Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2023/24
“DAS RHEINGOLD”
Prologo in un atto su libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
Wotan MICHAEL VOLLE
Donner ANDRÈ SCHUEN
Froh SIYABONGA MAQUNGO
Loge NORBERT ERNST
Alberich ÓLAFUR SIGURDASON
Mime WOLFGANG ABLINGER-SPERRHACKE
Fasolt JONGMIN PARK
Fafner AIN ANGER
Fricka OKKA VON DER DAMERAU
Freia OLGA BESZMERTNA
Erda CHRISTA MAYER
Woglinde ANDREA CARROLL
Wellgunde SVETLINA STOYANOVA
Flosshilde VIRGINIE VERREZ
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Alexander Soddy
Regia David McVicar
Scene David McVicar e Hannah Postethwaite
Costumi Emma Kingsbury
Luci David Finn
Coreografie Gareth Mole
Video Katy Tucker
Milano, 10 novembre 2024
Un nuovo Ring è sempre un evento e il nuovo ciclo scaligero partito con spolvero di nomi altisonanti si è subito scontrato con la perdita di quella che doveva essere l’anima del progetto ovvero Christian Thielemann, costretto a rinunciare per motivi di salute. Una perdita molto pesante cui il teatro ha però saputo rispondere con prontezza dividendo le recite tra Simone Young cui è stata affidata la prima e le recite seguenti e Alexander Soddy, direttore inglese in forte ascesa cui sono state destinate le recite successive. Abbiamo ascoltato lo spettacolo con la direzione di Soddy e ne siamo stati pienamente convinti. Il direttore inglese è ancora giovane ma possiede una solidissima formazione alle spalle comprendente prove wagneriane su palcoscenici del peso di Vienna, Londra e Berlino fornisce una lettura di grande coerenza formale. Soddy opta per un suono ricco, morbido, avvolgente, di grande suggestione che trova nei momenti più luminosi il terreno ideale ma è capace di dare giusto rilievo anche ai momenti più drammatici – nella scena dei giganti ci sono lamine sonore che entrano nella pelle. In Soddy si apprezza una cura estrema per i dettagli, una capacità di evidenziare e valorizzare i singoli leitmotiv mantenendo sempre una rigorosa costruzione unitaria. Il debutto è stato certo molto positivo, si attende con interesse il prosieguo della Tetralogia. David McVicar firma uno spettacolo molto stratificato, apparentemente trasparente ma ricco di simboli e di rimandi. Il regista scozzese rinuncia ad attualizzazioni e forzature, non cerca abissi psicanalitici e per una volta assistiamo a un Ring forse non tradizionale ma che a quell’immaginario rimanda rileggendolo con gli occhi della fiaba e del fantasy (che in fondo proprio dal Ring trae le sue prime mosse).Il racconto è lineare, le scene hanno un sapore incantato – le grandi mani lapidee avvolte da una luce azzurra e acquatica sui cui giocano le Figlie del Reno, la semplice scalinata della Valhalla che le luci trasformano quasi in un corpo vivo ma in queste strutture semplici McVicar deposita stratificazioni di simboli e di rimandi lasciando allo spettatore il gioco di coglierli. La tradizionale estetica nibelungica è qui sostituita da richiami al teatro barocco, come se l’idea stessa di opera d’arte totale riportasse alla nascita stessa dell’opera. Gli abiti delle divinità richiamano quelli della storica trilogia monteverdiana di Ponnelle e la natura sessualmente ambigua, spesso ermafroditica, delle divinità norrene porta il regista a giocare sul tema. Esemplare la figura di Loge tenore in abiti femminili, essere sfuggente a ogni classificazione anche sessuale ma al contempo richiamo ai tenori en travesti cui il teatro barocco affidava spesso ruolo di subdole consigliere. Una sorta di Loge-Arnalta in cui il gioco dell’ambiguità e i richiami meta-teatrali si fondono in modo inscindibile. Molto bello il quadro di Nibelheim. Il rifiuto dell’Amore ha creato un mondo morto e quello che Alberich può creare è solo una falsa illusione di morte vivente. L’oro ha creato un gigantesco teschio-forno che divora tutto ciò che viene prodotto e le trasformazioni di Alberich altro non sono che scheletri in cui una falsa magia evoca fittiziamente la vita. Ancora un riferimento a Ponnelle si riconosce nei servi muti che non muovono gli oggetti di scena ma ne diventano essi stessi parte come il danzatore chiamato a impersonare l’Oro, figura immateriale coperta da una maschera aurea che ricorda le linee di Brancusi che nell’ultima scena ritornerà ingigantita in una sorta di sarcofago in cui va celata la figura di Freia mentre il danzatore ricompare con il volto coperto di sangue dove la maschera è stata strappata. Spettacolo quindi molto più ricco di quanto appaia di primo acchito cui si può forse imputare solo un lavoro attoriale un po’ generico. Nel cast emerge il Wotan vocalmente e scenicamente autorevole di Michael Volle. Voce ampia, possente, ricchissima di armonici, dal colore scuro e già da subito come venato di sentori tragici. Interprete di qualità superiore scava il fraseggio in ogni piega in un gioco di accenti e inflessioni perfettamente riuscito. Vocalmente sontuoso il Donner di Andrè Schuen capace di far brillare un ruolo in fondo secondario, Siyabonga Maqungo è un Froh dal timbro radioso e dal canto morbidissimo, elegante e facile sugli acuti. Interprete sensibile ma vocalmente un po’ spento il Loge di Norbert Ernst, sono comunque parse eccessive le contestazioni di cui è stato fatto oggetto. Voce un po’ chiara ma ampia e sonora e interpretazione nobilmente misurata per la Fricka di Okka von der Damerau mentre la Freia di Olga Bezsmertna sfoggia un timbro morbido e sensuale che ben si addice alla Dea dell’amore unito a una linea di grande musicalità. L’Erda di Christa Mayer manca forse di volume sui gravi ma la voce è molto bella e il canto ha un’intensità morbida e quasi materna non scevra di una sensualità che giustifica le preoccupazioni di Fricka. Di grande rilievo l’Alberich di Ólafur Sigurdarson. Voce di notevole ampiezza, robusta e ben controllata e interprete efficacie, di una malvagità meno plateale ma più sfumata e insidiosa. Ottimo il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke voce duttile e puntuale, perfettamente piegata al ruolo. Tra i giganti bene il Fasot di Jongmin Park voce ampia e morbida, ricca di armonici e dal canto rifinito mentre Ain Anger (Fafner) è sicuramente efficacie come interprete ma è aspro e faticoso nel canto. La Figlie del Reno cantano in modo squisito e con tutta la freschezza richiesta. Foto Brescia & Amisano
Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Constantinos Carydis
Violino Karen Gomyo
Periklis Koukos (1960): Adagio per orchestra d’archi (1993); Leonard Bernstein: Serenade per violino, orchestra d’archi, arpa e percussioni dal Symposium di Platone; Charles Ives Hymn: Largo cantabile. S 84/1; Robert Schumann: Sinfonia n.3 in MI bemolle Maggiore op.97. “Renana”.
Torino, 8 novembre 2024.
La locandina annunciava una serata difficile, poco noti, ad essere ottimisti, gli esecutori ed altrettanto, ad eccezione della Renana di Schumann, i pezzi. Quando poi vuol andare storta ci si mette anche lo sciopero dei mezzi pubblici e la sala semi-vuota è ineluttabile. Tutti, ma tanti, una quarantina, gli archi sul palco per l’ineffabile Adagio di Periklis Koukos. Parrebbe questi essere un autore assai prolifico, da noi comunque non praticato e quindi sconosciuto. Purtroppo, i 5 minuti dell’Adagio non si mostrano sufficienti a promuoverne la fama. Direttore greco, autore greco, forse l’incontro era inevitabile. Tutto soffuso e tutto sfumato, piacevole e in conclusione: garbata musica d’altri tempi. Con sempre in formazione la quarantina di archi addizionati di due arpe e cinque postazioni di percussioni: batteria, campane, piatti, timpani e vibrafono; è l’insolita formazione che Leonard Bernstein, nel 1954, vuole per la sua Serenade per violino. Il pezzo è sostanzialmente un concerto per violino e orchestra d’archi in cinque tempi. La fantasia di Bernstein e i suoi “marchi”, echi delle opere passate e di quelle future, sono ben individuabili, compresi gli onnipresenti temi della West Side Story che verrà. L’atmosfera è quella “radical chic”, così fu definita da Tom Wolfe, creata dall’assembramento, soprattutto gayo, che si coagulava, in estate, su un’isola di Bernstein, nel Massachusetts, di fronte all’Atlantico. Il Simposio di Platone, e che altro poteva essere, era l’oggetto degli scambi di dottissime e amorose considerazioni tra i convenuti. Bernstein ne fa l’assai forzata trama della sua Serenata. Cinque protagonisti del dialogo platonico, vengono trasferiti nei titoli dei tempi della musica. L’atmosfera che si crea è serena, tranquilla e amorevole, gli archi vi sottolineano, con tranquilla passione, la partecipazione psicologica dell’autore con l’inevitabile coinvolgimento del pubblico. Il violino, un ignoto di nome e di data Stradivari, sotto le portentose dita dell’elegantissima ed affascinante Karem Gomyo, sostiene e riassume, con inaudito virtuosismo, lo spirito dell’opera. Le percussioni, che mai si sono udite così discrete in una composizione novecentesca, rafforzano la sensazione di scambi lontani nel tempo e nello spazio. Nell’adagio Agathon, quarto movimento, c’è poi una formidabile cadenza che, con il violino solista, ha fatto ammirare il meraviglioso timbro e la stupenda cavata di Luca Magariello, primo violoncello dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. L’esecuzione ha suscitato un’unanime approvazione, intensificata all’indirizzo della solista che, per i ripetuti battimani, ha concesso come fuori programma due languidi e appassionati Tanghi di Astor Piazzolla, sua specialità e opportuna promozione di un suo recente CD.
Dopo l’intervallo, l’orchestra si ricostituisce nei suoi ranghi completi e attacca i 3 minuti, ancora per soli archi, di Hymn di Charles Ives. Il pezzo è la citazione elaborata di due canti della chiesa presbiteriana, un tocca e fuggi cui, con grande sorpresa del pubblico, Carydis fa immediatamente seguire, senza pausa, le fanfare iniziali della Renana di Schumann. Non è chiara la ragione di questa scelta direttoriale, tanto valeva quindi, in qualche modo, anticiparla al pubblico. Visto che, tra gli sprovveduti in sala, si è naturalmente portati a credere che tra Ives e Schumann le affinità stilistiche e psicologiche scarseggino. La sinfonia, nelle mani del direttore greco, appare assolutamente scombinata, istintiva e impulsiva, carica comunque di gran fascino. Timbri e ritmi dominano, esaltando così le grandissime qualità dell’OSNRAI e dei suoi solisti, in specie legni e ottoni che rifulgono in tutta la loro chiara evidenza. Carydis su questo spirito istintivo fonda la sua interpretazione, così intenzionalmente dimentica e trascura come, nelle sinfonie del romantico Schumann, la “forma”, la logica, le simmetrie e le polifonie abbiano una fondamentale consistenza costruttiva. Pare che il direttore tenga, come unica traccia del lavoro, gli intemperati disorientamenti mentali di cui l’autore era vittima. A noi, che non la riteniamo una strada del tutto errata ma innovativa, suscita comunque un grande fascino. Il giudizio su Carydis deve necessariamente essere cautelativo, una sola serata e un solo Schumann non bastano a fissare un’opinione. Ci vorrebbero, a conferma dell’immediato innegabile fascino, delle riprove. Il pubblico, che pur si è mostrato non completamente convinto dalla validità di quanto ascoltato, non si è sottratto dall’applaudire. Foto Sergio Bertani
Roma, Galleria Borghese
POESIA E PITTURA NEL SEICENTO. GIOVAN BATTISTA MARINO E LA MERAVIGLIOSA PASSIONE
Con Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione la mostra in programma dal 19 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, la Galleria Borghese esplora con un progetto inedito le connessioni tra poesia e pittura, sacro e profano, letteratura, arte e potere nel primo Seicento. Seguendo la traccia offerta dai testi di Giovan Battista Marino (1569-1625), la mostra disegna un percorso attraverso la grande arte rinascimentale e barocca, da Tiziano a Tintoretto, da Correggio ai Carracci, da Rubens a Poussin, celebrando il più grande poeta italiano del Seicento e la sua “meravigliosa” passione per la pittura. A cura di Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza, l’esposizione si concentra sulla stagione d’oro del Barocco in pittura e in letteratura, un periodo durante il quale il rapporto tra le due arti trova forse l’espressione più alta nella vita e nelle opere del poeta. Noto per il suo poema Adone (1623), incentrato sulla storia d’amore tra Adone e Venere, Giovan Battista Marino è infatti autore anche de La Galeria (1619), una raccolta di 624 componimenti poetici dedicati ad altrettante opere d’arte divise tra Pitture e Sculture, Favole e Historie, realizzata con un gioco di rispecchiamenti e di continua sfida espressiva tra testi poetici e opere d’arte, reali o immaginarie. La vita e la produzione letteraria di Giovan Battista Marino sono strettamente legate ai maestri e ai capolavori dell’arte figurativa di primo Seicento, con i quali entra in contatto nei circoli intellettuali e nelle corti più importanti dell’epoca, quella di Matteo di Capua a Napoli, di papa Clemente VIII Aldobrandini a Roma, di Giovan Carlo Doria e Giovan Vincenzo Imperiali a Genova, di Carlo Emanuele I a Torino; in questi ambienti, al cospetto di ricche collezioni, il poeta stringe rapporti diretti con artisti come il Cavalier d’Arpino, Bernardo Castello, Caravaggio, Agostino Carracci, Ludovico Cigoli e Palma il Giovane. Nel 1615, perseguitato dall’Inquisizione, Giovan Battista Marino è costretto a lasciare l’Italia trovando rifugio a Parigi, alla corte di Luigi XIII e Maria de’ Medici, dove rimane fino al 1623: lì conosce Nicolas Poussin, per il quale scrive una sorta di lettera di presentazione che l’artista avrebbe portato con sé al suo arrivo a Roma. Con questo passaggio simbolico l’ultima fase della parabola del poeta si lega al decisivo approdo romano del grande pittore francese. Con la sua collezione unica di capolavori iniziata dal cardinale Scipione Borghese nei primi decenni del Seicento, la cura delle opere e l’allestimento scenografico prettamente barocco, la Galleria Borghese rappresenta il contesto ideale per rileggere la figura di Giovan Battista Marino poeta e il suo rapporto con le arti figurative, e di come nel Seicento queste ultime abbiano cominciato a influenzarsi vicendevolmente con la produzione letteraria. Con Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione la Galleria Borghese invita il pubblico a esplorare l’affascinante intreccio di parole e immagini che ammaliò Giovan Battista Marino, portando a riscoprire l’eredità seminale di un letterato che ha saputo intrecciare la bellezza della poesia e la seduzione dell’arte figurativa.
Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2024/25
“LO ZOO DI VETRO”
di Tennessee Williams
Tom Wingfield FRANCESCO SFERRAZZA PAPA
Amanda Wingfield VALENTINA BARTOLO
Laura Wingfield ZOE SOLFERINO
Jim O’Connor LUCA CARBONE
Regia Luigi Siracusa
Scene e Costumi Francesco Esposito
Luci Pasquale Mari
Musiche Laurence Mazzoni
Produzione Teatro Franco Parenti/ Compagnia dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”
Milano, 02 novembre 2024
Dall’anno passato il teatro “Franco Parenti” di Milano ha iniziato un focus sui principali testi di Tennessee Williams, e quest’anno ha deciso – dopo alcuni atti unici, in parte inediti – di produrre “Lo zoo di vetro”, uno dei più celebri testi del drammaturgo americano, oltre che quello che gli diede popolarità per la prima volta nel lontano 1944. Si tratta di un testo profondamente radicato nel suo contesto e metatesto, a causa soprattutto della conclamata radice autobiografica, e per questa ragione entriamo in sala pensando di sapere cosa aspettarci. Il primo merito di questa produzione è quello, invece, di offrirci una messa in scena davvero innovativa rispetto alla tradizione: una scena gelida e del tutto vuota, circondata da velluti blu e dominata unicamente da uno schermo in plexiglass con una citazione tratta dal testo stesso che non viene mai spostata; di primo acchito ci aspetteremmo una pièce attuale o qualcosa di sperimentale o postdrammatico, invece no – ed ecco la seconda sorpresa: tutto lo spettacolo si svolge esattamente in quello spazio con pochissimi impercettibili cambi – una tenda che si apre, una luce su una parete che simboleggia il padre fuggito – e, cosa più importante, funziona, da ogni punto di vista, estetico e drammaturgico. La scommessa di Luigi Siracusa di ridurre tutto alle dinamiche tra personaggi, azzerando il contesto del malconcio appartamento degli Wingfield, può dirsi ampiamente vinta: pur non essendoci, noi vediamo la cena, il divano, la scala, il telefono, grazie al preciso e instancabile coinvolgimento dei quattro interpreti; forse l’unico aspetto su cui si sarebbe potuto lavorare di più sono i costumi di Tom e Amanda (entrambi un po’ fuori contesto), mentre perfetti sono gli abiti di Laura, oltre che la sua postura, la sua camminata, l’espressione atona del viso, la voce sospesa tra l’infantile e il sognante – complimenti a Zoe Solferino, l’interprete senz’altro più apprezzata della recita. Anche la scelta di Valentina Bartolo come Amanda è senz’altro disorientante all’inizio, poiché siamo abituati a un’Amanda vecchia signora del Sud, coi suoi vezzi e i suoi manierismi, mentre la Bartolo è una donna bella e schietta, così disinvolta nella sua fisicità; eppure con l’andar del tempo la vediamo, Amanda Wingfield, emergere nitida e nuova, ma sempre lei, e ci accorgiamo che un grande personaggio non ha bisogno di tutto il bagaglio di mossettine e toni rétro che immaginiamo: questa Amanda è viscerale, disperata, e nasconde la tragedia di tutta la sua vita proprio dietro l’ostentata eleganza di un completo pantalone e di una audace chioma biondo fragola – non siamo più sicuri, adesso, di rivolere la petulante creatura menopausale di un tempo. Le interpretazioni maschili, ancorché molto efficaci, si muovono su un binario assolutamente più tradizionale: Luca Carbone è un Jim O’Connor da copione, stolido e di buon cuore, incapace di prevedere la tempesta in cui si sta gettando – e qui, probabilmente, si sarebbe potuto produrre una resa più a 360° del personaggio: egli davvero non sa di piacere a Laura? Davvero non sa cosa significhi il loro bacio? Mentre Francesco Sferrazza Papa è un Tom accoratissimo, di grande asciuttezza e misura – riduce al minimo l’isteria del giovane turbolento, senza per questo risultare poco credibile, anzi: incarna probabilmente il vero Tennessee Williams (il cui vero nome era proprio Thomas), che pagò il manicomio alla sorella tutta la vita senza andare a trovarla praticamente mai, incapace di gestire quel buco nero emotivo che ha risucchiato la sua sfera dei sentimenti, e per il quale si gettò a capofitto in un altro buco nero, quello della bottiglia. Sferrazza Papa è bello il giusto, bravo il giusto, non versa una lacrima per la sorella, né si abbandona a melancolie d’antan quando incarna la voce narrante. Questi quattro personaggi si muovono come fantasmi bergmaniani sulla scena algida di Francesco Esposito, ma vengono incorniciati alla perfezione soprattutto dalle luci di Pasquale Mari, il cui freddo artico inizia a scaldarsi durante il dialogo di Jim e Laura, per esplodere in un prisma multicolore proprio sul finale, a circondare una Laura ormai non più reale, ma essa stessa creatura vitrea nel ricordo del fratello (e proprio “Portrait of a young girl in glass” è il titolo del suo racconto da cui Williams trasse il dramma). Non c’è presente in cui Tom sia in grado di vivere, ma come un Leopardi della Rust Belt riesce ad emozionarsi per l’affetto della sorella solo dopo averla perduta – senza intento morale, senza catechesi sociologica, la volontà del dramma è solo portare a galla, nudo, il dolore inaffrontabile di una paralisi che sfocia nella colpa, di un abbandono che tuttavia, se trascolorato nel ricordo, potrebbe fare meno male. Condizionale d’obbligo. Foto Manuela Giusto
Seconda, ed ultima, Cantata per la ventiquattresima Domenica dopo la Trinità è Ach wie flüchtig, ach wie nichtig BWV 26 eseguita la prima volta a Lipsia il 19 novembre 1724. Il testo dell’Inno originale di tredici strofe, del 1652 di Michael Franck (1609-1667) risulta qui sensibilmente condensato. Nel primo recitativo (Nr.3), ad esempio, racchiude il contenuto delle strofe dal 3 al 9. Il concetto dominante espresso nella Cantata è ancora quello della morte e della caducità delle cose umane. Bach ancora una volta si destreggia abilmente nella rappresentazione di questo pensiero mediante un “cursus” rapido e fluidissimo all’apparato vocale e strumentale già nel Coro iniziale (Nr.1) e ancor più nella prima aria tripartita (Nr.2) cantata dal tenore, con due strumenti concertanti, un flauto traverso e un violino impegnati in una autentica gara di destrezza e virtuosismo con il tenore impegnato in agili vocalizzi su parole chiave come “rapidi” e “le ore fuggono”. Troviamo poi 3 oboi (già presenti nel coro iniziale) che caratterizzano l’aria del basso (Nr.4) in tempo di “bourrée” quasi una inquietante “danza della morte” nella quale si condanna questo mondo insensato compiuta con il concorso dell’allucinante simbologia che la cultura medievale aveva ideato per rendere più cupo e perverso il senso della morte. Capovolgendo i termini di questo dramma della morte, Bach ci consegna invece un ritratto in “stile galante”, quasi riconoscendo in essa, nella morte, i connotati della dolcezza.
Nr.1 – Coro
Ah, quanto fugace, quanto effimera
è la vita umana!
Come una nebbia che subito si alza
e altrettanto subito svanisce,
così, guardate, è la nostra vita!
Nr.2 – Aria (Tenore)
Tanto rapidi come i getti di una cascata,
così fluiscono i giorni della nostra vita.
Il tempo passa, le ore fuggono,
come gocce di pioggia che presto si disperdono
quando precipitano nell’abisso.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
La gioia si trasforma in tristezza,
la bellezza appassisce come un fiore,
la più grande forza si indebolisce,
la fortuna cambia col passare del tempo,
onore e gloria finiscono presto,
la scienza e tutte le creazioni dell’uomo
scompaiono infine nella tomba.
Nr.4 – Aria (Basso)
Attaccare il proprio cuore ai beni terreni
è una tentazione di questo mondo insensato.
Come presto si infiammano i tizzoni ardenti,
come fluiscono via le acque impetuose,
così tutte le cose si distruggono e vanno in rovina.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Alta magnificenza e splendore
sono infine oscurate dalla notte della morte.
Chi è venerato come un dio
non sfugge alla polvere e alla cenere,
e quando suona l’ultima ora
in cui viene sepolto nella terra
e crollano le fondamenta della sua grandezza,
il suo ricordo sarà completamente cancellato.
Nr.6 – Corale
Ah, quanto fugaci, quanto effimere
sono le cose umane!
Tutto, tutto ciò che vediamo
dovrà cadere e scomparire.
Ma chi teme Dio vivrà in eterno.
