Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma tratto da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo FABIO SARTORI
Renato AMARTUVSHIN ENKHBAT
Amelia MARIA TERESA LEVA
Ulrica SILVIA BELTRAMI
Oscar SILVIA SPESSOT
Silvano ANDREA BORGHINI
Samuel ZHIBIN ZHANG
Tom KWANGSIK PARK
Primo giudice CRISTOBAL CAMPOS MARTIN
Un servo d’Amelia SANDRO PUCCI
In collaborazione per le azioni sceniche con la Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone”
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna
con Teatro Regio di Parma e Fondazione Rete Lirica delle Marche
Bologna, 13 aprile 2025
Dal minuscolo boccascena di Busseto alle larghe fauci del Nouveau, quasi un orizzonte. Ma l’allestimento di Davide Signorini, molto chic, ci si accomoda placidamente. Mentre la regia fa i conti con il nuovo cast. Daniele Menghini, regista baciato dal sense of humor, ridimensiona il suo Riccardo da icona queer a simpatico ed eccentrico golosone. Dopo la lattina di Coca-Cola, già bussetana, compare una candida fetta di torta, che Oscar distrattamente rovescia sull’austero completo scuro di Renato: ecco in una trovata lo scontro fra i due mondi, quello frivolo e leggero del protagonista contro quello sobrio e severo del suo migliore amico nonché prossimo assassino. Naturalmente ci sono anche trovate non altrettanto folgoranti (la vampiresca biacca sul volto nel duettone, per esempio), e qualche registico cliché (come il completo sartoriale, anche la citazione al teatro elisabettiano non può mancare: almeno è l’occasione per Nika Campisi di sbizzarrirsi con la matericità sofisticata dei suoi costumi), ma lo spirito non manca mai e almeno non ci si annoia. Fabio Sartori, protagonista, cala sul tavolo una voce di ampie proporzioni, di solidità innegabile, dal timbro morbido e dallo smalto che riluce squillante. Non sarà poco, anzi nel panorama odierno è un fatto più unico che raro, ma è tutto qui: perché il fraseggio e l’espressione non vanno invero molto di là dal generico. Maria Teresa Leva, in sostituzione dell’annunciata Anastasia Bartoli, canta con bel timbro fresco e luminoso, che risulta forse solo un po’ asciutto nel registro grave. Un appunto stilistico: nella frase “Il feroce decreto mi vuol parte ad un’opra di sangue!” declamare adrianescamente l’ultima parola è quantomeno un azzardo. Amartuvshin Enkhbat sfodera il solito timbro glorioso, morbido, avvolgente. Potrebbe esser tacciato di sacrificare l’espressione alla sovrana eleganza della frase musicale: al contrario, pare a chi scrive che il cantante interni l’espressione al canto, come sempre dovrebbe essere. Silvia Beltrami è un’Ulrica esemplare: per la maniacale cura alla bellezza del suono, sempre femminile e mai sporcato da eccessi volgari o artefatti rigonfiamenti, e per la straordinaria chiarezza della dizione. Un canto elegante, raffinato, di grande scuola, che parrebbe modellato sulla mitica Ebe Stignani: uno stile ormai tragicamente vinto dalle dilaganti affermazioni di mezzosoprani di scuola tedesca e slava. Brillante, agile e luminosa Silvia Spessot come Oscar, un personaggio capitale destinato forse a non tradire mai del tutto il suo mistero. Completano il cast l’ottimo Silvano di Andrea Borghini; Zhibin Zhang e Kwangsik Park, due congiurati vocalmente non sovrastanti; bene il Giudice di Cristobal Campos Marin e il servo d’Amelia di Sandro Pucci. Riccardo Frizza dirige i complessi bolognesi con saldo mestiere: energico, netto e limpido. La sua lettura ha forse il limite di risultare, nel complesso, piuttosto prosaica: di quell’estasi, di quella levità, di quell’elasticità, di quella complicità che rendono il Ballo irresistibile resta ancora appetito all’ascoltatore. Foto Andrea Ranzi
Ercolano, Antiquarium
IL LEGNO CHE NON BRUCIO’ AD ERCOLANO
curato da ACME04 srl
con il supporto tecnologico di Tecno-El Tecnologie Elettroniche srl
Ercolano, 10 aprile 2025
All’Antiquarium del Parco Archeologico di Ercolano prende forma una nuova esposizione permanente che si configura come una vera e propria “capsula del tempo”. Una selezione straordinaria di reperti lignei, unica al mondo per quantità e qualità, restituisce al pubblico la dimensione tangibile della vita domestica nell’antica Herculaneum. Non semplici frammenti di arredo, ma veri e propri fossili culturali, sopravvissuti al disastro del 79 d.C. grazie a un paradosso fisico-chimico che ha fatto della distruzione stessa una matrice di conservazione. È infatti proprio nell’eccezionalità del processo di carbonizzazione, innescato dal flusso piroclastico del Vesuvio e favorito dall’assenza di ossigeno sotto una coltre di fango incandescente alta oltre venti metri, che questi oggetti trovano la loro fortuna postuma. Non combusti, ma carbonizzati: i manufatti lignei, pietrificati nella loro forma, si sono salvati, restituendoci con nitidezza le tracce materiali di un mondo perduto. Arredi, contenitori, strumenti d’uso quotidiano, intarsi e superfici decorate: ogni pezzo racconta un racconto silente, fatto di gesti e abitudini, estetica e funzione. Dopo l’esperienza espositiva alla Reggia di Portici (2022–2023), i reperti trovano ora una nuova e accurata collocazione nell’Antiquarium del Parco, dove si inseriscono in un percorso museografico rinnovato, che replica idealmente due ambienti di una domus romana. L’allestimento, curato da ACME04 srl, con il supporto tecnologico di Tecno-El Tecnologie Elettroniche srl, combina rigore scientifico e immersività sensoriale, ponendo al centro il valore testimoniale di questi fragilissimi oggetti. I fondali ispirati alla decorazione parietale romana e le teche climatizzate ospitano pezzi simbolici come larari, letti, armadi, tavoli, una culla, fino al relitto ligneo di un’imbarcazione rinvenuta lungo l’antica spiaggia. Il percorso è arricchito da supporti multimediali che, attraverso ricostruzioni 3D e narrazioni visive, superano le didascalie tradizionali, coinvolgendo il visitatore in una fruizione emotiva oltre che informativa. L’esperienza si integra idealmente con le altre sezioni del Parco, dal Padiglione della Barca – che rievoca le fasi finali dell’eruzione e la drammatica evacuazione dei suoi abitanti – agli ambienti dedicati al lusso, all’ornamento e all’arte. Le operazioni di recupero e conservazione dei materiali lignei – avviate già negli anni Venti del Novecento sotto la direzione pionieristica di Amedeo Maiuri – si basarono inizialmente sull’uso della paraffina, secondo un approccio empirico ma visionario. A partire dagli scavi del primo XXI secolo, in particolare nella Villa dei Papiri e lungo la spiaggia orientale, sono emersi ulteriori frammenti, tra cui elementi decorativi in avorio e interi tratti di soffittature policrome, come il celebre Tetto del Rilievo di Telefo, oggi restaurato e visibile. Questi ritrovamenti hanno dato avvio a un nuovo paradigma di studio interdisciplinare, che ha coinvolto archeologi, conservatori, fisici e specialisti di diagnostica dei materiali. Il Packard Humanities Institute, in sinergia con il Parco Archeologico, ha reso possibile l’attivazione di protocolli conservativi sperimentali, basati sul controllo microclimatico, sul monitoraggio costante dello stato dei materiali e sull’elaborazione di strategie museografiche non invasive. Un simile approccio – come ha dichiarato il Direttore generale Musei, Prof. Massimo Osanna – si traduce in un modello virtuoso di cooperazione tra pubblico e privato, capace di unire rigore scientifico e visione progettuale, favorendo non solo la ricerca, ma anche la valorizzazione e la crescita culturale del territorio. L’esposizione non si limita a documentare, ma aspira a rendere intelligibile la funzione originaria di ciascun reperto, restituendo il “gesto perduto” dell’antico abitante di Ercolano. Come ha sottolineato il Direttore del Parco, Francesco Sirano, “ogni oggetto ligneo è un frammento di vita, un residuo intimo e quotidiano che ci interroga e ci accompagna nel presente”. Non si tratta quindi soltanto di conservare materia, ma di custodire memoria, nella consapevolezza che ogni intervento su tali manufatti è una sfida tra tempo, tecnica e responsabilità. In questa chiave, il legno carbonizzato di Ercolano – deperibile e allo stesso tempo eterno – diventa paradigma di resilienza e simbolo di una cultura materiale che ancora oggi ci interpella, ci parla, ci connette. Ogni frammento ligneo non è solo oggetto museale, ma parte di un organismo narrativo che attraversa i secoli, offrendo una lezione profonda sul rapporto tra distruzione e sopravvivenza, fragilità e permanenza. Una mostra, dunque, che non è semplice esposizione, ma atto di ascolto e restituzione. Una ricostruzione archeologica che accende la voce del legno e, con essa, quella della città sommersa.
Roma, Spazio Diamante
DIECI MODI PER MORIRE FELICI
drammaturgia Emanuele Aldrovandi e Jacopo Giacomoni
con Luca Mammoli
scenografia Francesco Fassone
collaborazione alla realizzazione scenografia Jessica Koba
costumi Costanza Maramotti
collaborazione alla realizzazione costumi Nuvia Valestri
musiche Riccardo Tesorini
grafiche Lucia Catellani
produzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Associazione teatrale Autori Vivi, ERT Emilia Romagna Teatri
Roma, 11 aprile 2025
Dall’11 al 13 aprile è andato in scena un esperimento teatrale molto interessante: Dieci modi per morire felici. Uno spettacolo che mescola ironia, riflessione e una buona dose di casualità, in un’esperienza teatrale che non è mai la stessa due sere di fila. L’atmosfera che ti avvolge appena entri è fredda, ma al contempo magnetica, capace di catturare l’attenzione e coinvolgere ogni sensazione. La scenografia ti trasporta immediatamente in un “convivio” che sembra provenire da un altro mondo, un ambiente sospeso tra il tangibile e l’ultraterreno, dove il confine tra realtà e immaginazione si fa sottile. Eppure, in questo universo che sembra fuori dal tempo, la vita è presente, palpabile. Testimonianza di ciò è l’acqua, simbolo per eccellenza di vita, che scorre incessante, imprevedibile, sempre in movimento. Un “demiurgo” cammina con grazia sopra la superficie di una piccola piscina d’acqua, figura centrale di questa esperienza. È il commentatore che, con un perfetto equilibrio tra ironia e saggezza, guida il gioco, invitandoci a riflettere sulla nostra stessa esistenza. Ma la vera sorpresa è che sei proprio tu, spettatore, a entrare in scena. La tua presenza si fa parte integrante di questa performance, dove il confine tra osservatore e protagonista si dissolve, tra vita e teatro svanisce. Prima di entrare in teatro ti viene assegnato un numero e, se sei tra i fortunati, o meglio, se il destino lo vorrà, sarai chiamato a sederti attorno al banchetto con altri partecipanti, pronti a prendere parte a scelte stravaganti che tracceranno il destino di ognuno. Un’esperienza che non è mai uguale, dove ogni decisione ha il potere di cambiare il corso della serata e di scrivere, insieme a tutti, un nuovo capitolo della propria vita. Vi è un continuo rimando alla fluidità dell’esistenza, che ci scivola addosso, tra il comico e il drammatico. In fondo, la vita è un po’ così, un misto di casualità e scelte che, a volte, sembrano perfette, a volte disastrose, ma sempre uniche. Al centro della scena, un piccolo schermo si fa protagonista, trasformandosi in una finestra sul tempo e sulle scelte che definiscono la nostra esistenza. Qui, gli anni scorrono inesorabili e le decisioni di vita si presentano come segnali da seguire, creando una connessione immediata e profonda con il pubblico. La tecnologia si inserisce in modo discreto: le frasi che appaiono sullo schermo sembrano essere emesse da una sorta di intelligenza artificiale, una voce che ci osserva, ci guida e ci sfida, invitandoci a prendere decisioni cruciali. Un piccolo dispositivo che amplifica il coinvolgimento dei protagonisti della scena, facendo sì che ogni attore/spettatore diventi parte di una narrazione che si evolve in tempo reale. “Quanta energia hai deciso di spendere per i tuoi studi? Quanto per la tua vita d’artista? E la tua relazione sentimentale sarà ricambiata? Quanti rimpianti avrai alla fine della tua vita?” Ogni domanda è una scelta, ogni risposta, un tassello del nostro destino. Niente è scritto, tutto è in divenire. Da questo processo prende vita un racconto che si costruisce attraverso le scelte individuali e collettive. L’esperienza diventa una riflessione sul destino stesso, una continua sfida alla sua inevitabilità, tutto si costruisce momento dopo momento, con la consapevolezza che ogni passo ha il potere di modificare il corso della storia. Le luci sono calibrate con precisione, creando l’atmosfera perfetta per ogni momento: dai toni più leggeri e giocosi a quelli più profondi e riflessivi. Quando un “partecipante” perde, ecco che le luci si tingono di rosso, e quando si vince le luci verdi esplodono, accompagnate dalla musica che sembra quasi provenire da un quiz televisivo, aggiungendo quel tocco ironico e divertente che fa sorridere. A ricordarci che “la vita a volte è tutta un un quiz”! Musica e luci lavorano, così, in sinergia. Il Demiurgo, interpretato con maestria da Luca Mammoli, è il cuore pulsante dello spettacolo. Non si limita a essere un narratore, ma diventa un vero e proprio catalizzatore, capace di guidare lo spettatore attraverso un vortice di battute, ironia e riflessioni più intime sul nostro rapporto con il destino. Si muove con leggerezza nell’acqua, dominando la scena con naturalezza, e riesce a far ridere senza mai forzare la mano. È l’incarnazione del teatro e della vita che gioca con le emozioni, capace di sorprendere, emozionare e commuovere senza mai scivolare nell’eccesso. Delicato, affilato, imparziale: il suo personaggio è una presenza che sfiora, pungola, ma sempre con grazia. Dieci modi per morire felici è uno spettacolo che ti fa sul destino e sulle scelte che facciamo. È un gioco teatrale che si rinnova ogni sera, in cui tu, spettatore, sei una parte attiva del tutto, che decide come andrà a finire. Si ride, si riflette, e esce dal teatro con un sorriso nuovo, ed uno sguardo sulla vita differente.
