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Aggiornato: 2 ore 42 min fa

Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Migliore” dal 15 gennaio al 02 febbraio 2025

Lun, 13/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
MIGLIORE
scritto e diretto da Mattia Torre
con Valerio Mastrandrea
Produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
Migliore è la storia comica e terribile di Alfredo Beaumont, un uomo normale che in seguito a un incidente (di cui è causa, di cui sente la responsabilità e per cui sarà assolto) entra in una crisi profonda e diventa un uomo cattivo. Improvvisamente, la società gli apre tutte le porte: Alfredo cresce professionalmente, le donne lo desiderano, guarisce dai suoi mali e dalle sue paure. Migliore è una storia sui nostri tempi, sulle persone che costruiscono il loro successo sulla spregiudicatezza, il cinismo, il disprezzo per gli altri. E sul paradosso dei disprezzati, che di fronte a queste persone chinano la testa e – affascinati – li lasciano passare. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “L’arte della truffa” dal 15 gennaio al 02 febbraio 2025

Lun, 13/01/2025 - 23:59

Roma, Sala Umberto
L’ ARTE DELLA TRUFFA
di Augusto Fornari, Toni Fornari, Andrea Maia, Vincenzo Sinopoli
con Biagio Izzo, Carla Ferraro, Roberto Giordano, Ciro Pauciullo, Arduino Speranza, Adele Vitale
scene di Massimo Comune
disegno luci Luigi Raia
musiche di Gruppo SMP
costumi di Federica Calabrese
produzione esecutiva di Giacomo Monda.
produzione AG Spettacoli e Tradizione e Turismo
Regia di Augusto Fornari
Ne L’arte della Truffa  scopriamo la vita di Gianmario e della moglie Stefania viene sconvolta dall’arrivo del fratello di lei, Francesco, che la coppia è costretta a prendere in casa per fargli ottenere gli arresti domiciliari. Gianmario, integerrimo uomo d’affari, è preoccupato che la presenza del cognato, noto truffatore, possa nuocere ai rapporti che lui intrattiene con alti prelati del Vaticano, per i quali lavora. Ma un imprevisto rovescio finanziario porta Gianmario ad aver bisogno delle ‘arti’ del cognato. L’arte della Truffa è Il nuovo spettacolo di Biagio Izzo, una commedia brillante tra momenti paradossali, comici ed emozionanti. Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Franco Parenti: “Acanto”

Lun, 13/01/2025 - 21:02

Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione di Prosa 2024/25
“ACANTO”
di Nicola Russo
con ALESSANDRO MOR e GABRIELE GRAHAM GASCO
Regia Nicola Russo
Scene e Costumi Giovanni De Francesco
Luci Giacomo Marettelli Priorelli
Suono Andrea Cocco
Video Matteo Tora Cellini
Produzione MONSTERA in collaborazione con Alchemico Tre
Milano, 08 gennaio 2025
Molto apprezzabile è l’intento di Nicola Russo nel presentare al Parenti di Milano “Acanto”, un testo maneggevole quanto ambizioso che si prefigge di portare in scena lo scontro generazionale tra due maschi omosessuali – un cinquantenne e un ventenne – nel contesto certo non scontato della sala d’attesa di un laboratorio d’analisi. Tutto incentrato sull’incontro di questi due individui, sul loro guardarsi, interrogarsi, toccarsi da lontano e poi sempre più da vicino, anche lo spazio scenico di Giovanni De Francesco è apparentemente funzionale alle due parti (con sedie disposte di fronte le une alle altre, e linee parallele disegnate per terra), e aumenta in profondità grazie alle videoproiezioni di Matteo Tora Cellini, che vengono mandate sul fondo, che vedono il corpo del protagonista più attempato osservato a 360º. È evidentemente lui il protagonista: lui innesca il dialogo col giovane, lui è quello ansioso, ma anche quello desideroso di conoscere una govinezza che gli sembra ormai sfuggita. Alessandro Mor, nella resa di questa nostalgia, è senza dubbio efficace, fisicamente e vocalmente; sebbene, va detto, sia il giovane Gabriele Graham Gasco la sorpresa, sul piano performativo: il suo è un corpo nascosto ed esposto, riverso su se stesso e aperto al mondo, e la sua voce, senza essere stantiamente accademica, riesce a toccare corde molto diverse tra loro – simpatia, imbarazzo, rabbia, spavalderia – costruendo un’aura di maggiore credibilità rispetto al suo compagno più attempato – e il monologo sul finale del film “Niente baci sulla bocca” lo dimostra ampiamente. Il testo si dipana tra racconti più o meno personali e confronti generazionali sul modo di scoprire e vivere la propria omosessualità in Italia, e sembra andare in una direzione interessante – quello che trasforma l’incontro in scontro, la tensione in atto – quando in poche battute arriva a una non-conclusione francamente disorientante. Per quanto possiamo apprezzare i finali aperti, qui tuttavia ci troviamo di fronte a una fitta palizzata di interrogativi che vanno ben oltre la delega allo spettatore. In primis, la questione della malattia, che viene chiaramente enucleata dal personaggio più adulto, ma che, ad esempio, non sembra toccare il più giovane – siamo nella sala d’attesa di un ospedale, si potrebbe obiettare; già, ma cosa la rende tale? Il numeratore led che non procede, come in salumeria? Oppure in realtà questo è un luogo purgatoriale, uno spazio intermedio tra vita e morte, ove le età si riassumono nel kairòs, e dunque i due rappresentano la stessa persona in due momenti storici diversi? Che vita hanno, che relazione hanno fuori dalla scena questi due personaggi? In un testo così scarno – e pure dalle chiare e non del tutto irrisolte pretese poetiche – il pubblico deve potersi affezionare ai personaggi, quasi innamorare, se non per lo meno rispecchiarsi in essi e in quello che fanno. Ecco, se il primo step avviene, il secondo ci sembra un po’ abortito, come se qualcosa debba accadere proprio nel momento in cui l’autore decide di concludere – un finale un po’ troppo sospeso. Peccato. Foto Sirio Tessitore

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Elfo-Puccini: “La Collezionista”

Lun, 13/01/2025 - 20:54

Milano, Teatro Elfo-Puccini, Stagione 2024/25
“LA COLLEZIONISTA”
di Magdalena Barile
La Marchesa IDA MARINELLI
Marcel ANGELO TRONCA
Intervistatrice/ Lux BARBARA MAZZI
Cameraman/ Andy YURI D’AGOSTINO
Regia Marco Lorenzi
Scene Marina Conti
Luci Giulia Pastore
Costumi Elena Rossi
Nuova Produzione Teatro dell’Elfo e A.M.A. Factory
Milano, 09 gennaio 2025
Da sempre per lanciare un nuovo testo tearale si fa ricorso alla presenza, nella prima produzione, di un o una interprete importante, che faccia un po’ da “traino” alla novità drammaturgica. Non fa eccezione “La collezionista” di Magdalena Barile, che si avvale della presenza in qualità di protagonista di Ida Marinelli, senz’altro una tra le attrici della sua generazione tra le più apprezzate. La scelta si rivela, peraltro, azzeccata: Marinelli ha la giusta tempra performativa per muovere l’intero spettacolo, tentacolare personalità che sa muovere i suoi burattini con singolare intelligenza scenica – oltre alla voce, al corpo, a tutte le mezzetinte che un’attrice del suo calibro sa sfoderare. D’altronde, come ci si premura di chiarire nel materiale di sala, l’idea di un testo su una collezionista d’arte – un po’ Peggy Guggenheim, un po’ Marchesa Casati Stampa – è stata sua. Purtroppo, tuttavia, occorre constatare come l’ispirazione e il talento di Marinelli non bastino a costruire e reggere un’intero spettacolo, che, ove la Divina Ida non arriva, mostra crepe, scricchiolii e buchi piuttosto evidenti, a partire dagli altri attori in scena con lei: se Angelo Tronca, nella parte del maggiordomo/manager ex amante (vago richiamo allo Stroheim di “Viale del tramonto”), si guadagna un suo senso scenico, grazie anche a una parte che ne sviluppa per lo meno alcuni aspetti, Barbara Mazzi e Yuri D’Agostino non sono solo inadeguati come attori (lei connotata da una vocalità che dietro l’impostazione nasconde acute asperità, lui onestamente in costante souplesse, fin troppo rilassato nel tentare di costruire il personaggio), ma vengono penalizzati anche da dei personaggi poco più che macchiettistici – l’intervistatrice ideologicamente schierata, il cameraman interessato solo allo scoop, l’artista arrabbiata col mondo che dice “no” a tutto; unica eccezione è Andy, l’“uomo-copia”, l’unico guizzo di originalità del testo, che però resta imbrigliato in vezzi recitativi senza effettivamente svilupparsi in un personaggio a tutto tondo. Peccato, anche perché la tematica di cui si fa portatore è tra le più interessanti, se collegate all’arte contemporanea, cioè al tema che vorrebbe essere centrale nel testo. E anche qui il condizionale è d’obbligo, giacché pare chiaro che Magdalena Barile non abbia scritto un testo sull’arte contemporanea, ma sugli artisti contemporanei (giacché, in fondo, anche la collezionista appartiene a quella schiera), anzi: sull’idea che lei ha di questi artisti, un’idea scioccherella e per nulla realistica, che sembra accodarsi a quella frangia intellettuale conservatrice che vuole che l’arte sia morta da almeno quarant’anni e tutto il resto è spazzatura. Avanguardia pura, non c’è che dire: e certo non sentiamo il bisogno della bellissima scena di Marina Conti – organizzata come un effettivo museo che lo spettatore può visitare prima o dopo la recita – o delle geometriche ed incisive luci di Giulia Pastore per nobilitare un testo tanto povero di contenuti, che strizza pesantemente l’occhio a Buñuel e Sorrentino (il leone a circuire il luogo, come l’orso del “Fascino indiscreto della borghesia”, l’apparente leggerezza – non ci spingeremmo fino a comicità – con cui si presentano i personaggi, la rappresentazione di un sottobosco artistico demenziale), ma si dimentica che su questo argomento è già stato prodotto almeno un testo – “Art” di Yasmina Reza – che non temiamo di definire drammaturgicamente perfetto. Nemmeno il talento formidabile di Ida Marinelli riesce a dare spessore a questa “Collezionista”, sia nel senso del testo sia dello specifico personaggio, che pure avrebbe potuto essere sviluppato meglio, senza necessità di abbrutirlo tanto. Perché anche questo è un carattere pesantemente inficiante la riuscita del testo: nessun personaggio ha qualcosa di bello, di dolce, tenero, una umanità con cui poter empatizzare. Origliando la conversazione di due componenti del pubblico, sentiamo “Come ti è sembrato?” “Mah… mi è sembrata una stanza piena di gente orribile”: non sapremmo trovare parole più appropriate. E, aggiungiamo noi, che non fa assolutamente nulla di interessante, né parla di cose interessanti, ma si limita per la maggior parte a uno small talk che quando vuole essere profondo si abbandona a luoghi comuni del calibro “l’arte è tutta la mia vita”. In scena al Teatro Elfo-Puccini di Milano fino al 02/02. Foto Laila Pozzo

