Bené Romì. La memoria del Ghetto di Roma tra topografia perduta e identità ricostruita
Presentato al Museo Ebraico di Roma un progetto immersivo che restituisce, attraverso la realtà aumentata, la complessità storica, urbana e simbolica dell’antico Ghetto ebraico romano
Roma, 02 luglio 2025
Presso il Museo Ebraico di Roma è stato presentato il progetto Bené Romì – Figli di Roma, un’esperienza immersiva che intreccia ricerca storica e tecnologia digitale per riportare alla luce la geografia perduta dell’antico Ghetto ebraico, istituito nel 1555 nel cuore della città. L’iniziativa, frutto della collaborazione tra la Comunità Ebraica di Roma, Gsnet Italia e Sagitek, si fonda sull’uso della realtà aumentata e virtuale per ricostruire in modo dinamico e partecipato il tessuto urbano, sociale e culturale di un quartiere scomparso, ma ancora inscritto nella memoria della città. Il titolo stesso del progetto, Bené Romì, che in ebraico significa “Figli di Roma”, non è un semplice artificio retorico, ma un’affermazione identitaria densa di stratificazioni. Designa una comunità che affonda le proprie radici ben prima della fondazione dell’Impero, e che nel corso dei secoli ha conservato una specificità culturale, liturgica e linguistica pur nelle condizioni più ostili. L’ebraismo romano non è dunque una minoranza recente o assimilata, ma una componente costitutiva della città, che ha vissuto e continua a vivere in una tensione costante tra visibilità e marginalizzazione, appartenenza e esclusione. Cuore pulsante del progetto è la restituzione digitale della topografia del Ghetto, oggi quasi completamente obliterata dalla trasformazione urbanistica post-unitaria. Grazie a dispositivi mobili e visori geolocalizzati, i visitatori sono accompagnati in un percorso tridimensionale che sovrappone la mappa seicentesca del quartiere a quella contemporanea del Rione Sant’Angelo. Le strade strette, le abitazioni addossate le une alle altre, le botteghe, le sinagoghe e i cortili vengono evocati in tempo reale lungo il tragitto fisico, generando un’intersezione tra realtà e ricostruzione capace di far affiorare i fantasmi della città invisibile. L’intervento immersivo si sviluppa secondo una logica narrativa che non si limita alla restituzione architettonica. Ogni punto del percorso è animato da suoni ambientali, fonti d’archivio e descrizioni letterarie che restituiscono il vissuto quotidiano degli abitanti. Si entra così non solo in uno spazio, ma in un tempo: il tempo della segregazione imposta dalla bolla Cum nimis absurdum, delle chiusure serali dei cancelli, della promiscuità forzata, ma anche della vitalità associativa, delle confraternite caritatevoli, della produzione culturale e artigianale. Il Ghetto, come emerge chiaramente dal progetto, non fu semplicemente un luogo di costrizione, ma un contesto complesso e contraddittorio, dove convivevano oppressione e resistenza, povertà e creatività, umiliazione e orgoglio. Lì si costruì una forma peculiare di socialità che, sebbene determinata da condizioni esterne ostili, sviluppò strutture interne di solidarietà, educazione e culto capaci di mantenere viva l’identità collettiva. Le cinque sinagoghe storiche, riunite nell’Ottocento nella cosiddetta “Cinque Scole”, rappresentavano non solo luoghi di preghiera, ma nuclei simbolici della coesione comunitaria. L’operazione condotta da Bené Romì non si limita dunque a un esercizio di archeologia virtuale, ma si propone come una vera e propria esplorazione critica della memoria urbana. Nell’evocare il Ghetto non si cerca di ricostruire una visione nostalgica o puramente documentaria, bensì di restituire profondità storica a uno spazio oggi assente, che tuttavia ha lasciato impronte durature nella configurazione sociale e culturale di Roma. Il quartiere che oggi ospita ristoranti kasher, librerie specializzate e itinerari turistici dedicati, affonda le sue radici in secoli di esclusione, di resilienza e di elaborazione identitaria. La scelta di impiegare la realtà aumentata come strumento di narrazione non è neutrale. Essa consente di integrare il sapere storico con la percezione diretta, attivando una forma di conoscenza che non passa solo attraverso l’intelletto, ma coinvolge il corpo, lo spazio, l’emotività. Camminare nel Ghetto ricostruito significa letteralmente abitare una soglia: tra visibile e invisibile, tra passato e presente, tra memoria e oblio. In tal senso, l’esperienza si configura come un atto di giustizia cognitiva, che riporta alla luce non solo un quartiere demolito, ma una costellazione di esistenze, di biografie, di tracce che ancora abitano i silenzi delle pietre. Il progetto si inserisce, inoltre, in un più ampio dibattito sul ruolo dei musei nella società contemporanea. Il Museo Ebraico di Roma, già da anni impegnato in percorsi educativi e divulgativi che superano la mera esposizione oggettuale, si conferma come spazio attivo di produzione di memoria, capace di integrare ricerca scientifica e strumenti narrativi contemporanei. Non si tratta solo di conservare un passato, ma di renderlo fruibile e interrogabile, di trasformarlo in linguaggio capace di parlare al presente. A partire dalla sua attivazione, Bené Romì sarà fruibile all’interno del percorso museale, ma sono previste anche versioni itineranti destinate a scuole, festival culturali e istituzioni internazionali. Il progetto non si limita dunque a un’operazione locale, ma ambisce a proporsi come modello replicabile per altri contesti urbani dove la storia è stata cancellata, distorta o rimossa. Attraverso la reinvenzione critica dello spazio e l’attivazione sensoriale della memoria, Bené Romì ci ricorda che ogni città è fatta di strati, di sedimentazioni spesso invisibili, che solo uno sguardo consapevole può far riemergere. E che nella mappa interiore di Roma, il Ghetto non è un’assenza, ma una presenza silenziosa, finalmente restituita alla sua complessità.
