Dal 27 agosto al 7 settembre si svolgono le Finali del 65° Concorso Pianistico Internazionale Busoni tra l’Auditorium e il Teatro Comunale di Bolzano. Tra i 648 iscritti, solo 34 sono giunti alla Finalissima nel capoluogo altoatesino. Due prove solistiche e una prova cameristica precedono il decisivo concerto per pianoforte e orchestra sul palco del Teatro Comunale domenica 7 settembre. L’Orchestra Haydn diretta da George Pehlivanian e il Simply Quartet accompagnano i candidati nelle prove.
Nel 1949, il Concorso Pianistico Ferruccio Busoni fu tenuto a battesimo da Claudio Arrau, Arturo Benedetto Michelangeli, Alfred Cortot, Edwin Fischer, Dinu Lipatti, Arthur Rubinstein ed Egon Petri, una giuria che comprendeva gli astri più luminosi della musica classica. Oggi, a distanza di 76 anni, il Busoni è uno dei cinque più prestigiosi concorsi pianistici al mondo, un vero gioiello per il panorama musicale italiano e per Bolzano, Città Creativa della Musica UNESCO.
Il primo premio consiste nella somma di 30.000 euro e prevede anche un supporto alla carriera del vincitore da parte dell’amministrazione del Concorso per i due anni successivi alla vittoria. Quest’opportunità, unica per un giovane musicista, è la grande missione della Fondazione Busoni-Mahler, impegnata nella trasmissione del lascito artistico di Ferruccio Busoni, ponte culturale tra l’Italia e l’Europa all’inizio del Novecento. In allegato, tutte le informazioni. 65° Concorso Busoni_Le Finali – aggiornato. Il Calendario, aggiornato, è disponibile qui.
Allegati
La Messa per Rossini diretta da Donato Renzetti e dedicata alla memoria dell’ideatore e storico Sovrintendente del Festival Gianfranco Mariotti, scomparso alla fine dell’anno scorso, ha chiuso al Teatro Rossini la 46a edizione del Rossini Opera Festival.
Sono stati 42 gli eventi in cartellone tra spettacoli e incontri. Il programma, particolarmente ricercato, ha proposto un nuovo allestimento di Zelmira (titolo che mancava al ROF dal lontano 2009), diretto da Giacomo Sagripanti e messo in scena da Calixto Bieito, al debutto al Festival. È seguita un’altra nuova produzione, L’Italiana in Algeri, affidata alla bacchetta di Dmitry Korchak e alla regia di Rosetta Cucchi. Due le riprese: La cambiale di matrimonio già vista con successo al ROF 2020 e nella successiva tournée in Oman, ideata da Laurence Dale e questa volta diretta da Christopher Franklin, nonché Il viaggio a Reims nella consueta versione ideata da Emilio Sagi, diretta da Alessandro Mazzocchetti e interpretata dagli allievi dell’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”.
Nel programma concertistico erano presenti diverse rarità: le tre Cantate Il pianto di Armonia sulla morte di Orfeo, La morte di Didone e Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron sono state eseguite in prima assoluta nell’edizione critica della Fondazione Rossini; in chiusura, la Messa per Rossini.
Le tre prime serate del Festival sono state trasmesse in diretta su RaiRadio3.
Sono stati riproposti i ROF Talks, ciclo di incontri tematici condotti dalla giornalista RAI Susanna Franchi, e i Salons Rossini, seguitissime serate musicali svolte quest’anno in sei borghi storici della provincia: Mercatino Conca, Vallefoglia, Mercatello sul Metauro, Gradara, Sassocorvaro e Urbino. Nel corso del primo dei ROF Talks si è tenuta la cerimonia di consegna del 44° Premio Abbiati, con il ROF che ha ritirato il premio per il migliore spettacolo, Ermione, in scena a Pesaro nella scorsa estate.
Il botteghino ha fatto registrare 15.559 presenze ed un incasso di 841.000 euro. In forte crescita la percentuale di italiani, che ha raggiunto il 63%.
Particolarmente significativa la copertura mediatica: sono stati accreditati 176 giornalisti (dato secondo solo a quello del Festival dell’anno scorso, più lungo di 4 giorni) per testate provenienti da Italia e 22 nazioni straniere.
Il Concerto finale degli allievi dell’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda” è stato trasmesso per la prima volta in diretta su OperaVision.eu. Il concerto sarà disponibile sulla piattaforma anche per i sei mesi successivi. Qui per altre informazioni.
“Il trionfo di Clelia”: “Resta o cara”; “Paride ed Elena”: “O del mio dolce ardor”; “Ipermestra”: “No, che torni sì presto…Io non pretendo, o stelle”; “Orfeo ed Euridice”: “Danza degli spiriti beati…Che puro Ciel”; “Ezio”: ““Misera, dove son!…“Ah, non son io che parlo”; “Il trionfo di Clelia”: “Saper ti basti, o cara”; “Il Parnaso confuso”: “Di questa cetra in seno”; “Semiramide riconosciuta”: “Maggior follia non v’è”; “Le nozze d’Ercole e d’Ebe”:“L’augellin da’ lacci sciolto”; Il trionfo di Clelia”: “De’ folgori di Giove”. Ann Hallenberg (Mezzosoprano), The Mozartists, Ian Page (direttore). Registrazione: Church of St Augustine, Kilburn, London, 15-17 giugno 2024. 1 CD Signum Classics
La svedese Ann Hallenberg è sicuramente una delle stelle della vocalità barocca e classica contemporanea. Nonostante una carriera ormai lunga, ma sempre gestita con grande intelligenza, la voce del mezzosoprano è praticamente integra ed unita a un impeccabile senso stilistico. La Hallenberg ci ha inoltre abituati a proposte particolarmente stimolanti con il recupero di titoli poco noti e programmi costruiti con particolare cura. Questa nuova proposta – per l’etichetta Signum Classics – può al primo sguardo apparire più banale. Si tratta di un omaggio a Christoph Willibald Gluck, figura fondamentale nell’evoluzione storica del melodramma e oggetto di interessanti riprese negli ultimi anni.
L’ascolto però non delude affatto e la scelta dei brani, tratti per lo più da opere pre-riformate – permette di farsi un’idea della modernità della scrittura gluckiana già in questi titoli in cui sui riconoscono in nuce quell’essenzialità formale e quell’intensità drammatica che saranno proprie dei titoli maggiori. Esemplare in tal senso “Di questa cetra in seno” da “Il Parnaso confuso” in cui già riconosciamo quel canto essenziale e quel legame strettissimo fra musica e parola che della riforma saranno i cardini portanti.
“Il trionfo di Clelia” è l’opera che più di ogni altra ha rivelato l’ancor giovane compositore. Composta nel 1763 per l’inaugurazione del Teatro comunale di Bologna ottenne un trionfale successo premiando il coraggio dei committenti. Opera d’occasione su un testo già ampiamente sfruttato di Metastasio cui Gluck riesce però a in fondere nuova vita. Da quest’opera sono tratte tre arie. Tra cui “Resta, o cara” fortemente espressiva e la trascinante “De’ folgori di Giove”, aria eroica e virtuosistica che richiede alla cantante vertiginosa facilità nei passaggi di bravura e accetto nitido e marziale, entrambe doti che la Hallenberg possiede al massimo livello.
Il valore drammatico ed espressivo di queste arie trova la sua realizzazione più compiuta nella grande scena di Fulvia da “Ezio” in cui Gluck mostra di possedere una capacità espressiva che anticipa i successivi sviluppi pre-romantici pur all’interno di una struttura ancora pienamente tradizionale e di un assoluto controllo delle forme; più breve ma non meno intensa è “Io non pretendo, o stelle” da “Ipermestra” su quel medesimo mito delle Danaidi da cui l’allievo Salieri trarrà uno dei massimi capolavori della tragedia lirica di fine secolo.
Sul versante opposto, quello della leggero e galante si situa “L’augellin da’ lacci sciolto” da “Le nozze d’Ercole e d’Ebe” in cui Gluck declina con maestria quel tipo di aria mimetica che evoca ambienti arcadici con la voce chiamata a imitare il canto degli uccelli. La Hallenberg piega con maestria alle ragioni di quest’aria di grazia una vocalità naturalmente più portata all’eroismo drammatico.
I brani dalle opere riformate risultano i meno interessanti anche se si è cercato di evitare quelli forse più scontati. Le esecuzioni proposte restano di altissimo livello ma si tratta pur sempre di brani molto conosciuti. Di “Orfeo ed Euridice” si opta per la scena elisia fondendo la Danza degli spiriti beati della versione del 1762 con l’arioso “Che puro ciel” tratto dal rifacimento del 1769. Il canto della Hallemberg è impeccabile per chiarezza e nitore stilistico dando pieno risalto all’aria. La celeberrima “O del mio dolce ardor” da “Paride ed Elena” è innegabilmente ben cantata ma la voce è un po’ matura e manca lo stupore adolescenziale che altre interpreti hanno saputo rendere.
Ad accompagnare la Hallenberg sono i The Mozartists guidati da Ian Page. Si tratta di una compagine britannica poco nota ma che all’ascolto si rivela di ottimo livello. Specialisti del repertorio neoclassico e mozartiano presentano sonorità pulite, luminose, di classica tornitura. I tempi sono brillanti ma non eccessivi e concedono al canto tutte le sue ragioni espressive.
Dopo il successo e il sold out al Cenobio del San Bartolo, il concerto del fisarmonicista Raffaele Damen torna in una nuova data, martedì 26 agosto ore 21:30, nella suggestiva cornice del Cortile di Palazzo Gradari di Pesaro. In programma musiche di Bach, Ligeti, Comitini e Totaro, per un nuovo appuntamento del cartellone estivo WunderKammer Orchestra ETS.
