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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Iliade “Il Gioco degli Dei” dal 13 al 24 Marzo 2024

Sab, 09/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
ILIADE “IL GIOCO DEGLI DEI”
testo di Francesco Niccolini ispirato all’Iliade di Omero
drammaturgia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer
con Iaia Forte ed Alessio Boni
e con (in o.a.)  Haroun Fall, Jun Ichikawa, Francesco Meoni, Elena Nico, Marcello Prayer, Elena Vanni
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
disegno luci Davide Scognamiglio
musiche Francesco Forni
creature e oggetti di scena Alberto Favretto, Marta Montevecchi, Raquel Silva
regia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer
produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, Fondazione Teatro della Toscana, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Iliade canta di un mondo in cui l’etica del successo non lascia spazio alla giustizia e gli uomini non decidono nulla, ma sono agiti dagli dèi in una lunga e terribile guerra senza vincitori né vinti. La coscienza e la scelta non sono ancora cose che riguardano gli umani: la civiltà dovrà attendere l’età della Tragedia per conoscere la responsabilità personale e tutto il peso della libertà da quegli dèi che sono causa di tutto ma non hanno colpa di nulla. In quel mondo arcaico dominato dalla forza, dal Fato ineluttabile e da dèi capricciosi non è difficile specchiarci e riconoscere il nostro: le nostre vite dominate dalla paura, dal desiderio di ricchezza, dall’ossessione del nemico, dai giochi di potere e da tutte le forze distruttive che ci sprofondano nell’irrazionale e rendono possibile la guerra. Ci sono tutti i semi del tramonto del nostro Occidente in Iliade che, come accade con la grande poesia, contiene anche il suo opposto: la responsabilità e la libertà di scegliere e di dire no all’orrore. A dieci anni dalla nascita, dopo I Duellanti e Don Chisciotte, il Quadrivio, formato da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer, riscrive e mette in scena l’Iliade per specchiarsi nei miti più antichi della poesia occidentale e nella guerra di tutte le guerre. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Pensaci Giacomino! ” dal 12 al 24 Marzo 2024

Sab, 09/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
PENSACI GIACOMINO!
di Luigi Pirandello
Con Pippo Pattavina 
e un cast di otto attori
regia Guglielmo Ferro
Progetto Teatrando
La commedia, scritta nel 1916 riprende i tipici temi pirandelliani che emergono con evidenza nell’opera, cioè i paradossi esistenziali dell’individuo – ipocrisia, maschere sociali, crisi di identità – e i conseguenti dilemmi che nascono dalle sanzioni da parte della società. Nella pièce infatti, il professor Agostino Toti, insegnante ginnasiale piuttosto anziano e screditato agli occhi di alunni e colleghi, si sente impossibilitato nel continuare a insegnare e cova del risentimento nei confronti della società. Per ottenere una rivalsa nei confronti dello Stato a cui egli pensa sia dovuto il suo fallimento, prende per moglie una ragazza molto giovane di umili condizioni di nome Lillina che però è incinta di un giovane del paese, Giacomino. Nonostante ciò, questo aspetto così grave per le convenzioni sociali dell’epoca  non distoglie Toti dal suo proposito, né sembra preoccuparlo. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

“First Light”: Nico Muhly & Philip Glass

Sab, 09/03/2024 - 11:35

Nico Muhly (b. 1981): Shrink (Concerto for Violin and Strings) (world premiere recording). Philip Glass (b. 1937): The Orchard (from The Screens); String Quartet No. 3, “Mishima”. Norwegian Chamber Orchestra. Pekka Kuusisto (violino e direttore). Nico Muhly (pianoforte). Registrazione: Ottobre 2020, presso Jar Kirke, Bœrum, Norvegia. T. Time: 47′ 51″. 1CD Pentatone PTC51859745
Nata dalla collaborazione tra il pianista e compositore Nico Muhly e il violinista e direttore della Norwegian Chamber Orchestra,  Pekka Kuusisto, questa proposta della casa discografica Pentatone accosta due importanti nomi della musica contemporanea e, in particolar modo, Philipp Glass che, tra i compositori viventi, è sicuramente uno dei più influenti sulle nuove generazioni con il suo “minimalismo”, e il giovane compositore statunitense Nico Muhly che di Glass è stato assistente e oggi è certamente una delle voci più autorevoli del post-minimilasmo. Del giovane compositore statunitense è proposto l’ascolto di Shrink, un concerto per violino e archi composto nel 2019 su commissione di un consorzio internazionale di orchestre da camera che include anche quella norvegese diretta da Pekka Kuusisto a cui il lavoro è anche dedicato. Come si può dedurre dal titolo, Shrink (restringimento), il concerto nel corso dei tre movimenti si restringe in quanto i materiali musicali vengono sottoposti a una riduzione. Il primo movimento, Ninths, è basato quasi ossessivamente sull’intervallo di nona in una scrittura in cui appaiono frammenti sminuzzati di un concerto romantica come la cadenza. Lento e pieno di tensioni, il secondo movimento, Sixths, si basa, invece, sull’intervallo di sesta, mentre il terzo, Turns, nervoso e veloce si avvale di intervalli più piccoli (unisoni e di quarta). Completano il programma il movimento, The Orchard, composto dal Glass nel 1985 per l’opera The Screens di Jean Genet e che, in questo CD, è stato registrato nel 2020 a distanza a causa della pandemia, e il Quartetto per archi n. 3 “Mishima”, sempre del 1985, che, basato sulla musica che Glass aveva scritto per l’omonimo film, è qui presentato in un nuovo arrangiamento per orchestra d’archi curato da Pekka Kuusisto. Ottima l’esecuzione di questi lavori, la cui interpretazione, essendo fatta dallo stesso compositore (Nico Muhly) che, tra l’altro, conosce molto bene il linguaggio di Glass del quale è stato assistente, o dall’arrangiatore (Pekka Kuusisto), rispecchia perfettamente l’intenzione di chi li ha scritti. Come sempre accade in queste proposte discografiche di musiche contemporanee, l’interesse non sta, quindi, tanto sull’interpretazione quanto sul carattere innovativo per il linguaggio musicale di questi lavori che, per la verità, in questo caso, non sono tutti recentissimi. Il Quartetto per archi n. 3 “Mishima” si può ormai considerare, infatti, un classico della musica contemporanea che, in questo CD, assume una nuova veste nell’arrangiamento di Kuusisto il quale, tuttavia, compie un’operazione abbastanza tradizionale nel trascrivere per orchestra d’archi un quartetto d’archi.
 

Categorie: Musica corale

Milano, Teatro Franco Parenti: “Come tu mi vuoi”

Sab, 09/03/2024 - 09:35

Milano, Teatro Franco Parenti, Stagione 2023/24
COME TU MI VUOI”
di Luigi Pirandello
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
L’ignota LUCIA LAVIA
Carlo Salter FRANCESCO BISCIONE
Mop/La demente ALESSANDRA PACIFICO
Boffi PARIDE CICIRELLO
Un giovane/Dottore NICOLA COSTA
Un Giovane/Silvio Masperi ALESSANDRO BALLETTA
Zia Lena ALESSANDRA COSTANZO
Zio Salesio BRUNO TORRISI
Bruno Pieri PIERLUIGI CORALLO
Ines Masperi ISABELLA GIACOBBE
Regia Luca De Fusco
Scene e Costumi Marta Crisolini Malatesta
Luci Gigi Saccomandi
Musiche Ran Bagno
Movimenti coreografici Noa e Rina Wertheim-Vertigo Dance Company
Proiezioni Alessandro Papa
Produzione Teatro Stabile di Catania, Teatro della Toscana, Teatro Nazionale,Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Tradizione e Turismo srl, Centro di Produzione Teatrale, Teatro Sannazaro
Milano, 05 marzo 2024
Accanto ai celeberrimi titoli pirandelliani (capitanati dai “Sei personaggi”), alcune piccole gemme hanno dimostrato da sempre una forza scenica impressionante, che forse nemmeno il loro autore ha mai davvero ponderato: “Vestire gli ignudi”, “La vita che ti diedi”, “Trovarsi”, e, senza alcun dubbio, “Come tu mi vuoi”. Anzi: potremmo dire che quest’ultimo testo meriterebbe ancora più attenzione di alcuni titoli più frequenti sui nostri palcoscenici o nei nostri libri di scuola, poiché si tratta di una specie di manualetto pirandelliano, una summa della maggior parte del pensiero filosofico e drammaturgico dell’autore siciliano. Siamo dunque molto lieti di aver la possibilità di assistere alla seconda ripresa in un anno e mezzo di questo capolavoro, radicalmente diversa da quella vista all’Elfo nel novembre 2022 (qui): questa di Luca De Fusco, infatti, è una ripresa in tutto e per tutto del testo originale, senza grandi stravolgimenti se non nell’impianto scenico e nella sua gestione (insomma, nella regia comme il faut). Pirandello c’è tutto, nel bene e nel male: i monologhi interiori e le espressioni passé, lo scandalo e la borghesia, il grottesco del quotidiano e le personalità mitiche. E tutto questo si incarna nell’Ignota (Elma? Lucia? Il suo nome è decisamente secondario) di Lucia Lavia, in un’interpretazione di quelle che si fanno ricordare, senza dubbio, ma che probabilmente ha subito qualche incensatura di troppo – Lavia dà certamente prova di camaleontica versatilità fisica ed espressiva (mostrando peraltro doti non indifferenti di danzatrice), oltre che di resistenza corporea, costruendo per lo meno un primo atto che è più simile ad un esercizio biomeccanico che a una scena d’interno borghese; d’altro canto, tuttavia, ha una dizione totalmente fuori tempo massimo per i suoi trentadue anni, quel modo di accentare l’ultima sillaba di ogni parola come si insegnava all’Accademia settant’anni fa, quella cantilena tutta di testa che può essere efficace in alcuni momenti (trattandosi comunque di un testo del 1929), ma che alla lunga non solo stanca, ma stona in bocca a una giovane, tanto più una giovane con la sua fisicità ultrasportiva e androgina. Naturalmente, comunque, l’impressionante quantità di parole, gesti ed espressione nella quale l’attrice si spende ha la meglio su questi fastidi, e non si può che riconoscere in lei la degna erede dei suoi giganteschi genitori (Gabriele Lavia e Monica Guerritore). Accanto a lei il resto del cast sembra stare un passo indietro, con interpretazioni un po’ trattenute: gli unici che ci paiono davvero in parte (e non genericamente “bravi”) sono i caratteristi Alessandra Costanzo e Bruno Torrisi (gli anziani zii di Lucia, due parti leggere e gustose) e Francesco Biscione, nel ruolo di Carlo Salter, l’anziano scrittore tedesco follemente innamorato di Elma, l’ego berlinese da ballerina d’avant-garde dell’Ignota – un ruolo che ci sembra Biscione ricalchi anche sul Professor Unrat di Heinrich Mann, correttamente. Gli altri, pur mostrando chiarissima professionalità e buon talento, si abbandonano a una recitazione meno incisiva, più di maniera, che comunque, beninteso, non inficia il bel successo della produzione – ma nemmeno ad essa apporta granchè. La magnifica riuscita dello spettacolo è invece certamente merito di Luca De Fusco e del team con cui ha collaborato, a partire dai numeri danzati curati da Noa e Rina Wertheim della Vertigo Dance Company, che sono ipnotici e tagliati su misura per Lavia e il suo physique; le luci constrastate e allucinate di Gigi Saccomandi; ma soprattutto il connubio tra le azzeccatissime e ossessive musiche originali di Ran Bagno e le oniriche proiezioni di Alessandro Papa, in grado di richiamare chiaramente atmosfere lynchane torbide e stralunate – in particolar modo la proiezione dell’inizio del secondo atto e i giochi di sovrapposizione con il pizzo nero, che ci ricordano le musiche di Badalamenti sulle danzanti Sherilyn Fenn e Sheryl Lee, protagoniste dell’indimenticato “Twin Peaks”. È evidente che per De Fusco la chiave di lettura di “Come tu mi vuoi” sia la seduzione: la seduzione dell’Ignota su tutti e tutte, ma anche la seduzione su Elma di una vita agiata e aristocratica, quella su Lucia di una bohème perversa e cerebrale annaffiata di champagne, senza dimenticare la seduzione che la villa e il patrimonio esercitano su Bruno e Silvio, e di riflesso anche sugli zii; quest’eccitante malia crescente corrisponde anche all’ipertrofica sfaccettatura della personalità e dei dubbi dell’Ignota, che alla fine prende una decisione sofferta, ma razionale: essere fedele non a ciò che realmente è (giacché non può saperlo), ma a chi è disposto ad accettarla a qualunque condizione, lontana da questioni morali e patrimoniali. Un vero spirito libero, una ribelle della borghesia che infine si ritrova non in ciò che gli altri vogliono da lei, ma in ciò che non-vogliono, una specie di eroina nicciano-dannunziana che lascia attoniti gli altri personaggi quanto il pubblico, ancora oggi. Meravigliosa. Per le prossime date della tournée, qui. Foto Antonio Parrinello