Roma, Caracalla Festival 2025
Basilica di Massenzio
LA RESURREZIONE
Oratorio in due parti
Musica di Georg Friedrich Händel
Direttore George Petrou
Regia Ilaria Lanzino
Scene Dirk Becker
Costumi Annette Braun
Luci Marco Filibeck
Personaggi e interpreti:
Angelo SARA BLANCH
Maddalena ANA MARIA LABIN
Cleofe TERESA IERVOLINO
San Giovanni CHARLES WORKMAN
Lucifero GIORGIO CAODURO
ORCHESTRA NAZIONALE BAROCCA DEI CONSERVATORI
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 01 luglio 2025
L’apertura del Caracalla Festival 2025 con La Resurrezione di Georg Friedrich Händel, proposta dal Teatro dell’Opera di Roma nella solenne cornice della Basilica di Massenzio, ha dato luogo a un’esperienza scenico-musicale di notevole spessore, fondata su un equilibrio intelligente tra aderenza filologica e visione drammaturgica contemporanea. Composto nel 1708 per la corte del marchese Ruspoli e destinato alla fruizione privata, l’oratorio pasquale di Händel rappresenta una delle massime espressioni della retorica musicale del primo Settecento: una partitura densa, fondata sulla dialettica tra redenzione e dubbio, morte e trasfigurazione, articolata in una successione di recitativi e arie affidati a figure emblematiche – l’Angelo, Lucifero, San Giovanni, le due Marie – prive di sviluppo psicologico ma cariche di funzione allegorica. Alla guida dell’ Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori, il maestro George Petrou ha offerto una lettura asciutta, sorvegliata e vibrante, improntata a una prassi esecutiva storicamente informata che ha saputo mantenere salda la tensione drammaturgica. La concertazione si è distinta per equilibrio timbrico, accuratezza agogica e intelligenza affettiva: l’orchestra ha restituito le articolazioni armoniche e la varietà dei registri espressivi con trasparenza e coesione, senza cadere né nell’accademismo né nell’enfasi. I recitativi accompagnati sono stati trattati con cura teatrale, divenendo spazi discorsivi pregnanti, mentre le arie da capo hanno mostrato una gestione raffinata delle ornamentazioni e delle dinamiche, sempre coerenti con il carattere retorico delle sezioni. Il cast vocale si è dimostrato omogeneo e tecnicamente solido. Sara Blanch, nel ruolo dell’Angelo, ha brillato per precisione d’intonazione, controllo del fiato e smalto timbrico: la sua voce, luminosa e duttilmente agile, ha attraversato le difficoltà del repertorio con eleganza e sobrietà, costruendo un personaggio che non si impone per autorità ma per lucidità spirituale. Ana Maria Labin, nel ruolo di Maria Maddalena, ha optato per una linea più introspettiva, con un fraseggio sempre sorvegliato, capace di dare corpo alla dimensione del dolore senza scivolare nella declamazione patetica. La sua “Ferma l’ali” si è imposta come uno dei momenti più intensi della serata, per rigore formale e profondità affettiva. Teresa Iervolino, nei panni di Maria di Cleofe, ha portato in scena una voce ampia, brunita, di grande compattezza e solidità tecnica. Il suo contributo ha donato al tessuto sonoro un ancoraggio grave, quasi liturgico, perfettamente in sintonia con la funzione contemplativa del personaggio. Il duetto con la Maddalena, costruito su una tensione continua tra fusione e distinzione timbrica, è stato risolto con rara misura e sensibilità. Charles Workman, nel ruolo di San Giovanni, ha offerto una prova stilisticamente coerente, fondata su chiarezza prosodica e controllo espressivo, restituendo un evangelista più meditabondo che assertivo, perfettamente in linea con l’estetica della sobrietà perseguita dall’intero impianto musicale. A emergere con grande forza drammatica è stato Giorgio Caoduro nel ruolo di Lucifero: la sua vocalità piena, autorevole e ben proiettata ha saputo coniugare le esigenze della retorica musicale con una drammaturgia interna rigorosa. Il celebre “Col sasso e col ferro” è stato affrontato con controllo tecnico e incisività espressiva, rendendo palpabile il conflitto interno della figura diabolica, oscillante tra superbia e disillusione. La regia di Ilaria Lanzino si configura come un esercizio critico sul linguaggio dell’oratorio, rifuggendo ogni intento illustrativo per interrogare il senso stesso della resurrezione nel contesto di un presente secolarizzato. La scena, concepita da Dirk Becker, è costruita come un paesaggio mentale: non spazio drammatico ma topografia affettiva, costellata di oggetti-sintomo – letti disfatti, culle, crocifissi monumentali – che evocano la frattura, il lutto, la sospensione. La narrazione cede il passo a una sequenza di quadri iconici, frammentari, non consequenziali, in cui il riferimento cinematografico (von Trier, Moretti, van Groeningen, Wang Xiaoshuai) non è mera citazione, ma matrice estetica e teorica. Figure sospese, mai del tutto riconducibili a ruoli o narrazioni, emergono come icone della frattura, emblemi visivi di un trauma che si manifesta non per racconto ma per condensazione simbolica. In questo teatro dell’interrogazione, l’azione si dissolve in una costellazione di immagini che abitano il vuoto lasciato dal sacro, dislocandolo in una grammatica del silenzio e dell’assenza. I costumi di Annette Braun, privi di qualsiasi connotazione storica, declinano