Dramma per musica in due atti su libretto di Giovanni Schmidt. Serena Farnocchia (Elisabetta), Patrick Kabongo (Leicester), Mert Süngü (Norfolc), Veronica Marini (Matilde), Mara Gaudenzi (Enrico), Luis Aguilar (Guglielmo). Kraków Philharmonic Chorus, Marcin Wróbel (maestro del coro), Kraków Philharmonic Orchestra, Antonino Fogliani (direttore). Registrazione: Juliusz Słowacki Theatre, Kraków, 3 – 4 luglio 2021 e Offene Halle, Bad Wildbad 21 luglio 2021. 2 CD NAXOS 8.660538-39
Il ciclo delle registrazioni rossiniane pubblicate da Naxos e registrate al Festival di Bad Wildbad prosegue con “Elisabetta regina d’Inghilterra” composta per Napoli nel 1815. Si tratta di un lavoro assai interessante pur nei suoi elementi sperimentali. Rossini da un lato esalta al massimo i modelli della tradizione neoclassica dall’altro compie significativi passi sulla strada del romanticismo incipiente. Tratta da un romanzo contemporaneo di Sophie Lee e ambientata nell’Inghilterra Tudor segna già in queste scelte una rottura rispetto ai soggetti tradizionali rafforzata dalla scelta di scrivere la parte di Leicester per tenore in loco del tradizionale contralto.
Opera quindi in sospeso tra passato e futuro e proprio per questo difficile da cogliere nella sua cifra stilistica. La presente edizione è per fortuna guidata dalla solida mano di Antonino Fogliani. Direttore sensibile e profondo conoscitore di questo repertorio di cui sa cogliere al meglio ogni aspetto. Quella che si ascolta è una direzione tesa, dall’andamento marcato e dalle sonorità terse e squillanti ma capace di cogliere – quando richiesto – un nuovo senso cromatico più intimo e crepuscolare. Fogliani avrebbe però meritato complessi migliori di quelli a disposizione del festival. La Krakòw Philarmonic Orchestra non va oltre un onesto professionismo e nei punti più impegnativi e concitati sembra essere al limite delle proprie potenzialità, ancor meno centrata la prova del coro che nei grandi pezzi d’assieme manca di peso specifico in virtù di una formazione troppo ridotta per pagine come queste.
Il Cast, considerando il contesto e i limiti economici nel festival, esce nel complesso con onore. Serena Farnocchia è cantante esperta e dal repertorio ecclettico che spazia da Mozart a Wagner. Ovviamente non ha l’aplomb dell’autentica belcantista e nei passeggi di bravura si trova costretta a giocare in difesa. Di contro il materiale vocale è imponente e solidissimo, l’accento scandito e autorevole così che nei pezzi d’insieme, e in genere quando a dover emergere è l’autorità della regina riesce ad imporsi con sicurezza.
La parte di Leicester è forse quella più proiettata verso il futuro. Patrick Kabongo è un ragazzo di grandi qualità ma probabilmente non è stata la scelta ideale per il ruolo. La voce è molto bella e canta in modo squisito sfoggiando anche una dizione impeccabile ma resta un tenore lirico-leggero in un ruolo che richiede altro peso vocale. Così se i momenti più lirici – il duetto con Matilde – o le fiorettature dell’aria di sortita non mancano di suggestione la grande scena del carcere “Sposa amata” manca di quell’intensità già pienamente romantica che dovrebbe esprimere.
La parte di Norfolc è un autentico cimento virtuosistico – non a caso era tra i cavalli di battaglia del sommo Blake. Mert Süngü al netto di qualche patteggiamento ne viene validamente a capo riuscendo anche a dare un riuscito taglio interpretativo e a non farsi travolgere dall’impegno vocale. Purtroppo le voci dei due tenori sono fin troppo simili così nel duetto “Deh! scusa i trasporti” manca quella contrapposizione timbrica che sarebbe necessaria.
La giovane Veronica Marini è una Matilde piacevole. Un po’ trattenuta nel primo atto prende corpo nel secondo trovando la giusta intensità nella scena con Elisabetta. E’ giovane e forse nel complesso la prova risulta ancora un po’ acerba il che è pianamente comprensibile considerando la giovane età e la scarsa esperienza. Mara Gaudenzi (Enrico) e Luis Aguilar (Guglielmo) affrontano con attenta professionalità le loro parti.
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
“SALOME”
Dramma musicale in un atto, su libretto di Hedwig Lachmann tratto dall’omonimo dramma di Oscar Wilde.
Musica di Richard Strauss
Herodes NIKOLAI SCHUKOFF
Herodias ANNA MARIA CHIURI
Salome LIDIA FRIDMAN
Jochanaan BRIAN MULLIGAN
Narraboth ERIC FENNELL
Ein Page der Herodias MARVIC MONREAL
Funf Juden ARNOLD BEZUYEN, MATHIAS FREY, PATRICK VOGEL, MARTIN PISKORSKI, KARL HUML
Zwei Nazarener WILLIAM HERNANDEZ, YAOZHOU HOU
Zwei Soldaten FREDERIC JOST, KARL HUML
Ein Sklave YAOZHOU HOU
Ein Kappadozier DAVIDE SODINI
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Alexander Soddy
Regia Emma Dante
Scene Carmine Maringola
Costumi Vanessa Sannino
Luci Luigi Biondi
Coreografia Silvia Giuffrè
Firenze, 27 aprile 2025
Uscendo dalla gremitissima Sala Grande del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, oltre ad aver percepito la complessità dell’opera e lo strappo con la tradizione, ecco una serie di considerazioni. Lo spettatore si è trovato catapultato in una scena presente per gran parte della rappresentazione: la grande maschera de L’Orco delle favole del Parco dei Mostri di Bomarzo, senza nessun suono dell’orchestra, quasi ‘ingresso magico’, illuminata dalla luna «fiore d’argento, freddo e casto», allude fin dall’inizio a una sinistra narrazione. Il tutto può accennare ad una strana favola in cui i costumi di Vanessa Sannino ricordano i pupi siciliani che ben si armonizzano con la fantasiosa e ricca regia di Emma Dante, alla ricerca di una vivida immaginazione creativa. Oltre alla varietà del ritmo narrativo colpisce anche quello scenico tanto che, per esempio, le oscillazioni dei “bianchi pavoni” si inseriscono nei linguaggi artistici coinvolti. Il gesto di Alexander Soddy, al suo debutto al Maggio, dà voce ad una partitura che per molti aspetti si rivela una grande tavolozza strutturata per intere famiglie strumentali, post-wagneriana e ante litteram dell’Eine Alpensinfonie, con: 18 legni (compreso l’ Heckelphon, oboe baritono), 15 ottoni, 4 timpani e molti altri strumenti a percussione (grancassa, diversi tipi di tamburo, triangolo, xilofono, glockenspiel, ecc.), 2 arpe, celesta, harmonium e organo (dietro le scene) e, naturalmente, il quintetto d’archi (sovente anche divisi). In alcuni momenti si sono percepite grandi espressioni colme di nuances unite a un’incredibile potenza sonora. Protagonista un’orchestra straordinaria, dalla grande duttilità ed esperienza, restituendo immagini di magnificenza immaginativa anche in contesti in cui occorre trasformarsi rapidamente in un caleidoscopio di colori, pur attraversando le strettoie dell’atonalità o della politonalità. L’indicazione Andante mosso delle prime battute sembra anticipare un certo mistero, congiuntamente ad una messe di sensazioni contrastanti e molto altro: il ‘solo’ del clarinetto disegna un’attorcigliata scala ascendente partendo dal sol diesis grave, sostenuto dalla figura cromatica di minime, ‘trasfigurata’ dal tremolo dei violini II, poi il graduale inserimento di strumenti compresa la celesta, l’arpa (con effetto “flageoletes”), che nel presentare il motivo principale di Salome costituisce un ‘perfetto invito’ ad ascoltare la voce a tratti velata di Narraboth (Eric Fennell): «Wie schön ist die Prinzessin Salome heute nacht!». Pur dichiarando la bellezza della principessa Salome, interpretata da Lidia Fridman, personaggio fùlgido tout court, alla musica è affidata la perfetta connotazione per creare l’atmosfera e la simbiosi tra le componenti dello spettacolo: scene suggestive (Carmine Maringola), luci appropriate (Luigi Biondi) e un’elegante coreografia (Silvia Giuffrè). L’approccio di Soddy all’opera e la sua concertazione hanno ben interpretato la convergenza dei vari linguaggi, pur diversi e a tratti contraddittori, avvicinandosi alla feconda espressività straussiana.
