Roma, Museo dell’Arte Salvata
NUOVI RECUPERI
curata da Alfonsina Russo, Sara Colantonio e Maria Angela Turchetti
Roma, 26 giugno 2025
Ogni civiltà si misura nella sua capacità di custodire la propria continuità materiale, di elaborare le fratture del tempo e di trasformare i residui della storia in strumenti di conoscenza collettiva. In questa prospettiva, la riapertura del Museo dell’Arte Salvata presso l’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano non rappresenta soltanto un evento museografico, bensì una dichiarazione culturale: un atto consapevole di riappropriazione e riflessione sull’identità storica attraverso la tutela dei suoi lacerti dispersi. La mostra inaugurale, significativamente intitolata Nuovi recuperi, è curata da Alfonsina Russo, Sara Colantonio e Maria Angela Turchetti. Essa documenta le principali operazioni di recupero condotte tra il 2022 e il 2025 dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, in stretta collaborazione con il Museo Nazionale Romano, il Dipartimento per la Valorizzazione, l’Istituto Centrale per il Restauro e una fitta rete di istituzioni scientifiche e giuridiche. Si tratta, in effetti, di una geografia composita di restituzioni, ricognizioni e negoziati internazionali che mette in scena la dimensione più attiva dell’archeologia come scienza dell’interruzione e della ricomposizione. Il museo riapre con ingresso gratuito fino al 31 agosto, e sarà successivamente incluso nel circuito del biglietto unico del Museo Nazionale Romano. Un dettaglio che conferma la volontà di integrare questa nuova sede in un sistema museale articolato, che riflette topograficamente e concettualmente la stratificazione della capitale. La selezione delle opere esposte si struttura come un corpus di casi esemplari, ognuno dei quali testimonia non solo il valore artistico e storico dei manufatti, ma anche la trama investigativa che ne ha consentito il rientro nel perimetro della legalità e della fruizione pubblica. Si segnala, tra le prime sezioni, la serie di urne etrusche policrome provenienti da Città della Pieve, accompagnate da due sarcofagi e relativi corredi. Si tratta di reperti ricondotti a una necropoli della famiglia Pulfna nel territorio chiusino, trafugati nel corso di scavi illeciti e individuati grazie a un’articolata operazione di indagine coordinata dalla Procura di Perugia, coadiuvata da analisi di immagini, intercettazioni e sorvoli con droni. La restituzione di tali manufatti, databili tra il III e il II secolo a.C., rappresenta uno degli interventi più significativi nella storia recente del recupero archeologico in Italia. Altrettanto rilevante è il rimpatrio di una statua bronzea di età ellenistica, ritrovata in Belgio durante l’operazione “Fenice” del 2023. Il bronzo raffigura un togato maturo, con evidenti caratteri di individualizzazione fisiognomica, e reca un’iscrizione dedicatoria in lingua etrusca. L’opera si inserisce in una tipologia connessa ai bronzi votivi recentemente rinvenuti nel santuario del Bagno Grande a San Casciano dei Bagni, rafforzando ipotesi di continuità artigianale tra diverse aree dell’Etruria interna. Un altro nucleo centrale è costituito dalle lastre ceretane a figure dipinte del VI–V secolo a.C., trafugate da Cerveteri e identificate come parte della medesima serie sequestrata a Ginevra nell’operazione “Antiche dimore” del 2014. La loro ricomparsa a New York e il conseguente sequestro confermano l’efficacia della Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, oggi affiancata dal sistema S.W.O.A.D.S., piattaforma basata su intelligenza artificiale, che incrocia dati visivi e testimonianze per individuare i flussi illeciti di oggetti archeologici. La mostra restituisce poi una selezione di reperti provenienti da paesi terzi, come Siria, Iraq ed Egitto, in attesa di rimpatrio. Tra essi spicca l’antefissa della Potnia Theron, divinità arcaica legata al mondo selvatico, trafugata dal santuario di Ardea e ritrovata presso l’Israel Museum di Gerusalemme. Il suo ritorno in Italia, sancito nel 2022 da un accordo culturale con il Ministero della Cultura israeliano, rappresenta una tappa simbolicamente densa di una diplomazia culturale fondata sulla reciprocità e sul principio della provenienza lecita. Una sezione di grande impatto etico è quella dedicata alle restituzioni spontanee da parte di cittadini e collezionisti privati. Esemplare in tal senso è il caso delle cinque maschere teatrali marmoree del I secolo d.C., restituite da un collezionista statunitense tramite il Consolato italiano di New York. Si tratta di una forma di collaborazione che testimonia una mutata sensibilità nei confronti della proprietà culturale e delle responsabilità derivanti dalla detenzione di beni di incerta provenienza. Ulteriori capitoli dell’esposizione approfondiscono casi specifici di sequestri internazionali: dalle armature in bronzo e gli elmi magno-greci individuati nelle aste di New York, ai busti terracotte restituiti dal Metropolitan Museum, fino alle placchette in ambra con raffigurazioni mitiche rinvenute nei depositi di un noto antiquario londinese e rimpatriate grazie all’intervento congiunto della magistratura italiana e statunitense. Completa il percorso una raffinata campagna fotografica a cura di Silvana Editoriale, integrata da un catalogo scientifico che raccoglie saggi di archeologi, storici dell’arte, giuristi e restauratori. L’apparato iconografico, volutamente sobrio, evita qualsiasi estetizzazione, prediligendo un registro visivo capace di trasmettere il carattere materico e la dignità originaria dei manufatti. Nel loro insieme, le opere esposte non raccontano solo la storia dell’arte antica, ma restituiscono la densità politica della tutela, il valore simbolico della restituzione, la funzione civile della conservazione. Esse mettono in luce la vulnerabilità strutturale del patrimonio culturale, costantemente esposto a rischi di espropriazione e sottrazione, e al tempo stesso ribadiscono il ruolo attivo dello Stato e dei cittadini nel processo di ricostruzione dell’identità storica. In questo senso, il Museo dell’Arte Salvata non è un semplice luogo espositivo, ma un dispositivo culturale stratificato: laboratorio di etica pubblica, archivio delle fratture, palinsesto della ricomposizione. Qui, la memoria non è solo oggetto da contemplare, ma processo da difendere, riscrivere e condividere. Non una celebrazione del passato, ma un atto di responsabilità verso ciò che ci costituisce.