una grammatica della fragilità: pigiami, vesti cliniche, abiti disfunzionali che spogliano i personaggi di ogni identità drammatica, per restituirli a una ritualità spoglia e archetipica. In questa visione, La Resurrezione non proclama il mistero, lo mette in discussione. La liturgia si scompone e si mostra come enigma, in un teatro che non offre risposte ma suscita domande. Il sacro non è una presenza rassicurante, bensì un vuoto che interroga. Fondamentale, in questa costruzione, il disegno luci di Marco Filibeck: con tagli radenti, forti contrasti e sfumature notturne, la luce scolpisce lo spazio secondo un’alternanza di rivelazione e oscurità, accompagnando la musica in un’atmosfera sospesa e meditativa. L’azione è quasi del tutto assente: il dramma si consuma nel silenzio, nell’attesa, in una tensione che non trova soluzione. La regia non cerca di imporre un significato, ma lascia che sia l’assenza stessa a parlare, trasformando la scena in un luogo di sospensione emotiva e spirituale. La Basilica di Massenzio, da antica rovina a spazio carico di risonanze, non funge da semplice scenografia, ma diventa parte integrante del senso: un’architettura che, con la sua memoria e il suo silenzio, diventa chiave di lettura. In questo contesto, la musica rinuncia a ogni forma di spettacolarità, per farsi pensiero sonoro, riflessione condivisa. Il pubblico, immerso tra voce e pietra, non ha assistito a una rappresentazione, ma ha preso parte a un’esperienza: un atto collettivo in cui l’opera si è fatta presente, viva, interrogativa. E in quella presenza, si è aperta una continuità fragile e inquieta tra eredità e contemporaneità. Photo © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Teatro Ostia Antica Festival 2025
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Gianni Garrera
adattamento e regia Luca De Fusco
con Luca Lazzareschi (Edipo, Tiresia, Servo di Laio),
Manuela Mandracchia (Giocasta)
Paolo Serra (Creonte),
Francesco Biscione (Sacerdote Corifeo),
Paolo Cresta (Nunzio Corifeo),
Alessandro Balletta (Messo Corifeo)
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 02 luglio 2025
«Γνῶθι σεαυτόν» – Conosci te stesso. È forse questo il monito più profondo che la tragedia sofoclea Edipo Re consegna all’umanità, un ammonimento inciso nel marmo del pensiero greco e trasmesso, come fuoco sacro, alle epoche successive. Ma se l’iscrizione delfica prometteva la sapienza dell’autocoscienza, è proprio nel paradosso dell’inconoscibile che Luca De Fusco, nell’ambito del Festival internazionale del teatro di Ostia Antica, immerge la sua regia, offrendo una visione dell’Edipo Re che si fa enigma oscuro, viaggio negli abissi dell’anima e nel labirinto dell’identità. La tragedia, come nota Aristotele nella Poetica, è imitazione di un’azione seria e compiuta, che suscita pietà e terrore, e porta alla katharsis. In Edipo Re la mímesis tocca vertici sublimi: l’indagine dell’eroe si fa interrogazione del destino umano, e la scoperta finale – quel tu sei l’uomo che cerchi – esplode come detonazione tragica nella coscienza di chi guarda. Edipo, colui che si crede redentore, è in realtà colpevole, e proprio il suo sapere lo precipita nell’oscurità. Questo dramma dell’identità e della colpa, della vista e della cecità, della libertà e del fato, trova nella messinscena di De Fusco una trasposizione visiva e mentale di grande impatto simbolico. Il regista, con intelligenza quasi scultorea, plasma la tragedia come un thriller arcaico: i personaggi si muovono come ciechi nel buio della conoscenza, ognuno portatore di una verità parziale, contaminata, insidiosa. La polis tebana non è solo città della peste, ma spazio mentale contaminato dal rimosso e dal rifiuto della verità. L’oracolo delfico aleggia come maledizione e come struttura narrativa: è la profezia che orchestra gli eventi, l’invisibile burattinaio che tesse le fila del disastro. Il destino, così, non è forza esterna, ma grammatica segreta dell’essere, linguaggio antico che l’uomo non sa più decifrare. La scenografia di Marta Crisolini Malatesta si configura come un paesaggio mentale, più che fisico: una struttura astratta e geometrica che trasforma la scena in uno spazio dell’inconscio. Il grande schermo ottagonale al centro, cuore visivo dell’allestimento, agisce come soglia simbolica dove scorrono proiezioni visive — volti, sdoppiamenti, frammenti — che restituiscono le ossessioni interiori del protagonista. Le gradinate simmetriche e i personaggi disposti come figure archetipiche accentuano l’idea di un tribunale interiore, mentre luci taglienti e ambienti spogli costruiscono una drammaturgia visiva fondata sull’ambivalenza e sulla rifrazione simbolica. I personaggi non entrano, ma affiorano come apparizioni della mente: Giocasta, Tiresia, Creonte sono presenze ambigue, sospese tra ruolo e mito. In questo impianto, la scena diventa dispositivo conoscitivo e proiezione del trauma, più analitico che narrativo, più freudiano che sofocleo. E tuttavia, proprio in questa modernizzazione psicoanalitica, si conserva – paradossalmente – la più autentica grecità del testo: perché la tragedia attica non è mai spiegazione, ma interrogazione perpetua. L’enigma della