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Reggio Emilia, Teatro Valli: “Last Work” del Ballet de l’Opéra de Lyon

gbopera - Lun, 12/05/2025 - 10:48

Reggio Emilia, Teatro Valli, Stagione danza 2025
“LAST WORK”
Coreografia Ohad Naharin
Musiche di Grischa LichtenbergerMaxim Warratt
Scene Zohar Shoef
Costumi Eri Nakamura
Assistente coreografo/maître ballet Ariel Cohen, Guy Shomroni
Luci Avi Yona Bueno (Bambi)
danzatori Yuya Aoki, Jacqueline Bâby, Eleonora Campello, Katrien De Bakker, Tyler Galster, Livia Gil, Paul Gregoire, Jackson Haywood, Amanda Lana, Eline Larrory, Almudena Maldonado, Eline Malegue, Albert Nikolli, Amanda Peet, Roylan Ramos, Ryo Shimizu, Giacomo Todeschi, Kaine Ward Runner Maëlle Garnier
Reggio Emilia, 10 maggio 2025
Spettacolo forte, ipnotico, suadente ed onirico “Last Work” di Naharin, che senza soluzione di continuità rapisce lo sguardo dello spettatore per un’ora e mezza. Di certo è particolare come viene utilizzato il corpo di ballo in una variazione di coreografie totalizzante, in cui musica e gesto sono espressione di forza creativa.
Il palco è vuoto e scuoro, ovvero solo una danzatrice corre su un tapis roulant e vi correrà, senza mai fermarsi, per tutto lo spettacolo a significare lo scorrere del tempo, poi a poco a poco si paleseranno i danzatori in movimenti sempre piuttosto lenti e ricorsivi, poi veloci e repentini. Non c’è un preordinato disegno coreografico ma un loquace esempio di come la danza contemporanea sia capace di percorrere sentieri senza meta, con il solo obiettivo di riempire spazi e dare forma al sentimento. Infatti il linguaggio corporeo mostrato dai ballerini, 18 per la precisione, è incentrato sull’emotività che si palesa con movimenti virtuosi.
Sul palco ora si muovono in gruppo, poi si abbracciano e danzano a coppie, infine si isolano per finire uniti da un nastro adesivo che un danzatore passa tra loro per ordire una ragnatela. Tutto è magico e sottolineato dal substrato sonoro che evidenzia il tempo che scorre e lo pone al centro della rappresentazione. Interessante sapere che questa coreografia nasce dalla tecnica Gaga di Ohad Naharin per cui i danzatori improvvisano dando sfogo alle proprie emozioni e sensazioni, Tutto sembra però magistralmente architettato, ossia deciso e voluto e la presenza di conflitti nella partitura sembra non porre l’attenzione sul posto dell’individuo nel gruppo. “I danzatori sono incoraggiati a non riprodurre una forma, ma piuttosto delle intenzioni di movimento. Penso che sia esaltante avere questo tipo di libertà in un lavoro di repertorio” (Cédric Andrieux, direttore del Ballet de l’Opéra de Lyon). In conclusione esce una bandiera bianca che presa dal runner è inseguita dal corpo di ballo, un’immagine che richiama gli ignavi danteschi e il loro incedere funesto dietro un vessillo per l’eternità. La bandiera però qui è segno di pace, un desiderio e richiamo sincero al conflitto Israele palestinese essendo Naharin israeliano, già direttore artistico di Batsheva Dance Company e fondatore della divisione giovanile della compagnia, “the Young Ensemble”.
La cosa che più ha affascinato della rappresentazione è stato l’aver assistito per la prima volta come ad una lezione di dove può spingersi la danza contemporanea, al di là della tecnica e della forma.

Categorie: Musica corale

Torino, Lingotto Musica 2025: Alexander Lonquich e la Camerata Salzburg

gbopera - Lun, 12/05/2025 - 08:15

Torino, Auditorium Agnelli, I Concerti del Lingotto, Lingotto Musica 2025
Camerata Salzburg
Violino concertatore e direttore Giovanni Guzzo
Pianoforte e direttore Alexander Lonquich
Ludvig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n.4 in Sol Maggiore op.58; Johannes Brahms: Serenata n.1 in Re Maggiore op.11.
Torino, 7 maggio 2025.
L’indisposizione improvvisa di Hélène Grimaud ha costretto Lingotto Musica ad una sua rapida sostituzione, da qui la chiamata di Alexander Lonquich con conseguente cambio di programma, dal Concerto n.1 di Brahms al n.4 di Beethoven. Lonquich è ormai, nel panorama pianistico odierno, un imprescindibile riferimento per Mozart, Schumann, Schubert e Beethoven. I cinque concerti per pianoforte di quest’ultimo lo vedono primeggiare, quasi sempre nella doppia posizione di direttore e di solista. I pezzi gli sono molto più che consueti e li domina quindi con la sicurezza che gli danno una conoscenza assoluta e un estremo approfondimento sia testuale che contenutistico. La libertà di fraseggio e di colori, che riesce ad esprimere, lo vede inevitabilmente sia alla tastiera che al comando della formazione orchestrale. Al Lingotto, la fantastica Camerata Salzburg, si è ben adattata alle variazioni di colore, di intensità fonica e di velocità che le venivano richieste. Beethoven dissemina tutta la partitura di pp pianissimo, ben raro il f forte e ancor più il fortissimo, per cui il dialogo tra solo e tutti sta sempre in bilico su un confronto concorde e assonante che richiede il massimo di coordinazione e d’intesa tra le parti. Il pianista, dopo una breve arpeggio preludiante, attacca, con un impalpabile pianissimo, le cinque battute solistiche del tema che, a detta di molti esecutori, si ergono a scoglio e pietra angolare dell’intera opera. L’orchestra replica anch’essa in pianissimo, confermando così il clima d’intesa e non di opposizione, come almeno pare intenderlo Lonquich, che anima il primo movimento. La lunga cadenza è affrontata con virtuosismo strepitoso, ancor più impressionante perché celato da una discreta ed avvolgente colloquialità. Il breve Andante con moto, caratterizzato dalla costante richiesta al pianoforte di un pianissimo, screziato con sempre cantabile e sempre espressivo, commuove ed affascina. Lo Steinway di Lonquich quasi sospira e riempie l’enorme sala con un nitidissimo filo di suono, sempre ben articolato e sgranato. L’orchestra, che dovrebbe replicargli in forte, lo fa con la discrezione che si addice ad amici che amabilmente si sorreggono. Il lungo Rondò finale completa, quasi in allegria, il gioco delle parti. La sensibilità e la maestria di Lonquich parrebbero collocare il concerto non tra le tempeste umorali romantiche, ma nella ragionevolezza solidale e tollerante del Beethoven illuminista dell’Inno alla Gioia. Il numerosissimo pubblico del Lingotto sancisce un gran successo. Dal pianista gli vengono quindi offerti due fuori programma; sempre in ambito ‘800 Classico: la Novelletta n2 di Schumann e la Bagatella op.126 n.6 di Beethoven. Ancora un virtuosismo digitale e di tocco folgorante, non esibito, ma volontariamente celato forse anche per un’innata vena di timidezza. Seguono intensi e convinti applausi.Dopo l’intervallo, i cinquanta elementi della Camerata Salzburg riprendono la scena per la Serenata n.1 di Brahms. Sono in piedi, senza sedie, e li guida Giovanni Guzzo, il violino concertante. Brahms con le due Serenate del biennio 1858 – ‘59, si rifà alla tradizione delle analoghe composizioni di Mozart, di Haydn e della scuola di Mannheim, arricchite, sia tecnicamente che contenutisticamente, da quanto ha ricavato da Beethoven e da Schumann. Ha 25 anni e si sta qui esercitando per raggiungere il suo massimo obiettivo: scrivere Sinfonie come unico e vero erede di Beethoven. Ci vorranno però ancora circa vent’anni prima che la sua Sinfonia n.1 sia stampata. Lo strumentale della Serenata è già comunque del tutto paragonabile a quello di una grande composizione sinfonica. Le indicazioni di colori, gli impasti strumentali e gli andamenti ritmici si presentano pure di una tale complessità da richiedere sicuramente la presenza di una direzione che li coordini. La Camerata Salzburg, che invece si affida al violinista concertante, deve aver fatto sicuramente un gigantesco lavoro di preparazione, visto che l’esecuzione procede senza esitazioni, con assoluta pulizia e ammirabile sicurezza. Giovanni Guzzo, quasi defilato, con l’archetto del violino, regola gli attacchi con il concorso degli altri elementi del concertino, perfettamente coordinati con lui. Uno stupefacente ed efficacissimo lavoro di squadra che certifica lo sforzo di una gran quantità di ore di prova. A fuoco le sezioni degli archi, ma pure sorprendenti le prestazioni di legni e ottoni. Un’eccellente flautista, con i suoi numerosissimi e impeccabili interventi solistici, ha brillato tra gli strumentini. Lo scoppiettante esito complessivo, che pur non prescinde da risvolti più ombrosi e patetici, incanta l’uditorio e ne suscita incondizionati apprezzamenti e festose approvazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Torlonia: “Racconti Romani. Circolo dei cuori infranti”

gbopera - Dom, 11/05/2025 - 23:59

Roma, Teatro Torlonia
RACCONTI ROMANI
Circolo dei cuori infranti

dai testi di Alberto Moravia
con Paolo Cresta
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 11 maggio 2025 