Tuttavia la complessità non ha reso lo spettacolo faticoso o difficile poiché bastava seguire l’argomento tratto dagli Evangeli di Matteo e di Marco, confluiti nel dramma di Oscar Wilde e la successiva traduzione di Hedwig Lachmann per lasciarsi coinvolgere dalle diverse atmosfere. Dopo l’inizio in cui il Tetrarca fa incatenare Jochanaan (un convincente Brian Mulligan), alcune espressioni chiave: «Non è lecito giacere con la moglie di tuo fratello» (Jochanaan a Herodes); o «Dammi su un piatto la testa di Giovanni il Battista» (richiesta di Salome, istigata dalla madre, a Herodes) dopo la sua danza. In virtù del giuramento di quest’ultimo nella perfetta interpretazione di Nikolai Schukoff, egli è costretto a cedere. Decapitato Giovanni, si consegna la testa alla donna. La danza di Salome «regalmente adorna, col corpo d’angelo, indescrivibilmente delicata e interamente femmina» (H. Sachs), ottimamente resa dalla Fridman, suggella l’espressione «il mistero dell’amore è più grande di quello della morte», rinviando al rapporto tra Eros e Thanatos. Tutto concorre a ‘svelare l’arcano’: si pensi, per esempio, all’effetto dei contrabbassi (prendendo la corda fra il pollice e l’indice in un registro acuto dello strumento) nell’anticipare l’intervento di Salome (“Nessun suono s’avverte […] Perché egli non grida, quell’uomo?”) nel percepire la decapitazione di Jochanaan. La Salome di Strauss non è il personaggio biblico ma una dea che esprime la nevrosi e la lussuria di certi antichi personaggi femminili rivisitati in epoca decadente benché, grazie alla musica del compositore tedesco, la figura della protagonista superi quella tratteggiata da Wilde. Nel momento antecedente la morte di Salome, è ancora la partitura a restituire accordi strazianti e i vari motivi (desiderio, vendetta, ecc.) offrono percezioni che rimandano ad una sorta di castigo divino preannunciato nelle apocalissi. A chiarire invece il finale è lo stesso autore: «Questo finale è imperscrutabile, come lo è in genere la natura della donna, ed io stesso con precisione non lo so. Se lo sapessi, non sarei un artista, ma un giornalista!». Al pieno successo della parte musicale e registica già espresso sopra, va aggiunto quello degli altri personaggi della compagnia (cinque ebrei, due nazareni, due soldati, uno schiavo, un cappadoce). Considerando la natura dei ruoli, in alcuni è emersa una buona presenza scenica ed in altri anche una buona vocalità come quella di Anna Maria Chiuri (Herodias), capace di allinearsi alle altre voci che si sono distinte per la capacità di trasmettere al pubblico sia la comprensione del personaggio che le stesse emozioni.Non per ultimo si segnala il grande successo per il Maggio Musicale Fiorentino in quanto, con il ritorno dopo 15 anni di Salome, ha saputo offrire la degna inaugurazione di un grande Festival. Foto Michele Monasta
I FIGLI DELL’ISTANTE
Di Edoardo Albinati
Editore: Rizzoli
Data di Pubblicazione: 04/03/2025
Genere: Romanzo
Pagine: 696
ISBN cartaceo: 9788817174428
https://www.rizzolilibri.it/libri/i-figli-dellistante/
Nel vuoto inquieto degli anni Ottanta, tra la fine delle ideologie e l’inizio dell’era-spettacolo, Albinati orchestra una sinfonia di vite disorientate. Nessuna trama salvifica, solo istanti che decidono chi siamo – o chi non siamo stati. “Nel mezzo del cammin” degli anni Ottanta, senza che nessuno ce lo dicesse, avevamo smesso di aspettarci qualcosa. Non era ancora l’epoca della rassegnazione elegante dei Novanta, né il tempo in cui si credeva che l’agire potesse trasformare il reale. Eravamo – non solo noi ragazzi, ma anche i padri, le madri, i professori – in una zona intermedia. Un limbo emotivo e sociale, dove non si faceva più la rivoluzione ma neppure si sorrideva convinti davanti alla telecamera. È lì che si colloca I figli dell’istante: tra ciò che si è estinto e ciò che ancora non ha imparato a parlare. In quel vuoto in cui tutto può accadere, ma quasi niente accade davvero. L’istante – come suggerisce il titolo – è una categoria dell’esistenza. Quello che separa il desiderio dall’azione, l’adolescenza dall’età adulta, l’empatia dall’indifferenza. Ma anche chi resta da chi scompare. Il romanzo non è costruito attorno a un plot, ma a una serie di fratture. Quelle crepe in cui cominci a chiederti: Dov’ero io, quando succedeva? E la risposta ti resta addosso come un odore che non va più via. Nico Quell parte per il militare. Potrebbe sembrare l’inizio di un romanzo di formazione, ma è un gesto di dissoluzione. Parte per sottrarsi, per non essere più responsabile nemmeno di se stesso. Ha dentro quella specie di abulia intelligente che è il tratto distintivo di molti figli degli anni Ottanta: capaci di desiderare tutto senza scegliere nulla. Nanni Zingone, invece, si carica sulle spalle una giovane famiglia, due figli, un lavoro. È il ragazzo che ha scelto. Che ha fatto il passo. E che proprio per questo si consuma. Sono due facce della stessa generazione. Due versioni del fallimento. Attorno a loro, una moltitudine di figure si affaccia e si ritira. Come comparse in un sogno, ognuna lascia un segno, un’indicazione che non viene raccolta. Ci sono bambine che non vogliono più giocare, ragazze alla pari che si innamorano in silenzio, padri che non vogliono essere padri, madri che si aggrappano al ruolo con ferocia. E poi professori disillusi, terroristi sbiaditi, maghi da dopolavoro, vecchi che delirano e bambini che osservano. Non c’è un centro. Non c’è un asse. Ma c’è una circolazione inquieta, come di molecole in eccitazione perenne. Gli anni Ottanta, nel romanzo, non sono un contesto ma un sintomo. Non vengono descritti con nostalgia né con giudizio, ma con la precisione fredda di un entomologo. Sono gli anni delle pettinature gonfie e dei jeans slavati, ma anche dell’inerzia travestita da vitalismo, dell’egotismo moralmente presentabile. Un’epoca in cui l’individuo non si sente più parte di un disegno collettivo, ma non ha ancora trovato il linguaggio per dirsi solo. Tutti recitano la parte di chi sa cosa fare, ma nessuno si fida più del copione. Ogni gesto è un’improvvisazione. Ogni decisione, un azzardo. Ogni relazione, una zattera. Scrivere degli anni Ottanta significa raccontare la fine del tempo lungo, quello delle ideologie, dei grandi racconti. Al loro posto arrivano frammenti, deviazioni, derive. Il romanzo segue questa logica: niente trama, ma una deriva. Niente protagonista assoluto, ma una coralità stonata. E tuttavia, un ordine segreto si intuisce. Come se ogni scena sapesse dove deve andare, senza dirlo. Albinati scrive come chi scava: non cerca l’effetto, ma l’origine. Il suo linguaggio è complesso, stratificato, mai gratuito. C’è una necessità interna in ogni paragrafo. Un’urgenza. Un’ossessione. Le digressioni non distraggono: illuminano. Come lanterne accese là dove il sentiero si perde. Ci sono momenti in cui la narrazione si interrompe per riflettere sull’infanzia, sulla colpa, sull’educazione, sull’amore come possesso o come scomparsa. Ed è lì che il romanzo smette di essere racconto e diventa pensiero. Corpo vivo. Molti lettori chiederanno: Ma cosa succede, esattamente, nel libro? La verità è che non succede nulla che possa essere riassunto. Succede che si vive. Succede che si cambia. Succede che si muore. Succede che si guarda la propria vita e non la si riconosce più. E tutto questo accade, appunto, in un istante. Che non è mai solo quello che segna l’orologio, ma quello che lacera l’identità. Forse il romanzo più vero non è quello che costruisce una storia, ma quello che costruisce uno sguardo. I figli dell’istante è esattamente questo: un’educazione alla visione. Alla visione del dolore, della bellezza, della perdita. Alla visione di ciò che abbiamo preferito ignorare, per vigliaccheria, pigrizia o paura. È un libro che non giudica, ma interroga. Non consola, ma costringe. Un romanzo profondamente etico, anche se non moralista. Profondamente politico, anche se non parla di politica. Alla fine, restiamo lì, come Nico, come Nanni, come tutti gli altri. A chiederci se quell’istante fosse evitabile, se poteva andare diversamente, se siamo stati noi a causarlo oppure solo a subirlo. La risposta, sempre, è che non lo sapremo mai. Ma intanto qualcuno ha provato a raccontarlo. E questo, in un mondo che ha smesso di raccontare davvero, è già moltissimo.
Berlin, Staatsoper, Season 2024/25
“NORMA”
Tragedy in two acts, text from Felice Romani
Music Vincenzo Bellini
Norma IRINA LUNGU
Pollione STEFAN POP
Adalgisa ELMINA HASAN
Oroveso RICCARDO FASSI
Clotilde MARIA KOKAREVA
Flavio JUNHO HWANG
Staastopernchor
Staatskapelle Berlin
Musical Dicetor Francesco Lanzillotta
Chorus Master Dani Juris
Director Vasily Barkhatov
Set Zinovy Margolin
Costumes Olga Shaishmelashvil
Light Alexander Sivaev
Fight choreography Ran Arthur Braun
Dramaturgy Kai Weßler, Christoph Lang
Berlin, 26 april 2025
In a co-production with Vienna’s Theater an der Wien the Berliner Staatsoper has given us what amounts to an old fashioned “modern” German opera production, where concept dominates the original material. This can lead to new insights that come from the opera but are entirely independent of the original setting, or distract from dramatic conflicts of the original. A great opera like Norma can survive almost anything because it’s power lies in the confluence of music with the personal emotions arising out of cultural and individual conflicts. Vasily Barkhatov recognizes this but his concept serves more as a distraction which fails to heighten or clarify these feelings. It takes first rate stagecraft to connect stage actions with outside ideas and concepts must be carefully played out onstage. This where Barkhatov’s concept fails. The seemingly aimless wanderings of the women’s chorus among the religious statuary is unfocused and unrevealing and only serves to confuse the audience. Likewise Adalgisa, Pollione and Norma seem prone in their duets to very standard stage crossing and counter crossing for purely visual reasons, not to help the audience understand what is happening between the characters. Perhaps Barkhatov’s most blatant application of a modern concept comes at the end of the opera, when modern sensibilities about Norma’s impending suicide suddenly assert themselves and Pollione drags her from the fire. Her nobility, however misguided, is trivialized and the primal power of self sacrifice is transmuted into a crazy female being saved by a strong, rational man. Bellini’s music constantly belies these concepts and while it is possible to play against the outward actions of an opera it takes far more than Barkhatov has managed. This music is magical, but this was not an evening where music triumphed. Norma, as the excellent notes of the Staatsoper’s program by Kai Weßler and Christoph Lang make clear, has deep roots in the historic conflicts of Bellini’s era which strongly resonate in both Vienna and Berlin, but this opera lives and dies by the beauty and expressiveness of the music. Bellini’s melodies insinuate themselves into any audience’s consciousness, but to truly communicate through these sublimely simple melodies was given to only two of the singers, and rarely to the conductor. The Italian bass Riccardo Fassi effortlessly carried over the thick late romantic sound of the Staatsoper orchestra. His is a true chiaroscuro voice, both dark and imposing and at the same time having the high overtones which provide clarity and carrying power. He employed this instrument effectively and impressively with line and musical direction. The Adalgisa of Elmina Hasan, on the other hand drew listeners in with superb piano singing and a fine sense of line. Her voice was equal in power to both Norma’s and Pollione’s, but the atmosphere was transformed when she sang. She and the Oroveso had magic in their voices, sang the words on wonderful techniques, and showed the musical direction which Bellini so diligently created. Stefan Pop, who jumped in for Pollione – no small feat in itself – was very good. His is the right voice for the role and he effectively employed a lovely messa di voce. His high C in the aria was on the short side and a bit unsteady, and too many stock verismo Italian cliches detracted from his performance but this may have been the result of the last minute jump in.