Traduzione di Emanuele Antonacci
Pompei, Parco Archeologico
Il DNA svela le origini e i legami delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, ribaltando vecchie convinzioni e rivelando una Pompei multietnica e cosmopolita
L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. non ha soltanto lasciato un’impronta indelebile sulla storia del mondo antico, ma ha anche congelato un istante di vita, tragico e toccante, che le generazioni successive hanno cercato di decifrare. Grazie a studi innovativi, come quello recentemente pubblicato su Current Biology, stiamo riscoprendo non solo le vite degli abitanti di Pompei, ma anche la complessità delle loro identità e dei legami che un tempo sembravano evidenti, ma che ora si rivelano molto più sfumati e complessi. Ogni elemento della storia è un segno, un codice che richiede una nuova interpretazione alla luce dei dati scientifici più recenti. Il nuovo studio, frutto della collaborazione tra le università di Harvard, Firenze e altri istituti europei e statunitensi, ha analizzato il DNA delle ossa ritrovate all’interno dei celebri calchi delle vittime pompeiane. I calchi, a lungo intesi come simboli pietrificati di una tragedia umana, si rivelano ora essere non solo contenitori di resti fisici, ma anche scrigni di informazioni capaci di sovvertire narrazioni consolidate. Non più semplici immagini romantiche del passato, i calchi ci spingono verso una lettura più ricca e stratificata. I calchi delle vittime non sono corpi pietrificati, come spesso si crede, ma rappresentazioni ottenute versando gesso nelle cavità lasciate dai corpi nello strato di pomici e cenere. Questo processo, inventato da Giuseppe Fiorelli nel XIX secolo, ha permesso di catturare le pose finali delle vittime, congelando per sempre un attimo di fuga, di disperazione, o forse di rassegnazione. Tuttavia, è essenziale ricordare che questi calchi sono il prodotto di un’epoca in cui la metodologia archeologica era ancora in fase embrionale: molte pose sono state rielaborate per enfatizzare la drammaticità, costruendo storie più vicine al melodramma che alla verità storica. Gli studiosi ottocenteschi, più attenti a stupire il pubblico che a perseguire un rigoroso metodo scientifico, hanno creato narrazioni attorno ai calchi, conferendo a queste figure mute ruoli e relazioni che, alla luce delle nuove evidenze scientifiche, risultano essere costruzioni arbitrarie. La scienza moderna, però, ci offre un nuovo strumento per avvicinarci alla realtà storica: il DNA. Attraverso l’analisi genetica, possiamo scoprire dettagli sorprendenti che ci aiutano a rivedere radicalmente il passato. Lo studio del DNA ha portato alla luce dati che stravolgono molte delle convinzioni tramandate fino a oggi. Un esempio emblematico è il gruppo ritrovato nella cosiddetta “Casa del bracciale d’oro”. Nel 1974, quattro individui vennero trovati insieme: due adulti e due bambini, con uno dei piccoli apparentemente in braccio a uno degli adulti, che indossava un prezioso bracciale d’oro. La ricchezza dell’ornamento e la disposizione dei corpi avevano portato gli archeologi a ipotizzare che si trattasse di una famiglia. Tuttavia, l’analisi genetica ha smentito tale interpretazione: non solo non c’era alcun legame familiare tra i quattro, ma l’individuo con il bracciale – creduto essere la madre – era in realtà un uomo. Questo episodio illustra come il passato possa spesso deluderci nelle nostre aspettative. La figura del padre protettivo o della madre affettuosa si dissolve sotto il rigore della scienza, lasciandoci con un mosaico di persone unite non da legami di sangue, ma da circostanze fortuite e imprevedibili. La bellezza di questa complessità risiede proprio nell’impossibilità di ridurre le vite umane a semplici schemi predefiniti. Le evidenze archeogenetiche ci mostrano come spesso le relazioni tra gli individui siano state mal interpretate, basate su indizi visivi e stereotipi culturali piuttosto che su dati scientifici solidi. Allo stesso modo, i ritrovamenti della “Casa del criptoportico” offrono un ulteriore esempio di quanto le apparenze possano ingannare. Due individui, ritrovati abbracciati, sono stati descritti come due sorelle. Ma anche qui il DNA ha svelato una realtà diversa: uno dei due individui era un uomo, mentre l’identità biologica dell’altro non è stata determinata con certezza. Questo dato, lungi dal ridurre l’impatto emotivo della scoperta, ci ricorda come la nostra visione del passato sia sempre parziale e frammentaria, soggetta a continue revisioni. Questo abbraccio potrebbe non rappresentare un legame familiare, ma un tentativo di conforto reciproco di fronte alla catastrofe imminente, lasciandoci con una scena ancora più umana e toccante. Un aspetto particolarmente affascinante dello studio è la possibilità di ricostruire l’origine etnica di alcune delle vittime. Le analisi del DNA hanno dimostrato che gli individui della “Casa del bracciale d’oro” avevano legami genetici con le popolazioni dell’Africa settentrionale e del Mediterraneo orientale, un dato che conferma il cosmopolitismo dell’Impero Romano nel I secolo d.C. Pompei, lungi dall’essere una città isolata, era un crogiolo di culture, etnie e identità diverse, un microcosmo dell’impero stesso. Questa scoperta mette in luce l’estrema mobilità delle popolazioni romane, rendendo visibile quanto la società dell’epoca fosse interconnessa su vasta scala. L’individuo maschile col bracciale d’oro aveva tratti genetici compatibili con le popolazioni del Nordafrica, mentre l’individuo abbracciato della “Casa del criptoportico” mostrava segni di un’origine mediorientale. Questo elemento ci consente di immaginare Pompei non come un mondo cristallizzato nel tempo, ma come una realtà dinamica, pulsante di vita e scambi culturali. Gli scambi commerciali, le migrazioni, e le rotte mercantili del Mediterraneo avevano fatto sì che uomini e donne di diverse origini giungessero a Pompei, stabilendo legami, intrattenendo rapporti economici e culturali, integrandosi in un tessuto sociale variegato. Il DNA antico ci fornisce la prova tangibile di queste connessioni. Esso ci mostra come i cittadini di Pompei potessero avere ascendenze che attraversavano tutto il bacino del Mediterraneo, mettendo in crisi l’idea di una città omogenea e offrendo invece l’immagine di una comunità multietnica. Le storie di questi individui non erano isolate, ma parte di una narrazione più ampia che abbracciava le rotte del commercio e dell’espansione imperiale. Il loro sangue, mescolato con quello di popoli diversi, rappresenta una testimonianza dell’integrazione che caratterizzava la vita all’interno dell’impero. Il passato non è mai univoco e definitivo. Ogni scoperta può cambiare la configurazione dell’intero mosaico, ogni dato genetico apre nuovi orizzonti interpretativi.
Marco Enrico Bossi (1861-1925): Concerto for Organ, Strings, 4 Horns and Timpani in A minor Op.100. Joseph Jongen (1873-1953): Hymne, for Organ and Orchestra Op.78. Francis Poulenc (1899-1963): Organ Concerto in G minor FP.93 (1938). Tommaso Maria Mazzoletti (organo). Helvetica Orchestra. Eugène Carmona (direttore). Registrazione: 19-20 giugno presso St. Paul, protestant church in Gland, Switzerland. T. Time: 64′ 35″ 1 CD Brilliant Classics 96955
Rispetto ad altri strumenti, l’organo figura piuttosto raramente come solista in lavori con l’orchestra, anche perché la sua registrazione, a volte, può apparire in alcuni momenti troppo simile alle combinazioni orchestrali, soprattutto dei legni, creando poca varietà. Non a caso, infatti, nel non certo vastissimo repertorio per organo e orchestra, di cui alcuni brani sono proposti in questo CD dell’etichetta Brilliant Classics, si tende ad escludere la sezione dei legni. Il programma di questa interessantissima proposta discografica si apre con il Concerto per organo e orchestra di Marco Enrico Bossi, che, diventato ormai un classico e composto originariamente in mi bemolle minore e per una ampio organico orchestrale, fu modificato dal compositore in seguito alle critiche, occorse alla prima esecuzione, avvenuta nel mese di dicembre del 1895, e riguardanti la tonalità giudicata penalizzante per gli strumenti ad arco e il rapporto tra organo e orchestra con quest’ultima eccessivamente preponderante sul solista.
Le critiche indussero, infatti, Bossi a modificare l’organico, ridotto ai timpani, a quattro corni e agli archi e a trasportare l’intero brano in la minore. Aperto dal solista, il primo movimento, Allegro moderato si svolge per quanto attiene all’esposizione secondo i principi della forma-sonata con un primo tema di carattere armonico, al quale si contrappone il secondo dalla struttura assimilabile a quella del corale. All’esposizione segue un lungo sviluppo di carattere rapsodico e di grande intensità drammatica. Di carattere lirico è il secondo movimento, Adagio ma non troppo, dalla struttura tripartita (A-B-A1) basato su un tema esposto dai violoncelli in una scrittura cameristica e contrappuntistica estremamente raffinata. Un solenne tema armonico, esposto dal solista, apre l’ultimo movimento, Allegro, nel quale, quasi a dare all’intero concerto una struttura ciclica, ritornano elementi del primo tema del primo movimento. Una vera rarità è Hymne, for Organ and Orchestra Op.78 di Joseph Jongen, secondo brano in ascolto, nel quale l’organo, diversamente da quanto avviene nel Concerto di Bossi, diventa parte integrante dell’orchestra pur mantenendo un suono caldo e al tempo stesso misterioso che conferisce all’intero brano un particolare fascino.
Famosissimo è, infine, il Concerto per organo in sol minore FP.93 di Francis Poulenc, ultimo brano in programma, che, composto su commissione della Principessa di Polignac tra il 1934 e il 1938, si presenta come una poderosa struttura in un unico movimento diviso in 7 sezioni nelle quali si alternano diversi stili dal momento che si passa dal sacro al profano e da una scrittura che richiama il Barocco a un’altra più moderna. Di ottimo livello l’esecuzione da parte sia del solista, Tommaso Maria Mazzoletti che dell’Helvetica Orchestra, diretta da Eugène Carmona, i quali riescono ad integrarsi perfettamente dando vita, in alcuni passi, quasi ad un unico blocco sonoro, mentre in altri a una contrapposizione di colori e di sonorità. Il risultato è un’esecuzione veramente suggestiva e di forte impatto.
Venezia, Teatro Malibran, Lirica e balletto, Stagione 2023-2024
“LA VITA È SOGNO”
Opera in tre atti e quattro quadri dal dramma “La vida es sueño” di Pedro Calderón de la Barca
Musica e libretto di Gian Francesco Malipiero
Il re RICCARDO ZANELLATO
Il principe LEONARDO CORTELLAZZI
Estrelle FRANCESCA GERBASI
Don Arias / Uno della folla LEVENT BAKIRCI
Clotaldo SIMONE ALBERGHINI
Diana VERONICA SIMEONI
Servo di Diana / Uno scudiero del re ENRICO DI GERONIMO
Mimi FRANCESCO NAPOLI, GIUSEPPE SARTORI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia Valentino Villa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Elena Cicorella
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 31 ottobre 2024
Novello Edipo, anche il protagonista de La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero (Il Principe) viene rifiutato, appena venuto al mondo, dal padre (Il Re). Questi – allarmato da funesti presagi, manifestatisi alla nascita del figlio e confermati dal responso degli astri, che vedono in lui un futuro tiranno – lo fa rinchiudere in una torre, dove vive da recluso. Ma, dopo vari anni, roso dal rimorso, il re ordina di liberare il giovane e di condurlo – narcotizzato – a palazzo, dove la vita da principe gli sembrerà un sogno: lo scopo è quello di verificare la vera indole del suo possibile successore. Il quale, appena appresa la verità, predice, infuriato, che il padre tra breve cadrà ai suoi piedi. Il re, convinto dell’ineluttabilità del destino, fa riportare il figlio – dormiente – nella torre, in modo che quella parentesi di libertà gli sembri nient’altro che un sogno. Ma, di fronte alle grida della folla – che, incurante dei presagi, reclama il suo principe – padre e figlio si abbracciano, tra l’esultanza del popolo. Questa, in sintesi, la vicenda drammatica, su cui si regge l’opera, tratta dalla celebre tragedia di Calderón de la Barca – composta da un Malipiero quasi sessantenne –, ora riproposta al Teatro Malibran, ad ottant’anni dalla prima italiana, avvenuta, nel 1944 al Teatro La Fenice, un anno dopo il suo debutto all’Opera di Breslau (oggi Wrocław), allora parte del Terzo Reich. Il regista Valentino Villa pone l’accento sulla semplificazione della linea narrativa operata dal compositore veneziano, che non si limita a ridurre la tragedia calderoniana, bensì evidenzia il lato archetipico delle vicende narrate, sottraendole ad una specifica collocazione spazio-temporale, ad esempio con l’assegnare ai personaggi un nome generico (Il Re, Il Principe) o un nome diverso rispetto all’originale (Diana anziché Rosaura). Quanto alla messinscena di quest’opera che, dopo ottant’anni dal suo debutto, risulta ai più sostanzialmente sconosciuta, il regista romano ha ritenuto opportuno non intromettersi più di tanto nel rapporto tra il pubblico e un titolo tutto da scoprire, usando un tratto leggero, non invasivo, ideando uno spettacolo che si possa riconoscere come coerente rispetto al barocco di Calderón. Nel contempo, di fronte alla didascalia iniziale del libretto, “Senza luogo né tempo in un mondo di fantasia”, ha preferito collocare la vicenda in un’epoca storica “astratta”, rientrando nella logica del sogno. Quello che ha immaginato insieme a Massimo Checchetto è un apparato scenografico essenziale, basato su due superfici cilindriche rotanti che permettono il succedersi di vari quadri, assecondando la concezione drammaturgica “a pannelli” di Malipiero. Quanto ai luoghi, fondamentale è la torre con funzione di carcere. Peraltro la reclusione – nella visione di Valentino Villa – non opprime solo il Principe, ma anche il Re fortemente condizionato dalle stelle e dalle profezie. All’astrologia praticata da lui rimanda il sestante (uno strumento, che misura l’angolo di elevazione di un corpo celeste sopra l’orizzonte), citato nell’apparato scenico, mentre all’Uomo Vitruviano sembra ricollegarsi l’idea di far apparire sulla scena il Principe legato – mani e piedi – ad un cerchio, sovrapposto a un quadrato, uno dei simboli del Rinascimento. Elementi scenografici, che simboleggiano il falso scientismo del Padre, cui si contrappone la rivoluzione culturale, rappresentata dal Principe. La conciliazione avviene nel finale, dove si impone una concezione culturale più evoluta. Meno astratti rispetto alla scenografia gli eleganti costumi di Elena Cicorella, che si richiamano ad un Seicento, che – pur nella sua vaghezza – spazia dalla Spagna ai Fiamminghi. Di ispirazione caravaggesca l’efficace disegno delle luci di Fabio Barettin. Nessun “cerebralismo” – termine talora usato da alcuni per definire la musica di Malipiero – coglie nella partitura Francesco Lanzillotta, il cui gesto direttoriale è teso a valorizzare la vena melodica – emancipata rispetto alla tradizione ottocentesca –, che si stempera nel continuo declamato delle voci, oltre alla raffinata sensibilità strumentale dell’autore, che considera l’orchestra come la somma di tanti ensemble cameristici, mettendo in luce il timbro dei singoli strumenti o delle singole sezioni. Ineccepibile il rapporto tra buca e palcoscenico, dove si è esibito un cast di prim’ordine, a cominciare dal tenore Leonardo Cortellazzi, capace di delineare, con generosa passione, il carattere del “sognante” principe – che nella rivisitazione malipieriana assume maggiore rilievo rispetto al testo di Calderón – combattuto tra afflizione e furore vendicativo, segnalandosi per il timbro brillante ed omogeneo. Analogamente espressiva è risultata Veronica Simeoni, che ha prestato la sua perlacea vocalità mezzosopranile, per regalarci un personaggio – Diana –, particolarmente affascinante per la sua varietà di accenti: dallo sconforto alla pietà. Di encomiabile professionalità il baritono Simone Alberghini e il basso Riccardo Zanellato, nei panni rispettivamente di Clotaldo e del Re, oltre al soprano Francesca Gerbasi (Estrella) e ai baritoni Levent Bakirci (Don Arias/Uno della folla) ed Enrico di Geronimo (Servo di Diana/Uno scudiero del re). Una menzione particolare merita il Coro del Teatro La Fenice, istruito da Alfonso Caiani, che ha brillato per sensibilità e fraseggio nei tre madrigali che vengono intonati al risveglio del Principe a corte e in apertura dell’ultimo atto, omaggio alla grande tradizione polifonica monteverdiana. Successo pieno e caloroso con numerose chiamate.