Sfinge, risolto da Edipo, non è altro che il preludio al vero enigma: chi siamo noi? qual è il prezzo della conoscenza? Edipo risponde con la cecità, atto estremo che trasforma il vedere nel suo contrario e fa della luce uno scandalo insopportabile. Luca Lazzareschi, interprete di Edipo, Tiresia, Servo di Laio, regge il ruolo con misura e febbre. La sua parola è scultorea, salmodiata quasi, eppure attraversata da tremiti: in lui convivono il sovrano e il mendicante, l’investigatore e il colpevole. La sua caduta non è solo fisica, ma soprattutto ontologica: da garante della verità a mostro della verità. Accanto a lui, la Giocasta di Manuela Mandracchia è di una potenza dolorosa: mai solo figura tragica, ma donna spezzata tra eros e paura, madre inconsapevole e compagna straziata. Paolo Serra presta il corpo ieratico e inquietante a Creonte, mentre Francesco Biscione, Paolo Cresta e Alessandro Balletta, rispettivamente Sacerdote Corifeo, Nunzio Corifeo e Messo Corifeo, compongono un coro frammentato e necessario, presenza evocativa e specchio della coscienza collettiva. I movimenti coreografici, gli apparati sonori e le pause millimetriche disegnano uno spazio sacrale, un coro muto che pulsa con la tensione dei misteri eleusini. De Fusco non cerca attualizzazioni banali né parabole civili: il suo Edipo è atemporale, quasi extracronico. Ed è proprio in questa astrazione che il mito si rinnova, e continua a parlare. Se Edipo è figura fondante della modernità, non lo è perché simbolo della colpa originaria, ma perché uomo che osa interrogare, che lotta contro l’oscurità, e infine si acceca – non per punirsi, ma per vedere oltre. In questo senso, Edipo Re è davvero uno dei pochi testi che non smettono mai di accadere. E De Fusco, con intelligenza e rigore, ha saputo farne ancora una volta specchio del nostro tempo. Un tempo, come quello di Tebe, in cui l’epidemia non è fuori, ma dentro. Photocredit Claudia Pajewski
Napoli, MANN
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
DOMUS. GLI ARREDI DI POMPEI
Curato da Massimo Osanna, Andrea Milanese, Ruggiero Ferrajoli e Luana Toniolo
Napoli, 30 giugno 2025
«Domus est enim unus locus ad homines perfugium, ornamenta autem animi speculum sunt.» (Cicerone, De Officiis, I, 39)
Nel paradigma urbano romano, la “domus” si configura non solo come spazio funzionale, ma come architettura simbolica, centro identitario e palinsesto della memoria individuale e familiare. Il nuovo allestimento permanente Domus. Gli arredi di Pompei presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli offre una lettura articolata di questo tema attraverso l’esposizione di oltre duecentocinquanta reperti – mobili, suppellettili, decorazioni, affreschi e sculture – che documentano la complessità dell’abitare vesuviano tra I secolo a.C. e I secolo d.C. Curato da Massimo Osanna, Andrea Milanese, Ruggiero Ferrajoli e Luana Toniolo, il progetto si propone di restituire un’immagine stratificata e immersiva della casa pompeiana, affermando il valore degli oggetti non solo come testimonianze materiali, ma come elementi attivi nella costruzione del tessuto sociale romano. L’esposizione si articola in cinque sale al secondo piano del museo, secondo un percorso che procede per nuclei tematici e tipologici, a partire da una sezione immersiva introduttiva ispirata alla Casa del Fauno, dove, attraverso strumenti digitali, viene presentata la logica distributiva della domus e il rapporto tra architettura, uso degli spazi e ritualità domestiche. Il valore simbolico della domus si esprime pienamente nella selezione di arredi presentati: sedute, panche, letti, tavolini con monopodi decorati, ma anche oggetti funzionali come bracieri, scaldavivande, lucerne e candelabri. L’accurata campionatura tipologica consente di comprendere il carattere composito della cultura materiale pompeiana, che fonde artigianato, tecnica e arte secondo logiche decorative ispirate al mondo ellenistico, recepito e rielaborato nella forma dell’abitare romano. La varietà dei materiali impiegati – bronzo, marmo, legno, terracotta – e la qualità esecutiva di molti pezzi riflettono un gusto maturo, volto tanto all’ostentazione sociale quanto al piacere estetico. Tra i pezzi di maggior rilievo si segnala un braciere monumentale rettangolare, finemente decorato con inserti in rame, stagno e ottone, la cui resa plastica e cura del dettaglio evidenziano la centralità del fuoco nei contesti domestici, non solo per il riscaldamento e la cottura dei cibi, ma anche quale polo simbolico della convivialità. A esso si affianca un portalucerne ageminato in rame e argento, impreziosito da una composizione scultorea con un giovane Dioniso in groppa a una pantera, associata a una piccola ara. L’iconografia dionisiaca, diffusa nei triclinia pompeiani, rivela la compenetrazione tra funzione utilitaria e allusione mitologica nei contesti della domus. L’allestimento accoglie inoltre un raffinato tavolino pieghevole dotato di un meccanismo di chiusura e trasporto, che documenta soluzioni mobili e trasformabili per l’organizzazione flessibile degli ambienti, e un tavolino con monopodio a sfinge, la cui decorazione include il busto di Atena, mostrando la penetrazione