Roma, Sala Umberto
PREMIATA PASTICCERIA BELLAVISTA
una commedia di Vincenzo Salemme
compagnia Nest e Diana or.is
con Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino
e con Stefano Miglio, Viviana Cangiano, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice
scene Luigi Ferrigno
costumi Chiara Aversano
disegno luci Paco Summonte
sound designer Italo Buonsenso
coreografie Chiara Alborino
regia di Giuseppe Miale Di Mauro
Ermanno e Giuditta Bellavista sono i proprietari di una pasticceria annessa alla loro casa. Con loro vive la madre, sofferente di diabete e pressione alta. Ermanno ha una relazione in segreto con Romina, la quale è stanca di dover parlare con lui di nascosto e vuole che si decida a parlarne con la famiglia. Anche Giuditta ha una relazione segreta con Aldo, pasticcere alle dipendenze dei Bellavista, che però non ama la non bella Giuditta ma mira alla sua ricchezza. Intanto si scopre che Ermanno tre mesi prima, ha subito un intervento di trapianto agli occhi, questi vennero prelevati da Carmine, un senzatetto che dopo un incidente automobilistico entra in coma. Creduto però morto, venne deciso di prelevargli gli occhi e trapiantarli ad Ermanno. Così, una volta svegliato dal coma, Carmine si ritrova cieco. Carmine riesce a raggiungere la pasticceria di Ermanno, rivelandogli che sono 3 mesi che non possiede più gli occhi, e che il prof. Rubelli, che ha eseguito l’intervento, è implicato nel gioco azzardo e nel traffico illecito di organi. Carmine decide di rimanere nella pasticceria di Ermanno, dicendo che ora egli dovrà guardare la vita per lui. Intanto nascono due problemi: la mamma di Ermanno e Giuditta, convinta che i figli la vogliano far morire per impossessarsi dell’eredità, vuole tagliarli fuori dal testamento. Di conseguenza, Aldo non è più tanto sicuro di sposare Giuditta, sapendo che ella forse non potrà più ereditare. Carmine coglie l’occasione per ideare un piano con il quale potranno essere risolti i problemi di Ermanno, Giuditta e anche i suoi. Qui per tutte le informazioni.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Piccoli Cantori Veneziani
Direttore Ton Koopman
Maestro del coro Alfonso Caiani
Voci bianche dirette da Diana D’Alessio
Evangelist Ian Bostridge
Jesus Thomas Laske
Soprano Miriam Feuersinger
Controtenore Maarten Engeltjes
Tenore Klaus Minsub Hong
Basso Klaus Mertens
Basso Hans Wijers
Johann Sebastian Bach, Matthäus-Passion BBW 244
Venezia, 12 aprile 2025
La Matthäus-Passion è uno straordinario monumento in musica, che nel primo Ottocento fece rinascere l’interesse per Bach, complice Felix Mendelssohn Bartholdy, che – traendola dall’oblio – la ripropose a Lipsia nel 1829, a celebrare il centenario della prima esecuzione, che allora si riteneva fosse avvenuta presso la Thomaskirche a Lipsia nel 1729, mentre studi recenti la fanno risalire a due anni prima. Scritta dopo la Johannes-Passion, essa rappresenta il culmine di una tradizione plurisecolare, che conobbe nel Seicento, in ambito tedesco, un primo punto d’arrivo grazie a Heinrich Schütz. Più complessa e spettacolare rispetto alla precedente, la Matthäus-Passion prevede due orchestre e due cori, che spesso si rispondono, così da creare sovente un effetto ‘stereofonico’, consono alla spazialità della Thomaskircke, dove Bach ricopriva il ruolo di Kantor. La narrazione della vicenda è affidata all’Evangelista, che intona una serie di recitativi secchi, al cui interno talora intervengono direttamente i personaggi: Gesù – i cui interventi sono accompagnati dagli archi, che si uniscono al Basso Continuo con effetto di particolare fascino –, Pilato, la Moglie di Pilato, Pietro, Giuda. Spesso la progressione narrativa si interrompe per lasciare spazio alla riflessione, alla preghiera, attraverso arie, recitativi accompagnati, ariosi, cori, corali luterani.
La Matthäus-Passion, proposta dalla Fenice a ridosso della Pasqua, è affidata alla prestigiosa bacchetta di Ton Koopman – grande esperto in questo repertorio – e a voci soliste di livello internazionale. Ne è risultata un’esecuzione intensa, che ha coinvolto il pubblico dalla prima all’ultima battuta, complici l’Orchestra, il Coro, istruito da Alfonso Caiani, e il Coro di Voci Bianche, guidato da Diana D’Alessio. Di impressionante forza evocativa è risultato il mesto inizio strumentale – a preannunciare il Golgota – fino all’entrata dei due Cori, uno dei quali ha posto all’altro domande lapidarie sul sacrificio di Cristo. Tutto è sfociato poi in un corale luterano “O Lamm Gottes, unschuldig” (O Immacolato agnello di Dio) con l’intervento paradisiaco dei Piccoli Cantori Veneziani. Più oltre – dopo che l’Evangelista (il tenore Ian Bostridge) ha parlato del convegno di Sacerdoti, Scribi ed Anziani nel palazzo di Caifa per stabilire il modo di catturare Gesù ed ucciderlo – i due Cori si sono distinti per l’intensità e la concitazione del loro intervento, in forma di canone, riguardante il giorno dell’assassinio: “Ja nicht auf das Fest, auf dass nicht ein Aufruhr werde im Volk” (Non durante la festa, perché non avvengano tumulti fra il popolo). Successivamente l’Evangelista ha ripreso a raccontare: Gesù in Betania, la donna che gli sparge sul capo l’unguento, lo sdegno dei discepoli, espresso con forza direttamente dal Coro: “Wozu dienet dieser Unrat?” (Perché questo spreco?). Più oltre è intervenuto anche il Cristo (il basso Thomas Laske): “Was bekümmert ihr das Weib?” (Perché infastidite questa donna?), accompagnato dal suono nobile ed estatico degli archi su cui risaltava la sua voce scura. Anche Giuda ha parlato alquanto dopo, rivolgendosi ai sacerdoti: “Was wollt ihr mir geben? Ich will ihn euch verraten?” (Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?). È seguito il commento da parte del soprano Miriam Feuersinger – che si è segnalata, qui come altrove, per il legato e le colorature – con un’aria introdotta dai sospiri dei flauti: “Blute nur, du liebes Herz!” (Sanguina, carissimo cuore!), in cui la musica ha sottolineato con disegno sinuoso la parola “Schlange” (Serpente). Autorevole il tenore Klaus Minsub Hong nel recitativo “O Schmerz!” (O dolore!) e nell’aria “Ich will bei meinem Jesu wachen” (Voglio vegliare accanto al mio Gesù), toccante commento alla cattura del Salvatore. Ancora il Coro si è fatto apprezzare nel Corale che chiude la prima parte: “O Mensch, bewein dein Sünde groß” (Oh uomo, piangi il tuo grande peccato), introdotto da coppie di note ad imitare i singhiozzi. Nella seconda parte si è arrivati al punto centrale della narrazione: i famosi dinieghi di Pietro. Più in là l’amaro pianto dell’apostolo pentito ha avuto degna risonanza nella grande aria espressiva, senza da capo, del controtenore Maarten Engeltjes: “Erbarme dich, Mein Gott” (Abbi pietà di me, Signore), con il suo sublime ritornello, in cui il violino solo ha evocato sospiri e lamenti su un basso discendente. Altro episodio da ricordare, l’interrogatorio di Gesù di fronte a Pilato, nel quale la teatralità sottesa alla musica è emersa con evidenza: dal dialogo tra il governatore della Galilea e il Nazareno alle urla della Turba (il Coro), che vuole salvare Barabba, intonando il suo nome tramite un accordo di settima diminuita, e condannare il Cristo: “Laß ihn kreuzigen!” (Sia crocifisso!), un passaggio cruciale, questo, sottolineato da un fugato estremamente espressivo, caratterizzato da intervalli molto aspri, tra cui il Tritono (Diabolus in musica). Analogamente di grande impatto: l’arioso del controtenore di fronte allo scandalo della Croce: “Ach Golgatha, unselges Golgatha!” (Ah! Golgota, funesto Golgota!), introdotto da un ostinato ritmico degli oboi, ripreso dalla voce nell’aria successiva; la scena della morte di Gesù, che ha intonato le famose parole, “Eli, Eli, lama sabacthani?” (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) senza l’accompagnamento degli archi, in un recitativo secco estremamente drammatico nella sua essenzialità; il racconto, da parte dell’Evangelista, del terremoto scatenatosi dopo la morte del Messia, dove il tremare della terra è stato reso attraverso un nudo quanto pregnante recitativo. Impossibile non citare il grande coro conclusivo – Pasolini lo ha utilizzato nel suo Vangelo secondo Matteo – “ Wir setzen uns mit Tränen nieder” (Piangendo ci prostriamo), in cui è ritornata la figura del sospiro, del lamento attraverso note legate due a due lungo una linea discendente. Calorosi applausi rivolti a tutti, per quanto Ian Bostridge abbia forse “forzato” un po’ troppo.
Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo
Con Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
Roma, 14 aprile 2025
C’è una comicità che si limita a far ridere — e poi c’è quella che, nel riso, porta con sé un retrogusto dolente, un’eco delle inquietudini familiari, dei disastri domestici, delle ipocrisie gentili. I promessi suoceri di Paolo Caiazzo, andato in scena alla Sala Umberto, appartiene a questa seconda stirpe. È una commedia costruita con mano esperta, che si muove nel solco della tradizione napoletana — da Scarpetta a Taranto, passando per la televisione anni ’80 — ma con l’intento, quasi tenero, di risarcire i suoi personaggi da ciò che sono diventati: maschere stanche che recitano la parte di padri, madri, suoceri, senza aver fatto davvero i conti con la propria biografia. Antonio, ex animatore turistico che ha ripiegato nella mediocrità borghese, è una figura tragicamente comica: indossa i vestiti della farsa, ma la sua malinconia filtra in ogni battuta, come un vino che fermenta nel fondo del bicchiere. Paolo Caiazzo, che firma anche la regia, lo interpreta con misura e umanità: non lo schiaccia nella macchietta, lo tiene sospeso tra il riso e il rimorso. È un uomo che non ha perdonato il tempo, e che adesso, all’alba delle nozze della figlia, teme di essere accantonato come un mobile fuori moda. Ma non è forse questa la condizione eterna del padre, che vede la figlia andarsene e intuisce, senza dirlo, che non sarà mai più la stessa? Maria Bolignano è un’Elisa magistrale: materna, assertiva, corporea, con quel tono da matrona napoletana che, senza bisogno di urlare, governa la scena. La sua recitazione si appoggia sull’improvvisazione, ma dietro il ritmo comico si avverte una sapienza istintiva: è una donna che conosce il teatro della vita, e lo mette in scena con l’intelligenza di chi ha imparato tutto sul corpo — anche le sconfitte. Il cast che ruota attorno a questa coppia è ben calibrato. Yulia Mayarchuk, nei panni della soubrette dal passato misterioso, introduce un elemento di grottesco quasi felliniano. Il suo personaggio vive nel confine tra la caricatura e la nostalgia: è il residuo di un varietà in disarmo, ma non rinuncia alla propria dignità. Domenico Pinelli e Antonio D’Avino offrono interpretazioni solide, funzionali a quell’impasto di equivoci e rivelazioni che costituisce la colonna vertebrale della commedia. Giovanna Sannino, nel ruolo di Lucia, è il centro calmo dell’uragano familiare: giovane, semplice, affettuosa, appare come un personaggio minore, ma è su di lei che si costruisce — e si spezza — l’equilibrio dell’intero impianto drammaturgico. La regia di Caiazzo è abile nel far emergere le dinamiche relazionali, senza sovraccaricare la scena. Ogni gesto è al servizio della parola, e la parola è sempre pensata per essere capita. Non c’è ricerca del virtuosismo, ma un amore profondo per il pubblico. In questo senso, I promessi suoceri non è una pièce sperimentale, ma un lavoro d’artigianato teatrale onesto, colto nel suo citazionismo (Scarpetta, Molière, Manzoni) e moderno nel suo modo di riflettere su quanto la famiglia sia diventata un luogo di finzioni condivise più che di verità. Le scenografie di Max Comune sono tra i dettagli più riusciti dello spettacolo. Nulla di eclatante, ma una scena viva, domestica, piena di oggetti quotidiani che parlano da soli: una casa che si finge casa, con i tulipani in saldo e il copri water restituito al mittente. Una scenografia, dunque, non come contenitore neutro, ma come luogo affettivo e ironico, capace di raccontare da sé la precarietà dei protagonisti. I costumi di Federica Calabrese sono divertiti, colorati, volutamente eccessivi in alcuni casi, quasi a rimarcare l’oscillazione tra verosimiglianza e parodia. Ma è soprattutto il loro uso narrativo a colpire: abiti che “parlano” del personaggio, del suo desiderio di apparire meglio di ciò che è, della sua tensione verso un’idea di decoro che vacilla. Le luci disegnate da Luigi Rai accompagnano le svolte emotive con discrezione: calde, d’ambiente, rassicuranti, fino a quei pochi ma efficaci viraggi che sottolineano gli snodi drammatici. Non c’è ricerca di effetti, ma un gioco scenico che funziona proprio perché non distrae. Non manca la risata, e nemmeno la battuta volgare (ma mai gratuita). E tuttavia, al fondo di tutto, resta un senso di struggimento per ciò che non è stato, per le strade sbagliate, per gli amori giovanili mai compiuti, per il tempo che corre e che, come sempre, non aspetta nessuno. E allora la “divina provvidenza”, evocata a mo’ di parodia manzoniana, diventa un modo garbato di dire che alla fine il teatro, almeno lui, ci salva. Non perché cambia la realtà, ma perché — per due ore — ci fa credere che ogni conflitto possa risolversi in una risata. E questa, sì, è la più seria delle illusioni.
Intervista a Nicoletta Manni: danzatrice étoile del Teatro alla Scala di Milano interprete della Tat’jana in Onegin all’Opera di Roma
Roma, 14 aprile 2025
Il genere del balletto narrativo è un’eredità preziosa della danza teatrale che grazie alle politiche culturali dei teatri d’opera continua a restare in vita ai nostri giorni. Nel panorama della danza novecentesca ad imporsi è stato in particolare il balletto narrativo di marchio inglese con grandi nomi dalla portata universale quali Frederick Ashton, John Cranko e Kenneth Macmillan. Il balletto Onegin nasce poi da una particolare congiunzione. La musica è di Pëtr Il’ič Čajkovskij, già autore di un’opera sul romanzo in versi puškiniano. Tuttavia, nella rielaborazione del compositore Kurt-Heinz Stolze è proprio la musica operistica a venire esclusa. Ciò che rimane è la sostanza musicale di quel “volo pieno d’animo della Tersicore russa” tanto decantato nelle pagine puškiniane e consono al carattere di “limpida tristezza” spesso riconosciuto alla musica del compositore russo. La scrittura sul corpo appartiene al nome del coreografo sudafricano John Cranko che, come ben ricorda l’attuale sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma Francesco Giambrone nelle note di sala, si trovava allora nella fase del “miracolo di Stoccarda”. Il balletto nacque proprio sessanta anni fa nel periodo maggiormente creativo e di successo di Cranko, anche se in realtà già negli anni londinesi egli si era accostato all’opera omonima al fine di realizzarne i divertissements per il Covent Garden. Nel particolare linguaggio danzato, ampio spazio occupa la costruzione dei personaggi ed un ruolo principale è affidato al carattere di Tat’jana, principale figura femminile del romanzo in versi nonché del balletto ad esso ispirato. Nella ripresa vista nelle scorse settimane al Teatro dell’Opera di Roma si è esibita la ballerina ospite Nicoletta Manni, danzatrice del Teatro alla Scala di Milano che proprio alla fine di una recita del balletto nel novembre 2023 ha ricevuto la nomina di étoile del prestigioso teatro milanese. Di questa particolare esperienza ci ha raccontato con la sua impeccabile grazia in un’intervista gentilmente concessa appositamente per GBOPERA.
Cara Nicoletta, l’abbiamo ammirata in scena in occasione della prima e delle repliche di Onegin. Potrebbe raccontarci come è nata l’idea di coinvolgerla nella produzione e che emozioni le ha regalato questa collaborazione?
“È stato un grande piacere ed un vero onore per me lavorare con il Balletto del Teatro dell’Opera di Roma. L’idea di coinvolgermi appartiene ad Eleonora Abbagnato, che ha scelto di affiancarmi Friedemann Vogel come partner. È questa la prima volta che danzo all’Opera di Roma, ed è anche la prima volta che danzo con Vogel. Invece Onegin è un balletto che ha segnato il mio percorso artistico, aiutandomi a scoprire tanti lati interiori nella ricerca della corretta interpretazione, soprattutto è il balletto che mi ha regalato la nomina di danzatrice étoile del Teatro alla Scala, dove lo danzavo accanto a Roberto Bolle”.
Tanti ricordi dunque associati al balletto di John Cranko. Dal suo punto di vista speciale di interprete quali aspetti caratterizzano lo spettacolo?
“L’Onegin di John Cranko è uno dei migliori esempi di balletto narrativo, un vero e proprio capolavoro. Qui il coreografo riesce veramente a raccontare il dramma toccando il cuore dello spettatore attraverso l’unione di movimento e musica in passi a due e pezzi di gruppo emotivamente molto comprensibili. Naturalmente, un grande contributo è offerto dall’intensità interpretativa dei diversi artisti, ovvero dalla loro capacità di costruire dei ruoli credibili, nonché dal loro affiatamento e dalla loro complicità in scena. A seconda dei diversi partner nell’interpretazione si sottolineano degli aspetti diversi. A prendere diversi accenti è la stessa ricostruzione della storia. Nel caso dell’ultima produzione in esame, l’Onegin interpretato da Vogel ha una peculiarità spiccatamente nobile, elegante. Del resto, Friedmann ha una grande sensibilità, e poi conosce bene il balletto poiché proviene dalla compagnia di Stoccarda”.
E invece il ruolo della figura femminile protagonista come si presenta ai suoi occhi?
“Il ruolo di Tat’jana ha grande evoluzione nel balletto. Da principio è una ragazza che sogna il grande amore, che crede nell’amore puro. L’incontro con Onegin le permette di crescere. Se è pur vero che nel balletto ella è in qualche modo derisa, successivamente presenta un grande coraggio nell’accettare il destino di donna adulta. Questo non vuol dire che la parte finale del balletto abbia maggiore importanza. Tutta l’evoluzione del personaggio va adeguatamente tratteggiata. Io adoro interpretare in scena Tat’jana, anche se nella vita di tutti i giorni ho una personalità alquanto diversa. Si tratta di una storia scenica incredibile da vivere: è struggente, è coinvolgente, alla fine dello spettacolo è del tutto impossibile trattenere le lacrime”.
Che posto occupa dunque il balletto nel suo repertorio?
“Onegin occupa davvero uno dei primissimi posti tra i miei preferiti. Lo apprezzo molto in quanto oltre ad essere un balletto classico ha il pregio di presentare un racconto teatrale. A dire il vero, per me è molto difficile dire quale sia il mio balletto preferito. Nel corso della carriera si cresce molto, tutto dipende dal percorso artistico svolto. In questo momento particolare, posso affermare con certezza che Onegin occupa il primo posto tra i miei balletti del cuore”.
A proposito dei suoi progetti artistici ricordiamo ai nostri lettori la recente pubblicazione del libro autobiografico La gioia di danzare e lo spettacolo omonimo. Cosa può dirci a riguardo?