C’è una Roma che non ha bisogno di essere mostrata, ma evocata. È la Roma dei vicoli mentali, dei pensieri inconfessati, delle malinconie sedimentate sotto l’intonaco della quotidianità. È quella che Alberto Moravia raccontava nei suoi Racconti romani, e che oggi torna a vivere grazie alla scena, al Teatro Torlonia, nel progetto Circolo dei cuori infranti, diretto da Lucia Rocco, interpretato da Paolo Cresta, e articolato in una tessitura narrativa che mette in dialogo tre tra i più celebri racconti dello scrittore romano: Non approfondire, La controfigura e Lo sciupone. Lungi dall’essere un adattamento tradizionale, Circolo dei cuori infranti è un’esperienza immersiva che coinvolge lo spettatore sin dal primo sguardo, sin dalla prima voce. Si abbattono le barriere canoniche del teatro: la platea non è più spettatrice silente, ma parte integrante di un incontro. Un incontro di storie, certo, ma anche di anime dolenti, solitudini condivise, frammenti d’identità che si specchiano nel vissuto altrui. Come suggeriscono le parole introduttive dello spettacolo, «chi parla non è un attore, ma uno di noi, che condivide la sua storia». E la storia non è mai solo quella che si narra, ma quella che si ascolta e si riconosce. L’ambientazione è scarna, volutamente sfumata: non c’è bisogno di scenografie didascaliche, perché è la lingua – e il corpo – a plasmare i luoghi. Roma appare e scompare come un miraggio urbano, come una cartolina logora degli anni Cinquanta, che ancora conserva il profumo acre di un tempo incerto. Non si cerca una ricostruzione realistica, bensì una sospensione, un habitat mentale in cui lo spettatore si muove come dentro una memoria collettiva. Lucia Rocco dirige con misura, scavando nelle pieghe del testo moraviano, rivelandone le nervature interiori più che la superficie. La scelta dei racconti è felice: ognuno mette in scena una diversa declinazione della sconfitta emotiva, della ricerca d’amore nel vuoto postbellico. I protagonisti sono uomini comuni – non eroi, non caricature – in bilico tra pulsioni e abbandoni, che si raccontano con un linguaggio semplice ma carico di sottotesti. Paolo Cresta dà corpo e voce a questi personaggi con un’intensità misurata, mai eccessiva, portando in scena non la teatralità ma la verità, non l’interpretazione ma la confessione. Moravia, del resto, con questi racconti aveva saputo innestarsi nel solco di una lunga tradizione di scrittori romani – dal Belli a Pascarella, da Trilussa fino alla narrativa più spiazzante del secondo dopoguerra – ma distanziandosi da ogni tentazione folcloristica. La sua Roma, pur popolata da figure popolari e piccolo-borghesi, è lontana dall’aneddoto: è laboratorio esistenziale. Scriveva Emilio Cecchi a proposito di Racconti romani: «Una quantità di personaggi che se ne stanno chiusi e saldati in una elementare, inarticolata realtà; in una sfera, in una categoria premorale… della nuda e crida vitalità». Ed è proprio questa “vitalità cruda” che Circolo dei cuori infranti restituisce, con pudore e precisione. Si avverte, nella costruzione registica, la volontà di non imbellettare il disagio, di non trasfigurare la frustrazione quotidiana in artefatto estetico. Tutto è concreto, eppure intimo. I personaggi si muovono su una linea invisibile che separa la confidenza dalla confessione, il parlato dalla rivelazione. C’è, in questo allestimento, una fiducia silenziosa nell’efficacia della parola. Non servono effetti, né scorciatoie emotive. La drammaturgia si regge su un equilibrio fragile e potente: la capacità di mostrare l’invisibile. In tal senso, il teatro non è più luogo dell’illusione ma della risonanza. Le sedute non sono più file di spettatori, ma un vero e proprio circolo – esistenziale prima che scenico – in cui ogni cuore infranto trova eco in quello accanto. L’interazione, sobria ma significativa, rende l’esperienza ancora più viva: un saluto, un gesto, uno scambio minimo diventano atti performativi. Il pubblico non è chiamato a recitare, ma a partecipare. La solitudine non è mai così sola, quando viene condivisa in uno spazio protetto, fatto di parole e ascolto. Questo spettacolo è anche un omaggio – sottile ma affettuoso – alla scrittura di Moravia, alla sua capacità di fotografare l’umano senza giudicarlo, di raccontare l’erosione del desiderio, la stanchezza della speranza, la fatica di vivere in una città che cambia, che si sfalda e che pure rimane la stessa. Una Roma moderna e “stralunata”, come scrisse lo stesso Moravia, alienata e vitale, dolente e piena di contraddizioni. Circolo dei cuori infranti non è solo un’operazione letteraria, ma un dispositivo teatrale che restituisce valore al tempo dell’ascolto e alla fragilità come risorsa. All’interno del più ampio progetto Racconti romani, curato da Emanuele Trevi ed Elena Stancanelli, lo spettacolo proietta il Teatro Torlonia come luogo di attraversamento culturale tra letteratura e scena, tra memoria e presente. È in questi incroci che il teatro si fa, ancora una volta, spazio di verità: lì dove il racconto di un altro si fa specchio, e ogni spettatore si scopre, se non consolato, almeno meno solo.

Categorie: Musica corale

Castel Gandolfo, Polo Museale: “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo”

gbopera - Dom, 11/05/2025 - 20:00

Castel Gandolfo, Polo Museale
BELLINI E SODOMA. PASSIONE DI CRISTO
organizzazione Direzione dei Musei e dei Beni Culturali
in collaborazione con laDirezione delle Ville Pontificie
Castel Gandolfo, 11 maggio 2025
«In ogni cadavere cristologico si cela un apologo pittorico: non la morte, ma la sua forma, e dunque l’arte stessa.»
(F. Zeri, appunti inediti dal Fondo Federico Zeri, Biblioteca di Storia dell’Arte, Bologna)
Così si potrebbe aprire una dissertazione degna del miglior esegeta delle immagini, davanti alla mostra attualmente in essere presso il Polo Museale di Castel Gandolfo: “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo”, un piccolo ma densissimo saggio visivo, curato da Fabrizio Biferali – Responsabile per l’Arte dei secoli XV e XVI – che convoca due vertici del pathos figurativo italiano per indagare la perenne tensione iconografica tra caducità e redenzione, tra sangue e gloria, tra la materia e la sua trascendenza. L’accostamento è di quelli che obbligano alla riflessione dotta, non solo sul piano della storia dell’arte ma, più sottilmente, su quello della cultura della rappresentazione sacra. Da un lato, il Compianto sul Cristo morto di Giovanni Bellini – tavola destinata in origine alla cimasa della Pala di Pesaro, eseguita attorno al 1475 per la chiesa di San Francesco nella medesima città – opera che riassume, in una compostezza estrema, la quintessenza del dolore veneziano, nutrito di pietas bizantina e di misura umanistica. Dall’altro, il Cristo morto sorretto da angeli di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, databile attorno al 1505 e proveniente dall’Arciconfraternita romana di Santa Maria dell’Orto, ove la figura di Cristo, adagiata e quasi fluttuante, appare come sospesa tra l’eco raffaellesca e il sogno nordico, riletto alla luce di una sensualità inquieta, tutta lombarda. Bellini, nella sua tavola, costruisce una scena ieratica ma non immobile, dove il corpo del Cristo disteso è trattato con la stessa attenzione meticolosa che egli riserva alle Madonne: non vi è fretta narrativa, né alcuna concessione all’enfasi. È un quadro dove il silenzio è forma pittorica, e la compostezza del dolore assume tratti quasi liturgici. Il fondo oro perduto, le velature minute, le ombre che si assottigliano sullo sfondo, tutto testimonia di una mano che, più che dipingere, scolpisce la luce. Non sorprende che, per lungo tempo, l’opera fu attribuita a Mantegna: la rigidità marmorea del Cristo, la costruzione prospettica della pietra tombale, l’impaginazione scultorea dei personaggi si legano a quella linea severa, padana, che Bellini stesso conobbe e superò, fondendo la scuola ferrarese con la nuova luce veneziana. Solo nel 1871, dopo un travagliato percorso – che la vide trafugata dalle truppe napoleoniche nel 1797 e restituita all’Italia nel 1816 – l’opera fu riconosciuta come autentico lavoro del maestro veneziano e inserita stabilmente nella Pinacoteca Vaticana. Il restauro recente, condotto con scrupolo filologico da Marco Pratelli e sostenuto dalla generosità del Capitolo dell’Illinois dei Patrons of the Arts in the Vatican Museums, ha restituito all’opera il suo equilibrio tonale originario. Le indagini diagnostiche, eseguite dal Gabinetto di Ricerche Scientifiche, hanno confermato la struttura preparatoria e il raffinato uso delle lacche, confermando l’altissimo livello tecnico raggiunto da Bellini negli anni della maturità. Diversa, e in certo senso più perturbante, è la lettura offerta dal Sodoma. Il suo Cristo morto sorretto da quattro angeli si pone su un registro visivo che non è più quello della compostezza liturgica, ma dell’estasi drammatica. Il corpo del Redentore non giace, ma è sollevato, portato, quasi offerto. Gli angeli non piangono, ma danzano attorno alla figura centrale, in un gioco di panneggi, torsioni e sguardi che ricorda più la visione di un Beato Angelico trasfigurato dalla sensibilità manierista che la compostezza rinascimentale. La derivazione dalla placchetta bronzea del Moderno, artista veronese attivo tra fine Quattrocento e primo Cinquecento, è una citazione colta, un segno della cultura figurativa e antiquariale del Sodoma, che fu artista sensibilissimo alle contaminazioni, alle migrazioni iconografiche, alla libertà di interpolazione. Il restauro condotto tra il 1933 e il 1934, nei laboratori vaticani, ha permesso la conservazione dell’opera all’interno di una preziosa cornice settecentesca, ornata dal simbolo del cipresso, elemento distintivo della Madonna dell’Orto e dell’Arciconfraternita che la commissionò. Il legame tra immagine e devozione si fa qui strettissimo, come accade spesso nell’arte romana del primo Cinquecento, dove l’interiorizzazione del sacro passa attraverso forme ardite, prossime al barocco in nuce. Accostare queste due opere non è un semplice atto curatoriale: è un’operazione intellettuale. Si pongono a confronto due idee di corpo, due modelli di pietà, due modi di intendere la morte come soglia: Bellini la contempla, Sodoma la attraversa. L’uno scolpisce il silenzio del sepolcro, l’altro invoca la voce della resurrezione. In entrambi, però, il corpo del Cristo non è morto: è pittoricamente eterno. È il corpus mysticum della pittura italiana, che nella Passione trova il proprio teatro simbolico, e nel dolore la grammatica più eloquente. Collocata negli ambienti ipogei del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo – luogo di residenza, contemplazione e oggi anche di apertura al pubblico –, la mostra diviene così non solo un evento espositivo, ma un laboratorio di visione. L’ingresso, incluso nel biglietto al complesso museale, consente al visitatore di proseguire l’itinerario nei Giardini del Moro e nel Giardino Segreto, laddove il pensiero si fa passeggio e la riflessione prende il passo lento della natura. “Bellini e Sodoma. Passione di Cristo” non è mostra per turisti frettolosi, ma per osservatori lenti, per studiosi e pellegrini della bellezza. “Ogni quadro è un enigma che si risolve nella pazienza dello sguardo“: e davanti a questi due corpi martoriati e splendenti, la pazienza è una forma di devozione critica.

Categorie: Musica corale

Opéra de Lyon: “Peter Grimes”

