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Venezia, Palazzetto Bru Zane: alla scoperta del “Maestro Fauré” con Cyrille Dubois e Tristan Raës

Mer, 27/03/2024 - 09:09

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Il filo di Fauré”, 23 marzo-23 maggio 2024
“MAESTRO FAURÉ”
Tenore Cyrille Dubois
Pianoforte Tristan Raës
Mélodies di Gabriel Fauré, Camille Saint-Saëns, Ernest Chausson, Henri Duparc, Nadia Boulanger, Claude Debussy, Florent Schmitt, Roger-Ducasse, Maurice Ravel
Venezia, 24 marzo 2024
Gradito ritorno al Palazzetto Bru Zane del tenore Cyrille Dubois e del pianista Tristan Raës per il secondo concerto del Ciclo “Il filo di Fauré”, dedicato al compositore francese e alla generazione di musicisti che lo ebbero come maestro. I due artisti – che sono considerati interpreti di riferimento nel repertorio afferente alla mélodie francese – hanno proposto un ricco florilegio di liriche intonate da Fauré o da suoi talentuosi allievi – a parte un titolo debussyano –, dando un’ennesima, autorevole prova delle loro indubbie doti. La purezza del timbro, l’attenzione ad ogni particolare della musica e del testo, la chiarezza del fraseggio, dimostrate dal tenore, hanno trovato piena corrispondenza nel raffinato pianismo di Raës, capace di assecondare ogni inflessione della voce con mille sfumature di colore. Così quest’esecuzione, davvero encomiabile per nitore e trasparenza, ha messo pienamente in valore la duplice valenza, letteraria e musicale, delle singole melodie affascinando il pubblico dall’inizio alla fine. Un carattere composito, che è poi la cifra distintiva di ogni mélodie anche secondo Fauré, maestro indiscusso nell’ambito di questo genere – nel cui catalogo troviamo ben 111 titoli –, che assegnava alla musica il compito di “far emergere il sentimento profondo che vive nell’anima del poeta e che le frasi non sono in grado di trasmettere con precisione”.
“La natura istintuale dei sentimenti” emergeva da Lydia – una melodia delicata, semplice e lineare –, Sérénade toscane – cullante e appassionata – e L’Absent – dal carattere patetico – di Gabriel Fauré, nonché da La Solitaire – dal pathos traboccante – di Camille Saint-Saëns. “Il superamento del romanticismo”, in nome di una nuova sensibilità simbolista e decadente, accomunava Les Berceaux, La Fée aux chansons e Clair de lune di Fauré, oltre che Le Colibri di Ernest Chausson e L’Invitation au voyage di Henri Duparc. “L’inizio della modernità” – suggerito musicalmente da un certa instabilità tonale e letterariamente dalla diffusa presenza di ardite analogie – era rappresentato da Arpège, Puisque l’aube grandit e Dans la forêt de septembre di Fauré, come da Heures ternes di Nadia Boulanger e Apparition di Claude Debussy. Concludevano la rassegna Le Don silencieux e Vaisseaux, nous vous aurons aimés di Fauré, Les Barques di Florent SchmSitt, Les Pièces d’eau di Roger-Ducasse e Le Cygne di Maurice Ravel, riunite sotto la categoria “Il retaggio”. Scroscianti applausi con qualche acclamazione a fine serata. Tre fuoriprogramma, tra cui la celebre Après un rêve di Fauré. Foto Jean-Baptiste Millot

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: “La fanciulla del west”

Mar, 26/03/2024 - 16:59

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e balletto 2023-2024
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Opera in tre atti su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma “The Girl of the Golden West” di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Minnie JENNIFER ROWLEY
Jack Rance GABRIELE VIVIANI
Dick Johnson ROBERTO ARONICA
Nick FRANCESCO PITTARI
Ashby PAOLO BATTAGLIA
Sonora FILIPPO MORACE
Trin CRISTIANO OLIVIERI
Sid / Billy Jackrabbit  EDUARDO MARTÍNEZ
Bello e Harry ALESSIO VERNA
Joe ENRICO MARIA PIAZZA
Happy GIUSEPPE ESPOSITO
Larkens TYLER ZIMMERMAN
Wowkle KSENIA CHUBUNOVA
Jake Wallace GUSTAVO CASTILLO
Josè Castro ADRIANO GRAMIGNI
Un postiglione ALEJANDRO ESCOBAR
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Valentina Carrasco
Scene Carles Berga e Peter van Praet
Costumi Silvia Aymonino
Luci Peter van Praet
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 22 marzo 2024 (prima rappresentazione)
La fanciulla del West è un’opera d’azione. Puccini, che mai cedette alle lusinghe del mondo del cinema, con questo titolo costruì una sorta di western per il teatro d’opera, ispirandosi ai ritmi della nascente cinematografia. La melodia, rispetto ai titoli precedenti, risulta alquanto sacrificata, e ciò rende la Fanciulla meno popolare e un po’ ostica per il grande pubblico, se confrontata con le opere più celebri del compositore lucchese. La sfida, per chi sceglie di interpretare questo titolo, è di rispettarne la natura senza far scomparire la vena lirica che attraversa le vicende dei personaggi e senza sacrificare la loro psicologia. La regista Valentina Carrasco ha scelto di ispirarsi al mondo del cinema western, e in particolare ai film italiani di Sergio Leone; anzi, ha portato sul palcoscenico un set cinematografico, e una comparsa che incarna lo stesso Leone, immaginando la vicenda come la ripresa di un film. Anche se in alcuni passaggi non è chiaro il significato del confine tra finzione cinematografica e realtà di vita dei personaggi/attori (ad esempio, perché Johnson ferma le riprese prima di intonare «Ch’ella mi creda»?), la drammaturgia risulta ben delineata, soprattutto grazie all’affascinante ricorso ai primi piani (ripresi dalle videocamere e proiettati su uno schermo appeso al boccascena) che valorizzano la psicologia dei personaggi assai più di un’azione spesso convenzionale. Due momenti in questo senso memorabili sono stati la canzone di Wallace e la scena della partita a poker. Le scenografie di Carles Berga e Peter van Praet coniugano a loro volta caratteristiche teatrali e cinematografiche, e riescono nel duplice intento di essere palesemente finte e al contempo spettacolari nel loro realismo. Dunque, è stato centrato l’obiettivo di portare in scena un’idea originale senza scontentare gli spettatori più tradizionalisti. Sul fronte musicale si è rilevata qualche criticità in più. La partitura, va detto, è particolarmente complessa, non molto gratificante per gli interpreti, che hanno poche occasioni di espressione solistica, e difficile da gestire per il direttore (anche Francesco Ivan Ciampa lo afferma, nell’intervista pubblicata sul programma di sala), in ragione di un’orchestrazione densa e di un fitto gioco di sfumature che danno salienza ai singoli momenti drammatici. La componente sinfonica è stata messa in risalto a dovere, così come ha brillato il Coro (a ranghi solo maschili), che si è reso protagonista di un’eccellente pagina di impressionante veemenza in apertura del III atto: le compagini del Regio sono sempre una garanzia. Quando però si è trattato di far emergere le scene individuali, si è avuta l’impressione che molto finisse per essere appiattito in una massa sonora che sacrificava le sfumature espressive, dinamiche e cromatiche. Anche alcune scene, come il litigio tra Rance e Sonora nel I atto, che dovrebbero stagliarsi con una certa nettezza, finivano per essere sommerse nel tessuto orchestrale. E, nei confronti tra i protagonisti, una certa insistenza sullo stile del canto “di conversazione” ha rischiato di sacrificare oltremodo il lirismo e la poesia che pur dovrebbero caratterizzare la partitura, quanto meno nei duetti tra Minnie e Dick e nell’addio finale. Occorre dire che lo strumento del soprano Jennifer Rowley (Minnie) non è il più adatto per dare risalto cromatico al ruolo della protagonista: la linea di canto risulta alquanto discontinua, con centri di proiezione limitata e acuti stridenti che conferiscono al personaggio un’aura espressionista estranea alla poetica pucciniana. I suoi passi meglio riusciti sono stati i confronti con Rance, e in particolare quello più acceso al termine del II atto, nel quale la forza dell’accento è predominante sulla bellezza del suono. Decisamente più convincente è stato il tenore Roberto Aronica nel ruolo di Dick Johnson: in lui l’impostazione stentorea non si è mai disgiunta da una buona ricerca cromatica, ritraendo in maniera credibile il bandito dall’animo sensibile, indurito dalle avverse vicende della vita. Il baritono Gabriele Viviani è perfetto, sia scenicamente sia vocalmente, per dar vita alla figura disillusa dello sceriffo Jack Rance, al quale non è richiesto involo lirico, ma un accento che oscilli, con varie gradazioni, tra l’amaro e il sarcastico. E più che appropriata è parsa la lunga schiera di seconde parti. Se ne vogliamo menzionare due, senza fare alcun torto agli altri, diciamo il Nick del tenore Francesco Pittari, espressivo e non privo di sfumature cromatiche, e il bandito José Castro del basso Adriano Gramigni, perspicuo nell’uso della parola scenica. Ma è giusto ricordare tutti con onore: Paolo Battaglia (Ashby), Filippo Morace (Sonora), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid e Billy Jackrabbit), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Ksenia Chubunova (Wowkle), Gustavo Castillo (Jake Wallace), Alejandro Escobar (Un postiglione). Al termine dello spettacolo, convinti applausi per tutti: segno che, al di là di qualche imperfezione esecutiva, il pubblico ha saputo apprezzare questo titolo, relativamente raro, di un Puccini alla ricerca di nuove vie per il teatro d’opera. Foto Daniele Ratti

Categorie: Musica corale

Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista: “All’alba di una nuova era” con il Quartetto Strada

