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Venezia, Teatro La Fenice: Juanjo Mena e Nicolò Cafaro in concerto

Lun, 21/10/2024 - 09:50

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Juanjo Mena
Pianoforte Nicolò Cafaro
Sergej Rachmaninov: Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30; Witold Lutosławski: Concerto per orchestra
Venezia, 18 ottobre 2024
Due titoli, che non sono ancora entrati stabilmente nel grande repertorio concertistico – il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov e il Concerto per orchestra di Witold Lutosławski – costituivano il programma, proprio per questo particolarmente allettante, del penultimo appuntamento della Stagione Sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice, che vedeva come interpreti due musicisti particolarmente attesi dagli appassionati: il pianista Nicolò Cafaro, vincitore XXXVIII Premio Venezia, e il direttore d’orchestra Juanjo Mena, al suo debutto in Fenice. Composto da Rachmaninov nell’estate del 1909, durante un periodo di riposo nella tenuta di famiglia a Ivanovka, presso Mosca, il Terzo concerto per pianoforte e orchestra non ebbe, inizialmente, un’accoglienza entusiastica, soprattutto da parte di interpreti e critici. Lontano dal carattere melodioso del Concerto n. 2, appariva troppo lungo e formalmente poco ortodosso, oltre che tecnicamente impervio. Difficoltà che il giovane, ma già affermato pianista siciliano ha brillantemente superato, dimostrando una sbalorditiva sicurezza, che – unita ad una straordinaria maturità interpretativa – gli ha consentito di dar vita a un’esecuzione in certi momenti elettrizzante per il l’incandescente virtuosismo, in altri intrisa di delicato lirismo, grazie anche ad un tocco, che perdendo la perlacea brillantezza esibita nei passaggi di più sperticata agilità, assumeva una diafana morbidezza. Nel complesso, una prestazione, che non esitiamo a definire “indimenticabile”. Pacato e quasi esitante il pianoforte nel riprendere il tema in ritmo puntato con cui clarinetti, fagotti e violoncelli, accompagnati dagli strumenti ad arco, hanno aperto il primo movimento, Allegro ma non tanto, dove – affrontando la cadenza eccezionalmente lunga e complessa che sostituisce la tradizionale ripresa – ha dimostrato una mirabile padronanza tecnica, unita a un’immacolata nitidezza nell’affrontare le turgide sequenze accordali. Analogamente il solista ha affrontato da par suo l’ampio Intermezzo: Adagio, dove entra con una frase fortemente cromatica, per poi intonare una melodia fervida e nostalgica. Il giovane interprete ha superato se stesso nel Finale: Alla breve, una danza frenetica, che – riprendendo alcuni temi del movimento iniziale – riserva allo strumento solista trascendentali difficoltà e nella cui sezione centrale la scintillante e metallica sonorità pianistica sembra anticipare Prokof’ev e Šostakovič. Precisa e coesa l’Orchestra nel sostenere il solista, autorevolmente guidata da Juanjo Mena, che ha saputo pienamente valorizzare la raffinata orchestrazione di Rachmaninov ora nitida e brillante ora cameristica e delicata. Successo travolgente e non poteva essere altrimenti. L’Orchestra del Teatro La Fenice è stata poi protagonista di un’esecuzione veramente splendida del Concerto per orchestra di Witold Lutosławski. Composta tra il 1950 e il 1954 – su proposta del direttore artistico della Filarmonica di Varsavia, Witold Rowicki, che richiedeva un brano sinfonico, per celebrare la rinascita, dopo la guerra, dell’orchestra –, la partitura si articola in tre movimenti e costituisce – sebbene il compositore la considerasse un lavoro marginale – il coronamento della fase “folklorica” della sua attività creativa, attestata – prima che vedesse la luce il Concerto per orchestra – da una serie di brevi composizioni ispirate alla musica della regione di Kurpie. Stimolato da Rowicki, Lutosławski utilizzò l’esperienza maturata nella stilizzazione del folklore polacco, per produrre il Concerto per orchestra. Nella partitura, l’autore inserisce undici melodie popolari della Masovia, creando una trama sotterranea che collega i tre movimenti: melodie che, usate come microstrutture ritmico-intervallari, creano sofisticate trame contrappuntistiche e stringenti sviluppi, sacrificando il loro potenziale colore locale alla pura invenzione. Quanto all’esecuzione, il gesto chiaro e suggestivo del direttore spagnolo ha ottenuto dall’Orchestra estrema qualità del suono e ragguardevole finezza interpretativa; il che si è apprezzato negli interventi solistici come in quelli delle singole sezioni e dell’insieme, che hanno dato pieno risalto alla raffinatezza della scrittura e alla ricchezza dei colori orchestrali, da cui proviene il fascino di questa straordinaria partitura, in cui si ravvisa una chiara impronta bartókiana, suggerita fin dal titolo stesso, identico a quello scelto da Bartók per la sua analoga composizione di dieci anni prima. Calorosi applausi e numerose chiamate a fine serata.

Categorie: Musica corale

Roma, Nuovo Teatro Ateneo: “Matrimonio con Dio. Vaclav Nižinskij e la trasfigurazione della danza in luce”

Dom, 20/10/2024 - 22:03

Roma, Nuovo Teatro Ateneo, Stagione Sperimentale 2024
“MATRIMONIO CON DIO. VACLAV NIŽINSKIJ E LA TRASFIGURAZIONE DELLA DANZA IN LUCE”
Racconto teatrale di e con Vito Di Bernardi
Immagini in movimento Ilaria D’Agostino
Roma, 17 ottobre 2024
All’incrocio tra lezione universitaria e spettacolo teatrale si colloca la lecture-performance su Vaclav Nižinskij ideata e messa in scena da Vito Di Bernardi, Professore Ordinario di Storia della Danza all’Università La Sapienza di Roma. La forma spettacolare nata negli anni Sessanta come nuovo genere delle arti performative rende visibile il rapporto singolare che lega l’arte alla sua conoscenza, la ricerca intellettuale all’esperienza pratica, l’oggettività della scienza alla singolarità di approcci radicati però nell’unicità del fenomeno in esame. In questo senso la performance vista nel contesto della prima stagione sperimentale del Nuovo Teatro Ateneo è particolarmente esemplare. Nel suo libro edito nel 2012 da Bulzoni dal titolo Cosa può la danza. Saggio sul corpo, lo studioso Di Bernardi nel riflettere sulla presenza e sulla creazione scenica del grande danzatore russo, messa in relazione con la scrittura dei famosi Diari, affermava il corpo era energia e forza prima di essere significato: era desiderio, era libido nell’Après-midi d’un Faune, era violenza, era crudeltà nel Sacre du Printemps”. Nižinskij per Di Bernardi è “voce, è gesto che si nega come linguaggio pur parlando, pur agendo”, è “un essere sensibile, aperto e mai definibile in un’immagine chiusa”, è “corporeità che si sperimenta nella processualità, nell’incontro con gli altri e con il mondo. Riflessioni queste dettate da una lunga carriera scientifica che ha coniugato lo studio della danza contemporanea all’antropologia in una prospettiva non eurocentrica, ma aperta al confronto, soprattutto con le tradizioni teatrali asiatiche, nonché al rapporto tra diversi generi spettacolari. Tuttavia, riflessioni non facilissime da afferrare per chi non sia abituato a confrontarsi con una scrittura scientifica di profondo spessore filosofico. Ecco che la forma della lecture-performance offre dunque una possibilità in più allo studioso e al pubblico per interagire con la geniale figura di Nižinskij. L’eletto di Diaghilev, colui che seppe far combaciare la curiosità europea per il folklore russo con gli intenti di rottura delle Avanguardie, segnando il punto di svolta dei Ballets Russes, fu anche amato da uno dei più noti esponenti della danza indiana, Ram Gopal, definito dal critico polacco Tadeusz Zelenski “il Nižinskij indiano”. Nižinskij, a sua volta, incarnò il dio indiano Krishna in Le Dieu bleu al Théatre du Châtelet di Parigi il 13 maggio 1912. La spiritualità di Nijinskij era però ben diversa da quella indiana, e anche se affine alla cultura religiosa russa dell’esicasmo e del tolstoismo, era radicata nella personale sensibilità del danzatore, nelle sue aspirazioni artistiche e nei suoi conflitti interiori, espressi successivamente nei Diari quando l’artista aveva cominciato a soffrire di schizofrenia. Attraverso il movimento delle immagini realizzate da Ilaria D’Agostino, artista visiva diplomata all’Accademia di Brera, essenziali e significativi oggetti scenici, la tenuta del palcoscenico, il ritmo e il tono della voce, il racconto senza perdere di scientificità diventa una lettura performata che aiuta lo spettatore a entrare nel mondo intimo del grande Vaclav, svelandone particolari momenti di vita ed esaltando la dimensione immateriale della sua arte. Uno spettacolo di buon auspicio per la rinascita del Nuovo Teatro Ateneo, che fino al 19 dicembre ospiterà spettacoli di prosa e danza, artisti di rilievo nazionale e internazionale, laboratori didattici e progetti di Terza Missione. Per coniugare la riflessione teorica alla necessaria visione e sperimentazione.

Categorie: Musica corale

Roma, RomaEuropa Festival 2024: ” Close Up” al Teatro Argentina

Dom, 20/10/2024 - 17:14

RomaEuropa Festival 2024
“CLOSE UP”
Ideazione e coreografia Noé Soulier
Interpreti Julie Charbonnier, Nangaline Gomis, Yumiko Funaya, Samuel Planas, Mélisande Tonolo, Gal Zusmanovich
Musiche Brani dall’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach ed estratto dalla Sonata n. 2 per violone solo
Musicisti Ensemble Il Convito (Maude Gratton, clavicembalo e direzione artistica; Amelie Michel, traverso; Sophie Gent, violino; Claire Gratton, viola da gamba; Ageet Zweistra, violoncello)
Scenografia Noé Soulier, Kelig le Bars, Pierre Martin Oriol
Luci Kelig Le Bars
Direzione luci Nicolas Bazoge
Video Noé Soulier, Pierre Martin Oriol
Ingegneria del suono Pierre Durand
Produzione Cndc-Angers
Coproduzione il Convito, Théâtre de la Ville (Parigi), Angers Nantes Opéra, Romaeuropa Festival, Espaces Pluriels Scène conventionnée danse (Pau), Theater Freiburg, Arsenal Cité musicale de Metz, Maison de la danse Pôle européen de création (Lyon), Théâtre Auditorium de Poitiers, Chaillot Théâtre national de la danse (Paris)
Con il sostegno di OARA (programma di residenza), Villa Albertine e Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
Prima Nazionale
Roma, Teatro Argentina, 16 ottobre 2024
Un nuovo lavoro dedicato a Bach e alla rimediazione in danza dei concetti di polifonia e contrappunto lo si potrebbe definire Close Up di Noé Soulier, presentato al Teatro Argentina in prima nazionale il 16 ottobre scorso in occasione del Romaeuropa Festival (coproduttore dello spettacolo). Da anni l’attività coreografica di Soulier si incentra sui gesti d’azione improntanti alle funzioni di “frapper, éviter, lancer, attraper”. Il coreografo, depositario delle sperimentazioni succedutesi da Cunningham a Forsythe, intende allontanarsi dalla pura narratività per dedicarsi all’analisi del linguaggio del corpo, rifuggendo però allo stesso tempo anche dalla completa astrazione. I gesti sono quindi concreti, ispirati da pulsioni primarie, ed ancorati a una certa aggressività. L’interprete rintraccia le motivazioni del proprio movimento nel confronto quasi bellicoso con gli altri. Si tratta in realtà di un contrappunto in danza, che nella sua espressività ridona slancio alla musica barocca di Johann Sebastian Bach. La cerebralità del pensiero strutturale si coniuga a una gustosa corposità, è questo il comune denominatore tra la musica e la danza. A un impulso piuttosto energico segue una fase di rilascio più morbida, i passi danzanti hanno un loro ritmo ed una loro intensità segnalata dal respiro. Oltre al dialogo con la musica, si esplora qui anche il binomio danza-nuove tecnologie. Il titolo Close Up rimanda alla tecnica cinematografica del primo piano. Ad essere messi in rilievo sono le singole parti del corpo e la loro partitura gestuale: una rotazione delle anche o una mano che stringe il polso dell’altro braccio. In questo momento a condurre il gioco è il rapporto del danzatore con la telecamera, una relazione gestita dal vivo nel corso dello spettacolo, e dunque con un alto livello di agency. Diverso è il discorso per lo spettatore, che nella prima parte dello spettacolo può tentare un’interpretazione e un punto di vista più personali, e nella seconda parte dello spettacolo è maggiormente guidato “dall’alto”. Un confronto dunque contrappuntistico anche con l’audience dello spettacolo, che dalla riflessione analitica si spinge però verso un appagamento più propriamente estetico, anche in questo caso con una tensione baroccheggiante. Va detto che il lavoro di Noé Soulier, direttore del Centre National de danse contemporaine di Angers, istituzione francese che riunisce la produzione coreografica al lavoro didattico-educativo, nasce questa volta dall’intreccio con l’ensemble musicale Il Convito, spazio creativo fondato nel 2015 su base cameristica attorno al clavicembalo, al pianoforte e all’organo di Maude Gratton, la musicista francese direttrice dell’ensemble. Tale centro si dedica per l’appunto a progetti artistici destinati a fondere musica, arte e storia. Il repertorio barocco è investigato dal gruppo in connessione con le tendenze artistiche contemporanee e coinvolgendo forme di spettacolo molto diverse tra loro, tra cui la danza, le arti circensi, le arti visive. In questo senso, la dinamica coreografica di Noé Soulier, con la sua vicinanza alle arti marziali, si mostra perfettamente adatta alle esigenze di ricerca musicale e con molta probabilità darà vita ad altri progetti in comune. Per quanto riguarda RomaEuropa, si tratta di un successo confermato dopo numerose altre presenze (Mouvement sur mouvement, 2014; Removing, 2016; Passage, 2022). Inoltre, a livello di ricerca concettuale, lo spettacolo si rivela tra i più interessanti delle produzioni di danza viste quest’anno al Festival, superando finanche Sasha Waltz. Foto Delphine Perrin e Christophe Raynaud Delage

