità dei protagonisti dei film di Michelangelo Antonioni, in cui il desiderio di connessione si scontra con una solitudine profonda. I dialoghi tra Maddalena e Luca, intrisi di tensione e ambiguità, conducono il pubblico in un vortice di domande senza risposta. “Ci siamo mai davvero conosciuti? È stato amore, amicizia, o solo un gioco crudele? C’è mai stata violenza fisica?Le loro conversazioni si intrecciano, sovrapponendo il confine tra verità e menzogna, tra ricordo e illusione. La narrazione si sviluppa in modo intrigante, per sottolineare questo filo che divide la realtà dal sogno. Il nastro della storia si riavvolge in loop, generando scene che si ripetono come un disco graffiato, che risuona di vecchie verità e nuove possibilità. Alcuni frammenti s’intrecciano con scenari alternativi, portando alla luce ciò che è accaduto, ciò che sarebbe potuto accadere e ciò che gli stessi personaggi avrebbero voluto che accadesse. Questo gioco di possibilità richiama le dinamiche di Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese. Verso la fine, la voce di figure esterne si inserisce nella vicenda, quasi come presenze fantasmatiche che, pur restando fuori campo hanno influenzato le vite dei protagonisti. Tra queste voci, quella della madre di Maddalena risuona, come un’eco lontana: “Ma che bel signorino che è Luca.” Questo richiamo pungente si diffonde tra il pubblico, ricordando la radice etimologica della parola “persona” – ciò che si cela dietro una maschera. Fino alla fine, la domanda centrale resta sospesa: siamo davvero ciò che diciamo di essere, o è soltanto nello sguardo dell’altro che scopriamo chi siamo veramente? In un momento culminante, sulle note malinconiche di “Vedrai, vedrai” di Luigi Tenco, Luca esprime il proprio tormento interiore. È forse nello sguardo di chi lo ama che per la prima volta comprende la sua inadeguatezza? È lì, forse, che riconosce le sue mancanze e avverte la distanza tra ciò che è e il sogno che ha inseguito durante la sua vita. “Appuntamento a Londra” si rivela un’indagine affascinante sull’essenza della verità, un thriller esistenziale in cui ogni parola scava nella profondità dell’animo. Ma quale verità? E a che prezzo? Ciò che resta è un dubbio sottile e persistente: cosa abbiamo davvero visto? La vita come un sogno, o un sogno che si è fatto realtà? Photocredit@AntonioParriniello

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Aspettando Re Lear”

gbopera - Mar, 05/11/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ASPETTANDO RE LEAR
di Tommaso Mattei
da William Shakespeare
opere in scena Michelangelo Pistoletto
Regia di Alessandro Preziosi
Re Lear ALESSANDRO PREZIOSI
Gloucester NANDO PAONE
Kent ROBERTO MANZI
Cordelia ARIANNA PRIMAVERA
Edgar VALERIA AMELI
costumi Città dell’arte/Fashion B.E.S.T
Olga Pirazzi
Flavia La RoccaTiziano Guardini
musiche Giacomo Vezzani
supervisione artistica Alessandro Maggi
PATO srlTeatro Stabile del Veneto e Teatro della Toscana
Roma, 05 Novembre 2024
“As flies to wanton boys are we to the gods; they kill us for their sport.”
William Shakespeare, Re Lear
Alessandro Preziosi ritorna al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma con Aspettando Re Lear, un’opera densa di suggestioni e rimandi, che si colloca al culmine di una lunga tournée costellata di successi dal Napoli Festival Teatrale al Teatro Romano di Verona. Non è una mera trasposizione contemporanea dell’omonima tragedia shakespeariana, bensì una meditazione raffinata e dolorosa, un atto di scavo nelle vene più intime del dramma umano, che esplora con lucida disperazione il fragile equilibrio tra padri e figli, i limiti del potere e il declino inesorabile dell’umana pretesa di dominare il proprio destino. Preziosi si avvale di una drammaturgia che disegna con tratti profondi un Lear il cui affanno sembra ricalcare quello dell’umanità intera: un sovrano senza più corona, che non cerca una fine quieta, ma un compimento sofferto nel nodo irriducibile della maturità. La regia, calibrata con un’intelligenza visionaria e un gusto per la sottrazione, incastona lo spettacolo in uno spazio scenico che sfugge alla realtà e si addentra nei territori dell’astrazione. Le opere di Michelangelo Pistoletto non sono un semplice sfondo, ma un contrappunto, una forma di dialogo materico che si muove in simbiosi con gli attori, componendo un universo immaginario, una scacchiera concettuale dove ogni figura sembra inscriversi nella tela imperscrutabile del caso. Il pubblico non si limita a osservare, ma è chiamato a immergersi in questa dimensione sospesa, dove il limite tra la verità e l’illusione si fa sottilissimo, rendendo ogni gesto, ogni silenzio e ogni sguardo parte integrante di un linguaggio enigmatico. La musica di Giacomo Vezzani, fedele compagna di questo viaggio, segna ogni passo della discesa di Lear verso la follia con un pathos che diventa quasi liturgico, una lenta e inesorabile caduta scandita da ritmi ossessivi e struggenti, come un’eco profondo che pare emergere dal ventre stesso della tragedia. Le note tracciano una spirale sonora che avvolge il patriarca, restituendo al pubblico l’impressione di un vortice senza uscita, dove ogni cosa sembra sgretolarsi per poi ricomporsi nel compimento dell’inevitabile. Preziosi e Vezzani orchestrano una discesa che appare senza ritorno, dove la corte fedele, accettata da se stessa, diventa spettatrice e vittima di un disastro che è anche interiore. Al fianco di Preziosi, Nando Paone – nel ruolo del tormentato Gloucester – è il contraltare tragico che, nella sua sofferenza, amplifica la solitudine del sovrano incarnando un’umanità ferita e priva di appigli. Altrettanto intensi sono Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia, Roberto Manzi nel ruolo di Kent e Valerio Ameli come Edgar, interpreti che animano, con una tensione quasi palpabile, l’intreccio di relazioni e destini che fa di Aspettando Re Lear un’opera corale e profonda. La filosofia di Pistoletto si intreccia con il percorso teatrale di Preziosi in una commissione multidisciplinare che non è solo estetica, ma concettuale. Il “Terzo Paradiso” di Pistoletto, simbolo di una nuova armonia tra artificio e natura, si traduce in scena in una dinamica di costumi e scenografie che invita il pubblico a una riflessione sottile e inquietante. I costumi, realizzati dal collettivo Fashion BEST con materiali sostenibili, rappresentano l’essenza di ogni personaggio, evocando una pelle secondaria, che si consuma e si rinnova, in una metafora silente della vita stessa. Il denim, simbolo di resilienza, si mescola con il nero della mussola, un non colore che assume la funzione di richiamare l’origine, l’essenza, il punto zero da cui riemerge l’essere. Preziosi non si limita a interpretare Lear; lo vive, lo attraversa, in una rappresentazione che diviene esistenziale e che riecheggia le intuizioni di Beckett in Aspettando Godot, rendendo il suo re un uomo sospeso, che assiste impotente allo sgretolamento dell’ordine naturale. In questa rilettura, il dramma shakespeariano diviene più che mai una metafora di decadenza e rinascita, una riflessione sulla caducità dell’ordine umano e sul bisogno di riemergere da quell’inesorabile vuoto che accompagna ogni tentativo di dominio sul reale. L’incontro tra l’arte contemporanea di Pistoletto e la parola classica di Shakespeare si fonde in un’opera che interroga e scuote, un grido di caduta e insieme di rigenerazione, che si specchia nel tempo e si rivolge, in modo muto e inesorabile , alla coscienza di chi guarda. Così aspettando Re Lear non è solo spettacolo, ma un invito a riconsiderare i legami che ci citiamo, le gerarchie e gli abissi che ci dividono. Un’opera che, come il Lear di Preziosi, vaga nella tempesta dell’indifferenza contemporanea, ricordandoci che l’umanità, come quel re senza corona, è destinata a confrontarsi con il nulla – e forse a scoprire, nel suo cuore oscuro, una nuova possibilità di senso.un non-colore che assume la funzione di richiamare l’origine, l’essenza, il punto zero da cui riemerge l’essere. Nel silenzio assorto della messinscena, il pubblico ha dimostrato un’attenzione rara, quasi reverenziale, che ha reso ogni gesto, ogni sussurro della scena ancora più vivido e pregnante. È stato uno spettatore vigile, capace di abbandonarsi al ritmo interno dello spettacolo, senza mai interromperlo, ma anzi alimentandone la tensione e la suggestione. E nel finale, come in un’esplosione trattenuta, quell’energia accumulata è sfociata in un applauso che non era solo un tributo agli interpreti, ma una partecipazione sentita, autentica, di chi aveva condiviso un viaggio profondo e intenso.