Roma, Terme di Diocleziano
TONY CRAGG. INFINITE FORME E BELLISSIME
curata da Sergio Risaliti e Stéphane Verger
La mostra “Tony Cragg. Infinite forme e bellissime”, ospitata dal 9 novembre 2024 al 4 maggio 2025 nelle suggestive Terme di Diocleziano a Roma, rappresenta una rara occasione per avvicinarsi all’opera di uno dei maggiori scultori contemporanei, immerso in un contesto storico di straordinaria rilevanza. L’esposizione, curata da Sergio Risaliti e Stéphane Verger, offre un percorso in cui antico e contemporaneo si intrecciano in un dialogo costante, una sinfonia di materia e spazio che affida la propria forza alla tensione tra la monumentalità delle terme romane e la fluidità delle sculture di Cragg. Il Museo Nazionale Romano, in collaborazione con BAM – Eventi d’Arte, ha dato vita a un allestimento che omaggia la maestria plastica di Cragg, celebrato per il suo uso di materiali non convenzionali e per la capacità di trasformare la materia in forme dinamiche e quasi organiche. Cragg, nato a Liverpool nel 1949, è emerso nel panorama artistico internazionale degli anni Settanta con una pratica che esplora la materia non come un semplice mezzo, ma come un vettore di senso capace di evocare emozioni profonde. La sua ricerca lo ha condotto a sperimentare materiali industriali e naturali—plastica, metallo, vetro, legno, pietra—trasformandoli in forme che suggeriscono un continuo divenire, quasi fossero parte di un organismo in perenne evoluzione. È in questo contesto che Cragg afferma: “La materia non è mai neutra; essa porta con sé una memoria e una storia che l’arte può liberare, trasformando gli oggetti quotidiani in frammenti di pensiero e sensazione”. Le Terme di Diocleziano, costruite tra il 298 e il 306 d.C., testimoniano una monumentalità architettonica che sfida il passare del tempo e si impone come un simbolo di permanenza e trascendenza. In questo contesto, le sculture di Cragg, poste in dialogo con la pietra antica, generano un contrasto visivo e concettuale in cui passato e presente si confrontano e si arricchiscono reciprocamente. Ogni opera sembra essersi organicamente adattata al proprio ambiente, come se le linee fluide e le spirali delle sculture fossero progettate per assecondare la rigidità delle strutture architettoniche, esaltandole e rinnovandole in una continua ridefinizione dello spazio. L’allestimento gioca un ruolo fondamentale nel valorizzare questa dialettica tra scultura e ambiente circostante. Le opere sono disposte in modo da rispettare la sacralità storica dello spazio, ma al contempo far emergere la vitalità delle forme di Cragg, che si collocano come presenze organiche tra le pietre. L’illuminazione è calibrata con precisione: la luce morbida e indiretta attraversa le superfici delle sculture, ora lucide e riflettenti, ora opache e stratificate, accentuando l’effetto di movimento e trasformazione. Questo gioco di ombre e luci crea un effetto visivo che arricchisce l’esperienza del visitatore, facendo apparire le sculture mutevoli, quasi eteree, come se fossero flussi di energia congelati nel momento del loro massimo vigore. Cragg si distingue per il suo uso di materiali plastici e metallici riciclati, che vengono reinterpretati con attenzione sia alla composizione visiva che al significato intrinseco della materia stessa. Le tecniche di assemblaggio, fusione e saldatura consentono alla scultura di assumere una fisicità che dialoga costantemente con l’elemento luminoso e con l’ambiente circostante. Alcune opere sembrano emergere come flussi di energia, altre si slanciano verso l’alto in spirali che invitano lo sguardo a percorrere la loro superficie, suggerendo un movimento senza fine. È come se ogni materiale raccontasse una storia, rivelando, attraverso pieghe e sporgenze, la propria memoria e la propria origine. L’inserimento delle sculture di Cragg nelle Terme di Diocleziano crea una temporalità sospesa, in cui il passato e il presente si fondono e si trasformano in una nuova narrazione visiva. Ogni opera si configura come una “presenza” che arricchisce lo spazio storico delle terme, creando un percorso di riflessione in cui il visitatore è invitato a lasciarsi guidare dalle variazioni di luce e dalla complessità delle forme. Questo dialogo tra materia e spazio suggerisce una nuova modalità di osservazione, una riflessione sull’essenza stessa della scultura e sul rapporto che essa stabilisce con il contesto in cui è inserita. La mostra è frutto di una collaborazione tra il Municipio I di Roma e Banca Ifis, che attraverso il programma Ifis Art sostiene da anni la promozione dell’arte contemporanea in Italia. Tale sinergia tra istituzioni pubbliche e private ha reso possibile la realizzazione di un evento che arricchisce il patrimonio culturale della città, offrendo al pubblico un’esperienza di rara intensità. L’allestimento, curato con estrema attenzione ai dettagli e rispetto per la sensibilità dei luoghi storici, permette alle opere di Cragg di trovare una collocazione naturale e significativa all’interno delle terme, trasformando lo spazio in un vero e proprio palcoscenico per un dialogo tra materia e storia. La presenza tra i curatori di Stéphane Verger, recentemente non più direttore del Museo Nazionale Romano, conferisce alla mostra un significato ulteriore. A Verger va un sentito ringraziamento per il lavoro svolto con dedizione e passione negli anni passati, caratterizzato da un rigore etico e disciplinare che ha portato a una serie di iniziative culturali di grande rilievo. La sua guida, improntata al rispetto del patrimonio e alla promozione di un dialogo continuo tra passato e presente, lascia un’impronta indelebile che continuerà a ispirare il futuro del museo e delle sue attività espositive. Photocredit@MonkeysVideoLab
Roma, Teatro Brancaccio, Stagione 2024/25
SHERLOCK HOLMES – IL MUSICAL
Sherlock Holmes NERI MARCORE’
Dottor John H. Watson PAOLO GIANGRASSO
Molly O’Neill FRANCESCA CIAVAGLIA
Ispettore G. Lestrade GIUSEPPE VERZICCO
Signora Hudson BARBARA CORRADINI
Mycroft Holmes NICCOLÒ CURRADI
Michael Osborne SIMONE MARZOLA
Robert Scott MATTIA BRAGHERO
Pastore della Chiesa di Saint Mary-Le-Bow – RICCARDO GIANNINI
Cover di: Robert Scott / Pastore / Agente / Michael Osborne – LAPO BRASCHI
Produzione: Ad Astra Entertainment S.r.l., Compagnia delle Formiche, Artisti Riuniti
Supervisione e approvazione del testo a cura dell’Associazione Sherlockiana Italiana “Uno Studio in Holmes Aps”
Regia di Andrea Cecchi
Roma, 07 novembre 2024
“Sherlock Holmes – Il Musical” si presenta come un ambizioso tentativo di trasfigurare l’investigatore di Baker Street nel linguaggio del teatro musicale. Un progetto che ambisce a ricontestualizzare la celebre figura letteraria di Arthur Conan Doyle in una dimensione scenica dove la parola, la musica e il gesto si fondono per dar vita a un’esperienza sinestetica. Tuttavia, malgrado le premesse e la nobile intenzione di esplorare un nuovo registro artistico per il detective, lo spettacolo dimostra diverse criticità, che ne minano la realizzazione complessiva e impediscono di mantenere quella vivacità che ci si aspetterebbe da un’opera di tale portata. La scenografia, curata nei minimi dettagli da Gabriele Moreschi, è senza dubbio uno dei punti di forza della produzione. La Londra vittoriana che Moreschi ricostruisce sul palcoscenico è suggestiva, caratterizzata da una precisione architettonica che rievoca le atmosfere gotiche e cupe della metropoli ottocentesca. Le strade immerse nella nebbia, i lampioni a gas che rischiarano i vicoli e le facciate degli edifici suggeriscono un contesto urbano vivo, palpabile, ricco di quel mistero che è parte integrante dell’universo holmesiano. La scenografia, tuttavia, sembra non trovare pieno sostegno negli altri elementi dello spettacolo, a partire dalla performance del protagonista. Neri Marcorè veste i panni di Sherlock Holmes con una compostezza che, pur aderendo formalmente al personaggio, finisce per risultare eccessivamente contenuta e priva di quella tensione intellettuale che definisce il celebre detective. Holmes, nella penna di Conan Doyle, è un personaggio animato da una mente febbricitante, un investigatore che vive costantemente in bilico tra la lucidità analitica e un certo tormento interiore. Questa complessità psicologica non trova piena espressione nella recitazione di Marcorè, che appare troppo spesso distaccato, quasi inerte di fronte agli enigmi che dovrebbe risolvere. La presenza scenica di Holmes diviene così più passiva che attiva, privando il pubblico di quell’identificazione emotiva che è il cuore di ogni esperienza teatrale riuscita. Anche l’aspetto canoro di Marcorè non riesce a sopperire alle mancanze interpretative: il canto risulta privo di dinamiche emotive significative. Le arie di Holmes, che dovrebbero essere l’occasione per esplorare il suo mondo interiore, finiscono per apparire uniformi, senza quei picchi e quelle variazioni che possano comunicare la complessità dei pensieri del detective. Il personaggio di Holmes, di conseguenza, fatica a emergere come figura centrale e carismatica, rimanendo piuttosto un’ombra scolpita nella trama dello spettacolo. In netto contrasto, la performance di Giuseppe Verzicco nei panni dell’ispettore Lestrade risulta la più convincente e vitale dell’intera produzione. Verzicco dona al suo Lestrade un’energia vivace e una presenza scenica che arricchiscono la narrazione. Lungi dall’essere un semplice comprimario, il suo Lestrade assume una centralità che funge da contrappunto al protagonista, riuscendo a portare in scena non solo la figura del funzionario di polizia, ma un personaggio tridimensionale, dotato di dinamismo e vivacità. Verzicco riesce a dare corpo a quella tensione necessaria tra l’ufficiale pragmatico e l’investigatore eccentrico, creando una dialettica scenica che è tra i momenti più riusciti dello spettacolo. Francesca Ciavaglia, nel ruolo di Molly O’Neill, offre una prestazione elegante, caratterizzata da una delicatezza rispettosa che ben si adatta al personaggio, ma che non riesce a emergere se non in sporadici momenti cantati. Il suo contributo alla narrazione resta contenuto, aggiungendo una presenza delicata che non incide in maniera determinante sullo sviluppo drammatico. Analogamente, Barbara Corradini nel ruolo della Signora Hudson interpreta una figura rassicurante e di contorno, ma la sua partecipazione si limita a tratteggiare un’ombra domestica che non si impone mai realmente sulla scena se non durante il duetto con il collega Verzicco. Sotto il profilo tecnico, il musical presenta alcune criticità che minano l’armonia dell’insieme indubbiamente migliorabili. In particolare, si notano problemi di sincronizzazione tra l’audio e le basi musicali, che compromettono la fluidità dello spettacolo e riducono il coinvolgimento emotivo del pubblico. Le musiche, curate da Andrea Sardi, sono efficaci nel rievocare l’atmosfera dell’epoca e risultano pertinenti al contesto narrativo, ma la mancanza di coesione tecnica impedisce loro di raggiungere quell’efficacia immersiva che sarebbe stata auspicabile. I momenti di sfasamento audio creano un distacco percettibile tra ciò che accade in scena e ciò che viene udito, interrompendo la sospensione dell’incredulità e distogliendo l’attenzione degli spettatori. La regia delle luci, affidata a Emanuele Agliati, è uno degli elementi che maggiormente contribuiscono a creare la giusta atmosfera. Le luci sono utilizzate per plasmare chiaroscuri suggestivi, alternando scene intime e momenti più drammatici, e riescono a suggerire quella dimensione crepuscolare che è essenziale per un’opera come questa. Tuttavia, la potenzialità espressiva delle luci non è sufficientemente valorizzata da una regia che appare incerta nel trovare il giusto ritmo. Il risultato è una discontinuità tra la forza visiva delle luci e l’interpretazione scenica, che impedisce la creazione di un’unica tensione drammatica coesa. Anche le coreografie di Roberto Colombo e Caterina Pini soffrono di una certa frammentarietà. I movimenti scenici, per quanto curati e armoniosi, non riescono a integrarsi pienamente con la narrazione. Le coreografie sembrano essere più decorative che funzionali, un abbellimento che arricchisce la visione d’insieme ma che non apporta un reale significato narrativo. Manca un legame profondo tra i movimenti e la storia che viene raccontata, e questo finisce per ridurre l’impatto emotivo delle scene danzate, che non riescono a raggiungere quella forza espressiva necessaria per rendere le coreografie parte integrante del dramma. Un pubblico educato e partecipe ma non particolarmente coinvolto. Peccato veramente.