gbopera - Dom, 11/05/2025 - 17:40

Opéra National de Lyon, saison 2024/2025
“PETER GRIMES”
Opéra en 3 actes sur un livret de Montagu Slater, d’après un poème de George Crabbe
Musique de Benjamin Britten
Peter Grimes SEAN PANIKKAR
Ellen Orford SINEAD CAMPBELL-WALLACE
Capitaine Balstrode ANDREW FOSTER WILLIAMS
Auntie CAROL GARCIA
Mrs Sedley KATARINA DALAYMAN
Swallow THOMAS FAULKNER
Ned Keene ALEXANDER DE JONG *
Bob Boles FILIPP VARIK *
1re nièce EVA LANGELAND GJERDE *
2e nièce GIULIA SCOPELLITI **
Hobson LUKAS JAKOBSKI
John YANNICK BOSC
Le Révérend Adams ERIK ÅRMAN
** Solistes du Lyon Opéra Studio, promotion 2024-2026
* Lyon Opéra Studio, promotion 2022-2024
Orchestre et Chœurs de l’Opéra de Lyon
Direction musicale Wayne Marshall
Chef des Chœurs Benedict Kearns
Mise en scène Christof Loy
Scénographie Johannes Leiacker
Costumes Judith Weihrauch
Lumières Bernd Purkrabek
Chorégraphie Thomas Wilhelm
Lyon, le 9 mai 2025
L’Opéra de Lyon a une nouvelle fois ouvert ses portes à Peter Grimes, après une dernière représentation en 2014 dans le cadre d’un Festival Britten. Cette fois, dans la mise en scène de Christof Loy créée au Theater an der Wien en 2021, l’œuvre de Benjamin Britten est revisitée avec une audace qui défie les conventions. Contrairement à la vision traditionnelle du village de pêcheurs, Loy évacue les lieux emblématiques du livret – le port et son bord de mer, le pub The Boar, l’église et la cabane de Grimes – pour plonger les personnages dans un espace d’enfermement saisissant. De grandes parois noires et un parterre nu et assez incliné deviennent le théâtre des tensions humaines et sociales, où le chœur et les solistes évoluent, prisonniers des préjugés et des ragots d’une communauté étriquée. De très rares éléments de décor sont employés, des chaises disparates, un canapé et l’omniprésent lit en avancée de scène, le tout baignant dans les belles lumières de Bernd Purkrabek. Cette production de Peter Grimes offre une interprétation marquante, portée d’abord par un Sean Panikkar saisissant. Pour sa première incarnation du rôle-titre, le ténor américain déploie une intensité vocale impressionnante, voix bien concentrée et projetée qui conjugue puissance et expressivité. Son investissement scénique et la justesse de son engagement vocal contribuent à faire de ce spectacle un moment fort de la saison. Il énonce son air sublime « Now the Great Bear and Pleiades » avec une suprême douceur, en avançant vers Balstrode dans un regard amoureux. Le metteur en scène indique en effet dans sa note d’intention que l’homosexualité de Grimes ne fait pour lui aucun doute, avis confirmé plus tard au vu du triangle amoureux constitué de Grimes, Balstrode et du deuxième apprenti, un jeune homme ici au lieu du garçon du livret. À ses côtés, Sinead Campbell-Wallace en Ellen Orford propose une interprétation nuancée, bien qu’un peu discrète dans son registre grave. Les aigus, en revanche, résonnent avec une vigueur parfois surprenante, plus sonore par instants que l’aspect élégiaque et aérien associé d’ordinaire au personnage. Andrew Foster-Williams, quant à lui, revisite son rôle de Balstrode, déjà interprété à Lyon en 2014. Son baryton au vibrato plus prononcé se révèle parfois déroutant, mais sa présence scénique reste imposante et habilement modérée. Parmi les nombreux rôles secondaires, le Swallow de Thomas Faulkner et Alexandre de Jong en Ned Keene se distinguent par une maîtrise irréprochable, voix solidement timbrées et d’une juste musicalité. On remarque aussi le très inquiétant Hobson de Lukas Jakobski, voix particulièrement sombre et noire. Carol Garcia possède la gouaille et la profondeur de timbre pour incarner la figure de Auntie, mais l’instrument reste un peu étroit, tandis que Katarina Dalayman en Mrs Sedley a des allures de hippie baba cool, qui attend fébrilement sa livraison de laudanum. Le Chœur de l’Opéra de Lyon, préparé avec précision par Benedict Kearns, livre une performance d’une rigueur exemplaire, chaque intervention étant parfaitement rythmée et ajustée au climat dramatique de l’œuvre. Enfin, l’orchestre dirigé avec brio par Wayne Marshall insuffle à la partition de Britten une intensité qui enveloppe et donne une profondeur vibrante à cette mise en scène audacieuse. Cette production de Peter Grimes à Lyon s’impose donc comme une lecture puissante, portée par des interprètes engagés et une vision musicale profondément maîtrisée. Photos ©Agathe Poupeney

 

Categorie: Musica corale

Roma, Basilica dei Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio al Quirinale: “Madame Elisabeth”

gbopera - Dom, 11/05/2025 - 15:46

Roma, Basilica dei Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio al Quirinale
“MADAME ELISABETH”
Oratorio in tre atti per soli, coro, orchestra e organo
Libretto di Dominique Sabourdin-Perrin
Musica di Jean Galard
La Regina MARIA CHIARA FORTE
Madame Elisabeth BIANCA ASTURIANO
Madame Royale CARLA FERRARI
Il Re ANDREA D’AMELIO
Luigi XVII ELENA ZERVINI
Funzionario municipale GIULIANO MAZZINI
Pauline de Tourzel NICOLETA TORTIU
Cléry MARCO CIARDO
Chaumette ANDREA MARTUCCI
Chaveau-Lagarde CARLO PUTELLI
Dumas ANDREA JIN CHEN
Fouquier-Tinville ANDREA FERMI
Il guardiano Richard ANDREA D’AMELIO
Orchestra Solisti e Coro della Cappella Ludovicea
Direttore ILDEBRANDO MURA
Roma, 10 maggio 2025
Il 10 maggio 1794, appena trentenne e totalmente estranea a qualsivoglia vicenda politica, saliva sulla ghigliottina Madame Elisabeth, la sorella minore nubile di Luigi XVI insieme ad un gruppo di altri 24 aristocratici. Fouquier-Tinville impedì al suo avvocato d’ufficio di incontrarla per tentare di organizzare una qualche difesa nella notte precedente il processo che durò un solo giorno, al termine del quale come prevedibile venne condannata a morte e ad essere giustiziata per ultima, in ulteriore spregio al suo rango ed alla monarchia. Come già avvenuto con la falsa accusa di incesto rivolta alla regina Maria Antonietta durante il processo anche questa infame decisione del tribunale rivoluzionario si risolse in una inutile crudeltà che rafforzò l’immagine della principessa, mettendone in luce le solide virtù cristiane. Ella infatti con fede serena ed autentica confortò tutti coloro che l’avrebbero preceduta sul patibolo cercando di prepararli ad una morte cristiana e presto si diffuse la notizia che immediatamente dopo la sua decapitazione si sarebbe percepito un profumo di gigli e rose. Profondamente religiosa, caritatevole, assai colta e sportiva volle condividere nonostante le insistenze del Re suo fratello al quale era molto legata il destino della famiglia reale fino alla prigionia nella Torre del Tempio. Come suo Luigi XVI l’anno prima, venne dichiarata martire della Chiesa Cattolica nel 1794, serva di Dio nel 1953 e dal 1927 è in corso una causa di beatificazione riaperta poi nel 2017. Nell’ambito della ricca stagione concertistica che grazie all’impegno del rettore rev d Elio Lops si svolge nella basilica di San Vitale a Roma è stato proposto in prima assoluta in Italia questo oratorio in tre atti dedicato alla figura della principessa Elisabeth composto da Jean Galard su libretto di Dominique Sabourdin-Perrin e già eseguito una sola volta in Francia con un organico ridotto. Il libretto appare un po’ prolisso e qua e là sembra perdersi in inutili particolari lacrimosi che contribuiscono ad allungare la durata dell’oratorio senza di fatto approfondire o porre in evidenza la grandezza spirituale del personaggio. La musica scritta dall’organista e compositore contemporaneo Jean Galard viceversa presenta diversi punti di interesse in considerazione della evidente sapienza di scrittura in linguaggio tonale e della indubbia riuscita di alcuni momenti come il finale. Forse potrebbe essere il caso di pensare ad una revisione che ne abbrevi i tempi per rendere più semplici la fruizione da parte del pubblico e l’impegno organizzativo futuro anche in considerazione del cospicuo numero di solisti necessari. Si deve questa questa interessante proposta, all’orchestra, ai solisti ed al coro della Cappella Ludovicea diretti dal maestro Ildebrando Mura, il quale con suono limpido e chiarezza di concertazione guida con braccio sicuro gli interpreti durante tutto l’arco espressivo dell’oratorio vivacizzando le non poche ripetizioni della partitura ed i momenti più statici dei recitativi. Alla fine lunghi e assai calorosi applausi per tutti i bravi interpreti di una composizione nuova e che ha l’indubbio merito di ricordare una figura femminile di universale spessore etico e di profondo valore religioso, involontaria, ma lucida e consapevole vittima della storia.

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Terza domenica dopo la Pasqua (Jubillata)

gbopera - Dom, 11/05/2025 - 07:55

La terza Cantata in ordine cronologico destinata alla terza domenica dopo la Pasqua, detta “Jubilate” è Wir müssen durch viel Trübsal in das Reich Gottes eingehen BWV 146 eseguita la prima volta a Lipsia il 12 maggio 1726 (ma si è ipotizzato il 1728). La partitura utilizza  nei primi due numeri i primi movimenti di un concerto per violino, probabilmente risalente al periodo di Kothen e del quale noi conosciamo una successiva versione per clavicembalo e archi BWV1052. Il terzo movimento è stato invece utilizzato da Bach come brano introduttivo della Cantata BWV88. Se il primo movimento viene trasformato nella Cantata in un “Allegro” da Concerto, una “Sinfonia” (Nr.1) con organo “obbligato”, il secondo movimento (Nr.2) si presenta come una pagina mottettistica, in stile imitativo, dotata di una scrittura vocale che risulta incastonata in quella strumentale, che vede anche qui la forte presenza di un organo concertante, prototipo della successiva versione cembalistica. Il testo si basa su un frammento tratto dagli Atti degli Apostoli (cap.14 vers.22) e da questo motto prende spunto il poeta, Gregorius Richter che si è poi ispirato a passi biblici, dal Salmo 126, vers.5 (Nr.5), dalla lettera ai Romani, cap.8 vers.18 (Nr.6). L’aria bipartita del soprano (il citato nr.5) è il punto centrale della partitura, ma anche uno dei punti più alti della produzione bachiana. Su un tenue rivestimenti degli archi si innesta un flauto traverso e una coppia di oboi d’amore che danno leggerezza e vaporosità a un duplice impianto vocale. Un’esposizione strumentale  di 16 battute ripresa in conclusione e inserita per separare le due sezioni dell’aria, prelude a un discorso che nella sua prima parte, con la sua linea sinuosa e tormentata si accentra sul concetto di lacrime, mentre nella seconda riflette il giubilo espresso nel testo. La Cantata comprende altre 2 arie, delle quali, la nr.7 è un duetto caratterizzato da ritmi di danza, nel quale, forse,  è da vedersi la parodia di una pagina vocale profana, ora perduta.
Nr.1Sinfonia
Nr.2 – Coro
È necessario attraversare molte tribolazioni
per entrare nel regno di Dio.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Voglio raggiungere il cielo,
perversa Sodoma, io e te
siamo ora separati.
La mia dimora non è la,
poiché io vivrò presso di te
in pace per sempre.
Nr.4 – Recitativo (Soprano)
Ah! Se fossi già in cielo!
Non sarei attirato dell’empio mondo!
Mi sveglio in lacrime,
in lacrime mi rimetto a letto,
mi sento assediato!
Signore! Guardali
mi odiano e senza ragione,
come se le potenze del mondo
volessero la mia morte;
così vivo gemente e paziente
abbandonato e reietto,
persino della mia sofferenza essi hanno
una grande gioia.
Mio Dio, quanto questo mi pesa,
Ah! se fossi
mio Gesù, con te
già da oggi in cielo!
Nr.5 – Aria (Soprano)
Semino le mie lacrime
con l’angoscia nel cuore.
Eppure il mio cuore sofferente
risplenderà
nel giorno del raccolto benedetto.
Nr.6 – Recitativo (Tenore)
Sono pronto
a portare pazientemente la mia croce;
so che tutte le mie angosce
non hanno niente dello splendore
che Dio alla folla degli eletti
ed anche a me rivelerà.
Ma piango, poiché il rumore del mondo
appare come gioia davanti al mio dolore.
Ma ecco arriva il tempo
in cui il mio cuore gioisce,
e in cui il mondo senza speranza piange.
Chi combatte e lotta contro questo nemico,
costui sarà incoronato;
poiché Dio non lascia nessuno senza lavoro
in cielo.
Nr.7 – Aria/Duetto (Tenore, Basso)
Come sarò gioioso,
come sarò riconfortato
quando tutti i miei tormenti saranno passati!
Brillo come una stella,
risplendo come il sole,
la divina, benedetta gioia non sarà offuscata
da alcun pianto, lacrima e lamento.
Nr.8 – Corale
A chi, benedetto, va laggiù
dove la morte non può colpirlo,
a lui sarà accordato
tutto quello che desidera.
Egli vive nella città fortificata
dove Dio abita;
egli è condotto al castello
dove l’avversità non può toccarlo.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wir müssen durch viel Trübsal in das Reich Gottes eingehen” BWV 146

 

 