Categorie: Musica corale

Roma, Parco Archeologico del Colosseo: “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro” dal 25 ottobre 2024 al 02 marzo 2025

Dom, 20/10/2024 - 16:41

Roma, Parco Archeologico del Colosseo
Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro
La più antica struttura monumentale di culto mai scoperta in mostra al Colosseo, una finestra sul misterioso passato dell’umanità
Dal 25 ottobre 2024 al 2 marzo 2025 il Colosseo di Roma ospiterà una mostra unica: “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, con la curatela di Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Daniele Fortuna e Federica Rinaldi. La collaborazione con il Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Türkiye e l’Ambasciata di Türkiye a Roma porta un importante contributo a questo evento culturale, che sarà ospitato lungo il secondo livello dell’Anfiteatro Flavio, lungo il percorso di visita. La mostra intende presentare al pubblico italiano la straordinaria scoperta del sito archeologico di Göbeklitepe, situato vicino Şanlıurfa, in Turchia. Inserito nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 2018, Göbeklitepe risale tra il 9.500 a.C. e l’8.200 a.C., e rappresenta il più antico luogo monumentale di culto mai scoperto, capace di riscrivere la comprensione della storia umana durante il cruciale passaggio tra Paleolitico e Neolitico. Le strutture di Göbeklitepe, costituite da pilastri monolitici a forma di T decorati con rilievi animali e motivi astratti, suggeriscono un uso rituale di carattere religioso, molto prima della comparsa della scrittura, della metallurgia e della ceramica. Gli scavi archeologici, iniziati nel 1994 e oggi giunti al loro trentesimo anniversario, hanno portato alla luce solo una minima parte del sito, che comprende diversi complessi circolari di pilastri decorati. Secondo l’archeologo Klaus Schmidt, uno dei principali studiosi di Göbeklitepe, questo luogo potrebbe essere stato un centro di pellegrinaggio per comunità neolitiche, un’ipotesi che mette in discussione le teorie tradizionali sulla nascita della civiltà. Schmidt suggeriva infatti che il bisogno di luoghi di culto, come Göbeklitepe, abbia stimolato la sedentarizzazione e l’agricoltura, cambiando così il volto della storia umana. L’espressione “prima venne il tempio, poi la città” è divenuta un punto di riferimento per comprendere il ruolo delle pratiche religiose nella nascita delle prime comunità stanziali. I monumentali pilastri a forma di T di Göbeklitepe, molti dei quali decorati con rilievi di animali come serpenti, volpi, leoni e uccelli, rappresentano figure simboliche e potenti, probabilmente connesse a credenze religiose e mitologiche. Questi pilastri non mostrano facce umane, ma alcuni di essi sono scolpiti con braccia e cinture, suggerendo rappresentazioni antropomorfe. L’arte di Göbeklitepe si caratterizza per una raffinatezza sorprendente, considerando l’epoca di costruzione, con incisioni molto dettagliate che testimoniano un livello artistico e concettuale avanzato per una civiltà preistorica. La mostra al Colosseo è un’opportunità unica per esplorare da vicino uno dei luoghi più enigmatici della storia umana, capace di affascinare non solo per la sua antichità, ma anche per il mistero che ancora lo circonda. Come dimostrato dagli scavi e dalle teorie emergenti, Göbeklitepe sfida le nostre concezioni sulla nascita della religione e sulla costruzione delle prime strutture monumentali. Questo evento mira a creare un ponte culturale tra l’Italia e la Turchia, coinvolgendo il pubblico in una riflessione profonda sul significato del sacro nelle società antiche.

Categorie: Musica corale

Parma, Festival Verdi 2024: “Macbeth”

Dom, 20/10/2024 - 09:28

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
MACBETH”
Melodramma in quattro parti su libretto di Francesco Maria Piave, da Shakespeare. Traduzione in francese di Charles Louis, Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth ERNESTO PETTI
Lady Macbeth LIDIA FRIDMAN
Banquo MICHELE PERTUSI
Macduff LUCIANO GANCI
Malcolm DAVID ASTORGA
La Comtesse NATALIA GAVRILAN
Un Médecin ROCCO CAVALLUZZI
Un serviteur/Un sicaire/Premiere fantôme EUGENIO MARIA DEGIACOMI
Deuxième fantome AGATA PELOSI
Troisième fantome ALICE PELLEGRINI
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Pierre Audi
Scene Michele Taborelli
Costumi Robby Duiveman
Luci Jean Kalman, Marco Filibeck
Coreografie Pim Veulings
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 17 ottobre 2024
Il Macbeth in francese è quel che ci vuole per i palati sofisticati del pubblico da Festival: che finiscono tuttavia per ritrovarvi l’opera che già conoscevano, se non fosse quel dettaglio che è tutta in francese. Forse maggiore stupore desterebbe l’originale fiorentino del 1847 che si ascolterà a Busseto nella prossima edizione 2025 del Festival. Sì, perché il Macbeth cui siamo tutti abituati è il restyling del 1865: per Parigi, ma condotto tutto in italiano. Per i nuovi testi dei nuovi brani viene scomodato financo il prestigio intellettuale d’un Maffei (oggi magari lo diremmo Dramaturg), accanto al povero Piave di sempre e, sopra tutti, il povero Verdi: che ci prova a spiegare quel che vuole, ma poi La luce langue se la scrive da solo ché fa prima. E la traduzione? A Verdi, dimostra Giuseppe Martini nel programma di sala, interessava il giusto. L’elemento francese è semmai da ricercare allora nella sensibilità cromatica dell’orchestrazione: ad esempio dei favolosi balletti (pas d’action e non divertissements, prego). Ovvero il gusto tutto nordico e pervicacemente estraneo al romanticismo italiano (e non soltanto musicale) per il fantastico e il soprannaturale. Un carattere che era già del primo Macbeth fiorentino, con quella scena delle apparizioni che nel panorama teatrale italiano è un’autentica follia: sicché torni il Verdi a fare il patriota come si deve e lasci perdere siffatte fantasie. Oltre a lodevolmente spianare tutti i molti e irti ostacoli della lingua cantata, la magnifica direzione di Roberto Abbado sa cogliere, sottolineare, esaltare queste qualità d’oltralpe che appartengono, si diceva, alla più intima natura dell’opera. Nella volatile inconsistenza delle silfidi; nell’inquietante invenzione cromatica di una cornamusa immaginaria, fantastica e remota; nell’allucinata panoramica sulla desolazione che è l’introduzione del coro alla patria (in francese non più oppressa, ma noble-terre): ecco il Verdi visionario del suono. Del resto, l’edizione francese Roberto Abbado l’aveva tenuta a battesimo già nel 2020 in forma di concerto al Parco Ducale, e anche incisa per la Dynamic. Qui la riprende con un vassoio di voci che giustificherebbe una seconda incisione. Protagonista è l’irreprensibile dizione francese del salernitano Ernesto Petti, baritono verdiano per nascita. Chi scrive ricorda la folgorazione nell’Ernani kundiano di qualche anno fa: volume nerboruto e accento virile certificavano l’incontenibile esuberanza di un temperamento autentico. Non si parli di promesse: qui l’Artista è già maturo, padrone d’un canto sfumatissimo e pienamente consapevole. Il timbro si caratterizza per una ruvida, insolita granulosità, che lo rende personalissimo e immediatamente riconoscibile: e assolutamente perfetto per un villain di questa caratura. Lidia Fridman è una Lady dalle tinte cupe, che sfodera insospettabili spessore e consistenza nel registro grave, mantenendo sempre bellissimo, tondo e smaltato il suono. Una Lady senza macchia, forse, ma impeccabile e fascinosa nella sua tetraggine: tanto da rimandare il pensiero, scusate se è troppo, all’arbasiniana “upupa leggendaria”. Terzo protagonista è il coro delle streghe, che fa benissimo, e non da meno è l’arduo coro dei sicari: il merito è sempre del Coro del Teatro Regio e del suo Maestro Martino Faggiani. Michele Pertusi gioca in casa con quella pastosità di struggevole morbidezza che suggerisce al verdiano autoctono sempre nuovi paragoni con la gastronomia locale: una garanzia di valore musicale e piacere d’ascolto. Luciano Ganci dimostra di saper all’occorrenza ammantare di pena lo squillantissimo brillìo della sua voce solare, aperta, schietta. Molto degnamente completano il cast il Malcolm ben timbrato di David Astorga, il Médecin elegantissimo di Rocco Cavalluzzi e la Dama promossa Comtesse dal volume invero impressionante di Natalia Gavrilan. L’allestimento manieratissimo di Pierre Audi compendia il vocabolario più classico, ma anche più usurato, del cosiddetto teatro di regia: è piuttosto chiaro, ma risulta fatale a quell’affare sporco e imperfetto che è il teatro. Nelle scene di Michele Taborelli e nei costumi di Robby Duiveman, in ossequio all’impianto registico, la sobrietà dialoga con la modestia. Forse c’è più Shakespeare (leggi: teatro di parola) che Verdi, ma sicuramente non c’è Parigi. Foto Roberto Ricci