Roma, Palazzo Bonaparte
ELLIOTT ERWITT. Icons
curata da Biba Giacchetti con l’assistenza tecnica di Gabriele Accornero
prodotta e organizzata da Arthemisia
in collaborazione con Orion57 e Bridge Consulting Pro
Main partner della mostra la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale con Fondazione Cultura e Arte e Poema
special partner Ricola
mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale
sponsor tecnico Ferrari Trento
Roma, 27 giugno 2025
«Photography is an art of observation. It’s about finding something interesting in an ordinary place.» (Elliott Erwitt)
C’è un tipo di fotografia che non si limita a fermare l’istante, ma lo riformula, lo scompone e lo restituisce al mondo sotto forma di epifania gentile. Elliott Erwitt è stato maestro in questa alchimia silenziosa. La retrospettiva Icons, ora a Roma presso Palazzo Bonaparte dopo l’applaudita tappa pisana, è più di una mostra: è un archivio dell’ironia, una camera oscura dell’intelligenza visiva, una rivelazione della grazia nel quotidiano. Erwitt è stato uno dei pochi fotografi capaci di coniugare la raffinatezza compositiva con l’irriverenza controllata, l’intuizione lirica con la precisione giornalistica. Il suo scatto non è mai decorativo, ma assertivo; mai contemplativo, ma attivamente partecipativo nella dinamica dell’osservazione. Le sue immagini non spiegano, ma insinuano, ed è proprio in questa apertura semantica che risiede la loro forza: lo spettatore è convocato non a capire, ma a sentire. A Roma, ottanta fotografie sono esposte con un rigore che esclude ogni concessione al sentimentalismo. Curata da Biba Giacchetti – in dialogo diretto con Erwitt stesso prima della sua scomparsa – la selezione raccoglie alcuni degli scatti più celebri della storia della fotografia del secondo Novecento: Nixon e Kruscev, Jackie Kennedy al funerale del marito, l’incontro tra Muhammad Ali e Joe Frazier, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe, Che Guevara, e poi, naturalmente, i cani. Ma ridurre Erwitt a una galleria di ritratti sarebbe un grave errore: ogni suo soggetto, famoso o anonimo, è un veicolo attraverso cui si manifesta una concezione più ampia della visione. Per Erwitt, la fotografia è uno strumento morale. Non nel senso della denuncia o della retorica, ma nella sua capacità di essere giusta, esatta, proporzionata. Il fotografo non si erge mai sopra il mondo: vi si immerge con discrezione e humour. È questo humour – elegante, calibrato, a tratti aforistico – a rendere il suo lavoro unico. A differenza di tanti autori che hanno fatto della serietà il loro marchio di fabbrica, Erwitt sa che il riso è una forma superiore di pensiero. In uno dei suoi scatti più noti, un cane minuscolo, tutto gambe, posa accanto a un padrone tagliato all’altezza dei polpacci. La composizione è perfetta, ma il significato è eccentrico: chi comanda? Chi osserva chi? In questa domanda si nasconde una riflessione sulla gerarchia, sul punto di vista, sull’antropocentrismo stesso. Il cane, nella fotografia di Erwitt, non è un vezzo né una caricatura. È, al contrario, un alter ego dell’umano, un complice, un soggetto dotato di statuto ontologico. Lo sguardo canino, spesso sorpreso grazie a piccoli espedienti – trombette, finti abbai – è più autentico di quello umano, perché privo di sovrastrutture. Erwitt ha costruito una vera e propria iconografia della presenza animale, sovvertendo il canone del ritratto urbano con un umorismo che non graffia, ma intenerisce. Anche nei ritratti dei grandi personaggi storici, l’approccio è sempre lo stesso: abbattere la distanza. Jackie Kennedy non è una first lady, ma una donna ferita; Nixon non è un presidente, ma un corpo in tensione; Ali è colto nel momento in cui il pugno diventa gesto estetico, la boxe una danza. Erwitt non cerca mai l’effetto, ma l’equilibrio. Eppure, nelle sue fotografie, tutto è potenzialmente sovversivo, perché ogni immagine nasconde un cortocircuito narrativo. Il suo bianco e nero non è uno stile: è una necessità. Il colore, per Erwitt, era una distrazione. Il bianco e nero, invece, gli permetteva di restare essenziale, di avvicinarsi alla struttura profonda della scena, alla sua ossatura