Categorie: Musica corale

Roma, Off/Off Theatre: “Interrail”

Ven, 08/03/2024 - 23:59

Roma, Off/Off Theatre
INTERRAIL
di Armando Quaranta Riccardo D’Alessandro
con Federica Torchetti, Andrea Lintozzi, Riccardo Alemanni, Leonardo Mazzarotto
assistente alla regia Aurora Cataldi
scene e costumi Nicola Civinini
direzione tecnica Umberto Fiore
coreografie Clelia Enea
regia Riccardo D’Alessandro
Roma, 08 Marzo 2024
– “A rega, se non lo famo quest’anno non lo famo più”
– “che”
– “L’interrail”
– “ah, daje”
L’Interrail, simbolo di avventura e scoperta, ha attraversato epoche e generazioni, incarnando l’essenza stessa del viaggio ferroviario europeo. Come un gentiluomo dai tratti distinti, ma con lo spirito vibrante della gioventù, questo pass nato nel 1972 si è imposto come l’emblema per eccellenza della scoperta del Vecchio Continente. È tale fascino che ha ispirato un giovane regista a portarlo sul palcoscenico attraverso la commedia teatrale “Interrail”. Riccardo D’Alessandro fa il suo debutto a Roma, all’Off Off Theatre portando con sé una trama intricata, con numerosi protagonisti uniti da un’unica meta: Amsterdam. Un gruppo di amici italiani si imbarca in un viaggio in treno, determinati a segnare con fervore la prima estate dopo la maturità. Il periodo post-maturità rappresenta un’epoca carica di significato e di transizione per i giovani neodiplomati, poiché si trovano di fronte alle sfide fondamentali dell’ingresso nell’età adulta. Questa fase cruciale della vita segna il passaggio dalle scuole superiori a nuove esperienze e responsabilità, che possono includere la prosecuzione degli studi universitari, l’ingresso nel mondo del lavoro o, più semplicemente, un senso di incertezza e smarrimento di fronte all’inevitabile confronto con la complessità del mondo esterno. Raccontare una storia di amicizia attraverso il mezzo del viaggio in treno, come sottolinea il regista , aggiunge uno strato di profondità al concetto stesso di legame. In “Interrail”, ambientata negli anni ’80 e concepita anche da Armando Quaranta, questo tema viene esplorato con maestria. Nel cast spiccano nomi quali Federica Torchetti, Andrea Lintozzi, Riccardo Alemanni e Leonardo Mazzarotto, i quali danno vita a personaggi vibranti e autentici. Sono giovani, bravi ed incisivi. Il regista dimostra un’abile padronanza nel dirigere questo talentuoso ensemble, evidenziando una profonda consapevolezza e impegno nel portare avanti la produzione. Affrontando le sfide intrinseche nella creazione di dinamicità su un palcoscenico teatrale, le difficoltà incontrate sono state senza dubbio superate con successo, creando una performance coerente e ben strutturata. D’Alessandro riesce a rimarcare e portare in scena l’efficacia del contesto ferroviario nel generare situazioni cariche di tensione e conflitto, poiché, pur essendo confinati in uno spazio chiuso, i personaggi sono in costante movimento verso una meta. Questo crea una cornice ideale per una narrazione ricca anche di suspense e intrighi. “Interrail” si rivela una commedia fresca e giovanile capace di suscitare risate e al contempo regalare una dolce malinconia, tracciando un ritratto autentico delle sfide e delle gioie dell’amicizia e della giovinezza. Sul palcoscenico della vita, il passato agisce come un suggestivo sipario che, purtroppo, non si può ritrarre. Ma oh, quanto forte può essere il richiamo delle emozioni che un tempo ci hanno rapiti! Sì, quel desiderio ardente di rivivere quei momenti di estasi e gioia è come un attore che invoca il suo ruolo più amato. In superficie, sembra quasi che ci spinga a cercare freneticamente le circostanze che hanno generato quei sentimenti positivi. Ma nell’abisso dei nostri pensieri, la nostalgia svolge un ruolo più oscuro, una parte meno evidente ma altrettanto potente. È come se, dietro le quinte della mente, essa danzasse, rompendo l’inerzia psicologica e aprendo la strada ai cambiamenti necessari. Potrebbe sembrare un paradosso, ma la nostalgia agisce come una spinta positiva verso il cambiamento, come se la nostra psiche riconoscesse il momento maturo per evolversi. Non è una malattia dell’anima, no, ma una risorsa preziosa, una luce da seguire nel buio dell’incertezza. Gli spettatori hanno risposto con un fragoroso applauso, il loro entusiasmo riverberante tra le pareti del teatro, come un coro di voci che risuonano nei sogni e nelle speranze di quei giovani sul palco, che in fondo sono un po’ il riflesso di tutti noi, dei nostri passati e delle nostre aspirazioni.

 

Categorie: Musica corale

Milano, Factory32:”Una specie di Alaska”

Ven, 08/03/2024 - 18:38

Milano, fACTORy32, Stagione 2023/24
UNA SPECIE DI ALASKA”
di Harold Pinter
Traduzione Alessandra Serra
Deborah NATASCHA PADOAN
Hornby MATTEO BANFI
Pauline ASIA MORELLINI
Regia Gabriele Calindri
Musiche originali Michele Voltini
Produzione CamparIPadoaN
Milano, 03 marzo 2024
Una specie di Alaska” è un atto unico di Harold Pinter ispirato a un fatto realmente accaduto: un’epidemia di encefalite letargica che ha attraversato il mondo nel Primo Dopoguerra, lasciando dietro di sé molti morti e molti patologici “dormienti”, incapaci di risvegliarsi fino a che nel 1964 la scoperta della L-Dopa ha consentito loro di tornare alla vita – per lo più, tuttavia, in condizioni a vari livelli drammatiche. La magistrale penna del Nobel per la Letteratura tratteggia un’ora di atmosfere rarefatte e intense, ricostruendo il risveglio della quarantenne Deborah di fronte al dottor Hornby e a sua sorella Pauline: Pinter non ha paura, come suo solito, di giocare con silenzi e non detti, e quando fa parlare i suoi personaggi ha un impressionante senso della misura – anche nei monologhi della rediviva Deborah, che hanno, come naturale, molto dello stream of consciousness. Il suo è un non-dramma, è il dramma della privazione, dell’assenza, di chi al risveglio si accorge di aver avuto una vita puramente sognata, teorica. Le si oppone la sorella Pauline, che invece una vita l’ha avuta, forse regalata, non meritata, esattamente come Deborah non ha meritato in alcun modo la malattia; Pauline tuttavia ha sposato il medico che è riuscito a curarla, e questo la pone in una strana condizione di doppia superiorità, che Deborah non sente di dover accettare necessariamente. Il coma di Deborah non è stato un idillio, ma un sogno vero e proprio, una rappresentazione simbolica, a tratti realistica e a tratti distorta, della realtà: ella conosce il Bene e il Male, la dolcezza e la furia, l’aldilà e l’aldiquà, anche se solo oniricamente, teoricamente. La narrazione di Pinter è così distante dalla malinconica epopea del dottor Sacks (che con il suo “Risvegli” testimoniò queste guarigioni “miracolose” che finirono anche al centro della popolare omonima pellicola del ‘91): se al dottore interessava raccontare effettivamente i fatti (le parabole drammatiche dei risvegliati), a Pinter interessa quel moment of being che va dal risveglio alla consapevolezza di essa, che si raggiunge con quel “Grazie” finale, che è sia il ringraziamento al medico e a Pauline per averla riportata alla vita, sia per aver voluto farlo, dando un piccolo ma sostanziale senso alla ripresa di una vita che in standby non aveva, comunque, smesso di esistere. Questi portati del testo arrivano in maniera più o meno efficace alla scena di Gabriele Calindri: il personaggio del medico ha necessariamente dovuto perdere autorevolezza, passando da un originale sessantenne a un interprete trentenne come Matteo Banfi, e così, dal grande burattinaio del risveglio (figura quasi trascendente) del testo, si arriva a un ricercatore inquieto, quasi impaurito del suo stesso risultato; Banfi, in questa versione, può dare una resa scenica convincente, supportata anche dal naturale fascino sia della fisicità che della voce dell’attore – tuttavia non siamo del tutto persuasi dell’adattamento. La Pauline di Asia Morellini, detto chiaramente, è la prova meno convincente del dramma, impostata anch’essa su un’interprete troppo giovane e anche scenicamente acerba – specialmente per la vocalità disomogenea e dalla caratterizzazione troppo spontanea. D’altro canto, certamente può dirsi soddisfatta Natascha Padoan, una Deborah coinvolta ed efficace, nella quale il physique du rôle corrisponde al personaggio originale di donna-bambina saggia e disperata, illuminante e pazza: la Padoan approfondisce il ruolo in ogni dimensione possibile, arrivando a stimolare persino la sensazione di disagio che spesso proviamo di fronte a un infermo. La regia di per sé si nutre dei talenti degli interpreti, ben organizzandoli nell’esiguo spazio che hanno a disposizione, ma non trovando mai un guizzo, un’estetica accattivante che riesca a conferire perlomeno ritmo a ciò che vediamo (e a nulla serve l’ironica richiesta di scuse che il regista pone sul materiale di sala); unico aspetto della produzione veramente riuscito è l’accostamento della scena alle musiche originali di Michele Voltini, che costituiscono una vera e propria soundtrack della pièce, spesso conferendo o sottraendo attenzione e significato a ciò che vediamo rappresentato.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Argentina: “Ciarlatani”

