Roma, Palazzo delle Esposizioni
SERGIO STRIZZI. LO SGUARDO OLTRE IL SET
Sala Fontana
A cura di Melissa e Vanessa Strizzi
Mostra promossa dall’ Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
realizzata da Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con Archivio Sergio Strizzi.
Roma, 09 luglio 2025
Non c’è star system, non c’è lustrino, non c’è flash da red carpet. C’è solo uno che guarda. Sempre, in silenzio, mentre tutto il resto fa casino. È Sergio Strizzi, uno che ha vissuto mezzo secolo di cinema con l’occhio del samurai e il passo felpato del ladro gentile. Non ha mai chiesto una posa, non ha mai detto “sorridi”. Eppure ha tirato fuori alcune delle immagini più sincere, spiazzanti e umane della storia del cinema italiano. Ora che la sua fotografia si prende tutta la Sala Fontana del Palazzo delle Esposizioni di Roma, con la mostra Lo sguardo oltre il set, ce lo ritroviamo davanti senza filtri: sessanta scatti, alcuni leggendari, altri mai visti prima, a dimostrarci che il backstage può essere più potente del film. Strizzi non cercava l’effetto. Trovava l’essenziale. Le sue foto non sono ricordi, sono fenditure. E dietro quella fenditura, ecco Monica Vitti, bellissima, verticale e ironica su un tetto milanese nel 1960. Lontana anni luce dal cliché della diva: fragile, incuriosita, reale. Il servizio realizzato da Strizzi alla Torre Galfa non è una seduta fotografica. È un film che non è mai stato girato. La Vitti non interpreta, si espone. E Strizzi fa la cosa più rivoluzionaria che può fare un fotografo: non disturba. Chi entra in questa mostra aspettandosi la sagra della nostalgia verrà deluso. Non c’è feticismo per la pellicola, né santini da appendere. Quello che emerge, semmai, è un senso quasi punk dell’immagine: fotografare significa spogliare. E Strizzi, armato della sua macchina fotografica, ha spogliato il cinema dalla sua retorica. Che siano le riprese di L’eclisse o una pausa sul set de La vita è bella, la logica è sempre la stessa: cercare la verità dove nessuno guarda. Sofia Loren mangia in mezzo alla folla durante le riprese de L’oro di Napoli e sembra un’apparizione pasoliniana. Antonioni sta zitto e pensa. Benigni è sorpreso mentre ancora non sa di star diventando una leggenda. Sono momenti senza aureola, e proprio per questo diventano eterni. Il vero colpo di scena è che Strizzi non ha mai avuto bisogno di gridare. Niente acrobazie estetiche, niente photoshop ante litteram, nessun culto del virtuosismo tecnico. Le sue immagini sono precise come una dichiarazione d’amore fatta in un giorno di pioggia: sanno dove colpire, senza far rumore. Quello che colpisce – a livello epidermico, emotivo e anche politico – è l’assoluta sobrietà dello sguardo. Strizzi non trasforma l’attore in personaggio. Fa il contrario. Ti mostra il momento in cui il personaggio cade, e sotto rimane l’essere umano. E lo fa con una gentilezza che oggi si è persa, travolta dall’estetica social dell’istantaneo, dell’iper-saturo, del selfie preconfezionato. Questa mostra è una lezione di sguardo. Non solo per chi ama il cinema, ma per chiunque senta il bisogno di tornare a vedere senza giudicare. Il cinema, quello vero, lo si riconosce nei dettagli: un microfono appeso, una sigaretta accesa fuori campo, un tecnico che regge una lampada come fosse un rito antico. Ecco, Strizzi è l’etnologo di quel mondo scomparso. Senza didascalie, senza moralismi, senza nostalgia. Con lo stesso rispetto con cui si fotografa un amore finito. Melissa e Vanessa Strizzi, che hanno curato la mostra, hanno fatto una scelta precisa: non spiegare troppo. Le immagini non vengono sovraccaricate di parole, non cercano consenso. Stanno lì, fiere, silenziose, a sfidarti. E se non le capisci, pazienza. Sono immagini pensate per chi ha ancora il coraggio di fermarsi. Di rallentare. Di sentire il peso leggero di uno sguardo che non ti vuole vendere nulla. Perché in fondo Sergio Strizzi non fotografava il cinema. Fotografava le sue pause. I suoi silenzi. Le crepe in cui il racconto si smarrisce e torna umano. Faceva ciò che oggi nessuno fa più: aspettava. E in quell’attesa, trovava l’immagine.
Roma, Crypta Balbi
Museo Nazionale Romano
CRYPTA BALBI: CANTIERE APERTO
Roma, 09 luglio 2025
Nell’inesauribile palinsesto urbano di Roma, la Crypta Balbi si impone come uno dei più raffinati esempi di stratigrafia storica visibile, documentata e musealizzata. Situata nel cuore della città, tra via delle Botteghe Oscure e via dei Delfini, essa costituisce un laboratorio sperimentale per la comprensione delle dinamiche di trasformazione urbana dalla tarda età repubblicana sino all’età contemporanea. Oggi, in seguito a un importante intervento di restauro e scavo archeologico in corso dal gennaio 2023, la Crypta si appresta a vivere una nuova stagione scientifica e museale, sostenuta da un imponente investimento pubblico che supera i cinquanta milioni di euro. L’intervento in corso non si configura come una mera operazione conservativa, ma si propone quale occasione per approfondire la conoscenza del sito e offrire nuove modalità di fruizione. A partire dal 9 luglio, è previsto l’inizio del programma “Crypta Balbi: cantiere aperto”, che consentirà al pubblico di osservare, ogni sabato mattina, lo svolgersi degli scavi in diretta, sotto la guida di archeologi professionisti. Tra questi, figurano studiosi di primissimo piano nel panorama della ricerca italiana, come Daniele Manacorda e Federico Marazzi, che hanno contribuito anche alla realizzazione di un video esplicativo dedicato alla storia del sito e ai più recenti rinvenimenti. L’area, attualmente interdetta al pubblico, tornerà a essere accessibile in forma parziale grazie a una serie di visite guidate anche in orario serale, in concomitanza con il ciclo di conferenze Al centro di Roma, che prenderà avvio il 17 luglio presso la sede di Palazzo Altemps, anch’essa parte del Museo Nazionale Romano. L’origine della Crypta Balbi risale al 13 a.C., quando Lucio Cornelio Balbo fece erigere, nel Campo Marzio, un complesso teatrale secondo i canoni della tradizione ellenistica. La crypta, propriamente detta, costituiva il portico retrostante la scena, destinato al passeggio e alle attività diurne del pubblico, e in origine circondava un grande giardino porticato. Tuttavia, la vera ricchezza archeologica del sito non è da ricercare nell’edificio monumentale originario, quanto piuttosto nella densità e nella varietà di riusi, trasformazioni, abbandoni e nuove destinazioni d’uso che si sono succeduti nel corso di oltre due millenni. La Crypta Balbi è, a tutti gli effetti, un luogo privilegiato per l’osservazione della cosiddetta longue durée urbana: al di sotto dei piani rinascimentali si conservano tracce di officine tardoantiche, fulloniche, sacelli, strutture abitative e persino stratificazioni post-unitarie legate alla vita quotidiana della Roma moderna. Le più recenti campagne di scavo, in parte condotte nell’ambito del progetto URBS, hanno consentito di ampliare in modo significativo la conoscenza dell’assetto tardoantico dell’area, portando alla luce nuovi ambienti artigianali, tra cui una fullonica – officina per il trattamento, la tintura e il lavaggio dei tessuti – databile al IV secolo d.C. Tra i ritrovamenti più rilevanti, si segnala anche l’individuazione di un sacello, la cui identificazione cultuale resta tuttora incerta. Sebbene non sia ancora stato possibile attribuirlo con certezza a una divinità specifica, l’orientamento delle strutture e alcuni indizi iconografici e materiali suggeriscono un possibile legame con i culti orientali, in particolare con quello isiaco e con la figura sincretica di Serapide. All’interno dell’area sacra è stata rinvenuta una fossa votiva contenente offerte in terracotta – probabili ex voto – nonché elementi strutturali pertinenti a un edificio di culto la cui costruzione non fu mai completata, forse a causa di una precoce interruzione del cantiere. Si tratta di un rinvenimento che, pur nella sua frammentarietà, arricchisce ulteriormente il quadro delle presenze cultuali ed economiche della zona in età tardoantica, delineando uno spazio urbano in continua trasformazione, segnato da sincretismi religiosi e dalla compresenza di funzioni produttive e rituali. Questi ritrovamenti arricchiscono il già straordinario corpus di dati sulla commistione fra pratiche religiose, funzioni produttive e organizzazione urbanistica nel tessuto post-classico del Campo Marzio meridionale. Degno di nota è anche il rinvenimento di affreschi medievali pertinenti al complesso della chiesa di Santa Caterina dei Funari, un tempo insistente sull’area della crypta, che restituiscono una memoria figurativa ancora poco conosciuta del paesaggio urbano della Roma tardo-gotica e rinascimentale. Le pitture, in fase di restauro, saranno integrate nei futuri percorsi museali. Ma l’ambizione del progetto non si esaurisce nella sola dimensione archeologica. Il piano complessivo – che si estende su circa 25.000 metri quadri di superficie edilizia e oltre 8.000 metri quadri di area archeologica – mira alla creazione di un vero e proprio “quartiere culturale” nel centro di Roma. Gli spazi restaurati ospiteranno, oltre al museo rinnovato, anche residenze per studiosi, laboratori didattici, aree per la ricerca interdisciplinare, sale per eventi e una caffetteria con affaccio sulle antiche strutture. Particolare attenzione è rivolta al tema dell’accessibilità: le passerelle di nuova concezione, in vetro trasparente e struttura sospesa, consentiranno una visione diretta delle strutture sottostanti, in un dialogo costante tra antico e moderno. La narrazione museale non si limiterà alla sola antichità classica, ma si estenderà alle vicende più recenti dell’area, tra cui il rastrellamento del ghetto del 1943 e il ritrovamento, nel 1978, del corpo di Aldo Moro in via Caetani, a pochi passi dal sito. L’intera operazione, promossa dal Ministero della Cultura e dal Museo Nazionale Romano, si distingue per il suo approccio metodologico integrato, che coniuga la ricerca scientifica con la partecipazione pubblica e l’educazione al patrimonio. La formula del cantiere aperto è qui esemplare: lungi dall’essere un’eccezione, dovrebbe costituire un modello replicabile in altre aree urbane ad alto potenziale archeologico. L’attenzione alla comunicazione dei risultati, la produzione di materiali audiovisivi, la promozione di cicli di conferenze e la valorizzazione del ruolo degli archeologi come mediatori culturali confermano una visione del museo come organismo vivo, in dialogo costante con la città. La Crypta Balbi, nella sua nuova veste, non è solo un sito da visitare, ma un luogo da attraversare, da studiare, da interrogare e si pone oggi come uno dei più ambiziosi esempi europei di rigenerazione culturale e di museo partecipato, in cui la storia si lascia leggere non come racconto chiuso, ma come processo aperto e condiviso.