Mar, 26/03/2024 - 00:35

Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, Festival “Il filo di Fauré”, 23 marzo-23 maggio 2024
ALL’ALBA DI UNA NUOVA ERA”
Quartetto Strada
Violino Pierre Fouchenneret,  Ayako Tanaka
Viola Lise Berthaud
Violoncello François Salque
Pianoforte Simon Zaoui
Jean Roger-Ducasse: Quatuor avec piano en sol mineur; Gabriel Fauré: Quintette avec piano en ré mineur n° 1
Venezia, 23 marzo 2024
Come avviene ormai da qualche anno, la policroma Sala Capitolare della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista – che sorge a pochi metri dal Palazzetto Bru Zane – ha fatto da sontuosa cornice al concerto inaugurale del Festival di primavera, organizzato dal Centre de Musique Romantique Française. Nel corso dell’attuale rassegna si approfondirà la conoscenza di Gabriel Fauré – di cui ricorre il centenario della morte –, indagando anche il “filo” che lo lega – in qualità di docente – a una nutrita schiera di ragguardevoli musicisti, che frequentarono la sua classe di composizione presso il Conservatorio di Parigi: da Nadia Boulanger a Maurice Ravel passando per Florent Schmitt, Georges Enesco e Charles Koechlin. Nel concerto di cui ci occupiamo il compito di rappresentare il passaggio di testimone tra Fauré e la generazione da lui formata era affidato a Roger-Ducasse, suo allievo tra il 1898 e il 1900, che in seguito continuerà l’insegnamento del venerato Maestro, quando diverrà a sua volta docente di composizione presso il Conservatorio parigino. Nella serata il Quartetto con pianoforte (1912) di Roger-Ducasse veniva messo a confronto con il Quintetto con pianoforte n. 1 (1906) di Fauré, complici le abili dita di Pierre Fouchenneret e Ayako Tanaka (violini), Lise Berthaud (viola), François Salquea (violoncello), Simon Zaoui (pianoforte).
La composizione del Quartetto con pianoforte in sol minore di Roger-Ducasse inizia nel 1899 e si protrae per ben tredici anni. Eseguito per la prima volta il 26 marzo 1912, il lavoro è dedicato a Marguerite Long, pianista virtuosa e amica del compositore. Il quintetto – che si articola in quattro movimenti solidamente costruiti e omogenei –, pur rivelando qua e là un tono magniloquente, coniuga un vibrante ardore a una certa ricerca di sensibilità. Nell’esecuzione di questo lavoro – come peraltro si è confermato nel pezzo seguente – ci ha particolarmente colpito la raffinata qualità del suono, nell’insieme come nei singoli interventi, per non parlare della perfetta intesa o dell’adeguatezza stilistica. Sonorità particolarmente vigorose hanno percorso il primo movimento, Allegro, ritmico e imperioso, che ricorda lo stile di Fauré, infondendo energia e vivacità al discorso musicale ora costruito tramite una scrittura verticale, ora fatto di concatenazioni orizzontali “en tuilages”. Colore ed espressività hanno dominato nel secondo movimento, Andantino ma scherzando – a suo tempo descritto dalla stampa come “un’elegante passeggiata nel giardino delle tonalità” –, dove gli archi hanno sfoggiato diverse modalità espressive. Dopo il terzo movimento, Molto adagio – un lamento delicato, dignitoso e puro, che si collega direttamente al finale – un vitalistico ottimismo ha caratterizzato l’ultimo movimento, Allegro, riprendendo alcuni temi dei movimenti precedenti con particolare verve e senso del ritmo. Anche il Quintetto con pianoforte in re minore n. 1, op. 89 di Fauré ebbe una lunga gestazione. Iniziato nel 1890, il lavoro viene interrotto dal compositore, per dedicarsi alle Cinq Mélodies “de Venise” e poi alla Bonne Chanson. Ripreso parzialmente, prima nel 1894 e poi nel 1903, sarà completato due anni dopo e presentato in prima esecuzione assoluta al Cercle Artistique di Bruxelles il 23 marzo 1906 con il Quatuor Ysaÿe. All’ascolto – come ebbe a notare lo stesso compositore, riguardo al primo movimento – non si coglie affatto il travaglio compositivo cui si è fatto cenno, mentre risulta abbastanza evidente che Fauré evita di ottenere l’effetto di un’orchestra in miniatura – frequente con una formazione di questo tipo – e privilegia tessiture ariose, tenendo conto delle caratteristiche acustiche dei vari strumenti. Analogamente apprezzabile è risultata l’esecuzione di questo secondo titolo in programma. Un’atmosfera sognante, introdotta dalla viola, ha dominato nel primo movimento, Molto moderato, in cui le lunghe linee liriche degli archi erano alleggerite dalla scrittura liquida del pianoforte. Una notturna quiete con qualche sussulto di inquietudine si è colta nell’Adagio, dove gli archi si facevano spesso carico della dimensione melodica. Una certa concitazione ha percorso il giocoso finale, Allegretto moderato – che sintetizza diverse combinazioni ascoltate nei movimenti precedenti –, dove l’insieme ha brillato nell’affrontare la scrittura densamente polifonica, mentre il pianoforte si è segnalato per il tocco cristallino. Reiterati applausi interrotti da un dovizioso fuoriprogramma: dal Quintette pour piano et cordes op. 115 di Gabriel Fauré, III. Andante moderato (Un assoluto incanto!…)

Categorie: Musica corale

Roma, Galleria Borghese: “Un Velázquez in Galleria”

Lun, 25/03/2024 - 15:04

Roma, Galleria Borghese
UN VELÁZQUEZ IN GALLERIA
Diego Velázquez, nell’ambito della sua produzione artistica giovanile, rivolge una particolare attenzione alle scene di vita quotidiana, scegliendo spesso come soggetti ambienti popolari quali le cucine, luoghi frugali e semplici, dove il cibo, nella sua fase preparatoria, diviene il fulcro narrativo di composizioni pittoriche di notevole impatto visivo.
A differenza delle elaborate nature morte rappresentanti banchetti sontuosi, tipiche ad esempio dell’opera di Pieter Claesz, Velázquez adotta un approccio essenziale e naturalistico, proponendo composizioni spartane, in netto contrasto con la tradizione del tempo. In queste rappresentazioni, Velázquez non si limita alla mera descrizione della realtà visibile, ma arricchisce le sue opere con allusioni a valori allegorici e significati religiosi, spesso suggeriti con discrezione sullo sfondo. Un esempio emblematico di questo approccio è rappresentato da “Una domestica” (1620-22), di cui esistono due versioni. Questa opera, ritraente una sguattera mulatta intenta a riordinare le stoviglie dopo aver cucinato, include, attraverso una finestra aperta su un’altra stanza, la visione di Gesù seduto a tavola con due discepoli durante la cena di Emmaus, una scena resa nota grazie a un restauro relativamente recente. La presenza di Cristo, reale o riflessa che sia, invita alla riflessione sulla sua costante presenza nelle dimensioni più umili e quotidiane della vita.  Quest’opera giovanile condivide aspetti compositivi con il “Cristo in casa di Marta e Maria” (circa 1620, National Gallery, Londra), entrambe le opere caratterizzate da un ribaltamento della posizione e dell’importanza dei soggetti raffigurati. Attualmente, “Donna in cucina con Cena di Emmaus” è esposta alla Galleria Borghese, inserendosi in un programma espositivo che mira al confronto diretto tra Velázquez e Caravaggio, due maestri del Barocco. Tale confronto si offre come spunto per letture critiche che aprono nuove prospettive di analisi, inserendo l’esposizione in un contesto più ampio dedicato all’influenza di Roma sugli artisti stranieri. Immerso in un’epoca di rivoluzioni artistiche e culturali, Diego Velázquez emerge come una figura emblematica che trascende i confini del proprio tempo e spazio. Nel cuore di Siviglia, Velázquez si imbeve della rivoluzionaria tecnica pittorica di Caravaggio, con la sua audace chiaroscuro e il realismo senza precedenti, ma anche dell’effervescenza intellettuale portata dalla Riforma Luterana. Tuttavia, non si limita a essere un mero osservatore: con determinazione ferrea, si propone di catturare l’umanità nella sua essenza più pura e cruda, un’umanità non idealizzata ma visceralmente reale. L’influenza di Caravaggio è palpabile, eppure Velázquez si distingue per una propria interpretazione dell’uso della luce e del colore. La sua palette si sfalda, si dissolve nei meandri di una luce più diffusa, in contrasto con il chiaroscuro marcato del maestro lombardo. Le sue pennellate, morbide e sfumate, creano atmosfere di sogno in cui la luce sembra emanare direttamente dai soggetti, conferendo loro una presenza eterea e al tempo stesso intensamente terrena. Gli sguardi che Velázquez imprime nei suoi personaggi sono un capitolo a parte. Intensi, penetranti, quasi terribili nella loro intensità, sembrano trasportare il peso di un’intera esistenza. Questi sguardi, posseduti da una verità inafferrabile e profondamente umana, sfidano noi spettatori a confrontarci con loro, a interrogarci su ciò che giace al di là della superficie pittorica. L’artista si distacca anche dalle visioni idealizzate dell’epoca, attingendo piuttosto alla visionarietà luministica di Tintoretto e alla fantasia allucinata della pittura veneta. Queste influenze si amalgamano in un linguaggio visivo unico, in cui la realtà si fonde con il sogno, e l’umano si rivela nella sua complessità emotiva e spirituale. Velázquez non si accontenta di dipingere la realtà così come appare; egli esplora le profondità dell’anima umana, rivelando attraverso il suo stile inconfondibile che la bellezza, la verità e l’intensità si annidano nelle pieghe più nascoste dell’esistenza. Con ogni opera, ci invita a uno sguardo più profondo, un viaggio al di là dell’apparente, verso l’essenza stessa dell’essere umano. Una struttura metallica, impreziosita da una vibrante sfumatura di giallo, funge da sfondo all’opera d’arte esposta, incorniciandola con eleganza e invitando lo spettatore ad immergersi nel suo mondo cromatico. L’armoniosa fusione dei colori tra la struttura stessa, il tessuto delle tende e le tonalità circostanti contribuisce a creare un’atmosfera avvolgente, quasi come se l’impianto stesso di supporto si aprisse in un gesto di benvenuto al visitatore. Tuttavia, dietro questa impeccabile disposizione potrebbe celarsi una scelta di design che richiede una maggiore attenzione. Sebbene, infatti, la disposizione simmetrica del quadro e del suo pannello esplicativo su una parete possa suggerire un equilibrio visivo, tale rigore formale potrebbe risultare leggermente opprimente. L’opera e la sua cornice sembrano quasi confinate, compressi all’interno di uno spazio finestra, priva di un senso di profondità e tridimensionalità. Le scelte estetiche, apparentemente orientate a favorire uno spazio più ampio per gli spettatori e a garantire una corretta fruizione dell’ambiente, risultano alquanto limitative nella loro concezione, confinando il quadro in uno spazio che ne inficia il potenziale impatto visivo e di conseguenza emotivo. L’interazione sinergica tra l’opera d’arte in primo piano e gli altri dipinti della sala non può essere sottovalutata. È evidente che ogni scelta curatoriale è stata fatta con attenzione e intelligenza, creando un dialogo visivo e concettuale tra le opere che va al di là del semplice caso. In questo contesto, l’opportunità di ammirare da vicino questo straordinario capolavoro e di immergersi nell’atmosfera magica di una galleria d’arte nel cuore della capitale diventa un’occasione imperdibile. È un invito a lasciarsi trasportare dalla bellezza delle opere e a cogliere i molteplici richiami e le sottili relazioni che si creano tra di esse. Photocredit @A.Novelli per Galleria Borghese.