Categorie: Musica corale

Le cantate di Johann Sebastian Bach: Ventunesima Domenica dopo la Trinità

Dom, 20/10/2024 - 00:52

La seconda delle quattro Cantate bachiane previste per la ventunesima Domenica dopo la Trinità è Aus tiefer Not schrei ich zu Dir BWV 38 (che corrisponde al “De profundis” ) eseguita la prima volta a Lipsia il 29 ottobre 1729. L’opera riprende un modello stilistico già applicato all’inizio di questa seconda annata, nella cantata BWV 2, ossia lo stile a cappella con raddoppio strumentale, sostenuto anche da quattro tromboni, secondo i principi dell’Antico mottetto alla maniera di Pachelbel su “cantus firmus”, qui  affidato alle voci di soprano.  L’antica melodia del Corale di Johann Walter sulla parafrasi del Salmo 130 ad opera di Martin Lutero, sarà oggetto di un’altra elaborazione polifonica grandiosa e solenne per organo affidata all’organo (BWV 686). Il carattere drammatico di questa Cantata è strettamente legato ai sentimenti di supplica ardente  del testo luterano e del Salmo 130. Anche in quest’opera la melodia compare all’interno  della composizione ma in un modo del tutto anomalo e sorprendente. Il recitativo “a battuta” (come indica la partitura) del soprano (Nr.4) impone alla voce di reggersi su un pericoloso bilico tonale, su una base armonica predeterminata in cui è impressa la melodia di Walter affidata al Basso Continuo. La pagina seguente (Nr.5), un terzetto (ne esistono solo 3 nella produzione bachiana)) in forma bipartita con le 2 sezioni di pari lunghezza (62 battute) sebbene con un testo l’una di 4 e l’altra di 2 versetti. La condotta è ad imitazione, con 2 diversi temi tra le 2 parti, ma un medesimo disegno nell’accompagnamento che è impostato quasi nello stile di una “Passacaglia” con una scansione del passo “ostinato” di 2 in 2 battute.
Nr.1 – Coro
Dal profondo della mia angoscia a te grido,
Signore Dio, ascolta la mia voce;
porgimi il tuo orecchio misericordioso
ed aprilo alla mia preghiera!
Poiché se tu volessi guardare
a tutti i peccati ed i torti commessi,
chi potrebbe stare davanti a te, Signore?
Nr. 2 – Recitativo (Contralto)
Solo la grazia di Gesù
è per noi conforto e perdono, poiché
a causa degli inganni e delle astuzie di Satana
l’intera vita dell’uomo
è un abominevole peccato di fronte a Dio.
Ora chi potrà donare alle nostre preghiere
la gioia spirituale se la parola
e lo spirito di Gesù non compiono nuovi miracoli?
Nr.3 – Aria (Tenore)
Nel mezzo della sofferenza, ascolto
una parola di conforto pronunciata dal mio Gesù.
Per questo, anima angosciata,
fidati della bontà del tuo Dio,
la sua Parola resta salda e non viene meno,
la sua consolazione non ti abbandonerà mai!
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
Ah! La mia fede è ancora debole
e ciò in cui credo si fonda
su un terreno paludoso!
Spesso nuovi miracoli devono
risvegliare il mio cuore!
Come? Non conosci il tuo Salvatore, a cui
basta pronunciare una sola parola consolatrice,
affinchè arrivi subito,
prima che la tua debolezza lo percepisca,
l’ora della redenzione.
Affidati solo alla mano dell’Onnipotente
ed alla verità della sua parola!
Nr.5 –  Aria/ Terzetto (Soprano, Contralto, Basso)
Ah! La mia fede è ancora debole
e ciò in cui credo si fonda
su un terreno paludoso!
Spesso nuovi miracoli devono
risvegliare il mio cuore!
Come? Non conosci il tuo Salvatore, a cui
basta pronunciare una sola parola consolatrice,
affinchè arrivi subito,
prima che la tua debolezza lo percepisca,
l’ora della redenzione.
Affidati solo alla mano dell’Onnipotente
ed alla verità della sua parola!
Nr.6 – Corale
Per quanto numerosi siano i nostri peccati,
la misericordia di Dio è più grande;
la sua mano dà aiuto senza limiti
per quanto grande sia l’errore.
Lui solo è il buon pastore
che libererà Israele
da tutte le sue colpe.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Aus tiefer Not schrei ich zu Dir” BWV 38

 

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: Jules Massenet: “Manon” (cast alternativo)

Sab, 19/10/2024 - 11:36

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON” 
Opera in cinque atti e sei quadri su libretto di di Henri Meilhac e Philippe Gille
Musica di Jules Massenet
Manon Lescaut MARTINA RUSSOMANNO
Il cavaliere Des Grieux ANDREI DANILOV
Il conte Des Grieux/ L’Oste UGO RABEC
Lescaut RAMIRO MATURANA
Guillot de Montfortaine THOMAS MORRIS
Monsieur de Brétigny ALLEN BOXER
Poussette OLIVIA DORAY
Javotte MARIE KARININE
Rosette LILIA ISTRATII
Una guardia ALEJANDRO ESCOBAR
Un’altra guardia LEOPOLDO LO SCIUTO
Un mercante ROBERTO MIANI
M De Chansons FRANCO RIZZO
M De Elixir GIOVANNI CASTAGLIUOLO
Cuciniere ANDREA GOGLIO
Una commerciante JUNGHYE LEE
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Evelino Pidò
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Movimenti coreografici Tiziana Colombo
Torino, Teatro Regio, 16 ottobre 2024
Manon quintessenza di un eterno femminino francese affascinante e terribile, leggerissimo e tragico, paradigma di un modello di femme fatale – così’ diverso da quelli concepiti da altre culture europee – capace di segnare in modo imprescindibile l’idea stessa di femminilità in Francia. Questa eternità di Manon è il centro della trilogia di Arnaud Bernard in scena al Regio di Torino di cui Manon ciclicamente rivive nell’immaginario francese rivisto attraverso il cinema, il grande occhio indagatore che nel Novecento ha sostituito il melodramma come specchio di una società e delle sue pulsioni.
Ed ecco che Manon si reincarna in Brigitte Bardot che di quell’ideale femminile è la più iconica delle incarnazioni moderne. Lo spettacolo ha come filo conduttore il film “La Vérité” di Henri-Georges Clouzot (1961) centrato sul processo di una ragazza incantevolmente criminale. La vicenda ha più di un punto in contatto con la storia di Manon e il regista riesce a equilibrare i due piani con grande efficacia. Le sequenze cinematografiche che aprono ciascun quadro sono scelte con cura per ricordare al massimo grado le vicende dell’opera e questa diventa citazione diretta, tableaux vivant della pellicola. L’impianto scenico è diviso in due piani, in alto – incombente su tutto – la tribuna dei giudici chiamati a condannare Dominique-Manon mentre in basso si svolge la vita perennemente osservata. La scelta impone qualche piccola forzatura per far coincidere maggiormente film e opera ma nel complesso queste s’inseriscono con coerenza nella vicenda – Manon disperata spara a Guillot e poi muore suicida in carcere, piccoli aggiustamenti che contribuiscono a dare coerenza con l’ambientazione scelta. L’impianto scenico e i costumi riprendono direttamente quelli del film o quando se ne distaccano – Cours de la Reine, Saint Sulpice – si rifanno egualmente a quell’immaginario estetico. Particolarmente riuscito la scena di Cours de la Reine palcoscenico in cui si esibisce il meglio della haute couture francese nella sua stagione più luminosa e in cui Manon si muove elegantissima ma spenta, la sola a comprendere il vuoto dietro a tanto splendore. Inutile dire che gli abiti sono elegantissimi e tutti giocati su nuance di bianco, nero e grigio a dare il colore più autentico di quella cinematografia. Curatissima la recitazione sia dei solisti sia del coro veramente cinematografica nella capacità di muoversi sul palco.
Un senso narrativo che caratterizza anche la direzione di Evelino Pidò che rifugge da languidi estetismi per centrare invece la propria attenzione sulla coerenza narrativa e teatrale dello spettacolo. Molto attento alla concertazione e al sostegno del canto Pidò offre dell’opera di Massenet una lettura rigorosa e moderata, evita di cadere nella trappola del facile sentimentalismo così come in quella del preziosismo fine a se stesso. Non rinuncia al lirismo ma riesce a non farlo diventare stucchevole calandolo in un sincero intimismo degli affetti. Predilige sonorità leggere e un andamento brillante ma mai eccessivo in cui il dramma palpita sotto l’apparente leggerezza quasi danzante con cui è affrontata la partitura. L’opera è eseguita integralmente con l’intero quadro dell’’Hotel de Transylvanie spesso omesso. Molto buona la prova dell’orchestra e superlativa quella del coro, sempre più una certezza di qualità musicale e scenica.
Compagnia composta in gran parte da giovani capaci, al netto di qualche incertezza vocale, di trasmettere tutta la freschezza di quest’opera. Già apprezzata come Eudoxie lo scorso anno Martina Russomanno conferma in un ruolo ben più ampio e complesso tutte le buone impressioni avute. Voce davvero molto bella di soprano coloratura dal timbro luminoso e perlaceo, ricca di armonici e compatta su tutta la gamma, facilissima nell’emissione e nel legato. La parte è vocalmente retta con sicurezza impeccabile e notevole intensità. Pur molto giovane la Russomanno si mostra già interprete matura e consapevole, fraseggia con intelligenza e tratteggia sia sul piano dell’accento sia su quello attoriale un personaggio perfettamente centrato. La bellissima figura è perfetta per Manon è per quanto molto diversa come tipologia femminile dalla Bardot ne indossa gli abiti con naturalezza e innegabile fascino seduttivo.
Des Grieux è Andrei Danilov giovane tenore russo dal materiale interessante anche se un po’ grezzo. Il timbro è bello è luminoso, ideale per la parte, gli acuti sono facili e sicuri, buona quadratura complessiva. Manca però ancora un po’ di eleganza; il canto è un po’ prosaico mancano quelle mezze voci e quelle sfumature che il personaggio vorrebbe e anche l’interprete è ancora un po’ scolastico. Scenicamente minuto tende a farsi quasi sovrastare dall’alta statura della Russomanno.
Ramiro Maturana è un Lescaut irruente e forse un po’ grezzo ma pienamente calato nel taglio che il ruolo ha nello spettacolo. Hugo Rabec ha una voce solida e una nobile linea di canto nei panni del Conte des Grieux cui affianca la parte dell’oste. Davvero molto bravo Thomas Morris come Guillot de Monfortaine. Voce particolare e forse non bellissima ma interprete di rara sensibilità capace di trasmettere tutta l’untuosa ipocrisia del personaggio. Ben cantato ma un po’ anonimo interpretativamente il Brétigny di Allen Boxer.  Ben centrato il terzetto femminile composto da Olivia Doray (Poussette), Marie Kalinine (Javotte), Lilia Istratili (Rosette) e pienamente funzionali tutte le numerose parti di fianco.
Le foto si riferiscono alle recite con la compagnia principale.