Irina Lungu has a strong voice with decent but not breathtaking agility, and a remarkable high extension, but her Norma lacked the magic, vocal display and emotional power that are the hallmarks of a role which sets the standard for any soprano who wishes to sing this repertoire. She began her Casta Diva with attractive piano phrases but gave way to the strong but monochromatic tone which defines her voice and singing. The conductor Francesco Lanzillotta led an overly romantic and muddy rendition of Bellini’s masterpiece. From the loud and pompous opening chords to a pedestrian introduction to Casta Diva he did not provide the sure hand to guide his players to the style and sound appropriate to Bellini. His ritardandi were mechanical and not elegant. Lanzillotta was at his best when he followed sensitive singing and placed chords in recitative passages. It may be a joy to conduct an orchestra capable of such sound and power but it did not serve the music at hand. The set by Zinovy Margolin was clever and attractive, allowing for seamless scene changes which did not interrupt the drama in spite of their frequency. The noise of stagehands doing their job was a small distraction, but quite acceptable and there wasn’t a video in site: theater as we once knew it!
The costumes by Olga Shaishmelashvili, like the lighting from Alexander Sivaev were nondescript and generalized, presumably to emphasize the collective and universal nature of the concept, which is at odds with the opera’s stunning concentration on the individual. An intellectual approach to an opera which relies on the magic of inspiration and sublime music is a daunting task. We can be grateful that the Staatsoper has tried, but regret that Bellini’s genius only occasionally emerged. Even through a glass darkly, Norma is worth hearing. Photo Bernd Uhlig
Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Costanzi
Stagione Sinfonica 2024/ 2025
La Gloria di Primavera celebra i trecento anni dalla scomparsa di Alessandro Scarlatti
Il Teatro dell’Opera di Roma rende omaggio ad Alessandro Scarlatti, a trecento anni dalla sua scomparsa, con il concerto La Gloria di Primavera, in programma lunedì 28 aprile alle 20. L’evento, realizzato in collaborazione con il Ministero dell’Università e della Ricerca e il Conservatorio di Palermo, arriva nella capitale dopo la prima tappa al Teatro Massimo di Palermo e sarà seguito da un’ulteriore esecuzione al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli il 29 aprile. Protagonista della serata l’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori Italiani, diretta da Ignazio Maria Schifani, al suo debutto al Costanzi. Sul palcoscenico anche cinque solisti: Jiayu Jin (Primavera), Martina Licari (Estate), Chiara Brunello (Autunno), Luca Cervoni (Inverno) e Antonino Arcilesi (Giove). La Gloria di Primavera, serenata mai eseguita prima all’Opera di Roma, è un capolavoro maturo di Scarlatti, riportato all’attenzione del pubblico solo in tempi recenti, dopo secoli di oblio. Commissionata nel 1716 dal principe napoletano Gaetano d’Aragona per celebrare la nascita dell’arciduca Leopoldo, la serenata unisce splendore musicale e suggestioni allegoriche: le quattro stagioni, personificate, si sfidano per la supremazia, mentre Giove decreta la vittoria della Primavera, simbolo del rinnovamento dinastico. Il libretto non manca di riferimenti storici alla guerra di successione spagnola e alla pace di Utrecht, restituendo un ritratto vivido dell’Europa del primo Settecento. Ignazio Maria Schifani, clavicembalista, organista e direttore palermitano di fama internazionale, guida l’ensemble barocco, fondato a Palermo nel 2016 e già riconosciuto per l’interpretazione raffinata del repertorio antico. Con questo concerto si apre il percorso sinfonico della Stagione 2024/25 dell’Opera di Roma, che proseguirà il 10 maggio con James Conlon e si concluderà il 26 settembre 2025 con il debutto di Diego Ceretta. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL MEDICO DEI MAIALI
con Luca Bizzarri, Francesco Montanari, David Sebasti, Mauro Marino
testo e regia di Davide Sacco
scene Luigi Sacco
costumi Annamaria Morelli
luci Luigi Della Monica
musiche Davide Cavuti
aiuto regia Claudia Grassi
amministratore di compagnia Luigi Cosimelli
Ente Teatro Cronaca, LVF-Teatro Manini di Narni
Roma, 24 aprile 2025
Davide Sacco si muove come un rabdomante nella terra desolata del Potere. E nel suo Medico dei maiali, in scena al Teatro Quirino, cesella – tra le pieghe di Shakespeare e le fenditure gelide di Carl Schmitt – una favola nera che odora di stalla, di morte, di sovversione impossibile. Qui il Potere è una peste sottile: chi lo sfiora, chi tenta di guarirlo, ne resta contaminato irrimediabilmente. La scena si apre su un’immagine quasi beckettiana: un corpo in ginocchio, la resa e la morte consumate in pochi battiti d’occhio. “THE KING IS DEAD”, sibila il neon livido sopra le nostre teste: e già tutto è compiuto, già tutto è compromesso. Un re d’Inghilterra, mai nominato, cade trafitto non da un nemico ma da mani fidate, da consiglieri che si proclamano salvatori della patria. Nulla di nuovo, penserete. Eppure Sacco, con una lingua che frusta e accarezza, che si fa bisturi e veleno, ci racconta l’eterno ritorno della dissoluzione morale con una freschezza tanto feroce da sembrare antica. Per certificare la morte del sovrano – e il suo assassinio che deve restare impunito – non c’è un medico di corte, bloccato dalla tempesta. Arriva invece un veterinario di maiali (un meraviglioso Luca Bizzarri, capace di affondare il suo talento comico in una recitazione di acciaio e tenerezza), improvvisato coroner, testimone e al tempo stesso artefice di una rivoluzione abortita. Il suo avversario designato, Francesco Montanari, interpreta il principe ereditario Eddy: idiota, cocainomane, involontario clown vestito da nazista a un gay pride. Un Enrico V capovolto, che all’ardore idealista sostituisce la vanità fatuamente criminale. E in questo ribaltamento, Sacco piazza il suo capolavoro: Eddy, pupazzo nelle mani del veterinario, inizia a respirare il profumo inebriante del comando, mutando in tiranno il suo ghigno ebete. Sacco orchestra questo duello di metamorfosi – tra servo e padrone, tra burattinaio e burattino – con una scrittura che evoca, più che imitare, Shakespeare: il suo Riccardo III, il suo Enrico IV, ma anche la putrefatta bruma di Macbeth. E il riferimento a Schmitt non è affettazione, ma grimaldello: se il Potere è decisione sovrana, qui ogni decisione è già corrotta nella sua origine. Ogni scelta, ogni movimento è destinato a produrre altro fango. La regia, chirurgica e trattenuta, non indulge mai nel compiacimento. La scena di Luigi Sacco è scabra, soffocante come una stanza d’albergo in Galles sotto un cielo nero di pioggia, mentre le luci di Luigi Della Monica tagliano le figure come lame chirurgiche: non vi è scampo, né riparo. Solo il lento, irresistibile sprofondare nella spirale del dominio. Che cos’è, allora, Il medico dei maiali? È una fiaba oscena sulla impossibilità di redimere il potere; è una risata soffocata nel gorgo di una modernità in putrefazione. È, soprattutto, un apologo tragico su quel momento impercettibile – e fatale – in cui il carnefice scopre di amare il proprio potere più della propria umanità. Davide Sebasti e Mauro Marino, interpreti dei consiglieri assassini, innestano nelle pieghe della narrazione una dimensione ancora più torbida: quella della ragione di Stato, della necessità superiore che giustifica ogni crimine. E intanto il pubblico, inchiodato a una claustrofobia teatrale impeccabile, assiste alla progressiva scomparsa dell’innocenza. C’è qualcosa di irrimediabilmente nostro in questa Inghilterra fittizia, in questo teatro della crudeltà che ha il passo felpato di una commedia e il morso avvelenato di una tragedia. Come non pensare, dietro il costume da nazista di Eddy, allo scandalo che travolse il principe Harry? Come non riconoscere, nei ghigni e nelle smorfie dei potenti, l’eco grottesca delle nostre democrazie svuotate? Alla fine, resta solo il silenzio. Un silenzio colpevole, malsano, pieno di quei pensieri inconfessabili che lo spettacolo ha saputo suscitare. Il medico dei maiali non pretende di offrire soluzioni. Non predica, non consola. Ma incide – con la precisione di un chirurgo crudele – una domanda nella carne viva dello spettatore: siamo anche noi parte di questo meccanismo? E se sì, a quale prezzo? È uno di quegli spettacoli rari, necessari, che riescono a raccontare la miseria e la grandezza dell’essere umano senza filtri, senza orpelli, senza bugie. E per questo, come accade con i veri capolavori, ci costringe – una volta usciti dal teatro – a camminare più lentamente, a pensare più a lungo, a guardare negli occhi la nostra personale ombra.
La prima domenica dopo la Pasqua, correttamente indicata nei libri liturgici con il termine in “Octava Paschae” oppure Domenica in “Quasi modo”, dalla prima dell’Introito (Quasi modo géniti infántes, rationábile, sine dolo lac concupíscite, ut in eo crescátis in salútem, allelúia, – Come bambini appena nati desiderate il genuino latte spirituale: vi farà crescere verso la salvezza. Alleluia) nota popolarmente con l’espressione Dominica in Albis, dalla consuetudine della chiesa cristiana dei primi secoli di amministrare il Battesimo, Domenica in albis vestibus depositis, la domenica in cui le bianche vesti vengono deposte, con riferimento alle tuniche bianche indossate dai nuovi battezzati per tutta la settimana successiva alla Pasqua, e tolte, appunto, la domenica dopo Pasqua. quando si procedeva al battesimo dei catecumeni che deponevano la veste per immergersi nella vasca e ricevere in tal modo il sacramento che segna l’ingresso ufficiale del credente nella Chiesa. Al battesimo fa riferimento una delle letture del giorno, tratta dalla prima lettera di Giovanni cap.5, vers.6-8: “Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, cioè Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che ne rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e i tre sono concordi.” L’altra lettura, al Vangelo, propone un passo ancora di Giovanni (cap.22 – vers.19-31): “…La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.”