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro Malibran: Myung-Whun Chung dirige musiche di Beethoven e Brahms

Lun, 25/03/2024 - 08:18

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e pianoforte Myung-Whun Chung
Violino Roberto Baraldi
Violoncello Emanuele Silvestri
Ludwig Van Beethoven: Concerto per pianoforte, violino, violoncello e orchestra in do maggiore op. 56; Johannes Brahms: Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98
Venezia, 22 marzo 2024
Due giganti della musica si confrontavano nel recente concerto – svoltosi al Teatro Malibran, nell’ambito della Stagione Sinfonica 2023-2024 della Fondazione Teatro La Fenice –, che vedeva il ritorno sul podio di uno dei beniamini del pubblico veneziano, il Maestro Myung-Whun Chung nella doppia veste di solista e direttore. Un confronto particolarmente intrigante, che ha messo in evidenza quanto sia riduttivo considerare Beethoven l’antesignano del romanticismo e dell’individualismo e Brahms il paladino del classicismo, in antitesi rispetto ai “moderni” Liszt e Wagner.
Tutt’altro che romantico, infatti, è il Beethoven del Triplo Concerto, una partitura ancora volta al passato sia perché nata su commissione sia perché concepita per più solisti, analogamente al Concerto Grosso, e dunque senza la contrapposizione fra strumento solista e orchestra, tipica del romanticismo. Nonostante i suoi primi abbozzi siano annotati sullo stesso quaderno dove andavano prendendo forma l’Eroica e il Fidelio, questo ampio lavoro del 1804 è ancora immerso nel mondo luminoso e sereno della musica del Settecento. Scritto per esaudire il desiderio di un esponente dell’aristocrazia – il fratello dell’imperatore Francesco II: l’arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena, appassionato di musica, nonché allievo dello stesso Beethoven – la parte del pianoforte è adeguata alle limitate possibilità del nobile rampollo. Così la parte pianistica è piuttosto semplice, ma nel contempo brillante, per non penalizzare l’esecutore rispetto agli altri due solisti. Proprio il carattere “leggero” del lavoro non rimanda al cliché del Beethoven titanico, dai toni contrastanti. Un pianismo diffusamente nitido e brillante, scattante ed espressivo è stato offerto da Myung-Whun Chung, che ha dialogato – dimostrando un’accattivante autorevolezza – con Roberto Baraldi al violino ed Emanuele Silvestri al violoncello, i quali hanno affrontato con musicalità e padronanza tecnica le loro parti più virtuosistiche, dalla tessitura piuttosto acuta. Nell’Allegro iniziale – dove i due temi principali, accompagnati da numerosi temi secondari, sono piuttosto affini a livello ritmico e melodico, a stemperare la dialettica della forma sonata – i solisti si sono scambiati il materiale melodico in un raffinato edonismo. Nel Largo – una parentesi contemplativa di estrema brevità fra i massicci blocchi dei tempi estremi – si sono imposti i due strumenti ad arco, sostenuti dagli arpeggi del pianoforte. Senza soluzione di continuità è seguito il Finale, un Rondò alla polacca, che ha introdotto una nota di colore, con un refrain incisivo e elegante, che si è alternato ad episodi diversificati, trasformando umoristicamente il proprio metro da 3/4 a 2/4, subito prima della Coda. Applausi finali da parte di un pubblico divertito e riconoscente. Un fuoriprogramma: l’Andante con moto tranquillo, dal Trio in re minore op. 49 di Felix Mendelssohn.
Venendo a Brahms, il grande amburghese era rappresentato dalla sua ultima sinfonia: un capolavoro in cui un mirabile costruttivismo, mutuato dai classici, non esclude, anzi finisce per accentuare le istanze del sentimento. In altre parole, la struttura formale, pur diffusamente riconoscibile, sembra talora travolta dall’urgenza della più intensa espressività. Assolutamente magistrale la lettura proposta dal maestro coreano – con cui l’orchestra fenicea ha ormai un rapporto simbiotico –, che ha saputo portare alla luce il grande pathos racchiuso in questa sublime partitura, pur valorizzandone la ricordata perizia costruttiva. Il suo gesto ampio ed icastico ha ottenuto dagli strumentisti – in gran forma – una preziosa qualità del suono, nel corso di un’esecuzione intensamente espressiva, caratterizzata da cambi improvvisi dei livelli sonori, inaspettati scarti nel ritmo dal sapore zigano-ungherese, oltre che da una veste armonica sempre cangiante. Struggente l’iniziale Allegro non troppo, che è esordito con una suggestiva cellula tematica, ai violini, carica di inquietudine – costituita da coppie di note, che variano in base a uno schema predefinito – e si è arricchito, nel prosieguo, di altri spunti tematici, che andavano dall’eroico al lirico, fino al titanico finale, dove il primo tema ha assunto un carattere maestoso, culminando sulle tessiture altissime dei violini, fino alla perentoria, percussiva cadenza conclusiva. Un’atmosfera sognante ha avvolto inizialmente il secondo movimento, Andante moderato, con lo scarno motivo magnificamente intonato dai corni, cui seguivano un primo tema – esposto dal clarinetto e ravvisabile, in un momento successivo, nell’appassionata melodia degli archi – e poi un secondo tema, un canto dolcissimo dei violoncelli, contrappuntato dai violini. Grande energia ha sprigionato l’Allegro giocoso, assimilabile a uno Scherzo, percorso da una spensierata gioia di vivere, con l’intermezzo di uno squarcio bucolico dominato dai corni. Il magistero compositivo di Brahms si è imposto nella grande costruzione contrappuntistica dell’Allegro energico e passionato, con cui si è conclusa la sinfonia e con essa la produzione sinfonica del sommo maestro: un esempio mirabile di quella tecnica brahmsiana – che rimanda all’antica forma strumentale della ciaccona, assai praticata in età barocca –, in base alla quale il tema viene presentato dalle voci più acute di una serie di accordi dei fiati e poi più volte variato, così da riproporlo con tratti sempre diversi, in un continuo divenire del materiale musicale, che riscatta la schematicità della forma con la libertà dell’invenzione. Pubblico entusiasta e grandi applausi per il direttore e l’orchestra nelle sue diverse sezioni.

Categorie: Musica corale

Torino, Auditorium RAI: “Il giovane Puccini”

Dom, 24/03/2024 - 12:32

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Michele Gamba
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Tenore Giulio Pelligra
Baritono Markus Werba
Giacomo Puccini:  “Capriccio sinfonico”, SC56 per orchestra; “Le Villi”: Preludio e tregenda; Messa a quattro voci (Messa di Gloria) per soli, coro e orchestra.
Torino, 20 marzo 2024
L’OSN RAI ricorda il centenario pucciniano, il 29 novembre saranno cent’anni dalla morte del maestro lucchese, con questo straordinario concerto celebrativo, fuori stagione, incentrato sulla grande, per durata e dimensioni orchestrali, Messa a quattro voci, conosciuta anche come Messa di Gloria. L’occasione è straordinaria, non altrettanto il pubblico che si presenta piuttosto scarso. L’orchestra è al gran completo e, per la Messa, il Coro del Teatro Regio con l’accorta e preziosa guida di Ulisse Trabacchin, allinea la sua ottantina di elementi. Lo si sa: di Puccini non c’è più nulla da scoprire, essendo ogni sua opera notissima e ripresentata con fin esagerata frequenza. Quest’anno poi non si contano ovunque, in Italia e altrove, i titoli ripetuti che ne coprono l’intera produzione. Non ci sono scoperte e neppure, ed è più grave, edizioni critiche, pare infatti assodato che per i musicologi sia tutto chiaro e fissato definitivamente. Forse qualche ulteriore sforzo per precisarne i legami coi contesti artistico-musicali europei, sia suoi contemporanei, sia in evoluzione, potrebbe rivelarsi prezioso. Primi brani in programma, due pagine orchestrali: il “Capriccio Sinfonico” del 1883, quasi un saggio da diploma di conservatorio, che mescola echi wagneriani e scapigliati ad anticipazioni sia di Edgar che di Bohème. Se il tema del falso funerale di Edgar è più difficile da cogliere, vista la rarità di esecuzione di questa seconda opera dell’autore, l’avvio di Bohème colpisce anche perché suona inaspettato, come fosse collocato in un contesto inopportuno. È comunque indicativo di come delle melodie, ormai per noi paradigmatiche dell’autore, gli fossero effettivamente connaturati fin dai primi saggi di composizione.  Seguono due estratti da Le Villi: il preludio e la tregenda. In realtà gli interventi sarebbero tre, non si comprende perché il terzo l’abbandono, secondo in ordine cronologico nell’opera, sia qui stato tralasciato nonostante i soli otto minuti di durata del dittico. Se il preludio è poeticamente disteso e pateticamente romanticizzante, nella tregenda, nomen-omen, ottoni, corni, percussioni, compreso un immenso gong posto in bellavista, ci danno dentro a più non posso. L’OSN RAI brilla e il Maestro Michele Gamba, con indubbio gusto e moderazione, la guida su vie di affascinante discrezione che, se pur memori di Gioconde e di Mefistofeli, le monda da intemperanti sregolatezze. Puccini per quanto poco frequentatore, in vita, dei banchi di chiesa, si trovava a dover onorare cinque passate generazioni famigliari di organisti-compositori che avevano illustrato la cappella musicale del Duomo di Lucca. Con questa eredità sulle spalle, quando ventenne iniziò a metter mano alla sua Messa a quattro voci, nota in seguito come Messa di Gloria, lo fece con grande serietà e impegno. Gli studi alle spalle e in corso erano stati seri e approfonditi, i classici polifonisti post rinascimentali, con Palestrina in testa, gli erano sicuramente noti, come certamente lo erano i viennesi del periodo classico, nell’aria poi ancora risuonavano gli echi verdiani del Requiem e di tutto ciò e di tanto altro che a noi sfugge, in qualche modo fa tesoro. Tranquillo l’inizio del Kyrie, che viene introdotto da una melodia suadente dei violini con echi dei legni. I Christe intermedi, si drammatizzano con timpani ed ottoni, per riprendere poi la quiete col ritorno all’iniziale perorazione. Molto espanso, quasi la metà dell’opera per durata, il Gloria ha taglio e melodizzare inconfondibilmente operistico e profano. Nel Gratias agimus tibi si sfoga, quasi in dialogo col flauto, il solo tenorile di Giulio Pelligra. Il Finale Cum Sancto Spiritu è un’imponente e massiccia fuga doppia, quasi di tradizione barocca nordeuropea, in contrasto assoluto con le mollezze melodiche che la precedono. Molto più sbrigativo il Credo che parte con un momento corale assai assertivo. Si rinforza con ottoni nel Deum de Deo e si addolcisce nel descendit de coelis e trova la voce, non proprio a suo agio, del tenore solista, nell’Incarnatus. Si passa, con generico e sbrigativo patetismo corale, sul Crucifixus per approdare alle asserzioni trionfali, coro e fiati giubilanti, delle conferme di dottrina. Fugato morigerato nei due ultimi versetti e nell’amen finale. Il Sanctus che attacca come una monodia di sapore gregoriano, si esalta con gli ottoni negli intorni dell’Hosanna. Il Benedictus è tutto del baritono solista, l’ottimo Markus Werba qui poco impegnato. Werba e Pelligra si alternano nei due primi versetti dell’Agnus Dei, presentati in modo responsoriale col coro, per poi unirsi in piacevole duetto nel terzo e ultimo versetto e nella chiusa. L’Agnus ha la melodia del madrigale, cantato dal musico, del secondo atto di Manon Lescaut. Son passati tanti anni per cui ci si può esentare dal giudizio critico sull’opera. Riteniamo comunque eccellente l’esecuzione fornita dalla RAI che, se pur perfettibile, ha ben servito l’opera, l’autore e la ricorrenza. Di buon livello i solisti, a proprio agio il Coro del Regio anche grazie alla preziosa preparazione di Ulisse Trabacchin e, come sempre, ammirevole la prestazione dell’Orchestra esaltata dalla maestria e dalla consapevolezza stilistica di Michele Gamba. Il pubblico, benchè scarso, ha applaudito con calore ed entusiasmo.