Originario di Pesaro, Damen è un artista sempre più apprezzato in Italia e all’estero, vincitore di numerosi premi, tra cui Val Tidone, Stresa, Luigi Nono, Premio Abbado. Esperto esecutore di musica contemporanea, i suoi concerti prevedono spesso prime assolute di brani a lui dedicati.
Il programma della serata è un viaggio dal ‘700 ai nostri giorni, alla scoperta delle composizioni in grado di esaltare le complesse sonorità della fisarmonica. Partendo dalla Partita n. 1 di Johann Sebastian Bach – da Le Sei Partite per clavicembalo BWV 825-830 – Damen propone inoltre il ciclo Musica Ricercata composto dall’ungherese György Ligeti negli anni ‘50 e costituito da undici brevi miniature, e brani nati dalla sua personale collaborazione con autori contemporanei: gli Studi Celesti di Danilo Comitini e la Toccata dai Tre Studi per fisarmonica di Mario Totaro.
L’appuntamento si inquadra nel cartellone di concerti ed incontro organizzati a Pesaro da Wunderkammer Orchestra Ets in collaborazione con il Comune di Pesaro, e con il sostegno di Sistemi Klein (main sponsor), Morfeus, Riviera Banca, Roberto Valli Pianoforti, Giardino di Santa Maria.
Ingresso € 20,00 intero, € 15,00 ridotto Soci WKO, € 10,00 under 18. Qui per tutte le informazioni.
Pesaro, Teatro Rossini, Rossini Opera Festival 2025, XLVI Edizione
“MESSA PER ROSSINI” per soli, coro e orchestra
Musiche di Antonio Buzzolla, Antonio Bazzini, Carlo Pedrotti, Antonio Cagnoni, Federico Ricci, Alessandro Nini, Raimondo Boucheron, Carlo Coccia, Gaetano Gaspari, Pietro Platania, Lauro Rossi, Teodulo Mabellini, Giuseppe Verdi
Soprano Vasilisa Berzhanskaya
Mezzosoprano Caterina Piva
Tenore Dmitry Korchak
Baritono Misha Kiria
Basso Marko Mimica
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Donato Renzetti
Coro del Teatro “Ventidio Basso” di Ascoli Piceno
Maestro del Coro Pasquale Veleno
Pesaro, 22 agosto 2025
«L’Istoria musicale dovrà necessariamente un giorno registrare “che nella tal epoca, alla morte di un Uomo celebre, tutta l’Arte italiana si riunì per eseguire in San Petronio di Bologna una Messa da morto composta espressamente da molti Maestri, il di cui originale si conserva sotto sigillo nel Liceo di Bologna”. Diventa questo un fatto storico e non una ciarlatanata musicale». Così, da par suo, Giuseppe Verdi in una lettera ad Angelo Mariani il 19 agosto 1869, quando ormai si approssimava l’anniversario di un anno dalla morte di Gioachino Rossini (17 novembre 1868), ossia la data in cui eseguire la Messa per soli, coro e orchestra di cui lo stesso Verdi era stato ideatore ed entusiasta promotore. È risaputo che l’impresa naufragò clamorosamente (come se si trattasse di una ciarlatanata, disse presago il furente Verdi) e che i brani inviati dai tredici compositori coinvolti non furono eseguiti se non nel 1988 in edizione moderna e poi, comunque, in ben poche occasioni. Che dopo quarantacinque edizioni del Rossini Opera Festival si sia deciso di programmare questa Messa come concerto finale di una stagione è un’altra caratteristica di originalità di quest’anno. E che la concertazione e direzione della partitura sia stata affidata a Donato Renzetti, uno dei direttori più rappresentativi della scuola italiana (e del ROF, dove debuttò nel 1981), è altro segno dell’importanza dell’evento. Peccato che il sovrintendente del festival, Ernesto Palacio, debba annunciare che il tenore Dmitry Korchak, indisposto per una tracheite, non potrà cantare il numero di cui è protagonista (l’Ingemisco di Alessandro Nini, che sarà omesso), ma parteciperà comunque agli altri. Tra i solisti brilla il soprano Vasilisa Berzhanskaya, una presenza costante (e sempre affidabile) a Pesaro dal 2021: è ovvio che, più che nel Sanctus di Pietro Platania, tutto l’uditorio l’attenda nel Libera me, Domine finale, scritto da Verdi e poi rielaborato nel 1874 per la Messa di Requiem (tutta sua) in memoria di Alessandro Manzoni. Capace di mezze voci e filature magistrali, il soprano non rinuncia però a certa emissione drammatica, chiudendo l’esecuzione con il sigillo del Verdi più ispirato. Anche Misha Kiria è protagonista di un numero per baritono e coro, il Tuba mirum di Carlo Pedrotti, che modula con un’emissione potente e solida. Completano il quintetto vocale il mezzosoprano Caterina Piva, debuttante al ROF, e Marko Mimica, interprete solista del Confutatis, maledictis di Raimondo Boucheron, uno dei brani più originali della composita partitura. In effetti, la disomogeneità di stili e di strumentazione costituisce il problema più grave della Messa per Rossini, non a caso un unicum monumentale mai entrato nel repertorio sacro-sinfonico. Renzetti sceglie la via più opportuna per comunicare i vari numeri, ossia evidenziare la solennità ritmica e sonora dei brani meno qualificativi, come i primi quattro, di Buzzolla, Bazzini, Pedrotti e Cagnoni, con il timpano e le trombe in primo piano, per poi esaltare le soluzioni alternative di altre piccole gemme della partitura. La lezione del Rossini sacro, di quel particolarissimo linguaggio musicale che nacque per informare lo Stabat Mater, ma soprattutto l’inarrivabile Petite Messe Solennelle, sembra essere stata obliterata a chi ascolti questo florilegio in sua memoria. Eppure – eccettuato il numero verdiano (che è mondo a sé rispetto a tutti gli altri dodici) – qualche timido tentativo di elevarsi sopra gli schematismi si apprezza: per esempio, nel Recordare Jesu pie di Federico Ricci, per quattro voci e orchestra, e ancor più nel Lux aeterna di Teodulo Mabellini, per tenore, baritono, basso e orchestra, con una preziosa introduzione strumentale che davvero rende omaggio a Rossini. Alla fine si comprende bene che gli applausi, intensi e prolungati, sono sia per gli esecutori sia per la memoria del nume tutelare locale; in subordine per Verdi e da ultimo per gli altri dodici apostoli della musica italiana della seconda metà dell’Ottocento. Un collettivo non spregevole, in ogni caso, giacché si tratta di contemporanei di Rossini e di Verdi, a cui una rassegna come il ROF, in cerca di identità presenti e future, dovrebbe guardare come patrimonio musicale e culturale tutto da riscoprire e valorizzare. Foto © Amati Bacciardi
Roma. Dentro lo smartphone, a piedi e quasi gratis
Autore: Fabrizio Politi
Editore: Fabbri Editori (gruppo Mondadori)
Collana: Guide
Anno di pubblicazione: 22 marzo 2022
ISBN: 978-88-9158-651-3
Formato: Brossura, 224 pagine (illustrato)
Prezzo di copertina: 16,00 € (cartaceo); disponibile anche in eBook a 9,99 €
Genere: Guida turistica / Narrativa di viaggio urbana
Lingua: Italiano
Ogni città è un testo, e come tutti i testi può essere letto in modi diversi. Roma, poi, è un ipertesto millenario, una stratificazione che non smette di rimandare a se stessa. È la capitale dell’Impero e della cristianità, la città dei Cesari e dei papi, ma anche dei tram che arrancano, delle periferie cresciute come funghi, dei murales che spuntano dietro una serranda. Fabrizio Politi, nel suo Roma. Dentro lo smartphone, a piedi e quasi gratis, propone un metodo di lettura che non appartiene né ai Baedeker ottocenteschi né alle guide ministeriali: un metodo contemporaneo, filtrato attraverso l’oggetto che ha sostituito la bussola e la mappa, ossia lo smartphone. Il titolo è dichiarazione semiotica: la città esiste come spazio fisico, ma viene ricodificata in immagine digitale, in narrazione istantanea, in traccia luminosa sullo schermo. L’approccio di Politi è quello dell’ “homo viator” digitale: camminare, osservare, condividere. Non a caso, l’autore è un influencer che ha costruito la propria reputazione raccontando Roma sui social. Questo dato non implica superficialità; al contrario, l’esperienza digitale fornisce la struttura di un racconto che procede per lampi e digressioni. Roma diventa un flusso di micro-narrazioni, come un feed da scrollare. Il pregio del libro è assumere questa condizione e trasformarla in metodo. Politi ci conduce tra luoghi noti e meno noti senza ridurli a schede didascaliche. Ogni tappa è un micro-racconto, un dettaglio colto al volo. È, per dirla con termini semiotici, un’“enciclopedia aperta”: la città non è un dizionario che chiude i significati, ma un insieme mobile di interpretazioni. La fontana nascosta in un cortile non è meno significativa del Colosseo; anzi, per il flâneur digitale è più preziosa perché laterale. La storia è sempre presente, ma evocata con leggerezza. Roma non è spiegata come un manuale, ma raccontata come un interlocutore che dialoga col passante. Politi evita il peso delle cronologie e privilegia il nesso tra passato e presente: il mosaico accanto al bar che serve caffè a un euro, la cupola barocca riflessa nel finestrino di un motorino. Questa giustapposizione restituisce la natura non lineare della città. A chi obiettasse che una guida debba fornire dati certi, Politi risponde implicitamente che ciò che conta non è la verità documentaria, ma l’esperienza. La città non è soltanto patrimonio, è soprattutto ricezione: il modo in cui i suoi abitanti e visitatori la interpretano. Roma come “opera aperta”, direi. Lo smartphone non è un semplice richiamo alla modernità, ma un dispositivo epistemologico. La Roma di Politi è mediata da filtri, stories, geolocalizzazioni. Non è un degrado dell’esperienza, ma un suo raddoppio. L’occhio non basta; serve l’occhio della fotocamera, che archivia e diffonde. Il libro diventa così documento antropologico: mostra come le nuove generazioni non solo visitino, ma producano la città attraverso gesti digitali. Chi cerca un manuale accademico potrebbe restare spiazzato. Non ci sono lunghe spiegazioni né mappe dettagliate. Ma ridurlo a difetto sarebbe ingiusto: Roma. Dentro lo smartphone, a piedi e quasi gratis non intende sostituire i volumi di storia dell’arte; vuole piuttosto offrire un invito a praticare la città. È, se vogliamo, un atto democratico: Roma non come possesso degli esperti, ma come spazio comune che chiunque può vivere e reinventare. Il pregio maggiore sta nel rimettere in circolo l’immaginario urbano. Politi non santifica né condanna Roma; la racconta con affetto e ironia, con l’occhio disincantato di chi la abita. Il suo libro somiglia più a un diario che a una guida: un diario collettivo, perché ciascun lettore è chiamato a proseguire l’itinerario con i propri passi. Roma, ci ricorda l’autore, non è città da esaurire, ma da attraversare continuamente. Camminarla “a piedi e quasi gratis” significa accettare la sua natura di palinsesto, la sua vocazione a trasformarsi a ogni sguardo. Alla fine, il libro funziona come istruzione di lettura. Roma non si capisce, si interpreta; non si possiede, si attraversa. Lo smartphone è il medium del nostro tempo, e usarlo per guardare Roma non è sacrilegio, ma adattamento. Anche i pellegrini medievali avevano le loro guide e i loro oggetti apotropaici: noi abbiamo mappe digitali e post da condividere. La differenza è di codice, non di sostanza. Così, Roma. Dentro lo smartphone, a piedi e quasi gratis non è solo guida alternativa: è un piccolo trattato di semiotica urbana travestito da manuale popolare. Leggendolo, ci si accorge che la vera merce rara non è il monumento nascosto, ma lo sguardo capace di riconoscerlo. Roma, come ogni testo complesso, non chiede di essere consumata, ma decifrata. L’autore ci consegna non la chiave definitiva — perché Roma non ha chiavi che chiudano il discorso — ma un invito all’interpretazione infinita.