“Il libro è uscito nell’autunno del 2023. Qui mi racconto al pubblico adottando il punto di vista della creazione dei personaggi. Osservo me stessa dal lato del palcoscenico. Racconto qualcosa di me in modo particolare. Il gala omonimo si è svolto per la prima volta a Lecce nell’ottobre scorso al Teatro Politeama, e successivamente è stato replicato in altre città. Lo spettacolo è nato come un ritorno a casa, è stato pensato per (ri-)portare la danza nella mia terra. Non so ancora dove mi condurrà questo progetto. Per ora sono contenta di danzare con gioia e di aver trascorso questo periodo bellissimo a Roma, dove il pubblico mi ha riservato un’accoglienza estremamente calorosa”. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma
Napoli, Sala Piccolo Bellini, Stagione 2024/25
“SOLO UNA COSA HO AVUTO NEL MONDO. L’ORECCHIO”
Operina drammatica dal film “La Ricotta” di Pasolini
Regia, Drammaturgia, Musiche, Paesaggi Sonori Blastula.scarnoduo: Monica Demuru, Cristiano Calcagnile
Voce ed effettistica Monica Demuru
Voce, batteria, percussioni, strumentini, chitarra orizzontale Cristiano Calcagnile
Produzione Toscana Produzione Musica
Napoli, 9 aprile 2025
Al Piccolo Bellini, una graziosa sala del Teatro Bellini, va in scena Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio: un’operina drammatica eseguita da Blastula.scarnoduo: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile. Il materiale letterario e i momenti poetici dell’operina provengono dalla produzione artistica di Pier Paolo Pasolini. L’opera è una sintesi «musicale» de La ricotta, episodio cinematografico pasoliniano che, insieme ad altri tre episodi (di altri registi: Rossellini, Godard e Gregoretti), dà forma a un lavoro filmico collettivo del 1963: Ro.Go.Pa.G.. L’episodio – come il poeta afferma nei fotogrammi didascalici iniziali – rievoca indirettamente la Storia della Passione; e la rievocazione, nella finzione filmica, viene affidata a un povero figurante di un film sulla Passione, Stracci – che, dopo aver sofferto drammaticamente la fame, si ingozza così tanto di anguria, spaghetti e ricotta da morire. E muore in croce, come un buon ladrone delle borgate romane. Orson Welles, che interpreta il regista del film, ne prende atto freddamente: «Povero Stracci… crepare: non aveva altro modo per ricordarsi che anche lui era vivo». La vicenda del lavoro pasoliniano viene risolta attraverso la potenza poetica ed evocatrice della parola: la parola, filmica e teatrale, assume un senso «altro» da quello iniziale: la sceneggiatura cinematografica viene ricomposta e trasformata in un testo teatrale fatto di immagini e suoni, di immagini filmiche ricostruite soltanto attraverso la parola: il testo, di Monica Demuru, è un pastiche drammatico, strutturalmente determinato dal realismo della scrittura pasoliniana: la vicenda, però, è a volte interessata da digressioni canore, ottimamente innestate nella drammaticità della storia. La vicenda del povero Stracci assume, dunque, una tinta fortemente poetica – e i momenti dialettalmente romaneschi, pur conservando incisività ed efficacia espressive, assumono un senso puramente sonoro. Demuru dà voce ai personaggi principali de La ricotta, risolvendo solisticamente i dialoghi. L’azione teatrale viene evocata «vocalmente», e la determinazione delle scene e dei personaggi avviene grazie alla ricchezza timbrica e alle capacità espressive della voce, supportata e sostenuta dal microfono: lo strumento consente all’attrice-cantante-scrittrice di «variare» parossisticamente i registri della voce, grazie a un gioco di effettistica vocale. E ciò accade, per esempio, nella «conversazione» tra il regista Welles e il giornalista; un escamotage dal carattere anche sottilmente «comico». L’attrice riesce a evocare vocalmente anche i paesaggi periferici romani e al cromatismo dei tableau vivant dell’episodio cinematografico, riproducenti la Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo del Pontormo. Le parole vengono sostenute e «completate» da un altro linguaggio, quello musicale, eseguito e restituito da Cristiano Calcagnile. La scrittura prevede interventi irregolari di elementi sonori veementi e «rumorosi», che danno risalto al testo. L’irregolarità del linguaggio strumentale consente al musicista di poter «rinnovare» continuamente il materiale sonoro, anche attraverso una certa libertà interpretativa ed esecutiva. Batteria, percussioni, strumentini, chitarra orizzontale, e pochi interventi vocali del musicista, dialogano con il testo letterario. Si tratta, però, di una conversazione «impossibile», determinata da una irrisolvibile incomunicabilità, che allude alla drammaticità della vicenda. L’operina viene anche «interrotta» da un intervento estremamente commovente, quello della voce di Pasolini, impegnata nella lettura di una sua poesia. In definitiva, si è trattato di un lavoro teatrale e musicale accolto positivamente dal pubblico napoletano, che ha apprezzato la convivenza e l’originale commistione di registri espressivi e linguaggi artistici diversi.
Parigi, Opéra National de Paris
“VERS LA MORT”
Creazione coreografica originale OCD Love
Coreografia e costumi Sharon Eyal
Assistente alla coreografia e ai costumi Gai Behar
Musica Ori Lichtik
Lighting Design Thierry Dreyfus
Ripetitori Breanna O’Mara, Léo Lerus
Interpreti Naïs Duboscq, Caroline Osmont, Nine Seropian, Adèle Belem, Marion Gautier de Charnacé, Mickaël Lafon, Yvon Demol, Julien Guillemard, Nathan Bisson
“APPARTEMENT”
Coreografia Mats Ek
Musica ed esecuzione dal vivo Fleshquartet
Scene e costumi Peder Freiij
Luci Erik Berglund
Ripetitori Mariko Ayoama, Ana Laguna, Stéphane Bullion
Interpreti Ludmila Pagliero, Marc Moreau, Jack Gasztowtt, Antoine Kirscher, Pablo Legasa (La Salle de Bains), Hugo Marchand (La Télévision), Hanna O’Neill, Clémence Gross, Ida Viikinkoski, Germain Louvet, Marc Moreau, Antoine Kirscher, Pablo Legasa, Daniel Stokes (Le Passage Piéton), Valentine Colasante, Jack Gasztowtt (La Cuisine – Pas de Deux), Germain Louvet, Antoine Kirscher, Daniel Stokes (Trio – Pas de Deux), Hanna O’Neill, Pablo Legasa, Valentine Colasante, Jack Gasztowtt, Ludmila Pagliero, Hugo Marchand, Ida Viikinkoski, Marc Moreau (Valse), Valentine Colasante, Hannah O’Neill, Ludmilla Pagliero, Clémence Gross, Ida Viikinkoski (La Marche des Aspirateurs), Germain Louvet, Antoine Kirscher (Duo des Embryons), Ida Viikinskoski, Marc Moreau (La Porte – Pas de Deux)
Balletto creato per il Balletto dell’Opéra national de Paris il 27 maggio 2000
Parigi, Palais Garnier, 30 marzo 2025
Parigi, oggi come nel Seicento, è tra le capitali indiscusse della danza e del balletto. Diretta dal dicembre 2022 da José Martinez, già Danseur Étoile del teatro nonché direttore artistico tra il 2011 e il 2019 della Compagnie National de Danse d’Espagne, la compagnia di balletto dell’Opéra National de Paris punta ad intrecciare in uno scambio osmotico le coreografie più incisive del repertorio classico e contemporaneo, al fine di preservare la lunga tradizione devota all’eccellenza e di favorire al contempo una fruttuosa collaborazione con i nomi di punta della più fervente attualità autoriale. Si situa naturalmente in questa linea lo spettacolo da noi visto il 30 marzo scorso al Palais Garnier incentrato sul rapporto tra la più recente affermazione della coreografa israeliana Sharon Eyal e la classica contemporaneità di Mats Ek, di cui si festeggia l’ottantesimo compleanno. Due pezzi, quelli scelti, destinati alla riscoperta delle sfumature più solitarie dell’amore. Due espressioni di un diverso modo di concepire la scrittura coreografica, che nel riscoprire affinità e nel tracciare sentieri ereditari, evidenziano congiuntamente discordanze e disomogeneità. In un cammino a ritroso, possiamo quindi vedere quanto la danza di oggi nel suo essere sostanzialmente postumana si sia distanziata dalla danza più puramente postmoderna dei grandi autori novecenteschi. Nel primo pezzo, Vers la mort, ci troviamo di fronte ad una rielaborazione del più noto OCD LOVE. Tutto nasce da una poesia del trentenne poeta slam americano Neil Hilborg, ovvero da un monologo autobiografico in versi di un uomo innamorato che soffre di un disturbo ossessivo compulsivo. Una storia di tic mentali che si susseguono ripetendosi all’infinito. «Ho chiuso la porta? Sì. Mi sono lavato le mani? Sì». E all’improvviso la visione di una lei che sconvolge tutti i patterns mentali, cambiandone il paesaggio di immagini con una curva a spillo delle labbra o una ciglia caduta su una guancia. È questa la fonte della trilogia di Sharon Eyal, creata a partire dal 2015 per la propria compagnia di nome L-E-V, la traduzione in ebreo del termine «cuore». Nel 2003 la coreografa era divenuta direttrice artistica associata della Batsheva Dance Company. Dal 2005 al 2012 ne era stata coreografa residente. Nata a Gerusalemme nel 1971 Sharon Eyal si è imposta nel panorama della danza contemporanea israeliana con una trentina di creazioni e numerosi premi. Spesso associata all’universo della danza gaga, in realtà la coreografa ha mosso i primi passi nell’ambito della danza classica da cui prende sovente le mosse per la sua ricerca espressiva. La sensualità è uno dei temi cardine della sua coreografia, coniugata in una dimensione di metaverso techno dalla musica di Ori Lichtik. La scenografia del pezzo è oltremodo spoglia, ed a determinare il quadro di emozioni sono i fasci di luce di Thierry Dreyfus. Avvolta dalla luce bianca nella sua calzamaglia color carne, la prima danzatrice reagisce ai beat della musica con una distensione delle braccia, sfiorando leggermente l’avambraccio per poi contrarsi con improvvisa decisione. Da qui si passa alla spalla ed al cambré, per tornare lentamente in asse. Dopo un cambio di épaulement, la testa si scuote mentre le braccia scivolano giù. Il piede si stacca da terra coinvolgendo in un sussulto anche il ginocchio, e la gamba scavalca la prima posizione delle braccia in un assertivo développé. Si unisce una seconda danzatrice imponendosi con le accelerazioni del corpo, e le due si muovono a specchio. Infine, un piccolo corpo di ballo anima il pezzo di un’energia frenetica, obbligando lo spettatore a rimanere sintonizzato con questo loop di movimenti rivelatosi asfittico dopo lo stordimento iniziale. Ben diversa l’atmosfera di Appartement, creato originariamente nel 2000 da Mats Ek per la compagnia francese. Nella danza teatrale del coreografo svedese, la scenografia di Peder Freiij dà origine ad una dimensione di grottesco dadaista. Ci si rialza dal bordo inferiore di un sipario rosso per avanzare verso un bidet o una poltrona, così come si dà il via ad una danza con degli aspirapolvere o si recinta tutto di strisce colorate che indicano lavori in corso. La musica sullo sfondo è quella elettronica dei Fleshquartet che coniuga la leggerezza degli archi a ispirazioni più carnali. Il va’ e vieni di pedoni danzanti contorna le solitudini della città. Il movimento ricorda a volte la più banale quotidianità, in una tensione verso il basso che sembra discendere da Bachtin. Tuttavia, qui al riso si mescola la malinconia, una porta socchiusa lascia fuoriuscire una verità di vita ben diversa dalle nevrosi del primo pezzo, e su tutto prevale la poesia di ciò che non è imposto con forza aggressiva, ma con la semplicità di un bisbiglio che arriva quasi sussurrato allo spettatore, lasciandolo realmente inebriato. Foto Opéra National de Paris
Opéra buffe in cinque atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Anne-Catherine Gillet (Gabrielle), Véronique Gens (Métella), Sandrine Buendia (La Baronne de Gondremarck), Elena Galitskaya (Pauline), Louise Pingeot (Clara), Marie Kalinine (Bertha), Marie Gautrot (Mme de Quimper-Karadec), Caroline Meng (Mme de Folle-Verdure), Artavazd Sargsyan (Raoul de Gardefeu), Marc Mauillon (Bobinet), Jérôme Boutillier (Le Baron de Gondremarck), Pierre Derhet (Le Brésilien, Le Major Frick, Gontran), Philippe Estèphe (Urbain, Alfred, Un Employé), Carl Ghazarossian (Prosper, Joseph, Alphonse). Choeur de l’Opéra national du Capitole de Toulouse, Gabriel Bourgoin (maestro del coro), Orchestre national du Capitole de Toulouse, Romain Dumas (direttore). Registrazione: Halle aux Grains, Toulouse. 10-13 gennaio 2023. 2 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane, Opéra français n. 41
I lavori di Offenbach hanno spesso avuto una vita sofferta che ha creato non pochi grattacapi agli editori e ai filologi. Senza raggiungere gli eccessi di altri titoli anche “La vie parisienne” è passata attraverso non poche traversie. Andata in scena per la prima volta nel 1866 ha subito negli anni seguenti numerose variazioni conseguenti al cambio del clima e della sensibilità che caratterizzano gli anni successivi alla disastrosa guerra del 1870 e alla caduta del II Impero. La successiva versione del 1874 taglia in toto il IV atto – molto recitato – modifica, taglia e aggiunge numerosi brani musicali tanto che le due versioni possono essere quasi considerati titoli diversi. La versione del 1874 è quella che si è stabilizzata in repertorio e per la prima volta viene incisa integralmente – e in edizione critica a cura di Sébastien Troester– la versione andata in scena nel 1866.
Andata in scena al Capitole e successivamente incisa per la Collana Opéra francaise da parte della fondazione Palazzetto Bru Zan.
L’opera è ben poco nota in Italia ed è un vero peccato vista la qualità dell’ispirazione musicale, la scanzonata ironia del libretto e un particolare senso nel ricercare un colore ambientale moderno che vuole esaltare Parigi, vera capitale del mondo. Esemplare al riguardo il primo atto ambientato in una stazione tra i richiami dei macchinisti, il coro che simula sbuffi di treni in arrivo e in partenza e i viaggiatori che accorrono da ogni dove verso la grande seduttrice.
