Tu sei qui

gbopera

Abbonamento a feed gbopera gbopera
Aggiornato: 2 ore 46 min fa

Torino: MiTo, Settembre Musica 2025: Antonio Pappano e la London Symphony Orchestra

Mar, 09/09/2025 - 15:36

Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto di Torino
London Symphony Orchestra
Direttore Antonio Pappano
Pianoforte Seong-Jin Cho
Gioachino Rossini: Ouverture da “Semiramide”; Fryderyk Chopin: Concerto n.2 in fa min. per pianoforte e orchestra op.21; Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.9 in Mi bemolle Mag. Op.70; Victor de Sabata: “Juventus”, poema sinfonico per orchestra.
Torino, 5 settembre 2025.
Seconda serata del MITO torinese, sul palco la prestigiosa London Symphony Orchestra che guidata da Antonio Pappano è in tour nelle nostre contrade. La compagine londinese ha tali forze da permettersi di proporre 3 programmi differenti in 3 serate consecutive, rispettivamente a Milano e Torino per MITO e a Stresa per il Festival sul Lago Maggiore. In questa edizione di MITO, la London rappresenta l’unica apertura extra-moenia per le orchestre, tutte le altre formazioni proposte sono più che nazionali, strettamente cittadine, milanesi o torinesi. L’occasione si presenta quindi assai ghiotta, l’assenza da Torino della formazione londinese data, se la memoria non falla, dagli anni 90 del ‘900 quando con Claudio Abbado, sempre al Lingotto, per i primi Lingottomusica, si esibì nella quasi mitica creazione del Lontano di Ligeti. Pappano, dopo gli anni romani alla testa dell’Orchestra di Santa Cecilia, da lui portata agli attuali livelli strepitosi di qualità, è rientrato a Londra. Qui, a Torino, in passato, si è visto pochissimo, rappresentava quindi un forte richiamo e, tra gli appassionati, la curiosità e l’attesa erano vive. Le doti e il virtuosismo di Seong-Jim Cho, il pianista della serata, già vincitore dello Chopin di Varsavia del 2015, si erano già fatte apprezzare in Ravel e Schumann con l’orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, per cui l’attesa era per una verifica di riconferma. Che fosse un concerto eccezionale, forse il più spettacolarmente appetibile di MITO 2025, veniva confermato dall’esaurimento rapido di tutti i posti disponibili. Gran sala e gran pienone. Si conferma così che, solo col prestigio e la notorietà dei protagonisti, i botteghini esultano.
L’avvio, con la rossiniana Ouverture di Semiramide, evidenzia l’approccio pragmatico e scevro da esaltazioni latine di Pappano, che avrà pure un cognome peninsulare, ma che ha conservato, anche dopo la Roma di Santa Cecilia, l’allure british. L’orchestra ben compatta negli archi, brillante nei legni, sconta solo qualche leggera incertezza nell’intonazione degli ottoni. L’interpretazione premia più i temi della regina svagata e pasticciona, che non le rapinose strappate riferite al sulfureo e diabolico Assur, vero protagonista dell’opera. Gli inglesi non si smentiscono mai, anche a dispetto di Rossini mantengono affezione e devozione alla regina e alla monarchia. Il concerto n.2 di Chopin richiede all’orchestra di non invadere il terreno di gioco e di non disturbare il solista. Pappano, dopo le battute d’avvio, che la vedono protagonista, mantiene la sua armata ben allineata e coperta; non fa mancare il giusto sostegno, quando necessario, per rinforzare la quadratura armonica e ritmica e per garantire l’atmosfera cordiale che anima l’opera. I movimenti estremi, con tempi più serrati e obbligati, trovano un perfetto accordo tra la capricciosa tastiera e la compagine schierata alle sue spalle. Il larghetto centrale, risolto come una grande patetica ed appassionata romanza d’opera, richiede gran destrezza orchestrale per raccordarsi ai rubati e ai cambi di intensità a cui dà sfogo la tastiera di Cho. Con timbro calibratissimo, per cautissimi attacchi del tasto e sfioramenti del pedale, si materializzano frasi da antologia. La prestazione maiuscola del pianista, molto apprezzata dal pubblico e quindi a lungo applaudita, si è replicata nello Chopin del Valzer op.64.2 in do#minore, offerto come encore.
Inevitabile l’omaggio a Šostakovič, qui con la Sinfonia n.9, la più corta tra le 15 che conta il catalogo dell’autore. Pappano e l’orchestra trovano qui il loro terreno di sfogo e di battaglia. La massa orchestrale si dispiega sicura e sonora in tutta la sua magnificenza. Stupendi gli archi che seguono le parsimoniose indicazioni del podio che, con gesti calibrati e risoluti, impone con chiarezza le linee da seguire e la loro gerarchia. Una buona dose di libertà espressiva è lasciata ai legni che, con solisti di rango, mettono in evidenza bellezza di suono e profonda espressività. Anche il più minuto degli interventi risulta perfettamente calibrato e appassionante. Confrontata all’oggi, quantomai penoso ed incerto, la sinfonia sconcerta. La sequenza che dall’Allegro iniziale, attraverso i cinque movimenti, approda finalmente al festoso Allegretto finale è immagine di un’interpretazione positiva della Storia, quanto mai anacronistica rispetto alla cruda realtà in cui si vive. Šostakovič mantiene, in gran parte della sua opera, questa visione che ne ha anche promosso diffusione e successo. Sorge qualche dubbio che anche in futuro si possa ancora comprendere e condividere questa impostazione. Juventus poema sinfonico per orchestra di Victor de Sabata, il già grande direttore d’orchestra, antagonista e stimato collega di Toscanini. Triestino, mitteleuropeo, di nascita, dirigeva Verdi e Puccini ma adorava Wagner e Richard Strauss. Sulle tracce, ben identificabili e udibili, di quest’ultimo si pone anche il poema sinfonico Juventus. L’inizio alla Heldenleben , vero inno al vitalismo giovanile, è palestra per una scrittura acrobatica dalle mille voci orchestrali, come solo a un grande direttore d’orchestra, dominatore ed animatore di imponenti masse foniche, poteva riuscire. Il racconto, dopo due potenti colpi di mazza sui timpani, si ripiega in zone più meditative e, forse, affettuose, per poi concludersi, con un breve ripescaggio dell’abbrivio iniziale, con una chiusa serena e cordiale. Il pezzo, praticato da pochissimi direttori, fa parte, da tempo, del repertorio di Pappano che ne dà un’interpretazione strumentalmente folgorante, carica di molta innocente vigoria non scevra da una certa ingenuità. Il pezzo, del 2019, cerca di agganciarsi, seppur in ritardo, al filone del tardo romanticismo mitteleuropeo, quando ormai la musica stava già tastando percorsi ben più impervi e avanzati. L’orchestra e Pappano risultano portentosi e il pubblico apprezza tanto da costringerli ad esibirsi, fuori programma, in una Danza Ungherese di Brahms, anch’essa di tale magnificenza sonora da suscitare ineluttabilmente l’entusiasmo generale.

Categorie: Musica corale

A Cortona una serie di iniziative intorno alla mostra Cantare il Medioevo

Mar, 09/09/2025 - 11:48

La conferenza Cantare il Medioevo. La lauda a Cortona tra devozione e identità civica: itinerari e approfondimenti tenuta da Francesco Zimei e Giulia Spina del 3 settembre scorso, presso il Centro Convegni S. Agostino a Cortona, ha costituito un interessante approfondimento della mostra Cantare il Medioevo. È stata un’occasione per avvicinarsi alla spiritualità e alla devozione medievale attraverso il genere della lauda, il valore delle fonti e dell’iconografia. Naturalmente non potevano mancare puntualizzazioni e approfondimenti intorno al Laudario di Cortona (cod. 91) e al Cantico delle Creature, di cui quest’anno ricorre l’VIII Centenario.
La mostra, curata da Zimei, ha visto la promozione e collaborazione di diverse istituzioni: Accademia Etrusca, Comune di Cortona, Centro studi Frate Elia da Cortona, Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro e il sostegno del progetto europeo ERC Advanced ‘Laudae’.
Zimei, guida autorevole, ha accompagnato i visitatori in un’autentica immersione nello spirito di un Medioevo che in una città come Cortona fa percepire in itinere il proprio respiro. La mostra – ben documentata e illustrata mediante pannelli – include capolavori come la Croce dipinta del XIII secolo, proveniente dalla chiesa di San Francesco e la tavola delle Storie di Santa Margherita, custodita al Museo Diocesano di Cortona. I quattro codici – custoditi rispettivamente a Cortona (Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca, segnature: 91 e 462), Arezzo (Biblioteca Città di Arezzo, ms.180) e Milano (Biblioteca Trivulziana, ms. 535) – rappresentano il fulcro dell’esposizione. Sostando vicino al cod. 91, constatando il tipo di scrittura su pergamena e la presenza del testo unitamente alla musica (solo nelle prime 47 cc.), oltre a ribadire che «È l’unico laudario del XIII secolo con notazione musicale che è sopravvissuto nel tempo, il più antico in assoluto» (Gozzi) – si ha modo di constatarne l’essenzialità e la povertà, destinato alla compagnia di laudesi a Cortona chiamata «Fraternitas beate et semper virginis Marie et beati Francisci» (Zimei), fino ad immaginare il reiterato invito a cantare: «Venite a laudare per amore e cantare l’amorosa e vergene Maria» (c.1r). Il codice, come ricorda Gozzi, pur presentando diversi problemi relativi alla notazione musicale, continua a destare l’attenzione della musicologia e degli interpreti. Inoltre, considerando che detiene ancora il primato di poesia in volgare messa in musica, si immagina il Laudario, anche metaforicamente, una fonte di luce che si rinnova. Come accade al sole che sorge ogni giorno dopo l’oscurità, così la stessa luce che scaturisce dalla religiosità popolare – pur sfrangiata dai riflettori della modernità – continua ad invitare a ‘cantare’ e, in una concezione più profonda e devozionale, benché nec videre potest (S. Paolo, I Tim. 6, 16), non si può non distogliere lo sguardo dalla luce di Dio. A latere della mostra il Convegno Internazionale di Studi Le origini della lauda/le laude delle origini. Alle radici del canto spirituale in volgare italiano (4-6 settembre) promosso dall’Università di Trento in collaborazione con l’Accademia Etrusca e finanziato da un progetto europeo, oltre al concerto dell’Ensemble Micrologus alla chiesa di San Francesco (5 settembre) Giullari di Dio. Alle origini della lauda italiana nell’ottavo centenario del Cantico di frate Sole. Non per ultimo il volume Cantare il Medioevo. La lauda a Cortona tra devozione e identità civica a cura di Francesco Zimei e Simone Allegria che, oltre ad esprimere l’humus della mostra, mette al centro la lauda nei suoi diversi aspetti in cui, sia la vita religiosa che civile di Cortona, pur accomunate dall’umana caducità, ambiscono a nutrirsi del soffio divino.
Il volume, corredato da immagini, è un lavoro redatto da studiosi che desiderano far percepire un Medioevo nel modo filologico e, come si evince dai saggi, sono affrontate tematiche significative:
Francesco Zimei: Cosa dobbiamo alla lauda. Il caso – simbolo di Cortona
Lorenzo Tanzini:  Le origini del comune di Cortona
Marco Gozzi: Il più antico laudario con notazione musicale
Patrizia Rocchini: La scoperta del Laudario cortonese
Matteo Leonardi: Tra Cortona e Assisi: il Laudario cortonese e lo spirito di Francesco
Lucia Marchi: Cantare le laude anche senza la musica. Uno sguardo sui diversi assetti dei laudari cortonesi
Andrea Barlucchi: Il territorio e l’economia cortonese fra Due e Trecento
Franco Franceschi: Aspetti della società cortonese nello statuto del 1325
Pierluigi Licciardello: La religiosità delle confraternite cortonesi secondo gli statuti due-trecenteschi
Daniel Bornstein: La diocesi di Cortona nel suo primo secolo di vita
Simone Allegria: Le lettere di indulgenza per il canto delle laude di Ranieri Ubertini, primo vescovo di Cortona (1325-1348)
Claudio Ubaldo Cortoni:«Ergo poenitentia est charitas». Confraternite laicali e pratiche penitenziali
Il ricco apparato iconografico è costituito da foto della città e dell’eremo Le Celle ove Francesco si ritirò in preghiera, o particolari come la facciata della chiesa di San Francesco e della Cattedrale di Santa Maria Assunta, la Fortezza del Grifalco, Porta Montanina, la bottega medievale cortonese detta “bancone” in pietra o il Palazzo Comunale (XII secolo) ed ancora il caratteristico Vicolo Iannelli con le sue strutture abitative del XIV secolo. Inoltre la ricchezza delle imagines include affreschi come la Processione di Bianchi che flagellandosi intonano una lauda, documenti, carte tratte dai Laudari, et alia. Quasi a far percepire la sensazione di ‘abitare’ biblioteche, archivi e musei è riservata una parte a unità codicologiche relative ai laudari, opere descritte nella conferenza, un’ampia bibliografia, arrivando alla fine della pubblicazione di fronte all’effigie del Cristo crocifisso (Croce dipinta) in cui, per tutta una serie di elementi iconografici, oltre a richiamare la Passio Christi, indica l’unione perfetta tra divinità e umanità. Si consiglia la visita della mostra, aperta fino al 5 ottobre, congiuntamente alla lettura del volume. Il successo dell’ambizioso progetto se da un lato rende meno buio il Medioevo, allo stesso modo esprime una città che racconta molto anche in termini di bellezza. Cortona, già risalendo al celebre lampadario etrusco, continua a nutrirsi di quella ‘luce’ antica che, percepita ancora oggi tra i suoi vicoli al calar di “fratello sole”, diventa autentica poesia cantata.