Herr, deine Augen sehen nach dem Glauben! BWV 102 è il titolo della terza Cantata bachiana per la decima Domenica dopo la Trinità. Essa completa il trittico di opere dedicate a questa festività (le altre, che abbiamo cronologicamente già trattato, sono la BWV 187 e la 45) e come le precedenti si apre con un solenne coro tripartito, ricco di invenzioni contrappuntistiche. Dopo una introduzione strumentale segue un episodio mottettistico liberamente polifonico, sulla prima parte del testo” Signore, i tuoi occhi cercano la fede! Tu li hai percossi, ma non mostrano dolore; li hai fiaccati, ma rifiutano di comprendere la correzione”.(Geremia cap.5 vers.3), seguita da una “fuga” sulla terza frase: “Hanno indurito la faccia più di una rupe, non vogliono convertirsi”. Vi è quindi una ripresa variata del blocco iniziale. Da notare che questa pregevole pagina è stata riversata da Bach nel “Kyrie” della Messa in si minore BWV 235, così come lo saranno le arie nr.3 e 5, riutilizzate nella Messa in fa maggiore BWV 233. La durezza di Geremia, ben rappresentata dal tagliente ed immaginifico linguaggio polifonico bachiano trova un corrispettivo nell’arioso del basso (nr,4) che poggia sulla lettera di Paolo ai romani (cap.2 vers.4 e 5), nella quale la parola dell’apostolo si riveste della “Vox Christi e attraverso un vivace declamato riversa sul fedele la minaccia dell’ira divina. Questa pagina è inquadrata da 2 arie dal carattere contrastante: un “Adagio” per contralto e oboe (nr.3) dalle linee contorte e spezzate in testimonianza del dolore dell’anima sul punto di essere esclusa dalla grazia di Dio. L’altra aria (Nr.5) cantata dal tenore è una trepidante pagina con flauto traversiere, dominata da un senso di angoscia e spavento.
Prima parte
Nr.1 – Coro
Signore, i tuoi occhi cercano la fede! Tu li hai percossi,
ma non mostrano dolore; li hai fiaccati, ma rifiutano
di comprendere la correzione. Hanno indurito la faccia
più di una rupe, non vogliono convertirsi.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Dov’è l’immagine che Dio ha impresso in noi,
se la nostra volontà perversa si oppone a Lui?
Dov’è il potere della sua Parola,
se ogni miglioramento scompare dai nostri cuori?
L’Altissimo cerca di domarci con la tenerezza,
cercando di spingere all’obbedienza l’anima errante;
ma se essa persiste nella sua volontà distorta
egli l’abbandonerà nell’oscurità del cuore.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Malattia dell’anima, che la sua colpa
più non riconosce
e attirando la punizione su se stessa
persevera ostinatamente,
fino ad escludersi
dalla grazia di Dio.
Nr.4 – Arioso (Basso)
Ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà,
della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere
che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però,
con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera
su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione
del giusto giudizio di Dio.
Seconda parte
Nr.5 – Aria (Tenore)
Temi dunque,
anima troppo sicura di te!
Pensa a cosa ti procurerà
il gioco dei peccati.
La pazienza di Dio procede con i piedi di piombo,
quindi la sua ira risulterà ancora più forte su di te.
Nr.6 – Recitativo (Contralto)
L’attesa è pericolosa;
vuoi perdere tempo?
Dio, che prima era clemente,
può facilmente convocarti al suo tribunale.
Allora dov’è la tua penitenza? Un istante
divide il tempo dall’eternità, il corpo dall’anima;
mente accecata, torna sui tuoi passi,
affinché questa ora non ti prenda alla sprovvista!
Nr.7 – Corale
Oggi vivi, oggi convertiti,
prima che giunga domani in cui tutto può cambiare;
chi oggi è in salute, vigoroso, colorito,
domani è malato, forse già morto.
Se muori senza pentimento,
il tuo corpo e la tua anima sono destinati all’inferno.
Aiutami, Signore Gesù, aiutami
a venire presso di te oggi stesso
e a pentirmi in questo istante
prima che la morte sopraggiunga,
affinché ora e in qualsiasi momento
io sia pronto per il mio ritorno nella tua casa.
Traduzione Emanuele Antonacci
Un cast eccezionale. Con primi ballerini provenienti da tutto il mondo. In questi giorni, al Teatro Romano di Verona, sono ormai alle fasi finali le prove di Zorba il greco che andrà in scena dal 26 al 31 agosto. Quattro serate a ritmo di sirtaki. Un omaggio a Mikis Theodorakis, compositore delle musiche del balletto, nell’anno del suo centenario, con il balletto da lui creato appositamente per Verona.
Pronti ad entrare in scena, da protagonisti, alcuni felici di tornare a Verona dove si sentono ormai ‘a casa’, altri entusiasti per il loro debutto al Teatro Romano e nel titolo: Igor Tsvirko, primo ballerino del Bol’šoj, Julian MacKay, principal dancer del Bayerische Staatsballett di Monaco, Eleana Andreoudi, prima ballerina dell’Opera Nazionale greca di Atene, Virna Toppi, prima ballerina del Teatro alla Scala di Milano, Liudmila Konovalova, prima ballerina dello Staatsballett di Vienna, Davide Buffone, primo ballerino all’Opera slovena di Maribor. Una compagnia che vede assieme i più grandi talenti dei più importanti teatri europei. Saranno loro tra poche ore a vestire i panni di Zorba, John, Marina, Hortense e Manolios, raccontando, a passo di danza, una storia intrisa di colori e sonorità che immediatamente richiamano la Grecia.
Protagonista sul palcoscenico del Teatro Romano anche il Ballo di Fondazione Arena con i suoi cinquanta talenti, già applauditi nel corso dell’Opera Festival e nelle scorse edizioni di Zorba il greco. Ogni replica, infatti, ha collezionato applausi e numerose richieste di bis. I ballerini, coordinati da Gaetano Bouy Petrosino, daranno vita alle coreografie originali di Lorca Massine. L’allestimento è firmato da Filippo Tonon, che ne ha curato le scenografie, mentre Sergio Toffali guida magistralmente le luci. Studiati nel dettaglio i costumi di Silvia Bonetti che, di anno in anno, vengono adattati ai singoli ballerini.
Dal debutto, a Verona, nell’agosto 1988, Zorba il greco ha intrapreso un cammino internazionale, raggiungendo 35 paesi diversi e milioni di spettatori dal vivo, tornando a Verona nel 2002 per una ripresa al Teatro Filarmonico e poi al Teatro Romano, dove è diventato appuntamento fisso dal 2023 in una nuova produzione che ha conquistato il pubblico veronese e centinaia di spettatori stranieri ad ogni replica. Sin dalla sua nascita, con la musica e la danza, Zorba ha abbattuto le barriere, veicolato un messaggio di pace, ed esaltato l’umanità tutta, nella sua capacità di amare, soffrire, gioire, scoprirsi e rinascere.
Dopo la prima martedì 26 agosto, alle 21.30, si replica il 27, il 30 e il 31 agosto. Ancora disponibili i biglietti di gradinata, in vendita sul sito www.arena.it, alle biglietterie di via Roma e di via Dietro Anfiteatro, così come sul circuito TicketOne. Speciali riduzioni sono riservate agli under 30 e agli over 65. Qui per tutte le informazioni.