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Roma, Auditorium Parco della Musica: “Les ètoiles”

Sab, 23/03/2024 - 23:31

Roma, Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, Sala Santa Cecilia
“LES ÉTOILES”
Gala internazionale di danza
Direzione artistica Daniele Cipriani
Con: Bakhtiyar Adamzhan (Opera di Astana), Sergio Bernal (Sergio Bernal Dance Company), Alessandro Frola (Hamburg Ballet John Neumeier), Claudia García Carriera (già Ballet Nacional de Cuba), Dani Hernández (Ballet Nacional de Cuba), Isaac Hernández (già English National Ballet), Catherine Hurlin (American Ballet Theatre), Maia Makhateli (Het Nationale Ballet), Roman Mejia (New York City Ballet), Leroy Mokgatle (Staatsballet Berlin), Giada Rossi (Compañia Nacional de Danza, Madrid), Daniil Simkin (American Ballet Theatre), Madoka Sugai (Hamburg Ballet John Neumeier), con la partecipazione di Lutz Förster (già Tanztheater Wuppertal Pina Bausch)
Produzione Daniele Cipriani Entertainment
Roma, 15 marzo 2024
Les étoiles, il gala presentato da Daniele Cipriani, ritrova il suo fascino ogni anno, dopo numerose edizioni. Il pubblico accorre sempre con grande entusiasmo e si fida del gusto e della competenza di questo brillante manager di danza. Ma certo per lui non sarà facile coinvolgere gli artisti giusti ed affrontare di volta in volta una sfida nuova. L’operazione di quest’anno è all’insegna dell’inclusività, parola molto usata, ma non sempre in modo corretto. Ed il bello del gala è che nel farlo ci si riferisce a Petipa. Quanto splendore nella sua Bella addormentata, dove per festeggiare le nozze dei protagonisti convengono finanche i personaggi delle fiabe di Perrault. Nel suo linguaggio aulico, la danza classica parla di elevazione dalle passioni terrene, restando spesso però confinata nel mondo della fantasia e dell’irrealtà. Giada Rossi della Compañía Nacional de Danza di Madrid apre il gala nel “Pas de deux” dal III atto de La Bella Addormentata distinguendosi per precisione, eleganza, controllo e gradualità nei poissons, oltre che per il ricamo dei passi sulla musica. Il suo partner Alessandro Frola dall’Hamburg Ballet John Neumeier esegue con grande slancio il manège, senza dimenticare la pulizia delle braccia. Subito dopo, in “Obertura”, il famosissimo Sergio Bernal avvolto da un cono di luce ci trasporta da Versailles in una Spagna glamour, dove come un torero rivestito di paillettes indaga il movimento del corpo per poi traslarsi nello spazio. Ma l’inclusività non è solo abbracciare diversi Paesi. Nel “Pas de deux” dal II atto di Giselle, Claudia García Carriera e Dani Hernández del Ballet Nacional de Cuba ci ricordano la diversità dei vari stili di danza che contribuiscono ad arricchire la lingua della danza. Naturalmente non si tratta però di un pezzo di bravura, ma di un breve estratto da un capolavoro di risonanza storica, che speriamo serva all’ampio pubblico ad ammirarne per intero la poesia in altre occasioni. Grande intensità e delicati voli per Fernanda Oliveira ed Isaac Hernández dell’English National Ballet in No Man’s Land, pezzo che evoca il dolore della guerra a firma di un geniale Liam Scarlett, morto a soli 35 anni scontando il peso della crudeltà e delle dinamiche di potere. Un breve ritorno al luccichio dello smagliante “Pas de deux” dal III atto del Don Chisciotte danzato dal muscoloso e scattante Bakhtiyar Adamzhan dell’Opera di Astana in coppia con Maia Makhateli dell’Het Nationale Ballet di Amsterdam in gran forma nei virtuosismi. E poi un sogno danzante: il “Nocturne” su musica di Chopin e coreografia di Christian Spuck, dove con Alessandro Frola danza in punta Leroy Mokgatle, segnalandosi per la femminilità delle linee e dei movimenti. Un caso raro di ballerina “non binary”, che dimostra quanto la volontà possa fare finanche sulla natura. Conclude la prima parte del gala un commovente “The Man I Love” (da Nelken, 1982), danzato in omaggio a Pina Bausch nel quindicesimo anniversario della morte da Lutz Förster, che insegna agli altri interpreti maschili il linguaggio dei segni. Non meno importante è la seconda parte del gala, dove si passa dall’astrattismo al sinfonismo coreografico e alle sculture in danza, ricordando a tutti noi quanto la nobiltà della musica e del movimento corporeo accomuni i più diversi spettatori nella ricerca della bellezza pura. Foto Damiano Mongelli

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Marseille, Opéra Municipal: “Don Quichotte”

Sab, 23/03/2024 - 17:12
Marseille, Opéra municipal, saison 2023/2024 “DON QUICHOTTE” Opéra en 5 actes, livret de Henri Cain Musique de Jules Massenet Coproduction Opéra de Saint-Etienne/Opéra de Tours Dulcinée HELOÏSE MAS Pedro LAURENCE JANOT Garcias MARIE KALININE Don Quichotte NICOLAS COURJAL Sancho MARC BARRARD Rodriguez CAMILLE TRESMONTANT Juan FREDERIC CORNILLE Premier serviteur GABRIEL RIXTE Second serviteur NORBERT DOL Premier brigand JEAN-MICHEL MUSCAT Second brigand CEDRIC BRIGNONE Orchestre et Chœur de l’Opéra de Marseille Direction musicale Gaspard Brécourt Chef de Chœur Florent Mayet Mise en scène Louis Désiré Décors et costumes Diégo Méndez Casariego Lumières Patrick Méeüs Marseille, le 19 mars 2024 Après plus de vingt ans, l’Opéra de Marseille reprend Don Quichotte l’une des dernières œuvres de Jules Massenet dans une coproduction Opéra de Saint-Etienne/Opéra de Tours confiée à Louis Désiré et son équipe. Une équipe réduite mais dont la synergie produit toujours des émotions fortes et diverses dans une ligne visuelle tendue, suspendue à la conduite musicale. Que de chemin parcouru pour cet opéra depuis la première française, à Marseille justement, le 17 décembre 1910 dans un succès jamais démenti. Cette comédie héroïque, commande de l’Opéra de Monte-Carlo, sera créée dans cet Opéra le 24 février 1910. Il ne faut pas rechercher ici le récit exact de Miguel de Cervantès mais plutôt vivre cette épopée par la vision que nous en donne Don Quichotte qui, aux portes de la mort, revoit sa vie mêlant souvenirs, fantasmes et hallucinations. Dans cette mise en scène Louis Désiré fait ressortir la quintessence du personnage, cet être dont la lumière intérieure illumine toutes choses. La mise en scène est millimétrée, rien n’échappe à l’œil du metteur en scène qui, dans un souci du détail mais aussi une exactitude des sentiments nous donne une version onirique, christique et hautement spirituelle. Comme très souvent dans les ouvrages proposés par Louis Désiré tout est sombre, noir même, mais, les éclairages créés par Patrick Méeüs sont là pour donner du relief aux scènes dont on ne s’échappe pas. Dans des couleurs différentes qui vont du doré aux blancs plus blafards, en passant par le rouge qui détermine la taverne, l’on vit les atmosphères et l’action, assez statique, à travers les yeux et le ressenti de Don Quichotte et c’est une sensation assez étrange que de vivres ces aventures à l’aide de ces lumières qui suivent la dramaturgie et les mouvements assez lents alors que nous restons subjugués dans notre fauteuil. Les décors et les costumes sont confiés à Diégo Méndez Casariego. Peu de décors mais le principal pour suivre les errances du Chevalier de la longue figure, suivi par son fidèle Sancho. Un grand lit à baldaquin où il vit, où il mourra et que l’on transporte d’étape en étape. Une estrade ou deux délimitent la taverne ou le balcon où apparaît Dulcinée, mais quelques trouvailles aussi, un grand miroir cabossé telle l’âme cabossée de notre héros et ces hommes, les géants, transformés en moulin par le truchement de sa lance habilement manipulée. Et que dire de la statuette dorée d’un Don Quichotte monté sur Rossinante, que l’on déplace pour un très bel effet. Les costumes sont pensés avec justesse: une longue chemise pour le Chevalier qui revêt aussi une vieille veste militaire aux épaulettes de général ou ceint une couronne aléatoire. Des éléments de vêtements de voyage, un peu fatigués, pour Sancho et deux jolies robes seyantes pour Dulcinée. Gardant le côté sobre et mystérieux, les artistes du chœur portent le même costume noir. Seule fantaisie, les fraises qui ornent le cou des brigands donnent une connotation de puissance et de richesse. Une distribution choisie avec beaucoup de soin avec un Nicolas Courjal au mieux de sa forme pour incarner un Don Quichotte halluciné, amoureux, touché par une grâce étrange, dont la voix de basse se plie aux exigences du personnage et de la musique. S’il laisse éclater quelques aigus, c’est avec délicatesse et tendresse qu’il sculpte la poésie du texte dans sa sérénade à Dulcinée  ou avec plus d’intériorité encore devant les brigands “Seigneur reçois mon âme, elle n’est pas méchante”. Beaucoup d’émotion aussi alors qu’il offre “L’île des rêves” à son fidèle Sancho. Une prise de rôle d’une grande finesse qui révèle un Nicolas Courjal tout en intériorité. Marc Barrard est un Sancho époustouflant de justesse d’interprétation dépouillée, où ne ressortent que les sentiments. Amusant lorsqu’il parle des femmes ou plus emporté contre les moqueurs. Mais quelle émotion lorsqu’il pleure “O mon maître, O mon grand… La voix suit les sentiments avec humanité et tendresse allant jusqu’à des aigus qui gardent la rondeur du timbre. La Dulcinée d’Héloïse Mas sera touchée par tant d’amour tant de bonté, elle la courtisane, lui le chevalier. C’est dans une voix pleine aux longs phrasés qu’elle évoque la jeunesse avec nostalgie “Quand la femme a vingt ans…”ou avec plus de fantaisie “Ne pensons qu’au plaisir d’aimer…” Et, si elle se moque encore, c’est avec simplicité et tristesse qu’elle lui explique son refus. Couleur, rondeur de voix et aigus assurés donnent à cette prise de rôle un bel éclairage. Laurence Janot (Pedro), Marie Kalinine (Garcias), Camille Tresmontant (Rodriguez) et Frédéric Cornille (Juan) forment un quatuor pertinent et homogène vocalement. Il faut aussi noter la justesse des deux rôles parlés: Jean-Michel Muscat (premier brigand) et Cédric Brignone (deuxième brigand). Très bien préparé par Florent Mayet, le Chœur fait montre d’une grande homogénéité des voix, hommes et femmes dans de mêmes costumes et d’un bel investissement pour le chœur des brigands. Gasparg Brécourt dirige l’orchestre avec justesse et rigueur laissant ressortir toutes les subtilités de la musique de Massenet pleine de couleurs et d’intentions harmoniques dans une partition précise qui ne couvre jamais les voix mais au contraire les soutient dans ces sentiments que l’on retrouve dans chaque solo, violon, clarinette alto… Notons le long discours plein d’émotion de Xavier Chatillon, violoncelle solo. La salle comble aux nombreux rappels fait-elle cet immense succès ? Nous dirions aussi que c’est cette envie de revoir ce spectacle dont l’émotion rend meilleur… Photo Christian Dresse
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António Pereira da Costa (c. 1697 – 1779): “Concerti grossi”