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Stanislav Kochanovsky
Sergej Prokof’ev: “Chout” (Il buffone) op. 21; Pëtr Il’ič Čajkovskij: “Il lago dei cigni” – estratti
Venezia, 5 luglio 2025
Una serata interamente dedicata alla musica per la danza non poteva che svolgersi nel nome di due grandi autori russi, che hanno contribuito in modo decisivo alla diffusione e al rinnovamento del balletto classico, seppure con cifre stilistiche tra loro alquanto diverse. Questo l’intento programmatico del recente concerto, svoltosi nell’ambito della Stagione Sinfonica del Teatro La Fenice – l’ultimo prima della pausa estiva –, che ha visto il gradito ritorno a Venezia di un altro esponente della grande cultura musicale al di qua degli Urali: il maestro Stanislav Kochanovsky, che ha diretto Chout di Prokof’ev e alcuni estratti da Il lago dei cigni di Čajkovskij. Per il tema, alquanto sessista e misogino, Chout – il secondo balletto di Prokof’ev, composto nel 1920 per i Ballets Russes di Sergej Diaghilev e messo in scena a Parigi il 17 maggio 1921 – ha richiamato alla nostra memoria Pericolosamente, un atto unico di Eduardo De Filippo, nel quale un marito, per tenere a freno la moglie, irascibile quanto ingenua, le spara (a salve) non appena questa accenna ad un litigio, provocando in lei – che, restando illesa, si crede miracolata – un repentino cambiamento di umore. È un po’ quello che avviene nel balletto di Prokof’ev, dove un astuto buffone, per estorcere denaro ad altri sette giullari li invita a casa propria e finge, di fronte a loro, di uccidere la moglie – rifiutatasi di apparecchiare la tavola –, senonché la donna, dopo qualche colpo di frusta infertogli dal marito, riprende vita e si mostra obbediente. I sette invitati – credendo di aver trovato il modo di dare un’analoga lezione alle loro mogli – comprano a peso d’oro la frusta e, tornati a casa, uccidono le rispettive consorti, le quali ovviamente, nonostante le frustate, non ritornano in vita. Ma questo non è che l’inizio di una serie di rocambolesche vicende, che vedranno i sette sprovveduti buffoni soccombere agli intrighi dell’astuto protagonista. Lavoro di carattere satirico e crudele, tipicamente russo, ispirato a un racconto tratto dalla raccolta di Antiche fiabe russe di Alexander Afanas’ev, Chout si fonda su una musica, piena di trovate strumentali e di spunti sarcastici, sfoggiando un’orchestrazione di grande brillantezza. Più che alla Sagra della primavera il compositore parve ispirarsi a Petruška, che lo aveva interessato anche per il sadismo inflitto al povero burattino. Di grande impatto sonoro l’interpretazione offerta da Kochanovsky, che con un gesto di espressionistica potenza ha guidato la nutrita compagine orchestrale lungo questa partitura piena di fantasia e di brio, con vari elementi tratti dal folklore russo: ‘barbariche’ le sonorità dell’ampia sezione delle percussioni, ma effetti percussivi e metallici erano prodotti anche dal pianoforte e dalle due arpe. Dopo l’iniziale sferragliare dell’orchestra, le varie scene si sono succedute tra scintillanti invenzioni sonore, dissonanze, asperità, soluzioni poliritmiche, frequenti reiterazioni dal carattere meccanico: protagonisti gli ottoni con le loro potenti sonorità e i violini spesso proiettati nel registro acuto o suonati sul ponticello. Non sono, comunque, mancati momenti di malinconico lirismo, che denotavano una sottile ricerca armonica e timbrica.
Quanto al Lago dei cigni, il primo dei grandi balletti di Čajkovskij è uno dei caposaldi del balletto classico, per quanto sia stato inizialmente sfortunato. Composto tra il 1875 e il 1876 e andato in scena con scarso successo al Bol’šoj di Mosca il 4 marzo 1877, si affermò solo grazie al celebre allestimento di Petipa e Ivanov, proposto al pubblico dopo la prematura morte dell’autore nel 1894 (limitatamente al secondo atto) e nel gennaio 1895 (completo). La vocazione a comporre musica per balletto consentì a Čajkovskij di rinnovare questo genere in modo geniale fin dalla prima esperienza, che anche per la sua originalità e novità fu scarsamente compresa. Congeniale alla sensibilità di Čajkovskij era certamente il soggetto del balletto: l’amore infelice tra il principe Siegfried e Odette, una sventurata fanciulla, costretta, per un crudele incantesimo, a trasformarsi durante il giorno in un cigno; un amore che si conclude con la morte dei due giovani, uniti per sempre. Per la coerenza drammatica, il respiro sinfonico e l’intensità espressiva, il primo balletto di Čajkovskij rivela complessità e inquietudini fino ad allora sconosciute dal genere, rese con suprema eleganza. Ne ha offerto un esempio, nel corso della suggestiva interpretazione del maestro russo, il tema più celebre del balletto: un tema fondato su una sequenza discendente in minore – ad evocare l’infausto destino – e legato ai cigni e a Odette: presentato nel Preludio dall’oboe – prima di un movimento agitato, ad evocare il sortilegio del mago Rothbart ai danni della fanciulla – è tornato più volte in momenti particolarmente drammatici, assumendo sempre maggiore forza drammatica. Comunque nel balletto c’è spazio anche per episodi brillanti e divaganti (divertissements), come la festa per il compleanno di Sigfrido nel primo atto, dove l’Orchestra ha sfoggiato un giusto accento elegante e spensierato. Straordinaria la prestazione del primo violino di Miriam Dal Don, nell’evocare l’incontro fatale fra il principe e Odette, nel secondo atto: dopo un’introduzione, in cui si è messa in luce l’arpa, il violino solo ha intonato con grazia e leggerezza – ma, al tempo stesso, con intensità emotiva – lo struggente tema lirico a lui affidato; un tema che nel corso della elaborazione successiva è stato ripreso con analoga finezza interpretativa dal violoncello. Il tema del cigno è risuonato ancora verso la fine – tratto dalla parte conclusiva del breve quarto atto, dalla drammaticità straordinariamente sobria e concisa –, qui intonato, a mo’ di apoteosi, dalle trombe in modo maggiore, seguito dalla cadenza conclusiva tra gli ultimi ghirigori dell’arpa. E a una vera apoteosi si è assistito anche dopo la fine dello spettacolo, quando il pubblico ha salutato degnamente il direttore e gli orchestrali.