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: La “Quarta” di Mahler secondo Danuele Rustioni

Mar, 09/09/2025 - 07:27

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Daniele Rustioni
Soprano Rosa Feola
Gustav Mahler: Sinfonia n. 4 in sol maggiore per soprano e orchestra
Venezia, 5 settembre 2025
Composta tra il 1899 e il 1901, la Sinfonia n. 4 in sol maggiore è l’ultima della trilogia delle Wunderhorn-Symphonien – così definite perché si trovano inseriti al loro interno alcuni Lieder del ciclo Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo) – e al tempo stesso tempo conclude la prima fase della produzione sinfonica del compositore boemo: la sua “Tetralogia”, come ironicamente egli la definì, a suggerire che le sue prime quattro Sinfonie sono condizionate da Wagner, in particolare – a parte l’influenza sul piano musicale – dalla concezione wagneriana, che assegna all’artista, pur isolato e destinato alla sconfitta, una missione redentrice della società. Fondamentale, per comprendere il sinfonismo di Mahler, è l’analisi di Adorno, che vi coglie un procedimento ricorrente: quello dell’irruzione, una sorta di tumulto improvviso, che scompagina gli equilibri classici della forma-sonata, a simboleggiare l’opposizione all’idea hegeliana di un “corso del mondo” ordinato. L’irruzione contribuisce a formare una nuova morfologia musicale, per cui le categorie formali si definiscono in funzione del significato che esprimono all’interno della composizione: il linguaggio si frantuma e le parti non concordano più con il tutto. La musica incorpora, stilizzandoli, i materiali più disparati, cosicché il retaggio dell’arte e della tradizione popolare convive con suoni attinti dal mondo esterno: quel caos sonoro – definito dall’autore stesso come schauerlich (orribile, orrendo) –, cui nondimeno egli sente il bisogno di ispirarsi, filtrandolo – al pari degli altri elementi concomitanti – attraverso la lente della propria interiorità. Il mondo interiore che viene alla luce nelle tre Wunderhorn-Symphonien è quello fantastico, ingenuamente popolaresco e nostalgicamente infantile della raccolta Alte deutsche Lieder: Des Knaben Wunderhorn, l’antologia di poesie e antiche canzoni popolari tedesche, raccolte e rivisitate dai due poeti romantici Achim von Armin e Clemens Brentano – pubblicate ai primi dell’Ottocento –, di cui Mahler intonò 24 testi poetici, tra cui il Lied per soprano Das himmlische Leben (La vita celestiale), scritto nel 1892, che inizialmente doveva far parte della Terza Sinfonia, ma fu poi inserito nell’ultimo movimento di un nuovo lavoro sinfonico – il quarto appunto –, iniziato nell’estate del 1899 e terminato in quella successiva.
Affascinante – venendo al concerto feniceo – l’interpretazione della Quarta Sinfonia offerta da Daniele Rustioni che, aldilà della competenza tecnica, si è confermato un interprete dotato di sensibilità e spessore culturale. In base all’approfondita lettura proposta dal direttore milanese, la Sinfonia in sol maggiore – generalmente ritenuta più accessibile al grande pubblico, in quanto può apparire meno complessa rispetto alle altre e con una drammaticità contemperata da un certa grazia settecentesca – si è rivelata un lavoro di grande impatto emotivo che rappresenta, al pari degli altri titoli del catalogo sinfonico dell’autore, un percorso graduale dalle tenebre alla luce, dal disagio esistenziale al suo superamento, pur senza trionfalismi o certezze incrollabili. Se il secondo movimento era proposto come un movimento sinistro, una Danza macabra – secondo la definizione l’autore stesso – pervasa da un senso di angoscia, a rappresentare la Vita Terrena, il quarto ci ha schiuso le gioie della Vita Celestiale. Il movimento iniziale – aperto da un impertinente tintinnare di campanelli: quasi un avvertimento a non prendere troppo sul serio il settecentesco ‘profumo, il senso di innocenza, che sarebbero stati diffusamente ostentati – ha assunto nello Sviluppo un carattere spettrale, determinato dalle sonorità stridenti dei legni e, al culmine di un climax, dall’intervento della tromba, che preannunciava la marcia funebre della Quinta. Un clima inquietante, che – come abbiamo accennato – si è colto anche il secondo movimento, dove il violino solista, accordato un tono sopra per rendere la sua ‘voce’ più aspra, ha efficacemente evocato la morte con il suo sinistro inciso: “Freund Hein spielt auf” (Sta suonando l’amico Hein), aveva annotato Mahler a margine di una prima stesura della partitura, riferendosi al mitico menestrello che, al suono del suo violino, conduce i bambini nell’Aldilà. Il terzo movimento – un Adagio, tra i più ispirati dell’intera produzione mahleriana – ha fatto ridere e piangere, secondo le intenzioni dell’autore, essendo costituito da un seguito di variazioni su due temi: il primo, estatico e appena sussurrato, esposto dagli archi, ad evocare il Paradiso; il secondo carico di dolore, intonato dall’oboe, ad esprimere la drammatica condizione umana (tra le variazioni di quest’ultimo compare anche una citazione dai Kindertotenlieder). Verso la fine, nell’ambito di un improvviso fortissimo di tutta l’orchestra, i corni e le trombe hanno preannunciato lietamente il tema della ‘musica celeste’ del movimento successivo, prima che l’Adagio si concludesse con una coda di rarefatta leggerezza strumentale. Impareggiabile, nell’ultimo movimento, Rosa Feola, che ha cantato, puntando più all’introiezione che all’esternazione, le gioie – peraltro alquanto prosaiche – della Vita Celestiale: la freschezza vocale con cui ha espresso l’innocenza del mondo infantile sarebbe probabilmente piaciuta all’autore, che pensava inizialmente ad una voce bianca. Fascinosa l’esecuzione di questa sorta di Rondò, in cui ognuna delle quattro strofe del Lied si concludeva con un verso finale intonato a mo’ di ritornello, mentre la musica – a parte la strofa iniziale, dove assumeva un carattere contemplativo, estatico – appariva abbastanza dissacrante: lo attestavano gli intrecci dei fiati, l’armonia, gli impertinenti campanelli dell’inizio della Sinfonia, che tintinnavano di nuovo, a sancire l’ambiguità del lieto fine. Quell’ambiguità che ha consentito a Mahler di apparire ‘moderno’, nonché il cantore della crisi di un’epoca. Applausi interminabili a fine serata al direttore, alla cantante e all’Orchestra, dimostratasi ancora una volta in gran forma.

Categorie: Musica corale

65° Concorso Pianistico Internazionale Ferruccio Busoni: Yifan Wu è il vincitore

Dom, 07/09/2025 - 22:32

Alle 13:00 di domenica 7 settembre, la giuria internazionale presieduta da Sir David Pountney ha conferito il Primo Premio del 65° Concorso Pianistico Internazionale Ferruccio Busoni a Yifan Wu, che vince anche il Premio speciale del Pubblico.
Circondati dalla serrata formazione dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, Wu ha eseguito il Concerto n. 3 op. 37 di Beethoven, Nebieridze la Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 di Rachmaninov e Fountos il Concerto n. 1 op. 1 di Rachmaninov.
La vittoria al Concorso Busoni va ben oltre il premio di 30.000 euro offerto dalla Città di Bolzano, concretizzando la prima fase di vita di un’importante carriera pianistica. La Fondazione offre infatti al vincitore la possibilità di essere seguito per due anni da un management artistico che garantirà concerti e promozione alla figura del nuovo premiato.
Il concorso assegna anche un premio monetario ai concorrenti classificatisi dal secondo al sesto posto. Il Secondo Premio (10.000 euro offerti dalla Fondazione Cassa di Risparmio) va a Sandro Nebieridze, il Terzo Premio (5.000 euro offerti dall’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Bolzano) va a Christos Fountos. Zhonghua Wei si aggiudica il Quarto Premio (4.000 euro offerti da Volksbank), mentre è l’italiano Elia Cecino a vincere il Quinto Premio (3.000 euro offerti da Rotary Club Bolzano Bozen). Infine, il Sesto Premio (2.500 euro offerti da Fiera Bolzano) è stato assegnato a Zeyu Shen.
La Finalissima è stata trasmessa in diretta televisiva su RAI 5 e Radio RAI Südtirol, dal canale Medici.tv e dalla piattaforma Amadeus.tv in Cina, che ha permesso a più di 300.000 spettatori di seguire ogni fase del Concorso. Qui per ulteriori informazioni. Foto Lucia Rose Buffa

Categorie: Musica corale

Sergei Prokofiev (1891 – 1953): “Two violin sonatas. Five melodies”