L’episodio narrato da Giovanni si verifica dunque 8 giorni dopo la resurrezione ed è pertanto conseguente che la liturgia lo collochi all’Ottava di Pasqua. Per questa domenica Bach ci ha lasciato solo 2 cantate. La prima in ordine di tempo è Halt im Gedächtnis Jesum Christ BWV 67 (Ricordati che Gesù Cristo, è risuscitato dai morti) eseguita la prima volta a Lipsia il 16 aprile 1724, a Lipsia. I testi di Nikolaus Herman (1480-1561), Jakob Ebert (1549-1615), Christian Weiss (1671-1737) e Solomo Franck (1659-1725) sono ispirati ai dubbi che pervadono gli apostoli dopo la resurrezione di Gesù. Nel coro iniziale spicca il tono solenne con il quale viene enunciata e ripetuta la parola “Halt”(Ricordati), mentre un melisma ascendente associato alla parola “Auferstanden” (Resuscitato). Il concetto della paura è ribadito anche nella successiva aria bipartita del tenore, con oboe obbligato: “Il mio Gesù è risorto, perché ho paura?”. Le frasi spezzate del canto e della parte strumentale, trasmetto questo senso di gioia ma anche di timore.
Seguono due recitativi “secchi” del contralto, inframezzati da un Corale sulla gioia della Pasqua. Fulcro della Cantata, e pagina di grande originalità, l’aria del basso con coro. Il tema è ancora quello del dubbio individuale e dell’esperienza comunitaria della Resurrezione. L’aria si apre con un motivo agitato di archi in tempo di 4/4 che sfumanon in un terzetto di flauti e due oboi d’amore, in una meldia quasi di danza in tempo di 3/4 che accompagna la voce del basso (Gesù) che canta le parole “Pace a voi”. Questi due caratteri radicalmente diversi si alternano durante tutto l’aria. Alla musica concitata si collegano gli interventi del Coro (i soprani, i contralti e i tenori) che implorano Gesù di aiutarli nella loro battaglia contro Satana. A poco a poco i due tipi di musica si insinuano l’uno nell’altro. Nell’ultimo segmento di tempo in 4/4 si sente Gesù “agitato” che canta la sua “Pace a voi” al di sopra del tumultuante coro. Un rasserenante Corale, chiude la Cantata. Un’ultima notazione della storia dell’nterpretazione bachiana: questa è stata la prima cantata bachiana ad avere un’incisione discografica nel 1931.
Nr. 1 – Coro
Ricordati che Gesù Cristo,
è risuscitato dai morti.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Il mio Gesù è risorto,
di cosa ho ancora paura?
La mia fede riconosce la vittoria del Salvatore
ma il mio cuore percepisce ancora conflitti e
battaglie, appaia dunque la mia salvezza!
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Mio Gesù, tu che sei conosciuto come lo sterminio
della morte e la peste degli inferi: 2
ah, sono ancora assalito da paure e pericoli!
Tu stesso hai posto sulle nostre bocche
un canto di lode che noi abbiamo intonato:
Nr.4 – Corale
E’ apparso il giorno glorioso
di cui non si può mai gioire abbastanza:
Cristo, nostro Signore, oggi trionfa,
ha imprigionato tutti i suoi nemici.
Alleluia!
Nr.5 – Recitativo (Contralto)
Sembra ormai
che la schiera dei nemici,
che mi appare sempre più grande e spaventosa,
non mi lascerà in pace.
Ma visto che hai ottenuto per me la vittoria,
combatti ora al mio fianco, con il tuo bambino.
Si, si, già la fede ci fa percepire
che tu, Principe della Pace,
compirai in noi la tua Parola e la tua opera.
Nr.6 – Aria (Basso e Coro)
Basso:
La pace sia con voi!
Coro (Soprano, Contralto, Tenore)
Che gioia per noi! Gesù ci aiuta a combattere
e contenere la furia del nemico,
inferno, Satana, vade retro!
Basso
La pace sia con voi!
Coro
Gesù ci porta la pace
e a noi affaticati rinfranca
sia il corpo che l’anima.
Basso
La pace sia con voi!
Coro
O Signore, aiutaci e rendici capaci
di raggiungere attraverso la morte
il tuo Regno glorioso!
Basso
La pace sia con voi!
Nr.7 – Corale
Principe della Pace, Signore Gesù Cristo,
vero Dio e vero uomo,
tu sei un soccorritore potente
nella vita e nella morte:
perciò solo
nel tuo nome
possiamo invocare il nostro Padre.
Traduzione Emanuele Antonacci
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Opera in tre atti su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini, dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Minnie ANNA PIROZZI
Jack Rance GABRIELE VIVIANI
Dick Johnson MARTIN MUEHLE
Nick ALBERTO ROBERT
Ashby MARIANO BUCCINO
Sonora LEON KIM
Sid LODOVICO FILIPPO RAVIZZA
Trin ANTONIO GARÉS
Bello CLEMENTE ANTONIO DALIOTTI
Harry GREGORY BONFATTI
Joe SUN TIANXUEFEI
Happy PIETRO DI BIANCO
Larkens LORENZO MAZZUCCHELLI
Billy Jackrabbit SEBASTIÀ SERRA
Wowkle ANTONIA SALZANO
Jack Wallace GABRIELE RIBIS
José Castro YUNHO KIM
Un postiglione MICHELE MADDALONI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Jonathan Darlington
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia, Scene, Costumi Hugo De Ana
Regia ripresa da Paolo Vettori
Luci Vinicio Cheli riprese da Virginio Levrio
Projection Designer Sergio Metalli
Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con ABAO Bilbao Opera
Napoli, 19 aprile 2025
Arriva, al San Carlo, La fanciulla del West. Il soggetto del dramma amoroso di Puccini è tratto da The Girl of the Golden West del drammaturgo statunitense David Belasco. L’allestimento scenico, disegnato dal regista Hugo De Ana, restituisce poeticamente l’ambientazione western, entro cui la storia d’amore tra Minnie e il bandito Johnson-Ramerrez è fatalmente innestata. Ciò accade attraverso una ricostruzione didascalica e caratteristica del «selvaggio west»: dall’elementarità della «Polka», il saloon dell’atto primo, alla stanzetta di Minnie dell’atto secondo: una poetica casupola in legno, contrassegnata visivamente ed esteticamente da un «descrittivismo» scenico dettagliato: tegami, bacili, pentole, lanterne e lampade a olio, bottiglie di bevande alcoliche, tovaglie a quadri: una scenografia western «pittoresca», anche caratterizzata da un enorme mulino a vento «americano» e da costumi ugualmente caratteristici, disegnati dal regista medesimo. Le strutture in legno, inoltre, sembrano emergere da fondali paesaggistici – progettati da Sergio Metalli – riproducenti, attraverso proiezioni di immagini «in movimento», le montagne della Sierra californiana; poetiche sono le gradazioni grigio-bluastre della bufera di neve e quelle rossastre del tramonto: un’atmosfera generale pressoché «favolistica», e determinata da luci calde e soffuse (di Vinicio Cheli, riprese da Virginio Levrio). Al regista, occorre riconoscere un’opportuna gestione e distribuzione sceniche delle masse corali, che – preparate da Fabrizio Cassi – concorrono alla creazione, soprattutto nell’atto primo, dell’atmosfera western, tra minatori e bevitori di whisky. De Ana – attraverso un disegno registico ripreso da Paolo Vettori – riesce a evidenziare i tormenti emotivi dei personaggi, costringendo sovente l’azione in spazi ristretti o su di un «piano scenico» secondario, come quello della casetta di Minnie. La regia, a volte, prevede una successione simultanea delle scene, ma, nonostante questo elemento vivacizzante, resta anche caratterizzata da un’artificiosità scenica – ravvisabile in gesti inevitabilmente retorici, come uno sfoderamento pressoché costante di fucili e rivoltelle. Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Jonathan Darlington. Convince l’attenzione che egli pone alla potenza «teatrale» della scrittura strumentale – dando risalto all’energica espressività del preludio, all’evocazione sonora estremamente suggestiva delle scene paesaggistiche e alla caratterizzazione «atmosferica» dei momenti cruciali dell’opera, soprattutto quelli dell’atto secondo: dal fervore del duetto amoroso della Fanciulla con Johnson-Ramerrez alla concitazione della partita a poker di Minnie con Jack Rance. L’essenziale materiale vocale viene frequentemente potenziato dalla variegata scrittura orchestrale, determinata anche da organici e frequenti «riferimenti al teatro wagneriano» (come ricordava, peraltro, Michele Girardi nel saggio Il Novecento secondo Puccini / La fanciulla del West, inserito nel programma di sala del teatro lirico napoletano). Nel ruolo della Fanciulla, Anna Pirozzi. Il soprano presta alla sua Minnie un comportamento vocale teatralmente «declamatorio»: la parola viene vivacizzata e, all’occorrenza, resa efficacemente nervosa nei momenti di «abbandono» sentimentale – come accade nell’atto secondo, nei «duetti» della giovane con l’amato Johnson, caratterizzati anche da «passaggi» emotivi drammaticamente efficaci: dalla tenerezza allo sdegno («Oh, se sapeste» / «Vieni fuori!…»). Ciò consente alla cantante-attrice di poter costruire un ritratto psicologico «complesso» e stupendamente umano della Fanciulla: «scherzosa» e «malinconica» (come da libretto), e che riesce a gestire emozioni contrastanti e momenti vocali estremi. Una profondità espressiva è, inoltre, ravvisabile anche nelle frasi sceniche «parlate» – come «Non farti sentire. È geloso, Jack Rance…», nell’atto secondo. Sì, Rance è geloso, e a interpretarlo è Gabriele Viviani. Il baritono è padrone di una voce corposa ed espressivamente declamante – come nell’atto primo, nel duetto con Minnie. Un fraseggio vigoroso, intriso di senso «teatrale», consente al cantante di dare risalto alla «crudeltà» dello sceriffo, paradigmatica di una personalità «scellerata»: la collera, che tormenta il personaggio per il sentimento amoroso non corrisposto, viene risolta sardonicamente (come accade nell’atto secondo, nel duetto con la Fanciulla: «Che c’è di nuovo, Jack? – Non sono Jack…» / «Una partita a poker! – Come l’ami!…»): un’ottima prova anche attoriale, dunque. Parimenti convincente Martin Muehle: egli garantisce al suo Dick Johnson un opportuno temperamento teatrale, che consente al tenore di poter metaforicamente impersonare la potenza redentrice dell’amore. Ciò è ravvisabile nell’aria dell’atto terzo «Ch’ella mi creda libero e lontano», affrontata con uno slancio lirico fortemente espressivo. «Fierezza», «alterigia», frequente esaltazione emotiva: le varie didascalie della partitura vengono drammaticamente restituite, e concorrono a dare risalto alla declamazione della voce, affrontata con appropriatezza stilistica. Volume vocale ragguardevole e brillantezza del colore timbrico consentono, dunque, una risoluzione scenica del ruolo davvero notevole. Convincono anche le prove vocali e interpretative degli attori-cantanti che, soprattutto nell’atto primo, riescono opportunamente a partecipare alla creazione dell’atmosfera western: Alberto Robert (Nick), Mariano Buccino (Ashby), Leon Kim (Sonora). Completano ottimamente il cast: Lodovico Filippo Ravizza (Sid), Antonio Garés (Trin), Clemente Antonio Daliotti (Bello), Gregory Bonfatti (Harry), Sun Tianxuefei (Joe), Pietro Di Bianco (Happy), Lorenzo Mazzucchelli (Larkens), Sebastià Serra (Billy Jackrabbit), Antonia Salzano (Wowkle), Gabriele Ribis (Jack Wallace), Yunho Kim (José Castro), Michele Maddaloni (Un postiglione). In definitiva, questa Fanciulla è stata accolta con vivo entusiasmo da un pubblico estremamente eterogeneo, composto anche da turisti. Foto Luciano Romano