Disc 1: Concerto for Violin and Winds (1970); Concerto for Violin and Strings (1977) Philharmonia Orchestra. David Parry (direttore). Cristina Anghelescu (violino).
Disc 2: Cello Concerto (1997). Albany Symphony Orchestra. David Alan Miller (direttore). Anthony Ross (violoncello).
Registrazione: 29 giugno-3 luglio 1998 presso la Henry Wood Hall di Londra (Concerti per violino); 22 aprile 2001 presso la Troy Savings Bank Music Hall, Troy, NY (Concerto per violoncello). T. Time: 64′ 37″ (CD1) 29′ 40″ (CD2). 2 CD Lyrita SRCD.24223
Di formazione violinistica, George Lloyd, della cui vita e attività si è già parlato a proposito della nostra recensione sui Concerti per pianoforte, dedicò al suo strumento soltanto due concerti nei quali è possibile notare la sua profonda conoscenza delle possibilità tecniche del violino. Composto nel 1970, il Concerto per violino e fiati, che sarebbe stato eseguito per la prima volta soltanto quasi trent’anni dopo nel 1998 in occasione di questa incisione, presenta un insolito organico costituito dai soli fiati (tre flauti di cui il terzo con obbligo di ottavino, due oboi, il corno inglese, due clarinetti, un clarinetto basso, due fagotti, un controfagotto, due corni, due trombe e due tromboni) e si segnala per il carattere vivace dei due movimenti esterni, marcati il primo Con Brio e Grazioso il terzo, e per l’intenso lirismo di quello centrale, Lento. Inoltre, il particolare organico non disturba affatto il violino, che potrebbe sembrare a prima vista poco a suo agio con i fiati, ma che invece emerge sempre con grande personalità. Un organico più tradizionale, e, oserei dire, di ascendenza barocca presenta il Concerto per violino e archi, il quale ebbe una fortuna migliore del fratello maggiore. Composto nel 1977, fu, infatti, eseguito per la prima volta, il 5 gennaio 1986, sotto la direzione del compositore con la BBC Philharmonic Orchestra, nello Studio 7 della New Broadcasting House, Manchester con Manoug Parikian in qualità di solista. In quattro movimenti il Concerto si apre con un suggestivo Lento, nel quale inizialmente il solista e gli archi dialogano in una scrittura drammatica che conduce a una episodio sinistro. Questo clima si rasserena nel successivo Con Brio, pagina nella quale il solista mette in mostra tutte le sue doti virtuosistiche, per assumere un carattere poetico e quasi elegiaco nel terzo movimento (Largo). Nell’ultimo movimento, Vivace, il ritmo di tarantella del tema principale contrasta con la ripresa di elementi del primo movimento che qui assumono la forma di una fanfara. In questa incisione, pubblicata dall’etichetta Lyrita, i due concerti sono eseguiti, rispettivamente, dalla sezione dei fiati e da quella degli archi della Philharmonia Orchestra sotto la direzione di David Parry che non solo stacca dei tempi adeguati, ma riesce a trovare soprattutto nel Concerto per violino e fiati delle sonorità tali da non soverchiare mai il solista con il quale riesce bene ad amalgamarsi. Splendida la perfomance di Cristina Anghelescu che mostra la sua grande abilità tecnica nei movimenti di carattere virtuosistico e una cavata molto espressiva in quelli lenti.
Il secondo CD di questa proposta discografica dell’etichetta Lyrita è dedicato al Concerto per violoncello e orchestra, che, composto nel 1997, un anno prima della morte, si configura quasi come un testamento spirituale del compositore che all’epoca aveva 85 anni. Il Concerto appare venato da una profonda malinconia sin dal primo movimento Violante, doloroso, la cui parte iniziale ricorda il movimento centrale del Quarto concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven. Nel secondo movimento, di carattere vivace, si può ascoltare una splendida ed espressiva cadenza, mentre il terzo movimento, Adagio, conquista per la bellezza della malinconica melodia affidata al solista. Un carattere pastorale, realizzato anche attraverso l’uso delle doppie corde nella parte del solista, informa il quarto movimento, Andante. Ad esso segue un altro movimento vivace (Vivo) che conduce a un Moderato che prelude al Largo conclusivo nel quale ritorna in una forma rivisitata il materiale tematico del primo movimento. Ad eseguire questo concerto è la Albany Symphony Orchestra sotto la direzione di David Alan Miller che, come il suo collega, stacca tempi adeguati e trova sonorità altrettanto adeguate. Dotato di una solida tecnica, Anthony Ross risolve con grande facilità i passi virtuosistici del concerto e sfoggia una cavata intensa ed espressiva in quelli di carattere lirico.
Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2024-2025
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro atti su libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier GREGORY KUNDE
Carlo Gérard FRANCO VASSALLO
Maddalena di Coigny MARIA AGRESTA
La mulatta Bersi MARA GAUDENZI
La contessa di Coigny FEDERICA GIANSANTI
Madelon MANUELA CUSTER
Roucher ADRIANO GRAMIGNI
Pietro Fléville e Fouquier-Tinville NICOLÒ CERIANI
Il sanculotto Mathieu VINCENZO NIZZARDO
Un “incredibile” RICCARDO RADOS
L’abate poeta DANIEL UMBELINO
Dumas TYLER ZIMMERMAN
Schmidt JANUSZ NOSEK
Il maestro di casa MARCO SPORTELLI
Una pescivendola EUN YOUNG JANG
Flando Fiorinelli ANDREA MAURI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Giancarlo Del Monaco
Scene Daniel Bianco
Costumi Jesús Ruiz
Luci Vladi Spigarolo
Torino, 22 giugno 2025
Ultimo titolo della stagione 2024-25 e primo affidato ad Andrea Battistoni in qualità di direttore musicale del teatro Regio di Torino “Andrea Chénier” torna a Torino con una produzione di gran lusso che pur non avendoci convinto pienamente in tutte le componenti si conferma dimostrazione di qualità produttiva e d’impegno artistico assolutamente encomiabili. Battistoni mostra già ottima sintonia con i complessi torinesi che gli garantisce una perfetta tenuta tra palcoscenico e orchestra. Sul piano esecutivo notiamo un forte senso teatrale e uno spiccato gusto per i contrasti. Particolarmente riuscite sono le scene più liriche dove la direzione raggiunge notevoli picchi di partecipazione emotiva – esemplare in tal senso “La mamma morta” in perfetta sintonia con lo straziante lirismo del canto dell’Agresta – mentre altrove si lascia un po’ trascinare. L’inizio del secondo atto e la conclusione dello stesso sono resi con un andamento fin troppo precipitoso. Molto buona la prova dell’orchestra e sempre magnifica quella del coro assai impegnato anche sul versante attoriale. La prova di Gregory Kunde ha del miracoloso. Certo a più di settant’anni qualche ruga si nota, specie nel settore medio-grave, ma appena la linea sale trova uno squillo e una fermezza che vince ogni sfida del tempo. L’interprete è poi perfettamente padrone del personaggio. Il suo è uno Chénier autentico poeta, lontanissimo dalla prosopopea retorica di una certa tradizione sostituita da una sincerità di accento e da una spontaneità espressiva che non possono che conquistare. Maria Agresta è però la vera trionfatrice della serata. Voce schiettamente lirica evita ogni forzatura, non cerca una drammaticità che è estranea alla sua voce ma piega il ruolo alle sue qualità con grande intelligenza. La voce di luminoso lirismo è sfruttata con somma intelligenza da un fraseggio che scava ogni cifra del personaggio rendendone la maturazione progressiva con rara sensibilità. Quando poi si arriva ai momenti più drammatici la sincerità espressiva del canto dell’Agresta giunge immancabilmente a commuovere. Splendidamente accompagnata da Battistoni risulta emozionante fino alle lacrime nella grande aria del III atto.Franco Vassallo ha sicuramente una voce possente ma come interprete è un po’ monocorde, più feroce rivoluzionario che idealista schiacciato dalle disillusioni. Rende bene nei momenti più drammatici e concitati ma nei grandi squarci lirici di “Io della Redentrice figlio” o “Io t’ho voluto allor che tu piccina” risulta troppo prosaico, priva di quell’abbandono che certe melodie naturalmente richiedono. Molto buone – al netto del troppo flebile Abate di Daniel Umbelino – le parti di fianco. Forse nessuna oggi conosce la parte di Madelon come Manuela Custer è nessuna sa imprimere al personaggio una tale icasticità teatrale pur nella brevità della parte. Federica Giansanti è una Contessa sfumata ed espressiva, Mara Gaudenzi una Bersi di carattere e forte presenza teatrale. Vicenzo Nizzardo dona a Mathieu una bella linea vocale e un’interpretazione sobria e senza fronzoli; voce ricca e di bel colore per il Roucher di Adriano Gramigni e ben centrato l’Incredibile di Riccardo Rados. La regia di Giancarlo Del Monaco è sicuramente più divisiva. Il regista parte da una concezione fortemente pessimistica della storia che nega ogni valore al progresso umano e in cui ogni illusione si trasforma in orrore, ogni libertà in tirannide. Dopo un primo atto sostanzialmente tradizionale l’irrompere di militari armati di mitragliatrici cambia il passo dell’opera. I tre atti successivi rinunciano a ogni colore, a ogni luce. Sono cupe muraglie di cemento, torrette di guardia, grate che ovunque opprimono. Le epoche si mischiano. Il Settecento si fonde con gli anni della II guerra mondiale e questi con la nostra contemporaneità. Tutto può fondersi perché tutto è solo oppressione e squallore. Resta solo l’amore come speranza di fuga – se non di redenzione – individuale.Lettura condotta con assoluta coerenza registica e con rara capacità di lavoro attoriale – si vedano i gesti minuti, quasi rallentati con cui Chénier e Maddalena tentano di sfuggire ai fari delle sentinelle. Il rischio è però quello di un’eccessiva cupezza, di una mancanza di contrasti che rischia di spegnare quasi l’attenzione. Resta da chiedersi se serva davvero tutto questo insistere su una violenza mostrata con gusto quasi voyeuristico – Bersi freddata alle spalle mentre tenta di raggiungere la padrona, questo voler appiattire tutto su un presente diretto e immediato anziché lasciare alla sensibilità del pubblico di ricostruire la trama che lega passato e presente e l’eternità dolorosa degli affetti umani. Risposte che forse non esistono se non nell’intima sensibilità di ognuno.