semantica. Non c’è mai una luce compiaciuta o un’ombra retorica: tutto è al servizio di quella sospensione percettiva che permette allo spettatore di proiettarsi dentro la fotografia. Molto più di altri autori coevi – si pensi a Doisneau o a Winogrand – Erwitt ha saputo fondere l’immediatezza del gesto fotografico con una costruzione mentale sofisticatissima. Ogni sua immagine, pur nata in strada, vive della medesima architettura interna di un haiku. Nulla è superfluo, tutto è essenziale. Il suo è un pensiero visivo che si è fatto stile, e il suo stile è diventato linguaggio. Visitare la mostra di Palazzo Bonaparte significa misurarsi con un’intelligenza visiva fuori dal tempo, capace di illuminare anche l’oggi. Roma, con la sua stratificazione di epoche e contraddizioni, è il luogo perfetto per ospitare un autore che ha sempre lavorato sulle dissonanze: tra il tragico e il comico, tra la compostezza e il grottesco, tra la storia e la sua disarticolazione. Non c’è bisogno di conoscere i contesti per entrare nelle sue immagini: esse parlano direttamente a quella parte di noi che ancora riesce a sorridere nel momento più inatteso. In un’epoca che ha dimenticato il potere dell’osservazione lenta, della riflessione visiva, della costruzione di senso attraverso l’apparente insignificanza, la lezione di Elliott Erwitt resta un faro. Perché ci ricorda che la fotografia, quando è autentica, non mostra: rivela. Non intrattiene: spiazza. Non urla: sussurra. Con garbo. Con precisione. E con un’intelligenza che ci riguarda, perché ci umanizza.
Teatro dell’Opera di Roma – Nuovo allestimento
Basilica di Massenzio
LA RESURREZIONE
Oratorio in due parti di Georg Friedrich Händel
Per la prima volta la Basilica di Massenzio, nel cuore del Foro Romano, accoglie un’opera sacra in forma scenica. La Resurrezione di Händel, composta nel 1708 per la Roma del tardo Barocco, viene riproposta in un nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma che unisce la potenza della musica antica al linguaggio teatrale contemporaneo, in un luogo dove le pietre stesse sembrano trattenere il respiro del tempo. La direzione musicale è affidata a George Petrou, interprete tra i più autorevoli del repertorio händeliano, che guida l’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori in una lettura appassionata e filologica, capace di restituire tutto il fervore espressivo della partitura. Accanto a lui, la regista Ilaria Lanzino firma una messa in scena elegante e visionaria, in dialogo diretto con l’architettura monumentale della Basilica, dove il sacro si fa spettacolo e la liturgia si apre all’invenzione scenica. Le scene sono ideate da Dirk Becker, mentre i costumi sono curati da Annette Braun. Cinque voci danno corpo e voce a personaggi che rappresentano la luce e l’ombra, la speranza e la perdizione. Sara Blanch è un Angelo luminoso e partecipe, Ana Maria Labin restituisce a Maddalena tutta la sua dolente umanità, Teresa Iervolino dà profondità a Cleofe con il suo timbro scuro e caldo. Charles Workman veste i panni di un San Giovanni intenso e spirituale, mentre Giorgio Caoduro presta forza e carisma a un Lucifero magnetico e tormentato. La Resurrezione non è solo una narrazione sacra: è un viaggio musicale e teatrale attraverso l’attesa, il dubbio e infine la luce. La scelta della Basilica di Massenzio come palcoscenico non è casuale: è un modo per riscoprire il Barocco dentro la Roma imperiale, creando una cesura emotiva e culturale tra ciò che è stato e ciò che può rinascere. In questo incontro tra Händel e le rovine, tra oratorio e rappresentazione, lo spettatore è invitato non solo ad ascoltare, ma a immergersi in un’esperienza che unisce l’intimo e il collettivo, il gesto musicale e la memoria archeologica. Il progetto rappresenta un passo importante nel percorso di apertura del Teatro dell’Opera di Roma verso la città e i suoi luoghi simbolici, trasformando lo spazio urbano e monumentale in teatro vivente. Un’operazione che riscrive il concetto di allestimento site-specific, non come semplice ambientazione, ma come vera rigenerazione del contesto storico attraverso il potere della musica. Per informazioni e prenotazioni www.operaroma.it