Categorie: Musica corale

Andrea Battistoni con l’Orchestra della Rai e la violoncellista Anastasia Kobekina

Lun, 13/01/2025 - 12:52

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino stagione sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrea Battistoni
Violoncello Anastasia Kobekina
Organo Luca Benedicti
Leone Sinigaglia: “Le baruffe chiozzotte” op.32 Ouverture per orchestra. Pëter Il’ič Čajkovskij: Variazioni su un teme rococò per violoncello e orchestra, op.33. Camille Saint-Saëns: Sinfonia n.3 in do minore, op.78. Sinfonia per organo.
Torino, 9 gennaio 2025.
A circa un mese dalla sua designazione a Direttore Musicale del Teatro Regio, il Maestro Andrea Battistoni si presenta sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, con un programma inusuale e molto particolare. Apertura di serata con lOuverture per le goldoniane Baruffe chiozzotte di Leone Senigaglia; c’è la sola Ouverture, l’opera completa da Senigaglia non fu mai composta e il pezzo viene forse qui eseguito come omaggio del direttore alla terra ospitante. Senigaglia, famiglia dell’alta borghesia ebraica subalpina, visse tra gli ultimi decenni dell’ottocento e, braccato dai nazisti, morì tragicamente, a Torino, nel 1944. Notevole una sua raccolta di canti popolari piemontesi e, per orchestra, Rapsodie, Danze e Suite con l’aggettivo piemontese nei titoli. Queste opere suscitarono l’interesse e furono interpretate da alcuni grandi direttori del tempo: Toscanini, Furtwängler e Barbirolli, tra gli atri. Da anni sono però scomparse dalle sale da concerto e probabilmente non c’è più nessuno che ancora se le ricordi. L’Ouverture è di otto minuti complessivi e, tra due vivaci elaborazioni di piccoli temi pseudo-popolari, racchiude una breve parentesi sentimentaleggiante. Battistoni e gli strumentisti dell’Orchestra Nazionale RAI ne danno una soddisfacente interpretazione, avvolta in ritmi vivaci e gioia di vivere. Seguono col loro splendore, volutamente rococò, le 8 variazioni danzanti che Čajkovskij scrisse per violoncello e orchestra. Come è consuetudine e dovere, in questi casi, l’orchestra può interloquire lasciando però al solista mano libera e preminenza. Così è stato. La russa Anastasia Kobekina, elegantissima, affascinante e sorniona, dotata di una stratosferica perizia tecnica, col supporto della voce sfolgorante dello Stradivari 1717 che imbraccia, si è subito accaparrata i favori e le simpatie del pubblico. Il suono, il ritmo, la tecnica sono di livello fantastico e riescono a promuovere una composizione nata, in collaborazione con Wilhelm Fitzenhagen, violoncellista amico del compositore, soprattutto per dar lustro alle grandi doti tecniche del solista. Battistoni, avendo ben compresi il gioco, pur disponendo della fantastica Orchestra della RAI, non la mette mai in contrasto, sovrastandolo, con lo strumento solista. Successo indiscusso e due bis annunciati con il sorriso e la simpatia strabordanti della Kobekina. Un pezzo pseudo popolare, per tamburello e violoncello, scritto dal padre della Kobekina, anch’esso musicista, a cui la figlia rende omaggio in diretta. Lo Stradivari 1717, Italian Lady (!?) come affettuosamente lo nomina l’artista, è nelle sue disponibilità da soli dieci giorni ma, come lei afferma, è già nato tra loro un love affair. Lo stesso violoncello era stato, nel passato, fra gli strumenti suonati da Pablo Casals e da Sol Gabetta. Soprattutto riferito a Casals, che, come preghiera mattutina, ci suonava Bach, il secondo bis è stato il Preludio dalla Prima Suite del Kantor. Esecuzione molto libera e personale, che accantona le acribie della prassi informata, ma, al contempo, rende il pezzo affascinante e di indiscutibile presa. Applausi scroscianti dal pubblico che, come contropartita, riceve smaglianti sorrisi, svolazzanti abiti rossi e simpatiche corsette d’uscita. Pezzo forte, a chiudere la serata: La sinfonia n.3 con organo di Camille Saint-Saëns. Un esempio di grande gigantismo fonico e strumentale di fine 800. La dedica a Liszt ne dà anche la cifra stilistica, si tratta infatti di una pseudo Sinfonia: in luogo dei tradizionali quattro movimenti ci sono due parti con varie articolazioni al loro interno. L’organico è rinforzato da raddoppi, da un pianoforte suonato a quattro mani e dall’organo che, se nella prima parte fa da sfondo ad archi cha sussurrano, all’inizio della seconda parte, con un accordo maestoso, dà l’avvio a sezioni più mosse ed agitate. L’inizio della prima parte è immerso in atmosfere wagneriane e, nonostante il diniego dell’autore, francesi. Non pare che ne nasca un racconto, ma si procede nell’indeterminatezza di disparate parentesi melodiche arricchite da timbri cangianti e da ritmi sinuosi. Nella seconda parte, introdotta dal potente accordo in fortissimo dell’organo, l’atmosfera si fa più vitalistica e pare abbozzarsi quasi un racconto. I suggestivi e ripetuti rimandi al Dies irae non sono solo degli utili espedienti retorici messi a giustificare gli episodi fugati e l’elaborazione contrappuntistica. Non si coglie comunque un carattere definito e specifico dell’opera. Battistoni, che l’ha certamente ben studiata, guida, a memoria e senza carta, l’Orchestra sulle strade del vitalismo energetico ed entusiasta. Brillano le prime parti nei tratti solistici come, con chiara evidenza, Luca Benedicti all’organo. Duole ricordare che in nessuna delle tre grandi sale da concerto torinesi c’è un organo funzionante, per cui, anche qui alla RAI, si è dovuto ricorrere, apparentemente senza eccessivi danni, a una consolle elettronica che attiva parecchi diffusori sparsi sul palco e in sala. La direzione briosa e sonora del saltellante Battistoni vince la sfida, il pubblico gli tributa, con sincero entusiasmo, un caldo successo. È stata sicuramente una benaugurante accoglienza e un viatico incoraggiante per la prossima imminente attività che il Novello Direttore Musicale si appresta ad avviare nel vicino teatro di Piazza Castello.

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro Bellini: “Fantozzi. Una tragedia”