Roma, Teatro India
RICCARDO III
Un’interpretazione contemporanea di Shakespeare al Teatro India
progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
regia Luca Ariano
con Pietro Faiella, Roberto Baldassari, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser
aiuto regia traduzione e adattamento Natalia Magni
scene Luca Ariano con la collaborazione di Alessandra Solimene
costumi Elisa Leclè
disegno luci Luca Ariano
assistente alla regia Tessa Perrone
foto di Manuela Giusto
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in collaborazione con Lubox
Roma, 05 novembre 2024
La sala è completamente buia, pochi istanti prima di essere sommersi da una luce bianca accecante. Una luce che, gradualmente, cambia colore, riflettendo i sentimenti che animano tutti i personaggi di Riccardo III di Shakespeare: la rabbia, l’invidia, la fame di vendetta, il rancore. L’uso delle luci in “Riccardo III” evoca l’artista Dan Flavin, che le considera come un mezzo in grado di modificare l’ambiente e la sua percezione. Così come Flavin utilizza la luce per creare un’esperienza immersiva, anche qui diventa parte integrante della narrazione, amplificando la tensione emotiva e psicologica, diventando non solo un elemento visivo, ma un veicolo di significato che definisce lo spazio teatrale e le lotte interiori dei personaggi. Questo bianco, decontestualizzato dall’epoca del dramma, sottolinea l’attualità di una storia che sfida il tempo e lo spazio. E a proposito di spazio, inizialmente lo spettatore si sente catapultato in “2001: Odissea nello spazio”, un effetto amplificato non solo dal bianco della “navicella” scenica, ma anche dagli abiti realizzati da Elisa Leclè. In particolare, quello di Riccardo, leader di questo universo sospeso, che, come un platonico demiurgo, conferisce ordine e misura a suo volere, ordina e disordina colori e pensieri, espressi anche attraverso la musica. Riccardo III è interpretato da Pietro Faiella, che, come un direttore d’orchestra, avvia piacevoli melodie a suo piacimento, le quali si alternano alle voci dei vari personaggi. Tutti sono sotto di lui; il futuro re riesce ad ammaliarli e a guidarli verso il suo obiettivo di vendetta, mosso da una fame insaziabile di supremazia. La sua recitazione è realistica, sempre più penetrante, permettendoci di comprendere come questi sentimenti siano sempre contemporanei. Riccardo si mostra con mille maschere e sfumature, tutte magistralmente interpretate da Faiella: dalla voce al corpo, ma ciò che ho apprezzato di più è stato il suo sguardo, sempre penetrante e in continuo mutamento. Capace di suscitare pietà, ma anche di rivelare, nei suoi momenti da solista, una brama di dominio che non lascia margine a incertezze. I vari attori hanno saputo mantenere un ritmo costante, mettendo in luce la loro interiorità con delicatezza e senza eccessi, esprimendo con naturalezza alti sentimenti come la paura e la sottomissione, la rabbia e il desiderio di vendetta, il dolore e il lutto, la lealtà e il tradimento, il timore reverenziale e la speranza. Tuttavia, avrei voluto assaporarli di più, osservando con maggiore lentezza i passaggi emotivi e i cambi di stato d’animo. Ad un certo punto la musica classica, che inizialmente accompagna un ritmo moderato, intessuto dai piani del protagonista, e guidata dai gesti della sua mano storpia, si tinge improvvisamente delle note rock dei Guns N’ Roses con “Sympathy for the Devil”, che d’impatto sconvolge il pubblico e pare ancora più evidente il cambiamento delle sue emozioni, “la natura del suo gioco”. Così come “il diavolo” della canzone giustifica i suoi crimini come parte di un piano più grande, in una performance visibilmente scenica, Riccardo si auto-incorona re, appagato, nel massimo del suo piacere. È proprio in questo momento che la sua recitazione evoca l’immagine di dittatori più vicini al nostro tempo, come Mussolini. E in questo, Pietro Faiella, nelle vesti di re Riccardo III, incarna la stupidità e l’arroganza di chi si crede padrone assoluto e indiscutibile delle vite e dei destini altrui. Da qui inizia la discesa: il re, ormai dispotico, non ha fatto i conti con sé stesso e inizia a guardarsi le spalle, consapevole di tutte le persone che ha ferito, rinnegato, ignorato. Da padrone assoluto, ora si trova a dover affrontare i suoi stessi inganni. La musica si trasforma in un rumore assordante, che risuona nella sua mente e nelle orecchie del pubblico. Non riesce più a controllare nulla: colori, suoni, sentimenti e i pensieri degli altri gli sfuggono; e deve fare i conti con la sua stessa solitudine. Ed è qui che non può fare altro che impazzire. A un certo punto sembra di trovarsi in un centro psichiatrico; una coscienza troppo sporca per essere perdonata. Le mura si tingono di viola, e ritorna la musica con un omaggio a Frank Sinatra e la sua “My Way”; è l’ultimo saluto di chi ha osato fare il passo più lungo della sua gamba. “And now the end is here, and so I face that final curtain…” E come Sinatra, canta al mondo la storia di un uomo che guardando in faccia la morte non rinnega nulla della sua vita, di ciò che ha fatto, poiché in fondo riconosce di essere sempre stato fedele a sé stesso, di aver fatto le cose “a modo suo”. Così, si chiude il sipario. Così, si torna al buio. Photocredit: Manuela Giusto / Redazione Gbopera
Roma, Palazzo Carpegna
Accademia Nazionale di San Luca
MICHAEL SWEERTS. REALTA’ E MISTERI NELLA ROMA DEL SEICENTO
Roma, 07 Novembre 2024
La mostra “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento”, ospitata presso l’Accademia Nazionale di San Luca a Palazzo Carpegna, rappresenta una rara opportunità di esplorare la produzione di un artista enigmatico come Michael Sweerts, la cui vicenda umana e artistica si colloca tra la Bruxelles fiamminga e la Roma seicentesca, fino a giungere alle coste lontane di Goa. L’esposizione, curata da Andrea G. De Marchi e Claudio Seccaroni, intende svelare la complessità e l’unicità della figura di Sweerts, il cui lavoro si è arricchito recentemente di nuove letture e importanti scoperte archivistiche e di restauro, che hanno permesso collegamenti fra opere e tracce documentali, nonché riesami tecnici. Michael Sweerts è uno dei pittori fiamminghi più enigmatici, complessi e intimamente internazionali, il cui percorso biografico sembra costantemente avvolto dal mistero, quasi come se la storia avesse voluto lasciarci solo frammenti di una vicenda complessa, fatta di sfide e di ambizioni. Nato a Bruxelles intorno al 1624, Sweerts è stato ignorato dagli storici della sua epoca, ma riscoperto dai critici nordeuropei attorno al 1900 e, a metà del secolo, da italiani come Giuliano Briganti e Roberto Longhi. Le ricerche hanno rivelato che Sweerts era di origini aristocratiche e che non seguì le maggiori correnti artistiche del suo tempo, grazie anche a un’indipendenza economica e intellettuale che lo ha reso libero dai capricci della committenza. Sweerts si forma artisticamente in un contesto in cui l’influenza della pittura fiamminga, con la sua attenzione al dettaglio e alla rappresentazione del reale, si mescola alla tradizione italiana del chiaroscuro e della teatralità. Soggiornò a Roma dal 1643 al 1653, vivendo in via Margutta dal 1646 al 1651 e sicuramente venne a contatto con l’indisciplinata comunità dei pittori olandesi e fiamminghi. Aprì uno studio dove raccolse calchi in gesso di frammenti scultorei antichi e moderni, ricorrenti nelle sue tele quali tracce classiciste di Roma e strumenti di una rivendicata pratica d’artista, contrapposta ai consueti approcci astratti e teoretici. La sua arte si è sviluppata in un’epoca in cui Roma — centro pulsante dell’arte e della cultura barocca — accoglieva artisti provenienti da ogni angolo d’Europa, in un fervente scambio di idee e tecniche. Influenzato dai Bamboccianti e dallo studio diretto dei dipinti del giovane Caravaggio, in particolare quelli Pamphilj, Sweerts conquistò in breve una chiara autonomia poetica, dedicandosi a pungenti rappresentazioni di atelier in cui è frequente la presenza di giovani allievi dediti alla copia dei modelli antichi. La Roma da lui narrata riunisce tutte le classi sociali, soprattutto quelle popolari, con giovani prostitute e vecchi bevitori situati in scorci urbani tra miseria e nobiltà. Sempre al periodo romano si può ricondurre l’interesse di Sweerts per le rappresentazioni del cielo, tema che svilupperà anche dopo il ritorno in patria. La mostra, allestita nelle sale storiche di Palazzo Carpegna, si sviluppa come un percorso di scoperta e riflessione sulla dualità del reale e del mistero, temi centrali nell’opera di Sweerts. Le sue tele sono caratterizzate da un’attenzione quasi ossessiva ai dettagli del quotidiano, ai volti di uomini e donne catturati nella loro realtà più autentica, e allo stesso tempo da un velo di ambiguità che lascia spazio all’invisibile, al non detto. Questa tensione tra realtà e mistero, tra chiarezza e opacità, emerge in ogni pennellata, trasformando le sue opere in un continuo dialogo tra il mondo tangibile e quello enigmatico, tra ciò che vediamo e ciò che resta celato. Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è la possibilità di osservare da vicino il lavoro di restauro e le recenti scoperte archivistiche che hanno gettato nuova luce su Sweerts e la sua attività. Tali scoperte hanno permesso di delineare con maggior precisione alcuni aspetti della sua produzione artistica e della sua vita, rivelando nuove connessioni tra la sua pittura e il contesto culturale e sociale del suo tempo. Le sue opere testimoniano una capacità unica di cogliere la dignità del quotidiano, con una sensibilità che sfida le convenzioni del tempo e anticipa una visione più intima e personale della realtà. La curatela di Andrea G. De Marchi e Claudio Seccaroni ha mirato a esaltare proprio questa tensione tra l’apparente semplicità della rappresentazione e la complessità del significato sottostante. Le opere di Sweerts sono disposte in un modo che invita il visitatore a riflettere sul dualismo che caratterizza il suo stile: scene di vita quotidiana, ritratti di giovani apprendisti, uomini al lavoro, ma anche momenti di raccoglimento spirituale, con figure avvolte in una luce che sembra provenire dall’interno piuttosto che dall’esterno. Questo contrasto è amplificato dall’allestimento, che utilizza la luce naturale filtrata dalle grandi finestre del Palazzo Carpegna per creare un’atmosfera di sospensione e introspezione. La scelta di ospitare la mostra all’Accademia Nazionale di San Luca — istituzione secolare che ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione e promozione degli artisti — non è casuale, ma vuole sottolineare il legame profondo tra la ricerca artistica di Sweerts e l’ambiente romano in cui operò. Roma non è solo lo scenario fisico delle sue opere, ma anche un luogo di trasformazione spirituale e intellettuale, dove l’artista ha potuto confrontarsi con i grandi maestri del passato e con la complessità culturale del Seicento. Divenuto profondamente religioso, Sweerts si imbarcò nel 1661 da Marsiglia verso l’Oriente, per seguire una missione lazzarista francese, trovando la morte probabilmente a Goa. La mostra è un’occasione straordinaria per scoprire e approfondire la sua assoluta singolarità e chiarire alcuni dei misteri che aleggiavano sul suo conto, tra cui la sua vocazione all’insegnamento e all’avvio professionale dei giovani artisti. Questo aspetto del suo lavoro, spesso ignorato, viene ora rivalutato come una vera e propria scuola di formazione, in cui non sembra aver imposto il proprio linguaggio. La mostra “Michael Sweerts. Realtà e misteri nella Roma del Seicento” si presenta dunque come un viaggio attraverso il visibile e l’invisibile, in cui il visitatore è chiamato a interrogarsi sulla natura stessa della rappresentazione e sul ruolo dell’artista come mediatore tra realtà e immaginazione.
Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2023-2024
“IL ROSSO E IL NERO” DI UWE SCHOLTZ
Balletto in tre atti dall’omonimo romanzo di Stendhal
Musica Hector Berlioz
Direttore Martin Georgiev
Coreografia Uwe Scholz
Coreografo ripetitore Giovanni Di Palma
Julien Sorel MICHELE SATRIANO
Madame De Rénal REBECCA BIANCHI
Mathilde De La Mole MARIANNA SURIANO
Monsieur De Rénal ANTONELLO MASTRANGELO
Marquis De La Mole FRANCESCO MARZOLA
Orchestra, Étoiles, Primi ballerini, Solisti e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Scene Ignasi Monreal
Costumi Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Roma, Teatro Costanzi, 30 ottobre 2024
Grande il richiamo di un titolo come Il rosso e il nero, preso in prestito dall’opera letteraria di Stendhal. Sicuramente in molti avranno provato la curiosità nella loro vita di accostarsi al romanzo scritto dal letterato francese nel 1830, epoca del romanticismo nelle sue varie sfumature. Amato persino da Italo Calvino per la sua tensione morale e gli slanci vitali, in realtà Stendhal ci presenta una sorta di romanzo storico ravvivato dalle ambizioni del protagonista Julien Sorel e dai suoi amori travolgenti. La scrittura è lineare, anche se a tratti presenta frasi iconiche quali “l’amore crea le uguaglianze e non le cerca”. Può dare questo vita a un balletto di rilievo? In risposta a tale quesito, il Teatro dell’Opera di Roma ci ha offerto la visione del balletto omonimo, realizzato dal coreografo Uwe Scholz nel 1988 all’Opera di Zurigo. Il coreografo tedesco aveva studiato a Stuttgart con John Cranko, uno dei più grandi maestri del filone del balletto narrativo novecentesco. La produzione che oggi vediamo nella ripresa di Giovanni di Palma era nata come un omaggio al maestro scomparso in occasione della ricorrenza dei 60 anni dalla nascita. Tale eredità si associa qui però al tentativo di utilizzare la musica sinfonica del geniale compositore francese Hector Berlioz. Il clima respirato in Francia all’epoca della Restaurazione è qui reso in maniera simbolico-surreale dalle scenografie di Ignasi Monreal, giovane creativo spagnolo reduce da importanti collaborazioni con i più noti brand della moda. La difficoltà e l’interesse maggiore presentato dallo spettacolo è capire chi sia veramente Julien Sorel, se sia un’opportunista dedito alla scalata sociale tramite manipolative relazioni sentimentali o se mantenga fino alla fine fede ai propri ideali formatisi in lui fin dall’adolescenza grazie a ferventi letture. Per tradurre in danza gli spunti psicologici offerti dal romanzo, Uwe Scholtz parte dalla tradizione. Julien Sorel si presenta con il libro in mano, mentre il contesto contadino e la sua energia quasi scomposta richiama alla mente il balletto Giselle. Le grandi teste marmoree raffigurate in scena ricordano l’epoca del pittore neoclassico francese Jacques-Louis David, unendovi un particolare fascino che sembra derivare da De Chirico. Il reale incipit drammatico è però affidato alla raffinata scena ambientata nell’appartamento di Monsieur de Rȇnal, dove fin da subito si nota la ritrosia della moglie. Ella tenterebbe di abbandonarsi a qualche tiepido slancio verso il marito, ma la distrazione di lui ne limita i voli. Diversa la tensione espressa con un semplice sguardo nel notare la comparsa di Julien Sorel. Egli la ricambia all’istante. Attraverso baldanzosi grand jetés, attitudes e pirouettes il protagonista maschile esprime la potenza dei suoi sogni di affermazione che includono anche l’amore. Tutto sembra concretizzarsi nella camera da letto, quando l’étoile Rebecca Bianchi dopo infinite reticenze cede infine al corteggiamento di Sorel, abbandonandosi con lui a eloquenti slanci lirici sulla musica della Nuit sereine et scène d’amour da Roméo et Juliette di Berlioz. In lei pare di rivedere la Ferri nel Romeo e Giulietta di Cranko, ma nel continuo cercare di divincolarsi unito al grande impeto musicale ci sembra di ravvisare anche l’impronta lasciata da Galina Ulanova nella tradizione russa del drambalet. Il Julien Sorel del primo ballerino Michele Satriano si rivela anche qui energico, volitivo, gioioso, distinguendosi dalla romantica interpretazione di Claudio Cocino in altre serate, e questo fa capire il grande ruolo e la libertà offerti nella coreografia di Scholz ai protagonisti principali. L’intrigo è scoperto, e ad attendere Julien è l’oscurità del seminario con il trionfante simbolo della croce. Nel secondo tempo dello spettacolo è invece il rosso a campeggiare accompagnato da vistose passioni. Tra grandi candelabri ispirati al mondo di Versailles, Julien Sorel nell’interpretazione di Michele Satriano si mostra decisamente sognante in languide arabesques. La sua partner diviene adesso la capricciosa Mathilde de la Mole interpretata dalla nuova prima ballerina del teatro Marianna Suriano che non esita a coniugare fierezza e sensualità. Il nuovo duetto d’amore diviene adesso una sfida, un simbolico duello che riprende motivi tratti dalla follia di Giselle coniugandoli a un linguaggio coreografico particolarmente eccentrico. Necessariamente gli accenti delle pose femminili sono in fuori e non pare qui di ravvisare una reale sintonia amorosa, bensì solo l’accostamento di due imperiose individualità. Facile passare ai dinamici intrecci dell’esercito e al tentativo di omicidio. Al delitto segue il castigo, la condanna, l’esecuzione, ma i sentimenti non si estinguono e si rivela infine chi è Sorel per Uwe Scholtz. ..Quando le amanti vanno a salutarlo a prevalere è il rapporto con Madame de Rȇnal. La morte è accolta con eroismo (lo sfondo è qui significativamente illuminato di rosso), ma non desta particolari clamori. È la musica della Marche Funébre dalla Grande symphonie funèbre et triomphale a manifestare la gravità del momento. Il balletto si conclude in chiave gotica-biblica soffermandosi sulla folle visionarietà di Mathilde de la Mole. Un nuovo banco di prova per la compagnia che si mostra decisamente all’altezza. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Vittoriano e Palazzo Venezia
GUGLIELMO MARCONI. VEDERE L’INVISIBILE
Nelle sale del Vittoriano e di Palazzo Venezia, emerge un uomo complesso, quasi evanescente, come avvolto nel mistero di ciò che ha reso visibile l’invisibile. Guglielmo Marconi non è più il trionfatore celebrato sui manuali, ma appare qui in tutta la sua intimità, attraverso un itinerario che intreccia tecnologia e anima, ricerca e inquietudine. La mostra, “Guglielmo Marconi. Vedere l’invisibile,” si snoda tra due ambienti in apparente contrapposizione, quasi a suggerire la doppia natura dell’inventore e la sua incessante ricerca. Da un lato, la Sala Reale di Palazzo Venezia, ampia e luminosa, dove la luce naturale si riversa sugli oggetti esposti, sembra aprire uno spazio di respiro, di ammirazione silenziosa. Qui, radio d’epoca, strumenti tecnici complessi, cavi attorcigliati e raffinati congegni in ottone disposti in ordine, raccontano la dimensione pubblica di Marconi. Un pioniere, un visionario, colui che ha visto l’onda prima che esistesse. Osservare questi strumenti è come assistere alla materializzazione del progresso, un progresso che sembra respirare la stessa luce che li illumina. Dall’altro lato, nella Sala Zanardelli al Vittoriano, l’atmosfera cambia: uno spazio lungo e stretto, quasi soffocante, illuminato da faretti artificiali che creano ombre sui documenti e sugli oggetti personali, accentuandone i dettagli più intimi. È qui che emerge un Marconi più umano, un uomo di lettere, di relazioni e di scelte difficili. Le lettere di corrispondenza, alcune vergate a mano e altre battute a macchina, ci riportano a un tempo in cui comunicare era un gesto solenne, ponderato. I toni, le riflessioni, i dubbi su carta sono lì a mostrare il lato fragile e pensieroso di un uomo che, dietro alla sua genialità, custodiva anche timori e incertezze. Questi documenti, insieme agli oggetti personali – una penna, un paio di occhiali dalla montatura sottile, una vecchia cartolina ingiallita – sembrano sospesi in un silenzio che racconta, senza parole, il prezzo dell’isolamento. Il percorso espositivo, suddiviso in otto sezioni, accompagna il visitatore attraverso tappe che vanno dalla giovinezza del giovane curioso e visionario alla conquista delle onde radio. In ogni angolo, installazioni interattive e filmati animano la storia, portando alla luce il volto di un Marconi imprenditore e stratega, oltre che inventore. Una delle sezioni più suggestive include il documentario sull’Elettra, la “nave laboratorio” di Marconi, uno spazio fluttuante che divenne il suo rifugio scientifico e umano, un luogo dove poteva sperimentare e osservare in solitudine. È quasi palpabile la sensazione che, su quella nave, Marconi non cercasse solo risposte tecniche, ma un equilibrio interiore lontano dagli applausi e dal clamore. Con la collaborazione di Cinecittà, dell’Archivio Luce e di istituzioni prestigiose come le Bodleian Libraries di Oxford e il Museo Storico della Comunicazione di Roma, la mostra si arricchisce di materiale raro e prezioso. Cavi, strumentazioni tecniche, fotografie d’epoca e reperti provenienti da 34 enti prestatori sembrano narrare una storia in ogni piccolo dettaglio, come se il peso del passato continuasse a vibrare, offrendo al pubblico un viaggio che va oltre la semplice osservazione. Il supporto di sponsor come ENEL, Fincantieri e Terna e la collaborazione della Fondazione Leonardo, che ha contribuito con contenuti multimediali sviluppati con l’intelligenza artificiale, rende l’esperienza completa, senza mai cadere nel superfluo. In questa dicotomia di spazi – tra la solennità luminosa di Palazzo Venezia e l’ombra quasi claustrofobica del Vittoriano – emerge una narrazione che non si limita a celebrare un genio, ma ne mette in scena la tensione, la solitudine e il desiderio di comprendere ciò che agli occhi degli altri sfuggiva. Ogni strumento, ogni cavo e lettera, diventa una tessera che ricostruisce la personalità di Marconi, mostrandoci non solo un inventore acclamato, ma un uomo che ha pagato con la propria intimità il desiderio di esplorare l’invisibile. Marconi, in qualche modo, si allontana tra le ombre e la luce, come un’eco che vibra nell’etere, ricordandoci che il tentativo di afferrare l’invisibile richiede sacrifici di cui resta traccia solo tra le pieghe di una penombra, dietro le lenti di un paio di occhiali o nel riflesso di una radio d’epoca. Guglielmo Marconi fu non solo il pioniere delle trasmissioni radio, ma un rivoluzionario che aprì nuovi orizzonti, spingendo l’umanità oltre il visibile, verso un’era di comunicazioni senza confini. “Era da poco trascorso mezzogiorno, quel 12 dicembre 1901, quando portai la cuffia all’orecchio e mi misi all’ascolto. Il ricevitore appoggiato sul tavolo di fronte era molto rudimentale, con solo qualche bobina, senza valvole, né amplificatori, senza neanche un cristallo”. Queste parole evocano un momento storico: un giovane di appena 27 anni che sfida le convenzioni della fisica, dimostrando che la comunicazione poteva travalicare l’Oceano Atlantico, collegando il vecchio e il nuovo mondo in un simbolico abbraccio. Più di cento anni fa, alle 12.30 post-meridiane, a St. John’s, sull’isola di Terranova, il ricevitore di Marconi captò il messaggio del primo telegrafo senza fili che attraversò l’Atlantico. I tre punti della lettera S dell’alfabeto Morse, partiti dall’antenna di Poldhu in Cornovaglia, rappresentarono un punto di svolta nella storia delle comunicazioni. Un trionfo che non solo dimostrò il potere delle onde radio di curvare insieme alla Terra, ma gettò le basi per la radio moderna. Dopo quel successo, la radio iniziò a trasmettere musica e parole, diventando parte della quotidianità e trasformandosi in uno strumento di salvezza per molte vite, come nel caso del Titanic. Quando Marconi morì, nel 1937, il mondo gli rese omaggio con un gesto unico: tutte le stazioni radio si interruppero per un minuto, silenzio che risuonò come un tributo all’uomo che aveva rivoluzionato il modo di comunicare. La mostra “Vedere l’invisibile” è, dunque, più di un omaggio a un genio. È un viaggio attraverso i paradossi della modernità: tra la ricerca della connessione e il prezzo dell’isolamento, tra l’avanzamento tecnologico e le inquietudini di un uomo. Marconi ci invita a guardare oltre, a cercare la verità invisibile che vibra nell’etere, consapevoli che il progresso non è mai solo un accumulo di invenzioni, ma una tensione continua verso l’invisibile, un sacrificio umano che si cela dietro ogni grande conquista.