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Napoli, Teatro Bellini: “Morte accidentale di un anarchico” dal 13 maggio al 1° giugno 2025

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 22:50

Napoli, Teatro Bellini
“MORTE ACCIDENTALE DI UN ANARCHICO”
Di Dario Fo e Franca Rame
Con: CATERINA CARPIO, ANNIBALE PAVONE, DANIELE RUSSO, EDOARDO SORGENTE, EMANUELE TURETTA
Regia Antonio Latella
Dramaturg Federico Bellini
Scene Giuseppe Stellato
Costumi Graziella Pepe
Musiche e Suono Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Movimenti Isacco Venturini
Assistente alla Regia Mariasilvia Greco
Costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del PICCOLO TEATRO DI MILANO – TEATRO D’EUROPA
Produzione Fondazione teatro di Napoli – Teatro Bellini
Dal 13 maggio al 1° giugno 2025, al Teatro Bellini, va in scena Morte accidentale di un anarchico.
Nel 1921 un emigrante italiano «volò» fuori da una finestra del palazzo della polizia di New York: è questo l’episodio che ispirò “Morte accidentale di un anarchico”, una delle commedie più celebri di Dario Fo. L’azione comincia in una questura, dove il commissario Bertozzo si trova a fronteggiare un matto, capace di spacciarsi per più persone, motore e filo conduttore dell’intera vicenda. “La morte accidentale” a cui allude il titolo dell’opera è quella dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano nel 1969, in uno degli episodi più controversi della storia italiana del dopoguerra; dalla strage di Piazza Fontana, per cui Pinelli era indagato, ad alcuni dei terribili fatti che ne seguono, Dario Fo interroga con la sua opera non solo il caso giudiziario specifico, ma parte di un periodo storico ancora oggi difficile da decifrare e consegnare agli archivi.
Dalle Note di Regia:
«[…] Fo, con questo testo, parlava di scandalo; la sola cosa che vorrei riuscire a fare, graffiando con una risata da Joker, è quella di non dimenticare cosa e chi siamo stati. Provare a non cambiare la storia, ma tornare sul luogo del delitto non per attaccare coloro che non ci sono più, ma per comprendere e non ripetere gli stessi errori. Si può riuscire con una regia? Forse no, ma si deve provare.» (Antonio Latella). Qui per tutte le informazioni. Foto Teatro Bellini, “Morte accidentale di un anarchico” – prove

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Madrid, Teatro Real: “La fiaba dello zar Saltan”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 19:47

Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“LA FIABA DELLO ZAR SALTAN”
Opera in un prologo e quattro atti su libretto di Vladimir Belski, basato sul racconto folklorico in poesia di Aleksandr Pushkin
Musica di Nikolai Rimski-Korsakov
Zar Saltan ANTE JERKUNICA
Zarina Militrissa SVETLANA AKSENOVA
Tkačicha STINE MARIE FISCHER
Povaricha BERNARDA BOBRO
Babaricha CAROLE WILSON
Zarevic Gvidon BOGDAN VOLKOV
Zarevna Lebed (Principessa Cigno) NINA MINASYAN
Un vecchio EVGENY AKIMOV
Messaggero ALEJANDRO DEL CERRO
Skomoroj ALEXANDER VASSILIEV
Marinaio ALEXANDER KRAVETS
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Ouri Bronchti
Maestro del Coro José Luis Basso
Regia e scene Dmitri Tcherniakov
Costumi Elena Zaytseva
Luci e videoproiezioni Gleb Filshtinsky
Nuova produzione del Teatro Real di Madrid, in coproduzione con il Théatre Royal de La Monnaie / de Munt
Commemorazione del 225o anniversario della nascita di Aleksandr Pushkin
Madrid, 8 maggio 2025

Che i registi del teatro musicale non credano (per lo più) alle favole e alla loro traduzione scenica, qualche volta può essere foriero di riflessioni molto interessanti. La fiaba dello zar Saltan è il perfetto racconto folklorico, tutto articolato da dinamiche soprannaturali e mezzi magici; per questo, la versione teatrale dell’opera di Rimski-Korsakov che subito torna alla mente è quella di Luca Ronconi, datata 1988, attenta a rendere visibile la crescita prodigiosa del principe Gvidon, che in pochi minuti diventa, da bebè, adolescente (nella memoria è una ripresa deliziosa, al Comunale di Firenze nel 1997). Un uomo di teatro come Dmitri Tcherniakov, esperto conoscitore del repertorio russo, capace di suscitare nel pubblico del teatro d’opera “inestinguibil odio” e “indomato amor” (in particolare, a Madrid si chiacchiera ancora del suo Don Giovanni, presentato nel 2013, al tramonto dell’era di Gerard Mortier), con lo Zar Saltan concretizza l’idea, molto seria, di trasformare una fiaba popolare in narrativa terapeutica per curare un problema sociale come l’autismo. Giacché questo si realizza nel rispetto della partitura e del libretto, il merito artistico è ancor più grande. Tutto lo spettacolo si inquadra nella confessione iniziale di una madre, che presenta al pubblico il figlio autistico, unitamente alla propria disperazione; adesso – dice la donna – proverà a raccontargli una storia che lo riguarda, perché egli è stato abbandonato dal padre, esattamente come il protagonista dell’opera. Pertanto, il ragazzo autistico dagli abiti dimessi si identifica con il principe Gvidon (e la madre con la zarina Militrissa, naturalmente), vivendo in modo consapevole e sereno tutte le tappe del percorso di formazione; al termine dell’opera, però, quando lo zar incontra la sposa e il figlio per riconciliarsi con loro, il ragazzo soffre una violenta crisi epilettica e rifiuta il ricongiungimento. Forte dell’enigmatico coro finale («Ecco: così finisce la storia, ed è tutto quello che dovete sapere»), Tcherniakov sembra sconfessare il valore curativo dell’arte, della narrazione, addirittura della comunicazione in generale. Lo spettacolo è un successo notevole prima di tutto perché riesce assai bene sul piano teatrale, grazie alle straordinarie doti di Bogdan Volkov: non solo quelle vocali di tenore squillante, dalla voce ben proiettata, ricca di armonici e sicura, ma anche di attore sotto costante sforzo di iperattivismo, per imitare la gestualità iterativa e spesso convulsa di un bambino autistico. Dalla sua immaginazione si sprigionano i disegni coloratissimi che fanno da fondale alle apparizioni delle creature magiche (il cigno, lo scoiattolo, i soldati che emergono dal mare), ma anche gli altri personaggi, ossia lo stuolo di donne malvage (le sorelle di Militrissa e la crudele Babaricha) e di uomini bonari e imbecilli, tutti raffigurati come burattini colorati a pennarello: i costumi di Elena Zaytseva rendono visiva la goffaggine di tutte le deliziose figurine. In ogni caso, l’elemento che rende possibile la perfetta fusione dei vari livelli narrativi ed estetici è la musica di Rimski-Korsakov; il direttore francese Ouri Bronchti è autore di una concertazione accuratissima, possibile soltanto a chi abbia studiato la partitura con assiduità e in più occasioni. Per questo, riesce a esaltare la trasparenza dei temi più raffinati (quello della Principessa Cigno, in particolare), insistere sulla vivacità ritmica degli effetti imitativi (il Volo del calabrone, ça va sans dire), dinamizzare i momenti pompier più coinvolgenti (un solo caso, indimenticabile: la polifonia di ottoni che scandisce l’arrivo dei marinai al regno dello zar Saltan è così grandiosa e variegata nelle sonorità da sembrare un frammento di Janaček). La compagnia vocale è generalmente buona, anche perché tutti gli interpreti principali sono specialisti delle rispettive parti: evocativa dell’espressività popolaresca, tutta appoggiata “sul davanti”, incisiva e tagliente la vocalità delle tre antagoniste (Stine Marie Fischer, contralto, la tessitrice, magnifica; Bernarda Bobro, soprano, la cuoca; Carole Wilson, mezzosoprano, Babaricha). Diverso il caso di Svetlana Aksenova, il soprano che interpreta la zarina Militrissa, perché la sua emissione ha un appoggio più solido, sebbene la cavata non sia sempre adeguata alle richieste. Il basso Ante Jerkunica è uno zar Saltan scenicamente perfetto, anche se la voce (abbastanza debole nel registro inferiore) incorre in piccole stonazioni. Il soprano Nina Minasyan dà voce a Lebed, la Principessa Cigno, con la giusta delicatezza nei vocalismi e nelle sfumature della difficile parte (vari attacchi risultano più che ostici). Tra i comprimari spicca il tenore Evgeny Akimov, nella parte del Vecchio. Ottima la prova del Coro del Teatro Real, preparato da José Luis Basso. Al termine della recita, gli applausi vanno crescendo per tutti, e il pubblico di Madrid dimostra un apprezzamento completo per lo spettacolo, nell’unione di musica, canto e regia; successo dovuto, dal momento che questo Zar Saltan stimola soprattutto la riflessione. Nelle videoproiezioni in forma di disegni a carboncino che accompagnano l’interludio centrale del II atto si vede un bambino smarrito in mezzo a una folla che gli volge le spalle e lo ignora: allora, più che un brillante esercizio metanarrativo sulla salute pubblica, quella di Tcherniakov non sarà piuttosto una denuncia della scarsa responsabilità degli adulti nei confronti dell’infanzia?   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid

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Roma, Teatro dell’Opera: “Tosca”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 18:50

Teatro dell’Opera di Roma Stagione Lirica 2024/25
“TOSCA”
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Tosca  ANNA PIROZZI
Mario Cavaradossi  LUCIANO GANCI
Il Barone Scarpia ARIUNBAATAR GANBATAAR
Angelotti  LUCIANO LEONI
Sagrestano  DOMENICO COLAIANNI
Spoletta  MATTEO MEZZARO
Sciarrone MARCO SEVERIN
Carceriere CARLO ALBERTO GIOJA
Un Pastorello FRANCESCO CICCIARELLO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore James Conlon
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Alessandro Talevi
Scene Adolf Hohenstein ricostruite da Carlo Savi
Costumi Adolf Hohenstein ricostruiti da Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma ricostruito sui bozzetti originali della prima esecuzione del 1900 in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi
Roma, 09 maggio 2025
Ultimo gruppo di recite di Tosca di Giacomo Puccini al Teatro dell’Opera di Roma, messa in scena in tre riprese nella stagione in corso per la celebrazione dei 125 anni dalla prima esecuzione che avvenne proprio al Costanzi il 14 gennaio del 1900 presenti in sala l’autore, Sua Maestà la Regina Margherita e le massime autorità dello Stato di allora. In questa occasione lo spettacolo ormai più che collaudato e sempre molto gradito al pubblico è stato affidato al maestro James Conlon e ad altri interpreti vocali. L’allestimento originale pensato per quella prima assoluta con le scene ed i costumi di Adolf Hohenstein che ricordiamo essere stato ricostruito grazie al prezioso e sapiente lavoro di recupero svolto da Carlo Savi e Anna Biagiotti ed alla regia di Alessandro Talevi ed è andato in scena più volte e con diversi cast a partire dal 2015. Nella recita di ieri sera tutto è parso procedere con spontanea e divertita naturalezza grazie al collaudato mestiere di tutti gli interpreti ed al piglio deciso e sicuro del direttore, il maestro James Conlon. Questi ha proposto infatti una Tosca di straordinario nitore nella concertazione e nella agogica, trovando un ottimo equilibrio fra la percussività e la cantabilità dell’involo melodico, ottenendo dall’orchestra un suono sempre morbido, bello e declinato in infinite sfumature di timbro e intensità. Il Coro diretto dal maestro Ciro Visco ha ripetuto le più che brillanti prestazioni delle recite precedenti, ritrovando nel Te Deum la solenne e quasi compiaciuta maestosità della liturgia della Roma papale. Nel ruolo eponimo abbiamo ascoltato Anna Pirozzi, la quale ha delineato un ritratto di Tosca spontaneo e più teneramente femminile che non da prima donna perennemente sulla scena, grazie ad una recitazione placida e misurata e ad una vocalità straordinaria per bellezza timbrica, omogeneità ed ampiezza di suono. Il baritono mongolo Ariunbaatar Ganbaatar è stato uno Scarpia appropriato e di assoluto fascino sia per la presenza scenica che, soprattutto, per l’ottima pronuncia, la varietà di fraseggio e una singolare autorevolezza vocale tale da consentirgli di sottolineare efficacemente le frasi più attese e di svettare sull’oceano di suono del coro e dell’orchestra nel Te Deum. Il tenore Luciano Ganci infine è stato un Cavaradossi dalla irresistibile, giovane e romana simpatia, cantato con voce bella e sicura impiegata con una non comune musicalità raffinata ed elegante. Domenico Colaianni nuovamente nei panni del Sagrestano restituisce anch’esso un autentico odore di sagrestia romana al suo collaudatissimo personaggio che ben dialoga con la gestualità e la recitazione del tenore. Infine tutti su un piano di ottima professionalità sono risultati gli interpreti delle parti minori, fra i quali vogliamo ricordare lo Sciarrone di Marco Severin per presenza scenica e precisione musicale ed il pastorello ben cantato da Francesco Cicciarello. Alla fine lunghi e assai calorosi applausi per tutti a conclusione di una felice serata, premiata dall’impegno professionale e dall’evidente entusiasmo del direttore e di tutta la compagnia. Photocredit Fabrizio Sansoni