Dom, 12/01/2025 - 11:11

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“FANTOZZI. UNA TRAGEDIA”
Da Paolo Villaggio
Drammaturgia Gianni Fantoni, Davide Livermore, Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga
Con: GIANNI FANTONI, PAOLO CRESTA, CRISTIANO DESSÌ, LORENZO FONTANA, ROSSANA GAY, MARCELLO GRAVINA, SIMONETTA GUARINO, LUDOVICA IANNETTI, VALENTINA VIRANDO
Regia Davide Livermore
Scene Lorenzo Russo Rainaldi
Costumi Anna Verde
Supervisione Musicale Fabio Frizzi
Luci Aldo Mantovani
Produzione Teatro Nazionale di Genova, Enfi Teatro, Nuovo Teatro Parioli, Geco Animation
Napoli, 8 gennaio 2025
Fantozzi è il ritratto perfetto dell’uomo «medio» costretto, da se stesso e dagli altri, a essere tale. «Essere Fantozzi» non può, e non deve, essere una «colpa» e nemmeno fonte d’estrema e amara vergogna. Esserlo non significa essere dei perdenti, dei servi, insomma delle «merdacce»: uno dei tanti termini che determinano in modo drammaticamente «grottesco» non tanto il gergo propriamente «fantozziano», ma quello appartenente ai padroni, ai ricchi, ai mega-direttori, ai direttori «naturali» ed «ereditieri» e, soprattutto, al direttore dei direttori, al «direttore galattico»; un gergo che il «sottoposto», il ragioniere, il Fantozzi è costretto a fare proprio, perché costretto a osservare se stesso attraverso gli occhi dei padroni. Il gergo «fantozziano» è un sistema linguistico, entro cui il ragioniere appare come irrimediabilmente incastrato; un gergo potentemente espressivo e alienante, che determina i rapporti «sadomasochistici» che Fantozzi intrattiene col padrone di turno, col professor Riccardelli, con la contessa Serbelloni o col conte Catellani. Quando Fantozzi accetta di essere «martirizzato», di essere crocifisso in sala mensa o quando accetta di essere adoperato come parafulmine, sta incastrandosi in momenti punitivi e autopunitivi, paradigmatici dell’arbitrarietà del Potere, parafrasando Pasolini; arbitrarietà che emerge, sia pure in chiave «farsesca», nelle scene dei film Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976). Ecco che, però, al trentottesimo «coglionazzo», ricevuto dal conte Catellani, Fantozzi ha un raro moto d’orgoglio. Quel moto d’orgoglio che ha caratterizzato quest’adattamento teatrale dei film sopracitati, in cui Paolo Villaggio dava voce e corpo al ragioniere; una riduzione drammaturgica (scritta da Gianni Fantoni, Davide Livermore, Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga) dal carattere anche potentemente narrativo e romanzesco – proprio perché, facendo eco alla struttura «frammentaria» dei romanzi di Villaggio, appare organizzata strutturalmente in macro-momenti, in vari episodi, quelli più celebri dei film: dalla «pazzesca» Corazzata Potëmkin alla scena della partita a biliardo in casa Catellani; dalla partita a tennis alla cena in villa Serbelloni. Macro-momenti brillanti, poeticamente «evocati» – e non meramente «riprodotti» – attraverso gesti e movimenti stilizzati. Come risultano estremamente sintetizzate anche le scene, ideate da Lorenzo Russo Rainaldi, costituite da pannelli e da tende; ambienti nitidamente illuminati da Aldo Mantovani. Nel disegno registico di Davide Livermore, la rappresentazione assume la forma d’un collage, determinato dalle celebri musiche dei film, supervisionate dal compositore Fabio Frizzi; un tragicomico pastiche teatrale, il cui carattere frammentario consiste anche nell’escamotage dell’innesto, nella sequenza episodica, di momenti narrativi (attraverso cui i vari attori, assumendo a turno la funzione di «voce narrante», introducono lo spettatore ai fatti e alle scene) e di momenti altamente poetici e astratti: pose plastiche dalla tragica e irrimediabile sospensione; momenti di irrealtà giustapposte a scene concretamente e irresistibilmente comiche: il ragioniere, lì, in poltrona, incastrato in una degradante e faticosa pratica d’autoerotismo, consumata guardando un «tragico» strip-tease su TeleMerda: una perfetta, definitiva critica allo strapotere che i vari mezzi di comunicazione esercitano sui corpi dell’informe massa; per dirla ancora con Pasolini (intervistato, nel 1975, da Gideon Bachmann), il Potere non fa altro che mercificare i corpi. E lì, seduto in poltrona, Fantozzi con le sue «tragiche mutande ascellari» e con l’inseparabile berretto francese: una maschera teatrale, la cui cristallizzazione appare irrisolvibile: Ugo Fantozzi come Felice Sciosciammocca di Eduardo Scarpetta, una «maschera che non porta maschera», per citare Eduardo De Filippo. E maschera senza maschera è stato questo Fantozzi interpretato, al Bellini, da Gianni Fantoni. Attore perfetto, nella realistica costruzione del personaggio del ragioniere, avvenuta attraverso una poetica e brillante rievocazione delle sue incertezze linguistiche, dei suoi improvvisi e brevissimi momenti d’ira o di libido, dei suoi attimi d’estremo e umanissimo sconforto. L’attore affronta il ruolo con un’esattezza che potremmo definire «filologica»: il personaggio diventa un’opera letteraria «vivente». Non si tratta, però, d’un Fantozzi imitato o «parodiato», ma d’un Fantozzi «ricostruito» e affrancato dalle degradanti mortificazioni eternamente operate dai suoi padroni. Ed ecco perché Fantoni, alla fine, ci esorta a nutrire nei confronti del ragioniere un sentimento d’amore fraterno. Ma l’altro sentimento che attraversa e determina questo pastiche teatrale è quello d’una amara e inevitabile «assenza di umanità»: tutti gli altri personaggi (Pina Fantozzi, la figlia Mariangela, Calboni, il ragionier Filini, la signorina Silvani…) restano costretti in volontari cliché di loro stessi: i loro eterni costumi, curati da Anna Verde (dal vestito rosso della Silvani al doppiopetto gessato di Filini), rappresentano il vivido esempio di questa irrisolvibile cristallizzazione. Risultano coralmente obbligati, cioè, in un’infinita citazione, dal carattere volutamente «parodistico», di espressioni o di comportamenti scenici; una reiterazione di celebri elementi (provenienti anche dai film) non soltanto linguistici, ma anche, e soprattutto, gestuali. Ottimi, dunque, tutti gli altri attori: Paolo Cresta, Cristiano Dessì, Lorenzo Fontana, Rossana Gay, Marcello Gravina, Simonetta Guarino, Ludovica Iannetti, Valentina Virando. In definitiva, una gemma teatrale accolta entusiasticamente dal pubblico napoletano. Foto Nicolò Rocco Creazzo

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: prima domenica dopo l’Epifania

Dom, 12/01/2025 - 09:09

Eseguita per la prima volta a Lipsia il 13 gennaio 1723, Liebster Jesu, mein Verlangen BWV 32 è la terza cantata destinata alla prima Domenica dopo l’Epifania. Il testo, ad eccezione del Corale conclusivo, è opera di Georg Christian Lehms (1684-1717) ed è concepita in forma di dialogo, che già conosciamo, tra l’Anima (soprano) e Cristo (basso). La pagina d’apertura  (Nr.1) è una splendida aria con “da capo” per soprano con oboe concertante su un tessuto armonico degli archi. Un vero e proprio “adagio” da concerto, un arabesco melodico di grande intensità espressiva interamente posto al servizio  di un testo che celebra poeticamente l’amore dell’Anima nella sua affannosa ricerca del Cristo, il quale replica nel recitativo (nr.2) con le parole tratte dall’episodio  che lo aveva visto protagonista dodicenne discutere con i Dottori nel Tempio: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Luca cap.2 vers.49). Segue un’aria  con “da capo” (nr.3)con il violino solista, virtuosisticamente impegnato, nella quale Gesù  ribadisce il concetto che la sua Dimora è la stessa del Padre. Vengono quindi due episodi in dialogo. Il recitativo (Nr.4) reca al suo interno una citazione dal Salmo 84 (vers.2-3 ): “Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti; l’anima mia languisce e brama gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia anima esultano nel Dio vivente.” che la voce dell’Anima rende con uno stile “arioso” di grande respiro melodico. Nell’aria/duetto (Nr.5) l’oboe e il violino concertanti affrontano ancora una volta un impegnativo ruolo virtuosistico.
Nr.1 – Aria (Soprano)
Anima:
Amato Gesù, mio desiderio,
dimmi, dove posso trovarti?
Ti perderò così presto
senza più sentirti al mio fianco?
Ah! Mio rifugio, rallegrami,
lasciati abbracciare con estrema gioia
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Gesù:
Perché mi cercavate? Non sapevate che io
devo occuparmi delle cose del Padre mio? 
Nr.3 – Aria (Basso)
Qua, nella casa di mio Padre,
incontrerò l’anima afflitta.
Qua potrai certamente trovarmi
ed unire il tuo cuore al mio,
perchè questa è la mia dimora.
Nr.4 – Recitativo (Soprano, Basso)
Anima:
O Dio santo e potente,
allora
presso di te
cercherò aiuto e consolazione.
Gesù:
Se rinunci alle frivolezze mondane
ed entri nella mia dimora,
potrai vivere sia laggiù che quassù.
Anima:
Quanto sono amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti;
l’anima mia languisce
e brama gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia anima
esultano nel Dio vivente: 
o Gesù, il mio cuore amerà solo te per sempre.
Gesù:
Allora puoi essere felice,
quando il cuore e lo spirito
sono infiammati d’amore per me.
Anima:
Ah! Questa parola, che ora già
strappa il mio cuore dalle terre di Babele,
la custodisco con devozione nell’anima mia.
Nr.5 – Aria/Duetto (Soprano, Basso)
Anima, Gesù:
Ora spariscono tutti i tormenti,
ora spariscono pianti e dolori.
Anima:
Ora non ti lascerò più
Gesù:
e sarai stretto a me per sempre
Anima:
Ora il mio cuore è appagato
Gesù:
e può dire pieno di gioia
Anima, Gesù:
ora spariscono tutti i tormenti,
ora spariscono pianti e dolori!
Nr.6 – Corale
Mio Dio, aprimi le porte
di tale grazia e bontà,
in ogni tempo ed in ogni luogo
fammi gustare la tua dolcezza!
Amami e guidami,
affinché io possa al mio meglio
abbracciarti ed amarti
e non essere mai più afflitto.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Liebster Jesu, mein Verlangen” BWV 32

 

Categorie: Musica corale

Bruno Monteiro & João Paulo Santos: The Franco-Belgian Album: Music for Violin & Piano

Sab, 11/01/2025 - 10:35

Henri Vieuxtemps [1820-1881]: Grande Sonata for Piano and Violin in D Major Op.12; César Franck [1822-1890]: Andantino quietoso op. 6, Mélancolie; Gabriel Fauré [1845-1924]: Berceuse Op.16; Camille Saint-Saëns [1835-1921]: Élégie Op. 143; Camille Saint-Saëns/ Eugène Ysaÿe [1858-1931]:Caprice d’après l’Etude en forme de Valse Op.52. Bruno Monteiro (violino). João Paulo Santos (pianoforte). Registrazione: 7 e 8 luglio 2024 presso l’Auditório Caixa Geral de Depósitos, ISEG Lisbon, Portugal. T. Time: 76′ 51″. 1 CD ET’CETERA RECORDS KTC 1791
The Franco-Belgian Album costituisce la nuova interessante proposta discografica del violinista portoghese Bruno Monteiro, sempre attento non solo alla riproposizione di quella parte del repertorio violinistico più conosciuta, ma anche a quella meno ascoltata nelle sale da concerto. Un esempio ne è proprio questo album che raccoglie alcuni lavori di compositori francesi e belgi e nel quale, accanto ai più noti Caprice d’après l’Etude en forme de Valse Op.52 di Camille Saint-Saëns e alla Berceuse Op.16 di Gabriel Fauré, trovano spazio composizioni quasi del tutto sconosciute come la Grande sonata per violino e pianoforte in re maggiore op. 12 che, composta nel 1843 da un poco più che ventenne Henri Vieuxtemps, è una pagina di grande respiro con i suoi quattro movimenti, nei quali si sente l’influenza del Concerto per violino e orchestra di Beethoven che il compositore belga, in qualità di solista, aveva sottratto, proprio in quel periodo all’oblio nel quale era caduto. Non sono certo più noti l’Andantino quietoso (1843), una pagina di tenero e dolce lirismo e Mélancolie, pubblicata postuma dopo la morte di Franck nel 1911. Tutti i brani sono molto bene eseguiti da Bruno Monteiro, che, anche in quest’occasione sfoggia la sua cavata particolarmente espressiva nei brani lenti, come la dolcissima e suggestiva Mélancolie, e le sue straordinarie doti tecniche nei passi virtuosistici. Ad accompagnarlo al pianoforte è João Paulo Santos, che non soverchia mai il solista con il quale anzi si integra perfettamente nei momenti in cui due strumenti dialogano fra di loro.