Gio, 07/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
CIARLATANI

di Pablo Remón
traduzione italiana di Davide Carnevali da Los Farsantes
con Silvio Orlando
e con (in o.a.) Francesca Botti, Francesco Brandi, Blu Yoshimi
regia Pablo Remón
scene Roberto Crea
luci Luigi Biondi
costumi Ornella e Marina Campanale
aiuto regia Raquel Alarcón
Roma, 07 Marzo 2024
Nell’ambito teatrale contemporaneo, spicca per originalità e profondità di riflessione la commedia “Ciarlatani” di Pablo Remon, recentemente adattata da Davide Carnevali e messa in scena al Teatro Argentina. Quest’opera si colloca al crocevia tra critica sociale e analisi psicologica, offrendo al pubblico uno spettacolo al contempo acuto e brillante, che esplora con ironia e spirito critico le manie, le distorsioni, le ambizioni infondate e gli ideali frustrati che caratterizzano la figura dell’impostore, rappresentato emblematicamente dall’attore. La premessa dell’opera, che vede l’attore come un maestro nell’arte della menzogna, viene elevata da Remon a una riflessione più ampia sull’autenticità e sull’inganno, facendo eco a una visione dell’attore come un “ciarlatano” non solo sul palco ma nella vita, capace di suscitare ammirazione quanto più abilmente sa ingannare. Al centro della narrazione, troviamo figure complesse e sfaccettate: Anna è un’attrice di teatro la cui carriera è in declino. Diego è un regista affermato di film commerciali. Apparentemente rappresentano i due estremi della professione artistica: il successo e il fallimento. Entrambi stanno attraversando una crisi personale e le loro storie sono collegate da una figura comune: il regista cult degli anni ’80 Eusebio Velasco, padre di Anna e maestro di Diego, scomparso e isolato dal mondo. La commedia si distingue per la sua struttura narrativa, che intreccia le vicende personali e professionali dei personaggi in un “montaggio alternato” reso con maestria dalla regia di Remon stesso. Questo approccio consente di creare una polifonia comica e multiforme, popolata da personaggi variopinti tra cui produttori dipendenti da cocaina, sceneggiatori plagiari, attori underground e attrici invecchiate nel ruolo, disegnando un affresco vivace e a tratti surreale del mondo dello spettacolo. Oltre alla narrazione principale, l’elemento distintivo di “Ciarlatani” risiede nella peculiare caratterizzazione dei suoi personaggi, ognuno dei quali è delineato attraverso un approccio narrativo unico, sia per stile che per tono. La vicenda di Anna, ad esempio, è imbevuta di un’estetica cinematografica, dove un narratore orienta il pubblico attraverso un tessuto narrativo in cui il confine tra sogno e realtà si sfuma, creando una dimensione quasi onirica. Al contrario, il racconto di Diego assume le forme di una rappresentazione teatrale più tradizionale, ambientata in scenari che tendono a una maggiore aderenza al realismo. Inoltre, si inserisce nell’opera una sorta di autofiction, un interludio in cui l’autore stesso interviene per riflettere sulle accuse di plagio che gravano sulla sua creazione. Questo elemento funge da parentesi riflessiva, contribuendo a una stratificazione tematica dell’opera. Queste diverse narrazioni procedono in parallelo, intrecciandosi e nutrendosi reciprocamente, fungendo da specchio per gli stessi temi centrali. La struttura dell’opera, perciò, pur mantenendo un impianto fondamentalmente teatrale, si avvicina per composizione e spirito a quella di un romanzo, arricchita da digressioni che le conferiscono una dimensione cinematografica. “Ciarlatani” si propone così come un’esperienza teatrale innovativa, che aspira a una narrazione ibrida, attingendo liberamente dal vocabolario espressivo del cinema e della letteratura per arricchire e amplificare la sua portata emotiva e concettuale. Emerge così come un’opera teatrale di rilevante impatto, che con sottile umorismo e penetrante introspezione smaschera le illusioni e le ipocrisie dietro la ricerca della fama e del successo nel mondo dell’arte e dello spettacolo. Allo stesso tempo, lo spettacolo invita gli spettatori a riflettere sulla natura dell’autenticità, sul valore dell’arte e sulla perenne tensione tra essere e apparire, offrendo un’esperienza teatrale ricca di significati e di spunti di riflessione. L’allestimento scenico realizzato da Roberto Crea, che gioca abilmente con la tridimensionalità attraverso l’uso di luci e ombre, si unisce magnificamente all’opera di Luigi Biondi, il cui talento nell’illuminotecnica arricchisce la scena, conferendo profondità e spazio. Questa collaborazione artistica permette al pubblico di immergersi nella storia con una facilità sorprendente, grazie a un linguaggio visivo che, pur nella sua apparente semplicità, nasconde una complessità e una raffinatezza di fondo notevole. Di notevole ricercatezza per taglio e materiali i bei costumi di Ornella e Marina Campanale. Silvio Orlando si rivela un vero pilastro in questo spettacolo, portando stabilità con la sua presenza scenica e la capacità di navigare le complessità di una trama intenzionalmente frammentata. La sua interpretazione, piena di sfumature affascinanti, guida lo spettatore attraverso le peculiarità di una commedia che flirta con l’assurdo, senza mai sopraffarla, ma piuttosto esaltandone il cammino verso un significato più ampio, che riflette le competizioni e l’indifferenza verso l’individuo della nostra era. Orlando, con una recitazione espressiva e un tempismo comico senza pari, che attinge dalla tradizione partenopea, si fa portavoce di queste tematiche insieme a Francesca Botti, Francesco Brandi e Blu Yoshimi. Insieme, danno vita a venti personaggi, trasformando le sfide della narrazione in opportunità per esplorare la vita attraverso il teatro. Le vicende si snodano tra momenti di profonda riflessione e leggerezza comica: dall’apparizione sorprendente dell’autore della commedia, in una svolta metateatrale legata al plagio, fino alle gag memorabili, come l’assegnazione dei premi David a un’attrice che dimentica il film per cui viene premiata, o le critiche taglienti di un giovane verso un’attrice che non lo ha convinto nel ruolo della strega in un pezzo per bambini. Il cerchio si chiude con la saggezza di un barista del Kazakistan, sempre Orlando, che offre una perla di saggezza sulla resilienza: a volte, toccare il fondo è necessario per risalire e ritrovare la serenità. La platea si lascia andare a sonore risate, sebbene alcuni spettatori sembrino sfuggire le più sottili venature dell’opera, un saggio quasi politico intriso di ironia. Nonostante ciò, l’accoglienza è calorosa, traducendosi in un divertimento palpabile e in un applauso generoso che riempie il teatro. Photocredit@AndreaVeroni.

 

Categorie: Musica corale

Senza trucco!… Claudio Coviello

Gio, 07/03/2024 - 15:57

Nato a Potenza, si trasferisce a Roma nel 2002, dove inizia gli studi presso la Scuola di Ballo del Teatro dell’Opera diplomandosi nel 2009. Nel 2010 entra a far parte del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala dove partecipa alle produzioni di repertorio e alle nuove creazioni, nelle rappresentazioni al Teatro alla Scala e nel corso delle tournée. Ha danzato in Il lago dei cigniLe Spectre de la roseRaymonda, ecc. Nel dicembre 2012 viene nominato Solista e dal dicembre 2013 è Primo Ballerino del Teatro alla Scala. Nel suo repertorio entrano Notre-Dame de Paris , Il lago dei cigniRomeo e Giulietta, L’histoire de Manon, ecc. Recentemente ha danzato in Coppelia e nello spettqcolo di danza contemporanea Smith/Leòn & Lightfoot/ Valastro.
Definisciti con tre aggettivi.
Permaloso, determinato e umile, anche se l’essere umiltà oggigiorno vine i spesso vista come un difetto.
Segno zodiacale?
Capricorno.
Sei superstizioso’
Assolutamente no.
Che lavoro avresti fatto, se non fossi diventato un ballerino??
Mi sono accostato alla danza giovanissimo, allora non pensavo che l’essere un ballerino potesse diventare una professione,  solo crescendo si è fatta strada questa consapevolezza. Prima di ciò pensavo di voler diventare un veterinario.
La sua famiglia ha influenzato le sue scelte?
Mi ha supportato in ogni momento.
Un ricordo della tua infanzia…
Il vivere con spensieratezza, la semplicità del condividere il gioco con gli amici.
Qual è il momento in cui ti sei sentito più orgoglioso?
Sicuramente quando sono diventato primo ballerino alla Scala. Grande orgoglio, ma anche una sensazione di paura!
Una grande delusione?
Oddio!…Per fortuna, al momento, non ne ho avute.
Cosa ti manca maggiormente nella tua vita attuale?
Posso ritenermi soddisfatto della mia vita, la nostalgia della lontanza dalla mia famiglia, non manca.
Cosa ti emoziona di più?
Percepire e vedere l’emozione degli altri.
Cosa ti annoia
L’abitudinarietà.
Cosa ti diverte?
Stare con i miei amici.
Il tuo rapporto con il denaro.
Direi normale. Ci do la giusta importanza. Non ho mai pensato al volere essere ricco.
In cosa sei più spendaccione…
In cene al ristorante, nelle uscite sociali…diciamo.
Fiore preferito..
Il ranuncolo.
Stagione preferita.
La primavera.
Una causa che ti sta a cuore.
Il benessere degli animali. Per questa ragione ho fatto una precisa scelta alimentare, etica.
Vino bianco o rosso?
Rosso.
Giorno o notte?
Giornissimo!!
La tua giornata ideale?
Svegliarmi e avere davanti una giornata senza impegni e orari.
Una situazione che consideri rilassante.
Una cena in riva al mare.
Il viaggio o la vacanza che vorresti fare.
Tornare in Giappone da turista.
Com’è il tuo rapporto con il mondo dei  i social media?
Sicuramente non sono uno che ne abusa. Non sono certamente uno che rivela se stesso attraverso i social. Io ne faccio o uso solo per postare cose inerenti al mio lavoro, foto o video di spettacoli.
Il tuo piatto preferito…
Da circa due anni  sono diventato vegetariano, vegano. L’ho fatto per una questione etica quindi mi sono avvicinato alla cucina proprio per sperimentare  in tal senso e avere una cucina comunque sempre equilibrata. Per questo motivo però non ho un piatto preferito.
La tua musica preferita…
Mmmm… in generale ascolto un po’ quello che capita, dipende dalle fasi della vita. Attualmente una delle mie cantanti preferite è Levante.  Però ascolto  qualsiasi tipo musica.
La vacanza ideale?
Amore e relax.
Il personaggio sul palcoscenico?
Romeo. Era sempre nei miei sogni fin da quando studiavo. Poi vorrei nuovamente interpretare Des Grieux di Manon. Sono convinto che i  ruoli maturano come sei tu come persona e artista e quindi il tornare ad interpretarli te li fa vedere con una sensibilità diversa.
La tua colazione..
Con la colazione non sono molto costante e metodico.  Preferisco dormire un po’ di più e di conseguenza la colazione ne paga le conseguenze e  finisco con frettoloso brioche e caffè.
Il  tuo rapporto con la moda…
Non sono modaiolo.
Le passioni….
Amo cucinare, ma anche fotografare. Non riesco però ad essere costante.
Il personaggio amato delle favole..
Dumbo, ma era un cartone animato…Amavo anche i Simpson…Ho sempre trovato le favole un po’ stucchevoli.
Il colore preferito..
Vado a periodi…ultimamente amo le sfumature del verde.
Il film amato.
Sarò banale….ma è stato “Titanic”
Città preferite…
Roma, dove respiri la storia e Parigi per l’eleganza il grande impatto dei suoi palazzi, boulevards…
Il ristorante?..
Come ho già accennato, amo andare a mangiare fuori e  curiosare nelle cucine etniche. Adesso amo molto il cibo libanese.
Il tuo rapporto con la spiritualità.
Sono molto terreno e razionale. Penso che ci possa essere un qualcosa di superiore…ma non ne sono un granchè convinto..
Cosa non manca mai nel tuo camerino…
Il disordine.
Come segui l’evoluzione del tuo corpo.
Per noi ballerini è sempre un po’ complicato.  Sentiamo più che mai il corpo che cambia. Di certo il  mio corpo non è più quello di quando avevo 18 anni, aggiungici anche che,  durante la carriera puoi anche avere qualche infortunio. Tutto ciò ti fa sentire che il corpo pian piano si trasforma ma, in compenso,  acquisisce un’altra consapevolezza, la maturità di come lo gestisci.
Cosa pensi quando ti guardi allo specchio.
Oddi!…Già noi ballerini siamo “schiavi” dello specchio, io poi che sono un perenne insicuro, quando mi guardo provo sempre sensazioni diverse, a seconda delle giornate.
Stato d’animo attuale
Direi felice.
Il tuo motto.
Ognuno è artefice del proprio destino.