Deutsche Oper Berlin, season 2024/2025
“LOHENGRIN”
Romantic opera in three acts
Libretto and music by Richard Wagner
Lohengrin ATTILIO GLASER
Elsa von Brabant FLURINA STUCKI
Friedrich von Telramund MARTIN GANTNER
Ortrud, his wife MIINA LIISA VÄRELÄ
Heinrich der Vogler BYUNG GIL KIM
King’s Herald DEAN MURPHY
Four Noblemen of Brabant PATRICK COOK, ÁLVARO ZAMBRANO,
GEON KIM, STEPHEN MARSH
Four Pages NATALIE BUCK, ANDREA SCHWARZBACH,
KRISTINA GRIEP, MAHTAB KESHAVARZ
Chor & Orchester der Deutschen Oper Berlin
Conductor Constantin Trinks
Chorus master Jeremy Bines
Director Kasper Holten
Stage, costumes Steffen Aarfing
Light Jesper Kongshaug
Berlin, 20th April 2025
Kasper Holten’s production of Richard Wagner’s Lohengrin is back at Deutsche Oper Berlin for another revival. When I saw it more than 10 years ago shortly after the premiere, I wasn’t able to make head or tail of it. This has hardly changed even though it seems worryingly forward-looking in view of the current events in Europe or the Middle East. Preludes to Wagner operas are musical quintessences that can stand very well on their own and do not need to be directed. The following opera is scenically long enough for this. It is also unwise to tell a plot from behind when everyone is already dead, so that the crew trudge through asphalt-grey underworlds with gunshot wounds to the heart and gauze bandages around their skulls. It is even worse when the prelude is garnished with a meanwhile reduced veristic scream from a female chorus member. War is, of course, a subject that needs to be told with more plausible ideas and more psychology, and less standing around and silent gestures such as pats on the back, nods or shakes of the head, consistently and not in passing. The director has as good as shot his powder with the prelude. If you add Steffen Aarfing’s dark stage and grey costumes and subtract Holten’s almost absent direction of the characters, you will get a gloomy evening of opera that casts Lohengrin in an even brighter light. The hero is extremely well lit by Jesper Kongshaug, often surrounded by an aura of light. This makes him stand out even better in contrast to the poor lighting of the others. Did the manipulator Lohengrin stage the unfavourable light for the others? Conceivable. That would be kind of ingenious, but it would be a bit of a stretch. The audience may very easily fall for Lohengrin’s pretence instead. It is only at the very end or afterwards that you really realise what game the politician and man of power Lohengrin is playing here. Holten wants to show the seductiveness of man in a highly impressive and lasting way to wonder if the Swan Knight is playing a false game but he gets stuck with the idea. In the world Lohengrin ends up in, everything is too late anyway. Little Gottfried, whose disappearance sets the whole plot in motion, eventually returns to Brabant as a child’s corpse. War is war and heroes are of little help. Is the self-staged hero himself to blame for the carnage? A question that ultimately remains unanswered. Unfortunately, Holten’s production boils down to symbols and mere ideas. The musical side, however, is outstanding on the last evening of the three revivals. The Orchester der Deutschen Oper Berlin once again proves itself to be a competent custodian of Wagner’s music, which conductor Constantin Trinks develops slowly and even expands with ethereal flair, giving space to the big moments as well as the subtle little ones, entirely in the spirit of the master, whose handwritten words the great Berlin Wagner heroine Frida Leider still found at her debut in Bayreuth in 1928: ‘The big notes come by themselves; the small notes and their text are the main thing’. Trinks is a conductor of the old school in the best sense of the word, not letting the singers drown in the floods of sound, so that they are always audible and extremely clear. The Chor der Deutschen Oper Berlin, rehearsed by chorus master Jeremy Bines, does its level best performing the many tuttis with conviction and impressive power and allowing pianissimo passages such as Wie fasst uns selig süsses Grauen! after Lohengrin’s arrival to float in unearthly tenderness and beauty. I admit that I wanted to see the performance not only to experience the opera on stage again, but also to hear the up-and-coming Attilio Glaser from the ensemble in the title role. Although announced as indisposed, he surprises all along the line with an impeccable legato, an easy vocal emission and a clarity of text that is rarely found nowadays and I have to admit that his timbre reminds me a little of Fritz Wunderlich’s. Flurina Stucki is also part of the ensemble and sings a somewhat mature Elsa with great text comprehension as well, and with a reliably clear, if not always flattering tone. Miina Liisa Värelä has stood in at very short notice for Nina Stemme as Ortrud. She makes the stage shake with her brilliant, highly dramatic soprano and leaves no doubt as to who is pulling the mysterious strings. Martin Gantner sings Telramund convincingly with his bright-voiced character baritone. Byung Gil Kim as King Heinrich der Vogler captivates with the marvellous tones of his sonorous bass and is able to master the sometimes high tessitura very well. Dean Murphy sings the King’s Herald with a fresh baritone. All in all, a Lohengrin of musical delight, a highlight at Easter! Photo Bettina Stöβ
Roma, Sala Umberto
PREMIATA PASTICCERIA BELLAVISTA
una commedia di Vincenzo Salemme
compagnia Nest e Diana or.is
con Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino
e con Stefano Miglio, Viviana Cangiano, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice
scene Luigi Ferrigno
costumi Chiara Aversano
disegno luci Paco Summonte
sound designer Italo Buonsenso
coreografie Chiara Alborino
regia di Giuseppe Miale Di Mauro
Roma, 23 aprile 2025
C’è un momento, in Premiata Pasticceria Bellavista, messo in scena dalla Compagnia Nest con la regia di Giuseppe Miale Di Mauro, in cui la risata non ha più il suono pieno della spensieratezza, ma quello più ambiguo del grottesco. Si ride, sì, ma con la gola serrata, come se quel riso – e la sua ovazione istintiva – dovessero coprire un’improvvisa vertigine. È in quell’istante, rapido e fragile, che il teatro cessa di essere solo ripetizione e si fa azione critica: ed è lì che l’opera di Salemme, scritta negli anni ’90, si sottrae all’usura del tempo e rivendica, sorprendentemente, un’urgenza nuova. Ma giungervi non è un passaggio né immediato né del tutto limpido. La regia di Giuseppe Miale Di Mauro, infatti, pare affidarsi con eccessiva disinvoltura a una regola dell’accumulo, quasi temesse che il vuoto – quello fertile, quello necessario al respiro tragico – possa compromettere la ricezione. Così ogni gesto è un sottolineare, ogni movimento cerca la battuta, ogni linea del corpo vuole l’effetto. Ne risulta una comicità esibita, talora insistita, che finisce col distrarre piuttosto che suggerire. Una comicità, potremmo dire, accomodante e non inquieta, che teme la pausa e si rifugia nel ritmo più che nella tensione. Vi è, in questo meccanismo, una certa arrendevolezza – direi quasi una complicità – verso quella forma di intrattenimento che del teatro conserva l’involucro, ma ne tradisce la sostanza. La battuta arriva puntuale, ma è spesso priva di sottotesto; il ritmo è serrato, ma raramente scava. Ne consegue un registro che, a tratti, sfiora il varietà televisivo, laddove la scena dovrebbe invece restare luogo di scontro, di ferita, di esposizione dell’umano. Eppure – ed è qui la contraddizione, o forse il merito sottile – proprio in questa tensione fra leggerezza e gravità, fra riso e amarezza, tutto si salva. La drammaturgia di Salemme, con la sua architettura farsesca che si apre in fondo a uno spazio tragico, riesce comunque ad affiorare e pulsa sotto la superficie, come una corrente carsica, testimoniando una verità che resiste ai trucchi del mestiere. Determinante, in questo equilibrio precario, è l’apporto degli attori. Sono loro – con mestiere solido, misura sicura, istinto calibrato – a ricucire le fratture, a tenere insieme i piani che rischierebbero altrimenti di scollarsi. Il loro lavoro, lontano dall’istrionismo e dalla compiacenza, restituisce ai personaggi una dignità malinconica, una vita vissuta, un respiro. Ed è grazie a loro che lo spettacolo finisce col funzionare: non come meccanismo perfetto, ma come organismo vivo, imperfetto e dunque umano. Adriano Pantaleo lavora su una misura interna, fatta di esitazioni e ritardi, restituendo una presenza che rifugge l’affermazione. Viviana Cangiano spinge sul corpo e sulla parola, con energia densa che rischia il manierismo ma non vi cede. Pantaleo torna con una magnetica essenzialità: ogni frase incide, ogni silenzio è un risarcimento poetico. Francesco Di Leva sceglie un comico trattenuto, preciso, che osserva senza evadere. Giuseppe Gaudino, Stefano Miglio, Federica Carruba Toscano, Dolores Gianoli, Alessandra Mantice compongono una galleria di personaggi secondari, ma mai secondari nella costruzione del mondo scenico: tutti portano un dettaglio, un’incrinatura, un eccesso che contribuisce al tono generale dello spettacolo. Le luci di Paco Summonte non cercano effetti, ma atmosfere. Una luce diffusa accompagna le scene, salvo poi stringersi su momenti più lirici o ambigui. I costumi di Chiara Aversano evitano la citazione e lavorano su una riconoscibilità che tende all’archetipo. Il disegno sonoro di Italo Buonsenso si inserisce con efficacia, creando un controcanto ironico o sospeso. Il momento coreografico – il balletto su I Pagliacci di Capossela, firmato da Chiara Alborino – è l’unico istante davvero straniante, in cui la messa in scena si concede una digressione poetica che rompe la linearità del racconto. L’operazione, complessivamente, è chiara: non si vuole riscrivere Salemme, ma rileggerlo. Togliere polvere al testo, metterlo in ascolto con il presente. In questo, la Compagnia Nest conferma la propria capacità di mediazione tra cultura popolare e rigore teatrale. Si ride, ma in fondo alla risata resta il sospetto di non essere del tutto innocenti. Il pubblico, numeroso e partecipe, ha risposto con entusiasmo. Applausi convinti, ma non rituali. Forse perché ha sentito che sotto la glassa del comico si muoveva qualcosa di meno rassicurante. Qualcosa che riguarda tutti: l’istinto di chiudere gli occhi per non vedere ciò che ci disturba. Ma la scena, si sa, è lo spazio dove tutto – anche ciò che preferiremmo ignorare – si mostra. E in quella pasticceria dove si mescolano zucchero e rancore, amore e convenienza, non resta che constatare: la dolcezza è una copertura. Il sapore vero, spesso, è quello che resta in bocca quando la torta è finita. Photocredit Carmine Luino