Categorie: Musica corale

Bruno Monteiro & João Paulo Santos: The Franco-Belgian Album:, Music for Violin & Piano

Sab, 11/01/2025 - 07:49

Henri Vieuxtemps [1820-1881]: Grande Sonata for Piano and Violin in D Major Op.12; César Franck [1822-1890]: Andantino quietoso op. 6, Mélancolie; Gabriel Fauré [1845-1924]: Berceuse Op.16; Camille Saint-Saëns [1835-1921]: Élégie Op. 143; Camille Saint-Saëns/ Eugène Ysaÿe [1858-1931]:Caprice d’après l’Etude en forme de Valse Op.52. Bruno Monteiro (violino). João Paulo Santos (pianoforte). Registrazione: 7 e 8 luglio 2024 presso l’Auditório Caixa Geral de Depósitos, ISEG Lisbon, Portugal. T. Time: 76′ 51″. 1 CD ET’CETERA RECORDS KTC 1791
The Franco-Belgian Album costituisce la nuova interessante proposta discografica del violinista portoghese Bruno Monteiro, sempre attento non solo alla riproposizione di quella parte del repertorio violinistico più conosciuta, ma anche a quella meno ascoltata nelle sale da concerto. Un esempio ne è proprio questo album che raccoglie alcuni lavori di compositori francesi e belgi e nel quale, accanto ai più noti Caprice d’après l’Etude en forme de Valse Op.52 di Camille Saint-Saëns e alla Berceuse Op.16 di Gabriel Fauré, trovano spazio composizioni quasi del tutto sconosciute come la Grande sonata per violino e pianoforte in re maggiore op. 12 che, composta nel 1843 da un poco più che ventenne Henri Vieuxtemps, è una pagina di grande respiro con i suoi quattro movimenti, nei quali si sente l’influenza del Concerto per violino e orchestra di Beethoven che il compositore belga, in qualità di solista, aveva sottratto, proprio in quel periodo all’oblio nel quale era caduto. Non sono certo più noti l’Andantino quietoso (1843), una pagina di tenero e dolce lirismo e Mélancolie, pubblicata postuma dopo la morte di Franck nel 1911. Tutti i brani sono molto bene eseguiti da Bruno Monteiro, che, anche in quest’occasione sfoggia la sua cavata particolarmente espressiva nei brani lenti, come la dolcissima e suggestiva Mélancolie, e le sue straordinarie doti tecniche nei passi virtuosistici. Ad accompagnarlo al pianoforte è João Paulo Santos, che non soverchia mai il solista con il quale anzi si integra perfettamente nei momenti in cui due strumenti dialogano fra di loro.

Categorie: Musica corale

Roma, Spazio Diamante: “Intorno al vuoto”

Sab, 11/01/2025 - 00:28

Roma, Spazio Diamante
INTORNO AL VUOTO
di Benedetta Nicoletti
regia Giampiero Rappa
scene Laura Benzi
costumi Stefania Cempini
luci Paolo Vinattieri
musiche Massimo Cordovani
assistente alla regia Michela Nicolai
realizzato con il contributo di Regione Marche – Assessorato alla Cultura
patrocinio I.N.R.C.A. Istituto Nazionale Ricovero e Cura a carattere Scientifico
Premio Impronta d’Impresa Marche “le donne lasciano il segno” Camera di Commercio delle Marche
produzione Bottegateatro Marche – Tf Teatro Teatro Menotti
Roma, 10 gennaio 2024
Intorno al vuoto di Benedetta Nicoletti, con la regia intensa e delicata di Giampiero Rappa, è un’opera di grande profondità emotiva che affronta il tema dell’Alzheimer attraverso la lente di un dramma familiare, trasformando la narrazione in un filo sospeso tra memoria e oblio.
 La vicenda ruota attorno a Carol, docente universitaria di psicologia, che, colpita dalla malattia, perde progressivamente il contatto con la realtà e con la propria famiglia. Accanto a lei, la figlia Liz, aspirante attrice, e il marito Paul, noto ricercatore scientifico. Liz lotta per affermare la propria vocazione artistica, mentre Paul cerca di tenere la vita sotto controllo tra famiglia e lavoro. La malattia di Carol, tuttavia, scardina ogni certezza. La regia riesce a trasmettere con sensibilità il senso di smarrimento e frammentazione che accompagna l’Alzheimer. Le scelte scenografiche, con pannelli semitrasparenti che lasciano intravedere i personaggi in ombra, creano un effetto visivo suggestivo, evocando l’idea di una realtà sfocata, proprio come i ricordi che sfuggono.I costumi sono in linea con l’atmosfera dello spettacolo. Carol indossa un abito beige con camicia, mentre nella fase avanzata della malattia le pantofole sottolineano la vulnerabilità della condizione. Paul veste un completo grigio, rigido e formale, riflettendo il suo carattere razionale e controllato. Liz, con un semplice abito, appare versatile, adatta sia al ruolo di figlia che a quello di dottoressa. Le luci, cupe e minimal, si limitano ad accendersi e spegnersi senza effetti particolari, contribuendo a creare un senso di disorientamento e sospensione, luci della memoria sfocata. Interessante la gestione della dimensione spazio-temporale, che si frammenta e si ricompone in scena con grande delicatezza. Vediamo i personaggi seduti a cena a New York, mentre, in un altro momento, assistiamo a Carol che annota nella sua agenda la disposizione della casa, come il bagno verde al piano superiore, un luogo che non è presente realmente in scena. Eppure, grazie alla potenza della narrazione, ai suoni, alla forza evocativa della messinscena, il pubblico riesce a vedere quei luoghi con estrema chiarezza, tra memoria e immaginazione, realtà e percezione alterata. I suoni e la musica accompagnano infatti con molta discrezione, evitando enfasi eccessive, ma sottolineando con delicatezza i passaggi emotivi più intensi, in sintonia con l’approccio minimalista della regia. Il cast offre un’interpretazione di grande equilibrio emotivo. La figlia-dottoressa colpisce per sensibilità, trasmettendo la sua fragilità e il bisogno di essere compresa. Carol, in un ruolo complesso e delicato, è interpretata con una delicatezza che lascia trasparire un profondo lavoro di studio, come se l’attrice avesse realmente toccato con mano la malattia. La sua delicatezza straziante restituisce con autenticità la fragilità di chi si vede sfuggire pezzi di sé. Paul, il padre, con toni rigidi e razionali, cede nel finale, svelando tutta la sua sofferenza repressa. I tre personaggi, pur mantenendo un dialogo continuo, appaiono come entità profondamente separate. Dialogano, si ascoltano, ma restano quasi isolati, ciascuno intrappolato nella propria prospettiva e nel proprio dolore. Questa distanza emotiva e fisica amplifica i momenti di maggiore tensione, rendendoli ancora più intensi ed evidenti, come se solo nei picchi emotivi riuscissero davvero a sfiorarsi, prima di tornare a perdersi nel proprio vuoto personale. Il momento di massima intensità è raggiunto nella battuta conclusiva, quando Carol, ormai lontana dalla realtà, ricorda un momento semplice, ma importante per la coppia. E in quel “pioveva”, in quell’attimo che tutto si scioglie: Paul, finalmente, abbandona la razionalità per parlare con il cuore, nella speranza che il ricordo di quella notte di pioggia possa restituire loro un frammento di connessione, anche solo per un istante. Intorno al vuoto è un’opera che esplora con profondità il dolore di chi vive l’Alzheimer e di chi assiste impotente alla perdita di una persona amata. È un racconto universale sull’importanza dei legami, della memoria e della comprensione reciproca. La capacità di rendere “visibile l’invisibile” fa di questo spettacolo un’esperienza teatrale stimolante.  Al termine della rappresentazione, il pubblico è rimasto per alcuni istanti in un silenzio colmo di emozione, quasi sospeso, prima di sciogliersi in un lungo e commosso applauso, segno di quanto lo spettacolo fosse riuscito a toccare corde profonde e universali.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “La strana coppia”