 

 

 

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Carla Accardi”

Gio, 07/03/2024 - 12:37

Roma, Palazzo delle Esposizioni
CARLA ACCARDI
06.03__09.06.2024
A cura di Daniela Lancioni e Paola Bonani
Mostra promossa da Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
Ideata, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo
Realizzata in collaborazione con Archivio Accardi Sanfilippo e con il sostegno della Fondazione Silvano Toti
Roma, 05 Marzo 2024
“Tutte le cose che ho fatto le ho volute. In fondo il lavoro si far per sé, non si fa per gli altri, perché se lo fai per gli altri segui sempre delle cose che non sono pure, che sono delle imposizioni, delle influenze, invece seguire il proprio sogno è diverso, perché fai una cosa e la prima volta che la fai ti sembra strana…dopo ti ci immergi e ne ricavi un significato”.
CARLA ACCARDI
Nata a Trapani il 9 ottobre 1924, Carla Accardi segnò il proprio destino artistico attraversando prima i portali dell’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Firenze, post maturità classica e artistica conseguita nel 1943. Il suo trasferimento a Roma nel 1946, al fianco del pittore Antonio Sanfilippo, suo futuro sposo, inaugurò una fase di fervente partecipazione al cuore pulsante dell’avanguardia artistica. Immersa negli incontri dell’Art Club e dello studio di Pietro Consagra, Accardi intessé dialoghi creativi con figure quali Ugo Attardi, Piero Dorazio, e altri, culminando nella firma del manifesto Forma 1 nel 1947, un atto fondativo per il movimento di rottura con l’arte tradizionale. La sua carriera si distinse per un’incessante ricerca espressiva che, negli anni ’50, virò verso un’astrazione semplificata nel segno e nel binomio cromatico bianco-nero, per poi riabbracciare il colore in un dialogo con la cultura metropolitana e giochi di effetti optical. La sperimentazione divenne il leitmotiv di Accardi, particolarmente nell’adozione di supporti plastici trasparenti che rivelavano la tela come una membrana luminosa, esplorando e sfidando i confini dell’arte dall’astrattismo all’informale, dalla pittura-ambiente all’arte femminista, fino alla gioia di vivere rinnovata nei suoi lavori degli anni ’80 e nei vasti dittici e trittici delle decadi successive. La celebrazione del centenario dalla nascita di Carla Accardi si concretizza in una mostra antologica di rilievo, allestita presso il Palaexpo e nell’ambito della città di Roma, la quale illumina il considerevole apporto dell’artista al contesto artistico. Questa retrospettiva, arricchita da circa 100 lavori che spaziano dal 1946 al 2014, propone un viaggio cronologico attraverso l’evoluzione artistica dell’ Accardi. Punti di intersezione strategici permettono di scoprire gli aspetti distintivi della sua ricerca, con un focus particolare sui momenti fondamentali della sua produzione. Un’esemplare ricostruzione della sua personale sala espositiva alla Biennale di Venezia del 1988 è stata resa possibile grazie a un accurato lavoro di documentazione fotografica. Tra i pezzi più significativi in mostra spicca la “Triplice Tenda” (1969-1971), proveniente dalle collezioni del Centre Pompidou di Parigi, testimoniando l’ampio riconoscimento internazionale del suo lavoro. Nel cuore dell’installazione, quest’opera di Carla Accardi si afferma come elemento pulsante, diffondendo nell’ambiente un’energia che interpella direttamente i visitatori, invitandoli a penetrare il cuore più intimo dell’esposizione. L’ispirazione dietro questa serie di lavori audaci e innovativi si può ricondurre a un momento di profonda riflessione scaturito da una visita al mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, un’esperienza che ha stimolato un dialogo significativo con la critica d’arte Carla Lonzi. Tale riflessione spinse l’artista a sfidare le convenzioni esistenti tra architettura e arti visive, dando vita alla sua celebre Tenda del 1965, un’opera che, con le sue tonalità di rosso e verde e la forma che ricorda un tempietto, segna l’inizio di un nuovo capitolo nel suo percorso creativo. Con un impegno meticoloso e personale, realizzò quest’opera e proseguì oltre, concependo l’Ambiente arancio. Quest’ultimo progetto smussa ulteriormente i confini tra arte e quotidiano, integrando elementi domestici quali un ombrello e un letto in un contesto che evoca un habitat, seppur immerso in una realtà sociale quasi onirica che riporta, forse inconsapevolmente, alla sperimentazione del Bauhaus. La sua intenzione non era quella di fornire un modello di vita replicabile, ma piuttosto di stimolare una riflessione su come poter vivere in maniera più genuina e spontanea. Da quel momento in poi, l’opera di Accardi si è distinta per una complessità e una cura nell’esecuzione che caratterizzano una progressione misurata e intenzionale dei segni. Tale evoluzione simboleggia il suo continuo desiderio di superare i limiti tradizionali dell’arte, impegnandosi in un’esplorazione costante che rinnova il linguaggio visivo. Carla Accardi si è posizionata in prima linea nel dibattito sull’intersezione tra gli spazi vissuti e l’esperienza estetica, affermandosi come una delle figure più innovative e influenti nel panorama artistico, capace di trasformare la visione dello spettatore sull’arte e sull’ambiente che lo circonda. L’esposizione si distingue per la sua eccezionale accessibilità, risultato di una meticolosa organizzazione curata dai curatori della mostra, che invita a un’esperienza di visita intuitiva e partecipativa. Un impianto di illuminazione attentamente concepito, che armonizza diffusione e focalizzazione, mette in risalto ogni opera esposta, svelandone l’essenza e permettendo di apprezzarne i dettagli più sfuggenti. Benché esista il pericolo di trasformare eventi di questo calibro in esclusivi ritrovi elitari, questa mostra emerge come tributo aperto e inclusivo, esente dall’essere un santuario inaccessibile agli iniziati. In tale scenario, si invita il visitatore a un coinvolgimento diretto, a instaurare un dialogo vivace con l’arte che trascende le convenzionali barriere di accesso e intellettuale, trasformando la visita in un’occasione di arricchimento culturale significativo e collettivo.

 

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Roma, Teatro Vascello:” Salveremo il mondo prima dell’alba”

Mer, 06/03/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
SALVEREMO IL MONDO PRIMA DELL’ALBA
Uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
Drammaturgia Gabriele Di Luca
Con Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Massimiliano Setti, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
Regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
Musiche originali Massimiliano Setti
Scenografia e luci Lucio Diana
Costumi Stefania Cempini
una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
In collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale
Roma,06 Marzo 2024
Nel loro ultimo lavoro scenico, “Salveremo il mondo prima dell’alba”, i registi  Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, componenti della talentuosa compagnia Carrozzeria Orfeo, operano una svolta tematica audace. Dopo un’esplorazione profonda nei meandri delle esistenze marginalizzate — gli ultimi, gli emarginati, coloro che la società ha relegato ai suoi confini più ombrosi — la loro nuova creazione scenica si avventura nei territori dell’opulenza e del successo esteriore. Quest’opera si configura come un’incursione critica nel microcosmo dell’élite, un’indagine sulle vite di coloro che abitano i vertici della piramide sociale: i primi, i trionfatori, l’aristocrazia contemporanea del capitale. Attraverso una scrittura scenica che intreccia sottilmente i fili del tragico e del comico, Di Luca, Setti e Tedeschi disvelano la paradossale prigionia dei loro protagonisti: esseri che, sebbene baciati dal successo materiale, si ritrovano incatenati in un vortice di responsabilità soffocanti, obblighi opprimenti e un’insoddisfazione esistenziale che si annida profondamente nelle loro coscienze. Sul palcoscenico si svela una verità inquietante: i tormenti dell’anima e le angosce profonde non risparmiano nessuno, nemmeno chi sembra avvolto in ogni lusso materiale. “Salveremo il mondo prima dell’alba” prende vita in un futuro non troppo lontano, all’interno di una clinica di riabilitazione esclusiva, posizionata su un satellite che orbita la Terra, simbolo supremo di un elitismo sfrenato. Qui, le anime in pena si confrontano con le catene delle dipendenze moderne — emotive, sessuali, lavorative, chimiche — in una lotta disperata per ritrovare la propria essenza smarrita. La trama tesse il racconto di una società avvolta in un velo di tristezza, malgrado l’onnipresenza di immagini di gioia illusoria diffusa sui social. Questa dicotomia culturale rivela un vuoto di autenticità e di impegni sociali significativi, spazzati via dall’unico credo imperante: la produttività incessante. Il testo mette in luce una realtà crudele, dove il fallimento è un tabù, il dolore un disonore da occultare, segno indelebile di fragilità e fallimento. In questo contesto, la “resilienza” diventa il grido di battaglia di un capitalismo senza volto, una virtù apparentemente eroica che, nella pratica, tradisce un’indifferenza brutale verso il dolore altrui. Questa nozione si trasfigura in un dogma cinico, un’esortazione a sopportare ogni avversità, rinnegando il proprio io più intimo, il proprio dolore, in nome di un imperativo assoluto: produrre senza sosta. Con un linguaggio drammaturgico affilato e una messinscena evocativa, lo spettacolo invita a una riflessione critica sulle dinamiche oppressive della nostra era, esponendo le contraddizioni e l’insostenibilità di un modello culturale che glorifica la disconnessione emotiva e il sacrificio dell’io in favore di un’illusoria forza interiore e autosufficienza. Questa opera si erge a manifesto contro la mercificazione dell’esistenza umana, sfidando lo spettatore a interrogarsi sulla vera natura della felicità e del successo in un mondo che sembra aver dimenticato il valore dell’autenticità e della condivisione emotiva. La narrazione si avvale di una scenografia innovativa e di soluzioni registiche avant-garde per immergere lo spettatore in un’esperienza teatrale totalizzante, che interpella direttamente le sue convinzioni e stimola una riflessione critica sul significato dell’esistenza in un’epoca dominata dal consumismo e dalla prestazione. Con questa pièce, Carrozzeria Orfeo non solo conferma il suo impegno verso un teatro che sia specchio delle contraddizioni del nostro tempo, ma eleva anche il discorso artistico a una nuova dimensione, dove l’esplorazione dei confini esterni della società serve a illuminare quelle zone d’ombra interne all’individuo, spesso nascoste dietro le facciate luccicanti del successo. In un palcoscenico vibrante di voci e presenze, emerge con prepotenza la magia interpretativa della compagnia di Modena, tessendo insieme una trama densa di interrogativi, effimere apparizioni di tematiche che spaziano dall’intelligenza artificiale alle sfide climatiche, dalle cicatrici lasciate dalle guerre alle ombre della violenza, dagli echi aspri degli haters all’aridità dell’analfabetismo emotivo. Questa varietà tematica, pur nella sua fugacità, non disperde la coesione dello spettacolo, ma anzi, ne sottolinea l’unità e l’intensità, in un affresco corale che cattura e riflette la complessità del nostro tempo. Gradualmente, lo spettatore viene introdotto a un mosaico di esistenze. Tra queste, spicca la coppia composta da Omar (interpretato da Sergio Romano), astuto imprenditore nel campo delle farine biologiche, fuggiasco da un passato familiare terrestre, e il suo dolce compagno Patrizio (Roberto Serpi), il quale nutre il desiderio profondo di adottare un bambino. La narrazione si arricchisce poi della figura di William (Ivan Zerbinati), un capitalista dall’indole malevola, dedicato giorno e notte alla fabbricazione di fake news senza il minimo scrupolo, e del suo domestico, Nat (Sebastiano Bronzato), un immigrato bengalese caratterizzato da un arto artificiale e una passione per l’etologia, elemento ricorrente nelle opere di Di Luca che spesso include personaggi dall’identità extracomunitaria. Completa il quadro Jasmine (Alice Giroldini), popstar in balia di una tempesta emotiva scatenata dal doppio tradimento del suo produttore-compagno e della madre, coinvolta sentimentalmente con quest’ultimo. Carrozzeria Orfeo dimostra ancora una volta la propria abilità nel costruire personaggi riccamente sfaccettati, ognuno portatore di un intimo universo di contraddizioni, debolezze e aspirazioni.  A guidare questa comunità disfunzionale nella ricerca di un possibile riscatto è un coach, impersonato con sottile autoironia da Massimiliano Setti, il quale, nonostante le evidenti difficoltà, mantiene un’infrangibile speranza nel potere trasformativo del cambiamento. La sua figura emerge come catalizzatore di un processo di introspezione e, forse, di guarigione, offrendo allo spettatore non solo momenti di riflessione ma anche di identificazione con i tormenti e le speranze dei personaggi. In questo scenario che sembra presagire un inesorabile declino, si scorgono però sprazzi di speranza. Questi sprazzi di luce invitano a credere nella possibilità di rinascita e rigenerazione, anche nelle condizioni più avverse. @photocreditManuelaGiusto

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Roma, Teatro dell’Opera di Roma: “Salome” dal 07 al 16 Marzo 2024

Mar, 05/03/2024 - 22:44

Roma, Teatro dell’Opera di Roma
SALOME

Musica di Richard Strauss
Opera in un atto
Dal dramma di Oscar Wilde
Prima rappresentazione assoluta: Hofoper, Dresda, 9 dicembre 1905
Prima rappresentazione al Teatro Costanzi: 9 marzo 1908
Direttore Marc Albrecht
Erode John Daszak
Erodiade Katarina Dalayman
Salome Lise Lindstrom
Jochanaan Nicholas Brownlee
Narraboth Joel Prieto
Un paggio di Erodiade Karina Kherunts
Primo ebreo  Michael J. Scott
Secondo ebreo Christopher Lemmings
Terzo ebreo Marcello Nardis
Quarto ebreo Eduardo Niave*
Quinto ebreo / Secondo soldato Edwin Kaye
Primo Nazareno / Primo soldato Zachary Altman
Secondo Nazareno Nicola Straniero*
Un uomo di Cappadocia Alessandro Guerzoni / Daniele Massimi 10, 14 marzo
Uno schiavo Giuseppe Ruggiero
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
ORCHESTRA DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
ALLESTIMENTO OPER FRANKFURT
Qui per tutte le informazioni per le date ed i biglietti.