di temi iconografici greci nella plastica domestica di età imperiale. Le testimonianze più esplicitamente figurative sono rappresentate da sculture e pitture murali. Di particolare interesse è una statua di Apollo citaredo, derivata da modelli greci di età classica, il cui valore all’interno della casa superava il semplice ornamento per assumere significato culturale e identitario. Le pareti affrescate della villa di Numerio Popidio Floro, recentemente restaurate e reinserite in pareti museali appositamente progettate, restituiscono l’ambiente decorativo originario come “sfondo attivo” dell’arredo. Le scene pittoriche, rinnovate nei colori e nelle definizioni, rientrano così nella narrazione del vivere quotidiano, anziché isolarsi come opere a sé stanti. Particolare attenzione è dedicata anche alla cosiddetta Sala dei Grifi, in cui sono esposti arredi ottocenteschi ispirati a modelli pompeiani. Realizzati nel 1870 per volontà di Giuseppe Fiorelli, all’epoca direttore del museo e degli scavi, questi oggetti – panche, tavoli, supporti – rivelano non solo il gusto revivalista dell’epoca, ma anche la fortuna ottocentesca del modello domestico antico nella museografia moderna. La sala include anche una copia del celebre Narciso di Vincenzo Gemito e una selezione di materiali grafici (acquerelli, incisioni, fotografie) che illustrano la ricezione visiva della Pompei moderna. Il percorso espositivo si chiude con una riflessione metodologica sul ruolo del museo come dispositivo narrativo. Contestualmente all’inaugurazione della sezione Domus, è stato infatti presentato un nuovo impianto di illuminazione per le sale dedicate agli affreschi pompeiani, realizzato in collaborazione con ERCO. Il progetto garantisce una migliore resa cromatica e percettiva delle superfici pittoriche, promuovendo una lettura integrata tra luce, spazio e contenuto figurativo. Questa iniziativa si inserisce nel più ampio processo di rinnovamento del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che prevede anche il riallestimento delle sale della Villa dei Papiri, con l’obiettivo di restituire coerenza e fluidità alla narrazione del mondo vesuviano. In tal senso, l’allestimento di Domus rappresenta non solo una mostra permanente, ma un dispositivo critico, capace di trasformare la cultura materiale in strumento di conoscenza storica e antropologica. La domus pompeiana, come emerge da questa proposta espositiva, si rivela essere uno specchio fedele del mondo romano: nei suoi arredi e nei suoi decori si riflettono non solo il gusto e il lusso, ma anche le tensioni sociali, i modelli culturali, le aspirazioni politiche. In essa convivono funzione e retorica, necessità e rappresentazione. E proprio nella casa, come luogo del quotidiano e della memoria, l’archeologia trova uno dei suoi spazi più fertili per narrare, con rigore e immaginazione, la vita degli antichi.
Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino annuncia la prossima stagione 2026 e l’88esima edizione del Festival Maggio Musicale: dodici titoli d’opera – in un arco temporale dal barocco al contemporaneo, con una nuova commissione – 2 cicli sinfonici diretti dal Direttore musicale Daniele Gatti, numerosi concerti sinfonici e sinfonico-corali con le numerose presenze di Zubin Mehta che nel 2026 festeggerà i suoi 90 anni, due balletti e gli spettacoli per le famiglie e le scuole. Tosca, Pagliacci in dittico con Cavalleria Rusticana, Il castello di Barbablù in dittico con La voix humaine, The Death of Klinghoffer titolo inaugurale del Festival.
Un ballo in maschera, Giulio Cesare, Wozzeck, Romanzo criminale, Simon Boccanegra, Les contes d’Hoffmann sono i titoli d’opera che compongono la stagione lirica e il Festival. Il versante sinfonico e sinfonico corale mette in cartellone il ciclo dedicato alle nove sinfonie di Ludwig van Beethoven e il ciclo dedicato a Felix Mendelssohn che sono affidati a Daniele Gatti, Direttore musicale del Maggio, ruolo che assumerà ufficialmente a partire dal Festival.
In allegato tutti i dettagli della stagione 2026
Martedì 1 luglio
Ore 17.35
“ECUBA”
Musica Nicola Antono Manfroce
Direttore Sesto Quatrini
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Lidia Fridman, Norman Reinhardt, Mert Süngü, Roberta Mantegna, Martina Gresia.
Mercoledì 2 luglio
ore 17.28
“SALOME”
Musica Richard Strauss
Direttore Franz Welser-Möst
Regia Romeo Castellucci
Interpreti: John Daszak, Anna Maria Chiuri, Asmik Grigorian, Gabor Bretz, Julian Prégradien…
Salisburgo, 2018
Venerdì 4 luglio
Ore 17.20
“ORFEO ED EURIDICE”
Musica Christoph Willibald Gluck
Direttore Antonello Manacorda
Regia Damiano Michieletto.
Interpreti: Raffaele Pe, Nadja Mchantaf, Susan Zarrabi, Josefine Mindus
Spoleto, 2024
Sabato 5 luglio
Ore 09.50
“LE COMTE ORY”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Diego Matheuz
Regia Hugo De Ana
Interpreti: Juan Diego Flórez, Andrzej Filonczyk, Nahuel Di Pierro, Julie Fuchs, Monica Bacelli.
Pesaro, 2022
Domenica 6 luglio / Sabato 12 luglio
Ore 10.00 / 10.00
“IL TROVATORE”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Arturo Basile
Regia Margherita Wallmann
Interpreti: Antonietta Stella, Carlo Bergonzi, Adriana Lazzarini, Piero Cappuccilli….
