L’inaugurazione della Stagione d’Opera e di Balletto 2025/26 del Regio è venerdì 10 ottobre alle ore 19 con Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai: un titolo creato proprio per il Regio nel 1914, che torna oggi in un nuovo allestimento firmato da Andrea Bernard. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Regio sale il Direttore musicale del Teatro Andrea Battistoni, il Coro è istruito dal maestro Ulisse Trabacchin. A dare voce ai protagonisti, un cast di grande prestigio internazionale: Roberto Alagna, Barno Ismatullaeva e George Gagnidze.
L’Anteprima Giovani dell’opera – dedicata al pubblico under 30 – è giovedì 9 ottobre alle ore 20, seguono la Prima, venerdì 10 ottobre alle ore 19, e cinque recite fino al 23 ottobre.
A dare voce a Francesca sarà il soprano Barno Ismatullaeva, rivelazione al Regio con Madama Butterfly nel 2023, alla quale si alternerà Ekaterina Sannikova (14 e 23). Paolo avrà il timbro inconfondibile di Roberto Alagna, e per le recite del 19, 21 e 23 il ruolo sarà affidato a Marcelo Puente; la parte di Gianciotto vedrà protagonista George Gagnidze, con Simone Piazzola nelle recite del 14 e 23. Accanto a loro un cast di rilievo che riunisce artisti affermati e giovani talenti: Valentina Boi (Samaritana), Devid Cecconi (Ostasio), Matteo Mezzaro (Malatestino), Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara), Sofia Koberidze (Donella), Silvia Beltrami (Smaragdi), Enzo Peroni (Ser Toldo), Janusz Nosek (Il giullare), Daniel Umbelino (Il balestriere) ed Eduardo Martínez (Il torrigiano). Tonkikh, Myskohlid, Umbelino e Martínez, insieme a Tyler Zimmerman sono i componenti del Regio Ensemble per questa Stagione. A firmare l’allestimento sono Alberto Beltrame per le scene, Elena Beccaro per i costumi, Marta Negrini per la coreografia e Marco Alba per le luci. Collaborano inoltre Paolo Vettori (assistente alla regia), Giulia Turconi (assistente alle scene) ed Emilia Zagnoli (assistente ai costumi). Qui per ulteriori informazioni. Foto Ivan Cazzola
Antonio Vivaldi (1678 -1741): “Il Farnace”, RV 711-D, Sinfonia; Flute Concerto in D Minor, RV 431a, “Il Gran Mogol”; Violin Concerto in D Major, Op.3 No.9, RV 230, L’Estro Armonico; Mandolin Concerto in C Major, RV 425; Recorder Concerto in C Minor, RV 441; Concerto for Strings in G Minor, RV 156; Sinfonia for Strings in B Minor, RV 168. Emelie Roos (flauto). Hannah Tibell (violino). Kanerva Juutilainen (violino). Julia Dagerfelt (violino). Rastko Roknic (viola). Hanna Loftsdottir (violoncello). Joakim Peterson (violone). Marcus Mohlin (clavicembalo). Dohyo Sol (mandolino) Registrazione: giugno 2024 presso la chiesa Borlunda, Eslöv, Sweden. T. Time: 59′ 05″. 1CD Proprius PRCD2102
Se Venezia, l’Ospedale della Pietà e il Teatro Sant’Angelo furono certamente per Vivaldi i luoghi per i quali il compositore scrisse la maggior parte della sua produzione, è vero anche che già durante la sua vita il Prete Rosso fu un compositore di successo a livello europeo. Basti ricordare per esempio le edizioni “pirata” dei suoi concerti uscite ad Amsterdam dai torchi di Estienne Roger e portate dal principe Johann Ernst di Sassonia in patria, dove furono trascritti per clavicembalo e per organo da Johann Sebastian Bach. In questa proposta discografica dell’etichetta Proprius sono raccolte alcune composizioni di Vivaldi che, per vicissitudini diverse, hanno avuto un legame con il Nord Europa. Del Concerto per flauto RV 431a, “Il Gran Mogol” l’unica copia era stata, infatti, portata dal flautista Lord Robert Kerr in Scozia, dove è stata scoperta nel 2010. Nel Nord Europa erano giunti anche il Concerto per violino in sol maggiore, che comunque è incluso anche nella raccolta “La Stravaganza”, e il Concerto per archi in si minore che provengono dalla collezione di Hinrich Christopher Engelhardt, organista della Cattedrale di Uppsala e direttore musicale presso l’università della stessa città. Completano il programma il Concerto per violino Op.3 No.9, RV 230, tratto da L’Estro Armonico, che era stato pubblicato da Roger ad Amsterdam, il Concerto per mandolino in do maggiore RV 425, il Concerto per flauto dolce in do minore RV 441, il Concerto per archi in sol minore RV 156 oltre alla Sinfonia tratta dall’opera Farnace. Se il programma non costituisce certo una novità, in quanto è possibile ascoltare dei lavori vivaldiani abbastanza conosciuti, l’esecuzione da parte dell’ensemble formata da Emelie Roos (flauto), da Hannah Tibell (violino), da Kanerva Juutilainen (violino), da Julia Dagerfelt (violino), da Rastko Roknic (viola), da Hanna Loftsdottir (violoncello), da Joakim Peterson (violone) e da Marcus Mohlin (clavicembalo), è, comunque, di ottimo livello e storicamente informata. Va segnalata qui anche la solida professionalità di tutti gli artisti, ivi compresi i solisti: Dohyo Sol nel Concerto per mandolino, Emelie Roos in quelli per flauto e Hannah Tibell in quello per violino. Si tratta, in sostanza, di un Cd di piacevole ascolto che, se non permette di scoprire delle novità, almeno le propone in un’esecuzione fatta da ottimi professionisti.
Wer weiß, wie nahe mir mein Ende? BWV 27 eseguita la prima volta a Lipsia il 6 ottobre 1726 completa il trittico delle partiture dedicate alla sedicesima Domenica dopo la Trinità. Si tratta di un’opera singolare, anche sotto il profilo del testo, dal momento che, al Nr.1 propone la prima strofa del Lied (del 1688) omonimo di Ämilie Juliane Contessa di Schwarzburg-Rudolstadt (1637-1706), sotto un sospiroso intreccio degli archi e le parti ornamentali e molto dettagliate dell’oboe, il corale è cantato in stile blocco dal coro con i commenti dei vari solisti. Questo metodo già presente in movimenti interni di altre cantate, questo metodo appare qui per la prima volta in un coro di apertura. Dopo un recitativo tenore (Nr.2), il contralto canta un’aria (Nr.3) avvincente con l’accompagnamento del corno inglese e dell’organo. Bach, piuttosto rassegnato dallo scarso livello degli strumenti a sua disposizione, scrive sempre più spesso parti obbligate e di rilievo per l’organo, lo strumento che riteneva potesse essere suonato al meglio, coinvolgendo il figlio Carl Philip Emmanuel ormai abbastanza grande per partecipare alle cantate. La brillante trama dell’organo avvolge il malinconico corno inglese e l’espressiva voce contralto crea una trama musicale di grande impatto. Il recitativo del soprano (Nr.4) che segue ha un carattere operistico, con gli archi che illustrano le ali degli uccelli., porta all’aria per basso (Nr.5) con gli archi tutta giocata sull’alternanza delle due espressioni del testo Il “Buona notte” e il “tumulto del mondo”: da un lato un ritmo di “Sarabanda”, dall’altro un tumultuoso disegno di note ribattute, ritmicamente ben sostenute, che illustrano il conflitto tra il cielo e il mondo tumultuoso del testo. Il corale, a cinque voci, è l’unica armonizzazione corale in tutte le cantate non composte da Bach. Qui egli riprende un’armonizzazione del 1682 di Johannes Rosenmüller. L’armonia leggermente arcaica e il commovente passaggio al metro ternario quando si parla del Cielo sono la conclusione perfetta di questa pregevole partitura.
Nr.1 – Corale e Recitativo
Coro
Chi sa quanto è vicina la mia fine?
Soprano
Solo il mio amato Dio sa
se il mio pellegrinaggio sulla terra
sarà breve o lungo.
Coro
Il tempo fugge, la morte s’avvicina,
Contralto
e alla fine arriva il momento
in cui essi si incontrano.
Coro
Ah, quanto velocemente e presto
può giungere la mia agonia!
Tenore
Chi sa se non sia oggi che la mia bocca pronunci le
sue ultime parole.
Per questo prego in ogni momento:
Coro
mio Dio, ti prego per il sangue di Cristo,
concedimi una buona fine!
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
La mia vita non ha altro scopo
che morire serenamente
e conservare la mia parte di fede;
per questo vivo in ogni istante
disponibile e pronto alla tomba,
e il lavoro che le mie mani compiono,
lo faccio come se sapessi
di dover morire oggi stesso:
una buona fine rende tutto buono!
Nr.3 – Aria (Contralto)
Benvenuta! Questo dirò
quando la morte sarà al mio capezzale.
La seguirò con gioia, quando mi chiamerà,
alla tomba,
portando tutte le mie pene
con me.
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
Ah, se potessi già essere in cielo!
Desidero partire
e con l’Agnello
festeggiare la felicità
circondato dalla schiera dei beati.
Datemi delle ali!
Ah, se potessi già essere in cielo!
Nr.5 – Aria (Basso)
Buona notte, tumulto del mondo!
Prendo da te congedo;
ho già un piede di là
presso il mio Dio in cielo.
Nr.6 – Corale
Mondo, addio! Sono stanco di te,
voglio salire in cielo
dove ci saranno la pace vera
e l’eterno, supremo riposo.