In attesa delle Cerimonie Olimpiche Invernali 2026, Balich Wonder Studio e Fondazione Arena di Verona riportano la magia di Vivaldi al centro della scena con Viva Vivaldi. The Four Seasons Immersive Concert, il format che ha rivoluzionario la musica sinfonica. Mercoledì 27 agosto, alle ore 21.30, le note immortali di Antonio Vivaldi prenderanno nuova vita nell’Arena di Verona grazie all’Orchestra della Fondazione, diretta dal talento del violinista Giovanni Andrea Zanon. Dopo aver incantato oltre 10 mila persone nel 2024, lo show multisensoriale torna ad intrecciare musica e immagini tridimensionali, trasformando l’esperienza d’ascolto in un viaggio immersivo capace di sorprendere e catturare il pubblico.
Dal vivo una rilettura immaginifica de Le quattro stagioni che affascinerà anche le nuove generazioni. Biglietti a partire da 30 euro e per gli under 30 speciale promozione per posti di platea a 60 euro in vendita sul sito www.arena.it, alle biglietterie di via Roma e via Dietro Anfiteatro, nel circuito Ticketone.
Da un format esclusivo ideato da Marco Balich e coprodotto da Fondazione Arena di Verona, lo spettacolo porta sulla scena la magica alchimia fra l’orchestra di 29 elementi, rigorosamente fedele alla partitura originale di Vivaldi, e il linguaggio contemporaneo della tecnologia immersiva applicata ai codici della musica classica. Lo show vedrà la presenza del maestro Giovanni Andrea Zanon, violinista e stella del panorama musicale, vincitore dei più prestigiosi concorsi internazionali, assieme ai professori d’Orchestra dell’Arena di Verona.
Grazie a un sofisticato sistema tecnologico che combina schermi a LED trasparenti con suggestivi effetti visivi e luminosi, il concerto sarà accompagnato da contenuti video tridimensionali che emergeranno dal palcoscenico al di sopra del pubblico, proiettando la potenza travolgente della musica classica. Una nuova dimensione emotiva che trascende i confini dello spazio e del tempo e permetterà agli spettatori di percepire davanti ai loro occhi la sublime bellezza della musica e la straordinaria forza della natura e del Pianeta Terra.
Lo spettacolo vede la partecipazione di talenti italiani, riconosciuti a livello internazionale: Claudio Sbragion, Creative Director e Stefania Opipari, Co-Creative Director, affiancati da Rino Stefano Tagliafierro, Video Content Art Director e dallo studio Moving Dots che si è occupato della Video Content Production. Qui per tutte le informazioni.
Pesaro, Teatro Rossini, Rossini Opera Festival 2025, XLVI Edizione
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso per musica in due atti su libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Mustafà GIORGI MANOSHVILI
Elvira VITTORIANA DE AMICIS
Zulma ANDREA NIÑO
Haly GURGEN BAVEYAN
Lindoro JOSH LOVELL
Isabella DANIELA BARCELLONA
Taddeo MISHA KIRIA
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Dmitry Korchak
Coro del Teatro “Ventidio Basso” di Ascoli Piceno
Maestro del Coro Pasquale Veleno
Regia Rosetta Cucchi
Scene Tiziano Santi
Costumi Claudia Pernigotti
Video Designer Nicolás Boni
Luci Daniele Naldi
Pesaro, 21 agosto 2025, nuova produzione
Alla presenza del coro di schiavi italiani, mentre organizza la fuga dal serraglio, Isabella dice a Lindoro: «Vedi per tutta Italia | rinascere gli esempi | d’ardir e di valor». In un’opera, ancorché giocosa, ambientata all’estero ma popolata di italiani che vogliono tornare a casa, l’esortazione suona convenzionale più che nazionalistica, tant’è vero che non è argomentata se non in chiave etica: «Amor, dovere, onor. | Amici in ogni evento…» potranno guidare l’azione di Lindoro e degli altri. L’ha presa invece molto sul serio Rosetta Cucchi, regista dell’Italiana in Algeri al Rossini Opera Festival, che ha voluto accompagnare la declamazione di questi versi con proiezioni del Gay Pride e un tripudio di bandiere arcobaleno lgtbiq+. Se lo spettacolo ha una sua coerenza interna, giacché Isabella è una drag queen, con tutte le conseguenze comiche che implica questo tipo di travestimento, sorge però il sospetto che l’interpretazione di quei versi nasconda un messaggio moralistico, più che politico o artistico; si scherza su ogni possibile forma di travestimento, ma si spiega con estrema serietà qual è l’accezione attuale di amore, dovere e onore, giusta le parole del libretto. È il “follemente corretto” (copyright di Luca Ricolfi) che sale in cattedra, guastando l’effetto comico-narrativo anteriore, che la regia aveva realizzato ancora prima dell’alzarsi del sipario. La storia, infatti, inizia sulla piazza antistante il Teatro Rossini, dove giunge un furgoncino sgangherato e avvolto da un fumacchio spesso e da un nugolo di poliziotti del bey di Algeri; dal veicolo esce un gruppo di variopinte signore, capeggiate da Isabella e dal suo “agente” Taddeo, tutti arrestati e condotti in teatro, dove prosegue (nel corso della sinfonia) la prassi dell’interrogatorio e della custodia cautelare. Poi, seguendo gli spunti del libretto, di scena in scena è un susseguirsi di sketch, gag, in una grande abbuffata di abiti sgargianti (spassosi e curati i costumi di Claudia Pernigotti, a cui va un encomio per la varietas delle scelte), bauli leopardati, divanetti tantrici, collezioni di stivaloni in finta pelle, borsette di paillettes, calze a rete, monumentali parrucche, vasche da bagno fuxia, arredamento pop art e accessori erotici rielaborati alla bisogna dell’«amico del palo», ma pur sempre di inequivocabile morfologia, come il copricapo del Kaimakan. La scena su due livelli di Tiziano Santi aumenta le dinamiche, con un effetto di compartimentazione dei tanti elementi, abilmente stipati in ogni angolo. C’è qualche nesso apprezzabile che colleghi il caravan-serraglio (!) scenico e l’esecuzione musicale? Risponde positivamente la presenza di Daniela Barcellona nelle vesti di Isabella, a ventisei anni dal suo esordio pesarese. A vederla in scena, in realtà, tornano in mente gli Arsace, i Tancredi, i Malcom, più che un ruolo civettuolo e sagace come quello dell’Italiana in Algeri. Appunto per rispetto alla carriera straordinaria che ha accompagnato molti anni del festival pesarese (e non solo) sarebbe inutile dissimulare la prevenzione di fronte a questo ritorno a un ruolo delle origini. Se si prescinde dall’estetica queer dello spettacolo per concentrarsi sulla voce, si ascolta un’Isabella ovviamente volitiva e dignitosa, dal porgere brillante ma non prevaricatore, dunque non volgare; certo, a volte sfugge il controllo della maschera, il suono si fa debordante, si percepisce lo scollamento dei registri, anche l’intonazione è compromessa; ma il volume e il timbro restano quelli di sempre. La scena della vestizione, con l’aria «Per lui che adoro», più che l’introduzione a un momento galante, sembra il preludio a un episodio bellico improntato all’elegia: è il momento vocale migliore della serata, anche se l’entusiasmo del pubblico si incendia soprattutto dopo il rondò finale. Coloratissima, agilmente saltellante di ritmo in ritmo l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Dmitry Korchak, molto attento a marcare le note di appoggio e gli accenti, soprattutto nei concertati e nei numeri d’insieme più complessi: ritmicamente perfetta, dunque, la “follia organizzata” del finale I (staccata con incredibile rapidità e a detrimento di alcune voci). Evidentemente, impugnare la bacchetta per concertare Rossini dopo averne cantato funamboliche parti tenorili per molti anni garantisce una preparazione privilegiata … Tutti gli altri interpreti sono ottimi attori, e a volte anche buoni cantanti, come Giorgi Manoshvili, molto corretto come Mustafà. Il baritono Misha Kiria debutta al ROF come Taddeo ed è molto apprezzato come divertente caricaturista dalla cavata imponente e sicura. Debutta a Pesaro anche il tenore Josh Lovell, la cui prestazione come Lindoro è pessima: la voce chiara e ben proiettata si sbianca nelle note di passaggio e si incrina nella zona acuta, semplicemente perché non copre i suoni, e dunque il cantante stona, sbaglia le agilità, interpola le cadenze, manca totalmente di scioltezza nel sillabato. Vittoriana De Amicis è un’Elvira efficace, ma dovrebbe controllare la qualità delle note acute, che spesso suonano eccessivamente stridule. Efficaci gli altri comprimari. Il Coro del Teatro “Ventidio Basso” di Ascoli Piceno, preparato da Pasquale Veleno, disimpegna bene i vari interventi, correggendo in tempo alcuni disallineamenti con l’orchestra. Gli apprezzamenti finali sono generali (tranne che per il tenore) ma si intensificano per il direttore d’orchestra e per la regista, che compare imbracciando un bel cagnolino nero. La stessa Rosetta Cucchi presenta lo spettacolo con alcune note di regia nel programma di sala: «La scelta di una Isabella drag non è una provocazione: è una naturale evoluzione del linguaggio buffo, che aggiorna Rossini ai nostri tempi, senza tradirlo». È assai curioso, detto da una regista d’oggi: esiste ancora il timore di “tradire” un classico”? Foto © Amati Bacciardi
Roma, Giardino di Sant’Alessio, via di Sant’Alessio
Adiacente alla Basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino
compagnia MALALINGUA presenta
LA FESTA D’OGGNISANTI
Ideato e scritto da Marco Grossi
regia Marco Grossi
con Marianna De Pinto, Antonella Civale, Enzo Toma, Giuseppe Pestillo, Luca Avagliano, Monica De Giuseppe e Marco Grossi
progetto sostenuto dal Mic nell’ambito dei Progetti Speciali 2025, sezione teatro
spettacolo vincitore de I Teatri del Sacro 2017
Dal 28 al 31 agosto 2025, Giardino di Sant’Alessio, via di Sant’Alessio, Roma. Adiacente alla Basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino, la compagnia MALALINGUA porta in scena La Festa d’Ognissanti, spettacolo itinerante e interattivo vincitore del bando I Teatri del Sacro 2017. Ideato e scritto da Marco Grossi, lo spettacolo vede in scena Marianna De Pinto, Antonella Civale, Enzo Toma, Giuseppe Pestillo, Luca Avagliano, Monica De Giuseppe e Marco Grossi. Le scene sono di Riccardo Mastrapasqua, le luci di Claudio De Robertis, le musiche, suonate dal vivo, sono del Maestro Fabio Ceccarelli. La regia è firmata da Marco Grossi. Chi sono per noi i Santi? Cosa rappresentano oggi? Cosa conosciamo delle loro storie? Dall’indagine su questi interrogativi nasce La Festa d’Ognissanti. I Santi vengono raccontati come esseri umani al limite, attraversati da esperienze spirituali e fisiche profonde, capaci di collegare l’umano al divino. In una società contemporanea liquida e distratta, queste figure rischiano di rimanere immagini polverose e dimenticate. Lo spettacolo intende restituire spessore e attualità a queste esistenze, uomini e donne prima che santi, figure in cui ritrovare umanità, fragilità e senso. L’approccio scelto è al confine tra sacro e profano, ironico e appassionato, come in una festa paesana d’altri tempi. I Santi arrivano sulla scena, preceduti da un improbabile banditore e accompagnati da una fanfara. Si raccontano al pubblico in prima persona, promuovendo il proprio ricordo e chiedendo in cambio solo la luce di una candela perché la memoria continui a brillare. Il tono della narrazione, pur trattando con fedeltà, delicatezza e rigore storie profondamente umane e spirituali, è sempre attraversato da una leggerezza che rende l’incontro con il sacro accessibile e gioioso. La Festa d’Ognissanti riesce così a riportarci alle radici della nostra tradizione, trasformando la riflessione in un’esperienza viva e festosa, in cui si sorride, ci si commuove e si celebra la memoria attraverso la condivisione. Il pubblico viene immerso in un’atmosfera giocosa e accogliente, che esalta il valore del ricordo senza mai rinunciare al piacere di stare insieme e di partecipare a un rito collettivo dal sapore antico ma sempre attuale. Lo spettacolo, itinerante e interattivo, ha una struttura libera. Ogni spettatore al suo arrivo riceverà una candela e una mappa con i luoghi e gli orari delle diverse apparizioni e potrà scegliere liberamente a quale figura avvicinarsi, a quale Santo “votarsi”, costruendo così un percorso personale. Debuttato ad Ascoli Piceno nel chiostro di Piazza San Francesco, La Festa d’Ognissanti è uno spettacolo coinvolgente e divertente, per un pubblico di tutte le età, che è stato rappresentato in numerosi luoghi simbolici e non convenzionali, tra cui conventi, chiese, parchi archeologici e palazzi storici.