Dom, 07/09/2025 - 13:00

Sergei Prokofiev (1891 – 1953): Sonata no. 1 for Violin and Piano in F minor Op. 80; Sonata no. 2 for Violin and Piano in D Major Op.94a; Five Melodies for Violin and Piano Op. 35bisBruno Monteiro (violino). João Paulo Santos (pianoforte). Registrazione: 10-11 maggio 2025 presso Auditório Caixa Geral de Depósitos, ISEG Lisbon, Portugal. T. Time:   1CD Etcetera KTC 1864
Sebbene sia stato un virtuoso del pianoforte, Sergei Prokofiev ha arricchito la letteratura violinistica con autentici capolavori, anche se non tutti questi lavori sono stati scritti originariamente per questo strumento. Questo è il caso sia dei Cinque canti senza parole per violino e pianoforte op. 35 bis, composte nel 1920 per la cantante Nina Kochitz che ne fu la prima interprete il 27 marzo del 1921 a New York con l’autore al pianoforte e trascritte qualche anno dopo su richiesta del  violinista polacco Pawel Kochanski che, all’epoca, insegnava alla Juilliard School, e della Sonata n. 2 in re maggiore op. 94 bis, che corrisponde a una trascrizione  della Sonata per flauto opera 94, scritta nel 1943 ad Alma-Ata (nell’Asia centrale), realizzata, questa volta, su “commissione!” del famoso violinista David Oistrakh, ancora in attesa che Porkof’ev completasse la Sonata n. 1 in fa minore op. 80, che, composta in arco di tempo piuttosto lungo che va dal 1938 al 1946, è l’unico lavoro originale per violino dei tre che costituiscono il programma di questo CD. Questi tre lavori di Prokofiev, estremamente complessi sia dal punto di vista tecnico che espressivo, sono ottimamente eseguiti da Bruno Monteiro il quale, come in altre sue produzioni discografiche, evidenzia una tecnica solidissima, che gli consente di risolvere gli aspetti più complessi, come doppie corde, posizioni non sempre comode e passi veloci, dell’ardua scrittura di Prokofiev, e una cavata particolarmente calda ed espressiva. Nell’eseguire questi lavori, inoltre, Monteiro mostra di avere raggiunto una grande maturità a livello interpretativo che gli consente di trovare un suono sempre bello e adeguato alle dinamiche richieste dal compositore. Al pianoforte lo accompagna molto bene João Paulo Santos che non solo non lo soverchia mai, ma si integra perfettamente con la voce del violino, creando un discorso musicale unitario.

Categorie: Musica corale

Torino: Myung-Whun Chung inaugura MiTo Settembre Musica 2025

Dom, 07/09/2025 - 10:40

Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto di Torino.
Orchestra Filarmonica della Scala
Direttore Myung-Whun Chung
Pianoforte Mao Fujita
Dmitrij Šostakovič: Valzer n.2 dalla Suite per Orchestra di Varietà; Sergej Rachmaninov: Concerto n.2 in do min. per pianoforte e orchestra; Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n.6 in si minore op.74 “Patetica”
Torino, 3 settembre 2025.
La quarantottesima edizione di Settembre Musica, manifestazione trasformatasi, diciannove anni fa, nel festival MIlano-TOrino, si è inaugurata con uno splendido concerto dell’Orchestra Filarmonica della Scala, nell’Auditorio torinese del Lingotto. Quest’edizione si fregia del titolo “Rivoluzioni” che Giorgio Battistelli, Direttore Artistico della manifestazione, cerca di giustificare come una pacifica battaglia al troppo convenzionale e consueto. Nobile intento, che però, sfogliando il programma, non si rende compiutamente percepibile. Ci sono cartelloni totalmente tradizionali, come quello di questo concerto inaugurale, e alcuni richiami a ricorrenze centenarie e a quella, ampiamente illustrata, del cinquantesimo dalla morte di Dmitrij Šostakovič. La musica di Šostakovič è così consueta che, con Mahler, risulta tra le più eseguite del repertorio. È una gara ingaggiata con lo Strauss Riccardo, per l’occupazione costante delle sale da concerto, sopravanzando, ormai ridotti a rincalzi, i classici Beethoven, Brahms e Dvorak, per non citare i “codini” Haydn e Mozart. Di “rivoluzione” non si può quindi assolutamente parlare visto che anche i “modi” interpretativi proposti sono rassicuranti, consueti e convenzionali. Ne sono una conferma i quattro minuti scarsi del Valzer n.2 dalla Suite per Orchestra di Varietà. Quello di Šostakovič è un Valzer straniato e fuori tempo, lascia definitivamente Vienna e sorpassa indifferente i mortiferi approcci di Ravel, per approdare al popolano e post-bellico ballo a palchetto, ammesso che nella staliniana URSS si praticasse. Certamente, nelle fiere di paese koreane, il Valzer né si ballava, né si balla, è quindi comprensibile che Myung-Whun Chung con la fantastica Orchestra Filarmonica della Scala l’abbia trasformato in elegantissimo e preziosissimo esempio di formidabile orchestrazione. È stata un’esecuzione che ne centellinava, con raffinatissimo dosaggio, suoni e colori. Il successo c’è stato, ma pure il rammarico che non si sia optato per l’intera suite, mai ascoltata alle nostre longitudini. Il Concerto n.2 di Rachmaninov e la Sinfonia Patetica di Čaikovskij sono paradigmi del contradditorio collegamento tra vita vissuta e l’ipotetica atarassia dell’arte musicale. Ambedue gli autori scontano, in queste due opere, situazioni personali di tale gravità da condizionarne fortemente sostanza e forma. Rachmaninov, all’epoca, 1898-1900, era preda di una crisi nervosa così violenta da soffocarne l’esuberante creatività giovanile e costringerlo al quasi mutismo compositivo ed esecutivo. Il supporto di Nikolai Dahl, violinista medico e psicologo, lo aiutò a riemergere e a ritrovare la fiducia e la vena creativa. Il concerto, composto parallelamente alle cure di Dahl, è l’immagine del travaglio e ne è, in concreto, il prodotto finale. Tormentati tempi estremi che però accolgono la classicità della forma; tempo centrale che sfoga il lirismo della passione, prodromo del futuro Rachmaninov Holliwoodiano, dileggiato ed emarginato, con supponenza, da troppa critica, soprattutto europea. In America gli arrise invece un gran successo e un altrettanto abbondante fortuna. Sedeva alla tastiera in concerti in cui si esibiva sia come autore che come virtuoso, ottenendone dal pubblico grandissimi apprezzamenti. L’impostazione dei suoi quattro concerti per pianoforte tiene ben conto di come debba essere chi siede alla tastiera a dover emergere. Bella scrittura orchestrale che, di solito, fa da supporto e commento di quanto il pianoforte annuncia, espande e ricama. Il sottofondo orchestrale è discreto, un vero prezioso prato fiorito che accogliere i ricami dei tasti. Chung e Mao Fujita ne sortiscono come interpreti idiomatici. Il direttore Koreano stende, con il gruppo degli archi dell’orchestra scaligera, un tessuto, al contempo soffice e nervoso, ideale per accogliere il suono traslucido del giovano pianista giapponese. Questi poi cura, con precisione millimetrica la linea sinuosa della sua interpretazione, quasi un’ornamentazione monocromatica, ma dalle infinite sfumature, di preziose pergamene. Il suono non è grande, ma la maestria esercitata nell’attacco del tasto è tale da renderlo di un timbro che corre, netto e ben udibile per tutta la sala. Brillantissimo e composto nell’esposizione, si confronta, senza timore, nei dialoghi con i formidabili legni dell’orchestra milanese. Certamente Rachmaninov con la sua arte d’orchestratore e la furbizia del pianista lo soccorrono e Fujita ne sfrutta appieno il sostegno. La sala, stracolma da “tutto esaurito”, gli tributa tali consensi da costringerlo a risedersi e a concedere, sempre di Rachmaninov, il preziosissimo Momento Musicale (op.16 n.1) in sibemolle minore. La linea interpretativa, discretissima, elegante, conferma quella già illustrata nel concerto: una linea di ineffabile discrezione giapponese. Myung-Whun Chung esercita una stringente sorveglianza emotiva anche nell’affrontare la Sinfonia Patetica. La cura, se non dei particolari, dell’insieme è estrema. Forse non si è mai sentito, dal vivo, un dominio più consapevole e meno forzato delle dinamiche. L’esperienza dell’orchestra ci ha messo sicuramente del suo; poi la sicurezza e il controllo di Chung, che si muove con gesti pochi ed essenziali, sono stati determinanti all’ottima riuscita. Il dosaggio dei timbri, delle progressioni sonore, del legato cantabile, rappresentano certamente una grande lezione di direzione. Nel panorama attuale dei grandi direttori, quasi tutti russi, Chung è comunque una presenza di portata eccezionale. La componente Koreana, si rivela in una maggior concretezza della linea, nell’assenza di compiacimenti estetizzanti e nella forza con cui il direttore si immerge negli impasti fonici più scabrosi e sonori. Ne paga lo scotto la scarsa attenzione all’ eleganza complessiva del porgere, vengono premiate l’immediatezza e la nettezza d’ascolto. Molti ancora si scandalizzano per gli applausi, forse inopportuni, che sempre scoppiano alla fine dello strombazzante terzo movimento, non si può escludere che Čajkovskij, ben consapevole delle reazioni del pubblico, li abbia però intenzionalmente favoriti per lasciare sfumare e ammutolire il disperato finale, del quarto movimento, in un assoluto silenzio. A Chung l’impresa è riuscita: senza alcun gesto evidente, dopo aver fatto sussurrare all’orchestra le ultime note, ha provocato-promosso una lunga coda di silenzio. Il pubblico si è poi scatenato in lunghissimi e sonori ringraziamenti.

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: dodicesima domenica dopo la Trinità

Dom, 07/09/2025 - 07:41

Geist und Seele wird verwirret BWV 35 è la Cantata che conclude il ciclo delle composizioni dedicate alla dodicesima Domenica dopo la Trinità. Eseguita la prima volta a Lipsia l’8 settembre 1726 quest’opera trae parte del proprio materiale da un concerto probabilmente per violino o per oboe andato perduto. Se non vi motivo di dubitare sulla effettiva utilizzazione del primo movimento di quel concerto nella sinfonia che apre la Cantata, dal momento che essa ci è giunta in partitura autografa, siamo perplessi sull’utilizzo degli altri 2 movimenti del concerto all’interno della Cantata. Il testo di Georg
Christian Lehms (1684-1717) è privo di precisi riferimenti biblici è concepita per voce solista di contralto, senza impiego di Coro e quindi priva del classico Corale conclusivo. Spicca inoltre la presenza dell’organo nelle due pagine strumentali, usato anche in veste concertante nelle tre arie. In pratica la Cantata si risolve in una sorta di confronto virtuosistico di gusto chiaramente profano fra la voce e lo strumento obbligato, variando però di volta in volta la forma e la modalità d’uso dei mezzi espressivi. Cosi la prima aria (Nr.2) è una “Siciliana” in stile “fiorito” con “da capo” – nella sezione centrale è espresso un timido riferimento al Vangelo di questa domenica. La seconda invece (Nr.4) si muove su un vivace disegno ritmico “ostinato” senz’altro apporto strumentale di quello fornito dall’organo e dal Continuo. L’ultima aria (Nr.7) ha un spirito giubilante, liberatorio e potrebbe anche essere il risultato di una trasformazione di un movimento di concerto.
Prima parte
Nr.1 – Sinfonia
Nr.2 – Aria (Contralto)
Spirito ed anima sono confusi
quando ti contemplano, mio Dio,
poiché i miracoli che apprendono
e che la gente proclama esultante
li hanno resi sordi e muti.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Sono meravigliato;
tutto ciò che vediamo
ci riempie di stupore.
Contemplando te,
amato Figlio di Dio,
vengono meno
ragione e buon senso.
Tu riesci persino
a rendere un miracolo poca cosa di fronte a te.
Sei già un evento miracoloso
per il tuo nome, i tuoi atti e la tua missione,
nessuna meraviglia sulla terra è paragonabile a te.
Ridoni l’udito ai sordi
fai parlare i muti,
sì, ancora di più,
apri con una parola le palpebre dei ciechi.
Questi, questi sono miracoli
la cui potenza non può
essere espressa neanche dal coro degli angeli.
Nr.4 – Aria (Contralto)
Dio ha fatto bene ogni cosa. 
Il suo amore, la sua fedeltà
si rinnovano per noi ogni giorno.
Quando l’angoscia e la pena ci opprimono
egli ci garantisce sovrabbondante conforto,
poiché veglia sempre su di noi.
Dio ha fatto bene ogni cosa.
Seconda Parte
Nr.5 – Sinfonia
Nr.6 – Recitativo (Contralto)
Ah, Dio potente, fa che io
mi ricordi sempre di tutte queste cose,
così potrò con gioia
lasciarti penetrare nella mia anima.
Fà che il tuo dolce “Effatà”
intenerisca il mio cuore indurito;
ah, poni le tue dita misericordiose sulle mie
orecchie, altrimenti sarei già perduto. 
Tocca anche la mia lingua
con la tua potente mano,
così potrò lodare questi segni miracolosi
con profonda devozione
dimostrando di essere tuo figlio ed erede.
Nr.7 – Aria (Contralto)
Desidero solo di vivere con Dio,
ah! se solo fosse giunto già il tempo
di elevare un gioioso Alleluia
con tutti gli angeli.
Mio caro Gesù, liberami
dal doloroso gioco della sofferenza
e concedimi di concludere presto
nelle tue mani la mia vita tormentata.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Geist und Seele wird verwirret” BWV 35