Roma, Caracalla Festival 2025
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
Tony MAREK ZUROWSKI
Maria SOFIA CASELLI
Anita NATASCIA FONZETTI
Bernardo SERGIO GIACOMELLI
Riff SAM BROWN
Qui il resto del cast
Coreografie Sasha Riva e Simone Repele
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Regia Damiano Michieletto
Direttore Michele Mariotti
Orchestra e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 05 luglio 2025
Il nuovo allestimento di West Side Story presentato dal Teatro dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla, con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Michele Mariotti, si inserisce con decisione nel filone delle riletture radicali. La regia di Michieletto intende liberare West Side Story da ogni tentazione nostalgica, trasferendola in un presente segnato da disillusione, fratture sociali e sorveglianza diffusa. La scena – una piscina in disuso, crepata e invasa da detriti – delinea un paesaggio post-urbano, desolato ma non privo di riferimenti simbolici. Al centro, la fiaccola spezzata della Statua della Libertà suggerisce una visione corrosa dell’ideale americano, evocato nella sua rovina più che nella sua promessa. L’allestimento, così concepito, stabilisce un suggestivo parallelismo con le stesse Terme di Caracalla, nate come complesso termale monumentale, ricco di vasche e piscine: una piscina scenica dentro le rovine di piscine reali, metafora di un doppio collasso – storico e ideologico – che interroga lo spettatore su ciò che resta, oggi, dei miti fondativi della collettività. Siamo lontani dalla New York realistica dell’originale: Jets e Sharks si muovono in uno spazio allegorico, sospeso tra degrado e astrazione. Questa scelta, pur coerente nella sua radicalità, si scontra in alcuni momenti con l’impianto lirico dell’opera, ancorato a una dimensione relazionale. Il linguaggio musicale di Bernstein e il testo di Sondheim esprimono tensione emotiva e desiderio: elementi che, a tratti, faticano a trovare corrispondenza nell’estetica spoglia della regia. Non sempre questa distanza si traduce in tensione drammaturgica: nei passaggi più intimi, la rarefazione scenica rischia di ridurre la parola a superficie, privandola di peso. Michele Mariotti, dal podio, affronta la partitura di Bernstein con una visione lucida, strutturalmente solida e musicalmente ispirata, restituendone appieno la ricchezza timbrica e la varietà stilistica. Jazz, sinfonismo novecentesco, idiomi latini, Broadway song e complesse architetture poliritmiche scorrono in un flusso coerente, articolato con rigore analitico e naturalezza interpretativa. L’orchestra risponde con grande reattività a ogni cambiamento di clima espressivo, restituendo la stratificazione del tessuto sonoro con precisione e duttilità. La direzione evita ogni forma di compiacimento o retorica, rifiutando tanto l’enfasi cinematografica quanto il neutralismo sinfonico. Ogni sezione – dagli ottoni alle percussioni, dai legni alla sezione ritmica – è valorizzata come voce autonoma, funzionale alla drammaturgia interna della partitura. Il fraseggio orchestrale è cesellato, le dinamiche finemente sfumate, il bilanciamento timbrico sempre attento alla costruzione narrativa del suono. Ma il dato più rilevante è forse la sua relazione con la scena: Mariotti mantiene un contatto costante e partecipato con i cantanti, sostenendoli con una direzione flessibile e generosa, capace di adattarsi al gesto vocale e alla parola drammatica. Marek Zurowski interpreta Tony con voce ampia, ben proiettata, e una linea lirica morbida, non sempre pienamente controllata ma capace di sostenere l’eloquenza emotiva del personaggio. La sua presenza scenica è marcata da una fisicità evidente, che non cerca di nascondere ma anzi espone con naturalezza, anche quando risulta talvolta più impattante che realmente calibrata rispetto alla fragile idealità di Tony. La lettura resta ancorata a un modello narrativo tradizionale – l’innocente travolto dalla passione e dal rimorso – che la regia non si cura di mettere in crisi. L’interpretazione è professionale, sincera, ma priva di ambiguità o torsioni interiori. Sofia Caselli presta a Maria un timbro limpido, una tecnica solida e un’intenzione interpretativa calibrata. Il suo fraseggio è corretto, l’intonazione precisa, il registro acuto ben gestito. Ma anche qui il personaggio rimane imprigionato in un ruolo simbolico: figura eterea e pacificatrice, portatrice di un’innocenza che la scena, peraltro, rende impossibile. Il conflitto tra testo e ambientazione è irrisolto: la Maria cantata non corrisponde mai davvero a quella che si vede. Molto più centrata, invece, l’interpretazione di Natascia Fonzetti, che nel ruolo di Anita riesce a spezzare la cornice archetipica. La sua vocalità è piena, potente, il ritmo è impeccabile, l’espressività misurata ma penetrante. In America il suo corpo e la sua voce costruiscono un personaggio consapevole, ironico e lucido, perfettamente integrato nel linguaggio scenico. Sergio Giacomelli (Bernardo) e Sam Brown (Riff) offrono prove solide: il primo con voce brunita e asciutta, il secondo con energia ritmica e controllo scenico. Per tutti gli interpreti si percepisce una maggiore disinvoltura nelle parti cantate, mentre la componente recitativa appare in alcuni casi meno rifinita e omogenea nel tono e nell’intenzione. In linea il resto del cast. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele abbandonano del tutto la grammatica di Robbins, elaborando un linguaggio nervoso, frammentato, fatto di strattoni, rigidità, collisioni. Il corpo non è più veicolo di liberazione, ma dispositivo di tensione e contenimento. Una scelta coerente con la visione registica, ma che accentua la sensazione di spaesamento emotivo. Questo West Side Story non è certo un’operazione nostalgica, né tantomeno un esercizio di calligrafia teatrale. È, piuttosto, un tentativo – per molti versi lodevole – di reiniettare senso politico e urgenza estetica in un’opera iconica, anche a costo di esasperarne le frizioni. Che il risultato sia irrisolto, talvolta incoerente, non ne inficia la necessità. L’opera di Michieletto ha almeno il merito di non rifugiarsi nel comfort della filologia né nella grazia inoffensiva del citazionismo. I personaggi restano prigionieri dei loro archetipi come cavie in un esperimento semiotico, ma l’apparato complessivo – musicale, visivo, coreografico – insiste nel porre domande, anche quando pare ignorare le risposte. E se la fiaccola della libertà viene rappresentata a pezzi, con zelo quasi didattico, forse è proprio perché si è ormai smesso di credere che possa scaldare. Al massimo, illumina – brevemente – il bordo delle crepe. Photocredit: Fabrizio Sansoni / Teatro dell’Opera di Roma
Ich bin in mir vergnügt BWV 204 si suppone sia stata composta tra il 1727 e il 1728, ma non è chiaro quale potesse essere il suo scopo originario. Il testo, adattato da un libretto di Christian Hunold (1681-1721), è uno dei più soggettivi e introspettivi tra quelli composti da Bach.