Pesaro, Teatro Rossini, Rossini Opera Festival 2025, XLVI Edizione
“SOIRÉES MUSICALES”
Versione per voci e orchestra da camera a cura di Fabio Maestri
Soprano Vittoriana De Amicis
Mezzosoprano Andrea Niño
Tenore Paolo Nevi
Baritono Gurgen Baveyan
“LA CAMBIALE DI MATRIMONIO”
Farsa comica in un atto di Gaetano Rossi
Musica di Gioachino Rossini
Tobia Mill PIETRO SPAGNOLI
Fannì PAOLA LEOCI
Edoardo Milfort JACK SWANSON
Slook MATTIA OLIVIERI
Norton RAMIRO MARTURANA
Clarina INÉS LORANS
Filarmonica Gioachino Rossini
Direttore Christopher Franklin
Regia Laurence Dale
Scene e costumi Gary McCann
Luci Ralph Kopp
Pesaro, 20 agosto 2025, produzione del 2020
Nel segno delle proposte innovative, e felici, del ROF 2025, riesce in festa sonora la congiunzione delle Soirées musicales, nella versione per voci e orchestra da camera di Fabio Maestri, e della Cambiale di matrimonio nell’allestimento del 2020, con l’ormai celebre orso, che fece parlare di sé anche in seguito. L’accostamento à rebours degli antipodi della produzione rossiniana, ossia le dodici canzoni composte tra 1830 e 1835 e poi la farsa dell’esordio, scritta per il Teatro di San Moisé di Venezia nel 1810, è di effetto elegante e divertente, grazie alla bravura e alla freschezza degli interpreti. Fabio Maestri, compositore e direttore d’orchestra, si è dedicato alla strumentazione delle Soirées sin dal 1978, completando la nuova versione del ciclo nel 2019; il merito principale consiste forse nel non aver preteso realizzare una chimerica orchestrazione “rossiniana”, bensì essersi attenuto a un modello strutturale fisso (un organico da camera) cui aggiungere altri strumenti che nulla hanno a che vedere con le partiture di Rossini: ed ecco risuonare la chitarra, i campanacci, il Glockenspiel, perfino una Glass harmonica, sempre in coerenza con quanto evocato dai versi di Pietro Metastasio e di Carlo Pepoli, la “strana coppia” che ispira l’estro di Rossini, che a sua volta affascina una schiera di strumentatori a venire, da Liszt e Wagner fino a Respighi e Britten. Il lavoro di Maestri, godibilissimo, esalta sia il garbo sia la malizia delle musiche originali, con beneficio tutto teatrale. I protagonisti vocali delle Soirées sono il tenore Paolo Nevi, già ascoltato in Zelmira come stentoreo Eacide, e il soprano Vittoriana De Amicis (impegnata come Elvira nell’Italiana in Algeri); li affiancano nei duetti il mezzosoprano Andrea Niño e il baritono Gurgen Baveyan. La voce più bella e promettente è quella del tenore: generosa, spumeggiante, tutta un empito di giovinezza vocale, senza essere troppo esuberante. Molto buono anche il soprano, semplicemente irresistibile nella Pastorella delle Alpi, un capolavoro di ammiccamenti vocali e autoironici esercizi di belcanto. Il pubblico, in parte sorpreso dall’ascolto di una serie di Lieder al posto di una tradizionale azione scenica, è deliziato dall’esecuzione e si predispone nel migliore dei modi a riassaporare la spigliatezza della Cambiale di matrimonio, diretta molto bene da Christopher Franklin alla guida della Filarmonica Gioachino Rossini. Sia il soprano Paola Leoci (Fannì) sia il baritono Mattia Olivieri (Slook) sono stati allievi dell’Accademia Rossiniana e questi sono i loro primi ruoli protagonistici nelle stagioni del ROF: entrambi disimpegnano bene le loro parti (specialmente il baritono, per la sicurezza dell’emissione e la cavata imponente), affiancati dal tenore Jack Swanson (Edoardo Milfort, ruolo che vocalmente gli è più congeniale dell’Almaviva del 2024). Il personaggio più comico è il Tobia Mill di Pietro Spagnoli, baritono che con il ROF vanta una frequentazione eccezionale (esordì come Capellio in Bianca e Falliero del 1989): ascoltarlo (e vederlo) è uno spasso, anche perché sembra proporre tutta una galleria di buffi rossiniani, ciascuno con i suoi tic, lo stile di fraseggio e l’enfasi esagerata (peccato che a volte sia poco concentrato e sbagli le parole del libretto). Completano la compagnia il baritono Ramiro Marturana e il soprano Inés Lorans, nelle vesti dei servitori Norton e Clarina: altri due frutti della sempre ferace Accademia Rossiniana pesarese. Gli spettatori applaudono con entusiasmo dopo il finale della farsa, fino a quando non cala sul palcoscenico una gigantesca bandiera palestinese che suscita qualche reazione di disappunto. È giusto che il teatro sia anche luogo di rivendicazioni politiche, ma di questa serata si ricorderà soprattutto la successione dei fondali, così rassicuranti e plausibili per la loro funzione: dalla Fonte di Ippocrene di Angelo Monticelli (1818), il dipinto che decora l’antico sipario del Teatro Rossini, per le Soirées musicales, alla facciata della sobria casa londinese di Tobia Mill, nella coloratissima scenografia di Gary McCann per La cambiale di matrimonio. Foto © Amati Bacciardi
Fondazione Arena di Verona guarda alle nuove generazioni. E, per la prima volta, punta ad avere un suo Coro di Voci bianche. Obiettivo promuovere l’educazione musicale in bambini e ragazzi dai 3 ai 14 anni, ma anche scoprire nuovi talenti e diffondere la pratica del Canto lirico in Italia patrimonio dell’Umanità, così come l’amore per l’Opera.
Una novità che prenderà forma con l’avvio del nuovo anno scolastico. Le selezioni, infatti, si terranno a fine settembre e i corsi, uno propedeutico e l’altro avanzato, prenderanno il via ad ottobre. Un ulteriore tassello che Fondazione Arena aggiunge al grande mosaico realizzato in questi ultimi anni con il potenziamento del progetto Arena Young, per portare a teatro bambini e studenti, l’organizzazione del primo evento per famiglie in Arena e l’annuncio della creazione per la Stagione 2026 di una nuova area family, per rendere accessibile l’anfiteatro a genitori con neonati o bambini molto piccoli.
A dirigere il nuovo Coro di Voci bianche sarà il Maestro Matteo Valbusa, musicista veronese, insegnante e Direttore di Coro e d’Orchestra.
L’anno formativo inizierà a ottobre 2025 e terminerà a maggio 2026, e sarà diviso appunto in due percorsi: il corso propedeutico per bambini dai 3 ai 7 anni e il corso avanzato per ragazzi dai 7 ai 14 anni. Le lezioni si terranno nel pomeriggio, una o due volte alla settimana, verranno proposti poi dei laboratori, il sabato, ai quali potrà partecipare l’intera famiglia.