Ven, 10/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
LA STRANA COPPIA
di Neil Simon
con Gianluca Guidi, Giampiero Ingrassia, Giuseppe Cantore, Riccardo Graziosi, Rosario Petix, Simone Repetto, Claudia Tosoni, Shaen Barletta
scene e costumi Carlo de Marino
musiche Maurizio Abeni
luci Umile Vainieri
traduzione, adattamento e regia Gianluca Guidi
Roma, 10 gennaio 2025
“La Strana Coppia” di Neil Simon torna a incantare il pubblico italiano con una messa in scena che riesce a essere fedele al testo originale e, al contempo, vivida e attuale. In scena al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma, Gianluca Guidi e Giampiero Ingrassia offrono un’interpretazione memorabile nei ruoli di Oscar Madison e Felix Unger, due caratteri opposti che incarnano una complessità umana mai scontata. La regia di Guidi, che bilancia leggerezza e profondità, esalta le dinamiche della commedia senza mai perdere il ritmo. L’allestimento scenografico, firmato da Carlo De Marino, trasporta immediatamente lo spettatore nella Manhattan degli anni Sessanta. L’appartamento di Oscar, un disordine fatto di libri, giornali, stoviglie e un generale senso di abbandono, diventa il palcoscenico perfetto per la contrapposizione tra i due protagonisti. La vista sulla baia di Manhattan, evocata con sapiente uso delle prospettive, amplifica l’atmosfera metropolitana e conferisce alla scena un respiro più ampio, quasi cinematografico. I dettagli, come la disposizione degli oggetti di scena e i contrasti cromatici, raccontano già da soli il caos interiore di Oscar, anticipando lo scontro con la precisione maniacale di Felix. La storia prende avvio durante una serata di poker tra amici, un microcosmo maschile fatto di battute taglienti e una leggera ironia che maschera le insicurezze personali. L’arrivo di Felix, abbandonato dalla moglie e completamente perso, introduce una tensione che presto sfocia in una dinamica di convivenza tragicomica. Oscar, pragmatico e apparentemente disinteressato, offre ospitalità al nuovo inquilino, ma la convivenza si trasforma rapidamente in una battaglia tra ordine e caos, tra controllo e spontaneità. L’interpretazione dei protagonisti è il cuore pulsante dello spettacolo. Gianluca Guidi costruisce un Oscar disincantato, cinico quanto basta, ma mai completamente impermeabile alle emozioni. Giampiero Ingrassia dà vita a un Felix meticoloso, quasi ossessivo, ma con un lato vulnerabile che emerge nei momenti più intimi. La loro interazione è una danza calibrata di battute, sguardi e silenzi che raccontano più di quanto le parole lascino intendere. La chimica tra i due attori è evidente, e il pubblico percepisce ogni sfumatura del loro rapporto, fatto di scontri ma anche di una strana, inossidabile complicità. Il cast di supporto si integra con efficacia, arricchendo la narrazione con personaggi secondari che non sono mai mere comparse. Giuseppe Cantore, Riccardo Graziosi, Rosario Petix e Simone Repetto, nel ruolo degli amici di poker, aggiungono spessore alla scena iniziale, rendendola credibile e vivace. Claudia Tosoni e Federica De Benedittis, nei panni delle sorelle Gwendolyn e Cecily, portano leggerezza e un tocco di imprevedibilità, rompendo la monotonia della routine casalinga di Oscar e Felix. La regia di Guidi si distingue per l’eleganza e l’equilibrio. I tempi comici sono serrati, le pause studiate con precisione e ogni scena fluisce naturalmente verso la successiva. La gestione delle luci contribuisce a scandire i momenti di maggiore intensità emotiva, alternando toni caldi e accoglienti nelle scene corali a sfumature più fredde e cupe nei momenti di riflessione o di scontro tra i protagonisti. Questa attenzione ai dettagli consente allo spettacolo di mantenere un ritmo incalzante, ma mai frenetico, e di guidare lo spettatore attraverso un percorso narrativo coerente e coinvolgente. Il testo di Neil Simon, a distanza di quasi sessant’anni dal suo debutto, mantiene intatta la sua capacità di parlare a un pubblico eterogeneo. L’amicizia, tema centrale della commedia, viene esplorata con una profondità che va oltre la superficie delle battute e delle gag. Oscar e Felix, con le loro manie e le loro fragilità, rappresentano due modi di affrontare la vita, apparentemente inconciliabili ma, in fondo, complementari. Il loro legame, messo costantemente alla prova, diventa il simbolo di una connessione umana che resiste alle difficoltà e alle differenze. Il pubblico risponde con entusiasmo a ogni momento dello spettacolo. Le risate si alternano ai silenzi carichi di emozione, e l’applauso finale è un tributo non solo agli attori, ma anche alla regia e alla messa in scena che hanno saputo onorare il testo originale senza renderlo un semplice esercizio di nostalgia. Questa versione de “La Strana Coppia”, in scena al Teatro Quirino Vittorio Gassman, è un omaggio al genio di Neil Simon e alla forza di una storia che continua a risuonare con sorprendente attualità. Uno spettacolo che intrattiene, commuove e fa riflettere, ricordandoci che, in fondo, l’amicizia è una strana ma preziosa alchimia.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Anelante”

Ven, 10/01/2025 - 08:00

Roma, Teatro Vascello
ANELANTE
di Flavia Mastrella Antonio Rezza con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia
(mai) scritto da Antonio Rezza habitat di Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli Luci Mattia Vigo/ Luci e tecnica Daria Grispino
macchinista Andrea Zanarini organizzazione Tamara Viola Stefania Saltarelli
una produzione RezzaMastrella
La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello
Antonio Rezza e Flavia Mastrella Leoni d’oro alla carriera
La Biennale di Venezia 2018
In uno spazio privo di volume, il muro piatto chiude alla vista la carne rituale che esplode e si ribella. Non c’è dialogo per chi si parla sotto. Un matematico scrive a voce alta, un lettore parla mentre legge e non capisce ciò che legge ma solo ciò che dice. Con la saggezza senile l’adolescente, completamente in contrasto col buon senso, sguazza nel recinto circondato dalle cospirazioni. Spia, senza essere visto, personaggi che in piena vita si lasciano trasportare dagli eventi, perdizione e delirio lungo il muro. Il silenzio della morte contro l’oratoria patologica, un contrasto tra rumori, graffi e parole risonanti. Il suono stravolge il rimasuglio di un concetto e lo depaupera. Spazio alla logorrea, dissenteria della bocca in avaria, scarico intestinale dalla parte meno congeniale. Ci si piega troppo spesso con l’assurdo dietro, e si fanno i conti dei traumi passati. Così l’essere inferiore cerca conforto nell’impegno civile. E con la morte altrui ritorna l’amor proprio. Tra balli, feste orientali, lutti premeditati ci si libera della solidarietà, pratica aziendale che genera profitto. Anche la cultura con gli occhiali piega il culo. Chi legge un libro è costretto a stare zitto da chi scrive, chi legge compra il suo silenzio, chi compra un libro fomenta e capovolge l’omertà. Ma con la mamma biologica la partita è persa: pelle della sua pelle ma fine della tua. Addio terza dimensione. Esplode il luogo comune, i viventi non si accorgono di essere prigionieri di un monitor, vecchi e giovani, spossati dal desiderio di emergere, ritrovano nel reinventarsi la spietatezza dell’infanzia e la malvagità dell’adulto. L’ Anelante vive confinato tra le muraglie, chiuso nel recinto, senza sporgersi, pretende di conoscere il mondo, lo fa per non accorgersi della vuotezza che gli riempie la vita. Disposto a tutto, per sostenere la gerarchia di sempre usa i sistemi virtuali di cui si è impadronito. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Sala Umberto: “Il Professionista”

Gio, 09/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Sala Umberto
IL PROFESSIONISTA 
scritto e diretto da Tommaso Agnese
con Edoardo Purgatori, Claudia Vismara, Luigi Di Fiore
e con Paolo Perinelli, Gabriel Zama, Paolo Maras, Antonino Iuorio
con musiche originali di Stefan Larsen
produzione bpresent e gravity creations
Roma, 09 gennaio 2025
Al Teatro Sala Umberto si consuma una parabola di lucida disperazione e cinismo con Il Professionista – Nella mente di un sicario, una dark-comedy che sembra camminare su un filo sottile tra l’assurdo e il tragico, spingendoci a considerare ciò che rimane di un uomo quando tutto il resto è crollato. Tommaso Agnese, regista e autore, confeziona un’opera che scava con precisione chirurgica nell’animo umano, offrendoci un ritratto che non chiede empatia ma pretende attenzione. Aron, il protagonista, è un sicario professionista che vive in un limbo fatto di caos e routine. L’appartamento in cui abita – freddo, disadorno, e con una geometria che sembra opprimere più che contenere – riflette il vuoto interiore di un uomo che da troppo tempo è abituato a spegnere vite come si spengono luci. Luigi Di Fiore interpreta Aron con una fisicità tesa e calcolata, come un predatore in attesa, ma con lo sguardo di qualcuno che ha visto troppo per credere ancora in qualcosa. È un uomo che misura il mondo con una rassegnazione precisa, la stessa che porta con sé la certezza che non ci sarà mai redenzione. Eppure, c’è un interludio. Juliet, giovane cantante e figura che sembra quasi caduta da un altro universo, irrompe nella vita di Aron e con lei un barlume di possibilità. Claudia Vismara interpreta Juliet con un fascino distante e luminoso, come se il suo personaggio fosse consapevole di essere un’apparizione fugace. La loro relazione, costruita con dialoghi che sembrano appena accennati e tuttavia pieni di peso, non è una storia d’amore, ma piuttosto un confronto tra due mondi che non riescono a toccarsi davvero. Juliet diventa la prova vivente che Aron desidera qualcosa di più, ma anche la conferma che questo qualcosa è irrimediabilmente fuori dalla sua portata. Il vero genio di Agnese, tuttavia, sta nell’inserire una figura che trasforma la narrazione in un balletto psichico: l’alter ego di Aron. Portato in scena con inquietante efficacia da Edoardo Purgatori , questo doppio non è solo un personaggio, ma una forza, un’idea, un giudice invisibile che scandisce ogni passo del protagonista. Le loro interazioni non sono semplici dialoghi, ma duelli verbali in cui ogni battuta taglia più di quanto sembri, e ogni silenzio pesa come un macigno. Rossetti riesce a rendere palpabile l’incubo di Aron, a farci percepire la sua lotta con se stesso senza mai scivolare nel patetico. E poi, inevitabilmente, la caduta. Juliet scompare, lasciando solo una lettera d’addio che non offre spiegazioni ma infligge ferite. Aron si rifugia nel cinismo, abbracciando di nuovo il suo ruolo di sicario con un fervore che sa di disperazione. La narrazione accelera, diventando un labirinto di tensioni che culmina in un incontro fatale: Juliet riappare, ma non come salvatrice. La loro seconda interazione, tesa e carica di sottotesti, diventa il punto di non ritorno per Aron, un uomo ormai perso, intrappolato in una spirale di autodistruzione che non lascia spazio a redenzione né pietà. Le scenografie e le luci sono essenziali, quasi minimaliste, ma curate con una precisione che racconta tanto quanto i personaggi. L’appartamento di Aron, con le sue linee dure e i suoi spazi soffocanti, diventa un’estensione della sua mente, un luogo dove non c’è spazio per il superfluo o per il conforto. Le luci, fredde e spietate nei momenti di solitudine, si fanno più calde solo per tradire un’intimità che non dura mai abbastanza. Agnese usa ogni elemento scenico per amplificare il senso di oppressione e di inevitabilità che domina lo spettacolo. Il resto del cast – Paolo Perinelli, Gabriel Zama, Antonino Iuorio e Paolo Maras – arricchisce il quadro con personaggi che, pur rimanendo sullo sfondo, offrono profondità e credibilità al mondo narrativo. Nessuno è superfluo, e ogni interpretazione sembra aggiungere un tassello alla complessità del protagonista, che emerge ancora più chiaramente attraverso i riflessi che lo circondano. Le musiche di Stefan Larsen amplificano la ricchezza espressiva della scrittura di Tommaso Agnese, spaziando da temi noir per clarinetto a brani retro disco con sintetizzatori vintage, duetti piano-voce evocativi della musica popolare anni ’30, fino a pad sonori dal design moderno. Un’esperienza teatrale che abbraccia il tempo e i generi, creando un immaginario unico e stratificato. Il Professionista – Nella mente di un sicario non è un’opera che consola o rassicura. È, invece, un’esplorazione spietata dell’animo umano, un’indagine su ciò che accade quando il desiderio di redenzione si scontra con l’impossibilità di cambiare. Aron non è un personaggio da amare o odiare; è un uomo da osservare, da studiare, da comprendere, forse, solo nei suoi momenti di disperazione. Tommaso Agnese riesce nell’impresa di trasformare un soggetto potenzialmente stereotipato in una narrazione stratificata e universale. E quando le luci si spengono e il pubblico lascia la sala, ciò che rimane non è solo la memoria di un’interpretazione impeccabile o di una regia magistrale. Rimane il peso delle domande che lo spettacolo ci ha costretto a porci, domande che non hanno risposte semplici e che forse non ne avranno mai. In questo risiede la forza di Il Professionista – Nella mente di un sicario: non è solo un viaggio nella mente di Aron, ma anche nella nostra, con tutto ciò che di oscuro e insondabile vi si nasconde.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Parenti terribili” dal 14 al 19 gennaio 2025