Mondo, in te solo morte e contesa,
nient’altro che vanità,
nel cielo sono per sempre
gioia, pace e felicità.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Museo delle Civiltà
ANIMALI, VEGETALI, ROCCE E MINERALI
Organizzato in collaborazione fra ISPRA-Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e MUCIV-Museo delle Civiltà di Roma
con il sostegno di ALES-Arte Lavoro e Servizi S.p.A
Roma, 03 ottobre 2025
A Roma si è consumato un gesto che non è soltanto inaugurazione, ma restituzione. Il Museo delle Civiltà ha presentato il nuovo allestimento permanente delle collezioni paleontologiche e lito-mineralogiche dell’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, in un percorso che si intitola con semplicità disarmante Animali, Vegetali, Rocce e Minerali. Non è un nome inventato per stupire: è la verità pura, diretta, quasi elementare. Ma proprio in questa semplicità risiede la forza dell’operazione, perché si tratta di rimettere in scena non la totalità del patrimonio, ma solo una parte di esso, quella che il tempo e soprattutto l’incuria dell’uomo hanno risparmiato. Sono state restaurate le vecchie teche, ripulite, rinnovate, adattate a ospitare una selezione delle oltre 150.000 testimonianze, affinché i reperti possano finalmente uscire dalla polvere dei depositi. Dentro le sale, oggi, ricompaiono fossili animali e vegetali, campioni di rocce e minerali, rilievi geologici e strumenti scientifici: frammenti di un patrimonio che un tempo era ben più vasto e che la città ha rischiato di perdere per sempre. Le collezioni ISPRA, in origine, erano l’orgoglio del Servizio Geologico d’Italia e documentavano non solo la scienza della Terra, ma anche l’ideale ottocentesco che attribuiva alla conoscenza geologica un ruolo centrale nello sviluppo della nazione moderna. Il geologo non era una figura marginale, ma un protagonista del progresso, colui che interpretava il paesaggio per trarne risorse, orientare l’industria, domare l’ambiente. Il nuovo allestimento trova il suo cuore nel Salone delle Scienze, dominato dalla grande tarsia marmorea di Mario Tozzi del 1942, anch’essa restaurata. Non è solo scenografia: è simbolo. In quello spazio, le collezioni diventano il segno tangibile di un pianeta che non è mai fermo, che si stratifica, si rompe, muta. La museologia che qui prende forma non si limita a disporre oggetti: racconta dinamiche, stratificazioni, equilibri fragili. E allo stesso tempo invita a riflettere sulla responsabilità: perché se qualcosa si è perso non è stato colpa soltanto del tempo, ma della disattenzione, delle scelte miopi, di una politica culturale che troppo spesso considera la scienza come sorella minore delle arti. Ed è impossibile non evocare, di fronte a questa rinascita parziale, il fantasma di Palazzo Canevari. L’ex Museo Geologico, elegante edificio liberty vicino a Termini, custodiva queste collezioni prima della chiusura negli anni Novanta. Poi la dispersione, gli scatoloni nei sotterranei, gli anni di abbandono. Il palazzo venne venduto e oggi è vuoto, lasciato al silenzio. Quella parabola è diventata il simbolo di un paradosso: Roma sa venerare i suoi Caravaggio e i suoi Bernini, ma non ha esitato a relegare in deposito la memoria della Terra. È questa la disparità che pesa: i musei d’arte godono di un’aura intoccabile, i musei scientifici devono continuamente giustificare la propria esistenza. Un dipinto barocco è difeso come reliquia nazionale, un fossile può rimanere invisibile senza che nessuno protesti. Eppure, senza le scienze della Terra, nessuna civiltà avrebbe avuto pigmenti, marmi, metalli, nessun artista avrebbe avuto i materiali per esistere. L’arte consola e incanta, la scienza inquieta e ammonisce: forse per questo la prima è amata, la seconda dimenticata. Ma nel nostro tempo, segnato da crisi ambientali e climatiche, proprio i musei scientifici dovrebbero essere i più necessari, perché ci raccontano non solo chi eravamo, ma quale futuro rischiamo. Il nuovo allestimento del Museo delle Civiltà è dunque più di una mostra: è un atto politico. Significa affermare che la scienza non può restare chiusa negli scatoloni, che anche i reperti mineralogici hanno diritto alla luce, che i fossili non sono oggetti secondari, ma capitoli della storia collettiva. È un gesto che restituisce dignità a ciò che era stato ridotto a deposito e che mette in discussione la gerarchia culturale che da sempre privilegia l’arte sulle scienze. Roma, con le sue stratificazioni, conosce bene i rischi dell’abbandono. È capace di celebrare con clamore un affresco ritrovato e nello stesso tempo di lasciare marcire collezioni di valore scientifico in scantinati dimenticati. Questa riapertura non cancella la ferita di Palazzo Canevari, ma la illumina come un monito. Non basta tagliare il nastro: serviranno programmazione, fondi, attenzione continua. La scienza non può più essere considerata un parente povero della cultura. Forse la lezione più profonda che possiamo trarre è proprio questa: la cultura non è fatta di compartimenti stagni. L’arte e la scienza sono due facce della stessa medaglia. L’una racconta le forme dello spirito, l’altra la sostanza della materia. E solo tenendole insieme si può davvero raccontare la storia dell’uomo e del mondo che lo ospita. Tra ciò che è andato perduto e ciò che oggi torna alla luce, Roma ha scritto una pagina che merita attenzione. Non è un episodio mondano, ma un gesto di civiltà. Se riusciremo a non lasciarlo isolato, se sapremo costruire da qui una nuova cultura del patrimonio scientifico, allora potremo dire che la città ha imparato la lezione. Perché un fossile vale quanto un Caravaggio, una roccia quanto un Bernini: entrambi ci appartengono, entrambi parlano di noi, entrambi meritano di essere guardati e compresi. Photocredit Giorgio Benni
Roma, Museo della Civilità di Roma
ELISA MONTESSORI: IL SOGNO DELLA CAMERA ROSSA
a cura di Alessandra Mammì ed Andrea Vilian
organizzata dal Museo delle Civiltà (MUCIV)
con il sostegno del Piano per l’Arte Contemporanea 2024 (PAC)
promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Roma, 03 ottobre 2025
La natura non è un insieme di parti, ma un organismo che respira. Ogni foglia porta in sé l’albero intero, ogni goccia custodisce il mare, ogni soffio racchiude il ritmo del cosmo. Ciò che vediamo è solo il velo, mentre sotto scorrono forze invisibili che incessantemente generano. Dentro questa prospettiva si colloca l’opera di Elisa Montessori, raccolta al Museo delle Civiltà di Roma nella mostra Il sogno della camera rossa. La sua arte non descrive, ma rivela. Non costruisce forme per fissarle, ma lascia che siano processi. Ogni immagine è soglia, sospensione, varco aperto sul mistero. Il titolo rimanda al romanzo incompiuto di Cao Xueqin, dove la camera rossa custodisce il mondo femminile, microcosmo fragile e vitale, opposto al crollo del patriarcato. Anche in questi lavori il femminile non è categoria, ma principio originario: figure che affiorano da velature, trame di linee che si intrecciano come pensieri segreti, immagini che custodiscono memorie invisibili. È una forza generatrice che accoglie, protegge e trasforma. Il romanzo non giunge a compimento, e proprio lì trova la sua potenza. Così anche le opere di questa artista non si chiudono mai: restano sospese, pronte a mutare nello sguardo di chi osserva. L’incompiuto non è difetto, ma respiro: il segno di una vita che non vuole concludersi, ma aprirsi. È l’invito a condividere, non a possedere. Come nel libro, il sogno diventa struttura. Le immagini sembrano provenire da un altrove, si stratificano e si dissolvono, si ricompongono in apparizioni sempre nuove. È il territorio liminare tra veglia e visione, dove il reale si lascia attraversare dalle forze dell’invisibile. Chi cammina tra superfici dipinte, tessere luminose e fragili carte percepisce di trovarsi in uno spazio sospeso, come in una stanza che conserva un segreto non rivelato. La fragilità è parte della sua lingua poetica. La cronaca dei Jia è storia di decadenza; i lavori custoditi al museo parlano di materie sottili, di pigmenti che respirano, di carte pronte a disfarsi. Tutto è destinato a svanire, eppure proprio in questa caducità si rivela la bellezza. Non è la forza a rendere eterno, ma il perire che si trasforma. L’eternità non è fissità, ma metamorfosi. Anche la parola e l’immagine si rispecchiano l’una nell’altra. Nel romanzo la poesia è vita quotidiana; nell’opera dell’artista la scrittura diventa segno, e il segno assume la forza della scrittura. È un alfabeto nuovo, che non distingue tra ciò che si legge e ciò che si vede, ma riconduce entrambi a un’unica sorgente. Il destino, poi, è sempre presente. Nel libro la pietra magica annuncia dall’inizio ciò che deve accadere. Nei lavori dell’artista ogni linea appare come parte di una rete più vasta, trama di forze che uniscono visibile e invisibile. Il gesto singolo si innesta in un ordine più grande, che non appartiene al caso ma alla legge profonda del cosmo. Esporre al MUCIV significava affrontare non uno spazio neutro, ma un luogo carico di memorie e civiltà. Non un fondale asettico, ma un organismo stratificato. Qui l’opera poteva soccombere, schiacciata dal peso della storia. E invece ha saputo rispondere. Le carte sottili hanno dialogato con i tessuti antichi, i frammenti contemporanei hanno trovato eco negli smalti e nei reperti rituali. Non contrasto, ma risonanza. L’artista non impone: intreccia, trasformando il museo in un corpo vivo che respira insieme alle sue forme. Il suo percorso creativo attraversa più linguaggi. Pittura, collage, tessere, superfici materiche: tutto è parte di una medesima partitura. Ovunque domina l’incompiuto. Nei tasselli irregolari si accende il ritmo, nei fogli leggeri una piega diventa segno, nelle forme plastiche la rudezza della materia non viene levigata ma esaltata. L’imperfezione non è errore, ma apertura verso ciò che verrà. Centrale è il segno del vento. È respiro che percorre le superfici, che sfiora i materiali, che attraversa fragili trasparenze. È la forza invisibile che anima la materia. E insieme agisce il vuoto, non come assenza ma come grembo generativo. È lo spazio che permette alla forma di respirare, il ritmo che dilata lo sguardo e lo conduce oltre i confini. Emblematica è l’opera Paesaggio della Manciuria, recentemente acquisita dal Museo. Qui astrazione e figurazione si intrecciano come due correnti che scaturiscono dalla stessa fonte. Terre lontane emergono come apparizioni e subito si dissolvono, lasciando allo spettatore la possibilità di proseguire la tessitura, di farsi parte attiva della metamorfosi. Il cammino dell’artista è sempre stato libero, estraneo a scuole e movimenti. Una ricerca fedele a se stessa, capace di rinnovarsi senza perdere coerenza, in cui ogni opera è processo e non compimento. Chi attraversa la mostra non incontra oggetti isolati, ma un unico paesaggio interiore. Tutto respira insieme: frammenti, carte, superfici, tessere, materiali fragili e resistenti che si tengono come membra di un organismo unitario. È come camminare in un giardino segreto, fatto di segni che mutano senza mai fissarsi del tutto. L’opera non vive sulla superficie che si osserva, ma nello sguardo che la incontra. È l’occhio a completarla, a darle corpo, a farla mutare. Il visitatore non è spettatore passivo, ma creatore silenzioso, che porta con sé il segno e lo trasforma. E qui si rivela la verità più radicale: l’arte non è ciò che resta fissato, ma ciò che continua a generarsi nello spazio invisibile tra forma e sguardo, tra gesto e coscienza. È il luogo in cui il tempo non finisce, il sogno non si spegne e la bellezza non si compie mai del tutto, perché vive soltanto nella metamorfosi continua.