Categorie: Musica corale

Roma, Museo di Roma in Trastevere: “Testimoni di una guerra. Memoria grafica della Rivoluzione Messicana”

gbopera - Mar, 05/11/2024 - 19:00

Roma, Museo di Roma in Trastevere
TESTIMONI DI UNA GUERRA
Memoria grafica della Rivoluzione Messicana
Roma, 05 Novembre 2024
Il Museo di Roma in Trastevere, nel cuore pulsante di uno dei quartieri più caratteristici della capitale, ospita una mostra che celebra i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Messico e Italia.
In collaborazione con l’Ambasciata del Messico in Italia, la mostra offre al pubblico un viaggio fotografico unico, attraverso l’obiettivo di Agustín Víctor Casasola e Miguel Casasola, pionieri del reportage in America Latina. L’evento mette in scena 40 fotografie provenienti dall’Archivio Casasola, un patrimonio inestimabile per comprendere una delle più importanti rivoluzioni sociali del XX secolo: la Rivoluzione Messicana, che ebbe luogo tra il 1910 e il 1920. La selezione di scatti, in rigoroso bianco e nero, fa immergere lo spettatore nelle atmosfere ribollenti di un decennio in cui il popolo messicano lottò per giustizia sociale e cambiamento politico, dando vita a figure eroiche come Francisco I. Madero, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Venustiano Carranza. Questi nomi riecheggiano ancora oggi come simboli di una lotta che ha risuonato ben oltre i confini del Messico. Le fotografie non sono solo immagini fisse di un passato remoto, ma veri e propri documenti storici che raccontano l’evoluzione di un’intera società, unendo la narrazione dei leader della rivoluzione al vissuto quotidiano delle masse. La prospettiva dei Casasola si distingue per la capacità di cogliere la tensione sociale, la dignità dei campesinos, la determinazione delle donne messicane, e le celebrazioni nelle piazze improvvisate che diventavano scenario di resistenza. Le immagini mostrano le trincee improvvisate, i volti segnati dalla fatica e dalla speranza, e le espressioni dei leader politici, rendendo la Rivoluzione Messicana non solo un evento storico, ma un racconto epico di vite trasformate dal desiderio di giustizia. Agustín Víctor Casasola, insieme a suo fratello Miguel, ha dato vita a uno dei più vasti archivi fotografici mai realizzati in America Latina. Il Governo del Messico, conscio dell’importanza di tale eredità storica, acquisì l’intero archivio nel 1976, garantendone la conservazione presso l’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH). Attualmente, l’Archivio è custodito presso l’ex Convento di San Francisco, a Pachuca, e conta un totale di 484.004 immagini. Queste fotografie, che documentano un’ampia gamma di aspetti della società messicana di inizio XX secolo, rappresentano una testimonianza viva delle aspirazioni e delle lotte del popolo messicano. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è anche un’occasione per riflettere sul ruolo della fotografia come strumento di memoria e denuncia sociale. L’Archivio Casasola è un esempio straordinario di come l’immagine fotografica possa diventare veicolo di verità storica, uno sguardo onesto su una realtà spesso distorta dalla propaganda ufficiale. Attraverso le lenti dei fotografi Casasola, il visitatore viene accompagnato a comprendere i lati umani della rivoluzione: la povertà, la speranza, la violenza, ma anche il coraggio e la determinazione di chi credeva in un futuro migliore. Il contesto del Museo di Roma in Trastevere, con il suo fascino senza tempo e le sue sale suggestive, fa da perfetto scenario per queste fotografie. Trastevere, con il suo carattere popolare e la sua storia di resilienza, sembra rispecchiare l’anima stessa della Rivoluzione Messicana, fatta di gente comune che si ribella ai potenti per rivendicare la propria dignità. Visitare questa mostra significa non solo esplorare un capitolo di storia messicana, ma anche riflettere sulle lotte per la giustizia che, sebbene cambino epoca e contesto, rimangono universali. Le immagini sono esposte nelle sale del museo in modo tale da valorizzare al massimo il loro impatto visivo ed emotivo. L’allestimento è stato curato con grande attenzione, con l’obiettivo di creare un percorso narrativo che accompagni il visitatore attraverso le diverse fasi della Rivoluzione Messicana. Ogni sala è stata progettata per trasmettere un senso di immersione, utilizzando un’illuminazione sapientemente dosata che evidenzia i dettagli delle fotografie, esaltando i contrasti tra luci e ombre. Le luci, soffuse ma mirate, giocano un ruolo fondamentale nel creare un’atmosfera intima e riflessiva, che invita il pubblico a fermarsi davanti alle immagini, a coglierne ogni sfumatura e a riflettere sulle storie che raccontano. L’uso delle luci è stato studiato per evocare la drammaticità e la forza del momento storico immortalato dagli scatti dei Casasola. Le fotografie, spesso caratterizzate da un forte contrasto tra chiari e scuri, sono illuminate in modo tale da far emergere la profondità delle emozioni sui volti dei protagonisti. Le ombre create dall’illuminazione contribuiscono a dare un senso di tridimensionalità alle immagini, come se i personaggi potessero quasi uscire dalla carta per raccontare la propria storia. L’effetto complessivo è quello di una mostra che non si limita a esporre delle immagini, ma che riesce a creare un dialogo tra passato e presente, tra il visitatore e i protagonisti della storia. Le immagini esposte parlano di una rivoluzione che è stata, in primo luogo, un fenomeno popolare. La Rivoluzione Messicana non è stata guidata da ideologie astratte, ma è nata dall’esigenza concreta di migliorare la vita del popolo. Francisco I. Madero, con il suo appello alla democrazia, e figure come Emiliano Zapata, che lottò per la riforma agraria, rappresentano lo spirito di una nazione che rivendicava il diritto di essere padrona del proprio destino. La narrazione visiva dei Casasola riesce a catturare proprio questo: l’essenza del cambiamento che parte dalle persone comuni. Un altro aspetto significativo della mostra è l’attenzione dedicata alle donne della Rivoluzione Messicana. Le “Adelitas”, come venivano chiamate, hanno avuto un ruolo fondamentale nelle battaglie e nella logistica rivoluzionaria, e alcune delle fotografie in mostra restituiscono un ritratto intenso di queste combattenti, madri, sorelle e compagne che non si sono tirate indietro di fronte al conflitto. In un’epoca in cui la donna era spesso relegata ai margini della società, la Rivoluzione Messicana vide emergere figure femminili di straordinaria forza e determinazione, e l’obiettivo dei Casasola non mancò di onorarle. Grazie alla collaborazione con l’Ambasciata del Messico, il pubblico italiano può ora immergersi in questa narrazione potente, in cui ogni fotografia è una finestra su un passato che continua a parlare al nostro presente.