DOMANDA DI AMMISSIONE. Le domande di ammissione alle selezioni dovranno essere compilate utilizzando l’apposita scheda di iscrizione entro la mezzanotte di mercoledì 24 settembre. Le selezioni si terranno nelle giornate di martedì 30 settembre e mercoledì 1° ottobre. Per informazioni scrivere a corovocibianche@arenadiverona.it.
Il percorso didattico mira allo sviluppo delle potenzialità vocali, espressive e interpretative dei giovani cantori in un’ottica di formazione artistica interdisciplinare volta a favorire lo sviluppo della sensibilità musicale, l’acquisizione di competenze tecniche e artistiche fondamentali per affrontare con consapevolezza e passione il mondo della musica vocale e del teatro. Tutto questo in un ambiente altamente professionale.
Tutte le attività si terranno nelle diverse sedi di Fondazione Arena: Teatro Filarmonico, Sala Filarmonica, Sala Bra. Il costo di partecipazione va dai 200 euro per il corso propedeutico ai 340 euro annuali per il corso avanzato, più tassa d’iscrizione. In caso di partecipazione di più figli è previsto uno sconto del 30% sulla seconda quota di frequenza.
Il corso si inserisce anche in un più ampio progetto di salvaguardia, tutela e diffusione della pratica del canto lirico, riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale dell’umanità, rivolgendosi in particolare alla valorizzazione del bene vocale dei più giovani.
Regolamento e bando sono disponibili sul sito www.arena.it, cliccando qui.
In foto: Bellomi, Tondelli, Trespidi, Zaha, Venturini, Gasdia, Cavalli, Gabbiani.
Nove concerti per il 27° Festival organistico internazionale “Armonie sacre percorrendo le terre di Liguria”, in programma dal 22 agosto al 7 settembre 2025 a Rapallo, Ventimiglia, Santa Margherita, Monterosso, Loano e Sestri Levante, località dove rinnova l’impegno nella valorizzazione del patrimonio organario e spirituale del territorio ligure, proponendo un cartellone ricco di appuntamenti che coniugano tradizione, ricerca e apertura ai linguaggi del presente. Il Festival è organizzato dall’Associazione Rapallo Musica ETS con la direzione artistica di Fabio Macera e Filippo Torre, è realizzato con il patrocinio e il contributo di Ministero della Cultura, Regione Liguria, dei Comuni sedi della manifestazione, sotto l’alto patrocinio del Parlamento Europeo e con il patrocinio di Rai Liguria. Fondazione Compagnia di San Paolo è il maggior sostenitore.
Tra gli ospiti più attesi del Festival figura il concertista francese Thomas Ospital, che si esibirà venerdì 29 agosto nella Basilica dei SS. Gervasio e Protasio di Rapallo, dove concluderà la sua esibizione con un’improvvisazione su temi dati, un tipo di esecuzione da sempre nella tradizione della scuola organistica transalpina.
Il concerto di Ospital fa parte sia del filone “Nuovi Percorsi” che della sezione “Spazio Giovani”. “Nuovi percorsi” si conferma spazio privilegiato per lo sviluppo della creatività contemporanea e il rinnovamento dei linguaggi performativi. Parallelamente, il festival prosegue il suo investimento nella crescita delle nuove generazioni di musicisti, con “Spazio Giovani”, sezione dedicata agli artisti under 35.
Per la prima volta il festival propone un concerto per organo e ensemble di soli ottoni. Venerdì 22 agosto nella Basilica dei SS. Gervasio e Protasio di Rapallo, ne sono protagonisti l’Ensemble di ottoni dell’Orchestra Rapallo Musica e Gabriele Agrimonti, organista italiano emergente che si è distinto in campo internazionale nell’interpretazione della musica romantica, sinfonica e contemporanea, nonché nell’improvvisazione, quest’ultima specialità sviluppata grazie alla formazione al Conservatorio di Parigi. Anche questo concerto fa parte di “Nuovi Percorsi” e dello “Spazio Giovani”.
Il Festival si conclude domenica 7 settembre nella Basilica di S. Maria di Nazareth, a Sestri Levante, con il concerto dell’organista Tomas Gavazzi (Nuovi Percorsi e Spazio Giovani). Qui per tutte le informazioni. In allegato, il Calendario generale del Festival. Calendario_Festival_2025
Pesaro, Auditorium Scavolini, Rossini Opera Festival 2025, XLVI Edizione
“ZELMIRA”
Dramma per musica in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Polidoro MARKO MIMICA
Zelmira ANASTASIA BARTOLI
Ilo LAWRENCE BROWNLEE
Antenore ENEA SCALA
Emma MARINA VIOTTI
Leucippo GIANLUCA MARGHERI
Eacide PAOLO NEVI
Gran Sacerdote SHI ZONG
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Giacomo Sagripanti
Coro del Teatro “Ventidio Basso” di Ascoli Piceno
Maestro del Coro Pasquale Veleno
Regia Calixto Bieito
Scene Calixto Bieito, Barbora Horáková
Costumi Ingo Krügler
Luci Michael Bauer
Pesaro, 19 agosto 2025, nuova produzione
«Di Argo lo sguardo | abbia ciascun», esorta astutamente Antenore all’inizio di Zelmira; e parrebbe spronare gli spettatori del Rossini Opera Festival a un’attenzione cui nulla sfuggisse, come ai cento occhi del mostro mitologico, per apprezzare un allestimento innovativo, brillante, violento, capace di soggiogare il pubblico dal primo all’ultimo minuto dell’esecuzione. L’arengo di un ex palazzetto dello sport si trasforma in un grandissimo palcoscenico rettangolare, nel cui mezzo è incassata la fossa orchestrale; ai bordi cantanti, mimi e coristi sfilano per ridare vita all’ultima partitura napoletana di Rossini; il pubblico è seduto sulle gradinate tutt’attorno, a 360 gradi; non c’è sipario, non ci sono scene in elevato né altri piani praticabili. Il tutto può sembrare, più che la chiusura di un ciclo, l’inizio di una nuova fase del festival, in cui sfruttare le molteplici potenzialità del rinnovato (ma sempre alquanto disagevole) Auditorium Scavolini. Anche il fatto che la produzione sia stata affidata a un direttore esperto come Giacomo Sagripanti, ad alcuni cantanti ormai capisaldi del ROF, ma allo stesso tempo a un regista di fama internazionale debuttante a Pesaro, come Calixto Bieito, fa pensare a un progetto di “rinnovamento della tradizione”, che poi era anche la suprema ambizione musicale di Rossini nell’intonare il libretto di Zelmira. L’esperimento funziona? Apparentemente sì, a giudicare dall’unanime furore di applausi e apprezzamenti rivolti a tutti gli interpreti. Sul piano musicale, infatti, l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna diretta da Sagripanti regala continuamente bouquet di colori, nuances e brillantezza. Non si tratta mai di manierismo, comunque, ma di ricerca timbrica applicata ai moduli ritmici che danno l’abbrivio al terremoto musicale. La compagnia vocale è ottima, ma le singole prestazioni sono tutte soggette a due fattori: uno spaziale, perché i solisti si trovano al centro dell’Auditorium e, qualunque sia la loro postura, cantano sempre di spalle per metà del pubblico; l’altro è interpretativo, richiesto dal regista per corroborare la sua visione di Zelmira come dramma di infatuazione bestiale per il potere e la supremazia da parte dei due antagonisti, Antenore e Leucippo, non a caso rappresentati come amanti. Nel ruolo della protagonista si destreggia un’Anastasia Bartoli molto vigorosa nella linea di canto, nell’emissione e nel porgere. Tecnicamente molto buona, riesce anche a commuovere per l’intensità di «Perché mi guardi, e piangi», rivolgendosi al figlio accompagnata dal corno inglese e dall’arpa. Eppure, la sua parte è come sacrificata da una regia che non le rende giustizia protagonistica. Nella costruzione di Bieito, infatti, si assegna un’evoluzione interiore a tutti gli altri caratteri (persino a Emma; persino al cadavere di Azorre, che sgambetta imperterrito nel corso di tutta l’esecuzione), tranne che a quello principale. Enea Scala, come Antenore, giunge certamente a un altro livello (apicale) della sua carriera di tenore rossiniano, considerata l’estrema difficoltà della parte. Dopo Ermione del 2024, questa Zelmira è un ulteriore avvicinamento alla vocalità baritenorile di Andrea Nozzari, per cui Rossini aveva scritto il ruolo. In alcuni momenti Scala dà sfogo a una certa sprezzatura, che libera emissioni stridule e violente, oltre a far uso del portamento; forse è una scelta stilistica funzionale all’interpretazione del feroce personaggio, ma in Rossini rischia di apparire fuori luogo. Il cantante più apprezzato della recita è un altro tenore, colui che reinterpreta la vocalità contraltina di Giovanni David, ossia Lawrence Brownlee, un Ilo dall’emissione smagliante e dalle agilità prodigiose; la sgranatura delle note e dei gruppetti, unitamente alla perfetta dizione del testo italiano, rendono la sua prova memorabile. A due comprimari molto buoni, il mezzosoprano Marina Viotti, debuttante al ROF come Emma, e il terzo tenore Paolo Nevi come Eacide, si affiancano altri due dalla prestazione poco felice, il basso Marko Mimica (un Polidoro con difficoltà di copertura del suono e di intonazione) e il basso-baritono Gianluca Margheri (un Leucippo dalla vocalità inadeguata). Il Coro del Teatro Ventidio Basso, sballottato ai quattro venti e costretto a cantare spesso sulle ripide scale delle tribune, non ha offerto una prestazione secondo lo standard a cui il pubblico del ROF è abituato: altra conseguenza di un progetto scenico originale, azzardato, farraginoso e sicuramente oltremodo costoso (la quantità di posti vuoti è segnale preoccupante per il futuro). Bieito vuole raccontare la storia e dimostrare di aver studiato il libretto di Tottola (incredibile dictu!); poi però vuole anche strafare e commette altro errore abnorme. L’unico elemento di giustizia redentrice dell’impianto registico, infatti, non è affidato a Zelmira, bensì al morto Azorre, un mimo tanto abile quanto fastidioso, perché distrae il pubblico e fa rumore (anche durante le agilità della cavatina di Ilo-Brownlee; e questo mai sarà perdonato). Presunta nemesi dell’assassinio, nella regia di Bieito questo fantoccio peripatetico è il garante del ristabilirsi della pace (nel II atto porta in scena un alberello di ulivo), ma il messaggio è completamente sbagliato: chi legge tra le righe del libretto di Tottola o chi si documenta sulla fonte francese (o semplicemente sull’antefatto dell’opera rossiniana) scopre che Azorre, signore di Mitilene, ha occupato Lesbo con la forza, usurpando il trono di Polidoro; egli è dunque un tiranno, ucciso da altri pretendenti alla tirannide: una catena di soverchiatori distrutti dalla loro stessa protervia e che non meritano tanta attenzione. Dramma politico a lieto fine, Zelmira è uno specchio delle vicissitudini dello Stato e della legittimità costituzionale, ovviamente in termini di conservazione, ma ristabilita per mezzo della pietas filiale. Certo, la sadica violenza di un tiranno è teatralmente più redditizia, soprattutto se ammicca al grottesco ed è pornograficamente esibita. Foto © Amati Bacciardi
Tornano ad illuminare il cielo di Fano le notti d’estate della WKO Wunderkammer Orchestra Ets: sabato 23 agosto alle ore 21:30 c’è un nuovo appuntamento con Les nuits d’été, la rassegna musicale nella Chiesa di S. Francesco in collaborazione con il Comune di Fano – Assessorato alla Cultura e Beni culturali – Biblioteche. Il programma gode del sostegno di Sistemi Klein, Morfeus, Riviera Banca, Roberto Valli Pianoforti, Giardino di Santa Maria.