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Milano, Teatro Elfo Puccini: “Tre Donne”

Mar, 05/03/2024 - 14:24

Milano, Teatro Elfo Puccini, Stagione 2023/24
TRE DONNE ALTE”
di Edward Albee, traduzione di Masolino D’Amico
Donna A  IDA MARINELLI
Donna B ELENA GHIAUROV
Donna C DENISE BRAMBILLASCA
Figlio STEPHAN HABAN
Regia Ferdinando Bruni
Scene Francesco Frongia
Costumi Elena Rossi
Luci Michele Ceglia
Suono Gianfranco Turco
Produzione Teatro dell’Elfo
Milano, 01 marzo 2024
Nel non esaltante panorama teatrale nostrano, talvolta avvengono dei piccoli miracoli, che, a dirla tutta, miracoli non dovrebbero essere, ma la normalità: spettacoli ben scritti, prodotti e recitati, a vari livelli; ancora più raramente assistiamo a spettacoli ottimamente scritti, prodotti e recitati; possiamo solo immaginare l’opportunità più unica che rara di essere presenti a spettacoli perfettamente scritti, prodotti e recitati, una fortuna vera. Ora, il caso di “Tre donne alte” di Edward Albee, messo in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano, in fondo, non è così difficile da individuare: il testo è un Premio Pulitzer (il terzo) di un autore tra i maggiori del Novecento americano (secondo solo a Tennessee Williams e Arthur Miller, coi quali forma una specie di “sacra triade”); la regia è affidata a uno dei fondatori dell’Elfo, Ferdinando Bruni, cui non sempre le ciambelle riescono col buco, ma che comunque le sa sempre condire puttosto bene; il cast coinvolge tre attrici, di cui due non necessitano presentazioni: Ida Marinelli – recentissimo Premio Franca Valeri, ultimo dei molti riconoscimenti di una vita – ed Elena Ghiaurov – Premio Ubu e Premio Duse. Eppure i dati oggettivi non bastano a spiegare l’effettiva magia di questa produzione: occorre perlomeno citare anche le scene di Francesco Frongia e le luci di Michele Ceglia, che danno movimento a un testo di per sé piuttosto statico e trasportano tutto in una dimensione altra, interiore, senza ricorrere a éscamotage troppo cerebrali; e una menzione va fatta ai costumi di Elena Rossi, semplicissimi, è vero – forse si sarebbe potuto osare di più – ma funzionali ai momenti del dramma; e la terza attrice, la giovane Denise Brambillasca, non contribuisce forse a questa riuscita? La sua Donna C (giacché così Albee chiama i suoi personaggi, Donna A, B e C) ha la grazia e naturalezza dei vent’anni imbevute dell’ipocrisia lieve, dell’impercettibile cinismo dell’alta società americana; il consapevole corpo flessuoso, l’andamento accademico del parlato, gettano evidenti e necessari ponti verso le sue più esperte colleghe, contribuendo a quell’omogeneo femminino che Albee si augurava di ricreare in scena. Senza dubbio, nemmeno le altre due performance vanno date per scontate: la Donna A di Ida Marinelli, ad esempio, è di soprendente vispezza e comicità nel primo atto, quanto di accorata ispirazione nel secondo – e non poteva essere altrimenti, giacché la Marinelli è giunta a un punto tale di esperienza per cui ci si aspetta che i personaggi interpretino lei e non più viceversa; ma anche la Donna B di Elena Ghiaurov sorprende, anche coloro (come chi scrive) che già da anni apprezzano l’attrice: il suo monologo del secondo atto è senza alcun dubbio il pezzo di bravura par excellence di “Tre donne alte”, eppure la Ghiaurov riesce a tavalicare i limiti del gioco al massacro (in cui Albee era maestro – ricordate “Chi ha paura di Virginia Woolf?”) per portare il suo dramma davanti a noi, nudo, semplice e palpitante nel suo eloquio caramelloso e vagamente sbirignato, aspro e artefatto allo stesso tempo. Ancora, non possiamo non godere delle geometrie puntuali create con queste “Tre donne alte” dalla regia di Bruni, che tradiscono sì la bravura un filo manierata delle interpreti, ma non il sottilissimo lavoro di costruzione scenica, che resta nascosto nella fitta e per nulla rarefatta trama della maestria drammaturgica. Già, la drammaturgia di Albee: vecchia di trent’anni, questa pièce non solo ancora ci parla (di donne, di uomini, di famiglie, di disparità sociali, di solitudini, di cuori spezzati, di capitalismo), ma oggi più che mai ci urla in faccia la sua critica distaccata e divagante, il suo invito a vivere il momento; oggi più che mai, che sentiamo di non essere più usciti dal – o mai entrati davvero nel – Novecento, le “Tre donne alte” di Albee ci indicano chiaramente tutte quelle tappe – per lo più vergognose, orribili, eppure anche perversamente seducenti – del secolo che abbiamo toccato e su cui continuiamo a passare, come le caselle di un gioco dell’oca nel quale non riusciamo a vincere né a perdere: queste tre bambole bionde sono contemporaneamente Marilyn Monroe e Margherita Hack, Sylvia Plath e Madonna, Moana Pozzi e Hillary Clinton; nel 1994, prima delle quote rosa, del politicamente corretto e della woke culture, Albee ci aveva già spiegato che donne saremmo state. Forse è anche per questo che difficilmente

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Milano, MTM – Teatro Litta: “Baccanti. Il regno del dio che danza”

Mar, 05/03/2024 - 12:00

Milano, MTM – Teatro Litta, Stagione 2023/24
BACCANTI. Il regno del dio che danza”
Da Euripide
Dioniso ALICE SPISA, MARIA CANAL
Penteo GAIA CARMAGNANI
Tiresia/Agave SARAH SHORT
Cadmo SILVIA GUERRIERI
Sciamana SOFIA TIERI
Servitore FILIPPO RENDA
Drammaturgia e Regia Filippo Renda
Scene e Costumi Eleonora Rossi
Disegno luci e Direzione tecnica Fulvio Melli
Trucco Carla Curione
Nuova produzione Manifatture Teatrali Milanesi
Milano, 27 febbraio 2024
“Baccanti” di Euripide è fin dai tempi antichi stata oggetto di moltissima attenzione critica, testuale, filologica e poi di adattamenti, riletture, riscritture. In epoca ellenistica si interpretava la scena di Agave separatamente al resto del dramma, come pezzo di bravura per attori; in epoca bizantina quella stessa scena finì per diventare un compianto sul Cristo morto; ai classicisti piacque singolarmente per la ricostruzione dei cori dionisiaci; agli psicanalisti per la scelta della femmina di cibarsi del maschio; e poi le questioni legate agli studi di genere, viste le scene di travestitismo, di liberazione della donna; non ultime, infine, le istanze più eminentemente antropologiche, che ne hanno analizzato i riti e le loro componenti. A teatro, poi, di “Baccanti” ne abbiamo viste un po’ per tutti i gusti – ci si consenta di ricordare la più radicale e bella: la versione di Luca Ronconi all’Istituto Magnolfi di Prato del ’78, con una sovrumana Marisa Fabbri. Non ci sconvolge troppo, dunque, entrare al Litta di Milano per “Baccanti” e trovare la scena in mezzo alla sala, una dj sul palco, poltroncine e sedie tutte attorno alla scena e cinque attrici che ballano musica techno ad alto volume; anzi: subodoriamo già l’operazione trita de “la musica dionisiaca di oggi è la techno… i culti dionisiaci prevedevano l’uso di sostanze psicotrope… le baccanti erano le depositarie di un culto paramatriarcale antichissimo nel quale le donne potevano finalmente emanciparsi”, operazione che viene riconfermata dall’intervento, a inizio spettacolo vero e proprio (le danze sfrenate d’accoglienza sono ovviamente un po’ fini a loro stesse), ad opera del regista Filippo Renda. Per lui è necessario fare una captatio benevolentiae del pubblico e “spiegare” quello che si vedrà; nulla di più sbagliato e meno simpatico, a tratti pretenzioso e ad altri invece miserando. Per fortuna non dura molto: dalla fine della sua introduzione in poi Renda figurerà solo come zelante servo di scena, oltre che vero collante del gruppo, e lascerà alle cinque ragazze e alla dj/sciamana piena libertà di espressione. O meglio: libertà di recitare “Baccanti” di Euripide, giacché d’accordo le radici rituali, la musica dionisiaca, ma siamo in un teatro, e abbiamo davanti cinque attrici che non solo recitano, ma recitano un testo molto specifico; e, occorre sottolinearlo, lo recitano piuttosto bene: il merito è anche del drammaturgo Renda, che ha adattato la tragedia euripidea ai ritmi e tempi musicali, quasi ai singoli talenti delle sue attrici, ma anche alla chiave interpretativa del testo (la ricostruzione rituale, lo sciamanesimo eccetera), che non può prevedere, ad esempio, la fine disperata che Euripide propone, e infatti propone un finale “lieto”, con un Penteo ormai in grado di accettare, stremato, più morto che vivo, il culto dionisiaco, riunendosi a Dioniso. Poco male, anche per il filologo che è in noi, proprio perché l’operazione qui è ultradichiarata (la presenza del sottotitolo “Il regno del dio che danza”, la dicitura “da Euripide” e non “di”) e soprattutto molto coerente con se stessa. Tra le fanciulle in preda all’estasi bacchica senza dubbio spicca Gaia Carmagnani nel ruolo di Penteo: voce potente dalle venature scure, fisicità morbida, muliebre, dominata con piglio virile, e un naturale equilibrio nella costruzione dell’eloquio; accanto a lei senz’altro brilla anche Alice Spisa, cui toccano la maggior parte delle scene di Dioniso, recitato sia con fascinosa vocalità che con apprezzabile consapevolezza corporea, resa ancora più esplicita dall’uso di una enorme maschera fiorita con muso di capra, che a volte sembra quasi prendere vita su impulso dell’attrice. Queste maschere gigantesche e affascinanti, fatte di stoffe e carta montate su impalcature titaniche, vengono usate per Dioniso, Cadmo e Tiresia, e richiamano forme animali e arboree fantastiche, paradossali: sono la creatività femminina finalmente libera e anarchica, che Dioniso risveglia; Penteo, invece, è giustamente caratterizzato da un farsetto d’armatura, rappresentazione dello sterile petto virile, che imbriglia e costringe – un plauso a Eleonora Rossi per queste vere e proprie opere da indossare, curiose e affascinanti. I talenti delle ragazze emergono al meglio proprio nel gioco continuo di queste maschere a tempo di musica, e quindi occorre riconoscere alla selezione e al mixaggio di Sofia Tieri – storica dj della scena milanese – un vero tocco di magia, una totale aderenza al testo con cui sembra vivere in mutuo rapporto; infine, cornice che innalza a potenza ciò che vediamo accadere, è il progetto luci di Fulvio Melli, che alterna, a momenti naturalmente strobo, scene di profonda intensità, a pieno sugello di quanto il testo narra. Ed è questo il paradosso di queste “Baccanti”: il monologo del regista, il materiale di sala, tutto parla di qualcosa che debba travalicare il teatro, il concetto di recitazione blablabla, ma in realtà è uno spettacolo teatrale che funziona, coinvolge, sa farsi amare, grazie a un mix, che ci sembra singolarmente azzeccato, di generi, immagini, suoni. Ma nemmeno di ciò dobbiamo stupirci: non era infatti Dioniso il dio dei paradossi, dei contrasti impossibili e sorprendenti? “Nega l’esito all’aspettato/ e all’inatteso apre un varco”. Foto Sara Meliti, Alessandra Saletta