Roma, 01 ottobre 2025
La stagione del Teatro Sala Umberto di Roma si apre con uno spettacolo dalla forza straordinaria. Prima Facie è un’opera attuale, contemporanea, coinvolgente. Daniele Finzi Pasca costruisce un teatro multilivello attorno al testo tagliente di Suzie Miller, mettendo a nudo la legge, il corpo femminile, la violenza e quella disperata, ma potentissima, ricerca di giustizia. Sul palco, Melissa Vettore si fonde con la parola in un’interpretazione intensa e sfaccettata. Il ritmo incalzante, scandito da continui cambi di tono e scena, tiene lo spettatore con mente e corpo immersi dall’inizio alla fine. È Tessa, brillante avvocata penalista, abituata a difendere uomini accusati di violenza sessuale… finché la violenza non bussa anche alla sua porta. Da difensore diventa vittima, costretta a confrontarsi con l’impotenza di un sistema giudiziario cieco. Vettore attraversa questo ribaltamento con forza e vulnerabilità, dando vita anche a colleghi, giudici, familiari, con una recitazione sempre credibile e umanissima. La regia, misurata e mai invadente, crea un mondo simbolico dove ogni luce e ombra racconta una storia, costruendo un’atmosfera che cattura lo sguardo e non lo lascia più andare. Sempre in scena, una figura oscura, muta, dal volto coperto. Una presenza silenziosa che incarna una giustizia cieca e una società complice. Un potere anonimo che osserva, controlla e manipola, senza mai esporsi, tirando i fili della vita di Tessa. La scena dello stupro è un pugno allo stomaco. Tessa, vestita di rosso, un rosso che non è solo colore ma grido, passione, ferita, viene sospesa su una struttura metallica rotante, manovrata dalla figura nera. Il corpo si torce, si tende, si spezza. La voce diventa fragile, quasi un respiro interrotto. Nessuna esplicitazione: eppure, la violenza si sente tutta. È una scena che travolge i sensi e inchioda lo spettatore a un trauma vivo, corporeo, simbolico. Il rosso ritorna durante lo spettacolo, una stola, un dettaglio, un cambio d’abito. È sangue, è rabbia, ma anche resistenza. Un filo rosso che cuce ogni passaggio del percorso di Tessa. I lampadari che scendono dall’alto diventano fari sulla verità. Ma quando iniziano a muoversi in modo confuso, sembrano riflettere la fatica di ricordare e raccontare, soprattutto dopo uno stupro. Una metafora amara. I video aggiungono profondità oniriche alla scena, senza mai sovraccaricare. Le musiche di Maria Bonzanigo seguono il respiro del monologo con delicatezza e intensità. Tutto è al servizio del racconto. Il simbolismo dei fogli di carta che cadono dall’alto è potente: una rappresentazione della legge e delle crepe di un sistema fragile. Pagine al vento che raccontano la distanza tra giustizia e verità vissuta. E poi, nel finale, il colpo al cuore: quei fogli lasciano spazio a decine di scarpette rosa. Tante. Troppe. Un’immagine straziante. Sono le vittime. Le bambine. Le donne. Non più numeri. Corpi. Storie. Memoria. In un’epoca in cui la giustizia spesso arriva tardi, o non arriva affatto, Prima Facie non offre soluzioni, ma ci mette davanti a domande scomode. Ti guarda negli occhi e ti chiede: ascolta. Tessa è una moderna Antigone, che sfida una legge sorda e cieca, ancora incapace di accogliere la verità delle donne. Uno spettacolo da vedere, discutere, portare con sé. Perché ogni Tessa, sul palco o nella vita reale, non resti più sola. Alla fine, un applauso lungo, liberatorio, commosso. Melissa Vettore lascia la scena con le lacrime agli occhi. E la sala, turbata e riconoscente, gliele restituisce tutte. Photo Credit Ale Catan
Roma, MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo
SVEVA CAETANI: FORMA E FRAMMENTO
A cura di Chiara Ianeselli
In collaborazione con Caetani Centre (Vernon, Canada), Vernon Public Art Gallery, Museum & Archives of Vernon (MAV)
Con opere di Carlo Benvenuto e Houda Kabbaj
Roma, 02 ottobre 2025
Non fu un semplice esilio, ma una condanna muta: venticinque anni trascorsi in una dimora di provincia canadese, con le finestre che lasciavano filtrare la luce ma non il mondo. Sveva Caetani comprese presto che quando la vita sottrae la libertà resta una scelta radicale: consumarsi nell’attesa o trasfigurare l’attesa in una forma di resistenza. Optò per la seconda via, e lo fece attraverso i colori. Ogni acquerello fu per lei un varco, una crepa nella prigionia domestica, una topografia interiore in continua espansione. La mostra Forma e Frammento, curata da Chiara Ianeselli e ospitata dal MAXXI, inaugura la stagione autunnale con un’operazione di grande valore critico e simbolico: la prima retrospettiva in Italia dedicata a Sveva Caetani (Roma, 1917 – Vernon, 1994). Il progetto non si limita a restituirne l’opera, ma la ricostruisce e al tempo stesso la decostruisce, rivelando un’anima ribelle e luminosa, sospesa tra le radici aristocratiche e l’urgenza creativa, tra l’eredità genealogica e l’irrinunciabile autonomia dell’immaginazione. La sua biografia è già romanzo. Figlia di Leone Caetani, principe di Teano e duca di Sermoneta, e della danzatrice Ofelia Fabiani, nacque da una relazione impossibile, segnata dalle rigidità giuridiche dell’Italia post-unitaria, che le negava il riconoscimento ufficiale. Leone, intellettuale raffinato, islamista di fama internazionale, socialista e antifascista, scelse allora l’esilio: vendette gran parte dei suoi beni e si trasferì in Canada, a Vernon, nel 1921. Qui Sveva trascorse un’infanzia privilegiata, tra governanti inglesi e viaggi in Europa, fino alla catastrofe: la crisi del 1929, la malattia del padre e, nel 1935, la sua morte. Da quel momento, la madre precipitò in un cupo isolamento, trascinando con sé la figlia in un silenzio coatto che durò venticinque anni. Sveva visse come prigioniera, privata persino della possibilità di scrivere e dipingere, attività che avrebbero potuto sfuggire al controllo materno. Solo la lettura rimase consentita, alimentando un immaginario che covava nell’ombra, in attesa di una liberazione tardiva. Questa giunse nel 1960, con la morte di Ofelia. Ormai priva di mezzi, Sveva trovò inaspettato sostegno nella comunità di Vernon, che le offrì la possibilità di insegnare. Recuperò i titoli di studio, si perfezionò nelle arti figurative e tornò a dipingere con passione. Insegnante innovativa e amatissima, al contempo intraprese un percorso artistico che culminò nell’opera della maturità. Il suo capolavoro è Recapitulation, ciclo monumentale di cinquantasei acquerelli realizzati tra il 1978 e il 1989. Vi si dispiega un viaggio visionario che ripercorre la storia della famiglia e l’itinerario spirituale dell’artista, assumendo la struttura della Commedia dantesca. Sveva vi si rappresenta come Dante, guidata dal padre nella veste di Virgilio. Inferno, Purgatorio e Paradiso diventano così metafore interiori, archetipi della memoria e allegorie universali. È un poema visivo in cui la confessione personale si eleva a cosmologia, un atlante pittorico che fonde autobiografia e mito. Il frammento, in questa poetica, non è difetto ma cifra. Ogni ricordo si manifesta come lacerto, ogni immagine è reliquia incompleta che proprio nella sua incompiutezza rivela un’energia vitale. L’acquerello, con la sua trasparenza e la sua apparente fragilità, si rivela il medium ideale: consente di mostrare e velare, di inscrivere la frattura senza chiuderla. Lungi dal rivendicare appartenenze a scuole o movimenti, Sveva costruisce un linguaggio autonomo, solitario ed eretico, che oggi si rivela necessario. Il MAXXI offre questo itinerario come esperienza più che come esposizione. Non una sequenza lineare, ma una drammaturgia della memoria: dipinti, documenti, testi e materiali d’archivio restituiscono l’intensità di un’esistenza sospesa fra costrizione e liberazione. Il titolo, Forma e Frammento, non è mera formula curatoriale ma manifesto critico: la forma come tensione all’ordine, il frammento come destino e linguaggio. È in questa dialettica che l’opera trova senso. Il progetto, frutto della collaborazione di istituzioni italiane e internazionali, si arricchisce inoltre delle opere di Carlo Benvenuto e Houda Kabbaj, concepite appositamente per la mostra. Benvenuto, con il suo sguardo sospeso tra quotidiano e simbolico, e Kabbaj, con la sua riflessione sulle identità plurime, dialogano con Caetani ampliandone la risonanza. Lungi dall’essere un omaggio nostalgico, la retrospettiva diviene così piattaforma di confronto sul presente. Chi varca le sale non incontra la monumentalità gridata delle avanguardie, ma la forza silenziosa dell’acquerello: figure che emergono come epifanie e subito svaniscono, segni che evocano più di quanto dichiarino, simboli che chiedono al visitatore di completarne il senso. È un’esperienza che non si consuma nell’atto estetico, ma si prolunga come interrogazione etica: come trasformare il proprio silenzio in linguaggio? Come restituire forma ai propri frammenti? Il ritorno in Italia, patria abbandonata nell’infanzia e incapace allora di riconoscerla, è insieme risarcimento e rivelazione. Non una nostalgia tardiva, ma il riconoscimento che la storia dell’arte non si costruisce soltanto con linee principali, ma anche con voci sommerse, capaci di illuminare proprio dal margine. Questa mostra non riguarda soltanto Sveva Caetani. Riguarda noi, il nostro rapporto con la perdita e con l’attesa, con la memoria che si spezza e tuttavia insiste. È un invito a riconoscere che ogni frammento, se accolto, può divenire forma, e che ogni forma, se attraversata dalle fratture, acquista una verità più profonda. L’arte di Sveva è questo: non consolazione, ma rivelazione. Non ornamento, ma cosmologia interiore che si apre all’universale.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2035Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra dei Teatro La Fenice
Direttore Giuseppe Mengoli
Gustav Mahler: Sinfonia n. 6 in la minore “Tragica”
Venezia, 28 settembre 2025
Estate del 1904. Mahler trascorre le vacanze a Maiernigg am Wörthersee, in Carinzia: scrive musica nel suo chalet in riva al lago, va in barca, legge Goethe, suona Bach al pianoforte. Da qualche tempo si trova a vivere un periodo felice: dopo la sua conversione al cattolicesimo, aveva assunto la direzione della Staatsoper di Vienna ed era nata la sua secondogenita Anna Justine. È in questo momento così propizio dal punto di vista professionale e affettivo che attende alla composizione della Sesta Sinfonia – iniziata l’anno prima –, paradossalmente percorsa da un carattere altamente tragico. Mentre si dedica alla Sesta, Mahler sceglie dalle poesie di Friedrich Rückert gli ultimi due testi del ciclo dei Kindertotenlieder: un cantare i bambini morti, che Alma considerò malaugurante, come se il marito avesse attirato gli eventi negativi, che poi si sarebbero abbattuti sulla propria famiglia: la primogenita Maria Anna stroncata dalla difterite, la rottura con la Staatsoper di Vienna, la fatale disfunzione cardiaca, che avrebbe causato la precoce scomparsa del musicista boemo. Foschi presagi, che la donna coglieva anche nei formidabili colpi di martello, previsti nel Finale della Sesta Sinfonia. In effetti il ruolo delle percussioni in questa Sinfonia – che abbiamo recentemente ascoltato alla Fenice nel concerto diretto da Giuseppe Mengoli –, hanno un ruolo preminente. Importantissimo è il rullo del tamburo militare che chiude la Sinfonia in fortissimo. Cruciale è anche il ruolo delle campane, gravissime, e ancor più quello dei campanacci.