RAI, 1966
Martedì 8 luglio
Ore 17.40
“LA GIOCONDA”
Musica Amilcare Ponchielli
Direttore Donato Renzetti
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Andrea Gruber, Marco Berti, Alberto Mastromarino, Ildiko Komlosi, Elisabetta Fiorillo…
Mercoledì 9 luglio
Ore 18.00
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Musica Pietro Mascagni
Direttore Zhang Jiemin
Regia Maurizio Scaparro
Interpreti: Ildiko Komlosi, Sung Kyu Park, Marco Di Felice, Barbara Di Castri, Cinzia Di Mola
Venerdì 11 luglio
Ore 17.30
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto
Interpreti: Ivan Ayon Rivas, Roberto Frontali, Rosa Feola, Riccardo Zanellato, Martina Belli…
Roma, GnamC
Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea
YOKTUNUZ di Ahmet Güneştekin
Il progetto curatoriale di Sergio Risaliti e Paola Marino
con la direzione organizzativa di Angelo Bucarelli
Roma, 30 giugno 2025
La mostra YOKTUNUZ di Ahmet Güneştekin alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea non si limita a essere un’esposizione: è una detonazione silenziosa nel cuore dell’istituzione, una scultura ambientale di memoria e trauma che si insinua nella retorica museale come una scheggia infetta. Per questo, non stupisce che a dare scandalo non siano stati i contenuti, le allusioni storiche, le tensioni politiche, ma, con una comicità involontaria degna della migliore farsa italiana, “l’odore”. Sì, l’odore. Perché l’arte, nel 2025, infastidisce quando non è più inodore, quando sottrae il visitatore alla comfort zone dell’estetica climatizzata e lo costringe a percepire, anche solo per un istante, l’esistenza di un reale in decomposizione. Le scarpe nere che compongono Picco di Memoria, uno degli interventi più radicali della mostra, hanno suscitato un coro di lamentele: personale del museo con mascherine, guide turistiche infastidite, comunicati sindacali, richieste di ispezione da parte della ASL. Eppure l’opera non ha fatto altro che portare nella GNAM la fisicità di ciò che la cultura visiva tende a espellere: il corpo senza estetica, la materia senza epurazione, l’assenza che non sa farsi bella. Ahmet Güneştekin, artista turco di origine curda, da anni lavora su un’estetica della perdita che non consola, ma denuncia. Le sue opere non illustrano un messaggio, lo incarnano. Non si accontentano di evocare: insorgono. E se l’arte, come ci ha insegnato una lunga genealogia novecentesca da Artaud a Beuys, è anche disfunzione, allora la puzza — sì, la puzza — è l’eccesso simbolico che rivela la distanza tra rappresentazione e realtà. Perché la deportazione non sa di lavanda, la prigione non sa di incenso, il genocidio non ha l’odore del deodorante per ambienti. In un’epoca in cui anche l’estetica della catastrofe è stata deodorata per renderla vendibile, Güneştekin riconsegna al museo ciò che il museo aveva sterilizzato: il corpo politico dell’arte. Ma non si cada nella trappola del fraintendimento. YOKTUNUZ non è una mostra “odorosa”, è una mostra densa. Non si esaurisce in Picco di Memoria, né si riduce alla polemica. Lungo il percorso espositivo si succedono opere monumentali che interrogano la forma attraverso il trauma, il colore attraverso il lutto, la materia attraverso la storia. Le sculture totemiche, le superfici metalliche ossidate, i pattern visivi che richiamano una ritualità pan-mediterranea de-territorializzata eppure ostinatamente orientale, disegnano una mappa mentale della resistenza. Non una resistenza armata, ma plastica. Non un discorso sulla libertà, ma un corpo a corpo con l’oblio. Nel cuore stesso del museo — spazio consacrato alla costruzione dell’identità nazionale post-unitaria — Güneştekin inocula una forma di iconoclastia sottile ma virale. Le sue opere non si limitano a esistere: infestano. Non cercano il confronto con la collezione permanente, la mettono in crisi. Accanto al marmo canoviano di Ercole e Lica, l’installazione YOKTUNUZ erige un contro-monumento all’assenza. Lì dove Canova esalta l’eroismo neoclassico, Güneştekin espone il vuoto lasciato dai vinti della Storia. È un sabotaggio silenzioso, una contronarrazione in forma di materia bruciata e peso inelaborabile. La mostra si muove come un rito laico, in cui il sacro non è più verticale ma orizzontale. È inciso nella pelle delle cose, stratificato nella materia. Non c’è ieraticità, ma febbre. Non c’è contemplazione, ma esposizione. Ogni opera è un gesto di insubordinazione simbolica: il ferro ossidato, le stratificazioni cromatiche esasperate, il ritmo ossessivo delle forme non parlano all’occhio, ma al nervo. La mostra non vuole piacere, vuole restare. Non chiede consenso, ma attenzione. In un sistema dell’arte in cui il politically correct e il decorativismo spirituale anestetizzano tutto, Güneştekin scompagina il canone con una brutalità necessaria. Le figure che emergono dalle sue opere non sono personaggi ma presenze. Né figurative né astratte, né mitiche né storiche: sono proiezioni liminari, archetipi contaminati da secoli di violenza e oblio. Non raccontano una storia, ma ne portano i resti. Non sono icone, ma sintomi. Il loro corpo non è costruito per essere visto, ma per essere percepito. L’esilio non è un tema, ma un paesaggio affettivo in cui lo spettatore viene costretto a camminare senza mappe. Ogni opera è una ferita che si rifiuta di rimarginarsi, un palinsesto di omissioni e sopravvivenze. È qui che l’intervento di Güneştekin tocca il punto più alto della sua efficacia: YOKTUNUZ non è una mostra sulla