 

Categorie: Musica corale

Bologna, Comunale Nouveau. “Carmina Burana”

gbopera - Mar, 05/11/2024 - 08:05

Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2024
Orchestra, Coro, Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Marco Angius
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Voci Bianche preparate da Alhambra Superchi
Soprano Maria Eleonora Caminada
Tenore Marco Ciaponi
Baritono Tamon Inque
Video Innovio Arts
Carl Orff: “Carmina Burana” , Cantata scenica basata su 24 dei poemi trovati nei testi poetici medievali che portano il medesimo nome
Bologna, 3 novembre 2024
L’autunno del Nouveau riprende con questi Carmina Burana: “cantata scenica”, recita la didascalia, ma qui, benché inseriti nella stagione Opera, eseguiti in forma di concerto. A dispetto dell’accompagnamento video curato da Innovio Arts: il problema della reinvenzione delle radici germaniche è ben posto, ma nonostante la perizia grafica e l’opportuna pertinenza dei riferimenti (oltre le ovvie miniature, il cinema di Lang, Wegener e Pabst), l’animazione di immagini dalle tinte pop-fluo fa molto screensaver, e risulta serenamente rinunciabile per l’ascolto. Ascolto ch’è di altissima qualità. La direzione di Marco Angius nulla ha di teatrale, anzi è analitica fino alla spietatezza. Senza indulgere mai all’effettaccio, tentazione in cui, con un siffatto organico fra le mani, è facile (s)cadere. Del resto già il titolo, per la sua popolarità (tutta concentrata in pochi minuti), mette in sospetto il conoscitore, che può tollerarne l’ascolto soltanto in esecuzioni tecnicamente irreprensibili. L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna ha assecondato magnificamente la lettura asciutta e severa di Angius, restituendo alla partitura il suo impressionante rigore ritmico, le sue taglienti sonorità, il suo incedere inquieto e intimamente novecentesco, senza il benché minimo compiacimento. Per fare un solo esempio: quella della Tanz che introduce la seconda parte Uf dem anger è un’esecuzione veramente mirabile. E il Nouveau, dal canto suo, non sarà suggestivo quanto ad architettura, ma garantisce senz’altro una buona acustica. Il Coro di Gea Garatti Ansini si conferma ottimo, ma a brillare qui sono specialmente le voci maschili che trovano nel celebre In taberna quando sumus il luogo ideale per esibire il loro virtuosismo. Sempre del Teatro Comunale è il Coro di Voci Bianche, diretto da Alhambra Superchi che ne ricava un bel suono compatto, pieno, disciplinato. Va ora introdotto un breve inciso sulla dizione. L’ascoltatore italiano non può trovare completa soddisfazione nell’ascolto delle grandi, mitiche incisioni dei Carmina che, com’è naturale, sono di area tedesca, per via della pronuncia latina che gli suona innaturale. Cominciando dall’inizio, già è arduo il “semper crescis aut decrescis”, ma poi la cosa diventa lampante sul “stillantibus ocellis“, che i cori di lingua tedesca scandiscono normalmente “ozellis”. Il che può mandare in crisi il liceale italiano che, se pure sa orientarsi fra pronuncia ecclesiastica e restituta, non può che restare interdetto dinnanzi a questa variante romagnola. Ma probabilmente è più corretto, trattandosi di un testo che poco oltre sconfina nell’alto tedesco, che la pronuncia sia quella germanofona. In ogni caso, conviene trovare un accordo: qui invece l’unico ad adottare una dizione tedescheggiante è il cigno arrostito di Marco Ciaponi, che pronuncia “iazio” il iaceo di “Nunc in scutella iaceo”. Per il resto, canta assai bene quel suo breve e scomodo intervento con squillo e bella omogeneità di timbro; e l’effetto, qui sì, teatrale, insito nella scrittura, funziona. Meno a suo agio Maria Eleonora Caminada, che dispone di timbro gradevole e corposo, ma difetta di sicurezza nell’impervio “Dulcissime! Ah! Totam tibi subdo me!”. Il più impegnato dei solisti è Tamon Inoue, baritono luminosissimo e snello, dal volume non immenso ma dalla dizione ben limpida, che se la cava discretamente anche con quella sorta di falsettone necessario in Dies, nox et omnia, brano che getta nel ridicolo anche i nomi più illustri. Ancora oggi il MedioEvo, nel nostro immaginario, è quello lì, così codificato da Orff, Wagner e Walt Disney. Peccato però che gli altri due pannelli del Trittico I Trionfi (Catulli Carmina e Trionfo di Afrodite) non vengano illuminati, neanche di luce riflessa, da questi famosi Carmina Burana.