Gio, 09/01/2025 - 16:24

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
I PARENTI TERRIBILI
di Jean Cocteau
traduzione Monica Capuani
con Filippo Dini, Milvia MariglianoMariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli
regia Filippo Dini
scene Maria Spazzi
costumi Katrina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Massimo Cordovani
Teatro Stabile del Veneto Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli Teatro Bellini, Teatro Stabile Bolzano
Considerata la più perfetta opera teatrale di Jean Cocteau, I parenti terribili rappresenta uno spaccato crudele della società, un atto storico con cui l’autore rompe, almeno formalmente, col teatro di raffinata e astratta acrobazia intellettuale, che sino allora aveva avuto in lui uno dei più fertili campioni, per accostarsi ad un tipo di teatro molto più tradizionale, costruito secondo regole collaudate e codificate care al teatro borghese. Scrivendola, Cocteau ha voluto sfidare quel pubblico di élite per il quale aveva sempre lavorato, e stabilire un contatto con le grandi platee mediante un linguaggio meno esoterico. Il tentativo si è rivelato felice, giacché I parenti terribili hanno costituito uno dei più grossi successi ottenuti da Cocteau come autore drammatico. Il testo racconta la storia di una famiglia davvero terribile, che vive reclusa in sé stessa, avulsa da qualsiasi stimolo esterno. Michel è un giovane uomo viziato e amato morbosamente dalla madre Yvonne. Quando annuncia ai suoi genitori di amare Madeleine, la disperazione divora la donna, che teme di perdere il figlio, mentre oscuri segreti sulla famiglia vengono a galla. Con questo testo, da lui diretto e interpretato, Filippo Dini prosegue l’indagine nell’inferno familiare che ha avuto in Casa di bambola, e più di recente in agosto a Osage County, due esempi mirabili, definendo una cifra stilistica che pone al centro il lavoro dell’attore e reinterpreta in modo inedito l’idea di un nuovo capocomicato. La vicenda è nota. Yvonne è una donna non più giovane che ha negato l’amore al marito e l’ha concentrato sul suo unico figlio Michel, al quale è morbosamente attaccata mediante un cordone ombelicale rinforzato infrangibile. Prima complicazione: questa madre ha una sorella, la zia Leonie, che era stata fidanzata ed è tuttora innamorata di Georges, il padre di Michel, ma lo ha ceduto alla sorella Yvonne, e ora vive in famiglia condizionando sottilmente le vite degli altri tre. Seconda complicazione: il figlio ha una giovane amante, Madeleine; la ragazza è però anche la mantenuta di un cinquantenne che per prudenza le si è presentato sotto falso nome, e con il danaro di costui supporta in modo sostanziale le finanze di Michel. Terza complicazione: questo cinquantenne, a insaputa di tutti, è proprio Georges. Ultima complicazione: dea ex machina, e motrice più o meno occulta di tutte le azioni dei suoi congiunti, nonché della giovane Madeleine, risulta la temibile Leonie. Ne emerge il ritratto di una famiglia disfunzionale, che Cocteau orchestra come una travolgente sinfonia umana. Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Amleto²”

Gio, 09/01/2025 - 12:40

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
AMLETO²
uno spettacolo di e con Filippo Timi
e con Lucia Mascino, Marina Rocco, Elena Lietti, e Gabriele Brunelli
Produzione Teatro Franco Parenti – Fondazione Teatro della Toscana
Roma, 07 gennaio 2025
L’Amleto² di Filippo Timi non è solo uno spettacolo teatrale, ma una dichiarazione d’intenti, un atto di ribellione che si sottrae alle convenzioni del palcoscenico tradizionale per esplorare nuove dimensioni espressive. Non c’è un “Amleto” nel senso tradizionale del termine, ma un caleidoscopio di frammenti: la tragedia shakespeariana è smembrata, riassemblata e contaminata da riferimenti pop, grotteschi e kitsch. Timi, con la sua ironia corrosiva e la sua presenza scenica magnetica, non si limita a interpretare il principe danese, ma ne fa un trampolino per mettere in scena sé stesso, i suoi pensieri, le sue ossessioni e la sua visione del teatro. Il sipario si apre su una pista circense, un’immagine che definisce immediatamente il tono dello spettacolo. Al centro, un trono barocco dai panneggi rosso oro, circondato da palloncini neri legati a nastri di sicurezza, simbolo di un mondo in bilico tra il gioco infantile e la tragedia incombente. La scena è volutamente eccessiva, sovraccarica, un circo decadente che riflette il caos del nostro tempo. Non c’è nulla di sobrio o contenuto in questo Amleto: è un’opera che esplode di energia, di colori, di suoni, di contrasti, e che si nutre della sua stessa iperbole. Il testo di Shakespeare diventa una traccia, un fantasma che si aggira sullo sfondo. L’autore/ regista/ attore destruttura la trama, la spezza e la riassembla, giocando con le sue convenzioni per trasformarla in qualcosa di nuovo. Il linguaggio stesso dello spettacolo è contaminato: citazioni da Carmelo Bene e dal cinema si mescolano a riferimenti pop, da Marilyn Monroe a Lorella Cuccarini, mentre la colonna sonora alterna brani di musica classica a canzonette leggere degli anni Ottanta. Ogni elemento scenico contribuisce a creare un’esperienza che è, al tempo stesso, un omaggio al teatro e una sua parodia dissacrante. Accanto a Timi, un cast straordinario dà vita a personaggi che oscillano tra il mito e la caricatura. Marina Rocco, nei panni di una Marilyn Monroe edipica, è il fantasma del padre di Amleto, una figura che incarna l’ironia tragica e dissacrante dello spettacolo. La sua presenza è un costante cortocircuito tra il dramma e il grottesco, tra la seduzione iconica e la sua decostruzione. Elena Lietti, invece, interpreta un’Ofelia preraffaelita, fragile e poetica, che si perde nei tormentoni di un copione volutamente smontato e ricostruito. Ma è Lucia Mascino a dominare la scena con una Gertrude travolgente, sboccata, ironica e profondamente umana. Con una cofana di capelli ricci e guanti rossi scintillanti, Mascino si muove tra monologhi brillanti e momenti di sensualità grottesca, incarnando il cuore pulsante dello spettacolo. La sua Gertrude non è solo una regina, ma una forza della natura, un personaggio che riesce a essere, al tempo stesso, comico e tragico, profondo e sopra le righe. Timi, al centro di tutto, è il fulcro dello spettacolo, ma non nel senso tradizionale del termine. Non interpreta Amleto nel modo in cui ci si potrebbe aspettare: lo abita, lo trasforma in un’estensione del suo io. Il suo Amleto è un clown malinconico, un dio Pan che gioca con la morte e con la vita, un burattino infantile intrappolato tra la tragedia del suo destino e il gioco del suo essere. È un personaggio ambiguo, in bilico tra maschile e femminile, tra il sublime e il ridicolo, che si muove sulla scena con una leggerezza che nasconde una profondità inaspettata. La musica gioca un ruolo fondamentale nello spettacolo, riflettendo la sua natura schizofrenica. I brani si alternano senza soluzione di continuità: canzoni pop degli anni Ottanta lasciano il posto a brani di musica classica, creando un ritmo spezzato che amplifica il senso di disorientamento. La colonna sonora, come tutto il resto, è un elemento che si rifiuta di aderire a un unico registro, passando dal popolare al sublime con una leggerezza che tradisce una profonda consapevolezza artistica. Ma l’Amleto² non è solo un’esplosione di energia e creatività. È anche una riflessione sul teatro stesso, sul suo ruolo, sui suoi limiti e sulle sue possibilità. Timi usa il classico shakespeariano come uno specchio deformante, riflettendo non solo i temi dell’opera originale, ma anche le ossessioni, le paure e le contraddizioni del nostro tempo. La sua follia non è solo scenica, ma filosofica: come ogni grande folle, Timi si muove oltre i limiti della realtà, penetrandola per rivelarne il marcio. Questa libertà si estende anche al rapporto con il pubblico. Timi non interpreta, ma dialoga, provoca, seduce. La quarta parete non viene solo infranta, ma dissolta, in un gioco che mescola metateatro e performance, portando alla luce il processo stesso della creazione scenica. Gli attori non sono solo personaggi, ma anche sé stessi, esposti nella loro umanità e nella loro fragilità. E poi c’è l’ironia, che attraversa ogni momento dello spettacolo. Timi gioca con le convenzioni teatrali, con le aspettative del pubblico, con la tradizione stessa di Amleto. La tragedia si fa gioco, il dramma si fa parodia, e in questo gioco emerge una verità che è più profonda di qualsiasi interpretazione canonica. Non è uno spettacolo per tutti, e non vuole esserlo. È un’esperienza che sfida lo spettatore, che lo costringe a confrontarsi con il senso stesso del teatro e della rappresentazione. L’Amleto² di Filippo Timi è una festa teatrale, un’esplosione di vita e follia che, dietro la maschera del grottesco, riesce a far riflettere sul senso dell’esistenza. Un’opera sperimentale, coraggiosa, unica nel suo genere, che conferma Timi come uno dei più innovativi e visionari interpreti del teatro contemporaneo. La risata, in fondo, è solo l’inizio. Quando il silenzio arriva, dopo un’ora e mezza di spettacolo, lascia nello spettatore un senso di vertigine, una consapevolezza nuova, un desiderio di continuare a giocare. E forse, in questo gioco, c’è tutto il teatro, e tutta la vita.