Roma, Case Romane del Celio
PATINA MEMORIAE
Mostra dell’artista Alessio Deli
curata da Romina Guidelli
promossa da CoopCulture
Roma, 19 aprile 2025
Una mostra di scultura contemporanea in un sito archeologico romano non è più una novità da qualche decennio. Di solito, si tratta di esperimenti discutibili, fondati sull’illusione che il contrasto basti a produrre significato. Nella maggior parte dei casi, si finisce con l’ottenere il contrario: opere fragili che si dissolvono nel contesto, o ambienti monumentali ridotti a cornice decorativa. L’incontro tra Alessio Deli e le Case Romane del Celio sfugge, per fortuna, a questa logica. Sino al 27 luglio 2025, tredici sculture dell’artista romano sono esposte nei percorsi sotterranei della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, in uno dei luoghi più eloquenti della Roma invisibile. La mostra, dal titolo Patina Memoriae, è promossa da CoopCulture e curata da Romina Guidelli. Non ha nulla di celebrativo, e non è una raccolta di pretesti formali. È un confronto. Non per somiglianza, ma per resistenza. Deli è scultore di mestiere. Conosce il bronzo, il gesso, la creta. Non se ne serve per giocare con le superfici, ma per fare domande alla materia. Il suo è un linguaggio che viene da lontano, e che non teme l’eredità classica, perché non prova a emularla. Piuttosto, ne assume il peso. Quelle che espone sono figure lacerate, talvolta incomplete, mai illustrate. Il gesto è secco, anche quando sembra alludere a un pathos. È il gesto di chi ha imparato a sottrarre, non a comporre. Le opere, distribuite tra la Sala dei Geni e l’Antiquarium, non chiedono attenzione, né la impongono. Stanno. Hanno una presenza che non si misura in grandezza, ma in esattezza. E soprattutto: non cercano la bellezza. Il che, oggi, è già molto. Chi conosce le Case Romane del Celio — aperte al pubblico nel 2002, ma studiate da oltre un secolo — sa che si tratta di uno dei rari luoghi in cui l’archeologia e la stratificazione storica sono leggibili senza bisogno di mediazioni didattiche. Botteghe, domus, affreschi, tracce del passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Sono spazi dove il tempo si sedimenta, non si racconta. Ed è in questo silenzio che le sculture di Deli trovano senso. Scrive la curatrice che “il Mito, il Rito e la Storia convivono mentre si vestono di modernità”. È una formula suggestiva, ma che va ridotta al suo nocciolo: l’arte, oggi, ha bisogno di guardare indietro non per nostalgia, ma per orientarsi. Le opere di Deli non offrono una visione del passato. Offrono la prova che il passato può ancora misurare la tenuta del presente. Lo fanno senza clamore, senza effetti, senza sovrastrutture. E questa sobrietà — così rara — è forse il dato più rilevante della mostra. Nato a Marino nel 1981, Deli ha studiato a Carrara, poi a Roma. Ha insegnato, ha scolpito, ha viaggiato. Le sue opere sono state esposte in Europa, in Asia, in America. Ma la sua ricerca non si è mai allontanata da una tensione costante verso la forma come memoria del corpo e del tempo. Una memoria non celebrata, ma corrosa. Una memoria che ha perso ogni aura e che, proprio per questo, può ancora parlare. Il 20 giugno sarà presentato il catalogo, con testi della Guidelli e di Edoardo Marcenaro. Non è l’evento a contare, quanto il fatto che la mostra non ha bisogno di spiegazioni: basta guardare. E lasciarsi interrogare da quello che resta quando il superfluo è scomparso.
Il Caracalla Festival 2025 firmato da Damiano Michieletto: “Tra Sacro e Umano”
Opera, danza, musica sacra e riflessione nei luoghi simbolici della Roma imperiale, per un’estate giubilare all’insegna della bellezza e della spiritualità
Nel cuore della Roma imperiale, dove l’antico abbraccia il presente e la pietra si fa palcoscenico, torna dal 29 giugno al 7 agosto il Caracalla Festival 2025, la rassegna estiva del Teatro dell’Opera di Roma, quest’anno affidata alla direzione artistica di Damiano Michieletto. Un’edizione speciale, non solo per la presenza di uno dei registi più originali e apprezzati della scena internazionale, ma per la sua profonda connessione con l’anno giubilare della Chiesa cattolica. Il titolo scelto, “Tra sacro e umano”, non è un semplice slogan: è un manifesto poetico che attraversa l’intero programma, coinvolgendo i linguaggi del teatro musicale, della danza, della riflessione teologica e della musica popolare in un percorso capace di interrogare il nostro tempo. Per la prima volta accanto alle imponenti Terme di Caracalla, luogo simbolo del festival estivo, il cartellone prevede spettacoli anche nella Basilica di Massenzio, la più grande aula civile dell’antica Roma, posta tra il Colosseo e il Foro Romano. Questo luogo dal fascino severo e spirituale diventa cornice perfetta per una proposta artistica che si misura con i grandi interrogativi dell’anima, nella consapevolezza che ogni arte autentica nasce proprio da quella soglia incerta tra il terreno e il trascendente. Il festival si apre il 29 giugno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, patroni della città di Roma, con una serata dal titolo emblematico: “La gioia interiore”. Protagonista sarà il teologo e scrittore Vito Mancuso, che proporrà una riflessione sul tema della riconciliazione spirituale, alternata all’esecuzione dell’intenso ciclo di madrigali Lagrime di San Pietro di Orlando di Lasso, un’opera scritta nel 1594 e considerata il testamento spirituale del grande compositore fiammingo. L’evento sarà impreziosito da interventi in live electronics del compositore Vittorio Montalti, per un’esperienza che unisce parola, musica antica e sperimentazione sonora. Il primo titolo operistico del cartellone è La Resurrezione di Georg Friedrich Händel, in scena il 1° luglio alla Basilica di Massenzio con repliche il 2, 4 e 5 luglio. Si tratta di uno dei capolavori giovanili del compositore tedesco, scritto a Roma nel 1708 su commissione del marchese Ruspoli. La regia è affidata a Ilaria Lanzino, giovane talento italiano formatasi in Germania, qui al suo debutto nazionale. L’oratorio mette in scena l’opposizione tra Lucifero e l’Angelo, accanto alle meditazioni di Maria Maddalena, Maria di Cleofe e San Giovanni: una lotta fra luce e tenebra, fede e dubbio, centrale nel percorso spirituale del festival. Sul podio il celebre specialista barocco George Petrou; in scena Sara Blanch, Ana Maria Labin, Teresa Iervolino, Charles Workman e Giorgio Caoduro. Il 5 luglio alle Terme di Caracalla sarà la volta del celeberrimo West Side Story di Leonard Bernstein, in una nuova produzione firmata da Damiano Michieletto, con la direzione musicale di Michele Mariotti, scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti e coreografie di Sasha Riva e Simone Repele. L’allestimento promette di valorizzare gli aspetti più umani del capolavoro americano, raccontando con forza i sogni spezzati di due giovani innamorati nel cuore di una società divisa. Repliche il 9, 10, 13 e 17 luglio. Attesissimo anche il ritorno di Roberto Bolle, che porterà il suo spettacolo Roberto Bolle and Friends il 15 e 16 luglio a Caracalla: due serate ormai cult, in cui il divo della danza coinvolge grandi stelle del balletto internazionale in un programma che attraversa i classici e le creazioni contemporanee. Il 19 luglio debutta la nuova produzione de La traviata di Giuseppe Verdi, affidata alla regista Sláva Daubnerová, figura di spicco del teatro europeo, qui alla sua prima regia in Italia. Una Traviata riletta attraverso uno sguardo femminile, intimo e non convenzionale. A dirigere l’Orchestra dell’Opera di Roma sarà Francesco Lanzillotta. La protagonista Violetta sarà interpretata da Corinne Winters, affiancata dal tenore Piotr Buszewski (Alfredo) e dal baritono Luca Micheletti (Germont). In scena anche il Coro e il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera, diretto da Eleonora Abbagnato. Repliche il 23, 27 luglio e l’1, 2 e 3 agosto. Il 20 luglio sarà la volta del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, nella Basilica di Massenzio, con la regia del russo Vasily Barkhatov, artista eclettico e provocatorio. Nei panni del protagonista un grande baritono italiano, Roberto Frontali, che affronta per la prima volta il ruolo del libertino. Al suo fianco Vito Priante (Leporello), Nadja Mchantaf (Donna Anna), Carmela Remigio (Donna Elvira) e Anthony León (Don Ottavio). Dirige l’Orchestra Alessandro Cadario. Repliche il 22, 24 e 25 luglio. Un momento storico per la danza italiana sarà rappresentato dalle due serate del 30 e 31 luglio, quando il Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma interpreterà per la prima volta Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij nella leggendaria coreografia di Pina Bausch, realizzata nel 1975 e oggi, a distanza di cinquant’anni, affidata a una compagnia italiana. Accanto a questo capolavoro anche Bolero di Maurice Béjart e Within the Golden Hour di Christopher Wheeldon, con la partecipazione straordinaria di Friedemann Vogel. L’Orchestra sarà diretta da Ido Arad. Il 7 agosto chiude il Festival una serata evento: La Pasión según San Marcos di Osvaldo Golijov, opera rivoluzionaria che mescola tradizioni liturgiche e sonorità latinoamericane, africane e jazz. Commissionata per il 250° anniversario della morte di Bach, è stata definita dal New Yorker “una bomba sulla convinzione che la musica classica sia solo europea”. A dirigere il concerto il venezuelano Diego Matheuz, con il Coro del Teatro diretto da Ciro Visco e musicisti provenienti da tutto il mondo. Accanto al programma principale curato da Michieletto, il Caracalla Festival 2025 propone un ricco calendario di concerti pop che inizieranno già dal 3 giugno con protagonisti Antonello Venditti, Giorgia, Alessandra Amoroso, Fiorella Mannoia e Giovanni Allevi, in una proposta che accoglie il pubblico più vasto ed eterogeneo, nell’anno in cui Roma si fa crocevia di pellegrinaggi e culture. Il Caracalla Festival 2025 è promosso dal Teatro dell’Opera di Roma in con la Soprintendenza Speciale di Roma e con il Parco Archeologico del Colosseo, rinnovando la vocazione del teatro alla valorizzazione del patrimonio, all’apertura culturale e all’incontro tra le arti. Qui per tutte le informazioni.