Sab, 23/03/2024 - 11:57

António Pereira da Costa (c. 1697 – 1779): Concerto VII [in F major]; Concerto VIII [in C minor]; Concerto IX [in A major]; Concerto VI [in B minor]; Concerto V [in G minor]; Concerto X [in C major]. Ensemble Bonne Corde. Sara DeCorso (Primo violino concertino). Jacek Kurzydło (Primo violino ripieno). Diana Lee (Secondo violino concertino). Sue-Ying Koang (Secondo violino ripieno). Raquel Massadas (viola). Diana Vinagre (Violoncello concertino & artistic direction). Rebecca Rosen (violoncello ripieno). Christine Sticher (contrabbasso). Giovanni Bellini (arciliuto e chitarra). Fernando Miguel Jalôto (organo e clavicembalo). Registrazione: 25-28 ottobre 2021 presso Igreja do Menino Deus, Lisbona, Portogallo. T. Time: 70′ 39″ 1 CD RAM 2104
Scarsissime sono le notizie riguardanti la vita di António Pereira da Costa, del quale non si conosce con precisione nemmeno la data di nascita, che è possibile, tuttavia, ricavare da un’indicazione contenuta nell’edizione a stampa della raccolta di Concerti grossi, protagonisti di questa proposta discografica. Nel frontespizio, oltre a un’immagine che ritrae il compositore in abito talare, è possibile leggere l’età di  Pereira da Costa, indicata con il numero romano scritto erroneamente XXXXIIII (44). Essendo stati questi concerti pubblicati all’incirca nel 1741, si può arguire che Pereira da Costa nacque intorno al 1697 probabilmente a Lisbona, dal momento che nel suo atto di morte, avvenuta il 14 aprile 1770, si fa riferimento a un suo fratello che all’epoca viveva nella capitale portoghese. A Madera, Pereira da Costa  trascorse, però, una gran parte della sua vita, occupando il posto di Maestro di Cappella presso la Cattedrale di Funchal, città principale dell’isola e della regione, come riportato anche dalla “Gazeta de Lisboa” del 1750 sulla quale si legge delle “eccellenti cantate e sonate composte dal maestro di Cappella António Pereira da Costa” in occasione delle festività in onore di Nossa Senhora do Monte di Funchal. Il fatto che fosse un sacerdote è, inoltre, confermato da altri documenti nei quali l’interlocutore di turno si rivolge al compositore chiamandolo abate o reverendo padre. Pubblicati a Londra nel 1741 dall’editore John Simpson, questi Concerti grossi non furono composti solo per soddisfare i gusti del dedicatario dell’opera, il nobile di Madera, João José de Vasconcelos Bettencourt (1703-1766), che amava particolarmente la musica strumentale e che probabilmente ne finanziò la pubblicazione, ma anche perché questa forma era all’epoca di moda. In Portogallo, come del resto, in tutta Europa, erano conosciuti i Concerti grossi di Corelli, che costituiscono il modello anche di questi di António Pereira da Costa in cinque movimenti, tra i quali si trovano anche danze, come gavotte, allemande, correnti, minuetti. Di ottimo livello e con senso dello stile l’esecuzione di questi concerti da parte dell’ensemble Bonne Corde alla quale va il merito di aver ripreso una produzione per certi versi dimenticata, ma degna di essere riscoperta e diffusa. L’interpretazione di questo Ensemble che, oltre ad aver emendato i diversi errori presenti nell’edizione a stampa, ha anche ripristinato la parte del violoncello concertino, mancante tra le parti conservate presso la British Library di Londra, si segnala per un grande senso dello stile e per un perfetto amalgama dei vari strumenti. Ottima e varia anche la realizzazione del basso continuo.

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Claudio Abbado nota per nota. Una cronologia artistica

Sab, 23/03/2024 - 09:34

di Mauro Balestrazzi
Biblioteca LIM, n. 8
Volume di 490 pagine. ISBN: 9788855433273
Lucca, Libreria Musicale Italiana (LIM), 2024
€ 40,00
Sono ormai trascorsi dieci anni dalla dipartita di Claudio Abbado (1933-2014) e per molti che lo hanno conosciuto, compreso lo scrivente, era semplicemente Claudio. Per avvicinarsi al maestro basterebbe condividere la sua convinzione: «Senza la musica la vita sarebbe un errore» (Nietzsche), promuovere i giovani, ma anche l’opera di bonifica di un’area di discarica, oggi uno scrigno di bellezza naturale in Sardegna, o sostenere ‘El Sistema’ (creato in Venezuela da Abreu), al fine di ‘salvare’ i ragazzi dalla strada. A raccontare buona parte di queste vicende è Mauro Balestrazzi, giornalista e autore di pubblicazioni su Toscanini e Kleiber, particolarmente attento ai direttori d’orchestra. Del volume colpisce il “nota per nota” del titolo che, grazie al rimando polisemico, sembra alludere a significati percepibili più con il pensiero. Se una nota dopo l’altra ricorda la successione di suoni che può dar vita a una scala o a una melodia, rimanendo nella metafora, i sei capitoli della pubblicazione illustrano il direttore d’orchestra che «per oltre trent’anni ha rappresentato un punto di riferimento costante della [sua] necessità di musica». Il libro, piuttosto corposo, pubblicato dalla LIM, molto attiva nell’editoria musicale, si rivela prezioso al lettore che vuole conoscere o approfondire la personalità di Abbado e al musicista/musicologo intenzionato ad iniziare un percorso di ricerca. Il I capitolo (Anni ’50) coincide con gli studi al Conservatorio di Milano (diploma di Pianoforte nel 1953 e in Composizione nel 1955), i primi approcci alla direzione con Antonino Votto e la sua ‘fuga’ all’Accademia Chigiana di Siena e a Vienna alla Scuola di direzione d’orchestra del celebre Hans Swarowsky. Basterebbe soffermarsi su ciò per intuire l’ascesa del maestro, conclusasi negli Anni 2000 (ultimo capitolo), ormai ‘cittadino’ del Parnaso. Citando qualche tappa del suo percorso, segnalo il premio Koussevitzky e il Mitropoulos, essere assistente di Bernstein, l’invito di Karajan a dirigere i Wiener al Festival di Salisburgo e tanti altri traguardi. A soli 35 anni è direttore musicale del Teatro alla Scala e negli Anni ’70 non esita a portare l’orchestra fuori dal teatro (palazzetti dello sport, fabbriche, ecc.) per diffondere la musica ai ceti popolari. Nel decennio successivo fonda la Chamber Orchestra of Europe e la Gustav Mahler Jugendorchester, oltre ad essere nominato erede di Karajan. Negli ultimi anni, pur essendogli stata diagnosticata una malattia incurabile, a tre mesi dall’intervento Abbado fonda la Lucerne Festival Orchestra e nel 2004 l’Orchestra Mozart, confermando così di aver raggiunto l’Empireo anche nella formazione di nuove orchestre. Solo pensando alle cifre si contano oltre 3400 esibizioni con un repertorio che spazia dagli inizi del Cinquecento alla musica contemporanea, collaborando con molti compositori e registi del suo tempo. Completano il volume Documenti, Programmi, Locandine e due Appendici (repertori con prime esecuzioni assolute con interpreti, orchestre, istituzioni, Discografia e videografia) oltre alla Bibliografia essenziale che contribuisce ad arricchire ulteriormente quanto descritto. Balestrazzi, oltre a rievocare colui che considera “il direttore della vita”, sembra altresì intenzionato a svelare ciò che non può essere più nascosto affinché ogni ‘incontro’ del maestro con le partiture dei grandi compositori non sia dimenticato ma reso sempre più moderno.

 

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Roma, Gallerie Nazionali Barberini Corsini: “ Raffaello, Tiziano, Rubens. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini “ dal 29 Marzo al 30 Giugno 2024

Sab, 23/03/2024 - 08:00

Roma, Gallerie Nazionali Barberini Corsini
RAFFAELLO, TIZIANO, RUBENS. CAPOLAVORI DALLA GALLERIA BORGHESE A PALAZZO BARBERINI
Dal 29 marzo al 30 giugno 2024 cinquanta opere della Galleria Borghese verranno trasferite nell’Ala Sud del piano nobile di Palazzo Barberini. Le Gallerie Nazionali di Arte Antica e la Galleria Borghese mettono in campo un’inedita collaborazione per permettere al pubblico di continuare a fruire del patrimonio conservato al primo piano della Galleria Borghese anche durante l’ambizioso progetto di rinnovamento e tutela reso possibile grazie ai fondi del PNRR. Questa iniziativa è un’occasione unica e imperdibile per mettere in dialogo due collezioni che condividono una storia simile, legata a due figure cruciali della vita politica e culturale romana del Seicento, Maffeo Barberini e Scipione Borghese, in un’ideale vicinanza storica e culturale, e non ultima, anche geografica. Capolavori assoluti, quali il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina, la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini, la Madonna con Bambino, san Giovannino e angeli di Sandro Botticelli, il Ritratto di giovane donna con unicorno di Raffaello, Susanna e i vecchioni di Peter Paul Rubens, l’Amor Sacro Amor Profano di Tiziano, la Predica del Battista di Paolo Veronese, solo per citarne alcuni, continueranno così ad essere fruibili al grande pubblico. “Un evento del più alto valore istituzionale a testimonianza della vicinanza, non solo geografica, ma anche professionale che lega i due musei” ha dichiarato Thomas Clement Salomon, direttore delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, che prosegue: “Nel solco tracciato da Scipione Borghese e Maffeo Barberini, che oggi avrebbero gioito per questa iniziativa, speriamo che il pubblico possa ammirare i capolavori borghesiani a Palazzo Barberini e celebrare questa mostra difficilmente ripetibile nei prossimi decenni.” “Nello svolgimento di interventi importanti del PNRR che cambieranno l’aspetto della Pinacoteca al primo piano della palazzina, la Galleria Borghese, con uno sforzo eccezionale di tutto il suo personale, non chiuderà mai e durante i lavori rimarrà visitabile. La mostra a Palazzo Barberini consentirà di rendere sempre visibile il patrimonio della Galleria e di istituire rapporti e risonanze con un’altra eccezionale collezione barocca e con un’altra grande istituzione museale” afferma Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese. Presso la Galleria Borghese, dopo il restauro delle facciate, i lavori del PNRR comporteranno la sostituzione delle tappezzerie e l’ammodernamento degli infissi nell’ottica dell’efficientamento energetico, l’ampliamento dell’accessibilità culturale, l’aggiornamento dei depositi e il restauro di alcune grandi tele. Il progetto, nella sua complessità, verrà illustrato come prologo alla mostra in Palazzo Barberini. A Palazzo Barberini il temporaneo disallestimento delle sale dell’Ala Sud sarà occasione per un’approfondita campagna fotografica e di conservazione preventiva delle opere normalmente esposte in questi ambienti: dal Seicento napoletano alla collezione settecentesca, da Mattia Preti ai pittori del Grand Tour. Durante tutto il periodo dell’esposizione sono previste delle agevolazioni sui biglietti. Il biglietto di Galleria Borghese è ridotto e costa 11 euro (salvo i diritti di prenotazione obbligatoria, le gratuità e le riduzioni di legge). Coloro che avranno acquistato il biglietto di Galleria Borghese hanno diritto a visitare le Gallerie Nazionali di Arte Antica al costo agevolato di 5 euro, godendo al contempo di tutto lo straordinario patrimonio e delle iniziative in corso. Limitatamente al periodo della mostra, il biglietto intero ordinario Barberini Corsini avrà un costo di 15 euro (salvo le gratuità e le riduzioni di legge).