Di certo è una partitura poco considerata, forse per la natura personale del testo, o forse per l’apparente mancanza di varietà vocale, visto che si tratta di composizione per soprano impegnata in tutti gli otto movimenti. Un’altra ragione potrebbe essere il fatto che, come abbiamo detto, non ne sappiamo la destinazione. Certamente contiene temi che vengono regolarmente esplorati nelle cantate religiose, come ad esempio l’affermazione che la ricchezza non porta felicità o appagamento spirituale e la soddisfazione che si può trarre dalla pace interiore di accettare la parola di Dio e le sue leggi. Ma queste argomentazioni non sono incentrate su un giorno particolare o su un tema dell’anno ecclesiastico; né Dio, o la nostra lode e apprezzamento dei suoi benefici, sono il punto focale del testo. Si tratta piuttosto di un’opera che guarda all’interno della psiche umana, esplorando nozioni sul comportamento personale, sugli atteggiamenti e sulla ricerca di conforto spirituale e pace interiore. Le quattro arie, raggiungono un senso di varietà e contrasto attraverso diverse combinazioni strumentali. Le due centrali fanno ricorso rispettivamente a un violino e a un flauto come strumenti obbligati, mentre quelle esterne sono leggermente più ricche, la prima per due oboi e l’ultima per orchestra d’archi e flauto. In questo alternarsi di recitativo-aria ascoltiamo la prima (Nr.2) che inneggia alla calma interiore, splendidamente accompagnata da due oboi che si intrecciano. La seconda (Nr.4) riprende il tema della ricchezza mondana che implica la povertà spirituale (e viceversa) e qui la bella linea vocale dell’aria è accompagnata da un brillante violino solista. Segue il messaggio dell’appagamento attraverso la comunione con Dio e qui l’aria (Nr.6) fa brillare il flauto. Il recitativo finale continua il tema del denaro come radice del male e si sviluppa in arioso in cui anche gli amici della vita mondana sono giudicati inaffidabili. L’aria finale (Nr,8), che amplifica il messaggio, ossia che la vera felicità deriva dall’unione con Dio, è uno dei più bei brani musicali del repertorio bachiano. Il compositore l’ha utilizzata nuovamente nella Cantata BWV 216/3 e BWV 216a/3 e forse anche nella perduta Passione di San Marco.
Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2025, Cremona
“ERCOLE AMANTE”
Tragedia di un prologo e cinque atti di Francesco Buti
Musica di Francesco Cavalli
Ercole RENATO DOLCINI
Cinzia/Venere/Bellezza PAOLA VALENTINA MOLINARI
Iole HILARY AESCHLIMAN
Giunone THEODORA RAFTIS
Hyllo JORGE NAVARRO COLORADO
Deianira SHAKED BAR
Nettuno/Ombra di Eurito FEDERICO DOMENICO ERALDO SACCHI
Pasithea CHIARA NICASTRO
Licco DANILO PASTORE
Paggio MAXIMILIANO DANTA
Mercurio MATTEO STRAFFI
Tevere ARRIGO LIVERANI MINZONI
Tre grazie BENEDETTA ZANOTTO, GIORGIA SORICHETTI, ISABELLA DI PIETRO
Orchestra e Coro Monteverdi Festival – Cremona Antiqua
Maestro concertatore e direttore del coro Antonio Greco
Regia Andrea Bernard
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Light designer Marco Alba
Coreografie Giulia Tornarolli
Nuova produzione Monteverdi Festival, Fondazione Teatro Ponchielli
Cremona, 27 giugno 2025
L’”Ercole amante” di Cavalli non si può definire un’opera del tutto sconosciuta, dato che dal ‘61 in avanti viene periodicamente ripescata, sia in Italia che all’estero. Pur mancando un’effettiva Cavalli renaissance, infatti, l’opus del cremasco negli ultimi decenni si trova in un fioco quanto persistente cono di luce: “La Calisto”, “Xerse”, “L’Elena”, “L’Erismena” e soprattutto “L’Eliogabalo” e proprio “L’Ercole amante”, hanno visto recenti messe in scena e incisioni. Apprezzabile, in ogni caso, la decisione del Monteverdi Festival di Cremona di lasciare uno spazio anche all’altro compositore locale, sebbene i risultati di questa operazione siano alquanto alterni: il Ponchielli registra un pubblico assai scarso; la compagnia di canto è complessivamente apprezzabile, con alcune “vette” e altre “cadute”: tra le prime si assesta senz’altro Theodora Raftis, intensa Giunone, dal bel colore e l’omogenea linea di canto, con un pieno controllo del canto d’ agilità; Shaked Bar e Hilary Aeschlimann (Deianira e Iole) sono due soprani dal colore vocale piuttosto simile, più “tonda” ed elegiaca la prima, la seconda affilata. Federico Domenico Eraldo Sacchi brilla come Ombra di Eurito, grazie alla cura del fraseggio unita a un efficace coinvolgimento scenico. Sacchi è stato anche un apprezzabile Nettuno. Si distingue, anche Maximiliano Danta, giovane controtenore dalla vocalità fresca e naturale, vincitore nel 2024 del Concorso Cesti di Innsbruck. Destano più perplessità invece le prove dei due protagonisti: Renato Dolcini è un Ercole riuscitissimo sul piano scenico, sul piano vocale, dopo un inizio un po’ incerto, non ben a fuoco nell’emissione, si riprende nel corso dell’opera mostrando una vocalità più solida e ben sostenuta. Anche Paola Valentina Molinari dimostra da subito un bel talento attorale, che si esprime in una prova certamente onerosa – tre ruoli: Cinzia, Venere e Bellezza; il suono, tuttavia, è piccolo, per quanto grazioso, e la buona tecnica non sempre compensano il limite di corpo vocale. Lascia altresì perplessi Danilo Pastore, nel ruolo del fido attendente di Deianira, Licco. Pastore non canta con l’emissione non “impostata” (pratica spesso adottata dai cantanti di musica antica, ma non mi pare questa scelta sia calzante per Cavalli) ed è fortemente penalizzato da una scellerata scelta registica di trasformare il personaggio da corteggiatore della protagonista a suo amico en travesti dal fare di mezzana. Questo non ci sorprende, giacché la regia di Andrea Bernard sembra voler spegnere qualsiasi afflato di eroismo nei personaggi – ed è paradossale, se pensiamo che il tema del Festival di quest’anno è “Heroes”: tutto è stemperato in un gioco comico spesso forzato o fuori luogo, vista la natura tragica del testo (con un lieto fine, ma indiscutibilmente tragica, a partire dalla sua fonte principale, ossia “Le Trachinie” di Sofocle); questa pesante distorsione trova accoglimento anche nei costumi di Elena Beccaro, un mix di fast fashion e costume sartoriale, mentre le scene di Alberto Beltrame sono di una rassicurante eleganza – una sorta di sala teatrale perlinata dai toni pastello, il cui palco rappresenta altre dimensioni: il divino, l’oltretomba, ma anche il metateatrale. Molto apprezzate senz’altro le coreografie di Giulia Tornarolli, per quanto talvolta un po’ peregrine – davvero magnifiche quelle della scena del fantasma. La concertazione di Antonio Greco è stata come al solito di alto livello, molto attento a valorizzare le singole componenti dell’orchestra, in particolare gli ottoni che (inspiegabilmente) durante il prologo sono sistemati in fondo alla platea coi timpani. L’apporto del coro (istruito dallo stesso Greco) è pure pregevolissimo, sia sul piano musicale che su quello scenico, sebbene la regia abbia deciso per lo più di impegnarlo in una serie di trovate in genere slegate dal contesto, che rischiano di distrarre il pubblico. In conclusione ci sorge una domanda: ciò che abbiamo visto e udito questa sera è effettivamente “L’Ercole Amante” di Cavalli, con tutto il suo portato storico-culturale ineludibile? La risposta ci pare negativa. È una sua rielaborazione attuale? Nemmeno, perché la musica è quella del cremasco. È stato un bello spettacolo? A fasi alterne, sì. Forse un festival importante come il Monteverdi di Cremona dovrebbe impegnarsi nel riscoprire opere, ma anche nel rispettarne la forma originaria, per farle conoscere al pubblico per quello che sono, e riservare sperimentazioni e drammaturgie nuove alla sacra trilogia monteverdiana. Foto Lorenzo Gorini