Roma, Teatro Sala Umberto
APPUNTAMENTO A LONDRA
Con Luigi Tabita e Lucia Lavia
Scene e costumi Anna Varaldo
Musiche originali nogravity4monks
Regia Carlo Sciaccaluga
Roma, 04 Novembre 2024
Dal 4 al 6 novembre, il Teatro Sala Umberto di Roma accoglie l’atteso spettacolo “Appuntamento a Londra”, ispirato all’opera del premio Nobel Mario Vargas Llosa, il quale ha dichiarato: “La scena teatrale è lo spazio privilegiato per rappresentare la magia di cui è intessuta anche la vita della gente: quell’altra vita che inventiamo perché non possiamo viverla davvero, ma solo sognarla grazie alle splendide menzogne della finzione”. Con una regia sensibile e attenta di Carlo Sciaccaluga, i personaggi Raquel e Chispas diventano Maddalena e Luca, magistralmente interpretati da Lucia Lavia e Luigi Tabita. La trama si svolge in una camera d’albergo, un luogo intimo e isolato dal resto del mondo, dove un uomo d’affari, Luca, riceve la visita di una donna che si presenta come la sorella di un vecchio amico, Nino. Ma la verità, ben più complessa, non tarda a emergere: è lei stessa Nino, che ha completato da poco il percorso di transizione. La scoperta scuote profondamente Luca, che, da inizialmente sicuro di sé, inizia a vacillare, rivelando insicurezze e paure finora celate dietro una maschera di apparente stabilità. In questo scambio intimo e serrato, il ricordo di schiaffi e baci non dati, riaprono ferite antiche e sentimenti mai risolti, dando vita a un viaggio introspettivo che tocca la scoperta di sé, tra l’amore e il tormento, il desiderio e il rimpianto. L’atmosfera si fa densa e sospesa, mentre il gioco di luci di Gaetano La Mela accentua i chiaroscuri della scena, creando un’ambientazione onirica che fonde sogno e realtà. Le scenografie, le luci e i suoi colori, richiamano le atmosfere del pittore Edward Hopper, con un realismo che evoca al contempo uno straniamento sottile, una sospensione temporale che amplifica il senso di isolamento umano e la complessità dell’anima. È un realismo che si perde, che sfuma i confini della stanza d’albergo come una bolla fuori dal tempo. La camera d’albergo appare così un microcosmo di tensioni emotive, capace di contenere tutte le sfumature dei personaggi, dalla fragilità alla forza, dall’amore al dolore. I costumi e le scene di Anna Varaldo contribuiscono a questa dicotomia, donando concretezza al mondo tangibile ma suggerendo, al tempo stesso, una dimensione sospesa. Lucia Lavia, nei panni di Maddalena, si distingue per la sua presenza scenica magnetica, dando vita a un personaggio complesso e sfaccettato. Con un linguaggio diretto e a tratti crudo, riesce a trasmettere l’intensità del ruolo che interpreta, mantenendo un distacco quasi onirico dalla realtà. In un momento di particolare forza emotiva, recita un monologo tratto da Io canto il corpo elettrico di Walt Whitman, un inno alle meraviglie del corpo sensuale. Il suo corpo diventa fluido, la sua voce riecheggia tra il pubblico, portando gli spettatori a interrogarsi su temi come identità, corporeità e ruolo sociale. Le sue parole richiamano il tormento e la tensione interiore dei personaggi di “Persona” di Ingmar Bergman, che si rivelano attraverso una dialettica di parole e silenzi. Come in quel film, emerge il desiderio profondo di “essere, non sembrare di essere,” oscillando tra ciò che si è per sé stessi e ciò che si è agli occhi degli altri. Luigi Tabita, nel ruolo di Luca, intraprende un viaggio di vulnerabilità e auto disvelamento altrettanto toccante. Tenta di liberarsi dalla maschera che ha deciso di indossare nella vita, e che gli altri gli hanno imposto, quella del “bravo ragazzo” reso felice dai soldi, dal lavoro; ora però non si riconosce più. Cerca di strapparsela, quella maschera, dall’inizio alla fine, in un gesto lento che parte dalla sua bocca e sembra gridare in un urlo silente. Ogni movimento e ogni parola rivelano progressivamente la fragilità del suo personaggio, evocando la vulnerabilità dei protagonisti dei film di Michelangelo Antonioni, in cui il desiderio di connessione si scontra con una solitudine profonda. I dialoghi tra Maddalena e Luca, intrisi di tensione e ambiguità, conducono il pubblico in un vortice di domande senza risposta. “Ci siamo mai davvero conosciuti? È stato amore, amicizia, o solo un gioco crudele? C’è mai stata violenza fisica?” Le loro conversazioni si intrecciano, sovrapponendo il confine tra verità e menzogna, tra ricordo e illusione. La narrazione si sviluppa in modo intrigante, per sottolineare questo filo che divide la realtà dal sogno. Il nastro della storia si riavvolge in loop, generando scene che si ripetono come un disco graffiato, che risuona di vecchie verità e nuove possibilità. Alcuni frammenti s’intrecciano con scenari alternativi, portando alla luce ciò che è accaduto, ciò che sarebbe potuto accadere e ciò che gli stessi personaggi avrebbero voluto che accadesse. Questo gioco di possibilità richiama le dinamiche di Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese. Verso la fine, la voce di figure esterne si inserisce nella vicenda, quasi come presenze fantasmatiche che, pur restando fuori campo hanno influenzato le vite dei protagonisti. Tra queste voci, quella della madre di Maddalena risuona, come un’eco lontana: “Ma che bel signorino che è Luca.” Questo richiamo pungente si diffonde tra il pubblico, ricordando la radice etimologica della parola “persona” – ciò che si cela dietro una maschera. Fino alla fine, la domanda centrale resta sospesa: siamo davvero ciò che diciamo di essere, o è soltanto nello sguardo dell’altro che scopriamo chi siamo veramente? In un momento culminante, sulle note malinconiche di “Vedrai, vedrai” di Luigi Tenco, Luca esprime il proprio tormento interiore. È forse nello sguardo di chi lo ama che per la prima volta comprende la sua inadeguatezza? È lì, forse, che riconosce le sue mancanze e avverte la distanza tra ciò che è e il sogno che ha inseguito durante la sua vita. “Appuntamento a Londra” si rivela un’indagine affascinante sull’essenza della verità, un thriller esistenziale in cui ogni parola scava nella profondità dell’animo. Ma quale verità? E a che prezzo? Ciò che resta è un dubbio sottile e persistente: cosa abbiamo davvero visto? La vita come un sogno, o un sogno che si è fatto realtà? Photocredit@AntonioParriniello
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
ASPETTANDO RE LEAR
di Tommaso Mattei
da William Shakespeare
opere in scena Michelangelo Pistoletto
Regia di Alessandro Preziosi
Re Lear ALESSANDRO PREZIOSI
Gloucester NANDO PAONE
Kent ROBERTO MANZI
Cordelia ARIANNA PRIMAVERA
Edgar VALERIA AMELI
costumi Città dell’arte/Fashion B.E.S.T
Olga Pirazzi, Flavia La Rocca, Tiziano Guardini
musiche Giacomo Vezzani
supervisione artistica Alessandro Maggi
PATO srl, Teatro Stabile del Veneto e Teatro della Toscana
Roma, 05 Novembre 2024
“As flies to wanton boys are we to the gods; they kill us for their sport.” William Shakespeare, Re Lear
Alessandro Preziosi ritorna al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma con Aspettando Re Lear, un’opera densa di suggestioni e rimandi, che si colloca al culmine di una lunga tournée costellata di successi dal Napoli Festival Teatrale al Teatro Romano di Verona. Non è una mera trasposizione contemporanea dell’omonima tragedia shakespeariana, bensì una meditazione raffinata e dolorosa, un atto di scavo nelle vene più intime del dramma umano, che esplora con lucida disperazione il fragile equilibrio tra padri e figli, i limiti del potere e il declino inesorabile dell’umana pretesa di dominare il proprio destino. Preziosi si avvale di una drammaturgia che disegna con tratti profondi un Lear il cui affanno sembra ricalcare quello dell’umanità intera: un sovrano senza più corona, che non cerca una fine quieta, ma un compimento sofferto nel nodo irriducibile della maturità. La regia, calibrata con un’intelligenza visionaria e un gusto per la sottrazione, incastona lo spettacolo in uno spazio scenico che sfugge alla realtà e si addentra nei territori dell’astrazione. Le opere di Michelangelo Pistoletto non sono un semplice sfondo, ma un contrappunto, una forma di dialogo materico che si muove in simbiosi con gli attori, componendo un universo immaginario, una scacchiera concettuale dove ogni figura sembra inscriversi nella tela imperscrutabile del caso. Il pubblico non si limita a osservare, ma è chiamato a immergersi in questa dimensione sospesa, dove il limite tra la verità e l’illusione si fa sottilissimo, rendendo ogni gesto, ogni silenzio e ogni sguardo parte integrante di un linguaggio enigmatico. La musica di Giacomo Vezzani, fedele compagna di questo viaggio, segna ogni passo della discesa di Lear verso la follia con un pathos che diventa quasi liturgico, una lenta e inesorabile caduta scandita da ritmi ossessivi e struggenti, come un’eco profondo che pare emergere dal ventre stesso della tragedia. Le note tracciano una spirale sonora che avvolge il patriarca, restituendo al pubblico l’impressione di un vortice senza uscita, dove ogni cosa sembra sgretolarsi per poi ricomporsi nel compimento dell’inevitabile. Preziosi e Vezzani orchestrano una discesa che appare senza ritorno, dove la corte fedele, accettata da se stessa, diventa spettatrice e vittima di un disastro che è anche interiore. Al fianco di Preziosi, Nando Paone – nel ruolo del tormentato Gloucester – è il contraltare tragico che, nella sua sofferenza, amplifica la solitudine del sovrano incarnando un’umanità ferita e priva di appigli. Altrettanto intensi sono Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia, Roberto Manzi nel ruolo di Kent e Valerio Ameli come Edgar, interpreti che animano, con una tensione quasi palpabile, l’intreccio di relazioni e destini che fa di Aspettando Re Lear un’opera corale e profonda. La filosofia di Pistoletto si intreccia con il percorso teatrale di Preziosi in una commissione multidisciplinare che non è solo estetica, ma concettuale. Il “Terzo Paradiso” di Pistoletto, simbolo di una nuova armonia tra artificio e natura, si traduce in scena in una dinamica di costumi e scenografie che invita il pubblico a una riflessione sottile e inquietante. I costumi, realizzati dal collettivo Fashion BEST con materiali sostenibili, rappresentano l’essenza di ogni personaggio, evocando una pelle secondaria, che si consuma e si rinnova, in una metafora silente della vita stessa. Il denim, simbolo di resilienza, si mescola con il nero della mussola, un non colore che assume la funzione di richiamare l’origine, l’essenza, il punto zero da cui riemerge l’essere. Preziosi non si limita a interpretare Lear; lo vive, lo attraversa, in una rappresentazione che diviene esistenziale e che riecheggia le intuizioni di Beckett in Aspettando Godot, rendendo il suo re un uomo sospeso, che assiste impotente allo sgretolamento dell’ordine naturale. In questa rilettura, il dramma shakespeariano diviene più che mai una metafora di decadenza e rinascita, una riflessione sulla caducità dell’ordine umano e sul bisogno di riemergere da quell’inesorabile vuoto che accompagna ogni tentativo di dominio sul reale. L’incontro tra l’arte contemporanea di Pistoletto e la parola classica di Shakespeare si fonde in un’opera che interroga e scuote, un grido di caduta e insieme di rigenerazione, che si specchia nel tempo e si rivolge, in modo muto e inesorabile , alla coscienza di chi guarda. Così aspettando Re Lear non è solo spettacolo, ma un invito a riconsiderare i legami che ci citiamo, le gerarchie e gli abissi che ci dividono. Un’opera che, come il Lear di Preziosi, vaga nella tempesta dell’indifferenza contemporanea, ricordandoci che l’umanità, come quel re senza corona, è destinata a confrontarsi con il nulla – e forse a scoprire, nel suo cuore oscuro, una nuova possibilità di senso.un non-colore che assume la funzione di richiamare l’origine, l’essenza, il punto zero da cui riemerge l’essere. Nel silenzio assorto della messinscena, il pubblico ha dimostrato un’attenzione rara, quasi reverenziale, che ha reso ogni gesto, ogni sussurro della scena ancora più vivido e pregnante. È stato uno spettatore vigile, capace di abbandonarsi al ritmo interno dello spettacolo, senza mai interromperlo, ma anzi alimentandone la tensione e la suggestione. E nel finale, come in un’esplosione trattenuta, quell’energia accumulata è sfociata in un applauso che non era solo un tributo agli interpreti, ma una partecipazione sentita, autentica, di chi aveva condiviso un viaggio profondo e intenso.