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Roma, Scuderie di Villa Albani Torlonia : “Antiquarium” dal 28 marzo al 28 Giugno 2024

Sab, 23/03/2024 - 08:00

Roma, Scuderie di Villa Albani Torlonia
ANTIQUARIUM
Curato da Carlo Gasparri
Fondazione Torlonia, Bulgari
Tra via Salaria e viale Regina Margherita esiste una villa che è tra gli edifici più misteriosi e sconosciuti di Roma. Si tratta di Villa Albani Torlonia, complesso realizzato a metà del XVIII secolo dall’architetto Marchionni (1702-1786) su una distesa di campagna coltivata a vite. È possibile ammirare qualche scampolo della sua magnificenza percorrendo fino in fondo via Frosinone, a pochi metri dal MACRO. Qui viene conservata la Collezione Torlonia , la più importante collezione privata d’arte antica al mondo che conta sarcofagi, busti e statue greco-romane frutto di una serie di acquisizioni delle maggiori collezioni patrizie romane, oltre che di scavi nelle terre di proprietà della Famiglia. Normalmente chiusi al pubblico, gli spazi della Villa apriranno eccezionalmente per festeggiare i dieci anni della Fondazione che gestisce e conserva questo patrimonio artistico e architettonico. La Fondazione Torlonia celebra i primi dieci anni di attività aprendo l’Antiquarium per mostrare a un pubblico più ampio possibile le straordinarie opere della sua collezione. Un luogo all’interno delle Scuderie di Villa Albani Torlonia che dal 28 marzo al 28 giugno 2024 ospiterà una selezione di opere curata da Carlo Gasparri, professore emerito dell’Università Federico II di Napoli e Accademico dei Lincei. Si potrà così ammirare un gruppo di marmi Albani dal Museo Torlonia, busti e sculture tra le quali spicca uno spettacolare gruppo con Eros su biga trainato dai cinghiali, originariamente conservate nel complesso monumentale di Villa Albani Torlonia e successivamente nel Museo Torlonia. Un modo per far vedere le opere oggetto di più recente restauro e far conoscere la scrupolosa opera di studio nei Laboratori Torlonia con il supporto di Bulgari, che affianca la Fondazione grazie a un accordo di collaborazione per la valorizzazione della più importante collezione privata di arte antica al mondo“. Tutte le info a breve su questa pagina e sul sito fondazionetorlonia.org.

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Roma, Teatro Sala Umberto : “Le preziose ridicole” dal 26 al 30 Marzo 2024

Sab, 23/03/2024 - 08:00

Roma, Teatro Sala Umberto
LE PREZIOSE RIDICOLE
di Moliere
Regia, adattamento ed ideazione scenografica Stefano Artissunch
con Stefano Artissunch, Benedicta Boccoli, Lorenza Mario
musiche Andrea Bianchi
scenografia Giuseppe Cordivani
costumi Marco Nateri
luci Patrick Vitali
produzione Fondazione Atlantide Teatro Stabile di Verona, Danila Celani per Synergie Arte Teatro
“Le preziose ridicole” è un’opera che rivela l’estro e la genialità comica di Molière come autore di superamento del grande fenomeno della Commedia dell’Arte. Due giovani donne vogliono a tutti i costi esistere agli occhi di un ambiente che non le riconosce e con modalità che nessuno comprende. Cadono nella trappola tesa da due corteggiatori che precedentemente hanno umiliato giungendo ad un punto di cecità da cui la commedia trae la sua forza comica e le domande più attuali tipo il chiedersi fino a che punto si può arrivare per essere o sentirsi amati. Nell’adattamento di Stefano Artissunch lo spettacolo è ambientato a Roma negli anni 40 e racconta l’avventura farsesca di due donne provinciali e dei loro corteggiamenti. Protagoniste un eccezionale duo di attrici – cantanti – ballerine come Benedicta Boccoli e Lorenza Mario che interpretano Caterina e Maddalena,  artiste d’avanspettacolo che per vivere si esibiscono in un varietà stile “Cafè Chantant”. Le “Preziose” sono molto apprezzate e corteggiate, i loro numeri piacciono al pubblico perchè divertenti e coinvolgenti. Tra musica, danza e fare giocoso delle protagoniste si insinua la critica di un periodo difficile dell’Italia della seconda Guerra Mondiale. Una società anestetizzata dalla propaganda che non si accorge che qualcosa di distruttivo è alle porte. Tuttavia il mondo dello spettacolo sembra non risentirne e, tra un’esibizione d’avanspettacolo e l’altra, davanti ad un pubblico rapito da performance e scintillio di luci del varietà, le due attrici raccontano il tempo sia sul palcoscenico che nei camerini dove si snodano le loro vicende personali. Nello spettacolo, ideato dal regista Artissunch (anche in scena nel ruolo del presentatore), si attualizzano i bellissimi dialoghi di Molière che rivivono attraverso il divertimento di numeri/performance e canzoni anni 30-40. Non mancano spunti di riflessione sulla dignità umana calpestata dai controsensi della guerra.

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Roma, Museo Storico della Fanteria: “Impressionisti. L’alba della modernità” dal 30 Marzo al 28 Luglio 2024

Sab, 23/03/2024 - 08:00

Museo Storico della Fanteria
Piazza di Santa Croce in Gerusalemme, 9
IMPRESSIONISTI. L’ALBA DELLA MODERNITA’
Sarà la mostra Impressionisti – L’alba della modernità, in programma dal 30 marzo al 28 luglio al Museo Storico della Fanteria a Roma, a rendere il primo importante omaggio in Italia al movimento artistico impressionista per la celebrazione dei 150 anni dalla sua nascita.  L’esposizione, prodotta da Navigare srl e organizzata con il supporto del comitato scientifico composto da Gilles Chazal (ex Direttore Musée du Petit Palais, Membre école du Louvre), Vincenzo Sanfo (Curatore mostre internazionali, esperto di Impressionismo) e Maithe Valles-Bled (ex Direttrice Musée de Chartres e Musee Paul Valéry) e diretto da Vittorio Sgarbi, presenterà un’ampia galleria di circa 200 opere, con dipinti, disegni, acquerelli, sculture, ceramiche e incisioni provenienti da collezioni private perciò sconosciute al pubblico. La mostra intende documentare le origini e la storia del rivoluzionario movimento artistico nato in Francia a metà dell’Ottocento e ufficialmente riconosciuto come tale il 15 aprile 1874, in occasione della prima esposizione parigina, organizzata nello studio del fotografo Nadar. Saranno presenti, quindi, richiami dei grandi maestri dei primi artisti impressionisti, come Jacques-Louis David, Théodore Géricault e Gustave Courbet, e quelli alla Ecole de Barbizon, sino ad arrivare al post-Impressionismo, con opere, tra gli altri, di Toulouse Lautrec, Permeke, Derain, Dufy e Vlaminck. Protagonisti indiscussi del percorso saranno, ovviamente, i grandi artisti e maestri dell’Impressionismo, come Monet, Degas, Manet, Renoir, Cézanne, Gauguin, Pissarro e altri, ma anche grandi comprimari che condivisero il nuovo modo di fare arte: Bracquemond, Guillaumin, Forain, Desboutin, Lepic.

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Roma, Teatro Argentina: “L’Origine del mondo. Ritratto di un Interno”

Ven, 22/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
L’ORIGINE DEL MONDO. RITRATTO DI UN INTERNO.

scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Concita De Gregorio, Lucia Mascino, Alice Redini
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Nel 2011, “L’Origine del Mondo, Ritratto di un Interno” ha segnato un punto di svolta nel panorama teatrale, ottenendo un riconoscimento significativo con tre premi UBU l’anno successivo. Dopo un decennio, nel 2024, il Teatro di Roma ha intrapreso un’ambiziosa iniziativa per riportare in scena una versione aggiornata di questa opera pionieristica, adattandola ai tempi cupi e complessi attuali, con un cast rinnovato. Questa nuova iterazione dell’opera si propone di esplorare e integrare i traumi legati agli eventi recenti, in un’epoca caratterizzata da una profonda nevrastenia collettiva. Il presente, descritto come un incessante avanzare senza pause per riflessione, una realtà che rimuove e prosegue “come se”, nonostante la consapevolezza che questo “come se” abbia perso ogni suo significato, diventa il cuore pulsante del riallestimento. Con questa mossa, il Teatro di Roma e i creatori dello spettacolo affrontano direttamente la sfida di dare voce alle inquietudini e alle speranze di un’epoca, tentando di fare i conti con la complessità del vivere contemporaneo attraverso il linguaggio universale del teatro. Lucia Calamaro si conferma ancora una volta artista poliedrica e visionaria, mescolando sapientemente la regia teatrale con la profonda introspezione scenica. Sul palco, le talentuose Concita de Gregorio, Lucia Mascino ed Alice Redini  incarnano le complesse sfumature del femminile e dell’esistenza, in un dialogo costante tra arte e vita che si snoda attraverso il palcoscenico. L’opera di Calamaro si inserisce in un dialogo aperto con l’iconica tela di Gustave Courbet, “L’Origine del Mondo”, che con il suo audace inquadramento di un nudo femminile ha sollevato e continua a sollevare scandalo e riflessioni sulla rappresentazione del femminile e la sua percezione nella società. La regia sposta l’attenzione dallo scandalo visivo all’indagine di un “interno” più profondo e metaforico, interrogandosi sul significato stesso dell’origine. Attraverso questo spettacolo, l’autrice infatti va oltre il semplice vedere, invitando il pubblico a penetrare nelle pieghe più nascoste dell’esistenza umana, esplorando la complessità delle dinamiche familiari, delle relazioni e della psiche. Si tratta di un viaggio audace oltre il visibile, un tentativo di comprendere e rappresentare quelle “inquiete piccole follie quotidiane” che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano. E così accade che questa piece non si limita a essere un’opera di critica sociale o una riflessione sull’arte; è piuttosto un’esplorazione coraggiosa dell’interiorità, dove il teatro diventa lo strumento per una nuova consapevolezza dell’origine, non solo dell’individuo, ma dell’umanità tutta, dimostrando come attraverso l’arte sia possibile superare i confini del visibile per toccare le corde più intime dell’esistenza. In scena una famiglia femminile costituita da tre generazioni: la madre , la figlia e la nonna , con la presenza evocativa di un’analista. Attraverso tre atti distinti – Donna melanconica al frigorifero, Certe domeniche in pigiama, Il silenzio dell’analista – lo spettacolo esplora la solitudine, la mancanza di comunicazione e il bisogno umano di connessione. Gli oggetti domestici diventano simboli viventi di questa ricerca interiore: un frigorifero che illumina la scena notturna, una lavatrice in funzione che riflette la monotonia e la ripetitività della vita quotidiana, e un lavello che testimonia i momenti di comunicazione ritrovata tra madre e figlia. I colori e l’illuminazione ( sempre di Lucia Calamaro) giocano un ruolo cruciale nel rappresentare i cambiamenti emotivi e psicologici dei personaggi, con toni che variano dal bianco al giallo e al blu, culminando in una scena finale sotto una luce lilla e un riflettore giallo che simboleggia un tentativo di rinnovata comprensione e vicinanza. La scenografia dell’opera (anch’essa firmata dalla Calamaro) si presenta , quindi, in maniera essenziale e primitiva, distillata fino all’osso tanto nella ritmica quanto nell’utilizzo dello spazio scenico, che si dilata fino a sfumare i confini della percezione. In questo contesto minimalista, il peso gravoso della performance ricade unicamente sulle spalle delle protagoniste, il cui talento diventa cruciale per il successo dell’insieme. Le tre attrici di questa rappresentazione teatrale, ciascuna con un approccio e un contributo recitativo distintivo, dimostrano una capacità straordinaria nel cogliere l’anima dell’opera. Attraverso interpretazioni magistralmente dosate, che navigano con destrezza tra l’ironia e la gravità, esse evitano deliberatamente di cadere in inutili frivolezze. Al contrario, si dedicano all’esplorazione della sottile linea che separa il sublime dalla quotidianità. La loro capacità di stare sul palco non si esaurisce nella mera recitazione; piuttosto, arricchiscono i loro personaggi di una profonda umanità, portando in scena una performance realmente intensa tanto da trascendere la semplice rappresentazione e toccare corde universali. Questo approccio non solo arricchisce l’esperienza dello spettatore, ma trasforma l’intera produzione in un’opera di vibrante umanità, capace di riflettere l’essenza stessa dell’esistere. E così Lucia Calamaro, attraverso una narrazione che si dipana in tre ore senza interruzione, intreccia dialoghi e monologhi che fluiscono in un continuo movimento emotivo, creando uno spazio in cui gli spettatori sono invitati a riflettere sul significato della famiglia, dell’identità e della ricerca di senso nella modernità. Quando sollecitata a riflettere se “L’Origine del Mondo” rappresenti un’opera intrinsecamente femminile, dalla sua concezione alla messa in scena, e sulla pertinenza di dibattere una cosiddetta questione femminile nell’ambito artistico italiano, l’autrice sceglie deliberatamente di astenersi dal fornire una risposta diretta. Questa scelta non nasce da motivazioni personali ma da un profondo impegno ideologico. L’autrice esprime una decisa contrarietà all’idea di relegare il proprio lavoro artistico in un ambito circoscritto e limitante, evidenziando una volontà di resistenza a qualsiasi forma di categorizzazione che possa sembrare riduttiva o segregante. La sua è una presa di posizione che mira a superare i confini di genere nell’arte, promuovendo un’interpretazione più libera e inclusiva dell’espressione creativa. La performance è stata accolta con entusiasmo e lunghi applausi da parte del pubblico, riconoscendo il lavoro non solo come un’analisi critica della vita borghese, ma anche come una celebrazione delle sfide, delle paure e delle gioie che definiscono l’esistenza umana. 