Roma, Biblioteca della Camera dei Deputati
“AMEDEO AMODIO. IL SEGNO IN MOVIMENTO”
di Antonella Giovampietro
Roma, 04 luglio 2025
È un intreccio di suggestioni quello riflesso con peculiare capacità affabulatoria nel racconto artistico del Maestro Amedeo Amodio, in dialogo con la giornalista Barbara Richerme. Il 2 luglio scorso, presso la Biblioteca della Camera dei Deputati “Nilde Iotti”, in occasione della presentazione in anteprima del docufilm Amedeo Amodio – Il segno in movimento realizzato dalla regista Antonella Giovampietro, davanti a un ricco parterre di personalità del mondo artistico, ad Amedeo Amodio è stato conferito dal Presidente della Commissione Cultura Federico Mollicone un premio della Camera dei Deputati “per aver rappresentato, durante gli oltre sessant’anni di carriera, una eccellenza nel campo dell’arte coreutica, per aver saputo evolversi continuamente senza mai perdere la sua identità creativa e per il suo contributo alla formazione di generazioni di danzatori”. Oltre ai figli Cristina e Raffaello Amodio, ai nipoti Leonardo e Mila, e alla compagna Silvana Ravone, tra i tanti nomi illustri che sono accorsi alla cerimonia si notavano Liliana Cavani (che lo ha diretto in celebri pellicole) e le ballerine scaligere, vere glorie del balletto italiano, Liliana Cosi e Luciana Savignano. Dal mondo del cinema anche Enrica Antonioni, Gianni Massironi e Claudio Gabriele. Presenti, inoltre, il prossimo direttore artistico del Festival dei due Mondi di Spoleto, Daniele Cipriani, che in anni recenti ha presentato molti balletti celebri di Amodio, e le star Anbeta Toromani e Alessandro Macario, che ne sono stati protagonisti. Con loro Roberto Giovanardi, già direttore generale dell’ATER, e i coreografi Daniela Malusardi e Mvula Sungani (quest’ultimo presente nella sua veste istituzionale di Consigliere per la danza del Ministro della Cultura). Presente in sala anche Gerardo Porcelluzzi, maestro di ballo della Scuola del Teatro dell’Opera, e il maestro di scherma, Renzo Musumeci Greco. Un piccolo omaggio per colui che ha saputo “disegnare la danza non solo con i movimenti, ma anche con la visione immaginativa e creativa, segnando una svolta fondamentale nel panorama artistico italiano”, come ha affermato in apertura della cerimonia di premiazione il Vicepresidente della Camera dei deputati, Fabio Rampelli. Decisiva per Amodio è stata certamente la formazione avvenuta presso il Teatro alla Scala dove ha potuto incontrare i più grandi artisti della scena, interpretando balletti di Léonide Massine, George Balanchine, Roland Petit. In quel fenomenale vivaio non era insolito assistere alle prove del compositore Igor’ Stravinskij, scambiare vivaci impressioni con Giorgio De Chirico, Pablo Picasso, Renato Guttuso, ascoltare Maria Callas in Anna Bolena per la regia di Luchino Visconti, così come andare a vedere gli spettacoli di Giorgio Strehler, o ammirare le opere di Lucio Fontana. Qui egli ha appreso a dialogare con il corpo, ammirando i diversi linguaggi della danza, dal classico alle danze di carattere, fino alle danze spagnole. Non si interessava tuttavia solo di danza, mostrando anche una genuina curiosità per le attività di sartoria o scenografia, sviluppando competenze che in futuro gli sarebbero risultate utili in campo coreografico. Ed iniziava a dipingere, o meglio a fissare le sue idee in dipinti, schizzi e bozzetti. Nel 1962 presentò finanche una personale di pittura a Milano e l’allora direttore degli allestimenti scenici del Teatro alla Scala Nicola Benois in quell’occasione lo presentò con fervido entusiasmo. Iniziò a coreografare presto, dalla fine degli anni Sessanta, sviluppando subito una sua cifra peculiare. Né, come anticipato, ebbe timore a confrontarsi con altre esperienze artistiche, quali la televisione o il cinema, collaborando con Liliana Cavani per Il portiere di notte e Al di là del bene e del male. E la sua sensibilità artistica lo portò a divenire nel 1979 direttore artistico della prima grande compagnia italiana indipendente dai teatri lirici, l’Aterballetto. Si trattava senz’altro di un erede della concezione della sintesi delle arti che animò le tournée diaghileviane dei Ballets Russes, e non è casuale il fatto che tra le sue figure ispiratrici vi sia stato un coreografo del calibro di Aurelio Milloss. Vittoria Ottolenghi lo definiva un visionario e di tale sensibilità artistica si è voluta rendere testimone la regista Antonella Giovampietro, figlia d’arte e ballerina ella stessa, nonché collaboratrice di Wim Wenders per il film Pina, che con sapiente garbo ci ha condotti in una riflessione sulla creatività di questo instancabile genio creativo. Scartabellando vecchie foto, Amodio ci introduce nel suo laboratorio, lasciandoci ammirare suggestivi quadri da noti balletti, come L’après-midi d’un faune con il suo richiamo a Nižinskij, Carmen e la sua ricerca di libertà, una Coppélia in stile hollywoodiano, un Romeo e Giulietta coniugato alla voce recitante di Gabriella Bartolomei, e uno Schiaccianoci ispirato al teatro delle ombre. Ma sono senz’altro quei segni incisi sulla carta a trasmetterci la sensazione della sua profonda fantasiosità: una scrittura delle idee, prima ancora che della danza, che si presentano in flusso continuo proustiano, capace di legare il passato a un infinito futuro. “La danza è il linguaggio di un pensiero in continuo movimento, in continua trasformazione, come lo scorrere della vita dell’universo“, ha sottolineato il Maestro. A conclusione del pomeriggio, il M° Musumeci Greco ha invitato i presenti a continuare i festeggiamenti presso l’Accademia d’Armi Musumeci Greco. Qui sua moglie, la campionessa olimpionica Novella Calligaris, ha intrattenuto gli ospiti, raccontando loro aneddoti della illustre famiglia e dei divi hollywoodiani che furono preparati per gli spettacolari duelli nei film di cappa e spada dal suocero, il maestro d’armi Enzo Musumeci Greco. Ad Enzo e Renzo si debbono anche i grandi duelli nel balletto di Amodio, Romeo e Giulietta.