 

Categorie: Musica corale

Spoleto, Festival dei Due Mondi: il saluto di Daniele Cipriani, nuovo Direttore Artistico

Sab, 06/09/2025 - 18:36

Dal 1° settembre 2025, Daniele Cipriani è ufficialmente il nuovo Direttore Artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto. Designato dal Ministro della Cultura Alessandro Giuli e nominato del CdA della Fondazione Festival dei Due Mondi, Cipriani succede a Monique Veaute, che ha terminato il suo mandato con l’edizione 2025 conclusasi quest’estate. La nomina segna l’inizio di una nuova fase nella storia del prestigioso Festival. Il direttore artistico, già al lavoro sulla prossima edizione in programma dal 26 giugno al 12 luglio 2026, ha voluto condividere le sue prime riflessioni con un messaggio di insediamento:
«[…] Amo profondamente Spoleto. Dirigere il suo Festival è un ritorno alla mia casa dell’anima, abitata dai ricordi di persone a me care e che ne hanno fatto la storia, nonché di spettacoli che qui ho ideato con passione, molti dei quali sotto la direzione artistica di Giorgio Ferrara. […]
Prendo le redini dalla precedente Direttrice Artistica, Monique Veaute […]. Mi affiancheranno in tale compito due consulenti di prestigio e fama internazionale che ho fortemente voluto nella mia squadra: la pianista Beatrice Rana insieme al regista e drammaturgo Leo Muscato. Fin d’ora ringrazio tutti i membri dello staff della Fondazione Festival Dei Due Mondi con cui lavorerò, sapendo di poter contare sulla loro comprovata professionalità.
Il Festival dei Due Mondi appartiene profondamente alla nostra identità culturale, per cui ritengo vitale valorizzarne la memoria e le radici, traendo da esse linfa, nutrimento ed energie per nuove germinazioni in quello che sarà, nelle mie intenzioni – come già in quelle del M° Menotti – un appuntamento annuale di grande spessore e di rilevanza internazionale, una manifestazione che attiri un pubblico sempre più variegato e ampio. RADICI sarà, dunque, il tema della mia prima edizione. La straordinaria eredità menottiana sarà riconoscibile nel programma del prossimo quinquennio, insieme a una ricerca costante nella contemporaneità più originale e sofisticata. […]». Qui per ulteriori informazioni.

Categorie: Musica corale

Ercolano, Parco Archeologico: “Le nuove aperture delle Terme Suburbane”

Sab, 06/09/2025 - 16:52

Ercolano, Parco Archeologico
NUOVE APERTURE DELLE TERME SUBURBANE
Ercolano, 06 settembre 2025
Le Terme Suburbane di Ercolano si apprestano a riaprire, dal 14 settembre al 30 novembre 2025, in occasione di un’anteprima straordinaria che anticipa la futura restituzione stabile al pubblico. Non si tratta di un’apertura di facciata, bensì dell’accesso a un organismo architettonico che, pur nel suo stato di rovina, conserva ancora l’energia di una civiltà. Questo complesso termale, incastonato tra l’antico arenile e la cinta muraria, rappresenta infatti non solo l’edificio di balneazione meglio conservato del mondo romano, ma anche un frammento paradigmatico della cultura urbana imperiale, dove corpo e comunità, tecnica e bellezza si intrecciavano senza soluzione di continuità. Nato come bagno privato della famiglia dei Nonii Balbi, dinastia di mecenati che ha lasciato profonde tracce nella città vesuviana, l’edificio venne successivamente ampliato e reso fruibile alla cittadinanza. Già questo passaggio ne rivela la valenza simbolica: ciò che è proprietà gentilizia si fa spazio comunitario, come spesso accade nella parabola della città romana, in cui il bene individuale tende a trasfigurarsi in bene collettivo. Il complesso, oggetto di un imponente intervento di restauro dal valore complessivo superiore ai cinque milioni di euro (finanziati grazie alla legge di stabilità 2015 e ai fondi di bilancio del Parco per il triennio 2022-2025), si distingue per la straordinaria integrità di alcuni elementi: i pavimenti marmorei policromi, le decorazioni in stucco e pittura parietale, le porte lignee originali ancora conservate e, soprattutto, l’eccezionale sistema di riscaldamento “a samovar” che regolava la temperatura delle piscine calde. Quest’ultimo costituisce una rarità assoluta nel panorama archeologico, testimonianza della capacità romana di piegare l’ingegneria a fini di comfort collettivo. La scelta di aprire le Terme “a cantiere in corso” è una decisione di grande rilevanza culturale, voluta con determinazione da Francesco Sirano, funzionario delegato alla direzione del Parco. Essa risponde a un preciso principio: la fruizione del patrimonio non deve ridursi all’atto contemplativo di una rovina compiuta, ma deve comprendere anche il processo di cura che ne garantisce la sopravvivenza. L’accesso accompagnato, limitato ai fine settimana con turni cadenzati, mette i visitatori di fronte a una duplice temporalità: quella della città antica e quella del cantiere contemporaneo, due piani che si intrecciano per restituire continuità alla memoria. Camminare in questi ambienti significa attraversare un luogo in cui il corpo romano trovava non solo ristoro fisico, ma anche definizione sociale. Le terme erano, infatti, più che semplici bagni: erano teatri della convivenza, palcoscenici quotidiani nei quali la comunità si riconosceva e si misurava. Ogni spazio, dai frigidaria agli apodyteria, era scandito da funzioni che univano l’igiene alla socialità, la cura di sé alla costruzione di legami. L’architettura stessa — fatta di marmi, pitture e giochi d’acqua — agiva come scenografia politica, ricordando a ciascun individuo di appartenere a una collettività più grande. La qualità della conservazione rende le Terme Suburbane un caso di studio privilegiato. A differenza di Pompei, che restituisce ampie porzioni urbane ma spesso ridotte a strutture spoglie, Ercolano offre la possibilità di entrare in contatto con materiali organici, arredi e dettagli che altrove sono andati perduti. Le porte lignee originali, miracolosamente preservate, sono reperti di eccezionale rarità che permettono di comprendere non solo la tecnologia costruttiva, ma anche il senso quotidiano dell’abitare antico. I pavimenti marmorei, disposti in complessi disegni geometrici, non sono semplici superfici calpestabili, ma veri e propri dispositivi simbolici che nobilitavano il passaggio dei corpi. Il restauro in corso — reso possibile anche dal partenariato pubblico-privato con il Packard Humanities Institute, attivo sul sito dal 2001 — non è quindi un mero intervento conservativo, ma un progetto culturale di lungo periodo. Il cantiere diventa parte integrante del racconto: non separa il pubblico dal monumento, ma lo invita a condividere il processo della sua rinascita. In questo modo il patrimonio si presenta non come reliquia statica, ma come organismo in divenire, bisognoso di continua manutenzione e cura. Il valore dell’iniziativa non è solo archeologico, ma anche civile. L’introduzione di un biglietto aggiuntivo, destinato a finanziare i lavori, afferma il principio che la fruizione dei beni culturali implica corresponsabilità. Non esiste patrimonio senza comunità disposta a investirvi risorse e attenzione. Così come i Nonii Balbi trasformarono un bene privato in spazio pubblico, oggi il Parco e i suoi partner trasformano un luogo di memoria in laboratorio di cittadinanza. Le Terme Suburbane di Ercolano mostrano, meglio di altri complessi, come il mondo romano non conoscesse separazione tra utilità e bellezza, tra funzione e simbolo. L’acqua calda, il vapore, i mosaici, gli stucchi: tutto concorreva a un’esperienza in cui il benessere corporeo coincideva con l’affermazione della civiltà. Non sorprende allora che il loro riemergere oggi, dopo secoli di oblio e decenni di restauri, appaia come un atto quasi politico: ricordare che la città antica continua a parlare al presente, invitandoci a ripensare il rapporto tra individuo e comunità, tra cura del corpo e cura della res publica. Fra il 14 settembre e il 30 novembre, i visitatori che varcheranno la soglia delle Terme non entreranno semplicemente in un edificio archeologico. Attraverseranno un ponte tra epoche, assistendo al dialogo tra una civiltà che aveva fatto del bagno il proprio rito sociale e una contemporaneità che, nel custodirne le tracce, ne rinnova il senso. Le Terme Suburbane non sono dunque solo rovina restituita: sono le fondamenta stesse di una riflessione sul futuro del patrimonio. Copyright:  Luciano Pedicini (Foto di Copertina) Luigi Renzi Photo

Categorie: Musica corale

Roma, RomaEuropa Festival 2025: “Afanador”