Categorie: Musica corale

Roma, Terme di Caracalla: “Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 16:23

Roma, Terme di Caracalla
IMMAGINARE ROMA. LE PROSPETTIVE IMPOSSIBILI DI FRANCESCO CORNI
a cura di Elisabetta Corni e Mirella Serlorenzi
Enti promotori Soprintendenza Speciale di Roma
Roma, 10 maggio 2025
Non esiste arte che non sia, in fondo, un tentativo di ricostruzione. Ricostruzione del tempo, dello spazio, della memoria. In questo senso, Francesco Corni si presenta come un artista esatto, rigoroso, eppure poetico, visionario. La mostra Immaginare Roma. Le prospettive impossibili di Francesco Corni, allestita fino al 19 ottobre 2025 alle Terme di Caracalla, si offre come una retrospettiva analitica e al contempo onirica del lavoro di un disegnatore-archeologo che ha attraversato la storia non con il piccone, ma con la Rapidograph. A differenza del pittore che interpreta e dell’architetto che progetta, Corni restituisce. Ma lo fa come un artista concettuale che ha deciso di tradurre la classicità in una forma di esercizio mentale: la linea come operazione critica, la prospettiva come ipotesi e rivelazione. Le sue tavole, oltre sessanta, molte delle quali inedite, non sono solo rappresentazioni ma strumenti cognitivi, apparati logici che trasformano la storia in geometria emotiva. Non è una questione di estetica, ma di etica della forma. Il percorso espositivo, curato da Elisabetta Corni e Mirella Serlorenzi, si snoda attraverso due sale delle Terme, come due stanze del pensiero. Nella prima, la Roma topografica, si disegna la mappa del riconoscimento: dal Campidoglio al Foro Boario, passando per il Teatro di Marcello e il Portico di Ottavia. L’occhio non si limita a contemplare, ma viene guidato a leggere, a de-stratificare la superficie urbana per penetrare la densità storica. Qui il disegno diventa quasi un atto chirurgico: seziona, isola, confronta. La tavola verticale che mostra le colonne del Portico inglobate negli edifici moderni del ghetto romano è un esempio di archeologia visiva e ideologica: la modernità come palinsesto, la storia come sovrascrittura. Il disegno, in Corni, non è un esercizio mimetico ma una forma critica. A differenza della fotografia, che documenta l’istante, la sua arte documenta la possibilità: la Roma che c’era e che può ancora parlarsi dentro l’oggi. Non a caso l’intera sezione è affiancata da una mappa del SITAR (Sistema Informativo Territoriale Archeologico della Soprintendenza Speciale di Roma), che diventa complemento teorico, quasi una legenda dell’immaginazione scientifica. La seconda sala è un atlante della Roma concettuale: quella dei sistemi, delle invenzioni, delle macchine urbane. Il Colosseo in costruzione è una sinfonia di elementi strutturali, un manifesto di ingegneria disegnata. Le naumachie, il Circo di Domiziano, le Terme di Diocleziano e Caracalla sono oggetti di meditazione visiva, composizioni che affermano la capacità dell’arte di essere anche diagramma, progetto, esperimento. Corni è un artista della deduzione, un artigiano del sapere. Le sue prospettive non sono impossibili nel senso dell’assurdo, ma in quello dell’invisibile: sono ciò che non si può vedere, ma solo comprendere. Egli taglia, inclina, scompone come un analista che vuol far parlare le strutture. E riesce in un miracolo: far percepire l’interno e l’esterno, la funzione e la forma, la materia e il suo racconto. La sezione finale sulle sei tavole dedicate al Vaticano – dalla topografia degli Horti di Agrippina fino all’abbraccio berniniano – è un poema civile in forma di disegno. Come critico, è inevitabile qui pensare alla tradizione del disegno teorico: a Viollet-le-Duc, a d’Andrade, ma anche a Piranesi. Corni è erede e insieme innovatore. Dove Piranesi esaspera il dramma barocco delle rovine, Corni ricostruisce con l’ascetismo dell’umanista. Ogni tratto è verifica, ogni spaccato è domanda. Ed è in questo che il suo lavoro si fa artistico: nella volontà di trasformare il documento in immagine critica, il dato in visione. La mostra, per altro, non si accontenta di celebrare l’autore. Lo espone, ma lo problematizza. Ci invita a chiederci quale ruolo possa avere oggi il disegno a mano nell’era dell’intelligenza artificiale, della grafica 3D, della realtà aumentata. La risposta è nelle parole della curatrice Elisabetta Corni: “Il disegno di mio padre ha una capacità di comunicazione che nessun render riesce ad eguagliare”. È vero. Perché il disegno di Corni non è simulazione, ma sintesi. Un caso emblematico: le tavole delle Terme di Caracalla. Corni ha lasciato incompiuta la tavola ricostruttiva del complesso. Ma proprio questa assenza si fa presenza. L’opera mancante è una dichiarazione di metodo: ogni tavola è ipotesi, mai conclusione. L’arte di Corni non è definitiva, è interrogativa. C’è un momento, nella vita dell’artista, che è divenuto mito: il suo viaggio da Torino a Roma in bicicletta, a 15 anni. Prima tappa: la Basilica di San Pietro. E proprio San Pietro, con tutte le sue metamorfosi, chiude idealmente la mostra. Come a dire che ogni cammino nella storia, ogni tracciato artistico, è un ritorno. E un inizio. La mostra è stata organizzata con la cura e la sensibilità della Soprintendenza Speciale di Roma, guidata da Daniela Porro. Ma il vero cuore è nel metodo Corni: un modo di pensare che unisce lo storico dell’arte al teorico dello spazio, il conoscitore al poeta delle superfici. La sua opera si inserisce a pieno titolo in quella linea dell’arte italiana che ha sempre visto nel disegno non la preparazione ma il compimento: da Michelangelo a Boetti, da Piero della Francesca a Parmiggiani. Immaginare Roma è molto più di una mostra. È un manifesto. Un invito a credere nel potere euristico della mano, nella capacità dell’arte di essere strumento di verità. Corni ci consegna una Roma parallela, ma non alternativa: è la stessa, solo vista con l’occhio del sapere. E ci ricorda che il passato non è dietro di noi, ma dentro il nostro modo di guardare. Lì, in quel punto esatto dove la linea si fa storia.

 

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Roma, Parco Archeologico del Colosseo: “Una notte al Colosseo”

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 11:59

Roma, Parco Archeologico del Colosseo
UNA NOTTE AL COLOSSEO
Da martedì 13 maggio torna il percorso di visita più amato: il Parco archeologico del Colosseo apre i cancelli per le visite notturne dell’Anfiteatro Flavio con l’iniziativa “Una Notte al Colosseo”. Il percorso guidato, della durata di circa 60 minuti, si sviluppa anche per questa edizione lungo il primo ordine del monumento, il piano dell’arena e i sotterranei. Le visite, programmate ogni martedì e giovedì dalle 20.00 alle 24.00 con ultimo ingresso alle 22.30, sono riservate a un massimo di 25 persone per turno. La visita sarà prevalentemente dedicata al racconto del Colosseo dal punto di vista degli spettatori e dei protagonisti degli spettacoli che si svolgevano nell’arco della giornata, tra cacce (venationes) e combattimenti gladiatorii (munera). L’itinerario prevede la partenza dal fornice Nord, anticamente l’entrata principale dell’Imperatore, con unapprofondimento sull’ingresso imperiale e le decorazioni in stucco. Qui, dal piano dell’arena, si potrà avereuna visione completa della cavea e un racconto degli spettacoli offerti dagli imperatori. Si prosegue poi nei sotterranei, dove sarà possibile esplorare la nuova esposizione permanente “Spettacoli nell’Arena del Colosseo. I protagonisti”, curata da Alfonsina Russo, Federica Rinaldi e Barbara Nazzaro. La mostra conserva i punti di forza della precedente esposizione temporanea “Gladiatori nell’arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus” e prevede un rinnovato allestimento permanente incentrato sui protagonisti degli spettacoli, ovvero i gladiatori e gli animali impegnati nelle venationes. L’allestimento prevede la suggestiva proiezione olografica con i gladiatori che avanzano dal buio del criptoportico orientale (realizzata da Katatexilux su idea e curatela di Federica Rinaldi), il mosaico bianco e nero di II sec. d.C. con scena di caccia, i gradini della cavea con i graffiti riproducenti i combattimenti tra gladiatori e gli inseguimenti tra animali, le lucerne, i modelli di montacarichi e i sistemi di sollevamento di uomini e animali, veri apparati tecnologici ante litteram. I reperti sono posti in dialogo con le riproduzioni alvero delle armature dei gladiatori nelle diverse tipologie del reziario, del secutor, del trace, del mirmillone, del provocator e dell’oplomachus, facenti parte della collezione del PArCo. Tra i reperti in mostra si segnala la copia realizzata da modello digitale eseguito con laser scanner 3D ad alta precisione di un rilievo proveniente dall’isola di Coo conservato presso il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann del Comune di Trieste. Il rilievo rappresenta il combattimento tra un reziario e un secutor con un’iscrizione in greco che riconduce con ogni probabilità allo scioglimento del vincolo contrattuale dell’auctoramentum, il sacramento alla divinità con cui il gladiatore accettava di rischiare la propria vita scendendo nell’arena e combattendo fino al giudizio del popolo. Novità del 2025 è la presenza della testa di gladiatore “Gallus” prestata dal Museo Archeologico al Teatro Romano di Verona, una straordinaria testa lapidea di gladiatore dell’inizio del I sec. d.C. proveniente dall’Anfiteatro di Verona e risalente alla prima metà del I secolo d. C. (la cosiddetta Arena). Successivamente, il percorso esplorerà la struttura dei corridoi sotterranei attraverso una passeggiata al chiaro di luna lungo la passerella fino alla camera di manovra occidentale. Al seguente link ulteriori informazioni: https://colosseo.it/evento/una-notte-al-colosseo-2025/ 

 

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Bru Zane Portraits 6: Georges Bizet (1838-1875). Djamileh, Vasco da Gama, Cantates, Musique corale, Mélodies, Musique pour piano.