Nella Chiesa Luterana con il Martedì si chiude una sorta di Triduo celebrativo della gloria del Cristo risorto. Per questa ultima giornata, Bach ci ha lasciato tre Cantate, la terza, in ordine di tempo è Der Friede sei mit dir BWV 158. La pace sia con te, coscienza angosciata! è l’incipit di questa breve partitura che si sviluppa in quattro movimenti (recitativo, aria/corale, recitativo, corale), si pensa che BWV 158 composta tra il 1713 e il 1717 possa essere solo un frammento di un’opera più ampia. Certamente, guardando alla struttura di altre cantate, ci si aspetterebbe almeno un’altra aria prima del corale conclusivo. Se questa ipotesi è vera, non toglie comunque nulla alla pregevolezza di questa Cantata. La parte principale è il nr.2, un’aria del basso che si intreccia con un Corale affidato alle voci di soprano e nella quale spicca un bellissimo accompagnamento del violino solista. I due pregevoli recitativi (Nr.1 e 3) si sviluppano in sezioni ariose di straordinaria bellezza. La Cantata termina con la quinta strofa del grande inno di Lutero Christ lag in Todesbanden.
Nr.1 – Recitativo (Basso)
La pace sia con te,
coscienza angosciata!
E’ qui il tuo Mediatore,
colui che ha riconciliato e cancellato
il registro delle tue colpe
e le condanne della legge.
La pace sia con te,
il principe di questo mondo,
che ha perseguitato la tua anima, è stato
abbattuto e vinto con il sangue dell’Agnello.
Mio cuore, perché sei così angosciato,
se Dio ti ama per mezzo di Cristo?
Egli stesso mi ha detto:
la pace sia con te!
Nr.2 – Aria con Corale (Basso e Coro Soprani)
Basso
Addio mondo, sono stanco di te,
mi aspettano le dimore di Salem,
Coro
Addio mondo, sono stanco di te,
vorrei andare in Paradiso,
Basso
dove in pace e serenità potrò
Coro
dove c’è la vera pace
Basso
contemplare Dio eternamente beato
Coro
e l’eterno, maestoso riposo.
Basso
Là sarò, là vorrei dimorare,
Coro
Mondo, non conosci altro che guerre e
conflitti, nient’altro che pura vanità;
Basso
là risplenderò adornato da una corona celeste.
Coro
in cielo esistono per sempre
pace, gioia e beatitudine.
Nr.3 – Recitativo/Arioso (Basso)
Ora, Signore, dirigi i miei pensieri,
così da poter essere nel mondo,
fintanto che tu vorrai lasciarmi qui,
un figlio della pace,
e liberandomi dalle mie pene
possa andare in pace come Simeone!
Corale
Ecco il vero agnello pasquale
che Dio ha voluto,
è stato innalzato sul legno della croce
ed arrostito con ardente amore,
il suo sangue segna le nostre porte, 3
la fede fronteggia la morte,
l’assassino non può più nuocere.
Alleluia!
Traduzione Emanuele Antonacci
Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Concerto di Pasqua.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Ottavio Dantone
Voce fuori campo Mario Acampa
Franz Joseph Haydn: “Le ultime sette parole di Cristo sulla croce”. Hob XX.1 (versione per orchestra 1787)
Torino, 18 aprile 2025
A Cadice, estremo e ricchissimo porto del meridione occidentale della Spagna, pista di lancio per le traversate atlantiche, fin dal ‘600 si allestiva in chiesa, nel giorno del Venerdì Santo, il rito con cui, recitando le ultime parole di Cristo, si occultavano progressivamente, con panni violacei, crocifissi e porte. Il rito, creato in Perù dai gesuiti, ai tempi dell’invasione cattolica, era tornato e si era riaffermato anche in madrepatria. Si svolgeva con la citazione progressiva delle parole che i Vangeli assegnano al Crocifisso, seguite da varie pause arricchite da prediche, meditazioni e musiche per forzare i fedeli a coinvolgersi nella cerimonia. Il canonico, José Sáenz de Santa Maria, fondatore e rettore dell’Oratorio della Santa Cueva di Cadice, nel corso del 1786, chiese ad Haydn una musica adatta allo scopo. Il compositore, tra i più noti dell’Europa d’allora, libero da impegni, era ormai da mesi in congedo da Hesteraza, compose 7 “adagi” di una decina di minuti l’uno, preceduti da un’Introduzione e chiusi da un folgorante e tragico, oltre che rumorosissimo, Terremoto. La composizione per orchestra di archi, legni, ottoni e timpani, si poté eseguire a Cadice per la celebrazione del Venerdì Santo del 1787. Ognuno dei 7 Adagi denominati Sonata, portano sovrascritta alle prime battute, che ne costituiscono il tema, la parola / frase di riferimento; l’elaborazione di questo inizio viene poi condotta secondo le regole canoniche della forma sonata che Haydn stesso aveva, nel passato, ben strutturato. Contemporaneamente alla composizione orchestrale, l’editore convinse il compositore a prepararne una per Quartetto d’archi, molto più vendibile e quindi redditizia. Seguiranno rielaborazioni per tastiere e, una decina d’anni dopo, la nota versione oratorio con testi elaborati dal Barone Gottfried van Swieten, il massone librettista della Creazione e delle Stagioni. Di oro peruviano, frutto dei saccheggi dei Conquistadores, a Cadice ce n’era ancora e con parte di quello il Canonico Sáenz de Santa Maria farcì il dolce che spedì soddisfatto ad Haydn per rimunerarne il buon lavoro compiuto. Lo stesso compositore confessò comunque quanto fosse stato arduo rispettare la richiesta di una successione di sette adagi; da qui l’impegno a creare temi icastici e ficcanti che permettessero rielaborazioni tanto variate da mantenere viva l’attenzione, se non anche la concentrazione dei convenuti in chiesa. Ottavio Dantone e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, ancora una volta, colgono il bersaglio. La preoccupazione di poter annoiare il pubblico la confessa, in un’intervista, anche il direttore svelando la necessità di un impegno ad esaltare le variabili del percorso. Ogni più piccolo segno della partitura viene quindi esaltato e, grazie alla fantastica Orchestra Nazionale RAI, i singoli pezzi si animano di sorprendenti sfumature, in un inarrestabile caleidoscopio di colori. Gli archi la fanno da padroni, con un suono allo stesso tempo compatto, chiaro e trasparente. I fiati, legni e corni, contribuiscono all’incessante arricchimento timbrico che si parallela a quello strutturale e ritmico della scrittura di Haydn. Emerge poi, con numerosissimi interventi solistici, il meraviglioso oboe di Nicola Patrussi e, con minor frequenza ma con altrettanto preziosismo, il flauto di Gianpaolo Pretto. La visione di Dantone non porta alla descrizione tragica di quanto narrato dal Vangelo e richiamato dalla voce fuori-campo di Mario Acampa, ma a una contemplazione mesta e partecipe di avvenimenti, seppur passati, che ancora suscitano tristi e malinconici ricordi. Haydn non ha di certo mai assistito alle settimane sante andaluse, come invece crediamo sia successo al Maestro Dantone. Da qui il ricordo di quanto il sacro, la mestizia, e anche la tragicità faccia tutt’uno con la mondanità, anche festosa, delle sfilate processionali. Nel corso della Sonata II°: amen dico tibi, hodie mecum eris in paradiso, le note puntate e le quartine rincorrenti, dopo il passaggio al DO maggiore, possono rimandare a gruppi festosi ed elegantissimi che, con intima soddisfazione, provano il sollievo portato dal Paradiso che s’è aperto al buon ladrone. Ugualmente emozionante nella Sonata V° sitio, la più tragica, dove, come introduzione e contrappunto alla reiteratissima discesa delle due note che ne fanno il tema, si oppongono gli archi con un pizzicato insistito, quasi uno stizzoso cicaleccio della folla nei confronti degli odiati aguzzini che rifiutano il sorso d’acqua al morente. Nel Terremoto finale, c’è il colpo a sorpresa che desta animi e corpi con la forza di una massa sonora imponente. Clarinetti, corni e timpani, rimasti quasi silenti fino a questi pochi minuti finali, si scatenano in accordi e scalette a quattro f. Come quando, a Siviglia, la processione con la sua banda gira l’angolo e proietta sull’ignaro turista, fiaccato dalla lunga attesa, la contundente colonna di suono di tamburi e bombarde. Un’ora di bella musica, formidabilmente eseguita, con un pubblico soddisfatto che si congeda tra applausi e vicendevoli auguri di “Buona Pasqua”.