Sab, 06/09/2025 - 16:29

Roma, RomaEuropa Festival 2025
“AFANADOR”
Ballet Nacional de España
Director Rubén Olmo
Idea e direzione artistica Marcos Morau
Coreografia Marcos Morau & La Veronal, Lorena Nogal, Shay Partush, Jon López, Miguel Ángel Corbacho
Drammaturgia Roberto Fratini
Scenografia Max Glaenzel, Mambo Decorados e May Servicios para Espectáculos, Carmela Cristóbal
Costumista Silvia Delagneau, Iñaki Cobos
Composizione musicale Juan Cristóbal Saavedra
Collaborazione speciale Maria Arnal
Musiche per Minera e Seguiriya Enrique Bermúdez e Jonathan Bermudez
Testi Temponera, Trilla, Liviana, Bambera e Seguiriya Gabriel de la Tomasa
Disegno luci Bernat Jansà
Design e dispositivi elettronici José Luis Salmerón de la CUBE PEAK
Progettazione audiovisiva Marc Salicrù
Fotografia Ruvén Afanador
Danzatori Rubén Olmo (Collaborazione speciale), Irene Tena (Artista ospite), Albert Hernández (Artista ospite), Inmaculada Salomón, Estela Alonso, Débora Martínez, Miriam Mendoza, Ana Agraz, Cristina Aguilera, Ana Almagro, Pilar Arteseros, Marina Bravo, Irene Correa, Patricia Fernández, Yu-Hsien Hsueg, María Martín, Noelia Ruiz, Laura Vargas, Vanesa Vento, Sou Jung Youn, Francisco Velasco, José Manuel Benítez, Eduardo Martínez, Cristian García, Matías López, Carlos Sánchez, Diego Aguilar, Juan Berlanga, Manuel del Río, Axel Galán, Alejandro García, Álvaro Gordillo, Adrián Maqueda, Víctor Martín, Alfredo Mérida, Javier Polonio, Pedro Ramírez, Juan Tierno, Sergio Valverde
Musicisti Juan José Amador “El Perre”, Enrique Bermúdez, Jonathan Bermúdez (Chitarre), Roberto Vozmediano (Percussioni)
Roma, Teatro Costanzi, 4 settembre 2025
Suggestioni profondamente evocative e dirompenti sono state quelle provocate dallo spettacolo Afanador nella serata d’apertura della 40esima edizione del Romaeuropa Festival. In occasione dei 160 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Spagna, il Festival che vuole affermare l’identità di Roma come capitale europea ha scelto la creatività visionaria di Marcos Morau che già l’anno scorso aveva incantato gli spettatori al Teatro Argentina con lo spettacolo Notte Morricone. Ora la sua immaginazione si rivolge all’Andalusia e al flamenco grazie al tramite dell’arte fotografica del celebre Ruvén Afanador, approfondita nei libri fotografici Ángel Gitano e Mil Besos. Si tratta di scatti dedicati a leggende del flamenco come Israel Galván, Matilde Coral, Eva Yerbabuena, José Antonio e Rubén Olmo, immortalati in pose che trasmettono il fascino glamour di un erotismo radicato nella tradizione ma rivolto con aria provocatoria verso il futuro. Come spiega il drammaturgo Roberto Fratini Serafide, l’intento non è certamente documentaristico, né monumentale, ma è la manifestazione di uno sguardo desiderante che con forza pari all’arte cinematografica di Buñuel si fissa nell’abisso del flamenco rivelandolo in una serie di capricci à la Goya. Morau, che ha studiato a sua volta fotografia prima di dedicarsi alla coreografia e che è nipote di un fotografo, tenta di tradurre quel fascino nei movimenti sfuggenti della danza, riflettendo sul legame tra le due arti, sul mistero del corpo e della vita. A scenario aperto ci ritroviamo dunque nell’atmosfera di uno studio fotografico, dove tra le lampade notiamo donne in ampie gonne nere che sfilano davanti ad un manichino in posa con un cappello a falda stretta in testa, il busto scoperto, e le gambe coperte da una gonna che richiama le linee di una sirena. Nei movimenti di gruppo ritroviamo l’energia e la vitalità dello stile de La Veronal, che ora sono incarnati dalla calorosità spagnola dei 33 danzatori del Ballet Nacional de España, la compagnia pubblica di riferimento della danza spagnola. Il sipario si abbassa, lasciando fuoriuscire solo le gambe dei danzatori e le caratteristiche scarpe col tacco e ci abbandoniamo dunque alla poesia ipnotica del flamenco, osservato nel suo legame con la visceralità della terra. Spostandoci poi nel dietro le quinte del flamenco esploriamo l’attrattività spettacolare. A prevalere sembra la dimensione del gioco riflesso nell’apertura di un grande ventaglio, in un cavallo a dondolo o in una vistosa capigliatura. Ma nella sua sacralità il flamenco è vita vissuta fino all’ultimo istante, è una danza di coppia che lascia trapelare l’atmosfera di sfida di una corrida, è comunità che avvolge e protegge dal dolore. Le maniche sfrangiate di un personaggio ci invitano a pensare alla figura di un angelo gitano, nel chiaroscuro delle luci si intravede il mistero delle ombre, la danza si scompone in un magico ticchettio e nel fremito degli arti. Di spalle su un balcone una donna lascia scendere la lunghissima chioma, mentre sulla facciata schermo si svolge la dinamica delle proiezioni: ora si tratta di un intrico floreale, ora di minacciosi artigli, compare poi un occhio che lacrima e successivamente uno stemma araldico o il muso di un toro, per finire poi con il disegno delle gambe danzanti. La ferinità si trasmette sulla scena. La scenografia si lascia comporre di lampade alla rovescia o di sedie e attrezzi agricoli disposti in chiave antiestetica. Ai suoni digitali si sovrappone la sofferenza della seguiriya, ed infine l’urgenza drammatica delle percussioni. L’assolo danzato dopo aver dialogato con la coralità del gruppo diviene un tragico duello. Una ruota di lampade viaggiando su diverse inclinazioni enfatizza il vibrante divenire scenico. E sul finale, quando cala il sipario, il tripudio osservato in scena si trasforma nel vigore degli applausi. Un successo annunciato che ha lasciato a bocca aperta il pubblico, dando ragione a quella ricerca dell’eccellenza che caratterizza il Romaeuropa Festival. Adesso la vera scommessa sarà quella di sostenere un tale livello. Foto Merche Burgos

Categorie: Musica corale

Roma, Museo Storico della Fanteria: “Gauguin. Il diario di Noa Noa e altre avventure”

Ven, 05/09/2025 - 21:00

Roma, Museo Storico della Fanteria
GAUGUIN. IL DIARIO DI NOA NOA E ALTRE AVVENTURE
Curatore Vincenzo Sanfo
Comitato scientifico Gilles Chazal, presidente onorario del Musée du Petit Palais di Parigi, Giovanni Iovane, storico dell’arte ed ex direttore dell’Accademia di Brera
Istituzioni promotrici: Navigare Srl su iniziativa del Ministero della Difesa
Dal 6 settembre 2025 – 25 gennaio 2026
Roma, 05 settembre 2025
C’è un’ironia sottile, forse involontaria, nel collocare una mostra dedicata a Paul Gauguin in un luogo come il Museo Storico della Fanteria a Roma. Non già in una galleria d’arte, né in un museo moderno e neutro, ma in un’istituzione che custodisce memorie militari. È come se la scelta volesse rivelare, per contrappasso, il carattere di “conquista” che l’Occidente esercitò sul mito dell’esotico: un’occupazione dello sguardo non meno perentoria di quella territoriale. Perché, a ben guardare, Gauguin non si limitò a descrivere la Polinesia: la piegò, la reinventò, la costruì come scenario di una fuga romantica e di una autocelebrazione. Dal 6 settembre 2025 al 25 gennaio 2026, la mostra Gauguin. Il diario di Noa Noa e altre avventure raccoglie più di cento opere: disegni, litografie, sculture, pagine di diario. L’intento dichiarato è quello di restituire l’immagine di un Gauguin intimo, fragile e visionario. Ma la verità è che ci troviamo davanti a un artista che non ha mai smesso di essere europeo, anche quando si illudeva di dissolversi nell’altrove polinesiano. Il diario Noa Noa, redatto nel 1893 al ritorno dal primo soggiorno a Tahiti, è al centro dell’esposizione. L’opera è stata a lungo considerata testimonianza diretta della vita quotidiana dell’artista nelle isole. In realtà si tratta di un testo costruito, manipolato, in cui l’esperienza vissuta si mescola con la finzione letteraria. Daniel de Monfreid, amico e sodale di Gauguin, ne arricchì le pagine con xilografie a colori: un dialogo tra testo e immagine che, più che documentare, mitizza. È la Polinesia che Gauguin vuole farci vedere, non quella reale. Una Polinesia mentale, distillata, reinventata come alternativa alla civiltà europea che egli detestava. Si potrebbe dire che Gauguin non trovò mai un altrove puro, ma lo fabbricò a misura delle proprie esigenze. Il mito polinesiano diventa così strumento ideologico, proiezione simbolica, talora puro ornamento. Non è un caso che nelle xilografie appaiano miti e leggende: l’artista non si limitò a osservarli, li piegò a una sensibilità già formata dalla cultura europea, filtrandoli attraverso un primitivismo di maniera. La mostra offre esempi interessanti in questa direzione. Il Studio di braccia, mani e piedi, un monotipo tratto dalla celebre raccolta di fogli superstiti al rogo ordinato dalle autorità religiose, ha il fascino dell’oggetto miracolato. Non perché riveli qualcosa di essenziale sulla cultura polinesiana, ma perché mostra Gauguin nella sua tensione a fissare il corpo come grammatica primordiale, quasi anatomia sacra. Che il disegno si sia salvato per puro caso lo carica di aura: reliquia più che documento. Una sezione è poi dedicata alle sculture polinesiane di Gauguin. Qui l’artista abbandona la tela per cercare una tridimensionalità rude, quasi arcaica. Ma il risultato non ha la potenza della scultura nativa, bensì l’aspetto di un ibrido: un europeo che tenta di appropriarsi di un linguaggio altrui, senza possederne la radice. È il limite intrinseco di tutta la sua operazione. Di grande interesse sono anche le litografie preparate per Avant et Après, che la critica ha definito il “testamento spirituale” di Gauguin. Si tratta di fogli che svelano la volontà ossessiva di mitizzare la propria figura. Gauguin non racconta semplicemente le sue vicende: le trasfigura in simbolo. Ecco l’artista che si erige a profeta, martire, visionario. È un atteggiamento che ha sedotto generazioni di ammiratori, ma che andrebbe guardato con sospetto: dietro l’eroismo romantico, vi è un’operazione di auto-narrazione, di costruzione consapevole della propria leggenda. Tra i materiali più rivelatori dell’esposizione, vi è infine il taccuino personale. Qui Gauguin appare non più come l’asceta delle isole, ma come uomo concreto, alle prese con la contabilità: dipinti venduti, barattati, donati. È il lato pratico che la mitologia artistica ha a lungo occultato, preferendo l’immagine dell’artista maledetto e solitario. In quelle pagine compaiono i nomi di Vincent van Gogh ed Émile Bernard, a dimostrazione di come la rete dei rapporti europei rimanesse imprescindibile. Gauguin non fu mai davvero isolato; fu piuttosto un artista che oscillava tra il bisogno di fuga e l’impossibilità di recidere il legame con il proprio mondo. Il percorso espositivo, prodotto da Navigare srl, ha il merito di riunire materiali eterogenei, offrendo al visitatore un quadro complesso. Ma il rischio è quello di cedere all’incanto decorativo, lasciando intatto il mito dell’esotismo come rifugio incontaminato. È invece compito della critica smascherare questa illusione. Gauguin non documentò la Polinesia: ne fece un teatro simbolico, proiezione della propria inquietudine e della propria ribellione. In questo senso, la collocazione della mostra al Museo Storico della Fanteria assume un significato che va oltre l’aneddoto. L’esotismo di Gauguin non è innocente: è parte di un processo di appropriazione culturale che, nel XIX secolo, procedeva di pari passo con l’espansione coloniale. L’artista, forse senza piena coscienza, trasformò in ornamento ciò che altri, in Europa, trasformavano in possedimento politico. Ecco allora che visitare la mostra diventa un esercizio critico: occorre guardare dietro la patina colorata, dietro la grazia delle xilografie e dei disegni, per cogliere la contraddizione di un’arte che si proclama fuga e invece resta intrappolata nel suo stesso orizzonte europeo. È questo, paradossalmente, il vero valore dell’esposizione: non tanto illustrare Gauguin, quanto smascherarne le mitologie. Il visitatore disposto a superare la fascinazione superficiale troverà in queste sale non il sogno di un eden ritrovato, ma l’immagine di un artista europeo che fa del mito esotico il palcoscenico della propria autocelebrazione. Ed è bene ricordarlo, oggi più che mai, mentre il discorso sull’arte e sull’alterità rischia di cadere nella complicità acritica.