Categorie: Musica corale

“Tosca” al Teatro Comunale di Sassari

gbopera - Lun, 04/11/2024 - 18:43

Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2024
TOSCA”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal dramma “La Tosca” di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca MARTA MARI
Mario Cavaradossi OTAR JORJIKIA
Il barone Scarpia MARCO CARIA
Cesare Angelotti TIZIANO ROSATI
Il Sagrestano ANDREA PORTA
Spoletta NICOLAS RESINELLI
Sciarrone- Un Carceriere MICHAEL ZENI
Un pastorello VIOLA NURCHIS, LAURA CHILI, AURORA CADDEO
orchestra e Coro e voci bianche dell’ Ente Marialisa de Carolis
Direttore Gianluca Martinenghi
Maestro del coro Francesca Tosi
Voci bianche preparate da  Salvatore Rizzu
Regia Renato Bonajuto
Scene Danilo Coppola, Giovanni Gasparro
Costumi Artemio Cabassi
Disegno luci Tony Grandi
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Coccia Novara
Sassari, 1 novembre 2024
Buon successo al Teatro Comunale per la ripresa autunnale della stagione lirica di Sassari, organizzata dall’Ente de Carolis, dopo le produzioni estive. La riproposizione di Tosca dopo soli sette anni dall’ultima ripresa appare giustificata dall’anniversario pucciniano (anche se Puccini ha scritto altre belle opere oltre Tosca e Bohème) ma soprattutto dal favore del pubblico, sempre affezionato alla truce storia di ambientazione papalina. Tosca può essere letta così oppure, in maniera più approfondita, come un grande capolavoro di teatro musicale in cui la tensione drammaturgica è insita nella partitura, più che nel plot narrativo, con una raffinatezza nella costruzione chiaramente influenzata dai leitmotiv wagneriani e dal loro sviluppo (Puccini, anche negli ultimi giorni di vita mentre scriveva Turandot, fu sempre ossessionato dal Tristan und Isolde) e che ha il suo culmine nello straordinario secondo atto. La recente esecuzione di Tosca in forma di concerto diretta da Daniel Harding, in apertura della stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia, è stata efficacissima non a caso proprio nel mettere in luce la densità della scrittura musicale e la sua capacità evocativa, pur senza il supporto visivo della messa in scena. L’allestimento sassarese invece è sembrato interessarsi soprattutto all’aspetto didascalico della vicenda, illustrando ma senza andare al di là di una lettura puramente convenzionale dell’opera. Gianluca Martinenghi dirige con mestiere e dimostra un’interessante sensibilità timbrica tirando fuori un suono levigato e amalgamato dalla buona orchestra del de Carolis, ma si sono notate varie incomprensioni col palcoscenico, sia dal punto di vista ritmico, che dell’insieme dinamico e dell’espressione. Soprattutto è mancato l’approfondimento di cui sopra che avrebbe inserito in maniera più organica le voci “dentro” la partitura e alle sue tensioni con una maggiore cura nella concertazione. L’interprete che ha compreso meglio la necessità di questa esigenza è stato sicuramente Marco Caria, uno Scarpia raffinato, senza certe gigionerie veristiche, più portato dalle sue caratteristiche vocali a costruire un personaggio insinuante, ricco di sfumature, gelidamente calcolatore, lontano dal rozzo poliziotto vociante di certe interpretazioni. Non a caso più della protervia della sua entrata, è stato veramente ammirevole un secondo atto perfettamente addentro nei meccanismi musicali e drammaturgici, costruito con vocalità sicura, omogenea e varietà di accenti espressivi. Varietà non così evidenti nella protagonista: Marta Mari ha una vocalità scura e importante, ricca di armonici, canta molto bene e dimostra una buona presenza scenica, ma è apparsa meno interessante nella differenziazione dei piani dinamici. Veramente bella comunque l’esecuzione di Vissi d’arte proprio per le scelte di colore e di pronuncia espressiva che non sempre ha utilizzato in tutto il ruolo. Su un piano inferiore il Cavaradossi di Otar Jorjikia che, pur dotato di un bel timbro e di discreti mezzi vocali, mostra spesso un’emissione influenzata da un’eccessiva copertura dei suoni che opacizza l’emissione e lo fa apparire in difficoltà nel registro acuto: alcuni incidenti (uno proprio al culmine di E lucevan le stelle) e imperfezioni nell’intonazione hanno mostrato dei problemi tecnici che, visto il materiale, val la pena risolvere. Ben inseriti nella parte tutti gli altri interpreti, con una segnalazione per il bel timbro di Tiziano Rosati, la vivacità di Andrea Porta e la suggestiva realizzazione fuori scena, a più voci, della parte del Pastorello. Buona la prestazione dei cori del de Carolis, ben preparati da Francesca Tosi e Salvatore Rizzu e dell’orchestra, a suo agio anche nei passi più delicati, come il quartetto dei violoncelli nel terzo atto. La regia di Renato Bonajuto è coerente con l’impostazione della direzione e si limita al corretto racconto della vicenda senza intuizioni o approfondimenti psicologici particolari; non appare neanche ben sfruttata la vera novità della scenografia, altrimenti molto tradizionale, di Danilo Coppola, ripresa da un allestimento del Teatro Coccia di Novara, con l’utilizzo della particolare arte “neocaravaggesca” di Giovanni Gasparro e della sua abilità tecnica nel ricostruire le cupe ma sensuali atmosfere controriformiste: non è infatti sufficientemente efficace, a distanza, l’apporto visivo delle immagini utilizzate che avrebbero avuto, con le luci di Tony Grandi, una presenza ben maggiore in un’impostazione nelle proporzioni più visionaria e meno realistica. Applausi alla fine per tutti. Foto Elisa Casula