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Milano, Piccolo Teatro Grassi: “Aspettando Godot” dal 05 al 10 marzo

Mar, 05/03/2024 - 10:00

Theodoros Terzopoulos, fra i grandi maestri della ricerca teatrale, si confronta con il capolavoro di Samuel Beckett – una delle opere più celebri del “teatro dell’assurdo” – la cui vicenda ruota attorno a un dialogo tra due personaggi sospesi in una misteriosa situazione d’attesa.
«È da 25 anni che lavoro e studio Beckett – spiega il regista, famoso per il suo innovativo approccio al teatro greco –. Vi ho trovato una relazione che ha a che fare con l’annientamento della passione, dell’eroismo, della mania: molti elementi della tragedia di cui Beckett fa tabula rasa. Questa zona grigia del Nobel di Dublino, tra la vita e la morte, mi interessa molto. Un grigio con tante sfumature di nero. Mi interessa anche il sarcasmo, l’ironia che in Beckett trova terreno fertile, elementi che già incontriamo nel dramma satiresco classico. Se Beckett ha una relazione con il teatro greco è lì che dobbiamo cercala, proprio per il sarcasmo, per l’auto-annientamento, per il fatto che mai si crea una posizione fissa, ma si ha sempre la negazione della posizione e quindi, dopo, devi lavorare sulla negazione della negazione per una nuova posizione che sarà una nuova negazione. La zona è grigia, ma il suono non è triste.»
Tutte le altre informazioni, qui

Categorie: Musica corale

Sergey Malov al Teatro alla Pergola di Firenze

Mar, 05/03/2024 - 08:00

Firenze, Teatro della Pergola, Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Firenze 2023/4
Violino e violoncello da spalla Sergey Malov
Béla Bartók (1881 – 1945): Unisono (da “Mikrokosmos”), per violoncello solo; Johann Sebastian Bach (1685-1750): Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012, per violoncello solo, Toccata e Fuga in re minore, BWV 565 (arr. per violino solo); Béla Bartók: Sonata per violino solo
Firenze, 2 marzo 2024
Si può assistere ad un concerto lasciandosi attrarre dal virtuosismo ma talvolta si può anche essere folgorati dallo stupore. Nell’appuntamento del 2 marzo scorso, molti dei presenti sembravano predisposti a cogliere entrambe le caratteristiche. Solista, alle prese con un programma particolare, Sergey Malov, musicista originario di San Pietroburgo. Egli è apparso sul palco con uno strumento dalle dimensioni individuabili tra una viola e un violoncello, appoggiato sul petto e sostenuto da una piccola tracolla, denominato violoncello da spalla. Oltre a suscitare curiosità nel pubblico, ne svelava la rara presenza nelle programmazioni concertistiche. Per ammirare questo strumento occorre affidarsi all’iconografia musicale, più in particolare ad artisti come Andrea Celesti o Jan Brueghel, o a qualche trattato come il Syntagma musicum (II tomo del De organographia, 1619) di Michael Praetorius, che ne testimonia la diffusione nei secoli XVII-XVIII. Venendo al concerto, Malov ha interpretato quattro composizioni: nella prima parte ha suonato il violoncello da spalla, mentre nella seconda si è esibito in qualità di violinista. Ascoltandolo per la prima volta colpisce il suo coraggio e il saper ‘osare’ così come il passare da uno strumento all’altro con una naturalezza incredibile, grazie alla sua natura di polistrumentista, confermata da un corposo curriculum (premi, collaborazioni significative, incisioni, ecc.), ove si dichiara che sappia suonare anche il violino barocco e la viola. Sentirlo ‘navigare’ tra Barocco e Novecento assumeva la dimostrazione che lo strumento è solo un ‘arnese’ per eseguire la musica e, soprattutto in certi repertori antichi (Barocco compreso), attraverso l’arte della trascrizione e dell’arrangiamento, è possibile eseguire opere strumentali indistintamente dalla scrittura idiomatica come accade per molti lavori di Bach. Dopo la brevissima composizione di Bartók (quasi breve introduzione per captare l’attenzione) tratta dall’opera pianistica Mikrokosmos, è stata la volta della Suite n. 6 in re maggiore BWV 1012 che, stando a quanto riportato in un autografo di Anna Magdalena Bach è definita Suitte 6me a cing acordes, sembrerebbe da eseguirsi con un violoncello da spalla dotato delle seguenti corde (dal basso: do, sol, re, la, mi) ove si evince l’aggiunta di una quinta all’acuto (mi). Lo straordinario virtuosismo di Malov, concentratissimo nell’esecuzione della Suite, evidenziava altresì un’assidua frequentazione con questo strumento che, pur ‘antico’ parente degli strumenti ad arco, destava meraviglia nel sentirlo suonare a questo livello. Dal I movimento (Preludio) all’ultimo (Giga) c’era Bach con tutte le sue architetture, le arditezze armoniche, le vivide polifonie compresi effetti eco, abbellimenti ecc. che è possibile ascoltare solo da musicisti dotati di eccezionali capacità.La celeberrima Toccata e Fuga in re minore BWV 565, arrangiata e suonata con il violino, per molti una sorpresa, è stata l’ulteriore occasione per ribadire che la musica di Bach può essere eseguita quasi con ‘ogni sorta di stromento’ restandone immutato il pensiero compositivo. Pur rispettando la natura dello strumento, l’arrangiamento violinistico riusciva a restituire le peculiarità di quest’opera concepita per organo fin dall’inizio caratterizzato dall’abbellimento (mordente sul grado della dominante). Anche per quest’interpretazione non si può tacere la maestria del musicista nell’evidenziare ogni elemento della scrittura unitamente al controllo e alla bellezza del suono ove, in alcuni momenti, sembrava di poter ascoltare l’effetto ‘eco’, solitamente eseguito sui manuali dell’organo. La Sonata per violino solo, commissionata a Bartók da Yehudi Menuhin, ha concluso il programma rivelando una propria natura complessa e difficile. Il ritorno al binomio Bach & Bartók era talmente gradito che, per molti aspetti, sembrava un autentico dittico in cui, pur considerandone la distanza temporale, era pur sempre possibile rintracciare un intarsio tale da immaginare una coppia di icone. In questo contesto il compositore ungherese, una delle personalità più originali ed influenti del Novecento, appariva il grande ‘apostolo’ della tradizione e il difensore del logos musicale bachiano. La Sonata (pur aderendo nel I movimento alla forma-sonata), nella sua architettura e stile (si noti l’incipit con il Tempo di ciaccona o la Fuga), strizza l’occhio a quelle bachiane. Similmente, inoltre, per l’utilizzo della forma polifonica, siamo di fronte al paradigma della fuga. Inizialmente l’attenzione del pubblico era catturata da certe allusioni alla musica popolare ungherese, in seguito vi è stata un’immersione nel microcosmo bartokiano grazie all’ascolto di tutto il ‘vocabolario linguistico’ di Bartók. Mediante l’uso delle doppie corde (per la cavata possente), in alcuni momenti sembrava di ascoltare un Quartetto, mentre nell’ultimo movimento (Presto) la varietà del materiale compositivo e la chiara restituzione dell’interprete evidenziavano una lettura espressiva caratterizzata da tante idee musicali. Ma se ogni idea rappresenta un pensiero o un’attività della mente volta a partorire quella vera ed eterna, il ritorno a Bach nel fuori programma, con il triste ed elegiaco Largo dalla Sonata 3 BWV 1005, dedicato alla memoria di Alexei Navalny, ne è stato un esempio.

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice: Ivor Bolton interpreta Cherubini, Haydn e Mozart

Lun, 04/03/2024 - 23:47

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Ivor Bolton
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Soprano Valentina Farcas
Mezzosoprano Cecilia Molinari
Tenore Mauro Peter
Basso Milan Siljanov
Luigi Cherubini:”Lodoïska”: ouverture; Franz Joseph Haydn: Sinfonia n. 95 in do minore Hob.I:95; Wolfgang Amadeus Mozart: Requiem in re minore per soli, coro e orchestra KV 626
Venezia, 1 marzo 2024
Ivor Bolton – uno dei più illustri direttori nel campo del repertorio barocco e classico – ha guidato l’Orchestra e del Coro del Teatro La Fenice in un concerto dove si confrontavano Cherubini, Haydn e Mozart. Di Luigi Cherubini oggi sopravvivono solo pochi titoli: Medée e qualche composizione sacra, oltre all’ouverture di Lodoïska, che apriva la serata. Nato a Firenze nel 1760, questo musicista ha un posto rilevante in Europa tra fine Settecento e inizio Ottocento. Dopo gli anni di formazione si trasferisce, pressoché venticinquenne, a Londra e quindi, dal 1786, in Francia, dove collabora con Giovambattista Viotti, celere violinista, nonché impresario di una compagnia teatrale. Il 18 luglio del ’91 si svolse nella Salle de la Rue de Feydeau – dove si esibivano gli artisti di Viotti – la prima della comédie héroïque Lodoïska di Cherubini: “opéra à sauvetage” come il Fidelio di Beethoven, grande ammiratore di Cherubini. Assai suggestiva è stata la lettura proposta da Bolton di questa ouverture – che nobilmente preannuncia il clima della vicenda – facendone pienamente emergere la dimensione “sinfonica”, grazie a un’intensità espressiva, che derivava in particolare dall’impiego di un’ampia gamma dinamica e agogica. Lo si è colto nell’Adagio, solo all’apparenza rasserenante, che in effetti anticipa la tensione a venire, annunciato da un doppio richiamo dei corni, cui fanno eco i legni; nell’Allegro vivace dallo slancio quasi beethoveniano; nel breve movimento conclusivo in tempo Moderato, aperto dal rasserenante tema del clarinetto solo, ripreso dagli altri legni. Haydn era rappresentato dalla la Sinfonia in do minore n. 95. Nel 1790 il sessantenne Haydn, messo a riposo dagli Esterházy, accetta l’offerta, proveniente da Londra, di comporre nuove sinfonie per l’orchestra di Salomon. Nasce così una serie di partiture, dalla scrittura pienamente sinfonica in senso moderno, tra cui questa. Datata 1791, essa presenta – come altre sinfonie “londinesi” – numerosi passaggi solistici, mentre per altre caratteristiche – il modo minore e la mancanza di un’introduzione lenta – rappresenta un “unicum”. Ricca di contrasti e sfumature è risultata l’interpretazione del maestro inglese, coadiuvato da un’orchestra di “solisti”. Dopo l’Allegro moderato – aperto da un inciso in fortissimo di cinque note all’unisono in do minore, di perentorietà beethoveniana, cui contrastava il secondo tema in do maggiore, più vivace e rasserenante –, l’Andante ha visto imporsi il violoncello e i violini, impegnati nelle variazioni, caratterizzate dal contrasto do minore/do maggiore, sul semplice tema d’apertura. Il violoncello era protagonista assoluto nel Trio, all’interno del classico Minuetto, aperto da una danza paesana. Nel breve finale, Vivace, si è apprezzato il raffinato gioco contrappuntistico, che fa pensare alla Jupiter di Mozart: ci riferiamo all’ampio e gioioso primo tema in do maggiore, elaborato in una breve fuga, e al secondo tema, trattato con altrettanto virtuosismo polifonico, prima della concisa conclusione con il ritorno del tema iniziale. Terzo titolo in programma: il Requiem di Mozart, che risale al 1791, l’anno della morte del Salisburghese. Nell’estate egli riceve la visita di un oscuro personaggio, che gli commissiona una messa funebre. Mozart accetta e richiede un compenso di 50 ducati. Alcuni giorni dopo, l’inquietante messaggero si ripresenta con la somma richiesta, promettendo altrettanto denaro a lavoro ultimato, a patto che non si indaghi sull’identità del committente. Al ritorno da Praga – dove aveva curato la rappresentazione della Clemenza di Tito – Mozart si dedica subito al Requiem, ma ben presto, a causa delle sue condizioni di salute, è costretto a interrompere la composizione, chiedendo all’allievo Süssmayr di proseguire in sua vece. Il 4 dicembre tenta di riprendere a scrivere, ma il giorno seguente muore. Chiarito l’enigma della commissione del Requiem – il messaggero vestito di grigio era l’economo del conte Welsegg che voleva dedicare un Requiem alla memoria della moglie defunta – la vedova Constanze affidò il completamento dell’autografo – in cui solo le prime due sezioni erano completamente di Mozart – a musicisti legati all’entourage del marito: principalmente a Süssmayr. Variegata negli accenti, attenta alle ragioni del canto e alle istanze formali era la lettura di Bolton, egregiamente supportato dall’Orchestra, dal Coro e dal quartetto vocale. Un’assoluta chiarezza nel fraseggio, un’espressività di forte impatto emotivo, ma senza affettazione, una perfetta coordinazione tra le voci e l’orchestra hanno dominato in questa esecuzione, in cui l’agogica era diffusamente alquanto spedita. Nell’Introitus, dall’atmosfera lugubre, il tema del Requiem, esposto dai corni di bassetto e dai fagotti, si stagliava su un accompagnamento sincopato degli archi; più oltre ha incantato l’intervento del soprano, alle parole “Te decet hymnus”.
Il coro ha brillato nel Kyrie, una doppia fuga con due soggetti rielaborati in modo geniale, e nel drammatico Dies irae. Nel Tuba mirum il trombone ha dialogato suggestivamente con il basso, prima del lieve concertare delle voci soliste e del celestiale intervento del soprano verso la fine, mentre nel Rex tremendae risultava particolarmente efficace l’alternanza (e la sovrapposizione) dei ritmi puntati degli archi e della massa corale. Nei tre brani successivi – Recordare, nuovamente affidato ai solisti; Confutatis, con la contrapposizione tra coro maschile e femminile; Lacrymosa, dove il coro ha reso l’incanto sofferto di questa pagina – la preghiera si è fatta sempre più fervente. L’esecuzione è proseguita in modo encomiabile fino al conclusivo Lux aeterna, che riprende la musica dell’Introitus. Caloroso successo per tutti.