memoria, ma un dispositivo che attiva la rimozione. Non dice, ma evoca. Non rappresenta, ma presenta. L’assenza non viene tematizzata, viene resa corpo, ingombro, materia. L’arte torna a essere presenza ingombrante nel museo, che da dispositivo di celebrazione si trasforma in teatro dell’interrogazione. Chi ha diritto a essere esposto? Quale dolore è ammesso? Chi può permettersi di non piacere? La reazione al tanfo delle scarpe, allora, non è che il sintomo di un disagio più profondo. Il disagio di un sistema culturale che ha smesso di tollerare l’eccesso, che si rifugia nel decoroso e che scambia il gradevole per il giusto. Güneştekin, con sarcastica lucidità, lo ha capito meglio di chiunque altro. “La morte non profuma”. Non è una battuta. È un assioma critico. È il rovesciamento di una civiltà museale che pretende di piangere senza sporcarsi, di ricordare senza toccare, di celebrare senza compromettersi. Ecco allora il paradosso. Il vero scandalo non è l’odore. Il vero scandalo è che ci sia ancora un artista capace di disturbare. Che YOKTUNUZ riesca a farlo senza effetti speciali, senza tecnologia immersiva, senza slogan, ma solo con materia, forma e insistenza, è il suo merito più grande. In un panorama espositivo che scivola sempre più nel simulacro, Güneştekin ha restituito al museo la sua funzione primaria: essere luogo di discontinuità, di frizione, di vertigine. Per chi cerca l’arte che consola, c’è sempre la sala accanto. Per chi ha ancora bisogno di un’arte che brucia, YOKTUNUZ resta lì, nella sua stanza secondaria, a ricordare che l’assenza, quando prende forma, non chiede permesso. E non ha bisogno di profumare.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Ivor Bolton
Soprano Francesca Aspromonte
Tenore Juan Sancho
Basso Luca Tittoto
Igor Stravinskij: “Pulcinella”, balletto in un atto per piccola orchestra con tre voci soliste su musiche di Giovanni Battista Pergolesi; Felix Mendelssohn Bartholdy: Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 “Scozzese”
Venezia, 27 giugno 2925
Le impressioni suscitate nel rispettivo autore da un soggiorno in terra straniera si rispecchiano in entrambe le composizioni – pur così distanti tra loro quanto a stile e contesto storico-culturale di riferimento –, che costituivano il programma del recente concerto, che vedeva Ivor Bolton sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice e la partecipazione del soprano Francesca Aspromonte, del Tenore Juan Sancho e del Basso Luca Tittoto. Nel caso di Stravinskij, l’ispirazione per Pulcinella fu influenzata da un suo soggiorno napoletano. Sceso in Italia nel 1917 dalla Svizzera in cui allora risiedeva, l’artista di Oranienbaum si recò insieme alla compagnia di Diaghilev – i celebri Ballets russes – a Roma, dove l’impresario debuttava con Les femmes de bonne humeur, un balletto basato su alcune sonate di Domenico Scarlatti – orchestrate per l’occasione – con la coreografia di Leonide Massine. L’anno successivo, il successo riportato, anche con la complicità di Scarlatti, spinse Diaghilev a commissionare a Stravinskij – nel frattempo impostosi autorevolmente con l’Histoire du soldat – un nuovo balletto basato su musiche di un altro celebre italiano: Giovan Battista Pergolesi. A questo proposito, il compositore russo ebbe a confessare che mentre delineava il suo Pulcinella era ancora suggestionato da un episodio, accaduto quando nel 1917 soggiornava a Napoli, durante il quale aveva assistito, in una sala maleodorante – insieme a Picasso, incaricato poi di ideare le scene e i costumi del balletto ‘pergolesiano’ –, a una rappresentazione buffa, in cui la maschera partenopea per eccellenza si lasciava andare a movenze e parole lascive. Ad un altro soggiorno rimanda, fin nel titolo, la sinfonia n. 3 il la minore “Scozzese” di Felix Mendelssohn Bartholdy. Il compositore, nel 1829, visitò la Scozia insieme all’amico di famiglia Carl Klingemann, rimanendo particolarmente impressionato dall’Holyrood Palace e da altri luoghi legati a Maria Stuarda, fra cui le rovine della cappella, dove la sventurata regina fu incoronata: proprio qui ebbe l’ispirazione per l’inizio della “Sinfonia scozzese”, il cui primo tempo sarebbe stato abbozzato due anni dopo durante il suo soggiorno romano – insieme allo schizzo della Sinfonia “Italiana” –, per essere completamente sviluppato solo un decennio dopo (l’ambiente romano contrastava troppo rispetto al brumoso paesaggio scozzese). Questa la genesi dell’ultimo dei cinque lavori sinfonici del compositore – anche se complesse vicende editoriali hanno portato a un ordine di pubblicazione diverso –, che rappresenta la risposta matura di Mendelssohn all’esigenza di rinnovamento della sinfonia dopo il sommo esempio di Beethoven, che aveva reso il genere sinfonico veicolo di forti tensioni ideali. La sensibilità romantica spinse il compositore a trovare la giusta soluzione del problema anche creando una dimensione paesaggistica, naturalistica, peraltro senza ricorrere ad approcci descrittivi o folcloristici, bensì rievocando atmosfere e impressioni del viaggio giovanile, in un continuum narrativo e concettuale, che dà unità ai quattro movimenti, concepiti per essere eseguiti senza cesure. Di grande impatto armonico e timbrico è risultata l’esecuzione di Pulcinella, “Ballet avec chant” composto tra il 1919 e il 1920 ed eseguito per la prima volta il 15 maggio 1920 a Parigi sotto la direzione di Ernest Ansermet con le coreografie di Léonide Massine e i costumi e le scene di Pablo