Categorie: Musica corale

München, Bayerische Staatsoper: “Das Rheingold”

gbopera - Dom, 03/11/2024 - 23:15
München, Bayerische Staatsoper, Stagione 2024/25
“DAS RHEINGOLD” Vigilia in quattro scene. Prologo alla Tetralogia Der Ring des Nibelungen Libretto e musica di Richard Wagner Wotan NICHOLAS BROWNLEE Donner MILAN SILJANOV Froh IAN KOZIARA Loge SEAN PANIKKAR Fricka EKATERINA GUBANOVA Freia MIRJAM MESAK Erda WIEBKE LEHMKUHL Alberich MARKUS BRÜCK Mime MATTHIAS KLINK Fasolt MATTHEW ROSE Fafner TIMO RIIHONEN Woglinde SARAH BRADY Wellgunde VERITY WINGATE Flosshilde YAJIE ZHANG München, Bayerische Staatsoper Direttore Vladimir Jurowski Regia Tobias Kratzer Scene e Costumi Rainer Sellmaier Drammaturgia Bettina Bartz, Olaf Roth
Luci Michael Bauer Video Manuel Braun, Jonas Dahl, Janic Bebi München, 31 ottobre 2024. La Bayerische Staatsoper ha dato inizio al progetto del nuovo Ring, affidato a Tobias Kratzer, il regista che dopo il fulminante successo del suo allestimento del Tannhäuser a Bayreuth è considerato come un nuovo modello per le messinscene delle opere di Wagner. Con la nuova produzione di Das Rheingold, il prologo della Tetralogia, il futuro intendente della Hamburgische Staatsoper ha presentato in maniera abbastanza chiara le linee generali del suo Konzept: la rinuncia alla lettura del testo come parabola del sistema capitalistico per concentrarsi sulla trama vista come avvento di una nuova religione. Il sombolo di tutto questo è visualizzato dalla scena della residenza degli Dei raffigurata come una chiesa rinascimentale in restauro, sul cui polittico dell’ altare essi prendono posto alla conclusione. Come sempre Kratzer impiega immagini forti, per esempio quella di Alberich nudo e torturato durante la scena del furto dell’ anello. La messinscena lascia intravedere solo a sprazzi quelli che potrebbero essere gli sviluppi nelle prossime giornate del ciclo wagneriano, ma è già percebibile lo stile di un regista che riesce a evidenziare tutti gli aspetti nascosti della drammaturgia nei titoli che affronta. Per conoscere il Konzept generale del progetto bisognerà aspettare sino al 2026, quando verrà allestita la nuova produzione di Die Walküre. Lo spettacolo era complessivamente all’ altezza di quello che ci si può aspettare da un teatro come la Bayerische Staatsoper, ma non pienamente soddisfacente è apparsa la parte musicale della rappresentazione, soprattutto per quanto riguarda l’ aspetto interpretativo d’ insieme. La direzione orchestrale di Vladimir Jurowski non mi è sembrata assolutamente memorabile. La sua lettura mancava di grandiosità, si smarriva spesso alla ricerca di improbabili finezze cameristiche e l’ interpretazione appariva abbastanza priva di personalità e di una linea coerente. La buona resa esecutiva del Vorspiel orchestrale, con le splendide sonorità della Bayerische Staatsorchester che nella musica di Wagner ha confermato di avere pochi eguali al mondo, è stata probabilmente l’ unico momento degno di essere ricordato in un’ esecuzione in complesso piuttosto pallida e a tratti anche abbastanza monotona. Soprattutto la scena finale ha risentito della mancanza di atmosfera grandiosa, che era una delle lacune principali in questa piuttosto deludente esecuzione orchestrale presentata dal Generalmusikdirektor del teatro bavarese. Per quanto riguarda il cast vocale, la migliore prova è stata senz’ altro quella del basso-baritono americano Nicholas Brownlee, che ha raffigurato un Wotan giovanile, ambizioso e affermativo, vocalmente impeccabile. Ottimo è apparso anche il Mime di Matthias Klink, incisivo e ficcante nel fraseggio. Meno convincenti erano il Froh di Ian Koziara e soprattutto il Loge di Sean Panikkar (vestito da esistenzialista con pullover dolcevita e calzoni neri), decisamente carente di personalità. Anche il Donner del baritono svizzero Milan Siljanov appariva mancante di peso vocale e autorità. Di buon spessore erano le voci dei bassi Matthew Rose e Timo Riihonen, interpreti di Fasolt e Fafner. Tra le voci femminili, eccellente era la Erda impersonata dal quarantunenne mezzosoprano Wiebke Lehmkuhl, originaria di Oldenburg, dalla voce davvero notevole per qualità timbrica e risonanza oltre che fraseggiatrice convincente nel suo tono solenne e ammonitore. Adeguata era anche Ekaterina Gubanova come Fricke, meno convincente è apparsa la Freia di Mirjam Mesak, suffcienti nel complesso le tre Figlie del Reno, interpretate da Sarah Brady, Verity Wingate e Yajie Zhang. Lunghi applausi per tutti, in un teatro completamente gremito da un pubblico che ha davvero Wagner nel DNA. Foto: Wilfried Hösl
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Torino, Teatro Regio: la “Manon Lescaut” di Auber (cast alternativo)