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Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Don Pasquale”

Ven, 22/03/2024 - 18:20

Firenze, Teatro del Maggio Musicale FiorentinoStagione lirica 2024
DON PASQUALE”
Dramma buffo in tre atti, su libretto di Michele Accursi, Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale MARCO FILIPPO ROMANO
Dottor Malatesta MARKUS WERBA
Ernesto YIJIE SHI
Norina SARA BLANCH
Un notaro ORONZO D’URSO
Tre voci soliste VALERIIA MATROSOVA, MASSIMILIANO ESPOSITO, CARLO CIGNI
Orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Jonathan Miller ripresa da Stefania Grazioli
Scene e costumi Isabella Bywater
Luci Jvan Morandi realizzate da Emanuele Agliati
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 19 marzo 2024
Al pubblico che sedeva al “Théâtre-Italien” alla prima del 1843, il “Don Pasquale” si presentava come “roba vecchia”, appartenente a un gusto, quello dell’opera buffa, praticamente superato. Con sorpresa, il sipario si levò su un’ambientazione contemporanea, rivelando la vera forza di questa composizione: trasporre l’intreccio al tempo degli spettatori. Si era davanti a una delle prime produzioni “moderne” di un’opera, che pure viene spesso rappresentata all’insegna della tradizione, come nel caso dell’impianto di Jonathan Miller. Ad anni dal debutto, il mastodontico spaccato della dimora, che si schiude a mo’ di “casa delle bambole”, fa sempre il suo effetto, e se per il pubblico di oggi risulta difficile pensare di trovarsi nei panni dei personaggi, l’immedesimazione con gli inizi del XIX secolo è assicurata dal dettaglio scenico di Isabella Bywater e dai rifiniti costumi, in parte restìi ad abbandonare un certo retrogusto settecentesco. La varietà degli ambienti interni dà alla regia (ripresa da Stefania Grazioli) il pretesto di sfruttare la tromba delle scale come antro insidioso che viola la sfera personale di Don Pasquale, dove germoglia il piano ordito a suo danno. Non a caso, la cavatina di Norina, l’ingresso di Ernesto e numerosi scambi vengono collocati in questo spazio. Non poteva, poi, mancare il vorticoso gioco di porte che si aprono e chiudono, isolando ora quello ora l’altro cantante, che si trova di frequente nelle rappresentazioni della trilogia Mozart-Da Ponte. Da non sottovalutare neppure l’universo parallelo dei piani bassi, dove si muove (origliando) la servitù, mentre il ridondante rimarco dei tratti più macchiettistici dei ruoli, quasi a “ridicolizzare” il genere buffo, è parso quantomeno discutibile. La modernità di quest’opera non sta solo nella scelta dell’ambientazione, ma anche in un assetto musicale che recupera il minimo indispensabile dal genere buffo, guardando a melodie di maggiore espressività, probabilmente evocate dai salotti parigini che l’autore aveva avuto modo di frequentare. Su tali cellule melodiche si attendeva la mano di Daniele Gatti, che fin dalla sinfonia desta qualche riserva, almeno nella restituzione della polka. Il direttore sembra rifarsi ai marcati rallentamenti del maestro Muti (si ascolti la registrazione della Scala del 1994), che accostati alle frenetiche accelerate su galoppi e chiuse, suscitano quasi una sensazione d’irrisolto, come se mancasse il punto di vista di un orecchio più esterno. Questa dicotomia ritmica si riscontra più volte nel corso dell’esecuzione, con tempi lenti specialmente sul canto del tenore e sui sentori più prettamente romantici. La sua conduzione rimane sempre protagonista, a scapito di un cast dal volume poco esuberante e di una più oculata ricerca di sfumature cromatiche, confinate perlopiù a qualche dissolvenza sugli accordi dei recitativi accompagnati e ai sussurrati ritmi di walzer. Per contro, risaltava il dialogo di piano e forte dei partecipativi interventi del coro del Maggio, guidato da Lorenzo Fratini. Nel ruolo del titolo, Marco Filippo Romano si confronta con uno strumento vocale che si depaupera quanto più la parte richiede spinta, rivelando maggiore rotondità emissiva sui gravi. Ciononostante, il suo Don Pasquale amalgama una sentita recitazione con un fraseggio capace di restituire anche il lato più riflessivo del personaggio, senza mai farsi cogliere impreparato sulle caricaturali scansioni del testo e sui rapidissimi sillabati. Un plauso va al suo irriducibile compare, impersonato dal Malatesta di Markus Werba. Ancor più che in altri ruoli, il baritono esibisce una summa del suo comprovato bagaglio da buffo, destreggiandosi con singolare disinvoltura tra i cangiantismi cromatici delle frasi “di facciata”, spiegate a piena voce, e gli scaltri sussurri a mezza voce, a celare la veridicità degli intenti. La gestione del fraseggio è ben appoggiata a una solida tecnica di canto, impavida di fronte a fiati lunghi, contrappunti, studiati legati e fulminei sillabati, mai leziosa e sempre volta alla credibilità del personaggio. Permane qualche attacco dall’emissione meno compatta, entro una voce dal volume contenuto, ma omogenea e dal bel colore. Accanto a lui, destava interesse la Norina di Sara Blanch. Camaleontica, vezzosa al punto giusto e, indubbiamente, “peperina”, la giovane cantante è spigliata in scena e s’identifica nella parte con discreto nitore di fraseggio, fregiato da sciolti abbellimenti e agilità. Come e forse ancor più dei suoi colleghi, il soprano ottempera con grande diligenza ai dettami di regista e direttore. Lo si vede nelle variazioni del rondò, che danno un’ulteriore riprova del suo senso ritmico, lasciando un po’ con l’amaro in bocca chi si aspettasse qualcosa di più pirotecnico. Del resto la Blanch, che nel duetto col tenore aveva trovato qualche frase di centro di più efficace proiezione, non sembra fare sfoggio di un registro acuto di particolare spicco, spesso approssimato col lieve fruscìo espiratorio tipico di una sonorizzazione aspirata. Chiudeva il quartetto l’Ernesto di Yijie Shi, intento a recuperare la componente seria dell’opera. Giovane disperato, poi giovane realizzato, ma sempre giovane innamorato, il tenore fa di un canto profondamente malinconico la sua principale chiave di lettura. La tempra da lirico-leggero emerge maggiormente all’appuntamento segreto con Norina, ma anche qui Shi si conferma timido nel tradurre in voce più incisive intenzioni drammaturgiche, continuando a privilegiare un canto omogeneo e dai generosi legati, ma poco variopinto e mediato da un timbro poco suadente. Corretti, infine, i puntuali rimarchi del notaro di Oronzo D’Urso, applaudito insieme a tutto il cast e alle maestranze del Maggio da una sala entusiasta, ma non al completo.

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Roma, Museo Civico di Zoologia: “Oltre lo spazio, oltre il tempo. Il sogno di Ulisse Aldrovandi” dal 22 Marzo al 21 Luglio 2024

Ven, 22/03/2024 - 18:19

Roma, Museo Civico di Zoologia
OLTRE LO SPAZIO, OLTRE IL TEMPO. IL SOGNO DI ULISSE ALDROVANDI.
Da venerdì 22 marzo apre al pubblico al Museo Civico di Zoologia di Roma, la mostra Oltre lo spazio, oltre il tempo. Il sogno di Ulisse Aldrovandi, prodotta da Fondazione Golinelli e SMA – Sistema Museale di Ateneo, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e realizzata in collaborazione con INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica. Nata da un’idea di Andrea Zanotti, Antonio Danieli, Roberto Balzani e Luca Ciancabilla, che ne firmano anche la curatela, la mostra dopo essere stata a Bologna arriva nella Capitale, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura- Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il supporto organizzativo di Zètema Progetto Cultura. L’esposizione si arricchisce di opere e contenuti provenienti dalle collezioni dei Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina, in particolare dal Museo Civico di Zoologia, dalla Galleria d’Arte Moderna e dalla Pinacoteca Capitolina. La mostra gravita intorno alla figura di Ulisse Aldrovandi (1522-1605), uno dei più grandi scienziati della natura del suo tempo. Grazie alla sua straordinaria capacità di osservare, catalogare e conservare i reperti che la natura, nel corso del suo farsi, ha lasciato dietro di sé, Aldrovandi è di fatto il fautore del moderno museo di Storia Naturale, un luogo di memoria e conoscenza, in cui si sedimenta il fondo ancestrale delle nostre origini. L’opera del naturalista bolognese, tuttavia, non è proiettata solo verso il passato: la sua capacità  fantastica, perfettamente incarnata da quello che può essere considerato il suo scritto più sorprendente, la Monstrorum Historia – un trattato universale sui mostri e altri prodigi sovrannaturali – colloca l’opera dell’Aldrovandi oltre il tempo e sulla soglia di un mondo altro. Il potere  dell’immaginazione apre le porte al futuro, a mondi mai, o non ancora, esistiti. Ulisse Aldrovandi incarna, dunque, due anime: quella di scienziato, osservatore di una realtà che è già stata, e quella dell’artista, che immagina e dà forma a ciò che sarà, spingendosi, come farà secoli dopo la fantascienza, a svelare scenari destinati, col progredire della scienza, a trasformarsi in realtà. I visitatori avranno nuove opportunità di esplorazione, rinnovando il connubio inconsueto e originale,
tra reperti e oggetti delle collezioni museali bolognesi e romane, exhibit tecnico-scientifici immersivi e interattivi prodotti in originale da Fondazione Golinelli, quadri di diverse epoche di Bartolomeo , Enrico Prampolini, Virgilio Marchi e Mattia Moreni, opere d’arte – dipinti, sculture e installazioni – di Nicola Samorì. In mostra anche oggetti, strumenti, video e immagini provenienti dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF-OAS di Bologna e INAF-IAPS di Roma) e dall’Agenzia Spaziale Europea, che esprimono una visione unitaria della cultura e dell’alleanza tra arte e scienza, qui riproposta al pubblico in un percorso di ricerca tra passato e scenari futuribili. La mostra è introdotta da un’anticamera che mira a riconnettere i visitatori con l’edizione precedente di Bologna, creando un’ideale connessione tra le due. Attraverso elementi multimediali e la fruizione nel metaverso del gemello digitale dell’edizione bolognese i visitatori potranno rivivere l’esperienza allestita nel centro Arti e Scienze di Bologna, contestualizzando il progetto e creando un senso di continuità tra l’edizione passata e quella attuale della mostra.