La Sesta Sinfonia – che l’autore stesso indicò come “tragica”, anche se probabilmente non avrebbe voluto che l’aggettivo fosse aggiunto come sottotitolo nell’edizione a stampa – è l’unica, tra le sinfonie mahleriane, in cui l’eterna lotta contro il destino, la tensione verso la purezza, la trascendenza si concludono con una sconfitta (termina spegnendosi in modo minore, dopo un’apoteosi evidentemente effimera). Essa, peraltro, risulta anche altamente ‘drammatica’, nel senso che i suoi violenti contrasti, tra ripiegamenti oscuri e slanci vitali, ne fanno la messinscena di un dramma personale (e universale), di una lotta interiore tra tendenze oscurantiste e ricerca di una luce, che arriva solo a tratti e mai definitivamente. La partitura rappresenta, dal punto di vista del linguaggio musicale, un’evidente fuga in avanti: l’orchestrazione è ‘novecentesca’, contrastata, ricchissima di colori: il parametro timbrico ne è il protagonista come testimonia, tra l’altro, l’uso di strumenti particolari come lo xilofono, la celesta, i campanacci delle mucche (ad evocare l’idillio alpestre), addirittura di un grande martello (che scandisce i colpi del destino). Ma particolare è anche l’impiego degli ottoni e altri fiati nel registro più profondo. Innovativi sono anche i frequenti ritorni tematici, che danno alla Sinfonia una forma ciclica: ad esempio, l’Allegro energico, ma non troppo del primo movimento, lo Scherzo e l’inizio dell’Allegro moderato dell’ultimo sono tematicamente simili. Davvero magistrale l’interpretazione di Giuseppe Mengoli, giovane ma già affermato maestro, recente vincitore, tra l’altro, del primo premio al Concorso Mahler 2023 dell’Orchestra Sinfonica di Bamberg. Con il suo estroverso gesto direttoriale (del resto, quale direttore, eseguendo Malher non si sbraccia sul podio?) ha condotto l’Orchestra – decisamente encomiabile considerando sia l’insieme che i singoli strumentisti – attraverso questo mare di musica. Il direttore ne ha esaltato, in particolare, l’intrinseca drammaturgia: i marcati contrasti tematici e timbrici, a sottolineare i frequenti cambiamenti di clima che avvengono all’interno di questa Sinfonia, caratterizzata da contraddizioni e profonda ricerca interiore, in cui l’autore ripercorre – in un momento di felicità – le vie più oscure del proprio percorso esistenziale, sorretto dalla speranza di sovvertire il proprio destino. Una speranza che si rivela vana, se nel Finale i colpi di martello – l’implacabile Fato – risuonano sinistri. Inizialmente cinque, furono poi ridotti dall’autore a tre e in seguito a due. Mengoli ne ha previsti tre per ribadire fino alla fine la titanica lotta ingaggiata dall’autore contro una forza incommensurabile. Eroica ma anche inquieta è risuonata la marcia in apertura del primo movimento, basata su un tema di estrema ampiezza intervallare, che nei suoi slanci abbraccia tre ottave, sfociando nella cellula di base di tutta la Sinfonia: un sonoro accordo di La maggiore che, spegnendosi, si muta in La minore. Pieno di slancio vitale – dopo un dolce corale dei legni – il Tema di Alma, il cui vitalismo è stato successivamente interrotto dal ritorno dell’iniziale ritmo di marcia. Un carattere complessivamente espressionista aveva lo Scherzo – caratterizzato da una ricorrente oscillazione semitonale – dall’inizio sinistro – con forti, ossessivi colpi di timpano – al quale si è contrapposto un Ländler che, lungi dal rappresentare un genuino momento di serenità, aveva qualcosa di caricaturale. Un’oasi di lirismo, venata di nostalgia, che richiamava l’atmosfera dei Kindertotenlieder, si è schiusa con l’Andante moderato, l’unico movimento liricamente disteso (senza marce) che, con l a sua complessa articolazione interna aveva quasi i caratteri di un ‘flusso di coscienza’. Estremamente suggestivo l’imponente e complesso Finale, il movimento più lungo dell’intera produzione sinfonica di Mahler, una poderosa costruzione strutturata su tre temi – una marcia, un canto appassionato (unica pausa ottimistica all’interno del movimento), un tema di carattere trasognato – con due sezioni ricapitolative, in cui sono risuonati – poderosi – i primi due colpi di martello (un enorme martello di legno), mentre un terzo Hammerschlag – nonostante sia stato omesso da Mahler nell’ultima revisione – veniva assestato, come previsto dalla versione originale, nella Coda sul motto maggiore/minore. Fragorosi applausi liberatori, dopo tanta partecipazione emotiva, hanno salutato il Direttore e l’Orchestra, le cui sezioni sono state festeggiate una ad una.
Roma, Palazzo delle Esposizioni – Sala Fontana
FILIPPO SASSOLI. INVENZIONI A DUE DIMENSIONI
A cura di Azienda Speciale Palaexpo
Promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
Roma, 01 ottobre 2025
Non sono i monumenti a catturare lo sguardo di Filippo Sassòli, ma le pieghe meno visibili della città: un chiusino arrugginito, una conchiglia affiorata dal bianco del foglio, un arco che appare come sospeso tra la rovina e la sopravvivenza. Dal 2 ottobre al 9 novembre 2025, nella Sala Fontana del Palazzo delle Esposizioni di Roma, la mostra Filippo Sassòli. Invenzioni a due dimensioni riunisce oltre cento lavori fra disegni e riproduzioni, rivelando l’arte di un autore che trasforma i dettagli marginali in mappe interiori. Nato a Roma nel 1961, Sassòli si muove da quarant’anni tra illustrazione editoriale, collaborazioni con quotidiani e riviste, libri per l’infanzia. Nei suoi disegni emerge una qualità rara: la capacità di restituire al segno un valore meditativo, un ritmo lento, in contrasto con la velocità delle immagini digitali. Il titolo della mostra sintetizza la sua poetica: invenzioni che restano su due dimensioni, senza inseguire l’illusione prospettica, ma capaci di evocare profondità interiori attraverso il dialogo fra linea e vuoto. Il percorso espositivo si divide in tre capitoli. Nelle Archigrafie romane, Sassòli disegna resti archeologici che convivono con architetture di epoche successive. Non sono vedute celebrative, ma composizioni essenziali in cui la pietra antica si intreccia a geometrie contemporanee. Roma appare come organismo in perenne mutazione, stratificazione che resiste e si reinventa. La carta diventa spazio sospeso, dove ogni rovina non è solo passato, ma materia viva che continua a dialogare con il presente. Le Zoografie marine spostano lo sguardo su un universo acquatico: pesci, polpi, conchiglie emergono dai fogli con leggerezza, come se il mare si insinuasse tra le fenditure della città. Non è naturalismo, ma evocazione: creature che resistono, presenze che sopravvivono all’assenza umana. L’artista ribalta il dramma della devastazione ambientale mostrando la forza silenziosa della natura, che si insinua con pazienza e che continua a respirare nonostante l’uomo. I Chiusini romani sono forse la sezione più sorprendente: tombini e griglie urbane diventano oggetti enigmatici, soglie che separano e uniscono, imprigionano e proteggono. Sassòli li eleva a simboli: varchi verso un mondo sotterraneo invisibile ma pulsante. È un invito a chinarsi, a guardare sotto i piedi, a riconoscere il valore di ciò che è ignorato. L’arte restituisce dignità al dettaglio quotidiano, trasformandolo in soglia poetica. La mostra non è pensata come antologica, ma come dialogo con la città. Accanto ai 52 disegni a tecnica mista si trovano 22 illustrazioni pubblicate sull’Osservatore Romano e 35 biglietti natalizi realizzati dal 1990 a oggi: lavori che mostrano la versatilità dell’artista e la sua capacità di muoversi tra registri diversi, dal grande al piccolo, dal pubblico al privato. È una produzione che non si esaurisce nella dimensione espositiva, ma che testimonia la continuità di un gesto creativo legato alla carta, al tratto, al silenzio della mano. Il vero protagonista rimane il tempo: non quello lineare, ma quello stratificato delle rovine, quello resiliente delle creature marine, quello sotterraneo custodito nei chiusini. Sassòli sembra dirci che il visibile è sempre attraversato dall’invisibile, che la città vive di memorie depositate nei suoi margini e nei suoi interstizi. Roma, con le sue stratificazioni, non è sfondo ma interlocutrice, città che continua a resistere e a reinventarsi. Visitare la mostra significa accettare un ritmo diverso: i disegni non si consumano in un colpo d’occhio, ma chiedono tempo, disponibilità a leggere il dettaglio, a sostare nel bianco della carta. Alcune opere, come Cecilia Metella del 2021, mostrano la forza evocativa del frammento; altre sorprendono per la minuzia geometrica delle trame. In tutte si ritrova la stessa attitudine: trasformare l’ordinario in soglia, restituire potenza poetica a ciò che sembra marginale. Invenzioni a due dimensioni non è una mostra gridata, ma è un esercizio di attenzione. Nel silenzio dei fogli, Sassòli insegna a rallentare, a guardare ciò che solitamente passa inosservato. Si esce con la sensazione che un tombino, un pesce o un rudere possano raccontare più di quanto appaia. Un’arte che non chiede di stupire, ma di osservare: forse il compito più necessario oggi, in un tempo saturo di immagini fugaci.