CD. 1 Luigi Cherubini: Sonata n. 1 in fa maggiore, Sonata n. 2 in do maggiore, Sonata n. 3 in si bemolle maggiore – CD. 2 Sonata n. 4 in sol maggiore, Sonata n. 5 in re maggiore, Sonata n. 6 in mi bemolle maggiore. Chiara Cattani (clavicembalo). Registrazione: Studio Cattani, Faenza (RA), Luglio 2021. T. Time: 41′ 48″ (CD 1), 45′ 23″ (CD 2). 2 CD Tactus TC 760391
Grande operista e autore di importantissimi lavori sacri, Luigi Cherubini non fu un grande virtuoso né del clavicembalo né del neonato pianoforte, come è dimostrato dal fatto che agli strumenti a tastiera dedicò scarsissima attenzione anche nella sua produzione. Tra i pochi lavori che Cherubini scrisse per strumenti a tastiera queste Sei sonate che, pubblicate a Firenze nel 1783, ma composte a Milano nel 1780 per il marchese Antonio Corsi, buon dilettante di cembalo, i cui buoni auspici presso il granduca di Toscana Leopoldo avevano convinto quest’ultimo ad aiutare il giovane compositore, costituiscono il programma di un piacevolissimo doppio album dell’etichetta Tactus. Pur essendo un lavoro giovanile, queste Sei sonate, in due movimenti, dei quali il primo è un Allegro in forma bipartita e il secondo è un Rondò, mostrano degli elementi di originalità rispetto alla produzione coeva per clavicembalo, caratterizzata da una scorrevolezza, qui messa in discussione da soste improvvise e contrasti tematici particolarmente marcati e per l’epoca innovativi. Non manca, inoltre, una vena melodica che guarda a quella cantabilità tipica dell’opera. Splendida l’esecuzione da parte di Chiara Cattani, la quale, per l’occasione, si è avvalsa di un clavicembalo a due manuali, copia di un Taskin, realizzato da Gianfranco Facchini nel 1983 e scelto dall’artista per realizzare quei pochi contrasti dinamici e di timbro che uno strumento del Settecento consentiva, anche perché queste sonate potrebbero essere tranquillamente eseguite anche su un pianoforte storico. Dotata di una solida tecnica, Chiara Cattani esegue questi piccoli gioielli con senso dello stile restituendo al pubblico una produzione dimenticata e degna di essere riscoperta.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Soprano Louise Alder
Contralto Danbi Lee
Gustav Mahler: Sinfonia n. 2 in do minore “Resurrezione” per soprano, contralto, coro misto e orchestra
Venezia, 18 aprile 2025
Pochi giorni dopo la Matthäus-Passion di Bach diretta da Ton Koopman, la Fenice ha proposto, in occasione della Settimana Santa e della Pasqua, la Sinfonia “Resurrezione” di Gustav Mahler, affidandola alla bacchetta di un beniamino del proprio pubblico, Myung Whun Chung, che l’aveva diretta, sempre alla testa dell’Orchestra e del Coro del Teatro veneziano, sei anni fa. Soliste vocali per questa nuova esecuzione: il soprano Louise Alder e il contralto Danbi Lee. Maestro del Coro: Alfonso Caiani. Tra i direttori più prestigiosi a livello internazionale, lo straordinario artista di Seul si segnala, a nostro modesto avviso, per alcune caratteristiche, che ne fanno un interprete dalla spiccata personalità, intento a seguire con coerenza una propria strada. Giovanissimo, nel 1979 ebbe la fortuna di incontrare a Los Angeles Carlo Maria Giulini – allora direttore principale della locale Orchestra Filarmonica –, del quale divenne assistente, meritandosi due anni dopo la nomina a direttore associato. Dall’esperienza acquisita insieme a Giulini il nostro Chung sarebbe stato profondamente influenzato. Il gesto scarno, l’ampia gamma dinamica, l’agogica che contempla anche tempi decisamente dilatati, la qualità del suono, la lettura approfondita, analitica della partitura – cifre distintive dell’arte direttoriale del maestro sudcoreano – rimandano alla lezione di Giulini: un interprete devoto alla grande musica – in particolare alle famose tre ‘B’ della tradizione tedesca –, che attribuiva ad ogni esecuzione un valore etico prima che estetico.
Grande afflusso di pubblico anche per questa ripresa del capolavoro mahleriano, monumento sonoro grandioso e sublime, che richiede un dispiegamento imponente di musicisti, tra l’Orchestra, il Coro misto e le due Voci soliste: una compagine gigantesca, cui contrastava, al momento dell’esecuzione, l’esile figura di Myung-Whun Chung. Nondimeno, fin dalle prime battute, il suo gesto direttoriale ha rivelato una forza e un’autorevolezza veramente straordinarie, ottenendo la piena adesione alle proprie scelte interpretative da parte di ogni esecutore. Fortemente contrastata e teatrale – come dev’essere – è risultata la sua lettura della monumentale partitura, nel corso della quale si coglieva, tra l’altro, quella diffusa dilatazione dei tempi, cui si è accennato sopra.
Il primo movimento, Totenfeier (Rito funebre) – in cui Adorno ha colto il senso del precipitare, del crollare – è proceduto come un discorso dai toni cupi, che continuamente si spezzava e rispetto al quale contrastavano alcune parentesi liriche. Dopo un tremolo di violini e viole in fortissimo è calata un’atmosfera luttuosa, segnata da un andamento di marcia funebre e da un inizio concitato con aspri motivi frammentari di violoncelli e contrabbassi, in attesa del primo tema, affidato agli oboi e al corno inglese. I violini – sempre eleganti ed espressivi – hanno poi intonato in pianissimo il secondo tema dalla linea melodica ascendente, subito interrotto dal ritorno improvviso del tremolo iniziale e dal vigoroso intervento di violoncelli e contrabbassi, accompagnato da fanfare – intonatissime – degli ottoni. Nello sviluppo – iniziato con il ritorno del secondo tema e percorso da un tono catastrofico – hanno fatto la loro apparizione due figure tematiche, ricorrenti nel corso della Sinfonia: un intervallo di semitono, eseguito con il giusto accento dal corno inglese (tipica evocazione del lamento), e un soggetto quasi di Corale – intonato in modo irreprensibile dai corni –, che esordisce citando la celebre sequenza del “Dies irae”. Il secondo movimento – un Ländler lento – aveva l’evanescenza di un sogno grazie alla delicatezza dei timbri e alla raffinatezza dei dettagli. Aperto da uno scoppio improvviso del timpano, il terzo movimento, percorso con ossessiva monotonia da un andamento ostinato in sedicesimi, è riuscito a sedurre l’ascoltatore con qualcosa di sempre uguale ma sempre diverso, fondandosi sulla parafrasi di un Lied da Des Knaben Wunderhorn, “Sermone di S. Antonio da Padova ai pesci”, che ne ribadisce il carattere sarcastico e grottesco. Anche qui si sono apprezzate le sfumature e le contrapposizioni timbriche: i triviali disegni dei fiati contrapposti al nobile canto della tromba. Protagonista nel quarto movimento era il contralto Danbi Lee, che ha intonato, con espressività intensa e al tempo stesso trattenuta, Urlicht (Luce primigenia), un Lied da Des Knaben Wunderhorn ( Il corno magico del fanciullo): da “O Röschen roth” (O piccola rosa rossa), stagliandosi sulle sonorità suggestive di fiati lontani, a “Da kam ich auf einen breiten Weg” (Me ne andavo per un’ampia via) accompagnata da colori orchestrali più chiari (passaggio in cui ha brillato il primo violino), a “Ich bin von Gott” (Io vengo da Dio), reso con accenti di drammatico fervore. Davvero dirompente è risultato il gesto con cui Chung ha aperto il quinto movimento, immerso nel clima concitato e sonoramente “tellurico” del primo, con la parentesi del segnale dei corni che devono suonare fortissimo, seppur posizionandosi “il più lontano possibile”. Un movimento, questo, in cui si ripresentano fondamentali figure tematiche, come il tema di Corale, amplificazione del motivo del “Dies irae”, e il lamentoso intervallo di seconda minore. Gli strumenti, che si rispondevano con effetto-eco hanno evocato, intonando intervalli di quinta, un clima di attesa: quella del Giudizio Universale, fino alla comparsa del “Dies Irae” affidato agli ottoni gravi. Successivamente una veloce sezione di sviluppo ha proposto una grottesca marcia funebre: la processione dei morti, che è sfociata in un pianto lamentoso. Infine, quasi inattesa, si è udita la sommessa perorazione del Coro a cappella, che ha preparato e accompagnato, con intensa partecipazione e assoluto controllo vocale, l’intervento – misurato e nel contempo misticamente espressivo – del contralto (Danbi Leee) e del soprano (Louise Adler), che hanno intonato l’inno Die Auferstehung (La Resurrezione) di Friedrich Gottlieb Klopstock – nella versione modificata dallo stesso Mahler – fino all’apoteosi finale tra squilli di trombe, fervore di canti, risuonare di campane, ripieni dell’organo. Travolgente successo per tutti i protagonisti della serata.