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Roma, Galleria Borghese: “ Un Velázquez in galleria” dal 26 marzo al 23 giugno 2024

Ven, 22/03/2024 - 17:44

Roma, Galleria Borghese
UN VELÁZQUEZ IN GALLERIA
Galleria Borghese inaugura il programma 2024 con l’esposizione dal 26 marzo al 23 giugno 2024 del dipinto “Donna in cucina con Cena di Emmaus” – la prima opera conosciuta di Diego Velázquez (1599-1660) proveniente dalla collezione permanente della National Gallery of Ireland – e allestito nella Sala del Sileno che ospita i dipinti di Caravaggio. La mostra è pensata come un focus di ricerca in cui la stessa scelta allestitiva apre automaticamente il confronto tra l’opera di due Maestri assoluti del Barocco: Velázquez è un artista internazionale, che visita Roma per ben due volte nel corso della vita e che, come Rubens, cui il museo ha da poco dedicato una mostra, fa parte di quella schiera di artisti stranieri che dalla città e dai suoi maestri traggono insegnamento e ispirazione. Considerato il più grande pittore spagnolo del suo tempo, Diego Velázquez inizia la sua carriera nella nativa Siviglia per diventare poi il principale artista della corte di Filippo IV a Madrid. Nell’opera protagonista della mostra, Velázquez dipinge Cristo che appare ai suoi discepoli a Emmaus sullo sfondo, lasciando il primo piano a una servetta che lavora in cucina: un’inversione di soggetti ispirata direttamente a pittori fiamminghi come Pieter Aertsen. Il confronto tra Donna in cucina con Cena di Emmaus e i dipinti di Caravaggio presenti nella Sala si presta a letture che rivelano prospettive inedite di critica e approfondimento, collocando la mostra in quel filone dedicato allo sguardo degli artisti stranieri sulla Città Eterna cui il museo dedica da tempo una parte consistente della sua ricerca.

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Verona: tutte le sinfonie e i concerti di Brahms in quattro appuntamenti al Filarmonico

Ven, 22/03/2024 - 00:41

Il primo appuntamento è affidato ai giovani talenti più brillanti del panorama sinfonico italiano: il 5 e il 6 aprile solisti del crepuscolare Doppio concerto per violino, violoncello e orchestra saranno Giovanni Andrea Zanon e Luca Giovannini col giovanissimo direttore Diego Ceretta al debutto con l’Orchestra di Fondazione Arena. In programma anche la Prima sinfonia in do minore, opera che consacrò Brahms al grande pubblico come erede di Beethoven, tanto da essere chiamata “la Decima”.
Nel secondo appuntamento, il 12 e il 13 aprile, è la volta della Seconda sinfonia in Re maggiore, che evoca luci e ombre della natura, tra impetuosità e idillio quasi pastorale. A dirigere l’Orchestra areniana sarà per la prima volta lo svizzero Christoph-Mathias Mueller, nella sinfonia e nello spettacolare Concerto per violino e orchestra, in cui solista sarà uno dei violinisti più acclamati al mondo degli ultimi quarant’anni: Frank Peter Zimmermann.
Il 3 e il 4 maggio si prosegue con la potente e personalissima Terza sinfonia in Fa maggiore, che contiene il brano forse più celebre di tutta la produzione brahmsiana per grande organico. Sul podio dell’Orchestra di Fondazione Arena tornerà Franz Schottky, che accompagnerà anche l’indimenticabile Secondo concerto per pianoforte e orchestra, vertice del genere, godibilissimo per il pubblico ma di estrema difficoltà esecutiva per il solista: il quale sarà un interprete d’eccezione, il pianista Pietro De Maria.
A chiudere il ciclo è l’ultima sinfonia del maestro di Amburgo, accostata al suo primo grande brano concertistico: il 10 e il 11 maggio, il maestro Eckehard Stier, dopo il successo dell’inaugurazione sinfonica 2023, tornerà a dirigere l’Orchestra di Fondazione Arena nella Quarta sinfonia in mi minore, capolavoro in cui l’esperienza di una vita si tinge della poesia dell’autunno. A completare il programma, il titanico Primo concerto per pianoforte e orchestra, che avrà come solista l’acclamata Lilya Zilberstein.

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Roma, Arimondi Circle: “Azzurra Primavera” 100 ritratti oltre l’immagine

Gio, 21/03/2024 - 23:51

Roma, Arimondi Circle
Via Arimondi 3

AZZURRA PRIMAVERA: 100 RITRATTI OLTRE L’IMMAGINE
In una Roma vibrante al ritmo dei primi anni di Madonna, Azzurra Primavera si avventura nel mondo della fotografia. Ancora adolescente, affascinata da MTV e “Beautiful”, cattura i volti dei divi del soap opera con la sua macchina fotografica davanti all’Hotel Excelsior. Le sue prime fotografie, rivendute ai compagni di scuola, non tardano a guadagnarsi l’attenzione e la pubblicazione su popolari riviste settimanali. L’intraprendenza la porta anche negli studi Dear di Roma, dove, grazie alla tenacia che colpisce Pippo Baudo, riesce ad accedere e a fotografare dietro le quinte. Dopo un breve flirt con gli studi in scienze politiche, interrotto da un “attacco di appendicite”, Azzurra Primavera sceglie definitivamente il percorso della fotografia. I suoi esordi professionali la vedono immersa nel teatro romano, dove ha l’occasione di ritrarre figure leggendarie come Giorgio Albertazzi e Gigi Proietti, consolidando così la sua vocazione per il ritratto nello spettacolo, ambito in cui diventa presto un punto di riferimento per agenti e produttori. Il suo lavoro, che abbraccia il cinema e il teatro, si guadagna le pagine delle principali testate nazionali e internazionali, mentre Primavera prosegue la sua esplorazione artistica focalizzandosi sugli emarginati e i dietro le quinte teatrali. Riconosciuta per il suo contributo al mondo della fotografia, viene scelta come giurata per il prestigioso premio Canon nel 2013, insieme a nomi del calibro di Giovanni Gastel e Adriano Brusaferri. Con una vita scandita da continui salti da un set all’altro, incontri con giovani talenti, un amore per la Pop Art, lo street food e le feste, Azzurra Primavera incarna lo spirito di una fotografa sempre in movimento, con una particolare predilezione per l’energia pulsante di New York. L’ Arimondi Circle di Roma ha avuto l’onore di presentare la prima mostra individuale dedicata alla fotografa italiana contemporanea Azzurra Primavera. Curata con maestria da Cesare Biasini Selvaggi e Barbara Santoro, l’esposizione ha offerto un’affascinante retrospezione sull’itinerario umano e professionale della Primavera, mettendo in luce oltre cento delle sue opere, tra cui numerosi inediti che hanno rivelato nuove dimensioni del suo sguardo artistico. La rassegna, vivacemente promossa da Luisa Melara, presidente di Arimondi Circle, ha delineato con chiarezza il profilo di Azzurra Primavera come creatrice di immagini profondamente umane e libere, dotate di un marcato senso sociale. Attraverso i suoi scatti, l’artista ha sempre esplorato tematiche di grande attualità, come la condizione degli emarginati e la lotta per i diritti civili, tematiche che hanno trovato nuova conferma e visibilità attraverso la scoperta dei suoi lavori inediti. L’itinerario espositivo si è articolato in cinque sezioni cronologiche, ripercorrendo l’evoluzione artistica di Primavera. L’avventura ha preso avvio negli anni ’90 con “Un anno in camerino”, una serie di ritratti intimi realizzati nei dietro le quinte dei più celebri teatri romani. Questi scatti inediti hanno immortalato momenti di genuina spontaneità, come se l’obiettivo di Primavera fosse capace di rendere invisibile la sua presenza. La mostra ha proseguito con “ROM/mania”, un progetto che ha raccontato storie di vita e comunità attraverso il linguaggio fotografico, andando oltre la superficie delle immagini per toccare l’essenza delle persone ritratte. Questi lavori sono emersi da un’interazione spontanea e umanamente ricca con la comunità rom del quartiere Monte Sacro, dove Primavera vive e lavora. Altro momento saliente è stato la documentazione del World Pride del 2000 a Roma, evento che ha visto Primavera catturare l’energia e lo spirito di una manifestazione memorabile per i diritti LGBT, affiancata dalla storica amica e attivista Imma Battaglia. La sezione “Wanted” ha poi messo in evidenza i ritratti che hanno segnato gli ultimi vent’anni della fotografia italiana di spettacolo, con opere che hanno decorato le copertine di prestigiosi magazine e pubblicazioni nazionali e internazionali. Infine, la mostra ha offerto un’anteprima di “L’attesa”, l’ultimo ciclo di lavori di Primavera incentrato sui momenti di intima concentrazione che precedono l’entrata in scena degli attori, esplorando così una nuova dimensione del suo linguaggio visivo. Gli scatti di Azzurra Primavera sono un’esplorazione profonda dell’animo umano, in cui le fotografie assumono una vita propria, scrutando lo spettatore con occhi penetranti e vigili. In questa dinamica straordinaria, il soggetto raffigurato diventa il narratore della propria vicenda, donando alle opere un’energia unica e coinvolgente. Le sue fotografie rappresentano un’immersione profonda nell’intimo dell’essere umano, in cui le immagini prendono vita propria, osservando lo spettatore con occhi vigili e penetranti. In questo dinamismo straordinario, il soggetto ritratto si rivela come il narratore della propria storia, conferendo alle opere un’energia unica e coinvolgente. La purezza delle sue fotografie è evidente, prive di qualsiasi artificio. Nessun dettaglio è trascurato ed ogni elemento è pregnante di significato, emanazione di un’immagine già presente nella mente del fotografo, pronta a prendere forma grazie al contesto, al soggetto e al momento preciso del suo processo creativo. Tuttavia, al di là della superficie delle sue opere, traspare un’intimità toccante e autentica, carica di insicurezza e fragilità umana. Questa comprensione emotiva permea ogni scatto, ammorbidendo e rendendo più accettabili le imperfezioni del momento. È un abbraccio consolatorio, una rassicurazione silenziosa che avvolge lo spettatore, invitandolo a immergersi completamente nell’esperienza visiva ed emotiva senza timore alcuno. La scelta poi di strutturare la mostra  all’interno di uno spazio domestico aumenta la percezione circolare di chi si espone e narra nello scatto un parte di sé. Lo sanno bene i curatori, che non a caso hanno saputo amplificarne l’effetto anche attraverso impattanti proiezioni. La mostra esplora in modo approfondito la vasta gamma di approcci adottati dall’artista nei confronti dei soggetti che ritrae, spaziando dalla documentazione sociale alla comunicazione politica. È un percorso che rivela la sua maestria nell’utilizzare la metonimia più della metafora e del simbolo, evidenziando la sua capacità, ancora oggi commovente, di narrare il reale. Tra lievi sfocature e una precisa focalizzazione sul “cuore” del soggetto, l’artista riesce a comunicare con una forza scalciante. Questa esposizione è un’opportunità imperdibile per immergersi nelle opere di un talento così eclettico ed attuale. Photocredit@AzzurraPrimavera

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