gbopera - Dom, 03/11/2024 - 08:46

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON LESCAUT”
Opéra comique in tre atti su libretto di Eugène Scribe
Musica di Daniel François Esprit Auber
Manon Lescaut MARIE-EVE MUNGER
Il marchese d’Hérigny EDWARD NELSON
Lescaut FRANCESCO SALVADORI
Des Grieux MARCO CIAPONI
Madame Bancelin MANUELA CUSTER
Renaud GUILLAUME ANDRIEUX
Marguerite LAMIA BEUQUE
Gervais ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Monsieur Durozeau PAOLO BATTAGLIA
Un sergente TYLER ZIMMERMAN
Un borghese JUAN JOSÉ MEDINA
Zaby ALBINA TOKHIKH
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Video Marcello Alonghi
Torino,  27 ottobre 2024
Manon, la donna, il cinema. La triade ideale che sorregge la serie di spettacoli firmata da Arnaud Bernard ritorna anche in questo allestimento della “Manon Lescaut” di Auber, la più remota delle trasposizioni operistiche dell’eroina di Prevost andata in scena la prima volta nel 1856.
Questa precocità del titolo ispira il regista che ci riporta all’alba stessa della settima arte. La scena riproduce i primi teatri di posa costruiti da Méliès a Montreuil. Quello cui assistiamo è il retroscena del cinema, in pesa diretta vediamo girare – in piena belle époque – un film su Manon Lescaut. Se gli estratti cinematografici proiettati sono più tardi – tratti da “When a man loves” del 1927 con John Barrymore e Dolores Costello – il mondo che si vuole trasmettere è quello delle prime sperimentazioni cinematografiche quando grazie a Méliès il cinema supera la dimensione prettamente documentaria dei Lumière per farsi forma d’arte e strumento narrativo.
La scena è a doppio livello: il grande teatro di posa in ferro-cemento e al suo interno i fondali in cui viene girata la vicenda di Manon. Anche i costumi giocano sui due piani mischiando un Settecento di cartapesta ad abiti – spesso eleganti – di fine Ottocento. Uno spettacolo che pur attraverso un’ottica francese ha una sua evidente cifra di torinesità. Capace di ricordare quando le rive del Po si coprivano di teatri di posa e grazie a Pastrone e altri la città subalpina era una delle capitali mondiali del nuovo mondo dei sogni in celluloide. Curatissimi tutti i dettagli e strepitoso il gioco attoriale – possibile grazie alle ottime doti di tutti: solisti, coro e figuranti – anch’esso sfalsato si due piani tra la naturalezza del mondo moderno fuori scena e l’imitazione di quella recitazione enfatica e caricata tipica dell’epoca sulla scena.
Guillaume Tourniaire dirige con proprietà e senso stilistico la diseguale partitura. Esprime tutta la brillantezza delle pagine più ispirate e riesce a mantenere il giusto controllo nei momenti più stanchi – che non mancano – evitando il più possibile che una certa noia cominci ad aleggiare. Purtroppo una drammaturgia fin troppo imborghesita e l’assenza di autentici contrasti tendono a essere il punto più debole di un lavoro che invece sprizza freschezza e vivacità dalle arie più leggere e dai pezzi d’assieme, mirabilmente concepiti. Molto buona la prova dell’orchestra e superlativa quella dell’impegnatissimo coro, fondamentale anche per la riuscita scenica dello spettacolo.
Marie Eve-Munger (Manon) ha il gusto e il senso dello stile perfetti per questo repertorio. Vocalmente è brillante, facile nei passaggi di coloratura anche se qualche durezza si nota sugli estremi acuti. La voce non è piccola e risuona bene in sala e nei momenti più patetici dimostra un’emissione elegante e ben controllata. Scenicamente forse non ha il fascino di Manon ma è simpatica e comunicativa.
Marco Ciaponi è un Des Grieux che prende corpo con il prosieguo della recita. Inizialmente quando la scrittura è più brillante e svagata sembra fin troppo prudente mentre nel terzo atto quando il dramma fa capolino e il canto si fa più sincero e intenso esce con convinzione mostrando una sincera partecipazione al dramma del personaggio. La voce è fresca e squillante, leggera ma non esangue. La tessitura e retta con sicurezza e gli acuti non mancano di bello squillo.
Edward Nelson affronta il marchese d’Hérigny con voce forse un po’ piccola ma ottima musicalità e accento nobile ed elegante. La parte del “rivale” e qui più lunga e più sfumata del solido, facendo emergere un personaggio in fondo sincero e di anima nobile che il canto di Nelson riesce a cogliere con eleganza.
Veramente ottime tutte le parti di fianco. Francesco Salvadori è un Lescaut di solidissima voce e ben centrato sul piano dello spettacolo. Nel ruolo – assente in Prevost – di Marguerite, amica di Manon e incarnazione del buon senso di cui latita la protagonista, si fa apprezzare per radiosa vocalità e sincerità d’accento Lamia Beuque. Il suo fidanzato Gervais ha la voce lirica e morbida di Anicio Zorzi Giustiniani che riesce a trasmettere anche il carattere idealista di questo civilizzatore delle Americhe. Manuela Custer con la sua personalità riesce a dare rilievo al ruolo di per se anonimo di Madame Bancelin. Guillaume Andrieux ha la giusta irruenza per lo schiavista Renaud mentre Paolo Battaglia è un po’ anonimo nei panni del commissario di quartiere Monsieur Durozeau.Sala non gremita ma buona presenza di pubblico – buon segno per un titolo così desueto – e caloroso successo per tutti gli interpreti. Foto Daniele Ratti

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: ventitreesima domenica dopo la Trinità

gbopera - Dom, 03/11/2024 - 00:45

La seconda, in ordine cronologico, delle tre Cantate bachiane previste per questo giorno festivo è Wohl dem, der sich auf seinen Gott BWV 139 eseguita la prima volta a Lipsia il 12 novembre 1724 per essere poi ripresa, sempre a Lipsia,  nel 1735 e nel 1747, L’opera utilizza un Inno di recente creazione (1714) di Johann Cristian Rube (1645-1746) predisposto per la Cantata da un ignoto versificatore che ha utilizzato le strofe da 2 a 4 del Corale, che conta complessivamente di 5 strofe nei numeri 1,2, 4 e 5, mentre il nr.3 è di libera invenzione e si riallaccia al tema evangelico del tributo a Cesare. Il Coro iniziale (Nr.1) costituisce un altro di quei formidabili esempi  di ideazione strutturale preordinata che sono frequentissimi nella produzione bachiana. Un’altra pagina geniale che colpisce immediatamente all’ascolto. Il resto della cantata segue il consueto alternarsi di recitativo, aria, recitativo, aria, recitativo e corale finale. La prima aria (nr.2), cantata dal tenore, ha un bell’accompagnamento di violino concertante e  scorre via piacevolmente. La seconda aria (Nr.4), questa volta per il basso solista, è forse la più interessante. Una forma di “rondò” che presenta diverse sezioni e stati d’animo contrastanti, resi dalle mutazioni di tempo. In entrambe le arie è stata necessaria una certa ricostruzione della parte strumentale poiché la cantata è giunta a noi solo come un insieme di parti apparentemente incomplete. La cantata si conclude con un semplice corale.
Nr. 1- Coro
Beato chi si affida al suo Dio
come un bambino!
Anche se il peccato, il mondo, la morte
e tutti i demoni lo odiassero,
egli si accontenterebbe
di aver conquistato l’amicizia di Dio.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Dio è mio amico: cosa può la rabbia che
un nemico solleva contro di me?
Io sono sicuro anche in mezzo a odio ed invidia.
Sì, anche se raramente dite la verità,
se siete sempre falsi, che m’importa?
Voi dileggiatori non siete una minaccia per me.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Il Signora manda i suoi
proprio in mezzo ai lupi furiosi.1
Tutt’intorno l’empia moltitudine
si è riunita con astuzia
per recare offesa e scherno;
ma se la sua bocca pronuncia parole di saggezza,
egli mi protegge persino dal mondo.
Nr.4 – Aria (Basso)
Da ogni lato la sventura
avvolge intorno a me pesanti catene.
Ma subito mi soccorre la sua mano.
Da lontano la luce del conforto brilla su di me;
allora imparo che Dio solo
è il miglior amico dell’uomo.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Anche se porto il mio peggior nemico in me,
il pesante fardello dei miei peccati,
il mio Salvatore mi permetterà di trovare pace.
Rendo a Dio ciò che è di Dio,2
la parte più intima della mia anima,
se Lui ora la sceglie, la colpa del peccato
svanisce, l’inganno di Satana è vinto.
Nr.6 – Corale
Perciò sfido le legioni infernali!
Sfido persino le fauci della morte!
Sfido il mondo intero! I suoi colpi
non possono più turbarmi!
Dio è mia protezione, mio aiuto, mio consiglio;
beato chi ha Dio come amico!
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wohl dem, der sich auf seinen Gott” BWV 139