Novara, Teatro Carlo Coccia, stagione lirica 2025
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry FRANCESCA SASSU
Alfredo Germont FRANCESCO CASTORO
Giorgio Germont MARIO CASSI
Flora Bervoix ANNA MALAVASI
Annina MARTINA MALVOLTI
Gastone,visconte di Létorières SIMONE FENOTTI
Il Barone Douphol MATTEO MOLLICA
Il Marchese d’Obigny RANYI JANG
Dottor Grenvil OMAR CEPPAROLI
Giuseppe CHERUBINO BOSCOLO
Un domestico di Flora SILVIO GIORCELLI
Un commissionario LUIGI CAPPELLETTI
Orchestra Antonio Vivaldi
Schola Cantorum San Gregorio Magno di Trecate
Direttore Alessandro Cadario
Maestro del coro Alberto Sala
Regia Giorgio Pasotti
Scene Italo Grassi
Visual designer Luca Attilii
Costumi Anna Biagiotti
Light designer Ivan Pastrovicchio
Novara, 28 settembre 2025
La ripresa autunnale della stagione novarese, quasi una seconda prima, avviene nel segno di una delle opere più amate. “La traviata” verdiana mancava a Novara da alcuni anni e per l’occasione si è deciso di fare le cose in grande con una produzione che esaltasse il livello ormai raggiunto dai laboratori del teatro. La parte visiva è sicuramente l’elemento di maggior forza della produzione. Il team scenotecnico – Italo Grassi, Luca Attili e Ivan Pastrovicchio – creano un allestimento all’avanguardia sul piano tecnologico. Strutture costruite, luci e proiezioni – di un livello raramente visto anche in enti ben più blasonati creano uno spettacolo immersivo e di grande suggestione. Grazie alle proiezioni il gioco scenico esce dal palcoscenico e investe tutto il teatro trasformato in una sorta di lanterna magica. La regia di Giorgio Pasotti – al debutto con uno spettacolo lirico – è di impianto tradizionale affidando la modernità al gioco scenografico e illusionistico. La vicenda è trasposta negli anni a cavallo tra Otto e Novecento il che permette di recuperare un gran numero di citazioni pittoriche tra impressionismo e secessione viennese che simbolicamente riflettono i sentimenti dei personaggi. Una Traviata certo parigina con gli sfondi di Toulouse-Lautrec e il grande panorama della ville lumiere che durante la grande scena di Violettta progressivamente si decompone in ampie pennellate ma anche una Traviata molto viennese. Le scene ricordano certe architetture di Otto Wagner e la struttura architettonica fissa rievoca quella della Secessionsgebäude di Olbrich. Una dimensione viennese che trionfa nella contrapposizione visiva tra Klimt e Schiele con il segno mortifero di quest’ultimo a dominare in fine su tutto.
Pasotti non cerca letture alternative, svolge la vicenda in modo chiaro e lineare puntando a una nobile eleganza che trova pieno riscontro nei bellissimi costumi di Anna Biagiotti. Recupera da Dumas la scelta di partire dalla fine, con il funerale di Violetta durante il preludio. Le cose vanno meno bene sul versante musicale. Alessandro Cadario opta per tempi distesi e ampi e per sonorità ovattate ma non sempre riesce a tenere saldo il controllo così che la tensione tende ad allentarsi. Una lettura di questo tipo richiederebbe una compagine orchestrale di miglior livello, l’Orchestra Antonio Vivaldi non va oltre un corretto professionismo ma i suoi giovani componenti ancora non hanno la capacità di rendere la ricchezza di colori che quest’opera vorrebbe. La Schola Cantorum San Gregorio Magno di Trecate non è un coro professionistico e considerando questo si impegna a dovere – nell’insieme meglio la sezione maschile – anche sul piano scenico e attoriale. Francesca Sassu ha con Violetta una lunga frequentazione. Parte un po’ guardinga – nel I atto la prudenza è evidente – ma l’esperienza belcantista le dona il giusto slancio nella grande scena che chiude l’atto. Nei successivi la voce si scalda e acquista maggior ricchezza di corpo anche se nel complesso si è notata qualche difficoltà nel settore mediano non così brillante. La sua è una Violetta elegante e intimista, fatta di piccoli tocchi di sapore quasi gozzaniano ma che riesce a emozionare il pubblico. La bella figura e l’eleganza del gesto si inseriscono assai nel taglio dello spettacolo. Francesco Castoro ha una voce di tenore lirico bella e una sincerità di canto che conquista immediatamente. L’emissione non è sempre impeccabile e a volte la linea sembra un po’ perdersi – un maggior controllo del fiato sarebbe opportuno sulle mezzevoci. Il materiale è davvero interessante ma attende un po’ di maturazione.
Mario Cassi non manca di esperienza e sa giocarsi la parte con grande mestiere. La voce è di bel colore e giusta robustezza ma tende a spingere i suoni, ciò inficia il suo bell’afflato lirico mentre il lavoro interpretativo è parso un po’ superficiale. Scenicamente è apparso fin troppo giovanile come Germont padre.
Anna Malavasi è una Flora dalla voce particolarmente scura e dall’atteggiamento quasi materno nei confronti di Violetta. Molto solido il Douphol di Matteo Mollica e interessante la giovanissima Martina Malvolti, allieva dell’Accademia AMO del Coccia, nei panni di Annina. Nel complesso funzionali le altre parti di fianco.
Il balletto è stato ridotto a pochi solisti – anche per esigenze di palcoscenico – ma l’effetto è amplificato dalla proiezione dei filmati originali realizzati da Annabelle Moore per Edison intorno al 1895, tra le prime sperimentazioni di fusione tra movimento e colore all’origine del cinema.
Sassari, Teatro Verdi
“SE IL MARE SAPESSE…”
Opera in due atti ispirata alla “Preghiera del mare” di Khaled Hosseini
Prima esecuzione assoluta
Musica e libretto di Giovanna Dongu
Aurora ELISABETTA OBINO
Padre MARCO SOLINAS
Madre JESSICA LOAIZA PÉREZ
Orchestra Progetto Enarmonia
Coro dell’Associazione Musicale Rossini
Coro di voci bianche dell’Associazione Musicale Rossini
Direttore Gabriele Verdinelli
Maestro del coro Clara Antoniciello
Voci bianche dirette da Claudia Dolce
Regia e allestimento Sante Maurizi
Light designer Tony Grandi
Danzatrici del Liceo coreutico “Azuni”
Coordinamento Cristina Tagliaverga
Costumi del Liceo artistico “Figari”
Coordinamento Barbara Sanna e Stefania Spanu
Sassari, 28 settembre 2025
“Se il mare sapesse…” è il titolo dell’opera della compositrice Giovanna Dongu andata in scena in prima assoluta domenica 28 settembre al Teatro Verdi di Sassari, in occasione della centoundicesima Giornata del Migrante e del Rifugiato, in una produzione a cura della Fondazione Accademia, Casa di Popoli, Culture e Religioni. L’autrice si è liberamente ispirata alla “Preghiera del mare” dello scrittore arabo Khaled Hosseini, che a sua volta nacque come tributo letterario alla vicenda del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano che perse la vita in un tragico naufragio, immortalato in una foto che raggiunse le coscienze di tutto il mondo. Il testo di Hosseini altro non è che una lettera scritta da un padre al proprio figlio alla vigilia di un viaggio che segnerà i loro destini, una riflessione poetica e profonda su un passato irrimediabilmente perduto, sulle insidie della traversata, le speranze per un futuro migliore e le incognite che riserverà loro la vita in una terra ignota. Un tema tristemente attuale cui la compositrice, autrice anche del libretto, ha voluto dare un’ambientazione sarda, con l’intento di sottolineare il valore universale della tematica affrontata. Non possiamo in realtà parlare di una vera e propria vicenda come ci si aspetterebbe solitamente in un’opera di teatro musicale, quanto di una riflessione, intensa e partecipe sui temi della perdita, dell’assenza, della paura per un futuro incerto e dell’anelito alla pace.
La rinuncia a qualsivoglia sviluppo narrativo dettata dal testo, cui forse meglio si sarebbe adattata una forma non scenica quale ad esempio un oratorio, ha determinato una certa staticità dello spettacolo, condizionandone in qualche misura, in particolare nel primo atto, anche i contenuti musicali.
La partitura di Giovanna Dongu è permeata di una intensa partecipazione emotiva alla condizione umana dei suoi personaggi, descritta attraverso l’uso di un linguaggio molto personale, in cui le suggestioni della contemporaneità coesistono con l’arcaica solennità della tradizione polifonica italiana. Il risultato è ricco di spunti interessanti fra i quali vanno segnalati l’originale ricerca timbrica basata su un impiego dell’orchestra focalizzato di volta in volta sulle singole sezioni piuttosto che sul pieno organico e l’efficacia della scrittura corale, cui sono riservate le parti forse più intense e riuscite dell’opera nelle quali l’autrice è riuscita a conferire al coro il carattere di “moltitudine”, di insieme di individualità piuttosto che di massa compatta.
Notevole anche la capacità di attingere a fonti del repertorio tradizionale sardo mantenendole riconoscibili seppur inserite in un tessuto sinfonico complesso. Quest’ultimo aspetto, indubbiamente funzionale all’ambientazione in terra sarda, pur arricchendo l’opera di contenuti musicali, ha in qualche modo minato il senso di alterità che caratterizzava la vicenda originale, quasi a voler sostituire la paura, drammatica e tangibile di perdere la vita o i propri cari con quella, decisamente molto più “occidentale”, di dover rinunciare a frammenti della propria identità. La rappresentazione era affidata alla direzione musicale di Gabriele Verdinelli, che ha condotto con mano sicura e accurata l’eccellente orchestra Progetto Enarmonia – una realtà professionale in costante crescita – garantendo con efficacia il coordinamento con le voci sul palco. Ottime le prove delle voci del baritono Marco Solinas nel ruolo del padre, del soprano Jessica Loaiza Pérez in quello della madre e della giovanissima Elisabetta Obino in quello di Aurora. Fondamentali per la buona riuscita dello spettacolo la presenza del Coro e del Coro di voci bianche dell’Associazione Rossini, preparati rispettivamente da Clara Antoniciello e Claudia Dolce. Prezioso, in particolare nel primo atto, anche il contributo delle danzatrici del Liceo Coreutico Azuni, coordinate da Cristina Tagliaverga. La regia e l’efficace allestimento di Sante Maurizi hanno arricchito con alcune intuizioni, quali ad esempio le proiezioni delle macerie di Gaza davanti al popolo migrante, i momenti più drammatici dello spettacolo così come le luci di Toni Grandi, che hanno fornito un commento visivo pregevole e accurato. L’evento ha registrato un “Sold Out” ed ha riscosso un meritato e caloroso successo. Foto Michela Leo
La programmazione musicale di RAI 5 al momento ci appare assai vaga per ciò che riguarda la musica lirica che, al momento, sembra “scomparsa” dal palinsesto
Giovedì 2 ottobre / Domenica 5 ottobre / Giovedì 9 ottobre
Ore 21.20 / 07.55/ 20.45
Wiener Philharmoniker
Direttore Yannick Nézet-Séguin
Gala per i 150 anni del Palais Garnier a Parigi con un parterre di star mondiali come J.D.Florez, B.Terfel, R.Villazón, Y.Wang, S. Yoncheva…
Sabato 4 ottobre
Ore 07.45
“RIGOLETTO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniele Gatti
Regia Damiano Michieletto
Interpreti: Ivan Ayon Rivas, Roberto Frontali, Rosa Feola, Riccardo Zanellato, Martina Belli …
Palermo, 2013
Domenica 5 ottobre
Ore 09.23
Dal Vesuvio al “Barbiere”
Il documentario dedicato al Barbiere di Siviglia ripercorre le tracce del compositore Gioachino Rossini fra Napoli e Roma negli anni decisivi della sua carriera, intervistando baristi, artigiani ma anche giovani barbieri, alla scoperta dell’attualità della figura di Figaro e dell’eredità del compositore pesarese.