Picasso. Tutte le sezioni come i singoli strumenti dell’Orchestra, guidati dal gesto di icastica chiarezza del maestro Bolton, hanno brillantemente affrontato questa impervia partitura, in bilico tra Settecento e Novecento, dove Pergolesi e Stravinskij risultano complementari: rimangono le linee melodiche dei brani utilizzati al pari dei bassi, ma l’armonia viene alterata, straniata – “sporcata” come si dice in gergo – con dissonanze e poliarmonie, il ritmo viene sovente spezzato da sincopi e spostamenti di accento, la strumentazione è assolutamente innovativa. Esemplare il contributo dei cantanti, che hanno interpretato con espressività e compostezza stilistica, attenzione al testo e controllo della voce, melodie di carattere, duetti, trii, che costituiscono altrettanti intermezzi all’azione scenica. Intensamente romantica si è rivelata la lettura offerta dal direttore britannico della Sinfonia scozzese, sempre assecondato da una compagine orchestrale perfettamente in sintonia. Grave e solenne è iniziato il primo movimento, Andante con moto, dove oboi, clarinetti, fagotti e corni – tipico impasto timbrico romantico – hanno rievocato, con la sinuosità del fraseggio in tonalità minore, la ricordata visita alla cappella di Maria Stuarda. Un’analoga atmosfera carica di mestizia veniva ribadita dagli archi nell’Allegro un poco agitato con la loro entrata in pianissimo, intonando una variante ornata del tema d’apertura. Dopo il secondo tema – un intermezzo lirico – e l’elaborato sviluppo, passaggi cromatici e forti contrasti – quasi una tempesta – hanno percorso la lunga coda. Un momento magico ci ha sedotto con il Vivace non troppo – premesso al tempo lento –, che ha ricordato un’analoga pagina di A Midsummer Night’s Dream per l’agitazione diffusa, la scrittura trasparente e l’intreccio delle voci strumentali; suggestivo il clarinetto nell’iniziale motivo pentatonico, tipico della cornamusa, come il conclusivo pianissimo. Un recitativo dei violini ha immesso nell’Adagio, una delle pagine più suggestive di Mendelssohn, in cui una melodia innodica, resa con struggente espressività, ha trovato un netto contrasto in un secondo tema in minore, quasi una marcia funebre, esposta con accorato accento dai fiati. Grande forza drammatica ha caratterizzato il conclusivo Allegro vivacissimo – aperto da uno scoppio folgorante e internamente percorso da una straordinaria energia ritmica –, in cui è ritornato il secondo tema del movimento precedente – ma in maggiore – nitidamente scandito dai fiati. La sezione mediana di sviluppo ha messo in luce l’abilità del trattamento contrappuntistico, introducendo la ripresa, cui è seguito il Maestoso in la maggiore, una sorta di corale, una perorazione trionfale, che ha condotto a una trionfale conclusione in forma di apoteosi. Successo pieno.
Roma, Caracalla Festival 205
WEST SIDE STORY
Un nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta un nuovo, attesissimo allestimento di West Side Story, il capolavoro assoluto del teatro musicale americano, nato dall’idea visionaria di Jerome Robbins, con libretto di Arthur Laurents, musiche di Leonard Bernstein e versi di Stephen Sondheim. Ad accendere la scena sarà la regia di Damiano Michieletto, tra i nomi più acclamati della regia teatrale europea, qui al suo primo incontro con l’iconico musical. La direzione musicale è affidata a Michele Mariotti, Direttore Musicale del Teatro dell’Opera di Roma, che affronta per la prima volta la partitura di Bernstein con il rigore e l’intensità espressiva che ne contraddistinguono lo stile. Le scene sono firmate da Paolo Fantin, i costumi da Carla Teti, le luci da Alessandro Carletti: una squadra creativa affiatata che rinnova il linguaggio visivo della grande Broadway senza tradirne lo spirito. Le coreografie originali, elemento chiave dell’opera sin dalla sua creazione, vengono reinventate da Sasha Riva e Simone Repele, che mantengono la forza cinetica della danza di Robbins, declinandola in una nuova fisicità contemporanea. Tra gli interpreti principali, il tenore Marek Zurowski nel ruolo di Tony e il soprano Sofia Caselli in quello di Maria, coppia tragica che riporta sulla scena l’eco struggente di Romeo e Giulietta in chiave metropolitana. Accanto a loro: Sam Brown (Riff), Sergio Giacomelli (Bernardo) e Natascia Fonzetti (Anita), per un cast che unisce energia giovanile e profonda intensità scenica. In scena, l’Orchestra e il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, protagonisti di una produzione che mira a riscoprire il valore drammatico e musicale di uno dei titoli più amati del Novecento. West Side Story è un’opera che non smette di interrogare il nostro presente. Lo scontro tra bande, il razzismo, l’amore come forma di resistenza e la speranza di una riconciliazione che sembra sempre sul punto di sfuggire: sono questi i temi che Michieletto porta alla ribalta con uno sguardo crudo, poetico e attualissimo. Il nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma si propone come una vera e propria rinascita del musical nel panorama lirico italiano, con una messinscena che coniuga classicità e innovazione, tradizione americana e sensibilità europea. Una grande storia d’amore e violenza, suonata, cantata e danzata dal vivo. Un racconto che, ancora oggi, dopo oltre sessant’anni dal debutto, continua a parlare a tutte le generazioni. Un evento imperdibile, per riscoprire la potenza del teatro musicale nella sua forma più completa. Qui per tutte le informazioni.