Categorie: Musica corale

Louise Bertin (1805 – 1877): “Fausto” (1831)

Sab, 19/10/2024 - 10:01

Opera semiseria in quattro atti su libretto di Louise Bertin. Karine Deshayes (Fausto), Karina Gauvin (Margarita), Ante Jerkunica (Mefistofele), Nico Darmanin (Valentino), Marie Gautrot (Catarina), Diana Axentii (Strega /Marta), Thibault de Damas (Wagner /Banditore). Les Talens Lyriques, Flemish Radio Choir, Thomas Tacquet (maestro del coro), Christophe Rousset (direttore). Registrazione:  La Seine musicale, Parigi, 15-18 giugno 2023 2 Cd Fondazione Palazzetto Bru Zane – Opéra français 38.
Le donne hanno giocato un ruolo non secondario ai primordi dell’opera – si pensi a Francesca Caccini –ma è innegabile che il loro spazio si è via via sempre più ristretto per raggiungere forse il suo minimo nel XIX secolo quando con l’emergere della cultura borghese il ruolo femminile nell’arte è quasi annullato.
Louise Bertin è un caso emblematico di un talento la cui carriera è stata stroncata dal pregiudizio. A differenza di molte altre ragazze Louise non ebbe opposizioni famigliari alla sua carriera. Il padre Louis-François Bertin figura di spicco del giornalismo francese del tempo, tra le firme più autorevoli del “Journal des débats”, fu sempre al fianco della figlia e l’ambiente domestico quanto mai stimolante – si pensi alla frequentazione dei Bertin con Berlioz.
Il “Fausto” andato in scena nel 1831 fu però oggetto di stroncature se non di autentici sberleffi da parte della stampa specializzata. Il soggetto fu ritenuto inadatto alla “gentilezza dell’immaginazione di una donna” e addirittura accusata di avere un talento che “non ha nulla di femminile” come se questo fosse una nota di demerito. L’opera non riuscì a superare una sola recita e a lungo la stessa partitura è stata ritenuta perduta e solo di recente il manoscritto è stato ritrovato presso la Bibliotèque National.
Il clima contro la Bertin non mutò negli anni seguenti, il debutto all’Opéra nel 1836 con “La Esmeralda” (con libretto scritto personalmente da Victor Hugo) fu oggetto di accuse di nepotismo spingendo la musicista poco più che trentenne ad abbandonare il palcoscenico.
La riscoperta della partitura autografa del “Fausto” e la seguente incisione dell’opera permettono finalmente di dare alla Bertin tutti i suoi meriti. Alle prese con il titanico soggetto del “Faust” di Goethe non si mostra intimorita e lo affronta con taglio originale e molto personale. Coltissima nonostante la giovane età – nel 1831 aveva solo venticinque anni – scrive personalmente il libretto – in italiano – recuperando alcune scene solitamente ignorate del dramma goethiano – come l’antro della strega in cui Faust viene ringiovanito – e modificando l’insieme in una visione molto coerente. Tolto il citato episodio questa versione espunge tutta la componente soprannaturale per concentrarsi nel travaglio intimo di Margarita. Centrale nella visione della Bertin è il tema dell’ostracismo sociale di cui la ragazza e vittima. Particolarmente efficacie la scena della chiesa dove il contrasto non è con lo spirito dannato/Mefistofele ma con i pettegolezzi delle donne del paese, il senso di un male che non procede da colui che ne sarebbe il naturale depositario ma da chi sentendosi nel giusto implacabilmente condanna coloro che sono usciti dal perbenismo dominante.
La musica mostra una cultura profonda e uno studio approfondito e se qualche manierismo si nota è più che giustificabile considerando età e inesperienza della compositrice. La destinazione dell’opera per il Théâtre-Italien mette ovviamente in evidenza i richiami alla stagione del belcanto italiano riconoscibili nella vocalità non scevra da passaggi virtuosistici, nella scelta di una protagonista en travesti per il ruolo di Faust, nell’uso seppur non rigoroso ei modelli formali del genere. Si ascolti al riguardo la bell’aria tripartita di Faust nel IV atto, perfettamente organizzata secondo la “solita forma” italiana. Questi modelli non sono però i soli. Mozart aleggia come uno spirito guida sulla partitura, emerge in alcuni momenti e in alcune figure – Mefistofele sembra spesso ondeggiare vocalmente e interpretativamente tra Don Giovanni e Leporello – e nell’uso fortemente espressivo dei recitativi. Si riconoscono una sensibilità romantica non aliena dalla conoscenza di Weber, gli sperimentalismi dell’amico Berlioz, qualche eco di Meyerbeer – si consideri che “Robert le diable” precede solo di qualche mese la prima del “Fausto”.
La riuscita dell’operazione molto deve alla direzione di Christophe Rousset che profondamente crede in questa partitura e riesce a farla splendere al miglior grado. Con la sensibilità sviluppata in un’ultra decennale esperienza di esecuzioni filologiche legge il repertorio ottocentesco con lo stesso rigore e la stessa freschezza delle sue esecuzioni barocche. Letture pulitissime, nitida e rigorosa capace di evidenziare la ricchezza che si cela sotto l’apparente semplicità della scrittura. Si apprezzano le sonorità terse e luminose, l’agogica marcata ma mai eccessiva, la cura di un’espressività intensa ma mai eccessivamente melodrammatica. Strumento perfettamente costruito sulla sua sensibilità musicale Les Talens lyriques non possono che adagiarsi come seta preziosa sulla lettura direttoriale così come sempre la prova del Flemish Radio Choir, assoluta certezza nel repertorio francese dall’età barocca al primo romanticismo.
Ottimamente assortita la compagnia di canto con una particolare menzione per la qualità della dizione, veramente ammirevole tanto più in presenza di interpreti non di madrelingua italiana. Karine Deshayes è un Fausto dal bel timbro e dall’impeccabile musicalità. Vocalmente sicura su tutta la gamma canta supera tutte le difficoltà della parte – che spesso si concede squarci belcantisti – senza mai perderne di vista il tono elegantemente appassionato. La cavatina dove leggerezza e volontà di morte si fondono alla perfezione e la grande scena del IV atto sono i momenti di maggior impatto ma non si può non ammirare il lirismo quasi belliniano dei duetti con Margareta. Quest’ultima è una Karina Gauvin che unisce temperamento al calor bianco e souplesse da autentica belcantista con cui affronta una tessitura assai ampia non certo agevole. La scena della chiesa colpisce per l’intensità dell’accento.
Il croato Ante Jerkunica è un Mefistofele assai ben cantato e interpretativamente molto efficacie nel cogliere un malvagio dal carattere ironico e sornione, capace di nascondere la malvagità sotto un tono bonario e amichevole ancor più pericoloso. Nico Darmanin, giovane tenore maltese apprezzato come Almaviva a Torino, è un Valentino dallo squillo facile e sicuro rendendo giustizia a una parte scomoda e alquanto ingrata. Complessivamente valide le parti di contorno.

Categorie: Musica corale

Taranto, Giovanni Paisiello Festival 2024: “Lo spettro errante”

Sab, 19/10/2024 - 09:14

Taranto, Teatro Fusco, Giovanni Paisiello Festival 2024
“LO SPETTRO ERRANTE”
Azione comica in due atti su libretto di Mattia Verazi
Musica di Giovanni Paisiello
Donna Costanza MARTINA TRAGNI
Donna Leonora, SARA INTAGLIATA
Don Gonzalo MANUEL CAPUTO
Don Alonso GIANPIERO DELLE GRAZIE
Diego MARCO SACCARDIN
Orchestra del Conservatorio Paisiello di Taranto
Direttore Domenico Virgili
Regia e scene Piero Mastronardi
Costumi Flavia Tomassi
Disegno luci Lucio Stramaglia
Taranto, 17 ottobre 2024
Il Giovanni Paisiello Festival di Taranto, dopo aver proposto due oratori (Faraone sommerso di Nicola Fago e La fede trionfante di Donato Ricchezza) chiude la XXII edizione con l’allestimento dell’azione comica in due atti e cinque voci Lo spettro errante di Paisiello (1776), un pasticcio su musiche della Frascatana (1774) e delle Due contesse (1776) scritto ex novo dal librettista Mattia Verazi per la corte bavarese di Carl Theodor (fu l’unica occasione in cui risuonarono le musiche paisielliane in quella Mannheim resa celebre dalla compagine orchestrale cui si deve la nascita della sinfonia moderna). La trama di quest’opera buffa mista di elementi sentimentali e orrifici è presto detta: Don Alonso è invaghito della giovane Costanza e vorrebbe impalmarla contravvenendo alla promessa di sposare Leonora fatta alla defunta moglie, Matilde, in punto di morte. Il factotum Diego (una sorta di Figaro) insieme a Gonzalo (innamorato, ricambiato, di Costanza) architetta l’apparizione del finto spettro di Matilde (a travestirsi sarà una cameriera) e il terrore spingerà Alonso a unirsi a Leonora, concedendo poi le nozze di Costanza con Gonzalo. La linearità della trama e la qualità del nuovo libretto di Verazi aiutano ancora oggi il pubblico a seguire una storia che le splendide musiche di Paisiello rendono spassosa e patetica al tempo stesso in virtù di una mescolanza di stili che era il punto forte della melodrammaturgia del maestro tarantino. Non facile per il regista Piero Mastronardi rendere questo continuo trascolorare sentimentale ma la piena riuscita è stata assicurata da una raffinata rarefazione degli elementi scenici (della casa di Alonso restano le sagome bianche di finestre, tetto e pareti) che hanno permesso un movimento degli attori sempre dinamico (per le scene all’aperto lo spazio scenico si è esteso alla platea dove i cantanti si muovevano con torce in pieno stile X-Files). La regia di Mastronardi (curatore anche delle scene) ha saputo accelerare e dilatare il ritmo dell’azione assecondando i tempi della musica con rara sintonia rimarcando con l’uso del fumo di scena e di LED i momenti orrifici delle apparizioni dei finti fantasmi e dello spettro (omaggiando l’immaginario visivo di Tim Burton senza però scadere in facili citazionismi). A dir poco virtuoso il continuo gioco di luci curato da Lucio Stramaglia, perfettamente coordinato con i cambi di tempo musicali e in rapporto dialettico con i colori sgargianti dei costumi, davvero splendidi nella loro reinvenzione di singoli elementi barocchi (dalle parrucche alle gorgiere) e curati nei minimi dettagli sartoriali da Flavia Tomassi. Ottimo il cast a partire dal Don Alonso di Gianpiero Delle Grazie, un bass-baryton di grana pastosa e colore brunito, perfetta dizione recitativa e presenza scenica ineccepibile. Martina Tragni ha interpretato la parte di Costanza (nel 1776 affidata a Franziska Danzi LeBrun) svettando con preziosi filati e agilità, dominando con ottima proiezione tutte le gamme del registro richieste dalla linea vocale. Uguale bravura si è ritrovata nella Leonora di Sara Intagliata, distintasi per pregnanza scenica e intensità attoriale. Limpido lo squillo del tenore Manuel Caputo (Don Gonzalo) capace di dar vita a un personaggio sfaccettato, languido e smargiasso al tempo stesso e quindi alla prova con agilità e pezzi di grande vivacità ritmica. Raffinato il Diego di Marco Saccardin, un baritono dal timbro penetrante e scuro, che è anche continuista e liutista (e infatti ha improvvisato una serenata sul liuto dedicata alla servetta destinata a travestirsi da spettro). La giovanissima orchestra del conservatorio Paisiello di Taranto guidata dal suo docente Domenico Virgili (sua la fuga a tre parti, nello stile del Pulcinella di Stravinskij, scritta per coprire i tempi di un cambio di scena) è riuscita a vivere una prima esperienza di collaborazione con il mondo del melodramma con grande entusiasmo e freschezza, supportata dall’ottimo sostegno al cembalo di Fabio Anti. Felice il numeroso pubblico tarantino di aver assistito a questa chicca settecentesca in prima assoluta.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “Bidibibodibiboo”