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 08:44

Georges Bizet (1838-1875):“Djamileh”: Isabelle Druet (Djamileh), Sahy Ratia (Haroun), Philippe-Nicolas Martin (Splendiano), Maxime Le Gall “Le  Marchand d’esclaves”, Les SièclesChoeur de l’Opéra de Lille, François-Xavier Roth (direttore); “Vasco da Gama” – “Musique pour choeur et orchestre “ – “Ouverture en la mineur”: Mélissa Petit (Léonard / La Vigie), Cyrille Dubois (Alvar), Thomas Dolié (Vasco de Gama / Recitant), Orchestre national de Metz Grand EstFlemish Radio Choir, David Reiland (direttore); Venise” – “Variations chromatiques”, Célia Oneto Bensaid (Pianoforte); “Le Retour de Virginie”, Marie-Andrée Bouchard-Lesieur (Marguerite), Cyrille Dubois (Paul), Patrick Bolleire (Le Missionnaire des Pamplemousses), Orchestre national de Lyon, Ben Glassberg (direttore); “Nocturne en ré majeur”: Nathanaël Gouin (pianoforte); Mélodies: Adèle Charvet (mezzosoprano), Florian Caroubi (pianoforte), Reinoud Van Mechelen (tenore),  Anthony Romaniuk (pianoforte); “Clovis et Clotilde”: Karina Gauvin (Clotilde), Julien Dran (Clovis), Huw Montague Rendall (Rémy), Le Concert de la Loge, Julien Chauvin (direttore); “Chasse fantastique”: Nathanaël Gouin (pianoforte); Mélodies: Reinoud Van Mechelen (tenore), Anthony Romaniuk (pianoforte); “Six Choeurs de Gounod”: Nathanaël Gouin (pianoforte). 4 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane Portraits n. 6.

La fondazione Palazzetto Bru Zane celebra i 150 anni dalla morte di Georges Bizet con un ponderoso cofanetto di ben quattro CD che raccoglie musiche poco o punto note del compositore francese, comprese una serie di prime registrazioni assolute.
Il titolo più noto – oltre che unica pagina operistica del programma – è “Djamileh” del 1872 trionfo di quell’orientalismo di maniera che tanto successo aveva in quegli anni a Parigi. L’opera di ambientazione egiziano-mussulmana mostra un Bizet ormai padrone di un proprio stile seppur ancora alla ricerca di una propria strada all’esotico che si realizzerà solo con “Carmen”. L’orchestra Les Siècles e il Choeur de l’Opéra de Lille sono diretti con gusto e sensibilità da François-Xavier Roth capace di valorizzare sia il gusto decorativo dei passaggi più esotici sia il più sincero abbandono lirico delle pagine tra gli amanti. La registrazione permette di ascoltare l’opera per la prima volta con strumenti originali e con le intonazioni d’epoca. Tra i cantanti si fanno apprezzare sia Sahy Ratia tenore dal bel materiale lirico sia soprattutto Isabelle Druet che canta con bella voce e grande intensità la parte della protagonista. Philippe-Nicolas Martin canta la parte di Splendiano con voce da autentico baritone noble.
Decisamente insolita come struttura “Vasco da Gama” ode-sinfonia che unisce opera, cantata e sinfonia a programma con una coerenza formale nel complesso riuscita. Sotto la direzione David Reiland troviamo Thomas Dolié, tenore drammatico impegnato sia come protagonista sia nella parte recitata del narratore e soprattutto Mélissa Petit che gorgheggia deliziosa nel Bolero di Léonard.
Uno spazio non secondario è rappresentato dalle due cantate presentate in occasione delle partecipazioni al Prix de Rome. “Clovis et Clotilde” del 1857 mostra un compositore tecnicamente valido ma ancora immaturo. Lo stile è ancora quello di tradizione post-rossiniana fatto proprio dal grand-opéra parigino con la rigida struttura a pezzi chiusi e l’ampio uso di colorature. Il tema centrato sulla battaglia di Tolbiac e la conversione di Clodoveo affonda nel più puro patriottismo francese spingendo il giovane Bizet verso uno stile enfatico e declamatorio. Karina Gauvin e Julien Dran si adattano alla perfezione alla solenne retorica complessiva. Vocalmente lei si fa apprezzare nei rapidi passaggi di colorature mentre il tenore si fa perdonare qualche acuto non pulitissimo con l’autorevolezza dell’accento. Grande personalità e bella voce di basso per il Remy di Huw Montague Rendall.
Le Retour de Virginie” era destinata all’edizione 1853 del Prix ma non venne eseguita. Viene qui presentata in prima registrazione assoluta. Il carattere bucolico e dolente della composizione ispira a Bizet cifre più personali e sentite rispetto alla composizione successiva. Già notevole e la capacità di scrittura orchestrale che emerge della scena di tempesta. Cyrille Dubois (Paul) dispone di una vocalità schiettamente lirica ma riesce a piegarla ad accenti intensi e drammatici. Bella voce di mezzosoprano chiara e morbida quella di Marie-Andrée Bouchard-Lesieur mentre Patrick Bolleire ha la giusta autorevolezza richiesta dal Missionnaire des Pamplemousses.
Le composizioni più strutturate sono affiancate da una selezione di brani orchestrali e da camera. Le quattro “Musique pour choeur et orchestre” si caratterizzano come studi d’ambiente o di atmosfere per orchestra, coro e solisti. Ritroviamo la Petit e Dubois che confermano le belle prove delle composizioni più ampie mentre sul piano compositivo si fa notare soprattutto “La Mort s’avance” “méditation sur deux études de Frédéric Chopin” su un testo dell’Abbé Pellegrin per orchestra e coro.
La produzione pianistica di Bizet non è trascurabile per quantità e qualità ma nel complesso è ben poco nota. La registrazione permette di farsi un’idea più precisa di questa produzione. Tra i brani scelti non poteva mancare – considerando la sede della fondazione – “Venise” una delle tante composizioni di suggestione veneziana così di moda all’epoca. Genere oggi poco considerato ma all’epoca fondamentale strumento di conoscenza musicale le trascrizioni per pianoforte di brani o temi operistici. Bizet si cimentò nel genere e in programma è un piccolo ciclo di trascrizioni di sei brani corali da opere di Gounod.
La romanza da camera – in tutte le sue declinazioni nazionali – è un repertorio imprescindibile per ogni compositore. Ovviamente anche Bizet si è cimentato nel genere e nel cofanetto è proposta una nutrita selezione di brani. Gli interpreti sono il mezzosoprano Adèle Charvet dall’impostazione vocale più classica e dal timbro vocale morbido e caldo che ben si adatta soprattutto ai brani esoticheggianti come “Adieux de l’hôtesse arabe” e il tenore Reinoud Van Mechelen, specialista del repertorio barocco e settecentesco, voce non classicamente bella ma interprete di rara intelligenza espressiva e magistrale sul piano tecnico, si ascoltino le splendide mezzevoci.
I quattro CD sono accompagnati come sempre da un’ampia e documentata raccolta di saggi ancor più importante in un lavoro di sintesi come questo, dove la necessità di inquadramento storico dei vari brani si fa sentire con ancora maggior evidenza.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Noi Giuda” dal 15 al 16 maggio 2025

gbopera - Sab, 10/05/2025 - 08:00

Roma, Teatro Parioli Costanzo
NOI GIUDA
con Massimo Ghini
scritto e diretto da Angelo Longoni
Musiche originali composte da Paolo Vivaldi in collaborazione con Aldina Vitelli
aiuto regia di Lorenzo Rossi
video di Gianni Del Popolo
produzione Il Parioli
produttore esecutivo Enzo Gentile
Giuda è il prototipo dell’essere abbietto e ambiguo. Ed è ambigua tutta la vicenda che lo lega indissolubilmente a Gesù. Giuda è l’umano con le sue infinite contraddizioni. Gesù è il divino con la sua perfezione. Ma narrativamente il tradimento è indispensabile alla morte di Gesù e alla diffusione della parola di Dio. Giuda è quindi anche l’esecutore del disegno divino. Ma si può eseguire la volontà divina e al contempo essere colpevole? Possiamo davvero considerare Giuda come siamo abituati a fare da secoli? Oggi Giuda, stanco della reputazione di cui soffre da due millenni, ritorna tra noi per dire la sua. La dice con il linguaggio e gli strumenti dei nostri giorni, in una impossibile e fantasiosa “conferenza”. Finalmente ci dirà cosa pensa dei famosi trenta denari, della sua iniziale speranza in un Messia liberatore e ci parlerà di un suo Vangelo. Giuda sa essere ironico, a volte tenero. La tradizionale malvagità attribuitagli non fa per lui. Gli è più congeniale l’indagine da investigatore e la ricerca delle contraddizioni narrative e di un movente credibile per difendere la propria reputazione. L’ironica assurdità della situazione, si fonda sempre sui fatti, su una visione rispettosa della fede e su una documentazione accuratamente controllata. Giuda non accetta di essere il simbolo di coloro che hanno crocifisso Gesù, desidera una riabilitazione. In fondo dovremmo tutti provare simpatia per questo personaggio, disprezzato anche per essersi tolto la vita ed essere morto praticamente insieme a Gesù. Qui per tutte le informazioni.

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Milano, Teatro alla Scala: “Trittico Weill” in scena dal 13 al 30 maggio

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 20:32
Si avvicina la prima del Trittico Weill, una produzione dedicata a tre capolavori nati dalla collaborazione tra Bertolt Brecht e Kurt Weill, in scena dal 14 al 30 maggio alla Scala. Mentre I sette peccati capitali raccontano di due gemelle che affrontano i sette vizi nella disperata ricerca del successo, Mahagonny Songspiel descrive la vita degli abitanti della peccaminosa città di Mahagonny, e Happy End parla dell’amore improbabile di una missionaria per un gangster. Diretto da Riccardo Chailly e con la regia di Irina Brook, il Trittico riporta alla Scala la musica di Kurt Weill, ibrido tra jazz, cabaret e musical.
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Milano, Teatro alla Scala: “Il nome della rosa”