Ore 13.15
“Visioni”
Il giovane Giacomo Puccini.
La carriera dell’artista viene ripercorsa attraverso i luoghi della sua vita con una particolare attenzione ai suoi primi anni, dal Conservatorio di Milano fino al suo arrivo a Torre del Lago dove compone la Madame Butterfly. Il ritratto di Puccini viene arricchito da aneddoti della sua vita privata: la passione per le automobili, per la tecnologia, le belle case, la caccia, l’amore per la natura, per la compagnia degli amici e non per ultimo la sua amata fotografia. Con A narrarci questo ritratto di Puccini, maestro così poliedrico, sono Michele Girardi, Maria Pia Ferraris, il Maestro Michele Gamba, Fabio Sartorelli e molti altri storici e musicisti
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2024/2025
“THE TURN OF THE SCREW”
Il Giro di Vite
Opera in un prologo, due atti e sedici scene, op. 54
Libretto di Myfanwy Piper
Dall’omonimo romanzo breve di Henry James
Musica di Benjamin Britten
The Prologue/Quint IAN BOSTRIDGE
Governess ANNA PROHASKA
Miles ZANDY HULL
Flora CECILY BALMFORTH
Mrs Grose EMMA BELL
Miss Jessel CHRISTINA RICE
Direttore BEN GLASSBERG
Regia DEBORAH WARNER
Scene Justin Nardella
Costumi Luca Costigliolo
Luci Jean Kalman
Movimenti di scena Joanna O’Keeffe
ORCHESTRA DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma.Deborah Warner desidera ringraziare Edward Burrows e Pippa Woodrow che hanno interpretato i due bambini nella sua produzione del 1997, nonché i designer Tom Pye e Jean Kalman. I loro contributi vividamente ricordati, hanno fornito una fonte di ispirazione continua mentre sviluppavamo la nostra storia attraverso l’opera.
Roma, 19 settembre 2025
Autore sempre presente nella programmazione musicale romana con diversi titoli alcuni dei quali anche in prima italiana, Benjamin Britten torna sulle scene con The Turn of the Screw. In particolare questo spettacolo costituisce il terzo titolo britteniano al Teatro dell’Opera di Roma per la regista Deborah Warner dopo i lusinghieri successi ottenuti con Billy Bud nel 2018 per il quale ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali come L’International Opera Award, l’Olivier Award e in Italia il premio Abbiati della critica e Peter Grimes nel 2023. Ispirato anche all’opera del pittore inglese James Pryde, il presente allestimento colloca l’opera in un nero profondissimo nel quale i fantasmi e i vari personaggi si materializzano e agiscono narrando l’inquietante vicenda con scorrevole e sciolta abilità, senza calcare l’accento su nessuno dei molti aspetti ambigui contenuti nel testo ma anzi destando nel pubblico dubbi e interrogativi che spesso rimangono irrisolti e rifuggendo da qualsivoglia tentazione didascalica. La storia infatti viene vista con gli occhi dei due bambini protagonisti i quali nella loro lineare ed asciutta semplicità non riescono a distinguere il vero dal falso. Molto belli sono apparsi i costumi di Luca Costagliolo, valorizzati dalle luci di Jean Kalman e dai movimenti di scena curati con studiata precisione da Joanna O’Keeffe. Assai ricca di sfumature e attenta a creare il crescendo di tensione è stata la direzione del giovane maestro Ben Glassberg, al suo debutto romano. Con una grande cura dei particolari sempre volta ad un fine espressivo e evidente frutto di una minuziosa e profonda conoscenza della partitura ha ben saputo illustrare i vari momenti di questa composizione dalla semplicità solo apparente. Di assoluto valore poi è stato il cast vocale della serata. Il tenore Ian Bostridge, acclamato ed esperto interprete di questo repertorio, è stato un Quint inquietante, ambiguo ed evanescente, insuperabile sia nel canto che nella recitazione e perfino nella fisicità. Anna Prohaska è stata una magnifica governante come pure molto brave sono state Emma Bell e Christine Rice rispettivamente Mrs Grose e Miss Jessel. Ma assolutamente straordinari sono stati i due giovanissimi interpreti dei due bambini Flora e Miles, rispettivamente Cecily Balmforth e Zandy Hull. Grazie ad un lungo ed attento lavoro preparatorio della regista sono riusciti ad esprimere la complessità dei loro personaggi con grande musicalità, perfetta intonazione e soprattutto una recitazione spigliata e spontanea, frutto di un indiscutibile talento unito ad uno studio approfondito e proficuo. Alla fine lunghi e calorosi applausi da parte di un pubblico entusiasta in un teatro quasi al completo per un’opera contemporanea, offerta in una serata romana di settembre. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TITUS – Why don’t you stop the show?
da William Shakespeare
con Francesco Montanari e Marianella Bargilli
e con Guglielmo Poggi, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino,
Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese,
Filippo Rusconi, Enrico Spelta, Matilde Pettazzoni
Scene Fabiana Di Marco
Costumi Alessandra Benaduce
Adattamento e regia Davide Sacco
Roma, 30 settembre 2025
Ogni epoca riconosce in alcune opere il proprio trauma inaugurale, testi che non si limitano a raccontare ma agiscono come specchi deformanti, riflettendo l’inconscio collettivo. Titus Andronicus, all’inizio della produzione shakespeariana, è stato a lungo relegato a esercizio giovanile, repertorio di crudeltà. In realtà, quell’eccesso è la sua verità: la violenza diventa grammatica del potere, legge ferrea che ordina rapporti, eredità e vendette, ma anche detonatore delle pulsioni nascoste che chiedono rappresentazione. Davide Sacco, con TITUS – Why don’t you stop the show?, riporta questo meccanismo nell’attualità. Il titolo interroga frontalmente lo spettatore: davvero vuoi che la sequenza continui? Il teatro smette di essere intrattenimento, si trasforma in specchio che non concede scampo. Ogni immagine apre una ferita, incrina la distanza con cui consumiamo la crudeltà mediatica. La scenografia di Fabiana Di Marco è un dispositivo crudele: un cratere di pietra che inghiotte parte della platea e costruisce un doppio livello scenico. Le asperità selvagge, le catene, le strutture di ferro e i ponti sospesi evocano un’officina arrugginita, un mattatoio dell’umanità. Qui i corpi si muovono come prigionieri, costretti a inciampare tra grate e impalcature che azzerano la libertà. Non sono attori che recitano, ma carne esposta, materia sezionata. Lo spettatore è obbligato a sostare in questo paesaggio minerale e industriale, dove pietra e metallo diventano macchina tragica che frantuma le identità. Sacco orchestra una drammaturgia d’assedio: luci che colpiscono come fendenti, suoni spinti fino alla distorsione, ritmo che incalza senza respiro. L’esperienza non è visione distante, ma coinvolgimento fisico. Il sangue versato in scena non è effetto ma simbolo, segno che cancella la consolazione della finzione. Non si può dire “è solo teatro”: il palcoscenico diventa riflesso spietato del nostro presente. L’allestimento dissemina citazioni visive che risuonano con la cronaca: corpi violati, torture, umiliazioni. Non sono illustrazioni didattiche, ma frammenti che smascherano la continuità tra il mito elisabettiano e le immagini quotidiane. Si compone così un repertorio comune dell’orrore, un archivio che non provoca più scandalo, perché la nostra sensibilità si è spenta. Qui sta la posta in gioco: non tanto mostrare la violenza, ma rivelare la nostra indifferenza. In questo contesto Francesco Montanari plasma un Titus complesso, sospeso tra inflessibilità militare e fragilità umana. Non indulge nell’enfasi né nel naturalismo, ma costruisce un percorso fatto di fratture emotive improvvise. Il generale vittorioso si trasforma in carnefice, fino a diventare vittima della propria spirale vendicativa. Montanari non propone un eroe né un mostro, ma un uomo che ci obbliga a misurarci con l’instabilità del confine tra giustizia e crudeltà. Accanto a lui, Marianella Bargilli offre un contrappunto incisivo, radicando la presenza femminile in una forza drammatica essenziale. Straordinario Guglielmo Poggi nel ruolo di Saturnino, capace di oscillare tra ironia grottesca e crudele autorità, dando corpo a una regalità corrosa e instabile. Intorno a loro, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino, Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese, Filippo Rusconi, Enrico Spelta e Matilde Pettazzoni formano un coro organico, collettività scenica che amplifica la tensione e restituisce al dramma la sua natura rituale. I costumi di Alessandra Benaduce, intrecciando suggestioni arcaiche e contemporanee, contribuiscono a sospendere il tempo in una dimensione senza coordinate. La regia evita sia il compiacimento estetico sia la tentazione moraleggiante. La violenza non è spettacolarizzata, ma svelata come meccanismo ciclico, psichico e sociale. Il teatro si conferma come luogo in cui il pubblico deve fare i conti con una domanda ineludibile: fino a dove siamo disposti a riconoscerci nella spirale della vendetta. Non c’è catarsi, non c’è consolazione. L’esperienza lascia addosso allo spettatore l’angoscia come cicatrice, la consapevolezza come ferita. È in questa rinuncia alla pacificazione che lo spettacolo trova la sua urgenza. Shakespeare, attraverso Sacco, non ci offre morale né conforto, ma il rischio del pensiero. Titus Andronicus si conferma così opera viva, archeologica e futurista insieme: un teatro che scava nella memoria primitiva del sangue e al tempo stesso anticipa la brutalità del presente, dove la pietra diventa carne e il ferro si fa sangue. Il pubblico non è rimasto passivo. In più momenti ha interrotto lo spettacolo, non per rifiuto ma perché travolto dall’urgenza del testo, sentendone la bruciante attualità. Una partecipazione non di consumo ma di tensione collettiva, che ha trasformato la platea in un coro reattivo, oscillante tra turbamento e riconoscimento. E proprio questa dialettica fra rappresentazione e vita ha decretato il successo finale: lunghi applausi, chiamate ripetute, un consenso che non era semplice gratificazione estetica, ma adesione a un’esperienza vissuta come necessaria. Photocredit Teatro Quirino Vittorio Gassman
Proseguono le celebrazioni per il bicentenario di Antonio Salieri, il compositore partito da Legnago e divenuto massimo maestro a Vienna, capitale della musica tra ‘700 e ‘800. Fondazione Arena ne guida la riscoperta portando in scena Falstaff a Legnago, primo titolo dell’Edizione Nazionale delle opere di Salieri. L’anniversario è inserito nel Programma regionale per la promozione dei Grandi Eventi della Regione Veneto.