Ven, 18/10/2024 - 23:59

Roma, Sala Umberto
BIDIBIBODIBIBOO
con Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi 
aiuto regia Ermelinda Nasuto
scene Alessandro Ratti
luci Daniele Passeri
tecnica Fabio Clemente, Eva Bruno
si ringraziano Alessandra Ventrella, Davide Sinigaglia e Ileana Frontini
una coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione , CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa 
con il sostegno di La Corte Ospitale
Testo creato nel corso dell’Ecole des Maîtres 2020/21 diretta da Davide Carnevali. Finalista alla 56° edizione del Premio Riccione per il Teatro.
Drammaturgia e Regia Francesco Alberici
Roma, 15 Ottobre 2024
La Sala Umberto si accende di umorismo nero e delicatezza con Bidibibodibiboo, un’opera di notevole impatto emotivo e di elevato valore drammaturgico. Il testo e la regia portano la firma di Francesco Alberici, figura di spicco per la sua ironia tagliente e per la capacità di mettere in scena, con uno sguardo lucido e impietoso, la cruda realtà del mondo del lavoro contemporaneo. Alberici, vincitore del Premio Ubu 2021 come Miglior attore/performer under 35 e protagonista della serie web Educazione Cinica, si conferma una delle voci più autorevoli e affilate del panorama teatrale italiano. Con una combinazione di grande tenerezza e dissacrante ironia, Bidibibodibiboo, richiama ironicamente una formula magica, quasi a suggerire la speranza ingenua di poter risolvere magicamente le difficoltà e le ingiustizie del mondo del lavoro, contrastando così il clima di alienazione e impotenza che il protagonista si trova a vivere ed esplorando le scelte, le rinunce, i sogni e le paure di una generazione alle prese con un mondo del lavoro spietato e alienante. La trama si concentra sulla figura di un giovane impiegato assunto a tempo indeterminato in una grande azienda, che ben presto si ritrova intrappolato in una spirale persecutoria, vittima di un superiore che lo sospinge verso il baratro della disperazione. Attraverso una narrazione essenziale ma incredibilmente penetrante, il pubblico è trascinato nel tormento, nell’angoscia e, infine, nella liberazione del protagonista, in un crescendo di tensione emotiva che non lascia spazio a compromessi. La messa in scena, realizzata in coproduzione con SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, CSS Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano e il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, è un perfetto equilibrio tra testo, regia e scenografia. Le scene, curate da Alessandro Ratti, riescono a dare forma al clima claustrofobico dell’ufficio, attraverso un uso minimalista degli spazi che amplifica il senso di alienazione del protagonista. Gli ambienti spogli e quasi spersonalizzati accentuano la sensazione di trovarsi in un luogo dove l’individuo è destinato a perdere la propria identità, sommerso da una gerarchia anonima e opprimente. Questa scelta scenografica evoca soluzioni adottate nel teatro di Pinter o nel teatro dell’assurdo, dove la scena minimale diventa funzionale a sottolineare l’estraneità e la vulnerabilità dei personaggi. Le luci disegnate da Daniele Passeri sono parte integrante del linguaggio scenico, contribuendo a sottolineare le emozioni dei personaggi e alternando momenti di opprimente oscurità a lampi di luce abbagliante, quasi a voler rappresentare gli attacchi e i momenti di consapevolezza del protagonista. Il disegno luci si fa così dispositivo drammaturgico, amplificando la narrazione e rendendo palpabile la tensione emotiva. Questo uso sapiente delle luci è riconducibile a pratiche consolidate del teatro contemporaneo, dove il linguaggio visivo è impiegato per enfatizzare i conflitti interiori, come nelle produzioni di Robert Wilson, in cui l’illuminazione è fondamentale per la costruzione dell’atmosfera e della psicologia dei personaggi. Il lavoro tecnico è stato affidato a Fabio Clemente ed Eva Bruno, che hanno saputo valorizzare ogni sfumatura della messa in scena, trasformando ciascun elemento scenografico in un autentico supporto narrativo. La recitazione del cast, composto da Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi e Daniele Turconi, si distingue per la capacità di rendere con grande verosimiglianza la tensione e l’alienazione che pervadono la vita lavorativa del protagonista. Gli attori dosano sapientemente i toni dell’ironia e quelli della tragedia, creando un equilibrio che contribuisce alla profondità del messaggio dello spettacolo. Le interpretazioni si mantengono tutte di buon livello e mostrano un’attenzione particolare ai dettagli emotivi, offrendo una rappresentazione convincente della condizione di alienazione, non solo come dramma individuale, ma anche come riflesso di una condizione collettiva. Questo approccio rievoca il teatro di stampo brechtiano, in cui l’ensemble diventa strumento per rappresentare non solo il dramma del singolo, ma anche una problematica universale e condivisa. Il testo di Bidibibodibiboo è stato creato nel corso dell’Ecole des Maîtres 2020/21 diretta da Davide Carnevali ed è stato finalista alla 56a edizione del Premio Riccione per il Teatro. La giuria del Premio ha elogiato l’opera per la sua efficacia e per la composizione calibrata, capace di raccontare la discesa agli inferi del protagonista con asciutta verosimiglianza ed estrema potenza comunicativa. Alberici, con questo testo, offre un ritratto al vetriolo del mondo del lavoro moderno, dove la precarietà non è soltanto una condizione contrattuale, ma una ferita aperta nell’animo di un’intera generazione. Il pubblico ha accolto lo spettacolo con entusiasmo, tributando lunghi applausi agli attori e alla produzione, segno di un apprezzamento sincero per la qualità della rappresentazione. @photocreditFrancescoCapitani

Categorie: Musica corale

Venezia, Palazzetto Bru Zane: “Note su misura” per Aurélien Pascal e Josquin Otal

Ven, 18/10/2024 - 07:32

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Passione violoncello”, 21 settembre-24 ottobre 2024
NOTE SU MISURA”
Violoncello Aurélien Pascal
Pianoforte Josquin Otal
Louis Dumas: Lamento pour violoncelle et piano; Jean Huré: Sonate pour violoncelle et piano en fa dièse mineur; Charles Lecocq: Andante appassionato et Sérénade pour violoncelle et piano; Camille Chevillard: Sonate pour violoncelle et piano en si bémol majeur
Venezia, 15 ottobre 2024
Penultimo appuntamento, al Palazzetto Bru Zane, nell’ambito del ciclo di concerti dedicati dal Centre de Musique Romantique Française all’arte del violoncello. Il programma della serata – che ha visto la partecipazione di un folto pubblico –, comprendeva quattro brani – risalenti agli anni a cavallo tra Otto e Novecento –, dai quali, oltre al peculiare linguaggio dei singoli autori, traspare anche una cifra stilistica adeguata alla modalità interpretativa degli esecutori, per cui furono rispettivamente concepiti. Del resto, tutti i compositori in questione possedevano conoscenze specifiche della tecnica violoncellistica – allora in continua evoluzione –, sicché riuscirono a sfruttare appieno le capacità dello strumento. Se Camille Chevillard era figlio di un violoncellista, gli altri si confrontarono con virtuosi dello strumento per comporre pezzi all’altezza del loro talento. Non a caso, ogni partitura è dedicata ad un famoso strumentista: il Lamento di Dumas a Raymond Marthe (suo insegnante di violoncello al Conservatorio di Parigi), l’Andante appassionato e Serenata di Lecocq a Fernand Pollain, la Sonata di Huré a Pablo Casals. Di alto livello – come sempre – i giovani interpreti, che si sono, in generale, segnalati per l’energia e la pienezza di suono, con cui hanno affrontato i pezzi programmati, alcuni dei quali erano alquanto impegnativi. Senza particolari difficoltà tecniche, ma intensamente espressivo era il brano d’apertura, il Lamento per violoncello e pianoforte di Louis Dumas, nel quale Aurélien Pascal ha saputo evocare col suo violoncello un’atmosfera carica di mestizia, segnalandosi per la notevole finezza interpretativa e il delicato lavoro sulle sfumature, con il pieno sostegno del pianoforte di Josquin Otal. Lo si è colto nell’Andante doloroso iniziale, il cui tema principale, composto da coppie di battute discendenti, sembrava imitare lunghi singhiozzi, e – dopo una parentesi dal clima agitato, fondata sul ritmo ostinato di croma puntata-semicroma-semiminima – nella successiva sezione in cui riappare il tema principale, questa volta accompagnato da un tappeto di arpeggi in quintine e poi in sestine, ripreso, più in là, dal pianoforte, prima che il violoncello intonasse un’ultima volta, solennemente, la formula tematica, ormai ridotta a due battute. Un perfetto affiatamento si è apprezzato nella Sonata per violoncello e pianoforte di Jean Huré – in un solo movimento –, dove a un’estrema sobrietà si sono contrapposti slanci estatici: impeccabili i due strumentisti nel cimentarsi con la raffinata scrittura di questo brano, dalle linee melodiche sinuose, che evoca lo stile raveliano. Più tradizionale è risultato il linguaggio nel pezzo di Charles Lecocq, Andante appassionato e Serenata, in cui il compositore – all’apice della fama come autore di operette – dà un’eccellente saggio di perizia compositiva anche nel genere cameristico. In puro edonismo sonoro si è tradotta l’esecuzione da parte del duo Pascal-Otal, che ha saputo brillantemente misurarsi con questo pezzo dal virtuosismo mai ostentato: nell’Andate appassionato – dove una grande frase lirica si è dispiegata progressivamente prima di ritornare alla sua identità di partenza e sprofondare verso il registro grave – come nella Serenata, intesa in senso proprio, ovvero come una “dichiarazione” rivolta a una persona, accompagnata da un pianoforte che ondeggiava dolcemente. Particolarmente impegnativa – anche per l’ampia estensione, che all’epoca fece un certo scalpore – si è rivelata la Sonata per violoncello e pianoforte di Camille Chevillard, in cui gli esecutori hanno affrontato con esiti eccellenti la loro rispettiva parte, che affida loro, a turno, un ruolo di primo piano o una funzione di accompagnamento, apparendo, anche in questo caso, più impegnati nella ricerca dell’espressività che nello sfoggio di un virtuosismo dimostrativo. Scroscianti applausi alla fine. Un fuoriprogramma: il frenetico Papillon di Gabriel Fauré.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Peter Grimes”

Gio, 17/10/2024 - 23:59
Roma, Teatro dell’Opera di Roma Stagione 2023/2024
PETER GRIMES
Musica di Benjamin Britten
Opera in un prologo e tre atti
Libretto di Montagu Slater dal poema The Borough di George Crabbe
Peter Grimes ALLAN CLAYTON
Ellen Orford SOPHIE BEVAN
Capitan Balstrode SIMON KEENLYSIDE
Swallow CLIVE BAYLEY
Ned Keene JACQUES IMBRAILO
Auntie CATHERINE WYN-ROGERS
Mrs. Sedley CLARE PRESLAND
Bob Boles JOHN GRAHAM-HALL
First niece JENNIFER FRANCE
Second niece NATALIA LABOURDETTE
Rev. Horace Adams JAMES GILCHRIST
Hobson STEPHEN RICHARDSON
A fisherman DANIELE MASSIMI
Fisher-woman MICHELA NARDELLA
A lawyer LEONARDO TRINCIARELLI
Maestro del Coro Ciro Visco
Scene Michael Levine
Costumi Luis F. Carvalho
Luci Peter Mumford
Coreografia Kim Brandstrup
Video Justin Nardella
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 17 Ottobre 2024
Il nuovo allestimento di Peter Grimes, capolavoro di Benjamin Britten, riporta in scena una delle opere più intense del repertorio lirico, questa volta attraverso la visione registica di Deborah Warner. La coproduzione, realizzata insieme al Teatro Real di Madrid, l’Opéra national de Paris e il Teatro dell’Opera di Roma, è sostenuta dalla direzione musicale del Maestro Michele Mariotti, che riesce a evidenziare ogni sfumatura emotiva e orchestrale della partitura britteniana, guidando con sapienza l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Il pubblico italiano, sempre più legato alla musica di Britten, ha accolto con entusiasmo questo nuovo allestimento, fatto di contrasti e grande intensità narrativa, premiandolo con calorosi applausi durante la serata d’apertura. L’allestimento firmato da Deborah Warner approda al Costanzi dopo essere stato presentato a Madrid nel maggio 2021 e successivamente a Londra nel 2022. Ambientato in una città della costa sud-orientale dell’Inghilterra contemporanea, l’opera dipinge un paesaggio sociale fatto di degrado e impoverimento, dove ignoranza ed estremismo nazionalista sono il motore di una comunità spietata e vendicativa. Questo microcosmo soffocante si accanisce contro Peter Grimes, figura solitaria e controversa, riducendolo a capro espiatorio delle proprie frustrazioni. La Warner mantiene la vicenda universale nella sua forza comunicativa, dando forma a una storia di emarginazione e solitudine che attraversa il tempo, e riesce a caratterizzare ogni personaggio con una precisione meticolosa. Le scene di Michael Levine sono volutamente spoglie e cupe, in sintonia con il contesto desolato dell’ambientazione: pochi elementi scenografici – come cassette, reti da pescatore e rifiuti – evocano la decadenza di una città costiera. Sullo sfondo, un pannello dai colori neutri cambia di significato grazie alle luci suggestive di Peter Mumford, che ricreano l’immensità del mare, l’oscurità del cielo e il senso di minaccia incombente. Il prologo è dominato dall’immagine potente di una barca sospesa sopra Grimes, intrappolato in una rete e circondato da figure sinistre che impugnano torce, una rappresentazione simbolica dell’inquisizione cui viene sottoposto il protagonista. Il progressivo deteriorarsi della mente di Grimes è preannunciato dalla figura di un trapezista che si getta nel vuoto, come un presagio del tragico epilogo. La direzione di Michele Mariotti è impeccabile, capace di cogliere la complessità della musica di Britten, con i suoi richiami naturalistici e i momenti di struggente lirismo. L’orchestra si muove con precisione e intensità sotto la sua guida, regalando una straordinaria resa degli interludi marini, in particolare quello dedicato alla tempesta, che riesce a evocare con forza tutta la furia della natura e il tumulto interiore del protagonista. Allan Clayton, che aveva già vestito i panni di Peter Grimes nelle precedenti rappresentazioni, offre un’interpretazione di rara intensità. Il suo Grimes è un uomo segnato, tormentato dalle proprie colpe e dal rifiuto di una comunità ostile. Vocalmente, Clayton si rifà all’approccio originale di Peter Pears, restituendo un personaggio dalle sfumature delicate, capace di alternare momenti di grande potenza a passaggi di toccante fragilità. La sua interpretazione di “Now the Great Bear and Pleiades” è ricca di poesia e vulnerabilità, mentre nella scena della pazzia del terzo atto Clayton riesce a esprimere tutto il dolore e la disconnessione dalla realtà di un uomo ormai sull’orlo del baratro. Sophie Bevan (Ellen Orford) è convincente sia vocalmente che scenicamente: la sua voce limpida e ben proiettata riesce a esprimere tutta la compassione e la determinazione del personaggio, nonostante alcuni centri risultino occasionalmente scuriti. Simon Keenlyside offre una solida interpretazione del Capitano Balstrode, figura che rappresenta un barlume di umanità in un contesto altrimenti implacabile. Tra gli altri interpreti, Catherine Wyn-Rogers e Clare Presland risultano efficaci nei ruoli rispettivi di Auntie e Mrs Sedley, mentre John Graham-Hall è convincente come il fanatico Bob Boles. Ottima la resa del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato da Ciro Visco, che riesce a restituire tutta la tensione e la violenza emotiva della comunità, facendosi vero antagonista del protagonista. L’allestimento della Warner, sostenuto dalla potente direzione di Mariotti, conferma la capacità del Teatro dell’Opera di Roma di proporre produzioni di altissimo livello, capaci di emozionare e far riflettere. La storia di Peter Grimes, con la sua tragica umanità, continua a parlare al pubblico di oggi, ricordando quanto sia facile, ancora oggi, essere risucchiati dal giudizio di una società pronta a condannare ciò che non comprende. La serata si conclude con applausi scroscianti, segno del forte impatto emotivo di una rappresentazione che rimarrà a lungo nella memoria degli spettatori.
Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “1984” dal 22 ottobre al 03 novembre 2024