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro di San Carlo: “Tosca” dal 10 al 23 settembre 2025

Ven, 05/09/2025 - 19:00

Dal 10 al 23 settembre 2025, al Teatro di San Carlo, va in scena Tosca: melodramma in tre atti di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, tratto dal dramma La Tosca di Victorien Sardou. Le date delle repliche sono le seguenti: 12, 13, 14, 16, 20, 21, 23 settembre 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Dan Ettinger. Maestro del Coro del San Carlo, Fabrizio Cassi. Con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo, diretto da Stefania Rinaldi. La regia è a firma di Edoardo De Angelis, con scene di Mimmo Paladino, costumi di Massimo Cantini Parrini, luci di Cesare Accetta e video di Alessandro Papa.
Nel ruolo di Floria Tosca: Sondra Radvanovsky (10, 13), Anna Pirozzi (16, 21), Carmen Giannattasio (12, 14, 20, 23); Mario Cavaradossi è, invece, interpretato da Francesco Meli (10, 13, 16, 21), Vittorio Grigolo (12, 14), Yusif Eyvazov (20, 23); Nel ruolo del barone Scarpia: Luca Salsi (10, 13, 16, 21), Claudio Sgura (12, 14, 20, 23). Completano il cast: Lorenzo Mazzucchelli (Cesare Angelotti), Pietro Di Bianco (Il Sagrestano), Francesco Domenico Doto (Spoletta), Vsevolod Ishchenko (10, 13, 16, 21), Giuseppe Todisco (12, 14, 20, 23) (Sciarrone), Ville Lignell (10, 13, 16, 21), Giuseppe Scarico (12, 14, 20, 23) (Un carceriere), da annunciare (Un pastore). Una Produzione del Teatro di San Carlo. Qui per tutte le informazioni. Foto Luciano Romano

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: Open Day del Coro di Voci bianche il 6 settembre 2025

Ven, 05/09/2025 - 17:27

Il Teatro Regio invita all’Open Day del Coro di voci bianche, in programma sabato 6 settembre dalle ore 11 alle 13 nell’Atrio delle Carrozze.
L’evento, gratuito e aperto a tutti, sarà una lezione aperta guidata dal maestro Claudio Fenoglio, occasione per scoprire da vicino il lavoro corale dei nostri giovanissimi artisti.
Sono infatti aperte le iscrizioni alle audizioni del 15, 22 e 26 settembre per entrare a far parte della Scuola di canto corale del Coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino. Tutti i dettagli e il bando di selezione sono disponibili sul sito del Teatro Regio.
Cantare nel Coro di voci bianche è un’esperienza musicale di vita straordinaria: i bambini e i ragazzi hanno l’opportunità di crescere insieme attraverso la musica partecipando a spettacoli e produzioni del Regio e prendendo parte anche a importanti collaborazioni, come quella con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Foto Andrea Macchia

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: “Tosca”

Ven, 05/09/2025 - 11:22

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
TOSCA”
Melodramma in tre atti, Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal dramma “La Tosca” di Victorien Sardou
Musica diGiacomo Puccini
Tosca CHIARA ISOTTON
Mario Cavaradossi RICCARDO MASSI
Il barone Scarpia ROBERTO FRONTALI
Cesare Angelotti MATTIA DENTI
Il sagrestano MATTEO PEIRONE
Spoletta CRISTIANO OLIVIERI
Sciarrone MATTEO FERRARA
Un carceriere EMANUELE PEDRINI
Un pastore Solista dei Piccoli Cantori Veneziani
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Maestro dei Piccoli Cantori Veneziani Diana D’Alessio
Regia Joan Anton Rechi
Scene Gabriel Insignares
Costumi Giuseppe Palella
Light designer Andrea Benetello
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 2 settembre 2025
Se “il potere logora chi non ce l’ha” – come recita il sarcastico aforisma, coniato dal camaleontico statista francese Charles-Maurice de Talleyrand e fatto proprio da un esponente di spicco della classe politica italiana ai tempi della Prima Repubblica –, è pur vero che un uomo di potere è esposto ai rischi legati alla sua stessa posizione dominante, tra cui quello di non porre alcun limite ai propri desideri, alle proprie pulsioni, contravvenendo ad ogni principio morale, ad ogni istanza di giustizia. Ne fornisce un esempio lo Scarpia della Tosca, che Joan Anton Rechi, responsabile della regia relativa a questo nuova produzione fenicea, trasforma – con procedimento non proprio originalissimo rispetto alle recenti, forse un tantino inflazionate, tendenze del cosiddetto “regie theater” – in un dittatore, analogo a quelli che furono a capo dei vari regimi oppressivi, sorti nel corso del Novecento in Europa, Asia e America Latina. L’azione, dunque, viene trasposta negli anni Cinquanta del secolo scorso, pur senza espliciti riferimenti a un Paese in particolare. Tutto questo per evidenziare l’attualità, l’universalità delle torbide vicende narrate nel capolavoro pucciniano, sacrificando – ne valeva la pena? – le precise indicazioni del libretto, riguardo a situazioni, luoghi, contesto storico. Quanto all’eroina del titolo, il regista andorrano la identifica con una donna dal forte temperamento, che vive la vita come fosse una rappresentazione. Ma più che una “celebre cantante” vede in lei un’attrice dall’intensa, istintuale espressività (quasi un’Anna Magnani). La qual cosa si evince fin dalla prima scena, in cui la “diva” esibisce con teatrale ostentazione diversi stati d’animo, passando enfaticamente dall’amore all’odio, come se stesse recitando. Normalmente rappresentata in luoghi chiusi, claustrofobici, la Tosca di Rechi si svolge in spazi aperti, ad esprimere analogicamente l’anelito alla libertà. Il primo atto si svolge presso il portone di un’antica chiesa in restauro e in un cortile, dove si prepara una processione per la Settimana Santa, guidata da una statua della sivigliana Virgen de Macarena, ridondante di gemme e oro, e nel prosieguo si celebra lo sfarzoso Te Deum. In quello successivo l’azione passa nel giardino della casa di Scarpia, dove si fa ammirare, quale status symbol, un’elegante berlina nera e a tratti giungono i lamenti di Mario, torturato all’interno dell’edificio. Un ambiente oppressivo – dove langue Cavaradossi – costituisce la cupa scena dell’ultimo atto, dominata da scale, che non conducono in nessun luogo: corrispettivo oggettivo dell’insensatezza della violenza, nonché esplicito riferimento alle Prigioni immaginarie del Piranesi. Quanto alla direzione e alla concertazione, Daniele Rustioni – che ha fatto ritorno al Teatro La Fenice dopo avervi eseguito l’opera pucciniana nel 2019, anche allora con Chiara Isotton nel ruolo eponimo – ha proposto una lettura approfondita della partitura del grande lucchese, dimostrando di aver fatto tesoro di decenni di rappresentazioni e registrazioni leggendarie, diversamente da altri direttori storicamente meno informati. Ad ascoltare la sua interpretazione non si poteva non rievocare la splendida edizione discografica – forse ancora ineguagliata –, che vede come direttore Victor De Sabata e quali interpreti principali Maria Callas, Giuseppe Di Stefano e Tito Gobbi, o quella – altrettanto inarrivabile – con Herbert von Karajan affiancato da Leontyne Price, dallo stesso Giuseppe di Stefano e da Giuseppe Taddei. Esecuzioni di riferimento, senza nulla togliere ad altre registrazioni più recenti. Il direttore milanese assegna giustamente all’orchestra un ruolo da protagonista, riuscendo generalmente a coniugare lo spessore sinfonico del discorso musicale con la doverosa preponderanza delle linee di canto, in ossequio alla tradizione melodrammatica. Ne risulta un fluire vocale e strumentale ininterrotto, su cui si stagliano, pregnanti, i leitmotive associati a personaggi, luoghi, sentimenti, consegnandoci un Puccini vero maestro dell’orchestrazione – alla stregua di uno Stravinskij o di un Ravel – e dunque, a buon diritto, musicista di livello europeo. Un aspetto, quest’ultimo, messo in luce, in tanti anni di ricerca, dal compianto Michele Girardi, tra i massimi esegeti dell’arte pucciniana. Ottimo, nel complesso, il livello del Cast vocale. Chiara Isotton – in linea con l’impostazione registica – riesce a delineare una Tosca estroversa nella sua esibita teatralità, sfoggiando una vocalità che sa essere potente e delicata, icastica nel fraseggio, sicura negli acuti, perlacea nel timbro. Riccardo Massi è un Cavaradossi sufficientemente credibile, scevro da qualunque eccesso veristico, vocalmente generoso e sicuro negli acuti. Lontano dai soliti clichés demoniaci lo Scarpia, piuttosto introverso, di Roberto Frontali, la cui interpretazione si fonda su un fraseggio incisivo, oltre che su una vocalità duttile e nobilmente timbrata. Equilibrato il Sagrestano di Matteo Peirone, al pari dell’Angelotti di Mattia Denti. Di adeguata professionalità il restanti componenti del Cast: Cristiano Olivieri (Spoletta), Matteo Ferrara (Sciarrone), Emanuele Pedrini (Un carceriere). Davvero encomiabile la solista del Coro dei Piccoli Cantori Veneziani nell’intonare lo stornello del Pastore. Eccellente il contributo del Coro del Teatro istruito da Alfonso Caiani e dei Piccoli Cantori Veneziani guidati da Diana D’Alessio. Applausi per tutti a fine serata.

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Carlo D’Orta. Astrazioni architettoniche” dal 5 al 21 settembre 2025