 

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: “Manon Lescaut” di Auber

gbopera - Sab, 02/11/2024 - 23:59

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON LESCAUT”
Opéra-comique in tre atti su libretto di Eugène Scribe, dal romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine-François Prévost
Musica di Daniel Auber
Manon Lescaut ROCÍO PÉREZ
Il marchese d’Hérigny ARMANDO NOGUERA
Des Grieux SÉBASTIEN GUÈZE
Lescaut FRANCESCO SALVADORI
Madame Bancelin MANUELA CUSTER
Renaud GUILLAUME ANDRIEUX
Marguerite LAMIA BEUQUE
Gervais ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Monsieur Durozeau PAOLO BATTAGLIA
Un sergente TYLER ZIMMERMANN
Un borghese JUAN JOSÉ-MEDINA
Zaby ALBINA TONKIKH
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard 
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 24 ottobre 2024
Manon Lescaut di Daniel Auber è sicuramente la meno eseguita e conosciuta tra le tre versioni operistiche delle vicende narrate dall’abbé Prévost, che in ottobre il Teatro Regio ha presentato sul proprio palcoscenico per il progetto “Manon Manon Manon”. E la conseguenza è che ‒ nonostante la presenza dei partecipanti al congresso di Opera Europa, e dei melomani accorsi a Torino per la possibilità di seguire i tre titoli in giorni consecutivi ‒ la sala di piazza Castello era tutt’altro che gremita. Ogni commento sulla pigrizia mentale dei torinesi sarebbe ridondante. Il progetto registico di Arnaud Bernard ‒ che ha scelto di far dialogare le tre opere con il cinema, leggendo ciascuna con gli occhi di un’epoca della cinematografia storica del Novecento francese ‒ ha forse avuto nel titolo di Auber la sua manifestazione più nitida e intelligibile. In questo caso è infatti chiaro che in scena viene portato il set cinematografico di un film muto (il riferimento cronologico per Auber è infatti l’epoca del cinema muto, e il titolo messo direttamente in dialogo con l’opera è When a man loves di Alan Crosland), e che i solisti incarnano gli attori impegnati nelle riprese. Dato che When a man loves è un film in costume settecentesco tratto dal romanzo di Prévost, gli stessi principali protagonisti dell’opera recitano in costume, cosicché le contaminazioni di epoche e di media convivono con un aspetto visivo da allestimento tradizionale, e alcuni spezzoni del film, proiettati durante ouverture, entr’acte e interludi, integrano la drammaturgia di Auber con episodi del romanzo esclusi dalla trasposizione operistica. Il dialogo con il cinema viene quindi ad essere funzionale alla comprensione dell’opera, e aggiunge qualche stimolo di riflessione che non guasta, come quello sul rapporto tra personaggio e interprete (come nei couplets di Manon del I atto, dove la protagonista canta la prima strofa in veste di attrice, ed entra nel personaggio prima di intonare la seconda strofa) e sull’eternità dei drammi interiori dell’essere umano. La direzione di Guillaume Tourniaire ha assicurato alla partitura di Auber un’esecuzione abbastanza completa, sia pure non integrale, e ha permesso al pubblico di coglierne la peculiare natura di opéra-comique di epoca relativamente tarda (1856), quando il genere, senza rinnegare i propri riferimenti rossiniano-donizettiani (evidenti nell’ouverture), era ormai pronto ad evolversi verso, da un lato, la nascente operetta, e, dall’altro, l’opéra-lyrique: se all’operetta guardano i primi due atti di Auber, all’opéra-lyrique volge lo sguardo il terzo. Con il direttore, e con l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio, si è resa protagonista di questa lettura il soprano Rocío Pérez, dalla voce di dimensione contenuta, ma precisa e svettante, che nei primi atti dà vita, con una bella brillantezza e un fraseggio molto curato, al carattere spontaneamente frivolo di Manon, e nel terzo non manca di portare sulla scena una figura estenuata dalla sofferenza e che pur tuttavia non perde delicatezza e grazia. Nella versione di Auber, il ruolo maschile più impegnativo dal punto di vista vocale è quello del Marchese d’Hérigny; e il baritono Armando Noguera, dopo una partenza lievemente sfocata, dà il meglio di sé nel II atto, che inizia con due sue arie in forma di couplets, separate da un duetto con Manon in cui lui fa la parte del leone: i colori, il fraseggio, l’uso della mezzavoce, tutto concorre a tratteggiare con espressività il carattere dell’uomo lascivo e sarcastico ma sempre contegnoso. La figura di Des Grieux emerge davvero solo nel finale II e nell’ultimo atto, in particolare nel lungo duetto conclusivo, dove il tenore Sébastien Guèze tratteggia con proprietà di linguaggio una disperazione non priva di dignità. Auber non conferisce particolare rilievo al personaggio di Lescaut, professionalmente impersonato dal basso Francesco Salvadori. Si distinguono maggiormente altre figure di contorno, come Marguerite (il soprano Lamia Beuque), protagonista di un duetto con Manon nel quale si è stagliata la contrapposizione di carattere tra la frivola rôle-titre e la brava ragazza tutta virtù domestiche. O come il suo fidanzato Gervais, cui il tenore Anicio Zorzi Giustiniani presta una delicata voce di grazia con qualche inflessione un po’ nasale. O, ancora, come il rude Renaud (il baritono Guillaume Andrieux), guardiano delle prigioni in Louisiana. Se era di lusso la presenza del mezzosoprano Manuela Custer quale Madame Bancelin, è giusto ricordare anche gli interpreti delle altre seconde parti: il basso Paolo Battaglia (Monsieur Durozeau), il basso Tyler Zimmermann (Un sergente), il tenore Juan José-Medina (Un borghese) e il soprano Albina Tonkikh (Zaby, privata della sua ballata). Tutti hanno contribuito al buon successo di questo spettacolo, che corona uno dei progetti artistici più interessanti proposti in anni recenti dai teatri d’opera italiani. Foto Daniele Ratti