Il culmine del bicentenario salieriano avviene dopo l’istituzione da parte del Ministero della Cultura dell’Edizione Nazionale delle opere di Antonio Salieri. Si tratta della più importante iniziativa editoriale per valorizzare e promuovere l’intero catalogo del compositore, con un vasto progetto di studi e pubblicazione pluriennale in edizione critica, finalmente a disposizione di un pubblico internazionale. Obiettivo tutelare e diffondere il patrimonio musicale del compositore, grazie anche al lavoro di un Comitato scientifico con professori e studiosi italiani e stranieri.
Iniziativa pioneristicamente aperta da Fondazione Arena che, con l’opera Falstaff ossia Le tre burle, ha inaugurato la stagione lirica 2025 con una nuova produzione scenica in edizione critica realizzata con Casa Ricordi, editore di riferimento per l’opera lirica e gli studi filologici musicali. Curatrice Elena Biggi Parodi, professoressa di Storia e Storiografia della Musica, che ha promosso l’istituzione dell’Edizione Nazionale delle opere di Salieri ed è presidente del Comitato Scientifico.
Al Teatro Salieri di Legnago, a suggello di Salieri 200 – Celebrazioni per il bicentenario, l’opera andrà in scena martedì 7 ottobre alle 20.45 nell’allestimento firmato dal regista Paolo Valerio, ripreso da Giulia Bonghi, con scene e projection design di Ezio Antonelli e luci di Claudio Schmid. Il cast schiera giovani cantanti italiani dalla prestigiosa carriera internazionale: si conferma protagonista nel ruolo del titolo il baritono Giulio Mastrototaro, così come la coppia dei coniugi Slender, affidati a Laura Verrecchia e Michele Patti, e il servo Bardolf di Romano Dal Zovo. Debuttano invece il soprano Eleonora Bellocci e il tenore Manuel Amati come signori Ford, così come il soprano Barbara Massaro nei panni di Betty. Protagonisti saranno l’Orchestra di Fondazione Arena diretta dal Maestro Francesco Ommassini e il Coro preparato da Roberto Gabbiani, oltre a mimi e tecnici areniani. Biglietti per ogni settore da 20 a 28 euro disponibili su sito web e biglietteria del Teatro Salieri di Legnago.
Dal 4 all’11 ottobre 2025, al Teatro di San Carlo, va in scena Un ballo in maschera: melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Antonio Somma, tratto dal libretto Gustave III, ou Le Bal masqué di Eugène Scribe. Le date delle repliche sono le seguenti: 5, 8, 10, 11 ottobre 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Pinchas Steinberg. Maestro del Coro del San Carlo, Fabrizio Cassi. La regia e le luci sono a firma di Massimo Pizzi Gasparon Contarini, con scene e costumi di Pierluigi Samaritani e Massimo Pizzi Gasparon Contarini e con coreografie di Gino Potente. Con la partecipazione della Scuola di Ballo del Teatro di San Carlo; Direttore: Clotilde Vayer.
Nel ruolo di Riccardo: Piero Pretti (4, 8, 11), Vincenzo Costanzo (5, 10); a interpretare Renato sono Ludovic Tézier (4, 8, 11), Ernesto Petti (5, 10); nel ruolo di Amelia: Anna Netrebko (4, 8, 11), Oksana Dyka (5, 10). Elizabeth DeShong interpreta Ulrica, l’indovina e Cassandre Berthon interpreta, invece, Oscar, il paggio. Completano il cast: Maurizio Bove (Silvano, marinaio), Romano Dal Zovo (Samuel, nemico del Conte), Adriano Gramigni (Tom, nemico del Conte), Massimo Sirigu (Un Giudice / Un servo d’Amelia). Una Produzione del Teatro Regio di Parma. Qui per ulteriori informazioni. Foto Clarissa Lapolla
Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, Festival “Parigi romantica pop”, 27 Settembre-28 Ottobre 2025″
“FRENCH TOUCH”
Quatuor Opale
Soprano Jennifer Courcier
Mezzosoprano Éléonore Pancrazi
Tenore Enguerrand de Hys
Baritono Philippe Estèphe
Pianoforte Emmanuel Christien
Estratti da operette e altro di Louis Varney, De Croze. Hervé, André Messager, Jacques Offenbach, Roger Planquette, Roger, Rey, Delibes
Venezia, 27 settembre 2025
Chi di noi non vorrebbe assaporare l’aria profumata e frizzante che circolava a Parigi negli anni dal Secondo Impero alla Belle Époque, quando la Ville lumière seduceva un vasto pubblico con l’irresistibile magia dei suoi spettacoli ‘leggeri’? Ebbene, questo desiderio può avverarsi, almeno per coloro che seguiranno il nuovo ciclo di concerti d’autunno, che si svolgerà a Venezia – e in altre sedi d’oltralpe –, per iniziativa del Palazzetto Bru Zane. Protagonista di questa rassegna – Parigi romantica pop – è il compositore Hervé, cui il Centre de Musique Romantique française ha dedicato negli ultimi anni un’attenzione particolare – si ricordino le riproposte di Les Chevalier de la Table ronde, Mam’zelle Nituouche, Le Compositeur touché e di altri titoli –, allo scopo di far luce su un autore, rimasto immeritatamente nell’ombra del suo famoso rivale Jacques Offenbah. Il 2025 – bicentenario della sua nascita – è l’occasione giusta per riscoprire ulteriormente questo musicista prolifico quanto strampalato, e insieme quel movimento artistico – fondato sul gusto per l’assurdo e la follia –, di cui può essere ritenuto un esponente di spicco. Lo si è colto nel concerto inaugurale, French Touch – svoltosi presso la sontuosa Sala Capitolare della Scuola Grande San Giovanni Evangelista –, nel corso del quale la solennità del luogo rendeva ancor più travolgente la verve, con cui il soprano Jennifer Courcier, il mezzosoprano Éléonore Pancrazi, il tenore Enguerrand de Hys e il baritono Philippe Estèphe – accompagnati dal pianoforte di Emmanuel Christien – hanno saputo divertire il pubblico, interpretando un programma, che ripercorreva la storia dell’opéra-bouffe. Nel XIX secolo le partiture per soprano, mezzosoprano, tenore e baritono in veste solistica divennero estremamente rare: quattro grandi voci in una stessa serata musicale costavano troppo. Dunque, tale formazione virtuosistica era riservata a composizioni particolari, come il quatuor Le Colimaçon del tolosano Étienne Rey o il duo Un ténor sans engagement di Jean-Baptiste de Croze, tra i brani di questo concerto, proposti insieme a pagine di teatro musicale ‘leggero’, spesso dall’impianto contrappuntistico, in cui i componenti del Quatuor Opale hanno saputo caratterizzare la personalità di ciascun personaggio, grazie a una grande efficacia nel fraseggio come nella seppur misurata gestualità, cui si accompagnava un intelligente impiego dei rispettivi mezzi vocali: timbratissimo il baritono, generoso il tenore, caricaturale senza pesantezze il mezzosoprano, squillante il soprano. Tra duetti e terzetti, le opere di Hervé (La Nuit aux soufflets, Chilpéric, Alice de Nevers, Estelle et Némorin) e di Offenbach (Orphée aux Enfers, Un mari à la porte, Barbe-Bleue, Les Brigands, La Romance de la rose) si alternavano a partiture meno note di compositori contemporanei – come Surcouf di Robert Planquette, Oscarine di Victor Roger e Monsieur Griffard di Léo Delibes – o di loro successori come Les p’tites Michu di André Messager e Miss Robinson di Louis Varney. Emblematici di questo spumeggiante genere di spettacolo il finale dell’offenbachiana Romance de la rose, che scherza sulle differenze linguistiche tra i personaggi, e il “Quatuor du naufrage”, da Miss Robinson di Louis Varney, che gioca invece sull’assurdità dell’allegria condivisa da un gruppo di naufraghi. Ripetuti applausi. Un bis: il celebre “Quatuor de l’omelette” da Le Docteur Miracle di Georges Bizet. Foto Daniele Zoico
Roma, Teatro Vascello
VAOTOURS (AVVOLTOI)
di Roberto Serpi
interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
luci Luca Bronzo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Premio Mezz’ore d’Autore 2022
Roma, 28 settembre 2025
C’è un’immagine che si impone subito: tre uomini chiusi in una tana, come bestie ferite che non trovano più la via del ritorno. È l’impressione primaria che lascia Vautours (Avvoltoi), scritto, diretto e interpretato da Roberto Serpi insieme a Sergio Romano e Ivan Zerbinati, produzione del Teatro Due di Parma approdata al Vascello di Roma. Non è una vicenda ambientata in spazi sotterranei, eppure lo spettatore, alla fine, ha la sensazione di riemergere da un ipogeo, da un cunicolo oscuro in cui l’aria ristagna e il tempo si è contratto in un’ossessione. Tre uomini licenziati, tutti di mezza età, vivono lo smarrimento di chi è stato improvvisamente estromesso da un ordine produttivo che li aveva resi marginali, invisibili, prima ancora di abbandonarli del tutto. Sono soli, senza legami né sostegni: né famiglie, né amici, né tantomeno organizzazioni sindacali o politiche. La loro solitudine non viene dichiarata, è semplicemente la condizione naturale entro cui si muovono, un dato esistenziale che la scena essenziale – una sedia, un tavolino, un vecchio telefono a disco – restituisce con precisione chirurgica. Proprio quel telefono, un Siemens S62, diventa la quarta presenza in scena: ogni suo squillo provoca uno scarto narrativo, un colpo di senso che incrina la routine dei tre uomini. Negli anni Sessanta e Settanta quell’oggetto apparteneva a un tempo in cui esisteva ancora una dialettica tra capitale e lavoro, quando per licenziare occorreva almeno pronunciare la parola. Ora invece basta un artificio normativo, una manovra burocratica, una firma che dissolve vite e identità. È interessante notare come il telefono, pur senza intenzionalità simbolica, evochi una memoria collettiva: i diritti che si sono via via dissolti, la negoziazione sostituita da silenzi e complicità, l’illusione di un dialogo che non arriverà. Non c’è traccia di un modello brechtiano in Vautours. Non si analizzano i meccanismi del lavoro contemporaneo né si tenta una spiegazione razionale delle ingiustizie. Qui la ferocia sociale si incarna direttamente nei corpi