Gio, 17/10/2024 - 17:13

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
1984
di George Orwell
con Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri
adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan
traduzione Giancarlo Nicoletti
con Silvio LavianoBrunella PlataniaSalvatore Rancatore,
Tommaso PaolucciGianluigi RodriguesChiara Sacco
scene Alessandro Chiti
musiche Oragravity
costumi Paola Marchesin
disegno video Alessandro Papa
disegno luci Giuseppe Filipponio
regia Giancarlo Nicoletti
1984, o un anno di un futuro qualsiasi. Il mondo è diviso in tre superstati in guerra fra loro: Oceania, Eurasia ed Estasia. L’Oceania è governata dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa. I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio la Polizia Mentale che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta. Niente, apparentemente, è proibito. Tranne pensare. Tranne amare. Tranne divertirsi. Insomma: tranne vivere, se non secondo i dettami del Grande Fratello. Perfino i bambini sono diventati spie e così sono chiamati; la guerra è permanente, non importa contro quale nemico, e i teleschermi, insieme alle videocamere, controllano tutti. Winston Smith, un uomo comune che lavora al Ministero della Verità, è solo un ingranaggio del sistema che tiene un diario clandestino in cui annota i suoi ricordi, le sue verità e le sue domande più profonde. Anche se non c’è “amore tranne quello per il Grande Fratello, non c’è lealtà se non quella verso il Partito”, Winston si innamora di Julia, pur avendo paura che sia una spia pronta a consegnarlo alle torture del Grande Fratello. Nel disperato tentativo di vivere una vita normale, dovrà scoprire di chi e di cosa può fidarsi.

 

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Roma, Teatro India: “Riccardo III” dal 22 ottobre al 10 novembre 2024

Gio, 17/10/2024 - 17:05

Roma, Teatro India
RICCARDO III
22 ottobre – 10 novembre 2024
di William Shakespeare
progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
regia Luca Ariano
con Pietro Faiella, Roberto Baldassari, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser
Il Riccardo III di Luca Ariano è una scatola fluorescente, un viaggio a perdifiato nella mente del Duca di Gloucester, un’esperienza immersiva, sfolgorante di luci e strappi visivi. Nella presente riduzione del testo shakespeariano, il Duca di Gloucester, poi Riccardo III, interpretato da Pietro Faiella, è presentato nella sua ascesa al Potere come un Demiurgo, in grado di modellare, manipolare e modificare i luoghi, la realtà e le persone: senza abbandonare mai lo spazio scenico, egli lo agisce, lo colora di tinte lisergiche e lo trasforma in trappole caleidoscopiche. Attorno a lui errano, vagando e sbagliando, altri sedici personaggi, distribuiti tra otto attrici e attori secondo schemi tematici funzionali, avviluppati nella rete mortifera del Duca, fatta di inganni e lusinghe, tranelli e mistificazioni. Assenti i detentori del potere reale, orpelli di una architettura del Potere che Riccardo di Gloucester, invece, incarna a pieno titolo, facendo della medesima corruzione fisica e morale la propria forza propulsoria. Qui si apre il divario irreconciliabile tra emozione e freddezza. Laddove i personaggi maschili sulla scena mirano ad approfittare di tale abbrivio, le donne, pur impotenti di fronte alla deriva degli eventi, cercano con ogni manovra di salvaguardare i propri cari. Ma quando Riccardo III, indossa la corona regale nel vuoto scenico che ottunde le grida di vendetta e giustizia dei tanti sacrificati, l’uomo-Re senza accoliti, il Demiurgo senza fedeli, l’Affabulatore senza auditorio, splende in dorata solitudine, inconsapevole del baratro che lo attende, nel quale nessun trucco ha più effetto, nessuna illusione è più efficace, nessuna minaccia ha più forza.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “Buonasera a tutti” dal 24 al 27 ottobre 2024

Gio, 17/10/2024 - 16:55

Roma, Sala Umberto
BUONASERA A TUTTI
al 24 Ottobre al 27 Ottobre 2024

al pianoforte il M° Luca Urciuolo
produzione Tradizione e turismo – centro di produzione teatrale | Teatro Sannazaro | Ag Spettacoli
Regia di Francesco Esposito
Il recital “Buonasera a tutti” già dal titolo lascia intuire cosa dovrà aspettarsi il pubblico: un momento di intimità tra artista e spettatori, oltrepassando la cosiddetta quarta parete in un continuo dialogo con la platea. Il modo di fare teatro di Peppe Barra è stato più volte definito “le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo”. Attraverso la sua maschera sarcastica e ai tanti registri vocali – dai più gravi ai più acuti -, unisce da sempre gli elementi colti e popolari della sua città, mescolando nei suoi spettacoli, con facilità, la tradizione e l’innovazione. Un viaggio nella vita dell’uomo e dell’artista: i suoi ricordi di infanzia e adolescenza nella Procida e nella Napoli degli anni ’50, la sua memoria di giovanissimo attore con Zietta Liù, fino al successo della Nuova Compagnia di Canto Popolare e agli anni di teatro insieme alla indimenticata Concetta Barra, madre e compagna di scena. Una passeggiata nei suoi oltre 60 anni di carriera, tra teatro e canzone, toccando la musica barocca e la tradizione popolare, il mondo magico di Basile, grandi autori come Petito e Viviani, il varietà, il cabaret, fino a giungere ai cantautori contemporanei. Barra sarà unico mattatore in scena – insieme al maestro Luca Urciuolo che lo accompagnerà al pianoforte – per divertire ed emozionare, con follia e poesia. Senza mai interrompere il gioco con il pubblico, come un felice incontro tra bambini che hanno soltanto voglia di stare insieme e divertirsi …con gioia ed ironia. Francesco Esposito

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Sanghenapule. Vita Straordinaria di san Gennaro” dal 25 al 27 ottobre 2024

Gio, 17/10/2024 - 16:43

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
regia Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
In collaborazione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Lo spettacolo ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano il 5 aprile 2016 presso il Piccolo Teatro di Milano / Teatro Grassi.
Costumi realizzati dalla Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
In uno spettacolo che intreccia il racconto alla poesia, esaltando la lingua napoletana in tutta la sua barocca bellezza, Mimmo Borrelli e Roberto Saviano, puntano al cuore di Napoli, città di sangue e di lava incandescente, esplorandone il mistero e la contraddizione. Attore e narratore percorrono alcune tappe della storia napoletana in una continua osmosi tra celeste e sotterraneo. È il sangue il filo conduttore di uno spettacolo di parole, luci e suoni, con una splendida colonna sonora originale eseguita dal vivo. È il sangue che si scioglie, rinnovando ogni anno il patto tra il santo e la sua gente; è il sangue dei primi martiri cristiani, ma anche quello dei “martiri laici” della Repubblica partenopea, che a fine Settecento tentò di opporre l’ideale democratico all’oppressione borbonica; è l’emorragia dell’emigrazione nei primi decenni del Novecento, quando migliaia e migliaia di italiani varcarono l’oceano in cerca di un futuro migliore; è il sangue versato sotto le bombe della Seconda Guerra mondiale; è, infine, quello degli agguati di camorra. In uno spettacolo che intreccia la narrazione alla poesia, esaltando la lingua napoletana in tutta la sua barocca bellezza, Mimmo Borrelli e Roberto Saviano, puntano al cuore di Napoli, città di sangue e di lava incandescente, raccontandone il mistero e la contraddizione.