Tra i più affascinanti tesori d’arte della città marchigiana, luogo di storia e incanto dall’acustica perfetta, il monumento a cielo aperto accoglie l’Ensemble Orfeo Futuro, gruppo a geometria variabile che riunisce dal 2010 musicisti italiani e non, specialisti nelle prassi esecutive su strumenti storici, con all’attivo la partecipazione ai più importanti festival nazionali ed internazionali del settore. Sul palco Nunzia Antonino voce recitante, Luciana Elizondo voce e viola da gamba, Gioacchino De Padova viola da gamba, Gabriele Natilla tiorba, Gianvincenzo Cresta all’elettronica.
In programma, lo spettacolo Le Voci Umane – un’evocazione di parola e suono, intreccio di musica antica, elettronica e parola, per dare nuova voce a due giganti della cultura italiana: Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. Il recital è nato per la spinta di una consapevolezza, quella dell’assenza delle voci, bellissime e severe, di due grandi intellettuali del secolo scorso di cui ricorrono i 50 anni della scomparsa. L’Ensemble Orfeo Futuro immagina di evocarne le figure con un intreccio tra alcune loro parole e il suono di una musica lontana nel tempo ma vicina nel carattere, dal Cinquecento ai nostri giorni, con brani di Arcangelo Corelli, Tobias Hume, Marin Marais, Carl Friedrich Abel, Robert De Visée. Accanto a questo, come ulteriore elemento dialettico, si snoda il percorso sonoro disegnato da Gianvincenzo Cresta con le sue musiche elettroniche. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Parco Archeologico dell’Appia Antica
L’APPIA ANTICA, UNA VIA DI PIETRA E DI MEMORIA
Roma, 20 agosto 2025
Percorrere l’Appia Antica significa penetrare in un paesaggio che non appartiene soltanto al passato, ma che si offre come un organismo vivo, stratificato, in cui le pietre parlano, gli alberi custodiscono segreti e la luce romana trasforma ogni rovina in epifania. Il Parco Archeologico dell’Appia Antica, istituito nel 2016 come ente autonomo del Ministero della Cultura, rappresenta oggi una delle più potenti incarnazioni del concetto di “museo diffuso”: un territorio che si estende dalle Mura Aureliane fino a Frattocchie, per tredici miglia di tracciato, riconosciuto dall’UNESCO nel 2024 come patrimonio dell’umanità. Qui la celebre Regina Viarum non è soltanto un itinerario archeologico, ma un paesaggio di memoria che coniuga storia, natura e spiritualità. Fin dall’Ottocento la via fu percepita come un monumento collettivo. Papa Pio IX ne affidò a Luigi Canina la sistemazione, immaginandola come una passeggiata archeologica: lungo il tracciato furono eretti i muri a secco per delimitare le aree di rispetto, e vennero piantati i pini marittimi che ancora oggi, con la loro verticalità romantica, scandiscono il ritmo del cammino. Quelle file di alberi, così amate da pittori, poeti e viaggiatori, divennero parte integrante dell’immaginario visivo della Roma ottocentesca. Ma la modernità rischiò più volte di cancellare quel sogno: negli anni Sessanta il cemento minacciava di inghiottire ogni cosa, e fu grazie alla battaglia civile di Antonio Cederna e di Italia Nostra che la via fu salvata e restituita ai cittadini. Camminare oggi sull’Appia significa attraversare una sequenza ininterrotta di monumenti che raccontano la potenza e la fragilità di Roma. Il Mausoleo di Cecilia Metella, trasformato nel Medioevo in Castrum Caetani, si staglia come una sentinella di pietra, esempio di come le memorie antiche siano state continuamente rilette, riutilizzate, trasformate. Più avanti, la Villa dei Quintili, con le sue terme e le sue imponenti arcate, narra la storia di un lusso tragicamente interrotto dalla confisca imperiale. Le rovine diventano qui non solo testimonianza, ma racconto drammatico di destini individuali e collettivi. Accanto ai grandi complessi, il Parco custodisce tesori più intimi: il Ninfeo di Egeria, con la sua raffinatezza di marmi policromi e la magia di un’acqua che sembra ancora sgorgare dalla roccia; la Valle della Caffarella, con i suoi campi, le pecore al pascolo e i resti di mulini medievali, quasi un paesaggio arcadico sospeso tra mito e realtà; gli acquedotti Claudio e Anio Novus, con le loro arcate possenti, che evocano la sapienza ingegneristica e la capacità di Roma di trasformare il paesaggio in infrastruttura vitale. L’Appia non è soltanto archeologia: è paesaggio, ed è anche laboratorio culturale. Negli ultimi anni il Parco ha intrapreso una intensa attività espositiva, che ha trasformato i suoi casali storici in luoghi di dialogo tra antico e contemporaneo. Mostre come L’Appia è moderna, Via Appia. La strada che ci ha insegnato a viaggiare o l’attuale Agorà – Scienza e matematica dal Mediterraneo antico mostrano come la via non sia un fossile, ma una trama di senso capace di parlare al presente. La fotografia, l’arte contemporanea, la divulgazione scientifica diventano strumenti per riscoprire l’antico in chiave attuale, restituendo al pubblico non solo conoscenza, ma esperienza. In questa prospettiva il Parco si configura come un modello: unisce la cura filologica del bene archeologico all’apertura verso la città, accogliendo iniziative musicali, teatrali, didattiche. Capo di Bove, con le sue mostre e i suoi concerti estivi, è ormai un presidio di cultura condivisa; la rivista scientifica Archeologi& e i progetti educativi come AppiaPlay rafforzano il dialogo con il mondo accademico e con le nuove generazioni. L’innovazione passa anche attraverso il digitale, con il MUVI Appia, museo virtuale che permette di esplorare in maniera immersiva il paesaggio storico, abbattendo confini e rendendo accessibile a tutti la profondità del sito. Ma la forza del Parco Archeologico dell’Appia Antica sta soprattutto nella sua capacità di evocazione. Ogni pietra è al tempo stesso frammento e simbolo, residuo materiale e metafora. Il viaggiatore che si inoltra lungo il basolato non guarda soltanto i ruderi: ascolta le voci che da quei ruderi provengono, le stratificazioni di usi, riti, memorie. Qui la classicità non è un oggetto morto, ma un compagno di viaggio. Ogni mausoleo racconta l’orgoglio e l’ansia di immortalità di chi lo fece erigere; ogni villa ricorda l’illusione di eternità del potere imperiale; ogni rovina medievale testimonia l’instancabile capacità di Roma di rinascere dalle proprie rovine. Il Parco è dunque un organismo complesso, in cui si intrecciano tutela, ricerca, educazione e vita civile. Non è un recinto chiuso, ma un paesaggio attraversabile, in cui il cittadino romano e il viaggiatore straniero diventano parte integrante del racconto. È un esempio di come la storia possa essere vissuta non come eredità polverosa, ma come risorsa per il presente. Ed è anche un invito alla responsabilità: le battaglie civili del passato ci ricordano che nulla è garantito per sempre, che ogni paesaggio, per quanto magnifico, può essere distrutto dall’incuria o dall’interesse privato. Per questo camminare sull’Appia significa assumersi un compito: essere custodi di un bene comune che appartiene al mondo intero. La via che univa Roma a Brindisi, porta d’Oriente, oggi unisce passato e futuro, archeologia e natura, cultura e società. È una via di pietra, ma anche di memoria e di speranza. Chi la percorre con attenzione comprende che non si tratta di un semplice itinerario turistico, ma di un’esperienza formativa: la consapevolezza che la storia non è mai dietro di noi, ma continuamente davanti ai nostri occhi, pronta a insegnarci ancora a viaggiare.