Categorie: Musica corale

Krzysztof Urbanski torna sul podioo dell’orchestra RAI. Con lui la pianista Marie-Ange Nguci

Lun, 04/03/2024 - 18:19

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino.Stagione Sinfonica 2023-24.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Krzysztof Urbański
Pianoforte Marie-Ange Nguci
Guillaume Connesson (1970): The Shining One per pianoforte e orchestra (2009). Maurice Ravel: Concerto per pianoforte e orchestra per la mano sinistra. Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.5 in re minore op.47.
Torino, 1 marzo 2024
A distanza di quindici giorni, ritorna, sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, il direttore quarantaduenne polacco Krzysztof Urbański che ripete nello schema dell’impaginato, nelle impostazioni esecutive e negli esiti quanto già sperimentato in precedenza. Cambia, rispetto al precedente concerto, il solista alla tastiera: Marie-Ange Nguci è la giovane franco-albanese impegnata nell’inedito, da noi, The Shining One del francese Guillaume Connesson e nel Concerto per la mano sinistra di Maurice Ravel. Il brano di Connesson si rifà a un qualche racconto esoterico che narra di un indistinto essere che illumina e richiede, nel contempo, l’estremo sacrificio ai suoi adepti. Il pianoforte concertante, con una buona dose di virtuosismo, vaga all’interno di una scrittura diatonica senza bruschi contrasti, fatta per piacere. L’orchestrazione è efficace e variata, Connesson ha in effetti una cattedra di orchestrazione nel conservatorio di Parigi, e Urbański vi si muove a suo agio con l’aiuto formidabile che sempre gli viene dalla superba collaborazione dell’ OSN RAI. Il pezzo, dieci minuti in tutto, si ascolta volentieri e non suscita sentimenti particolarmente coinvolgenti come lo stravagante argomento forse pretenderebbe nelle intenzioni dell’autore. La marcia finale verso un fanatico suicidio/sacrificio collettivo parrebbe più descrivere un’affannosa ressa ai cancelli delle Galeries Lafayette di Boulevard Haussmann, nelle prime ore dei saldi stagionali, che non un autosterminio di massa. Ravel fa del suo Concerto per la mano sinistra un gran capolavoro che non ha nulla di meno del coevo, più noto e più eseguito, concerto in SOL. L’inizio è su un cupo pedale dei contrabbassi che viene ripreso, con vaghi spunti melodici, da un inusitato controfagotto solista. Orchestrazione complessivamente fantastica che conferma Ravel ai vertici di questa tecnica. Il concerto, scritto su commissione del pianista viennese Paul Wittgenstein, rientrato dal fronte, nel 1918, privo del braccio destro è evidentemente destinato all’arto superstite dando comunque al pianista un’ampia opportunità di far valere destrezza e sensibilità. Ad un orecchio non particolarmente avvertito sicuramente può sfuggire che il suono percepito sia frutto del lavoro di una sola mano, tanto il pezzo è ben costruito per garantire alla tastiera un’assoluta ricchezza di suoni. Ravel, per garantire al solista di non soccombere nel confronto con un’orchestra in forze, ha disegnato accompagnamenti alleggeriti e soprattutto gli ha riservato ampi spazi a brillanti cadenze solistiche. Wittgenstein, grazie alle grandi disponibilità di una doviziosa famiglia di imprenditori, volendo continuare, nonostante la menomazione, l’attività concertistica, aveva richiesto ai molti contemporanei compositori “di grido”, opere analoghe che comunque gli garantissero di non venire messo in ombra da un’orchestra troppo esuberante. Urbański ha tenuto a bada le intemperanze orchestrali e Nguci ha usufruito con brillantezza degli spazi accordati. Il successo non è mancato pur se sottolineato da un pubblico diradato, più del consueto, dalla pioggia scrosciante e dal conseguente traffico caotico. Il bis è rimasto in repertorio francese: Camille Saint-Saëns la Toccata d’après le 5° concerto (l’Égyptien), 6° degli studi per piano op.111. Già allo sguardo lo spartito rappresenta una meraviglia grafica, raggruppamenti di note che paiono le fantasie geometriche dei tappeti e delle piastrelle magrebine, Nguci poi ne ha fatto un vero trionfo di vivaci filigrane, la mano destra e gli estremi acuti dello Steinway hanno restituito quanto con Ravel era stato necessariamente penalizzato. I tre quarti d’ora della 5° sinfonia di Šostakovič hanno completato il programma della serata. L’orchestra trionfa e nessuno la può frenare, meno che mai Krzysztof Urbański che viceversa ne promuove gli eccessi. Fortissimo i forti, pianissimo i piani con bruschi e improvvisi scarti di intensità. Già con la 4° di Čaikovskij, del precedente concerto, avevamo assistito a questa cura assoluta della bellezza estetica dell’attimo fuggente a detrimento del quadro complessivo. Nelle intenzioni dell’autore, questa sinfonia avrebbe dovuto essere il ravvedimento riparativo dei peccati di “formalismo occidentale” perpetrati con la precedente sinfonia n.4. Urbański questi peccati li rinnova e li espone, come meglio non si potrebbe, dando forza ad un’estetica assolutamente contemporanea della bellezza e della comunicabilità immediata. L’Orchestra galvanizzata dagli stimoli del podio ha brillato in tutti i suoi comparti, dagli splendidi archi, ai meditativi legni ai trionfanti ottoni per poi lasciarsi incanalare da percussioni perentoriamente martellate. Una valanga sonora che avrebbe meritato un altrettanto sonora cascata di applausi da un parte di un pubblico più “massiccio”.

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Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Pà” dal 05 al 10 Marzo 2024

Dom, 03/03/2024 - 20:00

Roma, Teatro Ambra Jovinelli
PA’
Drammaturgia Marco Tullio Giordana, Luigi Lo Cascio
Con Luigi Lo Cascio
da testi di Pier Paolo Pasolini
regia Marco Tullio Giordana
con la partecipazione di Sebastien Halnaut
scene e disegno luci Giovanni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
musiche Andrea Rocca
aiuto regia Luca Bargagna
foto e video Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale
QUI LA NOSTRA RECENSIONE.
“Saremo in molti a chiederci, anche dopo il centenario, quanto attuale rimarrà Pasolini, cosa di lui sarà ancora vivo e cosa ingiallito, cosa ancora “portabile” e cosa riporre nell’armadio in attesa di tornare in auge come modernariato. Non so dare a questa domanda una risposta se non con questo spettacolo ordito insieme a Luigi Lo Cascio, da tanti anni prediletto compagno di ventura. Si tratta di una cernita nell’opus pasoliniano immenso che non ha certo l’ambizione di dire “tutto” né fornire il quadro nemmeno abbozzato, ma di scegliere cosa abbiamo scoperto per noi di indispensabile, al punto da riassumerlo nel vocativo con cui lo chiamavano i ragazzi: a Pa’, per invitarlo a tirare due calci di pallone o chiedergli la comparsata in un film. Io sono stato uno di quei ragazzi, un contemporaneo, uno che avrebbe potuto averlo a portata di mano se non l’avesse considerato un maestro irraggiungibile. Insieme a lui ce n’erano altri – solo in Italia vengono in mente Sciascia, Calvino, Bobbio, Moravia, Eco e tante altre leggendarie figure – ma Pasolini era di gran lunga il preferito. Non tanto per l’assidua vigilanza sui temi del giorno, quanto per la passione e l’imprevedibilità nel trattarli. Senza contare il Cinema, senza contare la Poesia, dove ritrovavo le stesse provocazioni, gli stessi stimoli, ma come se tutto fosse stato risolto in una Forma e apparisse perciò meno doloroso, meno disperato di quanto trapelava negli articoli o nella prosa militante. Quanta rabbia in lui a scrivere, quanta in noi a leggerlo, strana la sensazione di intimità e irritazione, come davanti a un fratello maggiore infinitamente dotato, amatissimo e indisponente. Dopo il suo assassinio non mi sono mai chiesto cosa restasse di lui, mentre me lo chiedevo sempre per i suoi detrattori. La perdita di una formidabile e autorevolissima figura pubblica era sotto i nostri occhi, pazienza per quelli che non l’hanno capito al volo. Per molti fu necessario aspettare l’avverarsi delle “profezie”, il giungere puntuale di ciò che aveva visto da lontano. Ma Pasolini non voleva essere profeta: il suo era un grido di battaglia che bisognava raccogliere per fronteggiare il declino anziché trattarlo come un visionario jettatore. Più che la desolata rappresentazione dell’Italia che non c’è più, mi colpisce oggi quanto fosse per lui necessario consumarsi e mettersi a repentaglio, addirittura “fisicamente”, per poter decifrare e descrivere il suo Paese. Qualcosa che non riguarda solo l’intelligenza ma il corpo, la carne, il sangue. Questo spettacolo cerca di dar conto proprio di questa disperata attualità, senza preoccuparsi troppo di apparire parziale o arbitrario. D’altra parte ognuno ha il suo Pasolini, com’è giusto che sia, e questo non è che il nostro. Anzi il “suo”, perché non c’è parola, virgola, capoverso che non provenga dalla sua opera tanto che potremmo definirlo un’autobiografia in versi.” Note di Regia.