 

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Roma, Spazio Diamante: “Intorno al vuoto” dal 09 al 12 gennaio 2025

Gio, 09/01/2025 - 11:39

Roma, Spazio Diamante
INTORNO AL VUOTO
di Benedetta Nicoletti
scene Laura Benzi
costumi Stefania Cempini
luci Paolo Vinattieri
musiche Massimo Cordovani
assistente alla regia Michela Nicolai
realizzato con il contributo di Regione Marche – Assessorato alla Cultura
patrocinio I.N.R.C.A. Istituto Nazionale Ricovero e Cura a carattere Scientifico
Premio Impronta d’Impresa Marche “le donne lasciano il segno” Camera di Commercio delle Marche
produzione Bottegateatro Marche – Tf Teatro Teatro Menotti
“Intorno al vuoto” è innanzitutto una storia familiare: Carol, cinquantenne, titolare di una importante cattedra universitaria di psicologia, cerca di imporre le scelte lavorative alla figlia Liz, appoggiata invece dal padre Paul, anche lui noto ricercatore, dal carattere apparentemente tranquillo, razionale e inflessibile. E’ proprio l’ostinazione ad accomunare i tre personaggi: Liz vuole fare l’attrice e lotta per il suo obiettivo che la madre non riesce e non vuole comprendere. Paul invece pensa sempre al suo lavoro e non può accettare variabili che ostacolino la sua carriera. Carol cambia idea solo quando si ammala: guardando Liz recitare, la madre comprende finalmente il senso del lavoro di sua figlia. Le parole recitate da Liz toccano il suo cuore, le suscitano emozioni e fanno riaffiorare ricordi… già, i ricordi che ormai sono sempre più sfocati e lontani. Qui per tutte le informazioni.

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Gioacchino Rossini (1792 – 1868): “Armida” (1817)

Gio, 09/01/2025 - 10:48

Dramma per musica in tre atti su libretto di Giovanni Schmidt. Moisés Marín (Goffredo), Michele Angelini (Rinaldo), Jusung Gabriel Park (Idraote), Ruth Iniesta (Armida), Patrick Kabongo (Gernando), Manuel Amati (Eustazio), César Arrieta (Ubaldo), Chuan Wang (Carlo), Shi Zong (Astarotte). Kraków Philharmonic Chorus, Marcin Wróbel (Maestro del Coro), Kraków Philharmonic OrchestraJosé Miguel Pérez-Sierra (direttore), Registrazione: Trinkhalle, Bad Wildbad, 15-20 luglio 2022. 2 Cd Naxos 8.660554-55
Il festival di Bad Wilbad è un’istituzione ammirevole per molti punti di vista che con possibilità economiche invero modeste riesce a presentare un buon cartellone e a volte a ottenere risultati apprezzabili. Il repertorio rossiniano – scelto come filo conduttore del festival fin dalla sua nascita – è particolarmente impegnativo e le incognite sono notevoli. A volte – come nel caso di “Ermione” – si riesce a ottenere un risultato complessivo migliore di quanto le singole parti possano far sperare ma in altri casi non si riesce ad ottenere la ciambella con il giusto buco.
E’ purtroppo il caso di “Armida” allestita per l’edizione 2022 del festival e risultante non pienamente soddisfacente nonostante l’innegabile impegno. “Armida” è uno dei titoli più complessi e sfuggenti dell’intero catalogo rossiniano tanto che è ancora difficile identificare un’edizione di assoluto riferimento e la “Maga” ha creato non pochi problemi anche a istituzioni più blasonate del festival tedesco.
A Bad Wilbad l’insieme mantiene una sua coerenza grazie all’attenta direzione di José Miguel Perez Sierra, direttore dai lunghi trascorsi rossiniani che riesce a dare della partitura una lettura solida e puntuale, riuscita sul piano delle dinamiche e del gioco dei contrasti con una prevalenza per timbri brillanti e colori sostenuti che si apprezzano nei lunghi balletti che rappresentano uno dei tratti più originali di quest’opera in cui Rossini anticipa – ancora nel pieno della stagione napoletana – moduli che saranno fatti propri dal grand’opéra parigino che si codificherà nei decenni seguenti. I complessi della Kraków Philharmonic si mostrano una formazione di solido professionismo ma che si scontra con l’originalità dello strumentale rossiniano. Cercheremmo qui invano quegli elementi esotici – dai sistri alla banda turchesca – usati da Rossini per dare alla sua musica un sapore medio-orientale e qui banalmente sostituiti da ordinari strumenti da orchestra.
Il mito di “Armida” è strettamente legato alla proliferazione delle parti tenorili, per altro in parte assommabili su un numero minore d’interpreti in quanto alcune parti non cantano mai in contemporanea ma è soprattutto la protagonista femminile a rappresentare un cimento da far tremare i polsi. Scritta per una Isabella Colbran al culmine delle proprie possibilità la parte si Armida si distende su una tessitura assai ampia e richiede un perfetto controllo vocale in ogni tipologia di passaggi d’agilità; inoltre il carattere del personaggio fatto di scarti espressivi estremi richiede che la “virtuosa” sia anche interprete di provata personalità. Qui abbiamo Ruth Iniesta soprano lirico-leggero avvezzo ai lirismi di Amina e Gilda  che si trova catapultata in una parte che spesso batte su una tessiture per lei disagevole  e che la costringono a giocare sempre in difesa. Persino nei momenti più lirici e potrebbero essere più nelle sue corde, come la celebre “D’amor al dolce impero” si percepisce una prudenza che sfiora il timore e annacqua le polveri dei fuochi d’artificio vocali. Lo stesso accade, quasi ovvio,  nei “furori” della scena finale nonostante l’attenzione e l’impegno che la Iniesta mette per domare la parte. Ne apprezziamo la piacevolezza del Il timbro e il solido registro acuto, ma per Armida questo non basta.
I tenori nel complesso non cantano male ma purtroppo si ascolta uno scarso contrasto timbrico, così che il gioco di differenze di personalità drammatico-vocali  così attentamente ricercato da Rossini viene in gran parte a perdersi.
Michele Angelini che non ci era parso esaltante nel “Marin Faliero” bergamasco al Donizetti Festvial 2020, qui appare più centrato. Di Rinaldo coglie prevalentemente i tratti più lirici dove può far valere una voce piacevole, acuti facili e buon gusto nelle colorature. I duetti con Armida sono ben cesellati ma quando il canto si fa più drammatico e si vorrebbe maggior corpo vocale emergono i limiti interpretativi. Discorso per molti versi simili per Patrick Kabongo (Gernando). Voce piccola ma ottimo senso stilistico e canto pulito ed elegante convince appare convincente finché la tensione non sale ma purtroppo il duetto con Rinaldo così simile a quello dell’”Otello” appare alquanto sbiadito con due voci troppo simili fra loro e nessuna delle due in grado di dare al brano la giusta smaltatura.
Moisés Marín ci aveva sorpreso come Pirro, qui come Goffredo non canta male ma appare più generico e fin troppo calato nell’uniformità generale da cui per nulla si elevano – nonostante la correttezza di fondo – Manuel Amati (Eustazio), César Arrieta (Ubaldo) e Chuan Wang (Carlo). Discorso non dissimile per i due bassi Jusung Gabriel Park (Idraote) e Shi Zong (Astarotte) funzionali alla resa complessiva ma incapaci di imporre un sigillo più personale in due ruoli – bisogna riconoscerlo – abbastanza anonimi già di loro.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Argentina: “Tre modi per non morire”