Roma, Museo di Roma in Trastevere
TESTIMONI DI UNA GUERRA
Memoria grafica della Rivoluzione Messicana
Roma, 05 Novembre 2024
Il Museo di Roma in Trastevere, nel cuore pulsante di uno dei quartieri più caratteristici della capitale, ospita una mostra che celebra i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Messico e Italia. In collaborazione con l’Ambasciata del Messico in Italia, la mostra offre al pubblico un viaggio fotografico unico, attraverso l’obiettivo di Agustín Víctor Casasola e Miguel Casasola, pionieri del reportage in America Latina. L’evento mette in scena 40 fotografie provenienti dall’Archivio Casasola, un patrimonio inestimabile per comprendere una delle più importanti rivoluzioni sociali del XX secolo: la Rivoluzione Messicana, che ebbe luogo tra il 1910 e il 1920. La selezione di scatti, in rigoroso bianco e nero, fa immergere lo spettatore nelle atmosfere ribollenti di un decennio in cui il popolo messicano lottò per giustizia sociale e cambiamento politico, dando vita a figure eroiche come Francisco I. Madero, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Venustiano Carranza. Questi nomi riecheggiano ancora oggi come simboli di una lotta che ha risuonato ben oltre i confini del Messico. Le fotografie non sono solo immagini fisse di un passato remoto, ma veri e propri documenti storici che raccontano l’evoluzione di un’intera società, unendo la narrazione dei leader della rivoluzione al vissuto quotidiano delle masse. La prospettiva dei Casasola si distingue per la capacità di cogliere la tensione sociale, la dignità dei campesinos, la determinazione delle donne messicane, e le celebrazioni nelle piazze improvvisate che diventavano scenario di resistenza. Le immagini mostrano le trincee improvvisate, i volti segnati dalla fatica e dalla speranza, e le espressioni dei leader politici, rendendo la Rivoluzione Messicana non solo un evento storico, ma un racconto epico di vite trasformate dal desiderio di giustizia. Agustín Víctor Casasola, insieme a suo fratello Miguel, ha dato vita a uno dei più vasti archivi fotografici mai realizzati in America Latina. Il Governo del Messico, conscio dell’importanza di tale eredità storica, acquisì l’intero archivio nel 1976, garantendone la conservazione presso l’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH). Attualmente, l’Archivio è custodito presso l’ex Convento di San Francisco, a Pachuca, e conta un totale di 484.004 immagini. Queste fotografie, che documentano un’ampia gamma di aspetti della società messicana di inizio XX secolo, rappresentano una testimonianza viva delle aspirazioni e delle lotte del popolo messicano. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è anche un’occasione per riflettere sul ruolo della fotografia come strumento di memoria e denuncia sociale. L’Archivio Casasola è un esempio straordinario di come l’immagine fotografica possa diventare veicolo di verità storica, uno sguardo onesto su una realtà spesso distorta dalla propaganda ufficiale. Attraverso le lenti dei fotografi Casasola, il visitatore viene accompagnato a comprendere i lati umani della rivoluzione: la povertà, la speranza, la violenza, ma anche il coraggio e la determinazione di chi credeva in un futuro migliore. Il contesto del Museo di Roma in Trastevere, con il suo fascino senza tempo e le sue sale suggestive, fa da perfetto scenario per queste fotografie. Trastevere, con il suo carattere popolare e la sua storia di resilienza, sembra rispecchiare l’anima stessa della Rivoluzione Messicana, fatta di gente comune che si ribella ai potenti per rivendicare la propria dignità. Visitare questa mostra significa non solo esplorare un capitolo di storia messicana, ma anche riflettere sulle lotte per la giustizia che, sebbene cambino epoca e contesto, rimangono universali. Le immagini sono esposte nelle sale del museo in modo tale da valorizzare al massimo il loro impatto visivo ed emotivo. L’allestimento è stato curato con grande attenzione, con l’obiettivo di creare un percorso narrativo che accompagni il visitatore attraverso le diverse fasi della Rivoluzione Messicana. Ogni sala è stata progettata per trasmettere un senso di immersione, utilizzando un’illuminazione sapientemente dosata che evidenzia i dettagli delle fotografie, esaltando i contrasti tra luci e ombre. Le luci, soffuse ma mirate, giocano un ruolo fondamentale nel creare un’atmosfera intima e riflessiva, che invita il pubblico a fermarsi davanti alle immagini, a coglierne ogni sfumatura e a riflettere sulle storie che raccontano. L’uso delle luci è stato studiato per evocare la drammaticità e la forza del momento storico immortalato dagli scatti dei Casasola. Le fotografie, spesso caratterizzate da un forte contrasto tra chiari e scuri, sono illuminate in modo tale da far emergere la profondità delle emozioni sui volti dei protagonisti. Le ombre create dall’illuminazione contribuiscono a dare un senso di tridimensionalità alle immagini, come se i personaggi potessero quasi uscire dalla carta per raccontare la propria storia. L’effetto complessivo è quello di una mostra che non si limita a esporre delle immagini, ma che riesce a creare un dialogo tra passato e presente, tra il visitatore e i protagonisti della storia. Le immagini esposte parlano di una rivoluzione che è stata, in primo luogo, un fenomeno popolare. La Rivoluzione Messicana non è stata guidata da ideologie astratte, ma è nata dall’esigenza concreta di migliorare la vita del popolo. Francisco I. Madero, con il suo appello alla democrazia, e figure come Emiliano Zapata, che lottò per la riforma agraria, rappresentano lo spirito di una nazione che rivendicava il diritto di essere padrona del proprio destino. La narrazione visiva dei Casasola riesce a catturare proprio questo: l’essenza del cambiamento che parte dalle persone comuni. Un altro aspetto significativo della mostra è l’attenzione dedicata alle donne della Rivoluzione Messicana. Le “Adelitas”, come venivano chiamate, hanno avuto un ruolo fondamentale nelle battaglie e nella logistica rivoluzionaria, e alcune delle fotografie in mostra restituiscono un ritratto intenso di queste combattenti, madri, sorelle e compagne che non si sono tirate indietro di fronte al conflitto. In un’epoca in cui la donna era spesso relegata ai margini della società, la Rivoluzione Messicana vide emergere figure femminili di straordinaria forza e determinazione, e l’obiettivo dei Casasola non mancò di onorarle. Grazie alla collaborazione con l’Ambasciata del Messico, il pubblico italiano può ora immergersi in questa narrazione potente, in cui ogni fotografia è una finestra su un passato che continua a parlare al nostro presente.
Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2024
Orchestra, Coro, Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Marco Angius
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Voci Bianche preparate da Alhambra Superchi
Soprano Maria Eleonora Caminada
Tenore Marco Ciaponi
Baritono Tamon Inque
Video Innovio Arts
Carl Orff: “Carmina Burana” , Cantata scenica basata su 24 dei poemi trovati nei testi poetici medievali che portano il medesimo nome
Bologna, 3 novembre 2024
L’autunno del Nouveau riprende con questi Carmina Burana: “cantata scenica”, recita la didascalia, ma qui, benché inseriti nella stagione Opera, eseguiti in forma di concerto. A dispetto dell’accompagnamento video curato da Innovio Arts: il problema della reinvenzione delle radici germaniche è ben posto, ma nonostante la perizia grafica e l’opportuna pertinenza dei riferimenti (oltre le ovvie miniature, il cinema di Lang, Wegener e Pabst), l’animazione di immagini dalle tinte pop-fluo fa molto screensaver, e risulta serenamente rinunciabile per l’ascolto. Ascolto ch’è di altissima qualità. La direzione di Marco Angius nulla ha di teatrale, anzi è analitica fino alla spietatezza. Senza indulgere mai all’effettaccio, tentazione in cui, con un siffatto organico fra le mani, è facile (s)cadere. Del resto già il titolo, per la sua popolarità (tutta concentrata in pochi minuti), mette in sospetto il conoscitore, che può tollerarne l’ascolto soltanto in esecuzioni tecnicamente irreprensibili. L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna ha assecondato magnificamente la lettura asciutta e severa di Angius, restituendo alla partitura il suo impressionante rigore ritmico, le sue taglienti sonorità, il suo incedere inquieto e intimamente novecentesco, senza il benché minimo compiacimento. Per fare un solo esempio: quella della Tanz che introduce la seconda parte Uf dem anger è un’esecuzione veramente mirabile. E il Nouveau, dal canto suo, non sarà suggestivo quanto ad architettura, ma garantisce senz’altro una buona acustica. Il Coro di Gea Garatti Ansini si conferma ottimo, ma a brillare qui sono specialmente le voci maschili che trovano nel celebre In taberna quando sumus il luogo ideale per esibire il loro virtuosismo. Sempre del Teatro Comunale è il Coro di Voci Bianche, diretto da Alhambra Superchi che ne ricava un bel suono compatto, pieno, disciplinato. Va ora introdotto un breve inciso sulla dizione. L’ascoltatore italiano non può trovare completa soddisfazione nell’ascolto delle grandi, mitiche incisioni dei Carmina che, com’è naturale, sono di area tedesca, per via della pronuncia latina che gli suona innaturale. Cominciando dall’inizio, già è arduo il “semper crescis aut decrescis”, ma poi la cosa diventa lampante sul “stillantibus ocellis“, che i cori di lingua tedesca scandiscono normalmente “ozellis”. Il che può mandare in crisi il liceale italiano che, se pure sa orientarsi fra pronuncia ecclesiastica e restituta, non può che restare interdetto dinnanzi a questa variante romagnola. Ma probabilmente è più corretto, trattandosi di un testo che poco oltre sconfina nell’alto tedesco, che la pronuncia sia quella germanofona. In ogni caso, conviene trovare un accordo: qui invece l’unico ad adottare una dizione tedescheggiante è il cigno arrostito di Marco Ciaponi, che pronuncia “iazio” il iaceo di “Nunc in scutella iaceo”. Per il resto, canta assai bene quel suo breve e scomodo intervento con squillo e bella omogeneità di timbro; e l’effetto, qui sì, teatrale, insito nella scrittura, funziona. Meno a suo agio Maria Eleonora Caminada, che dispone di timbro gradevole e corposo, ma difetta di sicurezza nell’impervio “Dulcissime! Ah! Totam tibi subdo me!”. Il più impegnato dei solisti è Tamon Inoue, baritono luminosissimo e snello, dal volume non immenso ma dalla dizione ben limpida, che se la cava discretamente anche con quella sorta di falsettone necessario in Dies, nox et omnia, brano che getta nel ridicolo anche i nomi più illustri. Ancora oggi il MedioEvo, nel nostro immaginario, è quello lì, così codificato da Orff, Wagner e Walt Disney. Peccato però che gli altri due pannelli del Trittico I Trionfi (Catulli Carmina e Trionfo di Afrodite) non vengano illuminati, neanche di luce riflessa, da questi famosi Carmina Burana.