Gio, 04/09/2025 - 19:00

Roma, Palazzo delle Esposizioni
CARLO D’ORTA. ASTRAZIONI ARCHITETTONICHE
a cura di Fabio Mongelli
Promotori Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
Roma, 04 settembre 2025
La fotografia di Carlo D’Orta rappresenta un esercizio di metamorfosi dello sguardo. Nata dalla più rigorosa osservazione dell’architettura, si libera progressivamente dal vincolo del documento per approdare a un linguaggio che appartiene alla pittura astratta e all’immaginario contemporaneo. La sua opera, al centro della mostra Astrazioni architettoniche ospitata dal Palazzo Esposizioni di Roma, si colloca dunque in quella tradizione che considera la fotografia non come specchio fedele, ma come dispositivo capace di tradire la realtà e restituirla in forma di visione. D’Orta, fiorentino del 1955, ha fatto della città il suo laboratorio: cemento, vetro, acciaio diventano pigmenti. Non fotografa edifici per ricordarli, né per documentarne lo stile. Li assume come pretesto, come materia grezza da piegare e trasformare. Il risultato sono immagini che non rassicurano, ma destabilizzano, che chiedono all’occhio dello spettatore di ricalibrare continuamente la propria percezione. L’esposizione riunisce quattro serie principali: Biocities, Geometrie Still Life, Vibrazioni e Paesaggi Surreali. Ognuna di esse esplora un diverso registro dell’astrazione visiva, mantenendo però costante il principio di fondo: dislocare l’architettura dal suo ruolo funzionale per restituirla come pura esperienza estetica. Biocities propone una sorta di mappa interiore delle metropoli: rettangoli, linee e colori che ricordano Mondrian o Malevič, ma traslati nel linguaggio fotografico. Non più grattacieli o facciate, bensì pattern che rivelano un ordine segreto. Geometrie Still Life è invece più intima: dettagli architettonici – angoli, finestre, travi – vengono isolati dal contesto fino a diventare oggetti autonomi, nature morte del paesaggio urbano. Con Vibrazioni e Paesaggi Surreali il linguaggio cambia registro. Qui dominano riflessi e deformazioni: lastre metalliche, superfici vetrate, specchi urbani che restituiscono la città in forme instabili, moltiplicate, quasi liquide. L’immagine diventa allora flusso, instabilità, sogno. L’eco futurista è evidente: Balla, Boccioni, Severini riecheggiano nei frammenti in movimento. Eppure c’è anche Gaudí, con le sue curve impossibili, architettura che già allora sembrava desiderosa di evadere dalla propria materia. La forza del lavoro di D’Orta risiede proprio nella contraddizione: ciò che osserviamo è, nello stesso tempo, impronta del reale e creazione autonoma. L’edificio non scompare, ma si nasconde sotto l’astrazione, come radice silenziosa. È questa tensione, sospesa e irrisolta, a dare alle fotografie il loro fascino ipnotico. La mostra romana non ha soltanto il merito di offrire al pubblico un corpus ampio e coerente, ma anche di rilanciare una riflessione sulla funzione della fotografia oggi. In un mondo saturo di immagini immediate, destinate a essere consumate e dimenticate, D’Orta sceglie un approccio opposto: sottrae invece di accumulare, rallenta invece di accelerare. Costringe a fermarsi, a guardare, a interrogarsi. Non sorprende che le sue opere abbiano trovato collocazione in istituzioni di rilievo – dalla Camera dei Deputati alla Banca d’Italia, dagli Istituti Italiani di Cultura a New York e Monaco di Baviera fino al Consolato Generale d’Italia. Sono presenze che dialogano bene con spazi istituzionali: immagini che raccontano un’Italia contemporanea, astratta, cosmopolita, diversa dai cliché monumentali, ma ugualmente rappresentativa. Il ruolo del curatore, Fabio Mongelli, è qui tutt’altro che marginale. L’allestimento nella Sala Fontana evita la trappola della ridondanza e dispone le opere come variazioni su un tema comune. Il visitatore non viene travolto da un eccesso di immagini, ma accompagnato in un percorso di progressiva immersione: dalla rigidità geometrica di Biocities alla fluidità instabile dei Paesaggi Surreali. Una scala percettiva, in cui ogni passo conduce più lontano dal documento e più vicino alla visione. L’impressione che si ricava, uscendo dalla mostra, è quella di aver fatto esperienza di una città parallela: non Roma, Milano o Berlino, ma un paesaggio urbano astratto, universale, costruito di riflessi e superfici. Una città che non esiste, eppure abita la nostra memoria visiva con la stessa intensità delle città reali. Questa operazione, per quanto raffinata, non ha nulla di elusivo. Non è un gioco intellettuale per pochi iniziati. È un invito chiaro a guardare di nuovo ciò che ci circonda. Perché un palazzo non è solo un palazzo, una vetrata non è solo un confine trasparente. Sono anche campi di colore, linee, prospettive che attendono di essere viste in altro modo. L’arte di D’Orta ha dunque un valore educativo: insegna a non fidarsi troppo del primo sguardo, a sospettare che sotto la superficie della realtà ci sia sempre un altro livello, pronto a rivelarsi se osservato con attenzione. È questa pedagogia dello sguardo che rende Astrazioni architettoniche una mostra necessaria, in grado di parlare a un pubblico vasto senza semplificare. Carlo D’Orta propone con la sua fotografia una lezione che riguarda non soltanto l’arte, ma il nostro modo di vivere lo spazio urbano. Ogni città è insieme solida e instabile, riconoscibile e sconosciuta. L’occhio che sa guardare, e che accetta di lasciarsi sorprendere, scopre che la realtà non è mai univoca, ma molteplice. La fotografia, allora, non è più specchio: è metamorfosi.

 

Categorie: Musica corale

Venezia, Asolo Musica Veneto Musica: riparte la Stagione il 6 settembre 2025 con il Quartetto di Cremona

Gio, 04/09/2025 - 18:18

Dopo la pausa estiva, la grande musica torna protagonista con la ripresa dei concerti firmati Asolo Musica Veneto Musica all’Auditorium Lo Squero Fondazione Giorgio Cini, nell’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, rassegna giunta alla sua decima stagione concertistica, che prosegue con sei appuntamenti dal 6 settembre al 6 dicembre 2025, con la direzione artistica di Federico Pupo.
Il primo appuntamento in calendario è previsto sabato 6 settembre con l’esibizione del Quartetto di Cremona, formazione che fin dalla propria fondazione nel 2000 si è affermata come una delle realtà cameristiche più interessanti a livello internazionale. Il Quartetto, formato da Cristiano Gualco al violino, Paolo Andreoli al violino e viola, Simone Gramaglia alla viola, viola tenore e al flauto dolce e Giovanni Scaglione al violoncello, con il principale intento di offrire un’interpretazione fedele alla partitura originale, si cimenterà in una particolarissima esecuzione ad hoc de L’Arte della Fuga BWV 1080 di Bach, uno dei vertici più alti della polifonia contrappuntistica nella storia della musica, in cui in totale gli strumenti sul palco saranno sette anziché quattro. Qui per il Programma del concerto. Qui per il Calendario di Asolo Musica Veneto Musica. Tutti i concerti avranno inizio alle ore 16:30.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Basilica: “Mania” La nuova stagione

Gio, 04/09/2025 - 12:37

Roma, Teatro Basilica
MANIA
«Le mani sono l’anima dell’uomo» scriveva Alda Merini, e proprio dalle mani, simbolo di lavoro, creatività e cura, prende avvio Mania, la settima stagione del TeatroBasilica di Roma, diretta da Alessandro Di Murro e Daniela Giovanetti con la consulenza artistica di Antonio Calenda. Una stagione che sceglie come parola chiave la follia sacra evocata dall’antica Grecia, quella mania che non è perdita di ragione ma visione estasiata, capace di guardare oltre e di svelare verità profonde e inattese. Dal 2019, il TeatroBasilica in Piazza di Porta San Giovanni è diventato uno dei poli più vivaci della scena romana, con le sue cento poltroncine rosse e un pubblico sempre più fedele. Nato come spazio di resistenza culturale, il teatro non si limita a ospitare spettacoli ma si offre alla città come luogo di incontro, laboratorio, mostra, presentazione di libri, e soprattutto come comunità in cui riscoprirsi attraverso la relazione che solo la scena sa restituire. La nuova stagione prende avvio a fine settembre con Pluto. O il dono della fine del mondo, riscrittura di Aristofane firmata dal Gruppo della Creta, compagnia residente del Basilica. È il segno di un percorso che intende coniugare riflessione e satira, memoria e futuro. Da ottobre in poi si alternano spettacoli che attraversano i miti e la politica, l’intimità e la storia, firmati da artisti che hanno già ridefinito il teatro contemporaneo e da nuove voci emergenti. Dalla poesia scenica di Sista Bramini a Arlecchino servitore del prodotto interno lordo di Filippo Renda, da 666. PPP – Quel diavolo di Pasolini di Manfredi Rutelli fino al ritorno in scena di Oscar De Summa, la stagione compone un mosaico ricco e radicale che proseguirà fino a maggio 2026. Il cartellone ospita più di trenta titoli e accoglie alcuni dei protagonisti più significativi del panorama nazionale: Roberto Latini, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Andrea Cosentino, Elena Bucci, Saverio La Ruina, Daniele Parisi. Accanto a loro, giovani compagnie e nuovi drammaturghi che trovano nel Basilica un laboratorio di ricerca e di crescita. È proprio questa compresenza generazionale a fare del teatro una fucina, un luogo che custodisce il passato e allo stesso tempo alimenta il futuro. La stagione si arricchisce con gli Extra-Mania, eventi collaterali che ampliano lo sguardo verso territori di sperimentazione e formazione. Fra questi spiccano Nelle puntate precedenti: Scatenare incendi, una saga familiare in cinque episodi ideata dal Gruppo della Creta con Pier Lorenzo Pisano, e il progetto Aristofane nostro contemporaneo, curato da Antonio Calenda, che intreccia laboratori, giornate di studio e spettacoli, restituendo l’attualità del grande autore greco. Questi percorsi si affiancano a iniziative che mescolano teatro, sport, musica e geopolitica, dal progetto Iliade – Prove di drammaturgia dello sport firmato da Biancofango alle residenze didattiche con l’Università La Sapienza, fino a OnStage! Letture americane, rassegna che porta in Italia testi inediti della nuova drammaturgia statunitense. Il TeatroBasilica è reso vivo da una comunità artistica compatta. Attorno ai direttori artistici e al Gruppo della Creta si muove una squadra di organizzatori, tecnici e comunicatori che condividono un obiettivo comune: mantenere lo spazio vivo e aperto, capace di accogliere non solo gli spettatori ma anche le idee. La compagnia ministeriale under 35 ha fatto del teatro la propria casa creativa, costruendo produzioni originali, sostenendo giovani autori e partecipando con energia a ogni fase della vita del luogo. Nel corso degli anni, accanto ai grandi maestri della scena, il Gruppo ha firmato spettacoli come Pluto o il dono della fine del mondo, Finzioni e Beati Voi, e continua a proporre progetti di drammaturgia inedita e innovativa. Con Mania il TeatroBasilica rilancia la sua vocazione alla visione, concependo il teatro come atto necessario in un futuro incerto. La programmazione alterna satira politica e memoria storica, riscrittura dei classici e indagine sul contemporaneo, senza rinunciare alla leggerezza ironica e alla poesia del linguaggio teatrale. Dalla riflessione sull’identità e sul rapporto tra uomo e macchina de La stanza di Julio Cortázar, all’happening di Andrea Cosentino che mette alla prova l’intelligenza artificiale, fino al grido satirico di Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri in La Sparanoia, la stagione indaga con coraggio le domande del presente. Non mancano progetti che uniscono discipline diverse: dal mito sportivo di Maradona reinventato da Christian Raimo alla rassegna di danza contemporanea Nel Blu, fino ai cicli di incontri curati dal Limes Club e ai laboratori che offrono agli spettatori la possibilità di conoscere da vicino artisti e processi creativi. La stagione si chiuderà con il Festival di Teatro Azione a giugno 2026, confermando la vocazione del Basilica a intrecciare formazione, spettacolo e sperimentazione. «Chi entra in un teatro sceglie di investire la propria libertà e il proprio tempo in una relazione viva, quella che soltanto la scena può restituire» sottolineano i direttori artistici. In questo spirito, Mania diventa un manifesto di teatro necessario, un atto collettivo che si rinnova sera dopo sera. Con oltre otto mesi di programmazione e una varietà di linguaggi, il TeatroBasilica si conferma un laboratorio di idee e di visioni, fedele alla sua missione di costruire ponti tra artisti, spettatori e città. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Mattatoio di Testaccio: “Short Theatre” dal 05 al 14 settembre 2025