Roma, Palazzo Bonaparte
CAROLE A. FEUERMAN. LA VOCE DEL CORPO
organizzata da Arthemisia e Feuerman Sculpture Foundation, curatela di Demetrio Paparoni
Roma, 04 luglio 2025
“La voce del corpo” si manifesta a Roma in forma scultorea, levigata, iperrealista, e lo fa invadendo senza esitazioni i saloni monumentali di Palazzo Bonaparte, affacciati sulla scenografia imperiale di Piazza Venezia. Qui, dal 4 luglio al 21 settembre 2025, prende vita la prima grande retrospettiva europea di Carole A. Feuerman, artista newyorkese che fin dagli anni Settanta ha plasmato la materia del corpo femminile elevandola a icona contemporanea, silenziosa e onnipresente. Oltre cinquanta opere – prodotte e organizzate da Arthemisia insieme alla Feuerman Sculpture Foundation, con la curatela di Demetrio Paparoni – tracciano un itinerario che non è solo cronologico, ma simbolico, emozionale, epidermico. Feuerman non propone figure: impone presenze. Le sue sculture, scolpite in resina, bronzo, vernice acrilica, non sono oggetti da osservare ma soglie da attraversare. Corpi che non parlano, ma comunicano con la loro immobilità e la loro perfezione lucente una tensione che non si può ignorare. Il corpo, per l’artista, non è strumento narrativo né strumento erotico: è forma assoluta, è paesaggio della mente. Le nuotatrici adolescenti, le donne sospese in pose raccolte, le figure atletiche e mute, non partecipano a una fenomenologia dell’identità, ma a una liturgia della presenza. E nel farlo, sovvertono ogni aspettativa spettatoriale: nulla qui è seducente nel senso canonico del termine. Ogni scultura, pur esibendo una precisione quasi chirurgica nella resa di gocce d’acqua, pieghe della pelle, capillari sottopelle e costumi aderenti, mantiene una distanza irreparabile. Non interpella, non interroga, non racconta: resiste. Nel contesto romano, tale resistenza si misura con lo spazio. Il barocco di Palazzo Bonaparte, solitamente complice di ogni enfasi, qui sembra ritrarsi. Le sue pareti dorate, le cornici storiche, le linee sinuose dei soffitti si mettono a disposizione di una nuova mitologia plastica. Lo spazio storico viene invaso da figure contemporanee che sembrano non solo abitare l’architettura ma colonizzarne lo sguardo. Il contrasto non è mai retorico, non c’è volontà di contrasto tematico: piuttosto, una sinergia paradossale, una complicità tattile. Il tempo sembra sospendersi: le sculture non stanno nel presente, ma in una sorta di bolla semiotica, dove ogni dettaglio – dalla cuffia da piscina alle palpebre socchiuse – si carica di un potere immobile e profondo. Feuerman ha vissuto la New York degli anni Settanta e Ottanta con la stessa lucidità con cui ora affronta il presente. Non ha ceduto alla facile ironia dell’iperrealismo americano più cinico, alla Duane Hanson, né alla nevrosi del corpo urbano che affiora nelle vetrate svuotate di Richard Estes. Al contrario, il suo lavoro è una costruzione mitica che rifiuta il tempo lineare e si inscrive in una dimensione atemporale. Le sue donne non sono americane, né contemporanee. Non sono erotiche, né simboliche. Sono lì, inquiete, brillanti, intoccabili. E come tutti gli idoli, esigono distanza. È questa distanza che crea l’effetto perturbante: vorremmo avvicinarci, ma non possiamo; vorremmo toccare, ma ci è negato. Il desiderio che suscitano non è sessuale, ma sacrale. Il titolo della mostra – La voce del corpo – tradisce questo scarto: il corpo, infatti, non ha una voce. O meglio: non parla nel senso linguistico del termine. Ma la sua presenza è tale da costringerci a un ascolto più profondo. Il corpo è qui ciò che precede il linguaggio, ciò che lo fonda. Non è un soggetto che si esprime, ma un oggetto che si impone. È figura e superficie, apparenza e assenza. E in questo senso, l’acqua – pur invisibile, suggerita solo dalle gocce perfettamente scolpite – si trasforma in elemento concettuale. Le sculture sono bagnate, ma in uno spazio asciutto. Il rumore del liquido è assente, ma la sua aura aleggia ovunque. È l’acqua a creare l’effetto di sospensione, a congelare il tempo in una quiete carica di tensione. In un’epoca che ha sterilizzato la fisicità e digitalizzato l’erotismo, Feuerman restituisce al corpo un potere primitivo. Non quello della sessualità, ma quello della persistenza. Questi corpi non mutano, non si consumano, non invecchiano. Sono eterni, invulnerabili, olimpici. Eppure non c’è trionfo: la loro perfezione non è vittoria, ma condanna. In loro vive una nostalgia della carne viva, una malinconia dell’essere umano. Feuerman scolpisce figure che sembrano voler ricordare qualcosa che abbiamo dimenticato. Qualcosa che riguarda noi, il nostro stesso modo di esistere, di stare nello spazio, di abitare il mondo. Chi attraversa le sale di Palazzo Bonaparte non visita una mostra, ma entra in una macchina della visione. Una macchina che non mostra, ma rivela. Non insegna, ma smaschera. Il corpo, nella sua perfezione mimetica, non è mai stato così irriconoscibile. E forse è proprio questa la vera voce che l’artista ci costringe ad ascoltare: quella di un corpo che non può più essere contenuto né definito, che sfugge alle categorie del genere, dell’età, del tempo, della funzione, per imporsi come pura immagine. Non riproduzione della realtà, ma icona che eccede, che abbaglia, che disarma. Carole A. Feuerman non plasma statue: impone idoli. Non racconta storie: costruisce presenze. Non ci chiede di capire: ci costringe a ricordare. A ricordare un corpo che forse non è mai esistito, ma che da sempre ci abita.
Ad aprire la stagione, dal 3 al 12 ottobre 2025, sarà Don Giovanni di Mozart nell’allestimento di Damiano Michieletto, con scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin, che arriva dal Teatro La Fenice di Venezia. Sul podio Constantin Trinks che dirige un cast internazionale. L’opera, fulcro della trilogia mozartiana con Da Ponte, si muove tra leggerezza e abisso, tra commedia e dannazione. Michieletto ne esplora la dimensione psicologica e sociale con uno sguardo contemporaneo, che accosta al cinismo del protagonista la fragilità delle relazioni e delle identità.
Segue, dal 14 al 23 novembre, Cavalleria rusticana di Mascagni, in un allestimento in coproduzione con il Maggio Musicale Fiorentino, firmato da Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi con scene di Federica Parolini. Davide Massiglia sul podio. La regia, intensa e teatrale, sottolinea la ritualità del dramma verista, dove il contrasto tra le ragioni del sentimento e la ferocia del contesto sociale diventano elemento scenico. In musica, Mascagni innesta sui moduli operistici tradizionali una scrittura orchestrale modernissima per tensione e colore, restituendo al canto un’espressività radicale.
Il balletto torna protagonista a dicembre con Coppélia di Delibes, dal 19 al 21. La storica coreografia di Amedeo Amodio, su scene originali di Emanuele Luzzati e costumi di Luisa Spinatelli, rinnova un titolo classico con vitalità narrativa. La partitura di Delibes, trasparente e melodica, sostiene la leggerezza ironica del racconto e accoglie nuove contaminazioni sonore, in un clima onirico e festoso che trasforma il meccanismo in danza. Sul podio Paolo Paroni, mentre in scena ci saranno le stelle e il corpo di ballo della Daniele Cipriani Entertainment.
Dal 15 al 23 gennaio 2026 va in scena Il trovatore di Verdi, capolavoro del repertorio romantico italiano. Giampaolo Bisanti dirige un cast vocale di grande rilievo in un allestimento del Carlo Felice firmato da Marina Bianchi con scene e costumi di Sofia Tasmagambetova e Pavel Dragunov. Dramma popolare e metafisico, dominato dal fuoco, Il trovatore è costruito come un racconto epico: duelli, notti stregate, vendette, bambini rapiti; ma Verdi lo imposta come un’opera interiore, affidando alla voce e al colore orchestrale il compito di mettere in scena i drammi assoluti dell’umanità.
Febbraio è il mese di Tristan und Isolde, in scena dal 13 al 22 con un nuovo allestimento del Teatro Carlo Felice diretto da Donato Renzetti. La regia di Laurence Dale con le scene e i costumi di Gary McCann, affrontano il dramma wagneriano per eccellenza: l’amore che si fa destino, il tempo che si spezza, la notte che vince sul giorno. La musica – di inarrivabile continuità senza fine – scioglie ogni legame con la tradizione per aprirsi al flusso continuo.
Dal 13 al 18 marzo, Il campiello di Wolf-Ferrari in una produzione della Fondazione Arena di Verona con la regia di Federico Bertolani e la direzione di Francesco Ommassini per riscopre una commedia musicale raffinata, che fonde la Venezia settecentesca di Goldoni con una scrittura novecentesca vivace e coloratissima. L’arguzia del libretto si sposa a una partitura luminosa, teatrale, piena di motivi popolari che omaggia la tradizione della commedia dell’arte.
In aprile, dal 10 al 19, debutta a Genova Il nome della rosa nuova opera di Francesco Filidei, tratta dal romanzo di Umberto Eco che ha avuto la prima assoluta a Milano, con grande successo, alcune settimane fa. La commissione e l’allestimento sono frutto di una coproduzione con il Teatro alla Scala e l’Opéra di Parigi; Damiano Michieletto firma regia, con scene di Paolo Fantini, costumi di Carla Teti e drammaturgia di Mattia Palma; sul podio uno specialista della musica contemporanea come Tito Ceccherini. Filidei per la musica e Michieletto per quanto riguarda lo spettacolo costruiscono un racconto denso, fatto di silenzi, fughe, invocazioni, in cui l’enigma e l’eresia diventano temi sonori e visivi di un’opera che si interroga il senso della verità e della conoscenza.
A maggio, dal 15 al 24, va in scena Macbeth di Verdi in un nuovo allestimento coprodotto con un gruppo di teatri che comprende anche quelli di Pisa, Reggio Emilia e Ferrara. La regia di Fabio Ceresa lavora sul tema dell’ambizione e dell’ossessione, con la direzione musicale di Sesto Quatrini. La scrittura verdiana, ricca di sperimentazioni, cerca nel ritmo e nel timbro l’espressione del potere e del suo rovescio. Il coro diventa presenza collettiva, mentre la voce di Lady Macbeth – antieroina senza pace – traccia una linea nuova per la vocalità e il teatro ottocentesco.