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Atene, Museo dell’Acropoli: “Civiltà antiche della Basilicata. Tesori ritrovati. XI-VI sec. a.C”

Gio, 17/10/2024 - 15:32

Atene, Museo dell’Acropoli
CIVILTA’ ANTICHE DELLA BASILICATA. TESORI RITROVATI. XI-VI SEC.A.C.
Nel cuore di Atene, nella splendida cornice del Museo dell’Acropoli, una mostra dal sapore antico racconta la storia della Basilicata e delle sue civiltà perdute. “Civiltà antiche della Basilicata. Tesori ritrovati. XI-VI sec. a.C.” è l’evento culturale che getta luce su una terra di confine, simbolo dell’incontro e della fusione di culture differenti. Aperta dal 18 ottobre 2024 fino al 26 gennaio 2025, l’esposizione permette al pubblico di scoprire tesori archeologici provenienti dalla Basilicata, regione situata nel cuore dell’antica Enotria, che per secoli ha rappresentato un crocevia tra il mondo italico e quello ellenico. La mostra, curata da Massimo Osanna e Annamaria Mauro, si sviluppa in tre sezioni principali e offre al visitatore un vero e proprio viaggio nel tempo. Le testimonianze esposte, mai presentate al grande pubblico prima d’ora, provengono dai musei più importanti della Basilicata: il Museo Nazionale della Siritide, il Museo Archeologico Nazionale di Metaponto e il Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola” di Matera. Questi reperti, finora conservati nei depositi e restaurati appositamente per l’evento, raccontano la storia di comunità che tra la fine dell’Età del Bronzo e il VI secolo a.C. abitarono un territorio ricco e culturalmente dinamico. Il percorso espositivo è un’occasione per approfondire la conoscenza delle popolazioni italiche, come i Choni e gli Enotri, che occupavano il territorio della Basilicata tra il IX e il V secolo a.C., nonché per esplorare il ruolo dei contatti con il mondo greco. In mostra si possono ammirare oggetti di pregio, tra cui monili in bronzo e ambra, che testimoniano gli intensi scambi commerciali e culturali con le aree trans-adriatica, tirrenica ed egea. Questi artefatti non solo narrano di una terra ricca di risorse, ma anche di una società in cui la commistione culturale è stata fondamentale per la crescita e lo sviluppo della comunità locale. La storia della Basilicata antica è un racconto di interazione e coesistenza tra culture diverse, un territorio che ha visto il succedersi di genti italiche, coloni greci e, più tardi, l’influenza dei Lucani. La mostra cerca di rendere visibile questa complessità, attraverso un’esposizione che mette in luce non solo i manufatti materiali, ma anche i legami invisibili che univano le diverse comunità. Tra i pezzi di maggiore rilievo si trovano le ceramiche dipinte, tipiche dell’arte greca, che testimoniano l’assimilazione di tecniche e stili provenienti dal mondo ellenico. Non mancano inoltre armi, utensili e ornamenti che raccontano la vita quotidiana e le credenze delle popolazioni locali. Il valore simbolico di questa esposizione è stato sottolineato dal Direttore generale del Museo dell’Acropoli, Nikolaos Chr. Stampolidis, il quale ha evidenziato il carattere poetico dei reperti in mostra, descrivendoli come “oggetti che raccontano storie di vite passate, di sogni e credenze che ancora oggi risuonano attraverso i secoli“. Questa idea è stata ripresa anche da Massimo Osanna, che ha definito la Basilicata un “paesaggio dell’intreccio“, un luogo in cui la storia ha visto il continuo intersecarsi di culture diverse, dal mondo italico ai Greci della Magna Grecia. Durante la cerimonia di inaugurazione sono intervenuti diversi rappresentanti del mondo culturale e diplomatico, tra cui Filippo La Rosa, Vice Direttore generale per la Diplomazia pubblica e culturale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, il quale ha definito la mostra “un potente strumento di diplomazia culturale“, in grado di rafforzare i legami storici e culturali tra Italia e Grecia. L’Ambasciatore d’Italia in Grecia, Paolo Cuculi, ha invece sottolineato l’importanza di queste iniziative per mantenere vivo il dialogo interculturale nel Mediterraneo, una regione che è stata il crogiolo di molte delle più grandi civiltà della storia. Annamaria Mauro, Direttrice dei Musei Nazionali di Matera, ha parlato dell’importanza di far conoscere il patrimonio della Basilicata a un pubblico internazionale, evidenziando come la mostra rappresenti un’opportunità unica per scoprire un territorio spesso trascurato dalla grande narrativa storica, ma che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo delle dinamiche mediterranee. I reperti esposti, secondo Mauro, testimoniano la ricchezza delle relazioni interculturali che si sono sviluppate lungo le coste del Mar Ionio e nel cuore dell’entroterra lucano, un’area che ha vissuto fasi alterne di conflitto e collaborazione, ma sempre con un profondo senso di apertura verso l’altro. Il valore culturale dei reperti esposti è amplificato dalla loro straordinaria varietà: si va dalle armi e dagli strumenti utilizzati nelle attività quotidiane, fino agli oggetti di culto e agli ornamenti personali che testimoniano il ruolo centrale della religione e delle credenze spirituali nelle comunità antiche. Particolarmente interessante è la sezione dedicata ai corredi funerari, che forniscono preziose informazioni sulla vita e la morte degli abitanti della Basilicata antica. La mostra è stata resa possibile grazie alla collaborazione tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, la Direzione Regionale Musei Nazionali della Basilicata, il Museo Nazionale di Matera, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e il sostegno dell’Ambasciata d’Italia in Grecia e dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene. Quest’ultimo, per tutta la durata dell’esposizione, ospiterà anche una selezione di venti reperti archeologici provenienti dalla Basilicata, offrendo così un’ulteriore prospettiva su una terra ricca di storia e di fascino. Questa cooperazione internazionale rappresenta un esempio di come la cultura possa agire da ponte tra nazioni, promuovendo la conoscenza reciproca e il rispetto tra popoli diversi. L’ingresso alla mostra è gratuito, offrendo a tutti l’opportunità di immergersi in un racconto affascinante di uomini e donne che hanno popolato queste terre migliaia di anni fa, in un contesto di profonda commistione culturale. Inoltre, il catalogo della mostra, disponibile in greco moderno, italiano e inglese, arricchisce l’esperienza con approfondimenti e analisi sui reperti esposti. Le visite guidate, a partire dal 22 ottobre, permetteranno ai visitatori di esplorare a fondo i tesori archeologici esposti, rendendo vivo il passato e le storie delle civiltà che hanno forgiato la storia del Mediterraneo. Un’occasione imperdibile per riscoprire la storia attraverso gli oggetti che ne sono stati testimoni silenziosi, e per comprendere come il dialogo tra le culture del passato possa ancora oggi insegnarci molto sul nostro presente.@photocreditMIC

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Genova: “Il giro di vite” da Henry James a Benjamin Britten

Gio, 17/10/2024 - 09:30

Genova, Teatro Ivo Chiesa & Opera Carlo Felice
“ IL GIRO DI VITE” / “THE TURN OF THE SCREW”
Dal racconto di Henry James, traduzione e adattamento di Carlo Sciaccaluga.
Istitutrice LINDA GENNARI
Mrs. Grose GAIA APREA
Peter Quint ALEPH VIOLA
Miss. Jessel VIRGINIA CAMPOLUCCI
Miles LUIGI BIGNONE
Flora LUDOVICA IANNETTI
Musiche Giua
Nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova in collaborazione con la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Opera in un Prologo e due atti su libretto di Myfanwy Piper da Henry James.
Musica di Benjamin Britten
Quint VALENTINO BUZZA
The Governess KAREN GARDEAZABAL
Miles OLIVER BARLOW
Flora LUCY BARLOW
Mrs.Grose POLLY LEECH
Miss Jessel MARIANNA MAPPA
Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Riccardo Minasi
Regia Davide Livermore
Scene Manuel Zuriaga
Costumi Mariana Fracasso
Luci Nadia Garcia, Antonio Castro
Nuovi produzioni del Teatro Nazionale di Genova e della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova dalla produzione del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia.
Genova 13 ottobre 2024.
Il racconto gotico di Henry James, con la regia comune di Davide Livermore, è riuscito, in una serata dalla durata wagneriana, ad accumulare, nella sede del Teatro Ivo Chiesa, le inaugurazioni della stagione 2024 – 2025 delle due più importanti istituzioni culturali della città: il Teatro Nazionale e il Carlo Felice. Il testo originario di James naviga nell’indistinto, Sciaccaluga lo costringe a un eccessivo naturalismo. Nella voce e nell’espressione dell’Istitutrice, che ne è l’indubbia protagonista, tranne il non osare a dar nome ai fattacci accaduti a Bly, tutto è reale e tangibile ed esplicito. I fantasmi, in James, non parlano e si mostrano solo furtivamente, qui, anche loro hanno voce e incrementano la percezione di un racconto assai concreto e fattuale. Tutti possiamo ben indovinare quali siano gli “atti impuri” che troppo ossessionano le due donne di casa e lasciano assolutamente indifferente, ma lui è un uomo di mondo, il giovane tutore, solitario nella sua casa di Londra. I bravissimi attori sono stati apprezzati e applauditi dal foltissimo pubblico intervenuto al Teatro Ivo Chiesa. La regia di Davide Livermore è la chiave del successo della recita e il fattore unificante con l’opera di Britten pur così divaricata rispetto alla prosa d’avvio. L’esecuzione, in un atto unico di quasi due ore, del Turn of the screw, ha goduto dell’eccentrica ed eccellente interpretazione dal Maestro Riccardo Minasi. L’opera inizia, forse per compiacere al protagonismo di Peter Pears, prim’attore e compagno dell’autore, con un evanescente e inutile Prologo, inserito in un secondo tempo a composizione ormai compiuta. Segue il tema, una paginetta cardine, in cui vengono sciorinate, in sequenza ben calibrata, le dodici note della scala cromatica, che porterebbero a una composizione dodecafonica dall’inevitabile atmosfera espressionista. Ma ciò non avviene: temi popolari, canzoncine infantili, Purcell e Dowland, onnipresenti in Britten, i timbri sfumati delle percussioni orientali e le ultraterrene lamine della celesta di Antonella Poli, ci portano a un inedito Britten simbolista, post-Debussy. Anche le voci vengono calibrate da Minasi sul percorso dell’ “inchiostro sbiadito”, citato dal prologo, che le fa galleggiare in un indistinto ma comprensibile fluttuare di timbri che mescolano memoria, incubo, vivacità e angoscia. Ci convinciamo che Karen Gardeazabal, l’Istitutrice, per accordarsi alla temperie orchestrale e alle volontà di Minasi, faccia impallidire ad arte la sua voce. Siamo pure indotti a sospettarla di eccessiva debolezza dello strumento, quando all’improvviso, in un finale formidabilmente potente, ci sorprende con una forza inattesa. I due fanciulli Miles e Flora, rispettivamente Oliver e Lucy Barlow, recitano da provetti piccoli attori e rendono così reali le loro figure attraverso infantili tiritere che la sola maestria di Britten fa premonitrici e credibili. Polly Leech, Mrs. Grose, l’anziana governante, l’unica con i piedi per terra, che ben sa che nessun peso è da darsi né agli amorazzi ancillari tra domestici né agli “atti impuri” dei minorenni, canta e recita con una sorvegliatissima naturalezza che non contrasta l’orchestra, tenuta da Minasi sul filo di rasoio del “fairy tale”. Marianna Mappa, Miss Jessel, è una presenza pallida, qui, appartata, recita magnificamente la parte di amante frustrata e insoddisfatta. Quint, il quasi desnudo Valentino Buzza, cantante con recitativi assai efficaci, conferma e valorizza l’emarginazione che il suo personaggio subisce in questa produzione. I melismi incantatori sul nome “Miles”, perfettamente eseguiti, si accordano magnificamente con i legni che li sottendono. I fatti sono comunque assolutamente secondari, come i personaggi cantanti; l’atmosfera è predominante ed è creata dai timbri cangianti dal fantastico supporto strumentale fornito da una ventina di elementi dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice. Non si poteva trovare una scenografia più adatta alle due piéces di quella, grigia claustrofobica, ossessivamente invasa da rincorrenti decori floreali, creata da Manuel Zuriaga. Le luci di Nadia Garcia e Antonio Castro generano poi ombre inquietanti che si prendono la scena. I costumi di Mariana Fracasso completano una parte visiva di assoluta distinzione. A Davide Livermore, oltre all’eccellente livello registico, vorremmo riconoscere un coup de theatre e uno humor assolutamente sopra le righe: nel finale Miles urla a Peter Quint, che alla creazione dell’opera alla Fenice il 18 settembre 1954, era Peter Pears, “Peter Quint, you devil!” per poi piombare fulminato al suolo. Qui non muore ma lo si rivede placidamente addormentato sotto un piumino, in un letto appeso alla parete di fondo: forse fu tutto un poetico sfogo di ripetuti battibecchi famigliari, testimoniati peraltro dai molti amici che frequentavano la coppia Britten-Pears. Notevole l’afflusso di pubblico, il Teatro Ivo Chiesa, dalla capienza di molto inferiore all’enorme Carlo Felice, era stracolmo e non ha mostrato defezioni neppure nella pausa di passaggio recita-canto. Applausi calorosi e successo indiscutibile per un’inaugurazione di stagione temeraria e coraggiosa.