Roman Dumas è anche lui nome quasi sconosciuto da questo versante delle Alpi ma il suo curriculum è di alto livello e brilla soprattutto la lunga collaborazione come assistente di Marc Minkowski. Quest’ultimo è un modello ben presente nella direzione di Dumas che dal maestro ha ereditato il gusto per ritmi rapinosi e trascinanti – cosa sono i galop che chiudono terzo e quarto atto – uniti a sonorità leggere e setose e a un sentimento di garbata melanconia che di questa musica coglie l’essenza più profonda, un’energia intrisa di sentimento e un sentimento rivisto con quello sguardo disincantato e bonariamente ironico che è l’essenza stessa dello spirito parigino.
Il cast è composto tutto di cantanti madrelingua, vantaggio non da poco in un titolo come questo caratterizzato anche da lunghe sezioni parlate. Tra le due prime donne questa versione da maggior spazio a Gabrielle, soprano lirico leggero dal canto spumeggiante è virtuosistico. Ad affrontare la parte è Anne-Catherine Gillet, subentrata nel progetto dopo la dolorosa scomparsa di Jodie Devos. Voce non grande ma dal timbro cristallino, agile e nitidissima nei passaggi di bravura che si adatta come un guanto a questa scrittura.
Metella – la cui parte sarà ampliata nella versione del 1874 – è cantata con la solita classe da Véronique Gens, elegantissima e affascinante nel suo rondò e impeccabile nel taglio salottiero e un po’ blase da gran dama. Sandrine Buendia è spassosissima nella parte della contessa danese di Gondremarck con le sue inflessioni volutamente caricate. Elena Galitskaya è una Pauline incantevole per brio e precisione, interpretativamente centratissima nel suo ruolo di piccola borghese chiamata a far la gran dama e in una parte come questa le qualità prevalgono su una voce nel complesso abbastanza piccola. Parte principalmente parlata quella della temutissima Mme de Quimper-Karadec – che Offenbach fa entrare in un melologe sul tema del Commendatore del “Don Giovanni” – resa con sulfurea estroversione da Marie Gautrot.
Altrettanto valide le prestazioni sul versante maschile. Veterano delle registrazioni della Fondazione Artavazd Sargsyan è un Raoul de Gardefeu dalla voce lirica e di bel colore, capace di alternare con naturalezza abbandoni lirici e ironica brillantezza così che gli si perdona qualche acuto non sempre ben centrato. Tra i tenori di carattere si fanno apprezzare Marc Mauillon, un Bobinet in punta di forchetta e Pierre Derhet che supera con limpida sicurezza i vertiginosi sillabati del Rondeau de Brésilien. Jérôme Boutillier sfrutta la sua voce ampia e ricca di armonici, quasi sovradimensionata per il contesto per rendere i modi impacciati del Baron de Gondremarck che con la sua schiettezza nordica si muove come un elefante nella cristalleria tra le trine della coquetterie parigina. Philippe Estèphe con la sua bella voce di baritono chiaro da un ottimo contributo alla perfetta riuscita del trascinante Trio diplomatique. Impeccabili tutte le parti di contorno, ottima la qualità della registrazione e come sempre ricchissimo il volume di accompagnamento.
La domenica delle Palme, “Domenica Palmarum” o “Domenica in Palmis” è, nella liturgia dei nostri giorni, la seconda Domenica di Passione, con la quale ha inizio la Settimana Santa. Sappiamo che fin dal IV° secolo, a Gerusalemme, si era organizzato di fare, nel pomeriggio di quel giorno, una processione che, scendendo dal Monte degli Ulivi, raggiungeva la città. I partecipanti recavano in mano Palme (simboleggianti il trionfo di Cristo sulla morte) e rami di ulivo (a simbolo della Pace in Dio). La tradizione passò poi in Occidente, sviluppandosi specialmente in Francia, dove poi si arrestò, affermando, già nel VII° secolo, l’usanza di conservare i rami di ulivo in casa per un anno intero. La lettura evangelica del giorno è quella stessa che aveva già caratterizzato la prima domenica di Avvento (Matteo cap. 21,vers. 1-9) che narra dell’ingresso di Cristo in Gerusalemme, simbolo dell’ingresso in un’altra Gerusalemme, quella celeste. “E quando furon vicini a Gerusalemme e furon giunti a Betfage, presso al monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nella borgata che è dirimpetto a voi; e subito troverete un’asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e menatemeli. E se alcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà.
Or questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta: Dite alla figliuola di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto, e montato sopra un’asina, e un asinello, puledro d’asina. E i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; menarono l’asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli, e Gesù vi si pose a sedere. E la maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; e altri tagliavano de’ rami dagli alberi e li stendevano sulla via. E le turbe che precedevano e quelle che seguivano, gridavano: Osanna al Figliuolo di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!”
Per questa festività, Bach scrisse una Cantata che risale agli anni di Weimar, unico luogo nel quale era consentito l’impiego della “Musica figuralis” durante il periodo di penitenza in preparazione alla Pasqua. Si tratta della Cantata nr. 182 Himmelskönig sei willkommen, eseguita per la prima volta il 25 marzo 1714. Questa è la prima, in ordine di tempo, delle Cantate scritte da Bach dopo aver ricevuto la nomina di “Konzermeister”, con l’obbligo di comporre una Cantata al mese. L’incipit del testo “Re del Cielo, benvenuto!
Concedi anche a noi di essere il tuo Sion! è forse di Solomo Franck, mentre al Salmo 40 (versetti 8-9) è ispirato il testo dell’unico recitativo (nr.3) “Ecco io vengo.Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia, mio Dio, la tua volontà...”. La Domenica delle Palme di quel 1714, coincideva con la Festa dell’Annunciazione del Signore e per tale festività venne ripresa a Lipsia, dove non poteva essere impiegata nella Domenica delle Palme, ma appunto per la Festa dell’Annunciazione degli 1724 e 1728.
La cantata si apre con un brano strumentale che Bach qualifica come “Sonata”, che vede impegnati violino concertante, flauto, su un pizzicato degli archi, violino di ripieno e due parti di Viola e violoncello, nello svolgimento di una trama melodica tendenzialmente ascendente, con ritmo puntato, in uno stile di “Ouverture”, dal carattere marcato che guarda al soggetto della Cantata, con l’incedere solenne che preannuncia l’ingresso di Cristo nella Cttà Santa. Il coro che segue è nella forma con il “da capo” . Lo stile, almeno nelle due sezioni estreme, è quello rigoroso della fuga di permutazione. Troviamo poi tre arie: la prima, affidata al Basso, vede un violoncello concertante su un armonia sorretta dalle due parti di Viola e dal continuo in stile “ostinato”, la seconda, affidata al Contralto, con il flauto concertante. La terza, per voce di tenore, è con il solo accompagnamento del violoncello del Continuo, ancora in stile “Ostinato”. Il Corale, penultimo brano della Cantata, è intonato in stile mottettistico derivato da Pachelbel, mentre il brano conclusivo, ancora un Coro, sfrutta nuovamente il principio della fuga di permutazione, con una “fuga” di stile più rigoroso, rispetto al Coro iniziale.
Nr.1 Sonata
Flauto, Violino concertante, Violino di ripieno, Viola I/II, Continuo e Violoncello
Nr.2 – Coro
Re del Cielo, benvenuto!
Concedi anche a noi di essere il tuo Sion!
Vieni, entra, tu che hai preso i nostri cuori.
Nr. 3 – Recitativo (Basso)
Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro
di me è scritto che io faccia,
mio Dio, la tua volontà.
Nr.4 – Aria (Basso)
Amore potente per il quale tu, grande Figlio di Dio,
hai abbandonato il trono della tua gloria
e per la salvezza del mondo hai offerto te stesso in sacrificio
con il sigillo del tuo sangue.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Prostratevi dinanzi al Salvatore, voi, cuori dei cristiani!
Indossate la candida veste della fede per incontrarlo,
corpo e anima e tutto ciò che avete siano ora consacrati al Re.
Nr.6 – Aria (Tenore)
Gesù, nella bene e nel male lasciami venire con te!
Anche se il mondo grida “Crocifiggilo!”,
fà che io non fugga, o Signore, dinanzi alla tua croce;
là troverò la gloria e le palme.
Nr.7 – Corale
Gesù, la tua passione è per me pura gioia,
la tue ferite, spine e offese l’alimento del mio cuore;
la mia anima cammina sulle rose quando penso a questo:
che in cielo tu prepari un posto per me.
Nr.8 – Coro
Dunque lasciaci entrare nel Salem della gioia,
accompagnando il Re nell’amore e nel dolore.
Egli ci precede e ci apre il cammino.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Museo di Arte Contemporanea
NINO BARTOLETTI 1889-1971
a cura di Pier Paolo Pancotto
Roma, 11 aprile 2025
Ogni tanto, nella programmazione espositiva di una città come Roma, emerge una mostra che non solo colma un vuoto, ma chiarisce un malinteso. La retrospettiva dedicata a Nino Bertoletti alla Galleria d’Arte Moderna (fino al 14 settembre 2025) rientra esattamente in questa categoria: un progetto che riordina, ricostruisce, e soprattutto riconduce l’attenzione su una figura colta, appartata, ma tutt’altro che marginale nel panorama artistico del Novecento italiano. Pier Paolo Pancotto, curatore dell’iniziativa, ha scelto di non alterare il profilo dell’artista. Al contrario, lo ha riportato alla luce per quello che fu: un autore schivo, articolato, appartato ma non periferico. Bertoletti non fu un innovatore nel senso rivoluzionario del termine, ma un uomo di cultura nel senso pieno, che attraverso la pittura ha esplorato le possibilità dell’arte figurativa con attenzione, rigore, misura. Il suo mondo, come ricorda il percorso espositivo, è fatto di paesaggi discreti, di interni silenziosi, di ritratti senza retorica. L’allestimento si segnala per un’ottima lettura cronologica e per un’illuminazione che non forza le opere, lasciando parlare le superfici, le tonalità, le impaginazioni delle tele. L’esposizione si apre con i lavori della giovinezza, dipinti tra il 1902 e gli anni Venti: quadri ancora legati a un’espressionismo controllato, più di impianto mitteleuropeo che mediterraneo, in cui emerge un giovane artista che guarda all’arte come esercizio etico, prima ancora che estetico. Ma è tra gli anni Venti e Trenta che Bertoletti matura una scrittura pittorica personale, più stabile, come se il suo linguaggio prendesse finalmente forma nella quieta intensità della composizione. Le opere realizzate in questo periodo, visibili nella seconda sala, parlano di un artista che predilige la riflessione all’enfasi, la chiarezza dell’impianto al virtuosismo, e che sembra sempre voler domare l’immagine con la mente, prima che con il pennello. Il punto di svolta, e anche la parte forse più interessante della mostra, è rappresentato dalla produzione del secondo dopoguerra. Qui il realismo di Bertoletti, pur conservando il proprio ordine, lascia filtrare una luce diversa: più interiore, più esistenziale. I soggetti si fanno simbolici: paesaggi e nudi che rimandano a un classicismo antico, eppure reinterpretato, come se l’artista cercasse nell’antico non il rifugio, ma un archetipo. Un aspetto poco noto, ma ben valorizzato in mostra, è la sua produzione grafica e illustrativa. Questi fogli, in parte presentati a parete e in parte sfogliabili in riproduzione, rivelano un lato più diretto del suo operare. Un disegno essenziale, nitido, che guarda alla linea come a un elemento narrativo e non solo formale. Bertoletti fu anche collezionista, mercante e osservatore critico del suo tempo: e ciò si riflette in una pittura che è sempre anche commento, lettura, risposta al presente. Il catalogo edito da Dario Cimorelli Editore accompagna degnamente la mostra, con saggi puntuali e ben documentati. Non si tratta, fortunatamente, di una pubblicazione ridondante, ma di un lavoro editoriale che restituisce serietà alla critica d’arte. Segno che l’operazione non si limita al recupero museale, ma tenta un inserimento pieno di Bertoletti nel tessuto storico e culturale italiano. Non manca in mostra la figura discreta ma centrale di Pasquarosa, sua compagna di vita e di arte. Ritratta in molti dipinti, Pasquarosa non fu solo musa, ma interlocutrice culturale, pittrice lei stessa, presenza viva e compartecipe. Nelle sue sembianze, che cambiano con gli anni – da giovane modella a figura domestica, fino a donna anziana – si legge anche la continuità di una poetica dell’affetto che in Bertoletti non fu mai decorativa, ma necessaria. Una nota meritano infine le scelte espositive: le opere non sono costrette in griglie o didascalie invadenti, ma respirano, e questo aiuta la lettura del percorso e del pensiero visivo dell’artista. Anche l’illuminazione è equilibrata, mai invasiva, segno di un rispetto raro per la superficie pittorica. In tempi in cui l’allestimento tende spesso a rubare la scena all’opera, qui si è scelto il contrario: lasciare parlare i quadri, e ascoltarli. Sarebbe vano cercare in questa retrospettiva uno stile dominante o una cifra univoca. Bertoletti, artista colto e riflessivo, ha attraversato stagioni diverse, ma sempre con la medesima discrezione. Non si è mai imposto, ma ha tracciato una traiettoria coerente, fatta di costanza, cultura, ricerca. Questa mostra non lo trasforma in un maestro riconosciuto, e non lo pretende. Ma restituisce, con onestà e precisione, la figura di un uomo che ha saputo coniugare arte e pensiero senza cadere nell’esibizione. Un artista la cui opera non cerca l’effetto, ma l’equilibrio. E oggi, in un tempo così rumoroso, questo è già molto.