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La Vegetariana”

gbopera - Ven, 01/11/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
co-creazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
Roma, 01 Novembre 2024
«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi. La regia di Daria Deflorian è essenziale e tagliente, un esercizio di disciplina che si riflette nella scelta di uno spazio scenico volutamente spoglio, quasi ascetico. La scenografia, curata da Daniele Spanò, diventa una cassa di risonanza per l’alienazione della protagonista: un ambiente neutro, con pochi elementi, che suggerisce l’idea di uno svuotamento progressivo, di una realtà che si fa sempre più rarefatta man mano che Yeong-hye si allontana dalla società e dalle sue regole. La luce, disegnata da Giulia Pastore, è utilizzata come strumento narrativo: tagli netti e spazi ombrosi accompagnano il percorso della protagonista, sottolineando i momenti di crisi, il suo senso di perdita e, al tempo stesso, la sua ricerca di una nuova dimensione. L’atmosfera sonora, curata da Emanuele Pontecorvo, è una presenza costante, quasi ossessiva, che scandisce il tempo del dramma. Suoni ripetitivi, a tratti disturbanti, contribuiscono a creare un ambiente sospeso tra sogno e realtà, in cui lo spettatore si trova immerso nelle stesse inquietudini della protagonista. È un’esperienza sensoriale totalizzante, in cui la dimensione sonora diventa parte integrante della narrazione, amplificando l’effetto straniante della messa in scena. Gli attori non sono solo interpreti dei loro personaggi, ma diventano veicolo di simboli. La loro presenza è misurata, calibrata nei movimenti e nelle espressioni, come a voler sottolineare l’inevitabilità degli eventi. La ribellione di Yeong-hye è un atto che non può essere compreso da chi le sta attorno, ma che ha il potere di scuotere le fondamenta della loro esistenza. Le reazioni degli altri personaggi sono variegate: incredulità, desiderio, dolore. In ogni reazione, tuttavia, vi è l’incapacità di accettare l’altro nella sua unicità, di riconoscere la scelta di Yeong-hye come legittima e necessaria. La regia riesce a rendere palpabile questo conflitto interiore e collettivo, creando una tensione che cresce progressivamente, fino a esplodere nella scena finale. Le piantine deposte sul proscenio dai personaggi non sono solo simboli di crescita e rinnovamento, ma rappresentano anche il fallimento di una società che non riesce a comprendere la scelta di chi decide di non conformarsi. Sono un atto di resa, ma al tempo stesso un segno di speranza, un tentativo di ristabilire un contatto con quella natura da cui Yeong-hye cerca di trarre nuova linfa vitale. Il percorso di Yeong-hye è una discesa verso una forma di libertà assoluta, una libertà che passa attraverso la negazione di tutto ciò che è umano, di tutto ciò che la lega al mondo. Il rifiuto della carne, il rifiuto del corpo come veicolo di piacere e di sofferenza, sono passi verso una condizione di purezza che ha il sapore dell’annullamento. È una ricerca di pace, ma è anche una fuga dalla realtà, un tentativo di sottrarsi alle regole e alle imposizioni di una società che non lascia spazio alla differenza. Il simbolismo della rinuncia attraversa l’intera messa in scena: la carne gettata via, la nudità esposta senza pudore, il corpo che si fa sempre più leggero, quasi evanescente. Yeong-hye diventa il simbolo di una ribellione che non si accontenta di sfidare le convenzioni, ma che vuole distruggerle, andare oltre, raggiungere un punto di non ritorno. E in questo processo di autodistruzione c’è una bellezza conturbante, una forza che spaventa e affascina al tempo stesso. La scelta di Yeong-hye non coinvolge solo se stessa, ma investe anche tutti coloro che le stanno attorno. La famiglia, incapace di comprendere il suo rifiuto, reagisce con rabbia, con violenza, con un desiderio crescente di riportarla all’ordine. Il marito, la sorella, il cognato: ognuno di loro vede nella scelta di Yeong-hye una minaccia alla propria stabilità, un attacco al proprio mondo. E così, il rifiuto di mangiare carne diventa il punto di partenza per un conflitto che non riguarda solo il cibo, ma tocca le corde più intime dell’esistenza, mettendo in discussione l’identità, il desiderio, il bisogno di appartenenza. La relazione con il cognato, che vede in Yeong-hye un corpo da usare per la propria arte, è forse l’esempio più evidente di come la scelta della protagonista venga fraintesa e strumentalizzata. Il corpo di Yeong-hye, che lei cerca di liberare da ogni vincolo, diventa per gli altri un oggetto, uno strumento di controllo, un mezzo per soddisfare i propri desideri. La scena in cui il cognato dipinge il corpo di Yeong-hye, trasformandola in un’opera d’arte vivente, è una rappresentazione potente di questo conflitto: da un lato, il desiderio di Yeong-hye di essere libera, di non appartenere a nessuno; dall’altro, il tentativo del cognato di possederla, di renderla parte del proprio mondo. ‘La Vegetariana’ è uno spettacolo che colpisce per la sua intensità emotiva, per la capacità di portare sulla scena un conflitto che non riguarda solo la protagonista, ma che investe ogni spettatore, chiamandolo a riflettere sul significato della libertà, sul prezzo da pagare per essere veramente se stessi. Yeong-hye, con il suo rifiuto radicale, con la sua scelta estrema, ci mostra la bellezza e il terrore di una libertà totale, di una vita vissuta senza compromessi, senza paura. Una vita che, forse, non è fatta per essere vissuta, ma solo per essere sognata.

Categorie: Musica corale

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