Ferdinand Ries 1784-1838: Quartet in C Op.145 No.1; Quartet in E minor Op.145 No.2; Quartet in A Op.145 No.3 (CD 1)
Quartet in D minor WoO35 No.1; Quartet in G WoO35 No.2; Quartet in A minor WoO35 No.3 (CD2). Ginevra Petrucci (flauto). Trio David. Gloria Santarelli (violino). Chiara Mazzocchi (viola). Tommaso Castellano (violoncello). Registrazione: 26-29 ottobre 2023 e 12-14 marzo 2024, Beth Recording Studio, Roma, Italia. T. Time: 65’11″ (CD1) e 69’45″ (CD2). 2 CD Brilliant Classics 97150
Allievo e amico di Beethoven, del quale eseguì il Concerto per pianoforte in do minore in occasione del suo debutto nel mese di luglio del 1804, Ferdinand Ries fu anche autore di una discreta produzione musicale, all’interno della quale sono degni di essere menzionati 30 lavori per flauto, la maggior parte dei quali fu composta nel decennio che va dal 1814 al 1824, periodo nel quale il compositore si era stabilito a Londra. In quegli anni nella capitale inglese, il flauto era diventato estremamente popolare grazie a eminenti virtuosi come Charles Nicholson (1795-1837) e Louis Drouet (1792-1873) che avevano fatto il loro debutto presso la Philharmonic Society il 25 marzo 1816 e naturalmente alimentavano la domanda di nuove composizioni destinate a questo strumento. Al periodo londinese risalgono i tre quartetti dell’op. 145 che costituiscono il programma del primo dei due CD di questa proposta discografica della Brilliant Classics. Composti, infatti, tra il 1814 e il 1825 ma pubblicati nel 1826, questi quartetti riportano, però, nel frontespizio il nome di Charles Aders, un uomo d’affari londinese, grande amico di Ries e flautista dilettante. Scritti per un organico, costituito da un flauto, da un violino, da una viola e da un violoncello, questi lavori rivelano una certa invenzione melodica e una solida struttura formale, evidente soprattutto nei movimenti esterni ascrivibili, in genere, alla forma-sonata. In generale, il flauto ha un ruolo preminente con spunti virtuosistici, anche se gli altri strumenti non gli sono del tutto subordinati dal momento che ad essi sono affidati degli episodi concertanti. Slegati dall’ambiente londinese, sono gli altri tre quartetti che costituiscono il programma del secondo dei due CD e che furono composti dopo che Ries era ritornato in Germania probabilmente per Anton Bernhard Fürstenau, il famoso flautista dell’Orchestra di Dresda, che fu probabilmente anche amico di Carl-Maria von Weber. In questi lavori la scrittura contrappuntistica si fa più serrata attraverso passi di natura imitativa. Queste pagine sono molto ben eseguite da Ginevra Petrucci (flauto) e dal Trio David, composto da Gloria Santarelli (violino), da Chiara Mazzocchi (viola) e da Tommaso Castellano (violoncello). Tutti gli artisti sfoggiano una solida tecnica nei passi più impegnativi e una certa sensibilità espressiva evidente soprattutto nei movimenti lenti. Inoltre, molto curato è l’insieme sia nei passi in cui gli archi accompagnano il flauto sia nei momenti concertanti dove emergono con chiarezza le singole voci.
Le due date per ascoltare la Gustav Mahler Jugendorchester diretta da Manfred Honeck sono martedì 19 alle ore 20:30 e venerdì 22 alle ore 20:30. In entrambi gli appuntamenti il solista è il celebre violinista Renaud Capuçon.
Il programma di martedì 19 comprende il Concerto n. 3 per violino di Wolfgang Amadeus Mozart e la Nona Sinfonia in re minore, l’ultimo capolavoro sinfonico di Anton Bruckner.
Il programma di venerdì 22 si apre con il Concerto per violino di Erich Wolfgang Korngold, uno dei pilastri del repertorio violinistico del XX secolo, seguito dalla Sinfonia n. 5 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, tra le pagine più amate del compositore russo.
In entrambi i concerti al Teatro Comunale, la Gustav Mahler Jugendorchester, in questo ormai 39° anno di residenza a Bolzano, punta ancora una volta sull’accoppiata direttore-solista composta da due protagonisti di assoluto rilievo della scena musicale classica europea: la bacchetta Manfred Honeck e il violinista Renaud Capuçon. Pur essendo una presenza di lunga data del Festival, il rapporto tra il direttore austriaco e la GMJO è ancora più antico: all’inizio della sua carriera, infatti, è stato assistente di Claudio Abbado presso l’orchestra giovanile e come tale è stato ospite a Bolzano in svariate occasioni.
Renaud Capuçon può senza dubbio essere considerato uno dei grandi virtuosi del violino del nostro tempo e in queste due date torna alle sue origini: nel 1997, infatti, fu scelto da Claudio Abbado come primo violino della Gustav Mahler Jugendorchester.
Il Prof. Giacomo Fornari terrà l’introduzione al concerto alle ore 19.00 nel foyer al primo piano del Teatro Comunale. La partecipazione all’introduzione è gratuita.
Qui per tutte le informazioni. Foto Luca Guadagnini / Bolzano Festival Bozen 2021
102° Arena di Verona Opera Festival 2025
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Voci bianche A.LI.VE. e A.d’A.Mus.
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Voci bianche dirette da Paolo Facincani, Elisabetta Zucca
Soprano Erin Morley
Controtenore Raffaele Pe
Baritono Youngjun Park
Carl Orff: “Carmina burana” Cantiones profanae cantoribus et choris, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis.
Verona, 15 agosto 2025
La grande cantata scenica che dispiega un numero colossale di esecutori tra solisti, coro, coro di voci bianche e orchestra è tornata all’Arena per la quinta volta; nonostante la popolarità di cui gode è apparsa infatti nell’anfiteatro veronese solo undici anni fa. Orff la compose tra il 1935 e il 1936 con il titolo Carmina Burana: Cantiones profanae cantoribus et choris, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis”, strutturandola su 24 componimenti poetici scelti tra la raccolta medioevale rinvenuta nel 1803 presso il monastero di Benediktbeuern, in Alta Baviera, dove era conservato il Codex Buranus. Si tratta di componimenti scritti dai goliardi e dai clerici vagantes, studenti che nel Basso Medioevo si spostavano per l’Europa. Il musicista si appassionò subito, affascinato dalla varietà degli argomenti trattati scegliendo poesie prevalentemente in latino ma anche in provenzale e alto tedesco: dovette lavorare in un ambito culturale ostile poiché il repertorio medioevale era pressoché sconosciuto tanto nella Germania nazista quanto nella comunità musicale. Il regime era attentissimo ad ogni nuova forma introdotta nei repertori concertistici, timoroso di vedere indebolita la potenza del Reich che utilizzava anche la musica come strumento di propaganda. I Carmina Burana attraevano Orff ma irritavano non poco il regime di Hitler per il contenuto erotico ed allusivo, licenzioso ed anticlericale di alcuni canti i quali richiedono un organico massiccio per esaltarne i colori, le melodie, le caratteristiche ritmiche e le sonorità strumentali tese a creare suggestioni sonore diversificate. Lo spettacolo, serata unica al 102° Festival, si è avvalso di un nuovo disegno luci, diversificate per ogni sezione musicale della cantata, ed ha visto la conferma sul podio del veronese Andrea Battistoni, direttore principale della Tokyo Philharmonic e direttore musicale del Teatro Regio di Torino, che torna al capolavoro di Orff dopo le edizioni del 2014 e del 2022. Battistoni si impone con autorevolezza dominando la complessa partitura anche nei frequenti passaggi ritmici asimmetrici e con bella varietà di colori e dinamiche, donando una direzione energica e pregnante: lodevole la prestazione dell’orchestra con le percussioni sugli scudi e perfettamente compatta in ogni sezione. Non da meno il coro, preparato da Roberto Gabbiani, che ha saputo caratterizzare i diversi interventi mettendo in particolare evidenza le voci femminili. Il trio dei solisti, chiamati ad un impegno non indifferente con interventi vocali particolarmente insidiosi, annoverava il soprano statunitense Erin Morley (prossima Gilda in Rigoletto) che ha risolto l’abbandono alla sensualità carnale con adeguata dolcezza di emissione, timbro luminoso e sicura tenuta di suono. Di particolare difficoltà la voce intermedia del trio vocale, per la quale occorre un tenore falsettista o un controtenore a voce piena: la tessitura è particolarmente acuta ma ha trovato in Raffaele Pe (già debuttante in questo ruolo nel 2014), un interprete dotato di vocalità morbida e mai invasiva, capace di proporre con elegante e garbata ironia l’ultimo canto del cigno in Olim lacus colueram. Il baritono Youngjun Park, ormai presenza stabile a Verona, è qui chiamato ad un compito significativo quale cantore della vita nelle sue ricche sfumature che vanno dal risveglio lieto della primavera al richiamo del piacere sregolato dato dal gioco, il cibo ed il buon vino fino alla celebrazione dell’amore sensuale. Di vocalità sicura, perentoria ma con la possibilità di sfumature sonore morbide e delicate alle quali si aggiunge una straordinaria intensità di declamazione ed una linea di canto garbata, ha tuttavia scelto una linea interpretativa poco caleidoscopica smorzando la caratterizzazione vivace imposta dall’impostazione creativa di Orff. Da sottolineare, ancora una volta, l’eccellente apporto dei cori di voci bianche A.LI.VE. e A.Da.Mus. diretti rispettivamente da Paolo Facincani e Elisabetta Zucca, puntuali ed impeccabili nei loro interventi. Pubblico abbastanza numeroso ma lontano dal tutto esaurito, con applausi fuori tempo (che comunque non hanno disturbato l’esecuzione) fino all’ovazione finale con la concessione del bis, il celebre O fortuna che apre e chiude i Carmina Burana, a suggello di una serata musicalmente trionfale. Foto Ennevi per Fondazione Arena