e nelle voci degli attori, si traduce in gesti farseschi, in piani di rivincita grotteschi, in dialoghi che oscillano tra l’assurdo e il cabaret. Serpi, con la sua presenza greve e minacciosa, Romano, con il rigore impiegatizio che nasconde una violenza trattenuta, e Zerbinati, con la sua ingenuità infantile e le filastrocche cantilenanti, formano un trio che oscilla continuamente tra tragicità e ridicolo, in una tensione costante che impedisce allo spettatore di trovare un appoggio emotivo stabile. La vicenda procede come un gioco crudele. Uno dei tre riesce, per caso, a rimettere piede nell’azienda, chiamato a sostituire un collega assente. Da questa minima apertura nasce il delirio logico degli altri due: se la sola possibilità di rientrare è coprire le assenze, allora bisogna crearle. E il ragionamento si traduce in un piano tanto surreale quanto atroce: colpire fisicamente i possibili candidati, produrre le condizioni del vuoto da riempire. È la deriva di un pensiero che si è spogliato di ogni etica, ridotto a un meccanismo di sopravvivenza cieco, senza più alternative né immaginazione. Lo spettacolo non offre soluzioni, né consolazioni. Nemmeno la fuga verso il mito del “ricominciare da zero” – allevando api o rifugiandosi in un borgo appenninico – viene contemplata. Tutto ciò che i media propongono come possibilità di rinascita qui non esiste. I tre uomini restano inchiodati in un presente che li ha già superati, e le loro strategie non sono altro che caricature di un riscatto impossibile. La messinscena di Serpi si affida a una nuda essenzialità: niente musiche, niente proiezioni, nessun effetto. È la parola, secca, incalzante, a scandire il ritmo. E soprattutto è l’energia degli attori, la loro capacità di mantenere costante la tensione drammatica, a far vivere la vicenda in tutta la sua ambiguità. Non c’è mai compiacimento, non c’è mai caduta nel grottesco fine a sé stesso: il gioco scenico rimane sempre sorvegliato, guidato da un equilibrio che consente alla crudeltà della storia di rivelarsi con lucidità e senza compiacimenti. Un aspetto rilevante è anche la genesi del progetto. Nato quasi per caso, da una lettura in camerino durante una pausa di un altro spettacolo, Vautours è stato poi prodotto dal Teatro Due grazie alla fiducia di Paola Donati. Questa origine “artigianale” conferisce al lavoro una qualità particolare: non la rigidità di un apparato produttivo imponente, ma l’urgenza di un desiderio nato tra gli attori stessi, che hanno voluto trasformare un testo in una prova scenica concreta. È un esempio raro di come la nuova drammaturgia possa trovare spazio se sostenuta da scelte produttive attente e coraggiose. Alla fine resta l’immagine di tre uomini senza più speranza, che trasformano il bisogno in crudeltà, l’isolamento in follia. Non c’è nulla di edificante in questa parabola: è piuttosto la rappresentazione di un vuoto, di un’assenza di futuro che divora tutto. Ed è proprio questo vuoto a rendere lo spettacolo perturbante. Non tanto la violenza, non tanto le derive assurde dei personaggi, ma la constatazione che in fondo non c’è alternativa, non c’è un altrove cui aspirare. Con la sua asciuttezza formale e la sua forza interpretativa, Vautours (Avvoltoi) si impone come un segnale di quanto il teatro possa ancora farsi luogo di verità scomoda: non una denuncia, non un pamphlet politico, ma la restituzione di un’inquietudine collettiva che ci riguarda tutti.
Komische Oper Berlin, season 2025/2026
“A THOUSAND IN TEMPELHOF”
Symphony No. 8 in E-flat major for eight soloists, two mixed choirs, a boys’ choir and large orchestra by Gustav Mahler
Soprano I (Magna Peccatrix) CHRISTINA NILSSON
Soprano II (Una poenitentium) PENNY SOFRONIADOU
Soprano III (Mater gloriosa) ELISA MAAYESHI
Contralto I (Mulier Samaritana) KAROLINA GUMOS
Contralto II (Maria Aegyptiaca) RACHAEL WILSON
Tenor (Doctor Marianus) ANDREW STAPLES
Baritone (Pater Ecstaticus) HUBERT ZAPIÓR
Basso (Pater Profundus) ANDREAS BAUER KANABAS
Chorsolisten der Komischen Oper Berlin
Vocalconsort Berlin
Rundfunkchor Berlin
Kinderchor der Komischen Oper Berlin
Deutsches Symphonie-Orchester Berlin
Orchester der Komischen Oper Berlin
Conductor James Gaffigan
Choirs David Cavelius
Children’s Choir Dagmar Barbara Fiebach
Berlin, 25 September 2025
The Komische Oper Berlin building has been undergoing renovation and expansion since 2023, forcing the ensemble to relocate to various venues throughout the city. The Schillertheater, once the temporary home of the Staatsoper Unter den Linden when its historic building was reconstructed, has become a kind of home base for the Komische Oper. However, its last two seasons were opened in Hangar 4 of the former Berlin-Tempelhof Airport, with Hans Werner Henze’s ‘Das Floß der Medusa’ in 2023 and Handel’s Messiah in 2024. During this year’s new production of ‘Jesus Christ Superstar’, the Komische Oper’s first concert of the season also took place in Hangar 4, featuring Symphony No. 8 by Gustav Mahler. Its sheer size alone makes the venue ideal for this work, which is known as the ‘Symphony of a Thousand’ despite the composer’s disapproval. It requires two orchestras, extra brass players, two large choirs, a boys’ choir and eight soloists. The audience sits on stands mainly on either side of the musicians, who are positioned in the centre of the huge hangar, while the third stand opposite the conductor and soloists is occupied by the choirs. This arrangement allows the audience to become part of Mahler’s gigantic sound universe, which, given the bare industrial building, might lead one to expect problematic acoustics rather than the extremely enjoyable homogeneous listening experience in which musicians and listeners practically merge into Mahler’s universe, which begins to resonate and sound. James Gaffigan, General Music Director of the Komische Oper since the 2023/24 season, took on the difficult task of conducting this monumental and complex work. To cut a long story short: he pulled it off! At first, I found the sound somewhat muffled and the conductor slightly sluggish, but the sound quickly developed into something magnificent, homogeneous, and precise, both transparent and grandiose, dynamic, and rhythmic. The choirs were excellent: the renowned Rundfunkchor Berlin and Chorsolisten der Komischen Oper Berlin, reinforced by the Vocalconsort Berlin, and it was wonderful how well the KOB children’s choir was integrated, conducted by Dagmar Barbara Fiebach. The Deutsches Symphonie-Orchester Berlin and the Orchester der Komischen Oper captivated with their extreme presence in all instrumental groups, the brass triumphed, the woodwinds shone, and the strings enchanted. I admit that my key to Mahler’s 8th symphony lies with the vocal soloists. The sopranos and the tenor are extremely challenged with partially demanding vocal range requirements. While the voices in the first part stand out from the choirs and blend in with them, the solo singing in part II is a little patchy but it gives space for more vocal characterisation. The vocal performances of the eight soloists were masterful. They could cope with the difficult passages of the Pentecost hymn and the final scene from Goethe’s Faust II with ease and performed their tasks excellently. It would be unfair to single out individual performances: the sopranos Christina Nilsson, Penny Sofroniadou and Elisa Maayeshi were as excellent as their contralto counterparts Karolina Gumos and Rachel Wilson. The tenor Andrew Staples stood out as Doctor Marianus, Hubert Zapiór was a convincing Pater Ecstaticus and Andreas Bauer Kanabas excelled as Pater Profundus. I am grateful to the Komische Oper Berlin for giving me the opportunity to experience this rarely performed work live for the first time. It became clear to me that recordings are hardly able to capture the complexity of the work, Mahler’s overwhelming soundscape and the power of the choirs. Only in a larger acoustic space does Mahler’s vision become tangible: ‘Try to imagine the whole world in the process of sounding and resonating – these are no longer human voices, but planets and suns revolving.’ (From a letter to his publisher Emil Gutmann) Photos Jan Windszus Photography
È uno dei capolavori assoluti del repertorio operistico a inaugurare la Stagione artistica 2025-2026 della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova: il dramma giocoso Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte in scena da venerdì 3 ottobre alle ore 20 (repliche: sabato 4 ottobre ore 15, domenica 5 ottobre ore 15, venerdì 10 ottobre ore 20, sabato 11 ottobre ore 20 e domenica 12 ottobre ore 15) apre un nuovo percorso sotto la guida del sovrintendente Michele Galli e del direttore artistico Federico Pupo.
Sul podio ci sarà Constantin Trinks, direttore tedesco con un’importante carriera internazionale, chiamato a guidare l’Orchestra e il Coro (diretto da Claudio Marino Moretti) del Teatro Carlo Felice, e un cast che unisce interpreti di solida esperienza e voci emergenti: Simone Alberghini (Don Giovanni), Desirée Rancatore (Donna Anna), Ian Koziara (Don Ottavio), Jennifer Holloway (Donna Elvira), Giulio Mastrototaro (Leporello), Mattia Denti (Il Commendatore), Alex Martini (Masetto) e Chiara Maria Fiorani (Zerlina).
Nelle recite del 4 e 11 ottobre ci saranno nei ruoli principali Gurgen Baveyan (Don Giovanni), Irina Dubrovskaya (Donna Anna), David Ferri Durà (Don Ottavio), Monica Zanettin (Donna Elvira, anche nella recita del 12 settembre), Bruno Taddia (Leporello). La regia di Michieletto è ripresa da Elisabetta Acella. Qui per ulteriori informazioni.