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: “Laß, Fürstin, laß noch einen Strahl” BWV 198 (Ode funebre”)

Gio, 17/10/2024 - 00:48

Le Cantate profane – 3
Ode funebre per la morte della consorte di Augusto il Forte – Cristiana Eberhardine, regina di Polonia e principessa elettiva di SassoniaBWV 198   Ode Funebre in due parti su testo Johann Christoph Gottsched (1700-1766) per la morte di Christiane Eberhardine regina di Polonia ed elettrice di Sassonia, moglie di Augsuto il Forte. Prima esecuzione: Lipsia, 17 ottobre 1727.
Pur essendo annoverata tra le composizioni cantate da chiesa,  questa “Ode funebre” è più propriamente classificata come una cantata profana, poiché non fu scritta per nessuna delle regolari funzioni religiose ma per il  servizio di commemorazione di Christiane Eberhardine, regina di Polonia ed elettrice di Sassonia e che si  tenne presso la chiesa universitaria di Lipsia, una collocazione che portò anche a una dispute di demarcazione di Bach con Johann Gottlieb Görner, direttore della musica dell’Università. Bach ne uscì vincitore e così si arrivò alla creazione di questa “Trauerode”, una composizione ammantata da una generale atmosfera di composta, sobria visione del lutto espressivamente assai vario, già a partire  del Coro iniziale (Nr.1) che  non ci immerge in una dimensione cupa, ma con un ritmo marcato, quasi di danza, introduce la parte vocale che invoca la defunta a guardare i fedeli che “fiotti di lacrime” circondano il suo monumento funebre.  Il primo recitativo (Nr.2) ha uno stretto legame con la bellissima e dolorosa aria per soprano solista e archi (Nr.3).  Il recitativo successivo (Nr.4) parla del clangore delle campane mentre tutti gli strumenti suonano in staccato ne imitano il suono! Quanto mai interessante l’organico: squillanti flauti traversi e oboe d’amore  sopra una viola da gamba, liuto, archi e continuo e l’aria (Nr.5) è una lenta e accorata sonata in trio con viola da gamba e obbligato. La linea di canto è meravigliosamente lirica. Segue un recitativo lirico per tenore solista (Nr.6), oboe d’amore e continuo. La prima parte si chiude con una cupa fuga corale (Nr.7) a piena orchestra.  La seconda parte si apre con un’aria angosciosa per tenore solista (Nr.8), flauto traverso obbligato, oboe d’amore, viola da gamba, archi, liuto e violoncello continuo. Segue un movimento in tre parti per basso solista e continuo: un recitativo  (Nr.9)risoluto, un adagio più scorrevole e un arioso struggente accompagnato da coppie di flauti traversi e oboi.  La cantata si conclude con una danza lenta, maestosa e profondamente dolorosa in 6/8 per coro e tutta l’orchestra (Nr.10). Si può affermare  che lo stile della musica di questa partitura si affianchi alle grandi Passioni. Non a caso Bach adattò in seguito alcune musiche di questa cantata per la sua Passione di San Marco (perduta ma spesso ricostruita).
Parte prima
Nr.1 – Coro
Lascia, Principessa, che discenda ancora un raggio
Dalla volta stellata di Gerusalemme
E guarda con quanti fiotti di lacrime
Noi circondiamo il tuo monumento.
Nr.2 – Recitativo (Soprano)
La tua Sassonia, la tua sgomenta Meissen,
Stanno immobili davanti alla tua tomba reale;
Gli occhi lacrimano, la lingua grida:
Il mio dolore è indescrivibile!
Qui piangono August, il principe e il paese,
La nobiltà geme, il cittadino porta il lutto,
Quanto il popolo ti ha compianto
Non appena ha appreso del tuo destino!
Nr.3 – Aria (Soprano)
Tacete, tacete, corde soavi!
Non vi è suono che possa esprimere
La tristezza della nazione
Al cospetto della morte – parola dolorosa!
Della sua amata madre.
Nr. 4 – Recitativo (Contralto)
Il suono tremolante delle campane
Desti la paura nelle nostre anime afflitte
Con il suo bronzo risonante
E ci penetri nel midollo e nel sangue.
Oh, se solo potesse questo suono angoscioso
Che rimbomba ogni giorno nelle nostre orecchie,
Portare testimonianza della nostra pena
All’intera Europa!
Nr.5 – Aria (Contalto)
Con quale serenità è morta la nostra eroina!
Come ha lottato coraggiosamente il suo spirito,
Quando ha arrestato il braccio della morte
Prima che questi conquistasse il suo petto.
Nr.6 – Recitativo (Tenore)
La sua vita ha mostrato l’arte del morire
Come una pratica costante;
Non le era dunque possibile
Di impallidire innanzi alla morte.
Ah, beato il grande spirito di colui
Che si innalza al di sopra della natura,
Che davanti alla tomba e alla bara non trema,
Quando il suo Creatore lo richiama a sé.
Nr.7 – Coro
In te, modello di grande donna,
In te, sublime regina,
In te, custode della fede,
Abbiamo contemplato questa grandezza d’animo.
Parte seconda
Nr.8 – Aria (Tenore)
La dimora eterna di zaffìro
Distoglie, principessa, il tuo sguardo sereno
Dalla nostra mediocrità
Ed estingue la corrotta immagine del mondo.
La luce brillante di cento soli,
Che fa del nostro giorno una mezzanotte
E trasforma il nostro sole in oscurità,
Ha circondato il tuo volto trasfigurato.
Nr.9 – Recitativo, Arioso e recitativo (Basso)
Che meraviglia è questa? Tu lo meriti,
Tu, modello di tutte le regine!
Tu hai meritato tutti gli ornamenti
che adesso trasfigurano il tuo viso.
Porta quindi, davanti al trono dell’Agnello,
In luogo della vanità della porpora
Una veste di innocenza pura come perla
E irridi la corona abbandonata.
Fino alle rive della Vistola
E a dove scorrono il Dniestr e la Warta,
Fino alle foci dell’Elba e della Mulde
Le città e le campagne ti celebrano.
La tua Torgau si veste di lutto,
La tua Pretzsch è senza forze, prostrata e immobile;
poiché avendoti perduta,
Ha perduto la delizia dei suoi occhi.
Nr.10 – Coro
No, principessa, tu non muori,
Sappiamo ciò che significhi per noi
I posteri non ti dimenticheranno,
Finchè questo mondo non crollerà.
Poeti, scrivete! Noi vogliamo leggere:
Lei è stata incarnazione delle virtù,
La gioia ed il vanto dei suoi sudditi,
La gloria di tutte le regine.

www.gbopera.it · J.S. Bach: Cantata Laß, Fürstin, laß noch einen Strahl [Trauerode] BWV 198
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Roma, Teatro Parioli Maurizio Costanzo: “Conversazioni dopo un funerale”

Mer, 16/10/2024 - 23:59

Roma, Teatro Parioli Maurizio Costanzo
CONVERSAZIONI DOPO UN FUNERALE
di Yasmina Reza
con Simone Guarany, Andrea Ottavi, Andrea Venditti, Francesca Antonucci, Valeria Zazzaretta, Lucia Rossi
regia Filippo Gentile
Roma, 16 Ottobre 2024
Il Teatro Parioli ha alzato il sipario su “Conversazioni dopo un funerale” di Yasmina Reza, ma ciò che avrebbe potuto rappresentare un viaggio emotivo intenso e profondamente introspettivo si è rivelato un esperimento scenico deludente, privo di quella necessaria incisività. La produzione non riesce a trasportare il pubblico nell’universo teso e vibrante che il testo richiederebbe, sostituendo l’atmosfera di profondità e sottigliezza con scelte approssimative e poco incisive. La trama dell’opera, imperniata sulle complesse dinamiche familiari nel giorno del funerale del patriarca, è intrisa di tensioni latenti e conflitti inespressi che, in potenza, potrebbero esplodere in un crescendo di rivelazioni e scontri emotivi. La casa di famiglia, con le sue stanze impregnate di ricordi e i corridoi che sembrano soffocare i protagonisti, diventa il teatro fisico e simbolico in cui vecchi rancori, gelosie e incomprensioni mai risolte si manifestano, trasformando il lutto in una resa dei conti inevitabile. Tuttavia, questa dimensione drammatica, carica di potenzialità narrative, viene tradita da una messa in scena priva di reale intensità. La regia di Filippo Gentile, che avrebbe dovuto essere sensibile e puntuale nel dare forma alla complessità del testo, si rivela inconsistente e priva di una visione organica. Gli attori sembrano abbandonati a loro stessi, privi di una direzione chiara che li guidi verso un’espressione autentica e stratificata delle emozioni dei loro personaggi. La recitazione, pertanto, risulta spesso piatta e monocorde, con gesti e sguardi meccanici e privi della profondità necessaria a veicolare il dramma interiore. La mancanza di un lavoro accurato sulla prossemica e sulla costruzione del gesto teatrale lascia i personaggi privi di quella tensione esistenziale che è il fulcro dell’opera di Reza. L’intensità recitativa, che avrebbe dovuto costituire il cuore pulsante dello spettacolo, non riesce a colpire nel segno. I protagonisti non incarnano in modo convincente i conflitti interiori che attraversano i loro personaggi; ogni gesto appare superficiale, privo di quella consapevolezza corporea che avrebbe dovuto tradurre in azione scenica le emozioni represse. Nel complesso, la recitazione manca di profondità emotiva e il conflitto tra rabbia e desiderio di affetto rimane inespresso, senza riuscire a coinvolgere empaticamente lo spettatore. Le interpretazioni , così, risultano prive di quella maturità e articolazione che ci si aspetterebbe da attori professionisti, lasciando un’impressione dilettantesca e di scarsa preparazione. L’ambientazione scenica, che avrebbe dovuto essere claustrofobica e capace di riflettere il tormento interiore dei personaggi, si presenta invece come un insieme di elementi scenografici poco coesi e privi di forza simbolica. La casa di famiglia, che nel testo di Reza è il contenitore di tensioni non dette e di memorie soffocate, appare anonima e incapace di sostenere la drammaticità della situazione. La scenografia non riesce a trasformarsi in un elemento vivo e pulsante della rappresentazione, e manca quella dinamica tra spazio scenico e azione drammatica che sarebbe stata fondamentale per rendere il contesto parte integrante del racconto.L’illuminotecnica, che avrebbe dovuto creare un ambiente intimo e carico di significati simbolici, appare invece provvisoria e inadeguata, incapace di sostenere l’evoluzione della narrazione. La gestione delle luci manca di coerenza e di quella capacità di modulare la tensione scenica, che sarebbe stata indispensabile per accompagnare lo spettatore attraverso le sfumature delle relazioni familiari. Questo limite nella regia tecnica incide inevitabilmente sull’impatto complessivo della rappresentazione, privando lo spettatore di quella sensazione di immersione che avrebbe potuto rendere l’esperienza teatrale profonda e coinvolgente. “Conversazioni dopo un funerale” al Teatro Parioli si rivela un’opera che non riesce a sviluppare appieno il suo potenziale, perdendo gran parte della forza emotiva e della profondità che il testo di Yasmina Reza porta in sé. L’assenza di una regia incisiva e visionaria, le interpretazioni approssimative e una scenografia poco evocativa rendono questa messa in scena un’occasione mancata. Nonostante l’intento dichiarato di affrontare temi complessi come il lutto, la solitudine e le relazioni logorate dal tempo, la produzione rimane superficiale, senza mai riuscire a toccare realmente l’animo dello spettatore. Il risultato è una rappresentazione che manca di quella tensione drammatica e di quella finezza emotiva , lasciando il pubblico con la sensazione di aver assistito a un’esperienza incompiuta e priva di vero pathos. Al termine dello spettacolo, il pubblico è rimasto in gran parte silenzioso e poco partecipe, in un’atmosfera di imbarazzo palpabile per un finale confuso e uno svolgimento che non è riuscito a coinvolgere o a comunicare con efficacia. Peccato.

Categorie: Musica corale

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