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 17:14
Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera 2024/25 “IL NOME DELLA ROSA” Opera in due atti su libretto di Francesco Filidei e Stefano Busellato, con la collaborazione di Hannah Diibgen e Carlo Pernigotti, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Umberto Eco. Musica di Francesco Filidei Adso da Melk KATE LINDSEY Guglielmo da Baskerville LUCAS MEACHEM La Ragazza del Villaggio/ Statua della Vergine KATRINA GALKA Jorge da Burgos GIANLUCA BURATTO Bernardo Gui DANIELA BARCELLONA Abbone da Fossanova FABRIZIO BEGGI Salvatore LORENZO FRONTALI Remigio da Varagine ENRICO BERRUGI Malachia OWEN WILLETTS Severino da Sant’Emmerano PAOLO ANTOGNETTI Berengario da Arundel/ Adelmo da Otranto CARLO VISTOLI Venanzio/ Alborea LEONARDO CORTELLAZZI Un cuciniere/ Girolamo vescovo di Caffa ADRIEN MATHONAT Ubertino da Casale CECILIA BERNINI Michele da Cesena FLAVIO D’AMBRA Cardinal Bertrando RAMTIN GHAZAVI Jean d’Anneaux ALESSANDRO SENES Orchestra, Coro e Voci Bianche del Teatro alla Scala  Direttore Ingo Metzmacher Maestro del Coro Alberto Malazzi Voci bianche dirette da Bruno Casoni Regia Damiano Michieletto Scene Paolo Fantin Costumi Carla Teti Luci Fabio Barettin Drammaturgia Mattia Palma Coreografia Erika Rombaldoni Prima Assoluta – Nuova Produzione del Teatro alla Scala in coproduzione con l’Opéra National de Paris e la Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova Milano, 06 maggio 2025
L’ambizioso progetto di ricavare un’opera lirica da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, peraltro finanziato da tre fondazioni di prima importanza è parso, quando la notizia si diffuse, parimenti un’idea magnifica e molto pericolosa al contempo. Il romanzo, infatti, si nutre per larga parte delle ambientazioni che riesce a ricreare, della geografia di questa abbazia immaginaria quanto drammaticamente realistica – tanto che la prima edizione Bompiani dell’80 riportava stampata all’interno della copertina la mappa dei luoghi in cui Guglielmo e il giovane Adso si sarebbero mossi. Come poter ricreare quella magia nello spazio grande ma chiuso di un teatro? D’altro canto, tuttavia, la materia narrativa de “Il nome della rosa“, con le sue atmosfere inquietanti quasi oniriche, le maledizioni bibliche, i personaggi delineati con forza e insieme attenzione al dettaglio, hanno da sempre fatto gola alle arti performative – pensiamo alla bella pellicola di Annaud dell’86, o alla più recente serie Rai, con un John Turturro in stato di grazia: perché allora non anche un’opera? Questo si devono essere detti Francesco Filidei e Stefano Busellato, oltre alle direzioni dei teatri che hanno sostenuto il progetto. In effetti, sul piano teorico funziona tutto: la partitura è profondamente coesa, con un’enorme predominanza degli ottoni e delle percussioni, tutta giocata sull’alternarsi di recitativi tesi e ricchi di suoni ambientali, e la rielaborazione di melodie gregoriane dissonanti e fuori tempo, per accentuare il carattere thrilling della vicenda; il libretto, ad opera dello stesso Filidei oltre che di Busellato, supportati da Hannah Diibgen e Carlo Pernigotti, presenta una drammaturgia piuttosto efficace ed equilibrata, interessata, com’è ovvio, a porre molto del romanzo al suo interno, ma anche capace di sintesi e di pause; inoltre non si può certo dire un libretto banale, poiché presenta lunghe parti in latino ed alcune persino in greco, oltre che riflessioni teologiche e riferimenti semiotici e filologici. Insomma, un’operazione riuscita e di ampio respiro. Altra cosa, tuttavia, è portare questa magnifica creazione in scena, cantarla, recitarla – ed è questo l’aspetto su cui solleviamo alcune riserve. Per prima cosa la lunghezza dell’opera (quasi tre ore) avrebbe necessitato di parti vocali meglio variate: spesso abbiamo in scena solisti con registri simili, e questo non aiuta a seguire il serrato scambio nei lunghi recitativi; non solo: come abbiamo sottolineato, un’opera del genere crea altissime aspettative sul piano scenico, che non si può dire vengano soddisfatte: Paolo Fantin opta per una scena de facto vuota, nera, impreziosita da alcuni grandi oggetti colorati – la Vergine, il fregio del portone, le miniature ecc – che transitano per la scena; per il resto sono complementi trasparenti, di gusto ultramoderno e illuminati da neon, come la grande fonte di luce circolare in alto, come gli spalti sopraelevati da cui canta il coro (già visti qui in “Turandot”, in “Peter Grimes”, e in altre produzioni non scaligere). Per una messa in scena ci è parso il minimo indispensabile; così come “minimal” i costumi di Carla Teti – oltre che inspiegabilmente arancioni le vesti dei monaci – ove invece avrebbero potuto venire connotati sia cromaticamente sia per foggia (tanto non c’è un effettivo rispetto del periodo storico), anche per aiutare lo spettatore a capire chi è chi. La regia di Damiano Michieletto c’è e non c’è (come sovente ci è già capitato di notare): Michieletto sembra distratto, intermittente, m sa circondarsi di solidi professionisti – in questo caso emergono sono Erika Rombaldoni, che sa creare coreografie suggestive e complesse, come quella del fregio che prende vita, Fabio Barettin, con le sue luci davvero rarefatte, che sembrano cercare più il buio profondo che l’illuminazione della scena, senza per questo negarci un singolo gesto di quanto vi avvenga. Sulla nutritissima compagnia di canto (ben ventuno personaggi, interpretati da diciassette cantanti), paradossalmente, si può dire limitatamente, come avviene spesso per opere contemporanee di questo gusto: la mancanza di una tradizione, oltre alla costruzione fascinosa e cerebrale delle linee melodiche, impongono al cantante la sfida quasi mai superabile di distinguersi davvero per capacità interpretativa. In questo caso vi riesce senza dubbio Kate Lindsey (Adso da Melk), mezzosoprano dalla voce ricca di armonici e dalla ragguardevole estensione, ottima anche in scena – e il tutto ben si esprime nell’aria del Secondo Atto “Strega? Quale strega?”; accanto a lei certo anche Lucas Meachem è un fervente Guglielmo da Baskerville, sebbene i bei colori della voce riescano ad esprimersi meglio nel Secondo Atto, piuttosto che nel primo, merito anche di un’aria interessante – “Si dice che la donna” – e di un coinvolgente duetto finale con il basso profondo. Ed è proprio Gianluca Buratto, nel ruolo di Jorge da Burgos, pure a distinguersi, con la sua vocalità sicura e ben proiettata, da vero cattivo della storia. Fra gli altri interpreti, ben figurano i controtenori Carlo Vistoli (nel doppio ruolo di Berengario e Adelmo) e Owen Willetts (un convincente Malachia) e il tenore Leonardo Cortellazzi (Venanzio/ Alborea) per il nitore dell’emissione e il colore chiaro della voce. Artisti di indiscusso talento come Roberto Frontali (Salvatore) o Giorgio Berrugi (Remigio), affrontano i ruoli con grande professionalità, ma vi rimangono un po’ intrappolati, tra la concitazione della parola e il rispetto della linea di canto. Infine, un mistero rimane la scelta di un mezzosoprano come Daniela Barcellona per interpretare l’attempato inquisitore Bernardo Gui – e più la Barcellona si spende scenicamente e vocalmente, e più lo straniamento tra personaggio e interprete aumenta; forse trascrivere la parte per un altro basso profondo – per eventuali repliche –  potrebbe migliorare la ricezione del personaggio e la credibilità delle scene in cui è protagonista. L’opera, in ogni caso, ha saputo stimolare la curiosità della piazza meneghina, che ha visto diversi “tutto esaurito” e si avvia a celebrare un successo, senza dubbio non scontato per un inedito, per quanto il soggetto sia famoso. E in effetti, come detto all’inizio, del gran bel materiale c’è: forse, tuttavia, per avvicinarlo ulteriormente a una piena fruibilità, occorrerebbe semplicemente arricchire la scena e rivedere l’assegnazione dei ruoli.  Foto Brescia & Amisano
Categorie: Musica corale

Venezia, Palazzetto Bru Zane: “Bizet segreto” con Roberto Prosseda

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 08:32

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Bizet, L’amore ribelle”, 29 marzo-16 maggio 2025
BIZET SEGRETO”
Pianoforte Roberto Prosseda
Georges Bizet: Nocturne n° 2; Charles Gounod: La Veneziana; Souvenance; Romances sans paroles (extraits); Georges Bizet: “Chants du Rhin”; Louise Farrenc Naples: “La Grand’mère”; Georges Bizet: “Variations chromatiques”
Venezia, 6 maggio 2025
Un “Bizet segreto” veniva rivelato nel corso di questo concerto, attraverso l’esecuzione di alcune sue pagine pianistiche ‘poco conosciute’ e dal carattere ‘intimo’, ‘introspettivo’, ‘notturno’: complice il pianismo sensibile e trascendentale di Roberto Prosseda che, oltre a Bizet, ha indagato due altri compositori francesi dell’Ottocento – Charles Gounod e Louies Farrenc –, i quali, come l’autore di Variations chromatiques, rivisitano il virtuosismo del pianoforte.
Intensamente espressivo quanto tecnicamente prestante si è dimostrato Prosseda, nell’affrontare i brani di Bizet. Nel Nocturne n° 2 – un pezzo cromatico, instabile dal punto di vista tonale, risalente a un periodo in cui l’autore aveva raggiunto una certa notorietà, grazie a Les Pêcheurs de perles (1863) – si è colto un sapore vagamente lisztiano. Gli Chants du Rhin – ispirati ai Lieder ohne Worte di Mendelssohn, pur collegati a dei versi di Joseph Méry – hanno di fatto rivelato la loro vicinanza all’estetica francese, oltre che a Chopin. Impeccabile il pianista di Latina nel caratterizzare ogni “Lied”: L’Aurore con il suo leggiadro tema danzante, Le Départ e Les Rêves dalla densa scrittura, il vigoroso La Bohémienne, l’intimo e commosso Les Confidences, il festoso e anelante Le Retour. Un esaltante saggio di virtuosismo ma anche di finezza interpretativa si è apprezzato nelle Variations chromatiques (1868), dove Bizet dà prova di rigore strutturale come di profondità artistica – esplorando le potenzialità della scrittura pianistica senza perdere di vista la bellezza dell’insieme –, di ricchezza armonica e audacia virtuosistica, pur trattandosi di un virtuosismo che sa essere anche introspettivo. Analoga, per molti versi, la sua lettura dei brani di Gounod e di Louise Farrenc. Quanto alle pagine firmate dall’autore di Faust, Prosseda ci ha conquistato affrontando il cromatismo che percorre La Veneziana (1874), una barcarola venata di tristezza – impossibile non pensare a Mendelssohn –, introdotta da alcuni arpeggi ‘affannati’, che formano un flusso continuo, narrativo e introspettivo al tempo stesso. Più serena l’atmosfera di Souvenance (Rimembranza), un notturno – di incerta datazione –, che illustra l’estetica intimista dell’autore, vario nei ritmi e nei toni emotivi, resi con sapienza di tocco. Appassionatamente felice l’aura evocata da Chanson de printemps (1849, trascritta per pianoforte solo nel 1866), appartenente alla raccolta “Romances sans paroles”, sostenuta da un moto perpetuo di semicrome, a ricordare il mormorio della natura che si ridesta. Intriso di mestizia, Ivy/Le Lierre – appartenente alla medesima raccolta –, la cui fluida melodia gira e rigira continuamente su se stessa. Il brano, che ha qualche affinità con una poesia di Dickens, fu scritto (intorno al 1872) da Gounod in una casa che era appartenuta al poeta inglese. Alquanto semplice il linguaggio dei due “Rondoletti” di Louise Farrenc: Naples – basato su una barcarola di Francesco Masini, compositore italiano contemporaneo dell’autrice – perentorio nell’esordio e poi danzante, in cui hanno cantato alternativamente le due mani dell’esecutore; e La Grand’mère, un pezzo analogamente deciso all’inizio e in seguito scanzonato, giocoso, brillante con rapide volatine cromatiche. Successo caloroso con reiterati applausi. Due fuoriprogramma: il Notturno n.1 op. 62 di Chopin e – doverosamente Venetianisches Gondellied (Il Lied della gondola veneziana) op. 30 n. 6 di Felix Mendelssohn.