Roma, Galleria d’Arte Moderna
OMAGGIO A CARLO LEVI. L’AMICIZIA CON PIERO MARTINA E I SENTIERI DEL COLLEZIONISMO
collaborazione tra la Fondazione Carlo Levi di Roma e l’Archivio Piero Martina di Torino
Roma, 11 aprile 2025
Come il guizzo tremulo di una luce di tramonto che si rifrange su un volto antico, la pittura di Carlo Levi non si lascia catturare con la rete delle definizioni. Essa è, per usare un ossimoro leopardiano, una “serietà immaginosa”: pittura che crede al visibile come a un’urgenza civile, e al medesimo tempo lo trascende per suggerire le zone di silenzio che si celano sotto la superficie del reale. La mostra “Omaggio a Carlo Levi. L’amicizia con Piero Martina e i sentieri del collezionismo”, allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Roma in occasione del cinquantenario della scomparsa dell’artista, non è soltanto un percorso antologico. È, nel suo disegno curatissimo, una partitura a due voci, un’“allegoria della relazione”, come l’avrebbe forse detta Warburg. In essa, il dialogo fra Levi e Piero Martina non si limita al registro biografico, ma si traduce in un tessuto pittorico complesso, fatto di assonanze timbriche, fughe tematiche, ritorni inattesi. Il primo movimento del percorso — La formazione — ci riconduce a quella Torino di fine anni Venti e Trenta che, più che una città, fu per i due una matrice spirituale. I toni ora densi, ora traslucidi dei quadri torinesi (si pensi al candore abbacinante del cappellino bianco in Lelle seduta, 1933) sono in Levi un “chiaroscuro morale”: mai esercizio accademico, piuttosto affondo psicologico. A contrasto, Martina par che voglia negare la sostanza pittorica: lo si osserva nei suoi interni quasi sussurrati, come Figura con maschera del ’38, dove la materia si fa vaporosa, inafferrabile — e proprio per questo carica di presenze. Con la sezione Da Torino a Roma, la mostra si fa geografia emotiva e politica. La guerra incombe, e l’amicizia si rifugia nel colore, come nella doppia fisionomia speculare dei Ritratti reciproci del 1942. Eppure qui, nel momento del dolore e del nomadismo coatto (Levi è già segnato dall’esperienza lucana), si precisa il loro sguardo sul mondo. Levi piega la linea al peso della realtà: Autoritratto con fornello è una tela che ha lo stesso impasto della terra, e lo stesso silenzio. Martina, invece, comincia a sperimentare una pittura più costruita, come se cercasse nei solidi una difesa dal crollo. La Ragazza al clavicembalo è la trascrizione delicata di un’armonia perduta. Con la Roma del dopoguerra entriamo nella sezione più vibrante del percorso: La stagione dell’impegno civile. Qui, Levi diviene quello che già era nella sostanza: un pittore delle classi oppresse, ma non attraverso il grido, bensì la forma. Il ragazzo Aleandro e Contadine rivoluzionarie sono tele che rifuggono la retorica: non denunciano, esistono, come presenze che chiedono attenzione, mai pietà. Martina risponde con le sue Tessitrici, con La manifattura tabacchi — e lo fa traducendo la fatica in colore, e la ripetizione in ritmo. Qui la pittura non illustra, evoca il lavoro come durata, come pulsazione. La sezione Il nudo e il paesaggio è forse quella dove il dialogo si fa più sfuggente. Martina sembra danzare con la luce, nelle sue vedute dove le figure quasi si disfano nel fogliame. Levi, al contrario, si appesantisce (ma non nel senso deteriore): il suo Alberi del 1964 è quasi una battaglia vegetale, un corpo a corpo con la natura, dove il pennello lotta per farsi spazio tra le pieghe della tela. Il suo paesaggio non è evasione, è materia che pensa. Chiude la mostra una sezione dal sapore privato, ma non per questo meno necessaria: Le opere di Carlo Levi nella Collezione De Lipsis Spallone. In queste tele inedite, selezionate con cura quasi da miniaturista dalla collezionista romana, si avverte una malinconia quieta, un’archeologia dell’anima. Dal Piccolo nudo del ’28 fino agli Amanti dell’ultimo periodo, è come se Levi tornasse su se stesso, ripetendo senza ripetersi: ogni nudo è anche un paesaggio, ogni albero un corpo, ogni volto un destino. La mostra, nel suo insieme, non costruisce un monumento, ma un organismo. Non esalta, ma riflette. E, nella riflessione, illumina. Non solo Carlo Levi, ma l’intera idea di un’arte come responsabilità del vedere. Un’arte che non fugge il mondo, ma lo ascolta — nella materia, nella luce, nell’amicizia.
Roma, Sala Umberto
I PROMESSI SUOCERI
Commedia di Paolo Caiazzo
Con Maria Bolignano
e con in o.a. Antoni D’Avinio, Yulia Mayarchuk, Domenico Pinelli, Giovanna Sannino
Aiuto Regia Sofia Ardito
Costumi Federica Calabrese
Scenografie Max Comune
Disegno luci Luigi Rai
Foto e grafica Francesco Fiengo Studios
produzione Ag Spettacoli Tradizione e Turismo
Regia di Paolo Caiazzo
L’evoluzione da “Papà” a “Suocero” è un momento complicato della vita di un uomo ed è arrivato il momento per Antonio. Ex animatore di villaggi turistici non ha mai perdonato sua moglie Elisa, insegnante di italiano, per avergli impedito una carriera artistica. La sua unica figlia Lucia ha deciso di accettare la proposta di matrimonio del suo amato Renzo e lo comunica ai genitori. Con l’inevitabile timore di finire nella soffitta dei ricordi, Antonio essendo legato alle tradizioni, chiede un incontro ufficiale con la famiglia dello sposo. Dopo i primi convenevoli notano la grande distanza sociale ed economica delle famiglie: Gaetano è erede di un capo clan e Giulia è straniera trapiantata a Napoli ma con un passato da soubrette. Si cerca comunque di trovare punti di incontro fino a quando una verità inconfessabile costringe Antonio e gli altri ad ostacolare il progetto di nozze. Così Renzo e Lucia, come quelli Manzoniani, si troveranno davanti ad una inspiegabile strategia per un “Questo matrimonio non s’ha da fare”. Le dinamiche ed i colori strizzano l’occhio alla umana comicità della commedia all’italiana dei tempi d’oro, condita con i meccanismi del teatro classico partenopeo. Non a caso l’esordio del colloquio tra i suoceri è un chiaro omaggio a quello di “Miseria e Nobiltà” di Eduardo Scarpetta. I nostri giovani troveranno, come quelli del romanzo, mille impedimenti al loro matrimonio. Con una serie di colpi di scena a catena la matassa si ingarbuglia fino ad apparire inestricabile. Anche con loro però la divina provvidenza interverrà?… (spoiler) Sì! Interverrà ma in maniera molto particolare, regalando un lieto fine, ma che non potrà rimarginare vecchie ferite e scheletri finalmente liberati dagli armadi dei nostri “Promessi Suoceri”. Qui per tutte le informazioni.
Lunedì 7 aprile la Scuola di danza (o Scuola di ballo, secondo la dicitura più antica tipica dei teatri lirici) del Teatro dell’Opera di Roma diretta da Eleonora Abbagnato apre ancora una volta le porte al pubblico per mostrare le proprie attività didattiche.
Nei saluti iniziali Abbagnato ha posto l’accento, insieme al Soprintendente Francesco Giambrone, sull’interesse da parte della Fondazione per una proficua gestione della Scuola come fucina di artisti. Ne è emerso un approccio efficace nella cura non solo del canonico percorso didattico accademico, quanto nell’ampliamento delle attività a tutto tondo, al fine di inserire i ragazzi in una formazione di livello internazionale. Il tutto sull’eco dell’impostazione che la stessa Direttrice ha acquisito prima alla Scuola dell’Opéra di Parigi e poi della tradizione che ha saggiato con la propria carriera di Étoile del Corpo di ballo parigino.
Qualcuno potrà chiedersi quanto sia necessario che in Italia i tre Enti lirici che ancora possono vantare una Scuola di formazione professionale siano affidati o a direttori francesi o a italiani francesi di formazione. Senza scendere nei particolari (diversissimi e che qui sarebbero fuori luogo) di Milano e Napoli, basti dire che l’italianissima Abbagnato (e così chiunque altro/a) non potrebbe agire diversamente rispetto al far fruttare quanto appreso nel corso della propria vita, per di più in uno dei templi mondiali della danza e che ognuno mette a frutto ciò che conosce meglio. D’altra parte la Scuola francese attuale è quella storicamente più vicina a noi, tant’è che per gli storici della danza si parla di scuola franco-italiana già dalle origini. Gli stili sono poi altra cosa e ognuno si identifica con quello che gli appartiene maggiormente. L’incrocio di maestri di diversa provenienza permette inoltre ai ragazzi – soprattutto dei corsi superiori – di acquisire quella versatilità necessaria al professionista.
Tra le materie di studio si rileva l’apertura anche al canto (arte che già dall’inizio delle fondazioni di insegnamento coreutico accompagnava la formazione delle allieve donne alla prima Scuola d’Italia, fondata nel 1812 al San Carlo di Napoli), alla istituzione ormai consolidata del corso introduttivo per gli allievi che vengono “scovati” in tutta Italia e all’estro per permettere uno scouting sempre più ampio, ma anche alle progettualità dedicate ai giovani coreografi emergenti provenienti dalla Scuola stessa, oltre all’impegno degli allievi alla GNAMC di Roma (Galleria Nazionale di arte Moderna e Contemporanea) in un progetto sul Futurismo e alla collaborazione con l’ospedale Gemelli per altre iniziative. Restano non svelati ulteriori cantieri che dimostrano ulteriormente la volontà di un costante miglioramento e del radicamento della Istituzione sul territorio nazionale.
Si tratta di una prospettiva importante in un contesto – quello italiano – in cui le Scuole teatrali si contano sulla punta delle dita e non sempre sono affidate a una guida che sappia (o che possa) andare davvero nella direzione giusta per gli allievi.
Al Teatro dell’Opera di Roma l’azione sinergica di volontà politiche e spirito artistico consente evidenti benefici che Eleonora Abbagnato, Direttrice in forze anche al Corpo di Ballo del TOR al quale la Scuola garantisce continuità, è perfettamente in grado di assicurare.