Gio, 04/09/2025 - 12:17

Roma, Mattatoio di Testaccio
SHORT THEATRE 2025: VENT’ANNI DI CREAZIONE CONTEMPORANEA A ROMA
5 – 14 settembre 2025 | Mattatoio, Teatro India, Teatro Vittoria, Palazzo dei Congressi
Dal 5 al 14 settembre 2025 torna Short Theatre, festival internazionale dedicato alla creazione contemporanea e alle performing arts, che celebra i suoi vent’anni con un’edizione speciale. Dieci giorni di programmazione, oltre 70 appuntamenti e più di 35 compagnie e progetti artistici provenienti da Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Filippine, Iran, Libano, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Francia, Svizzera e Paesi Bassi. «Vent’anni sono un traguardo importante – sottolinea Massimiliano Smeriglio, Assessore alla Cultura di Roma Capitale – che confermano Short Theatre come tassello fondamentale per la creazione contemporanea e per l’impegno verso inclusione e accessibilità».
Per la prima volta, il festival è affidato a un gruppo curatoriale plurale composto da Silvia Bottiroli, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo e Michele Di Stefano, che immaginano un percorso innovativo e sperimentale. ST25 si configura come spazio di ideazione e invenzione, aperto alla contaminazione di linguaggi e alla creazione condivisa con artisti, compagnie e centri di ricerca.
Il cuore del festival resta il Mattatoio di Testaccio, sede dal 2010 grazie al sostegno dell’Azienda Speciale Palaexpo, ma la ventesima edizione apre una nuova traiettoria triennale che abiterà spazi eccezionali della città, dal Palazzo dei Congressi al Teatro Vittoria, senza dimenticare il Teatro India, luogo d’origine del festival, in collaborazione con il Teatro di Roma – Teatro Nazionale.
Accanto a partner storici, nascono nuove sinergie:

  • Urban Vision Group, Main Sponsor 2025, trasformerà con proiezioni urbane lo spazio cittadino in dialogo con il festival;

  • Magliano, brand di moda italiano, firmerà una capsule collection di oggetti e abiti dedicati;

  • EUR SpA permetterà l’approdo del festival al Palazzo dei Congressi;

  • la casa di produzione Grøenlandia realizzerà PIOGGIA, progetto che intreccia cinema e pratiche dal vivo;

  • Teatro dell’Opera di Roma partecipa con un laboratorio di Nadia Beugré e mette a disposizione un costume storico di Carla Fracci;

  • si rinnova la collaborazione con Romaeuropa Festival per la creazione di Anne Teresa De Keersmaeker e Rabih Mroué.
    Il cartellone intreccia generazioni, linguaggi e geografie. Tra i momenti principali:

  • A little bit of the moon di Anne Teresa De Keersmaeker e Rabih Mroué (8-9 settembre, Teatro India);

  • U. (Un canto) di Alessandro Sciarroni, performance musicale per sette voci (9-10 settembre, Teatro Vittoria);

  • Le repos di Clara Delorme (10-11 settembre), riflessione coreografica sul lutto;

  • Whatever I am / let it be seen di Giorgia Ohanesian Nardin (5-6 settembre), elegia tra danza e scrittura lirica;

  • Epique! di Nadia Beugré, che esplora le radici della Costa d’Avorio;

  • la nuova creazione di Dewey Dell sugli ex-voto (6-7 settembre);

  • Darkness Pic Nic del collettivo DOM- (13-14 settembre), banchetto performativo urbano;

  • Άνοιξη / Άnixi di Alexia Sarantopoulou (13-14 settembre), ispirato alla poesia di Derek Jarman;

  • We Came to Dance di Ali Asghar Dashti & Nasim Ahmadpour (9-10 settembre), dedicato alla censura della danza in Iran;

  • Analphabet di Alberto Cortès (6-7 settembre), sul tema della violenza nelle relazioni;

  • L’avvenire di Silvia Rampelli / Habillé d’eau (10-11 settembre);

  • Landscape di Elena Antoniou (13-14 settembre).

Ogni giornata sarà arricchita dal format musicale Salon con dj e musicisti romani. Spazio anche all’arte visiva con la video-installazione They Shoot Horses di Phil Collins e con l’immagine guida del festival firmata da Noura Tafeche.
ST25 rafforza la sua vocazione educativa con CLASSE, istituto nomade di pensiero a cura di AREA06, che coinvolge artiste/i, studiose/i e attivisti in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Roma, Università Roma Tre e MUCIV. Previsti laboratori per l’infanzia in collaborazione con Fatatrac e Palazzo delle Esposizioni.
Il festival riafferma il suo impegno verso accessibilità e inclusione, attivando dispositivi dedicati (interpretariato LIS, sottotitolazione, audiodescrizione, biglietto sospeso) e garantendo la presenza di soggettività spesso marginalizzate nei processi artistici. Short Theatre 2025 si conferma laboratorio di innovazione, ponte tra locale e globale, capace di trasformare Roma in crocevia di immaginazione radicale e sperimentazione artistica. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Afanador” 4-5 settembre 2025

Gio, 04/09/2025 - 12:07

Roma, Teatro dell’Opera
OPENING ROMAEUROPA FESTIVAL 2025 CON TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Ballet Nacional de España
“AFANADOR”
Coreografia Marcos Morau
Progetto speciale nell’ambito dei 160 anni delle relazioni diplomatiche Italia – Spagna
Con il sostegno al REF di Ambasciata di Spagna, Instituto Cervantes e Banca Ifis
È stata presentata ieri presso la Residenza dell’Ambasciata di Spagna al Gianicolo l’apertura del 40esimo Romaeuropa Festival. A inaugurarlo sarà questa sera 4 settembre lo spettacolo Afanador del coreografo Marcos Morau, un progetto speciale iniziato un anno e mezzo fa per celebrare i 160 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Spagna e che ha ricevuto il sostegno dell’Ambasciata di Spagna, dell’Instituto Cervantes e di Banca Ifis. Dopo il successo dell’anno scorso dell’Aterballetto con Notte Morricone, quest’anno protagonista dello spettacolo di Morau il 4 e il 5 settembre è il Ballet Nacional de España, diretto da Rubén Olmo, la compagnia pubblica di riferimento per la danza spagnola sin dalla sua fondazione nel 1978 con Antonio Gades come primo direttore. L’ispirazione deriva dal fotografo colombiano Ruvén Afanador noto per la sua visione onirica delle stelle del flamenco. «Quando ho iniziato ad allestire questo spettacolo, ispirato e affascinato dai libri di Afanador “Ángel Gitano” e “Mil Besos”, sapevo che non sarebbe stato un semplice tentativo di imitare la bellezza in essi contenuta poiché le magistrali sessioni fotografiche dell’artista in Andalusia sono irripetibili. Sarebbe impossibile ricreare quell’alchimia tra il fotografo e i personaggi di grande carisma che ha ritratto. “Afanador” osserva il flamenco attraverso una lente deformante, una lente fatta di sogni, desideri e ricordi. Il suo sguardo surrealista è molto simile allo sguardo sul mondo che si è sviluppato nel lavoro di questi anni con la mia compagnia, La Veronal: uno sguardo che cerca di non rappresentare il mondo esistente, ma di inventarne di nuovi» spiega Marcos Morau. Sede dell’evento d’apertura del Festival è anche quest’anno il Teatro dell’Opera di Roma, una collaborazione che come ha specificato il sovrintendente Francesco Giambrone non è strumentale, ma nasce da una comunanza di visioni. Diverse saranno però le istituzioni coinvolte lungo il corso dell’intera programmazione, tra cui l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, la Fondazione Teatro di Roma, l’Accademia Tedesca di Roma – Villa Massimo, Villa Medici – Accademia di Francia a Roma, l’Azienda Speciale Palaexpo – Mattatoio, la Fondazione Cinema per Roma, il Maxxi – Museo delle arti del XXI secolo, la Fondazione Musica per Roma, l’Auditorium Conciliazione, il Teatro Vascello, il Teatro Brancaccio, Short Teatre. Ciò che contraddistingue il REF è l’attenzione alla pluralità dei linguaggi, la dimensione del dialogo, la condivisione dell’immaginazione, la libertà artistica, valori che anche quest’anno vengono riaffermati. Il Festival come ricorda il Presidente della Fondazione Romaeuropa Guido Fabiani è nato nel 1986 come un’utopia, con l’entusiasmo di chi credeva che la cultura potesse cambiare la realtà. Da sempre si è segnalato per la ricerca dell’eccellenza e per l’apertura alla sperimentazione. Oggi come afferma il Direttore Generale e Artistico della Fondazione Romaeuropa Fabrizio Grifasi la sua politica culturale non teme l’assunzione del rischio di ben 110 spettacoli per 250 repliche, ospitando artisti di tutto il mondo e sostenendo la giovane creatività. Fondamentale il rapporto con il pubblico, che già l’anno scorso ha risposto con oltre 60.000 presenze e quest’anno riparte con 20.000 biglietti già venduti. Il Festival, del resto, non trascura l’attenzione alle famiglie: la sezione REF Kids & Family dedica all’infanzia i linguaggi di musica, teatro e circo, nonché un playground ad accesso gratuito. La grande novità di quest’anno è ULTRA REF che al Mattatoio di Testaccio rafforza la propensione del Festival per l’innovazione grazie alla sezione musica ULTRA CLUB a cura di Matteo Antonaci, Giulia Di Giovanni e Federica Patti ed ai Dancing Days a cura di Francesca Manica in rete con Aerowaves. Un festival che riconferma l’importanza di Roma come capitale europea, che sa mettere in connessione tradizione e modernità, e che è senz’altro glocal come ama definirlo l’Assessore alla Cultura, alle Pari Opportunità, alle Politiche Giovanili della Famiglia, al Servizio Civile della Regione Lazio Simona Renata Baldassarre. All’interno di questa cornice, lo spettacolo Afanador si presenta come “un gioco di trasmissioni”. Morau è stato un fotografo prima di dedicarsi alla coreografia. Il fotografo Afanador ama invece confrontarsi con il linguaggio del flamenco. Attraverso lo sguardo del fotografo e la regia del coreografo la danza spagnola si pone a servizio del creato, a servizio della comunità. C’è da dire però che in Italia Morau si sente a casa e con il Festival ha in comune l’età. Non resta che sperare di progredire insieme. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Porto Cervo, Classical Music Festival Costa Smeralda: al via la sesta edizione dal 4 settembre 2025

Mer, 03/09/2025 - 19:15

Al via la sesta edizione del Classical Music Festival Costa Smeralda: ritorna a Porto Cervo l’appuntamento con la grande musica classica e i suoi prestigiosi artisti, organizzato dal Consorzio Costa Smeralda.
Un programma concertistico che, secondo tradizione, si svilupperà in più giornate: da giovedì 4 settembre, per l’inaugurazione della rassegna musicale, cui seguiranno gli appuntamenti di lunedì 8 settembre, mercoledì 10 settembre e venerdì 12 settembre.
Tutti gli eventi musicali si svolgeranno al Cervo Conference Center di Porto Cervo, a partire dalle ore 21:30.
L’apertura è stabilita per il 4 settembre 2025 e sarà affidata al celebre sopranista Bruno De Salunes, accompagnato dall’Orchestra Antonio Vivaldi di Venezia, con i suoi solisti di eccezione, guidata dal Konzertmeister Guglielmo De Stasio. Il programma prevede diverse arie tra le più celebri del repertorio Barocco. Qui per ulteriori informazioni e per il programma completo del Festival. Ingresso libero per tutti gli appuntamenti.
In foto: la celebre flautista Silvia Careddu, che eseguirà il Concerto di Mozart per Flauto e Orchestra e altri brani celebri, nella quarta e conclusiva serata, calendarizzata per venerdì 12 settembre.

Categorie: Musica corale

Pagine