Mer, 08/01/2025 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
TRE MODI PER NON MORIRE
Baudelaire, Dante, i Greci
di Giuseppe Montesano
con Toni Servillo
luci Claudio De Pace
Roma, 08 gennaio 2025
Toni Servillo, con il suo spettacolo “Tre modi per non morire”, incarna l’essenza di un’esperienza teatrale che trascende la mera rappresentazione scenica, configurandosi come un itinerario intellettuale e filosofico di straordinaria densità. Questo viaggio, che si propone di contrastare l’appiattimento del pensiero e la progressiva alienazione indotta dalla dipendenza tecnologica, è un monito vibrante e potente sulla necessità di riappropriarsi del pensiero critico e della bellezza poetica. Andato in scena al Teatro Argentina di Roma, il monologo, scritto dal raffinato Giuseppe Montesano, è una coproduzione che vanta la collaborazione di prestigiose istituzioni teatrali quali il Piccolo Teatro di Milano e la Fondazione Teatro di Napoli. Il palco, volutamente spoglio, ridotto all’essenziale con un microfono e un leggio, rappresenta un manifesto estetico: è la parola, densa e scolpita, che assume il ruolo di protagonista, sorretta dall’imponente carisma di Servillo. La scelta minimalista non è solo estetica ma anche simbolica, un invito a concentrarsi sull’essenza della narrazione, priva di distrazioni superflue. “La poesia e l’arte in che modo possono attaccarci alla vita e farci riflettere sulla loro potenza salvifica?”: questa domanda guida l’intero spettacolo. Toni Servillo e Giuseppe Montesano esplorano la risposta attraverso un percorso che si snoda tra Baudelaire, Dante e i Greci, accompagnando lo spettatore in un viaggio culturale e spirituale. Baudelaire, che in “Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte?” descrive la bellezza come medicina contro la depressione e l’ingiustizia, offre una visione lucida e poetica della resistenza dell’anima. La notte, metafora dell’oscurità interiore e sociale, termina solo quando si trova il coraggio di “levare l’ancora e partire verso l’ignoto”, un invito all’audacia del pensiero e dell’azione. Il secondo segmento è dedicato a Dante Alighieri, pilastro della cultura italiana e universale. Attraverso le sue “voci”, Servillo ci conduce negli abissi dell’Inferno, dove i personaggi della Divina Commedia prendono vita con una potenza evocativa straordinaria. Paolo e Francesca, trafitti dall’amore e condannati a un destino eterno, narrano di un libro, galeotto, che li unì in un bacio che fu la loro rovina. Ulisse, con il suo invito a “non vivere come bruti, ma a seguir virtute e canoscenza”, ammonisce l’umanità sull’importanza della conoscenza e del coraggio. Il finale, con l’emblematica uscita “a riveder le stelle”, è un gesto di speranza che illumina l’oscurità dell’esistenza. L’ultima tappa si immerge nel pensiero greco, celebrando il teatro e la filosofia come strumenti supremi di liberazione. «I Greci hanno inventato tutto», dichiara Servillo, enfatizzando la grandezza di una civiltà che ha saputo aspirare all’eternità attraverso l’arte e il pensiero. Il mito della caverna di Platone è l’ultimo scorcio nel quale l’attore ci tuffa, sollecitandoci a riflettere su quali siano oggi le catene che imprigionano le nostre menti. Come Platone invita lo schiavo libero a non tornare indietro, ma a dirigersi verso la luce, così Servillo esorta lo spettatore a non cedere alle ombre della modernità, rappresentate dalla superficialità e dalla distrazione tecnologica. L’arte, secondo i Greci, non era un passatempo, ma un nutrimento quotidiano dell’anima, capace di illuminare le zone più oscure dell’esistenza. Ciò che rende “Tre modi per non morire” un’esperienza unica è la straordinaria capacità di Toni Servillo di trasfigurare il testo in un evento vivo e pulsante. La sua voce, potente e modulata con maestria, diventa il veicolo di un’emozione autentica, capace di toccare corde profonde nell’animo dello spettatore. Ogni parola, pronunciata con un rigore quasi sacrale, si staglia come un’opera d’arte, creando un dialogo intimo e coinvolgente tra l’interprete e il pubblico. Servillo cesella la parola, la scolpisce, la manipola con un’abilità unica, alternando toni sussurrati e momenti di intensità drammatica senza mai scivolare nel virtuosismo fine a se stesso. Questa capacità di padroneggiare il linguaggio teatrale – diverso da quello cinematografico – è il segno distintivo di un grande artista, capace di distinguersi in entrambi gli ambiti senza confonderne i codici espressivi. Il minimalismo della scenografia amplifica l’intensità dell’esperienza teatrale. In assenza di distrazioni visive, l’attenzione si concentra sulla forza intrinseca del linguaggio e sulla presenza scenica di Servillo. La sua capacità di creare immagini attraverso le parole è un tributo al potere evocativo del teatro, che si conferma come uno spazio privilegiato di riflessione e condivisione. In un contesto storico caratterizzato dalla velocità e dalla superficialità, “Tre modi per non morire” si erge come un manifesto contro la disumanizzazione e l’omologazione. La poesia, la filosofia e il teatro, intrecciati in un dialogo serrato, si offrono come strumenti per riscoprire la profondità dell’esistenza e la bellezza dell’umanità. Lo spettacolo non si limita a intrattenere, ma invita a una riflessione profonda, stimolando un senso di responsabilità culturale e intellettuale. Il pubblico, trascinato in un viaggio che attraversa secoli di cultura, esce dal teatro con la consapevolezza di aver assistito a qualcosa di straordinario. Non si tratta solo di un evento artistico, ma di un atto di resistenza culturale, un richiamo potente a riappropriarsi del tempo per pensare, per ascoltare e per immaginare un futuro diverso. Servillo, con la sua arte, riesce a dimostrare che il teatro è ancora uno spazio necessario, capace di dare senso al caos della modernità. “Tre modi per non morire” non è solo uno spettacolo: è un invito a riscoprire la poesia come forma di vita, la filosofia come guida e il teatro come luogo di verità. In un mondo in cui la velocità e l’effimero sembrano prevalere, questa rappresentazione ci ricorda che la bellezza e il pensiero sono le armi più potenti contro la mediocrità e l’oblio.

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro San Carlo: “Don Carlo” dal 19 al 31 gennaio 2025

Mer, 08/01/2025 - 19:05

Napoli, Teatro San Carlo
DON CARLO
Il Teatro di San Carlo apre le porte a una delle opere più straordinarie del repertorio verdiano: Don Carlo, un capolavoro che intreccia la grande storia con la profondità dei sentimenti umani.
Composta da Giuseppe Verdi su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dal dramma Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller, quest’opera in cinque atti sarà presentata nella versione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini, arricchendo la stagione con una produzione di rara intensità artistica. Al centro della scena si erge Filippo II, interpretato dalla voce profonda e autorevole di John Relyea, contrapposto al figlio ribelle, Don Carlo, a cui dà voce il tenore Piero Pretti. Il loro complesso rapporto, fatto di conflitti personali e tensioni politiche, si snoda sullo sfondo della corte spagnola, dove Rodrigo, il marchese di Posa, incarnato dal baritono Gabriele Viviani, emerge come simbolo di lealtà e amicizia, ma anche di tragica idealità. Accanto a loro, Elisabetta di Valois, la regina divisa tra dovere e amore, è affidata al debutto al San Carlo di Rachel Willis-Sørensen, la cui interpretazione promette di catturare il cuore del pubblico. A complicare ulteriormente il già intricato intreccio, Varduhi Abrahamyan nel ruolo della principessa Eboli dà vita a un personaggio pieno di fascino e ambiguità. La tensione drammatica culmina con la presenza del Grande Inquisitore, affidata alla potenza vocale di Alexander Tsymbalyuk, e del Frate, interpretato da Giorgi Manoshvili, figure che incarnano la spietatezza del potere religioso e politico. La narrazione è arricchita dalla partecipazione di artisti di talento che completano il quadro della corte: Maria Knihnytska sarà Tebaldo, Ivan Lualdi darà voce al Conte di Lerma, e Désirée Giove interpreterà Una voce dal cielo, simbolo di speranza e redenzione. I deputati fiamminghi, portatori di un coro di sofferenza e resistenza, saranno rappresentati da Sebastià Serra, Yunho Kim, Maurizio Bove, Ignas Melnikas, Giovanni Impagliazzo e Antimo Dell’Omo. Questa sontuosa produzione vede alla guida musicale Henrik Nánási, che condurrà l’Orchestra e il Coro del Teatro di San Carlo, quest’ultimo preparato dal maestro del coro Fabrizio Cassi. La regia, affidata a Claus Guth, promette una lettura visivamente innovativa e drammaturgicamente coinvolgente, grazie anche alle scenografie di Etienne Pluss, ai costumi di Petra Reinhardt, alle luci curate da Olaf Freese e riprese da Virginio Levrio, e ai video di Roland Horvath, il tutto coordinato dalla drammaturgia di Yvonne Gebauer. Realizzata in coproduzione con il Latvijas Nacionālā Opera un Balets, questa nuova messa in scena di Don Carlo celebra il genio di Verdi, invitando il pubblico a immergersi in un’esperienza artistica senza tempo, dove musica e teatro si fondono in un racconto universale di passione, potere e sacrificio. Qui per tutte le informazioni.

 

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Roma, Teatro dell’Opera: “Tosca” dal 14 al 19 gennaio 2025

Mer, 08/01/2025 - 18:39

Roma, Teatro dell’Opera
TOSCA
Nel magnifico scrigno del Teatro Costanzi, luogo dove per la prima volta risuonò nel 1900 la passione tragica e intensa di Tosca, torna ad alzarsi il sipario sul capolavoro romano per eccellenza di Giacomo Puccini. La Stagione 2024/2025 del Teatro dell’Opera di Roma si apre il 14 gennaio alle ore 20 con un nuovo allestimento che ripercorre, con filologica raffinatezza, l’impianto scenico originario. Il dramma di Tosca, musicato su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica e tratto dall’omonima opera di Victorien Sardou, si dispiega in una Roma ottocentesca cupa e sensuale, dove l’amore, la politica e la morte intrecciano i loro fili in una trama di straordinaria potenza emotiva.La regia di Alessandro Talevi si propone di far rivivere l’allestimento storico del 1900, un tributo al genio visionario di Adolf Hohenstein, le cui scene sono ricostruite fedelmente da Carlo Savi, mentre Anna Biagiotti riprende i costumi originali, restituendo al pubblico l’autenticità di un’epoca. Le luci di Vinicio Cheli completano l’affresco teatrale, esaltando gli spazi e i contrasti che definiscono il dramma di Tosca. Alla guida dell’Orchestra e del Coro del Teatro dell’Opera di Roma, il Maestro Michele Mariotti (14 e 16 gennaio) e il Maestro Francesco Ivan Ciampa (17, 18 e 19 gennaio) interpretano la partitura pucciniana, mentre il Coro è affidato alla direzione di Ciro Visco, capace di intessere le voci in una polifonia vibrante e drammatica. Nel ruolo della protagonista, l’intensa Saioa Hernández darà vita a Floria Tosca, un personaggio femminile che incarna la passione e la forza tragica, mentre Gregory Kunde vestirà i panni di Mario Cavaradossi, l’ardente pittore condannato dall’amore e dalla politica. Scarpia, il barone spietato e ambiguo, è interpretato da Igor Golovatenko. Nelle repliche del 17 e 19 gennaio, il testimone passa ad Anastasia Bartoli nel ruolo di Tosca, a Vincenzo Costanzo come Cavaradossi e a Gevorg Hakobyan come Scarpia. Completano il cast Luciano Leoni come Cesare Angelotti, Domenico Colaianni nel ruolo del Sagrestano e Saverio Fiore nei panni di Spoletta. La Scuola di Canto Corale del Costanzi partecipa per infondere ulteriore coralità e profondità alla messa in scena. Il pubblico potrà assistere alle repliche il 16 e 17 gennaio alle ore 20, il 18 gennaio alle 18 e il 19 gennaio alle 16:30, con la prima del 14 gennaio trasmessa in diretta su Radio3 Rai, per consentire anche agli ascoltatori più lontani di partecipare a questo evento di raro fascino. L’epopea di Tosca continuerà a riecheggiare tra le mura del Costanzi con ulteriori rappresentazioni dal 1° al 6 marzo e dal 9 al 13 maggio, consolidando il suo posto d’onore nel cuore della Stagione 2024/2025. I biglietti sono disponibili online su www.ticketone.it, per un appuntamento imperdibile che celebra la memoria, il dramma e la bellezza senza tempo dell’opera pucciniana.

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