Si sono succeduti sul palco tutti i corsi, dalla propedeutica all’VIII, in cui ciascun Maestro ha presentato un momento di lezione con gli elementi caratteristici di ciascun livello, accompagnati al pianoforte dai Maestri accompagnatori della Scuola. La serata è stata aperta dalla tecnica del Passo a due con gli allievi degli ultimi corsi, forti e dinamici nelle difficili combinazioni del Maestro Pablo Moret (docente del VII e VIII corso maschile) e che, insieme alla moglie Ofelia Gonzalez (VII e VIII corso femminile), costituisce la punta di diamante (per esperienza e sapienza) del Corpo docenti. Ciascun corso, ognuno con le relative difficoltà legate all’età e alla velocità di esecuzione che l’impostazione francese esige, ha mostrato sicurezza progressiva e ottimo lavoro. Dai piccoli della Propedeutica affidata a Valentina Canuti, al I – II femminile di Federica Lanza e I – II maschile di Alessandro Rende.
Molto applauditi i frammenti di lezione dei Maestri Silvia Curti (III e IV femminile), Gerardo Porcelluzzi (III e IV corso maschile), Alessandro Molin (V e VI corso maschile), Gaia Straccamore (V e Vi femminile) le cui ragazze sembravano già delle professioniste, oltre ai già menzionati VII e VIII corso di Moret e Gonzalez. Le notevoli difficoltà delle sequenze sono state sostenute con sicurezza dai ragazzi, in proporzione alle doti e ai risultati raggiunti da ciascuno. Talvolta è evidente come fisici meno dotati in senso estetico siano invece quelli che garantiscono maggiore affidabilità e risultati migliori.
Oltre alla conoscenza delle danze storiche e di carattere, come da tradizione, affidate a Ioulia Sofina, la giusta attenzione è posta allo studio storico della Modern dance con la tecnica Graham, affidata a Jacqueline Bulnes e al laboratorio coreografico col maestro Marco Bellone. I ragazzi sono apparsi ben preparati anche su questo versante – cosa non scontata nelle Scuole di balletto. Il corso professionale è affidato invece a Francesco Vantaggio, mentre non manca, tra le materie di studio, la storia della danza affidata a Francesca Falcone.
Commovente il dolce tributo ai nonni messo in scena con i più piccoli per la dimostrazione di canto, con movimenti coreografici composti dagli stessi allievi, sotto la guida del maestro Giuseppe Annese.
Una importante apertura “imprenditoriale” (nel senso positivo del termine) accompagna la guida di questa Scuola in un momento in cui essere imprenditori di sé stessi è non solo importante, ma è l’unico modo per incrementare le opportunità di studio per ragazzi che decidono di dedicare la propria vita all’arte difficile della danza in un Paese che, nell’immaginario collettivo, ancora stenta a riconosce l’arte come lavoro e spesso vede ingiustamente i propri figli volare all’estero per mettere a frutto quello su cui si è a lungo investito. (foto Fabrizio Sansoni)
Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e belletto 2024/25
“L’OPERA SERIA”
Commedia per musica in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Florian Leopold Gassmann
Fallito PIETRO SPAGNOLI
Delirio MATTIA OLIVIERI
Sospiro GIOVANNI SALA
Ritornello JOSH LOVELL
Stonatrilla JULIE FUCHS
Smorfiosa ANDREA CARROLL
Porporina SERENA GAMBERONI
Bragherona ALBERTO ALLEGREZZA
Befana LAWRENCE ZAZZO
Caverna FILIPPO MINECCIA
Ballerina MARIA MARTIN CAMPOS
Coro di ballerini DILAN SAKA, HAIYANG GUO, XHIELDO HYSENI
Orchestra e coro del Teatro alla Scala – Les Talens Lyriques
Direttore Christophe Rousset
Regia e costumi Laurent Pelly
Scene Massimo Troncanetti
Luci Marco Grossi
Coreografie Lionel Hoche
Milano, 6 aprile 2025
Florian Leopold Gassmann chi era costui? Potremmo chiederci come faceva Don Abbondio con Carneade e la domanda non sarebbe importuna essendo il boemo praticamente sconosciuto. Eppure si tratta di figura non marginale nella vita musicale europea del pieno settecento. Allievo di Padre Martini, musicista cesareo, propugnatore degli ideali riformatori di De Calzabigi e Gluck, maestro di Salieri. Questi pochi dati potrebbero bastare a indicarne la rilevanza. “L’opera seria” andata in scena a Vienna nel 1769 e qualcosa di più delle semplici parodie metateatrali tanto care al Settecento. È un vero pamphlet in musica con cui i propugnatori della riforma attaccano il melodramma post metastasiano ormai diventato mera ripetizione di formule e schemi – “non c’è obbligo di stare in attenzione”, “non ti muove a timor né a compassione” citando il libretto – e al contento la fallimentare gestione della vita musicale affidata a impresari spesso senza scrupoli. Libretto e musica giocano tutte le carte al riguardo. L’ampollosità ridicola dei versi, la rigidità formale delle arie sono armi di denuncia ci si contrappone la naturalezza dell’opera riformata. Molte le citazioni, i rimandi, le parodie forse non sempre così evidenti all’ascoltatore odierno ma sicuramente perfettamente fruibili al tempo. Un lavoro forse non ispiratissimo ma di certo godevole e che molto chiede all’esecuzione. E in tal senso la non comune sensibilità di Laurent Pelly sa cogliere l’essenza di questo tipo di lavori. Allestimento essenziale, tutto giocato su alternanze di bianco, grigio e nero quasi a dar vita a una raccolta d’incisioni. Costumi in epoca rivisti con ironia – solo Fallito indossa abiti moderni, infondo certe figure non hanno tempo – ma soprattutto un lavoro attoriale meticoloso e puntualissimo. Una regia che parte dai personaggi e dai loro rapporti e che li fa vivere in una realtà stralunata ma mai caricato. Spettacolo leggerissimo dove tutto si svolge con la massima eleganza ma senza nulla sacrificare sul terreno della pura teatralità. Le coreografie di Lionel Hoche perfettamente coerenti completano la parte visiva.
Christophe Rousset è una certezza assoluta in questo repertorio e per l’occasione i complessi scaligeri – impegnati su strumenti d’epoca – sono rinforzati dagli splendidi Talens lyrique. In perfetta aderenza con lo spettacolo viene data una lettura orchestrale di magistrale chiarezza e impeccabile senso teatrale. Sonorità nette, nitide, ritmi guizzanti danno al gioco scenico tutta la sua energia vitale.
Il vero punto di forza è, però una compagnia di cantanti attori perfettamente calati nello spettacolo e con un senso di complicità quale raramente si riscontra. L’impresario Fallito è affidato a Pietro Spagnoli e difficilmente si poteva far scelta migliore. Maestro assoluto della parola trova nel personaggio il terreno ideale per far emergere le sue doti d’interprete concedendosi qualche uscita improvvisata – il richiamo a Petrolini dopo la caduta del teatro – che s’inserisce a pennello nel contesto. Unico in abiti moderni incarna alla perfezione l’eterno truffatore che è uno degli archetipi della commedia all’italiana. La coppia poeta e librettista che anziché aiutarsi non fanno altro che litigare e danneggiarsi a vicenda è affidata a Mattia Olivieri (Delirio) e Giovanni Sala (sospiro). Entrambi vocalmente impeccabili, voci belle, schiette, sincere e interpretativamente calati alla perfezione. Il primo un nevrotico sempre sull’orlo del tracollo, il secondo di una sospirosità volutamente caricaturale. Alessio Arduini riesce dare forte risalto al ruolo in fondo secondario del maestro di ballo Passagallo. Non solo canta molto bene e con splendido materiale vocale – peccato la parte si riduca a un’aria e poco più – ma si muove con l’eleganza di un vero ballerino. Il primo musico Ritornello è qui affidato a un tenore. Scelta abbastanza insolita, ci si aspetterebbe un mezzosoprano a parodiare i castrati. Il canadese Josh Lovell canta con gran gusto – da autentico specialista mozartiano – e si dimostra interprete spigliato e simpatico. Il terzetto femminile è capitanato da Julie Fuchs. La prima donna Stonatrilla è parte assai impegnativa cui sono affidate arie di bravura volutamente esasperate – “No, se a te non toglie il fato” – che la cantante francese risolve con inappuntabile maestria. Sul piano interpretativo si apprezza assai un’interpretazione moderata che evita inutili smancerie, centrata sulla musica ed efficacie proprie nella sua essenzialità. Le due seconde donne in perenne lite tra loro sono Serena Gamberoni (Porporina) e Andrea Carroll (Smorfiosa). La prima, personaggio più forte spesso in contrasto con la Primadonna, è ideale per il temperamento della Gamberoni. Vocalmente in ottima forma cesella la spassosa “Delfin che al laccio infido” e in scena si muove da attrice consumata. La Carroll mostra qualche limite sul piano vocale – gravi poveri di suono e acuti a volte un po’ al limite – ma rende con grande simpatia il personaggio, lamentoso e sempre afflitto da ogni problema. Cosa dire del terzetto Alberto Allegrezza, Filippo Mineccia e Lawrence Zazzo nei panni delle insopportabili madri delle cantanti se non che le loro parti sono troppo brevi. Il loro terzetto è tra le pagine più irresistibili dell’opera e il trio degli interpreti è semplicemente perfetto. Viste certe assonanze con la futura Mamma Agata viene da chiedersi se Donizetti non conoscesse quest’opera. Splendido il finale dove il tema classico del giuramento di odio eterno di Annibale verso i romani diventato un topos dell’opera seria – si pensi al finale del “Mitridate re di Ponto” – viene parodisticamente rivolto contro l’infida stirpe degli impresari. Sala gremita –moltissimi i giovani – e grande successo di pubblico. Foto Brescia e Amisano
Roma, Villa Bonaparte
Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
SERATE MUSICALI A VILLA BONAPARTE
Harp Trio Chagall
CATELLO COPPOLA, flûte
ADRIANA CIOFFI , harpe
SIMONE DE PASQUALE, alto
e con
GIUSEPPINA PERNA, soprano
STEFANO SORRENTINO, tenore
CARLO MARTINIELLO, piano
Programma
G. Rossini : “Giusto cielo, in tal periglio” da “L’assedio di Corinto”
M. Carafa : “Fra tante angosce e palpiti da “Berenice in Siria”
G. Pacini : “Quai lugubri lamenti” da “Cesare in Egitto”
S. Mercadante : Largo per flauto, viola e arpa
G. Rossini: “O muto asil del pianto” da “Guglielmo Tell”
S. Mercadante: “Addio felici sponde” da “Didone abbandonata”
G. Donizetti: “Vivi tu te ne scongiuro” da “Anna Bolena”
G. Pacini: Composizione da camera per Soprano, Tenore, Arpa e
Pianoforte (Prima Assoluta)
Roma, 10 aprile 2025
Villa Bonaparte, oggi sede dell’ Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, non è soltanto un palazzo monumentale carico di storia: è un luogo che continua a interrogare il tempo attraverso la cultura. Con il ciclo “Serate musicali a Villa Bonaparte”, avviato nel 2024 e destinato a proseguire fino al termine del 2025, prende corpo un progetto di lungo respiro che coniuga rigore filologico, memoria storica e prassi esecutiva, restituendo significato e respiro alla funzione diplomatica come spazio di pensiero, ascolto e scambio. Tra le linee tematiche che il programma ha saputo esplorare, la figura di Paolina Borghese Bonaparte si impone per carisma, sensibilità e potere evocativo. Sorella di Napoleone, icona ambivalente del neoclassicismo romano, Paolina non fu solo presenza mondana: seppe costruire attorno a sé un vero laboratorio culturale. La sua dimora accanto a Porta Pia, oggi sede diplomatica francese, divenne nei primi decenni dell’Ottocento luogo di incontri, serate teatrali, concerti e improvvisazioni tra attori, pittori e compositori emergenti. Una Roma alternativa, sensibile, inquieta. La serata si è articolata come un itinerario musicale che, attraversando Rossini (Giusto cielo, in tal periglio, O muto asil del pianto), Carafa, Mercadante, Donizetti e Pacini, ha riportato alla luce pagine raramente eseguite e costruito un paesaggio sonoro coerente con la sensibilità salottiera del primo Romanticismo italiano. Il vertice, idealmente e musicologicamente, è stato toccato con l’esecuzione in prima assoluta di una Composizione da camera per soprano, tenore, arpa e pianoforte di Giovanni Pacini, ricostruita a partire da un manoscritto ritrovato a Pescia. In quell’“album di romanze” dedicato alla “distintissima dama”, la musica non è soltanto linguaggio affettivo, ma traccia vivente di un legame tra arte e biografia. Il recupero di questa partitura – frammentaria, delicata, preziosa – è il risultato di un lavoro corale e stratificato. A Pino Adriano, ideatore e coordinatore del progetto, si deve l’intuizione e la tenacia nel rintracciare la fonte, con il sostegno dell’assessorato alla cultura del Comune di Pescia; a Adriana Cioffi, la cura della trascrizione e della realizzazione musicale, affrontata con competenza filologica e profonda intelligenza del suono. È a lei che si deve l’equilibrio tra rigore e cantabilità, tra strutturazione e libertà timbrica. L’organico esecutivo – il Trio Chagall, qui esteso a sestetto con Catello Coppola (flauto), Adriana Cioffi (arpa), Simone de Pasquale (viola), Giuseppina Perna (soprano), Stefano Sorrentino (tenore) e Carlo Martiniello (pianoforte) – ha saputo attraversare il repertorio con sobrietà e senso della forma, evitando ogni compiacimento lirico per restituire, invece, un suono asciutto, interiorizzato, coerente con la destinazione originaria delle composizioni. Ma il dato più sorprendente non risiede soltanto nell’equilibrio interpretativo o nella rarità del repertorio. A rendere l’esperienza irripetibile è stato il modo in cui la Villa stessa ha reagito al suono. Non come cassa armonica, ma come organismo sensibile, capace di riconoscere ciò che già le apparteneva. Come se le musiche, tornate a vibrare dopo due secoli, avessero risvegliato una stratificazione silenziosa, dando luogo a un fenomeno di sospensione temporale: non rievocazione, bensì presenza. La musica, in questo contesto, agisce non come citazione, ma come interruzione del tempo lineare, come breccia nella durata. Il passato non ritorna: si impone. Un’esperienza del genere non sarebbe stata possibile senza l’ospitalità elegante e concreta di S.E. Florence Mangin, Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, la cui visione ha saputo restituire alla diplomazia una funzione generativa, e non meramente cerimoniale. Accanto a lei, il consorte Pino Adriano, figura centrale nella costruzione intellettuale e operativa dell’intero progetto, ha incarnato con fermezza e discrezione un modello di curatela culturale fondato sulla competenza e sull’idea di continuità. Fondamentale anche il lavoro dell’ufficio stampa dell’Ambasciata, nella figura di Pierluca Ferrari, la cui azione – precisa, generosa, appassionata – ha saputo accompagnare e accelerare ogni fase organizzativa, contribuendo con lucidità e sensibilità alla piena riuscita dell’iniziativa. In tempi in cui la cultura rischia spesso di farsi evento, e l’arte di essere puro spettacolo, queste serate restituiscono un’altra possibilità: quella di un gesto lento, meditato, costruito nel tempo. Villa Bonaparte non è un contenitore, ma un luogo attivo, che reagisce. E la musica, in questo contesto, non è ornamento: è sostanza, strumento critico, memoria incarnata.