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Roma, Teatro Vascello: “Felicissima Jurnata” dal 13 al 18 maggio 2025

gbopera - Ven, 09/05/2025 - 08:00

Roma, Teatro Vascello
FELICISSIMA JURNATA
Finalista Forever Young – La Corte Ospitale 2022

Vincitore del premio Giuria Popolare – Dante Cappelletti 2021
drammaturgia e regia Emanuele D’Errico
con Antonella Morea e Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
scene Rosita Vallefuoco
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
luci Desideria Angeloni
costumi Rosario Martone
aiuto regia Clara Bocchino
realizzazione scene Mauro Rea
macchinista Michele Lubrano Lavadera
fonico Stefano Cammarota
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations (Valeria Bonacci, Giorgia Simonetta)
produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia
in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo
e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania
Felicissima jurnata cerca di cogliere l’essenza o, forse, l’assenza di vita reale che unisce sul filo della solitudine il basso napoletano e quel che ne resta di Giorni Felici di Beckett. Dal 2018 Putéca Celidònia vive attivamente il Rione Sanità di Napoli portando il teatro in mezzo ai vicoli bui ed abbandonati. “Ci è successo, dopo aver gradualmente preso confidenza, di entrare in alcuni bassi (la tipica abitazione al piano terra con ingresso su strada) e di trovare una situazione surreale. Così abbiamo deciso di iniziare un viaggio! Nello zaino abbiamo messo la macchina da presa, il quaderno degli appunti e le domande che il testo di Giorni Felici ci ha mosso, immergendoci nelle storie delle persone che ci hanno sorpreso, rapito e portato su di una strada imprevista. E tra un’intervista e l’altra abbiamo domandato loro chi fosse Beckett e nessuno lo aveva mai sentito nominare. Eppure ci sembravano così vicini, così familiari. Il testo è venuto da sé, lo hanno scritto loro: le storie di Assunta, Pasqualotto, Angela e di tutti gli altri sono così pregne da poterci scrivere romanzi per ognuno di loro. Questo testo è anche la storia di una donna di centonove anni C-E-N-T-O-N-O-V-E ANNI che ancora si trucca, che mette lo smalto e “sente” la gente intorno che suona e che canta. Di queste storie si compone Felicissima jurnata, che pone l’accento sulla paralisi emotiva e fisica che queste persone si impongono per mancanza di mezzi. Molti di loro non sono mai usciti dalla loro città – nel migliore dei casi – e nel peggiore non sono mai usciti dal proprio quartiere e chissà da quanto tempo dalla propria casa. Non è prigionia questa? È una prigionia consapevole o inconsapevole?” Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Argentina: “Ritorno a casa”

gbopera - Mer, 07/05/2025 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
RITORNO A CASA
di Harold Pinter
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio
e con Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Alessandro Saviozzi
foto Claudia Pajewski
produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
07 maggio 2025
«Sotto ogni superficie di normalità, nella famiglia, nella casa, nelle parole, serpeggia il morso nascosto dell’istinto.»
Harold Pinter
Nel 1964, mentre l’Europa si illudeva di assistere a una nuova fioritura di civiltà e libertà, Harold Pinter, con The Homecoming, ne scopriva il rovescio oscuro. Con una scrittura che incide come una lama nella carne della quotidianità, Pinter raccontava il collasso silenzioso dei legami familiari, mettendo in scena non più la comunicazione tra uomini, ma il loro fallimento a comprendersi, a vivere, persino a esistere gli uni accanto agli altri. Le parole, nei suoi testi, non servono più a trasmettere messaggi: sono maschere, schermi, armi di sopraffazione, capaci di insinuare anziché chiarire. Massimo Popolizio raccoglie oggi quella sfida letteraria e teatrale con uno spettacolo di rara intelligenza registica e forza espressiva. Il suo Il ritorno a casa, in scena al Teatro Argentina, è un percorso spietato dentro la casa pinteriana, dove la ferocia e l’humour si intrecciano fino a diventare indistinguibili, in un gioco pericolosamente divertente che lascia lo spettatore senza appigli, senza vie di fuga. Il merito principale della regia di Popolizio è quello di assecondare e al tempo stesso potenziare la natura quasi cinematografica del testo: i dialoghi brevi, taglienti, si succedono come rapide inquadrature; le pause diventano montaggi interni, scandendo un ritmo interno che incalza senza mai esplodere. La scena, firmata da Maurizio Balò, è uno spazio chiuso, asfittico: un interno borghese consunto e squallido, dominato da pochi arredi stanchi, senza memoria né promessa di riscatto. Questo non-luogo, perfettamente neutro e claustrofobico, accoglie i personaggi come presenze residuali, vittime e carnefici di una stessa condizione esistenziale. In perfetta coerenza con questo disegno visivo, i costumi di Gianluca Sbicca vestono i corpi con abiti anonimi e scoloriti, parlando prima dei personaggi stessi del loro naufragio umano. Le luci di Luigi Biondi, cesellate con una sapienza quasi scultorea, disegnano traiettorie di isolamento, riquadri di solitudine, improvvise fenditure di crudezza che sembrano aprire abissi sotto i piedi degli attori. Il suono, curato da Alessandro Saviozzi, accompagna senza invadere: silenzi e vibrazioni appena percepibili sottolineano lo svuotamento emotivo e il vuoto pneumatico che regna sulla scena. La regia di Popolizio non rincorre l’effetto facile: non carica il grottesco né sottolinea il tragico. Al contrario, lascia che la crudezza emerga naturalmente dalle parole e dai gesti, orchestrando il tutto con un rigore che si fa cifra stilistica. Il ritmo dello spettacolo è sapientemente controllato: Popolizio dosa sapientemente immobilità e improvvisi scatti nervosi, modulando la tensione in un gioco di compressioni e rilasci che mantiene il pubblico in uno stato di allerta inquieta. Il cast, composto da Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale e lo stesso Popolizio, offre una prova corale di altissimo livello. La direzione attoriale è coerente e compatta: non vi sono picchi narcisistici o virtuosismi isolati, ma una coralità dolente e serrata, perfettamente aderente all’universo pinteriano. Gli attori plasmano i loro personaggi attraverso una recitazione asciutta, antipsicologica, affidandosi a mezzi toni, silenzi, posture che rivelano più dei dialoghi stessi. Il linguaggio scenico diventa così una trama di tensioni sotterranee, dove il non detto pesa più del detto, e ogni gesto minimo — un sorriso trattenuto, uno sguardo abbassato — si carica di un’ambiguità spaventosa. La capacità di Popolizio di far emergere la vena cinica e crudele dell’opera raggiunge qui il suo massimo compimento. Il riso che Il ritorno a casa suscita è un riso amaro, destabilizzante, un riso che costringe lo spettatore a interrogarsi su ciò che trova comico e su ciò che cela dietro quella comicità. Attraverso questa operazione, Popolizio restituisce in pieno la natura “pericolosamente” divertente della pièce: diverte scardinando, diverte demolendo certezze, diverte mettendo a nudo le ipocrisie su cui si reggono la famiglia, la società, la convivenza stessa. L’arrivo di Ruth nella casa, figura ambigua e catalizzatrice, non introduce una frattura violenta: agisce piuttosto come un acido silenzioso che scioglie definitivamente i già fragili equilibri familiari. Popolizio riesce a raccontare questa lenta corrosione senza mai ricorrere a forzature: tutto avviene sotto gli occhi dello spettatore con una naturalezza atroce, come se l’orrore fosse il destino inevitabile di quella convivenza, e non un incidente. In questo Il ritorno a casa, la famiglia si rivela come il primo e il più crudele teatro del potere. Le relazioni non sono fondate sull’affetto, ma sulla forza; la parola non è veicolo di amore, ma strumento di dominio; l’identità stessa dei personaggi si dissolve in una lotta continua per l’affermazione e la sopravvivenza. Alla fine, lo spettacolo di Popolizio non concede alcuna via di fuga né illusione di catarsi. Il pubblico esce da questo ritorno a casa con il peso di una verità scomoda: che dietro ogni normalità si cela una violenza muta, e che il vero orrore non è l’eccezione, ma il quotidiano. Con rigore intellettuale, lucidità registica e una straordinaria compattezza interpretativa, Massimo Popolizio firma uno spettacolo che non solo rende piena giustizia a Harold Pinter, ma riafferma, con forza rara, la funzione inquietante e necessaria del teatro.

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Roma, Teatro dell’Opera: “Tosca” dal 09 al 13 maggio 2025

gbopera - Mer, 07/05/2025 - 13:03

Roma, Teatro dell’Opera
TOSCA
Dopo il grande successo delle precedenti repliche, il Teatro dell’Opera di Roma presenta il terzo appuntamento con Tosca di Giacomo Puccini, in un allestimento che è già entrato nella memoria visiva della stagione come un tributo fedele e appassionato al debutto storico dell’opera nel 1900. Nel cuore della città dove la vicenda si svolge e dove Puccini stesso vide il suo capolavoro prendere vita per la prima volta, Tosca torna sul palcoscenico del Costanzi nella sontuosa ricostruzione filologica dell’allestimento originario firmato da Adolf Hohenstein, uno dei maggiori illustratori e scenografi italiani del primo Novecento. Un’operazione raffinata che restituisce al pubblico non solo l’opera nella sua essenza musicale, ma anche lo stile e il gusto dell’epoca, con scene e costumi riprodotti con straordinaria cura da Carlo Savi e Anna Biagiotti. Sul podio, la direzione musicale è affidata a James Conlon, maestro di assoluto prestigio internazionale, che affronta la partitura pucciniana con rigore e passione, conducendo l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma in una lettura intensa, attenta al dettaglio drammatico e lirico, capace di restituire tutta la forza emotiva del melodramma. La regia è firmata da Alessandro Talevi, che accompagna lo spettatore all’interno della narrazione con mano sicura, lasciando che la teatralità arda sotto le superfici della fedeltà storica, senza mai ingabbiare la vitalità dei personaggi o la loro tragedia. Anna Pirozzi è una Tosca maestosa e sanguigna, eroina dell’istinto e della gelosia, ma anche figura dolente capace di commuovere e sorprendere. Accanto a lei, Luciano Ganci disegna un Cavaradossi appassionato, idealista e generoso, mentre Ariunbaatar Ganbaatar veste con impressionante autorevolezza i panni del barone Scarpia, incarnazione torbida del potere e del desiderio. Intorno a questo triangolo tragico, si muove un cast d’eccellenza: Luciano Leoni interpreta l’angelico Cesare Angelotti, Domenico Colaianni il pittoresco Sagrestano, Matteo Mezzaro lo spietato Spoletta, Marco Severin il fedele Sciarrone, e Carlo Alberto Gioja il carceriere. Il Coro del Teatro dell’Opera, diretto da Ciro Visco, e il Coro di Voci Bianche, preparato dal maestro Alberto De Sanctis, completano il quadro sonoro di un’opera che, ancora una volta, si dimostra capace di toccare le corde più profonde dello spettatore. Il disegno luci è curato da Vinicio Cheli, che scolpisce la scena con tagli d’ombra e bagliori dorati, esaltando la tensione drammatica e la poesia tragica che percorre ogni atto. Tornare a vedere Tosca oggi, in questa forma storica ma sorprendentemente viva, è come varcare una soglia temporale. È l’incontro con un tempo doppio: quello della Roma ottocentesca in cui si consuma il dramma, e quello del 1900, quando il mondo intero cominciava a conoscere la potenza della musica pucciniana. Il Teatro dell’Opera di Roma invita il pubblico a lasciarsi coinvolgere da questa esperienza immersiva, dove ogni elemento — dalla musica alla scena, dalla parola cantata al silenzio più teso — contribuisce a rendere Tosca non solo uno spettacolo, ma un evento culturale di profonda bellezza e memoria. Per ulteriori informazioni: www.operaroma.it

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