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Roma, Palazzo Merulana: La bellissima mostra “Antonio Donghi. La magia del silenzio”

Dom, 03/03/2024 - 19:24

Roma, Palazzo Merulana
ANTONIO DONGHI. LA MAGIA DEL SILENZIO
Roma, 03 Marzo 2024
Antonio Donghi, figura di spicco nel panorama del Realismo Magico, incarna un connubio unico tra realtà e immaginazione, come descritto dal maestro Massimo Bontempelli. Bontempelli, pioniere del movimento in Italia, sottolineava che l’immaginazione non si traduce in arbitrio o ambiguità, ma si manifesta attraverso una precisione realistica dei dettagli, una solidità materica che si fonde con un’atmosfera di magia, aprendo varchi verso dimensioni inedite. Il soprannome di Donghi, “il pittore che fuggiva il vento”, è emblematico per descrivere l’essenza dei suoi dipinti. Le sue opere sono permeate da un’atmosfera sospesa, un “movimento immoto” che cattura l’osservatore. Nelle pennellate di Donghi si cela una realtà quotidiana intrisa di un fascino malinconico e nostalgico, capace di trasportare chi osserva in una dimensione quasi onirica. Attraverso la sua pittura, Donghi ci invita a immergerci in un mondo in cui il tempo sembra dilatarsi, in cui il passato e il presente si fondono in una singolare armonia. Le sue opere non sono semplici rappresentazioni visive, ma veri e propri racconti che rivelano la profondità dell’animo umano e la complessità delle relazioni tra l’uomo e il suo ambiente. In Donghi troviamo dunque non solo un abile manipolatore della tecnica pittorica, ma un narratore che attraverso il pennello dipinge le emozioni e le percezioni che altrimenti rimarrebbero celate nell’ombra dell’inconscio. Il suo contributo al Realismo Magico italiano è indiscutibile, e il suo lascito artistico continua a incantare e a ispirare generazioni di appassionati d’arte. Sfruttando le lezioni apprese dal movimento cubista, Donghi si è avventurato in una ricerca di quella che potremmo definire una “concretezza astratta”, una sorta di superrealismo che, sotto la sua apparenza verista, cela un nucleo di trasformazione fantastica. Così prende forma il suo universo personale, come ricordato dagli organizzatori della memorabile retrospettiva a Palazzo Reale di Milano. Questo mondo è abitato da una variegata gamma di personaggi: saltimbanchi, giocolieri, canzonettisti, cantanti e attricette da avanspettacolo. Ma non solo: vi si trovano anche “attori” inconsapevoli come cacciatori, pescatori, fanciulle e giovani amanti, tutti avvolti in una luce fissa e meditativa. È un universo apparentemente ordinario, ma che riflette in realtà una realtà “altra”, straniante, quasi surreale. Il realismo pittorico di Donghi si manifesta in una precisione esasperata, sia nella levigata resa dei dettagli che nella definizione geometricamente precisa delle coordinate spaziali. Ogni elemento della sua composizione è trattato con una scrupolosa attenzione, rendendo ogni figura e ogni oggetto quasi tangibili. Questa ricerca della perfezione formale si combina con una profonda sensibilità nei confronti del soggetto, trasmettendo un senso di magia e straniamento che pervade tutto il dipinto. Attraverso la sua opera, Donghi ci invita a esplorare un mondo sospeso tra il reale e l’immaginario, in cui le frontiere tra sogno e realtà si sfumano. La sua capacità di fondere elementi cubisti con un’estetica realistica porta alla creazione di opere che vanno oltre la mera rappresentazione visiva, offrendoci uno sguardo privilegiato su una dimensione alternativa della vita quotidiana. La bellissima e ben curata mostra a Palazzo Merulana curata da Fabio Benzi mira a esplorare non solo le fonti culturali eclettiche che hanno influenzato l’opera di Donghi, ma anche il ruolo chiave che alcune collezioni pubbliche romane hanno svolto nel promuovere e diffondere la sua arte. Attraverso le collezioni della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma, della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, della Banca d’Italia, della collezione UniCredit (precedentemente della Banca di Roma) e della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, la mostra presenta i nuclei più significativi del percorso artistico di Donghi. La mostra include oltre trenta opere, principalmente acquisite direttamente dalle principali mostre del tempo, come le Biennali di Venezia e le Quadriennali di Roma, o provenienti dal mercato dell’arte, rendendole accessibili al pubblico. La disposizione degli spazi nel piano del Palazzo consente una fruizione agevole e un’immersione completa nella mostra. Le pareti bianche fungono da tela neutra, esaltando i colori e le forme dei quadri, mentre la disposizione equilibrata e visivamente accessibile al pubblico evita eccessivi fronzoli e complicazioni. Le didascalie su pannelli neri, presentate in tre lingue, sono chiare e complete, senza aggiunte superflue. Sebbene alcuni spazi possano sembrare corridoi di passaggio, piuttosto che aree di sosta, nel complesso l’organizzazione risulta lineare e ben strutturata. Le luci, semplici ed efficaci, sono posizionate strategicamente per mettere in evidenza le opere senza creare incroci disorientanti, garantendo una diffusione luminosa equilibrata. Questa scelta illuminotecnica contribuisce alla fruizione ottimale della mostra, senza sacrificare la bellezza estetica a favore di complicazioni visive. La mostra così concepita offre una panoramica completa del percorso artistico di Donghi e consente con grande immediatezza di comprendere appieno il suo contributo all’arte del XX secolo. Riconsiderare il ruolo e le aspirazioni di questo artista, così chiuso e enigmatico, ma al tempo stesso capace di creare opere uniche e suggestive, è un passo importante per approfondire la nostra comprensione della sua arte. Da vedere.

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Milano, Piccolo Teatro Strehler: “La Locandiera”

Dom, 03/03/2024 - 10:30

Milano, Piccolo Teatro Strehler, Stagione di prosa 2023/24
LA LOCANDIERA”
di Carlo Goldoni
Mirandolina SONIA BERGAMASCO
Ortensia MARTA CORTELLAZZO WIEL
Il cavaliere di Ripafratta LUDOVICO FEDEDEGNI
Il marchese di Forlipopoli GIOVANNI FRANZONI
Il conte di Albafiorita FRANCESCO MANETTI
Servitore GABRIELE PESTILLI
Dejanira MARTA PIZZIGALLO
Fabrizio VALENTINO VILLA
Regia Antonio Latella
Drammaturgia Linda Dalisi
Scene Annelisa Zaccheria
Costumi Graziella Pepe
Musiche e Suono Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Produzione Teatro Stabile dell’Umbria
Milano, 25 febbraio 2024
La produzione del “Piccolo“ di Milano de “La locandiera“ di Goldoni solleva alcuni punti interrogativi, cui non siamo certi di poter rispondere, né che sia compito del ponderoso programma di sala scioglierli. Ma non servono forse a questo le grandi produzioni, cioè a porci davanti grandi quesiti? Tendenzialmente sì, anche se preferiremmo che queste domande riguardassero ciò che è fuori dalla scena e non ciò che vi vediamo rappresentato. Leggendo anche solo la pagina web dello spettacolo, sul sito del teatro, il primo interrogativo riguarda l’effettiva ragione che dovrebbe spingere qualcuno a leggere nel testo goldoniano una (cito testualmente) “grande operazione civile”, quando è da circa trecento anni che vi leggiamo “semplicemente” (giacché e cosa tutt’altro che semplice) uno dei massimi esempi di commedia borghese di epoca moderna. Ad escludere la lettura “civile” legata allo women empowerment, che già negli anni Settanta si era proposta, è la natura profondamente conservatrice non solo del teatro goldoniano, ma dell’esperienza intellettuale e di vita dell’autore stesso (zelante collaboratore dell’ancien régime, caratterizzato da una visione del rapporto tra i sessi come una “partita da vincere”, probabilmente non del tutto soddisfatto, ma ineludibilmente prono ad essa, come si evince in molte tra le opere più celebri – ad esempio le due “Trilogie”, “Il ventaglio” e proprio “La locandiera”). Eppure, evidentemente, per la dramaturg Linda Dalisi e il regista Antonio Latella questa lettura è riduttiva – non ci spingeremo a dire “erronea” – e non sufficiente per calcare di nuovo le scene (si parla chiaramente di “mediocrità” dei contemporanei nei confronti del testo). Lo spettacolo cui assistiamo, dunque, somiglia più a una specie di Ibsen che a Goldoni, in special modo nella prima parte, cioè fino allo svenimento di Mirandolina; la seconda ritrova un certo brio contemporaneo, un po’ à la Woody Allen, ma tutto sommato godibile, fino alla scena finale, con una Mirandolina di spalle al pubblico e, infine, quasi affranta, stremata da una fatica di vivere che, onestamente, in Goldoni non c’è. Il resto è per lo più trovate registiche di Latella, a volte più riuscite (tutta la gestione del Marchese, ad esempio) altre meno (baci omo e chitarra suonata, entrambi fuori contesto). Tutto è pervaso da un senso di attesa, come se qualcosa di altro, fuori dal testo e dalla scena, debba accadere: una tensione, una leggera frenesia che però, in fin dei conti, si risolve con un nulla di fatto, giacché questa sottile angoscia è evidentemente posticcia, è una chiave di lettura che non apre il testo a nuove prospettive, ma semplicemente gliele impone come meglio può. La scena di Annelisa Zaccheria, pure, è algida, minimale, così come i costumi contemporanei di Graziella Pepe, non belli, né apparentemente pensati davvero; le luci di Simone De Angelis sono senz’altro la parte più interessante di questa messa in scena: a loro il merito di rendere credibile la scelta registica, ricreando sovente atmosfere rarefatte e soffocanti, di sicuro effetto. Per il resto la produzione, svuotata com’è della forza testuale, si regge sul solido ed indiscutibile talento degli interpreti, a cominciare da Sonia Bergamasco, capace di passare in un momento dal ritmo della commedia a un’impressionante profondità; in lei tutto è fluido e potente, controllato e incisivo; per lei è venuta la maggior parte dei presenti in sala e non tradisce minimamente le aspettative, riconfermandosi una delle migliori interpreti nel nostro Paese. Accanto a lei, tuttavia, il resto del cast si difende bene, a partire dalle altre due attrici, Marta Pizzigallo e Marta Cortellazzo Wiel nei ruoli comico-grotteschi di Dejanira e Ortensia, cui è demandato il compito di strapparci qualche sorriso; l’altro personaggio che mantiene una qualche vis comica è il Marchese di Forlipopoli, ben incarnato in Giovanni Franzoni, che riesce con maestria a scivolare tra le gag mantenendo una ancor più comica seriosità; certo anche la prova di Ludovico Fededegni è notevole: l’amarezza e la difficoltà d’amare del Cavaliere di Ripafratta in lui vengono esaltate, e l’attore ne cava una interpretazione acuta, raffinata, forse alla lunga un po’ stucchevole, ma senza dubbio coinvolgente; similmente si potrebbe dire del Conte d’Albafiorita di Francesco Manetti, per quanto più bidimensionale. Gli attori che ci hanno più colpito per misura e presenza scenica, oltre all’aderenza ai personaggi, sono Gabriele Pestilli, nella parte del servitore del Cavaliere, e, soprattutto, Valentino Villa come Fabrizio, che riesce a trarre il suo personaggio dalle letture limitate che se ne danno, per regalarci in primis un uomo, non una macchietta buffa, e nella fattispecie un uomo seriamente innamorato. Il pubblico in sala non dà segni di effettivo piacere o meno, ma è evidentemente disorientato: lo si capisce dal fatto che i pochi che ridono, ridono non per quello che effettivamente avviene in scena, ma per quello che si aspetterebbero avvenisse – una sorta di risata della forca, nervosa, più che liberatoria. Sul finale grandi applausi per Sonia Bergamasco, meritatissimi come sempre. A noi resta solo un quesito: quand’è che certo teatro Teatro (con la “t” maiuscola, cui Latella indiscutibilmente appartiene), la smetterà di accanirsi sul pubblico disorientandolo, e tornerà in pace con esso? Foto Gianluca Pantaleo

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