Si alza il sipario del Festival del Maggio Musicale Fiorentino che quest’anno giunge alla sua 87ª edizione. In programma, domenica 13 aprile 2025 alle ore 18, nella Sala Grande del Teatro, uno dei grandi capolavori del ’900 che torna al Maggio a distanza di 15 anni dalla sua ultima messinscena, la Salome di Richard Strauss. Altre tre sono le recite previste in cartellone: il 16 e il 23 aprile alle ore 20 e il 27 aprile alle ore 15:30.
Sul podio, alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, il maestro Alexander Soddy, al suo debutto in Teatro. La regia dello spettacolo è firmata da Emma Dante, anche lei al suo debutto al Maggio. Un altro debutto fiorentino è segnato dal soprano Lidia Fridman subentrata nella compagnia di canto al posto della già annunciata Allison Oakes che per una indisposizione è stata costretta a lasciare la produzione.
Il cast vocale schiera le voci di Nikolai Schukoff che veste i panni di Herodes; di Anna Maria Chiuri che è Herodias e di Brian Mulligan che interpreta Jochanaan. Eric Fennell è Narraboth; Marvic Monreal è Ein Page der Herodias; i Cinque ebrei sono Arnold Bezuyen, Mathias Frey, Patrick Vogel, Martin Piskorski e Karl Huml. Interpretano i Due nazareni William Hernandez e Yaozhou Hou (quest’ultimo veste inoltre i panni di Uno schiavo); Frederic Jost e ancora Karl Huml sono Due soldati mentre Davide Sodini chiude il cast lirico vestendo i panni di Un uomo della Cappadocia.
Le scene di questo nuovo allestimento sono curate da Carmine Maringola, i costumi sono di Vanessa Sannino, le luci di Luigi Biondi e la scenografia di Silvia Giuffrè. Il manifesto dell’opera è di Gianluigi Toccafondo.
La recita del 13 aprile sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3 e in differita televisiva su Rai 5 (ore 21:15)
Torino, Teatro Regio Stagione d’opera 2024 – 2025
“PIKOVAJA DAMA “ (La dama di Picche)
Opera in tre atti e sette scene su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij dall’omonimo racconto di Aleksandr Sergeevič Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Hermann MIKHAIL PIROGOV
Il conte Tomskij ELCHIN AZIZOV
Il principe Eleckij VLADIMIR STOYANOV
Čekalinskij ALEXEY DOLGOV
Surin VLADIMIR SAZDOVSKI
Čaplickij, giocatore, maestro di cerimonia JOSEPH DAHDAH
Narumov, giocatore VIKTOR SHECHENKO
Contessa JENNIFER LARMORE
Liza ZARINA ABAEVA
Polina DENIZ UZUN
La governante KSENIA CHUBUNOVA
Maša IRINA BOGDANOVA
Il piccolo comandante voce bianca LUCA DEGRANDI
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino
Direttore Valentin Uryupin
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Direttore del coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Sam Brown
Scene e Costumi Stuart Nunn
Coreografia Angelo Smimmo
Luci Linus Fellbom
Allestimento Deutsche Oper di Berlino
Torino, 3 aprile 2025
La Dama di Picche che in questo inizio di aprile, per la seconda volta dopo la memorabile edizione Noseda – Krief del 2009, va in scena al Teatro Regio si conferma qual è un grande e multiforme polittico, unificato dalla potente campitura musicale di Čajkovskij. In un continuo variare di scene e di ambienti, emergono Hermann e Liza i personaggi che, con l’anziana Contessa, ne sono gli straziati protagonisti. I bambini e le governanti nel parco, gli irridenti commilitoni di Hermann al tavolo da gioco, l’apparato nobiliare e la Zarina, Polina e le sue amiche diventano parte corale di una gigantesca sinfonia patetica che comunque, fin dall’Introduzione orchestrale, impone un clima oscuro e ansioso che neppure nel Requiem finale troverà la sua catarsi. La regia che si dice Sam Brown abbia ripreso da un’idea originale di Graham Vick, si appiattisce sull’ormai bolsa tradizione dei neon e delle proiezioni in bianco-nero che non illustrano e ancor meno emozionano. Il racconto avanza quindi abbastanza piatto e non si giova dell’aggiunta di un qualche innocuo tocco “alla moderna”. Sorprendente ed apprezzabile la trasformazione, possibile per l’intenso e indiscutibile fascino di Jennifer Larmore, della vecchia e cadente Contessa in maliosa adescatrice sexy. Le scene di Stuart Nun, come le luci di Linus Bellbom risultano vivaci e ben funzionali allo spettacolo. Sempre di Stuart Nun sono i costumi che, se esaltano la “rivisitazione” glamour della Contessa, non sono altrettanto efficaci nel vestire Liza. Se si cercasse lo stile Vick lo si potrebbe forse solo trovare nei movimenti coreografici dei due atti finali, in cui il coreografo Angelo Smimmo sicuramente rimanda al Tell del ROF 2013. Nonostante la presentazione da parte del Maestro di cerimonie, è stata brutalmente tagliata la “pastorelleria” mozartiana dell’atto secondo. La rinuncia a questa parentesi settecentesca è tutt’altro che indolore: per Čajkovskij, mozartiano viscerale, costituisce, in quest’opera onnicomprensiva, una parte non secondaria di un suo ipotetico autoritratto artistico e spirituale. L’esecuzione sconta la più che eccellente prestazione dei Cori, compreso quello di voci bianche del Teatro Regio, che Ulisse Tabacchin e Claudio Fenoglio conducono con la nota perizia, pur nei trambusti di un affollatissimo palcoscenico che, specie nella scena iniziale, ne ingarbuglia le file. L’Orchestra del Teatro Regio ha ben sostenuto l’immane partitura che, per molti aspetti, è pari a quella di una grande sinfonia con voci. Gli ottimi orchestrali, sempre affossati e invisibili, vengono tradizionalmente trascurati rispetto a chi agisce in scena. I legni, le prime parti e le file, gli archi, i violoncelli e le viole in specie, sono stati a tutti gli effetti assolutamente determinanti al buon esito. In un punto specifico del finale primo, Liza piange e Čajkovskij sul rigo del primo cello scrive in italiano: molto espress.piangendo: la commozione è giunta in sala. La direzione di Valentin Uryupin, sicuramente efficace e tecnicamente agguerrita, soffre di una visione più episodica che unitaria. Ricordando la coinvolgente e inarrestabile spirale emotiva della precedente edizione, si passa qui di scena in scena senza un reale continuum sinfonico. Scoppi sonori a fine scena cercano di animare delle non supportate steppe ghiacciate cui la sola eccellenza di strumentisti e cantanti dà vita. La compagnia di canto è eccellente quando non eccezionale. Mikhail Pirogov, Hermann, è tenore essenzialmente lirico che, pur non sottraendosi all’eroismo di alcune frasi, umanizza strepitosamente il personaggio. Il timbro è virilmente piacevole, così come è notevole la correttezza di intonazione e di fraseggio. Sulla follia e sulla disperazione di Hermann esercita il controllo tipico di chi interiorizza, senza placarle, le proprie angosce. Il pubblico l’ha molto apprezzato e applaudito. Zarina Abaeva, Liza, soprano lirico dai magnifici centri. Il timbro dolce ne fa un carattere remissivo e fragile. Nell’aria dell’ultimo atto, sulla sponda della Neva, ha modo di farsi ammirare per delle doti non comuni di tecnica e di fraseggio. Trova qualche difficoltà nel duetto del primo atto con Polina, Deniz Uzun: le due pare che cantino con sistemi tonali paralleli ma non coincidenti. Polina, sempre la Uzun, esegue poi magnificamente, con le giuste bruniture, la sua canzone Carissime mie amiche. Il reparto femminile si arricchisce della fama e del fascino intatto della Contessa di Jennifer Larmore. L’aria di Gretry, che lei bisbiglia prima di addormentarsi, ben sopporta gli strali di molte stagioni passate su palcoscenici di tutto il mondo. Il conte Tomskij trova in Elchin Azizov, un inappuntabile e fascinoso interprete dalla voce bella, timbrata e sfogata che corre con facilità per tutto il teatro. Determinante l’apporto che Vladimir Stoyanov dà all’innamorato e poi vendicativo Principe Eleckij. Voce chiara, sonora, dal timbro assolutamente accattivante e dalla tecnica sopraffina. Completano l’apprezzabile elenco Alexey Dolgov come Čekalinskij e il Surin di Vladimir Sazdovski. Una certa ilarità divertita l’ha suscitata l’autoritaria governante, con frustino, di Ksenia Chubunova. Irina Bogdanova è la cameriera della contessa e Joseph Dahdah con Viktor Shevchenko completano con efficacia il lotto dei giocatori. Il pubblico della prima ha approvato incondizionatamente tutti gli esecutori musicali. Segnata da particolare riconoscenza e affetto è stata poi l’accoglienza riservata alla Larmore. Gli artefici della parte visiva, con gli applausi, si sono dovuti subire anche uno spento e silenziato mugugno: è il massimo di disapprovazione a cui ardisca il pubblico subalpino. Foto Mattia Gaido