Infine, dal 16 al 21 giugno, La bohème di Puccini conclude la stagione con una produzione che coinvolge i giovani cantanti dell’Accademia di alto perfezionamento e inserimento professionale del Carlo Felice. Sul podio Donato Renzetti, la regia è di Augusto Fornari con scene e costumi di Francesco Musante. Ambientata in una Parigi che pulsa di sogni e di miseria, l’opera racconta la fragilità della giovinezza con la chiarezza narrativa e musicale che ha fatto di Puccini il più grande operista italiano del suo tempo. Una chiusura affidata a chi, domani, sarà chiamato a tenere viva la fiamma dell’opera. In allegato tutti i cast e gli appuntamenti della stagione genovese
Dopo il grande successo di pubblico ottenuto la scorsa estate con la messa in scena de Il barbiere di Siviglia, lunedì 7 luglio alle ore 21 la Cavea del Maggio – il teatro sotto le stelle sul tetto del Teatro – torna ad aprirsi con una delle più amate opere del melodramma italiano, “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, proposto in un nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento. Da questa occasione il primo settore della Cavea sarà dotato di sedute più confortevoli. Altre tre le recite in cartellone, tutte alle ore 21: il 9, l’11 e il 14 luglio 2025.
Sul podio, alla guida dell’Orchestra e del Coro del Maggio, il maestro Alessandro Bonato; la regia del nuovo allestimento è firmata da Roberto Catalano, al suo debutto al Teatro del Maggio. Il maestro del Coro è Lorenzo Fratini. Le scene sono di Emanuele Sinisi, i costumi di Ilaria Ariemme e le luci sono firmate da Oscar Frosio. Il cast vocale è formato da Lavinia Bini nella parte di Adina; Nemorino è interpretato Antonio Mandrillo; Hae Kang veste i panni di Belcore; Roberto De Candia è Dulcamara e Aloisia de Nardis interpreta Giannetta.
Siracusa, Teatro Greco
ILIADE
Debutta in anteprima mondiale al Teatro Greco di Siracusa Iliade, la nuova creazione originale di Giuliano Peparini, che conclude la 60ª Stagione di rappresentazioni classiche dell’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico. Lo spettacolo, in scena dal 4 al 6 luglio, rappresenta un’interpretazione inedita e fortemente simbolica del poema omerico, proposta attraverso un linguaggio scenico che fonde teatro, danza, musica, circo e poesia. Peparini, regista e coreografo di fama internazionale, torna per la terza volta a dirigere uno spettacolo a Siracusa dopo Ulisse, l’ultima Odissea e Horai. Le 4 stagioni. Con Iliade, egli propone una riscrittura radicale della vicenda epica, ambientandola in un carcere di massima sicurezza, metafora contemporanea della città assediata. In questo contesto claustrofobico e violento, le dinamiche fra i personaggi – Achille, Ettore, Agamennone, Priamo – diventano allegoria delle tensioni che animano le relazioni tra clan rivali e sistemi di potere chiusi, regolati da codici d’onore non scritti. Il parallelismo tra il mondo epico e l’universo carcerario è al centro della riflessione drammaturgica di Peparini, che individua nella guerra narrata da Omero non solo un confronto tra eserciti ma una struttura psicologica e sociale fondata su onore, vendetta, gerarchia, violenza e rassegnazione. “Come Troia, una prigione è un luogo chiuso in cui i gruppi rivali si fronteggiano in un conflitto continuo – spiega il regista –. Le regole del carcere, spesso implicite, si rifanno a dinamiche simili a quelle che governano i rapporti tra i protagonisti dell’Iliade: rispetto, vendetta, comando, perdita”. I versi del poema sono proposti in una nuova traduzione a cura di Francesco Morosi, mentre le musiche originali sono firmate dal celebre direttore e compositore Beppe Vessicchio. La messinscena vede la partecipazione dell’attore Vinicio Marchioni, tra i più noti del panorama italiano, che debutta al Teatro Greco nel ruolo dell’Aedo, figura di narratore e coscienza. Accanto a lui, Giuseppe Sartori è Achille, Gianluca Merolli è Ettore, Danilo Nigrelli interpreta Priamo, Giulia Fiume è Teti, Jacopo Sarotti l’ombra di Patroclo, ed Elena Polic Greco dà voce alla dea Era. Il cast è composto anche da un ampio gruppo di performer, tra cui Matteo Aprile, Gabriele Beddoni, Jhonmirco Cruz, Simone Galante, Daniel Lovera Bautista, Matthew Magadia, Tiwuany Lepetitgalland, Andrea Raqa, Giuseppe Savino, Andrea Tenerini e Massimo Triarico. Gli attori Andrea Bassoli, William Caruso, Sebastiano Caruso, Manuel Fichera, Elvio La Pira, Emilio Lumastro, Roberto Marra e Sebastiano Tinè affiancano gli allievi della Peparini Academy e dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico (ADDA), in un processo creativo corale e intergenerazionale che lo stesso Peparini ha definito “ricco di sinergie ed emozione condivisa”. Le scene sono ideate da Lorenzo Russo Rainaldi, i costumi sono di Valentina Davoli. Le coreografie sono curate da Gabriele Beddoni, mentre la scena del combattimento è firmata da Tiwuany Lepetitgalland. Elena Polic Greco dirige il coro, Simonetta Cartia coordina i cori cantati. Assistenti alla regia sono Bruno Centola e Francesco Saracino; il disegno luci è di Francesco Angeloni, il videomaker è Vincenzo Villani. L’assistente costumista è Silvia Oliviero, mentre la consulenza drammaturgica è affidata ad Aurora Trovatello. Coordinatore degli artisti è Christophe Allemann; i direttori di scena sono Dario Castro, Giuseppe Coniglio ed Eleonora Sabatini. La produzione è una coproduzione tra INDA e il Parco archeologico di Siracusa, Eloro, Villa del Tellaro e Akrai. Le prove e parte della preparazione si sono svolte, grazie alla collaborazione con il territorio, presso l’area del Distaccamento Aeronautico di Siracusa, che ha messo a disposizione i propri spazi per favorire il lavoro creativo della compagnia. Con Iliade, Peparini propone uno spettacolo dal forte impatto visivo ed emotivo, che restituisce la densità simbolica del poema antico attraverso una messinscena attuale, potente e radicata nel presente. Il regista insiste sull’attualità della materia omerica, affermando che le dinamiche umane, dalla collera alla vendetta, dalla necessità di affermazione all’annientamento dell’altro, restano costanti tra l’antichità e il XXI secolo. “La collera di Achille – sottolinea – è una crisi dell’ordine stabilito. È il motore che smaschera l’ipocrisia di ogni potere”. La 60ª Stagione di spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa si avvale del sostegno di Eni Spa, Banca Agricola Popolare di Sicilia, Enel e Fondazione Angelini. Un ringraziamento speciale va a Urban Vision, Aeroporti di Roma, a numerose aziende e ai tanti cittadini che, in qualità di mecenati e donatori, hanno sostenuto il lavoro dell’INDA anche in questa edizione, confermando il ruolo centrale della cultura come investimento civile e collettivo. Qui per tutte le informazioni.
Deutsche Oper Berlin, Season 2024/25
“PIKOVAJA DAMA”” (The Queen of spades)
Opera in three acts, Libretto by Modest Tchaikovsky
Music by Pyotr I. Tchaikovsky
Herman IVAN GYNGAZOV
Lisa MARIA MOTOLYGINA
Countess JENNIFER LARMORE
Count Tomsky LUCIO GALLO
Prince Yeletsky DEAN MURPHY
Polina MARTINA BARONI
Chekalinsky CHANCE JONAS-O’TOOLE
Surin PADRAIC ROWAN
Chaplitsky ANDREW DICKINSON
Narumov MICHAEL BACHTADZE
Governess NICOLE PICCOLOMINI
Masha ARIANNA MANGANELLO
Master of Ceremonies JÖRG SCHÖRNER
Chor & Orchester der Deutschen Oper Berlin
Kinderchor der Deutschen Oper Berlin
Opernballett der Deutschen Oper Berlin
Conductor Juraj Valčuha
Chorus master Jeremy Bines
Children’s Chorus Christian Lindhorst
Choreographer Ron Howell
Director Sam Brown
Set design, costume design Stuart Nunn
Light Linus Fellbom
Video design Martin Eidenberger
Berlin, 29th June 2025
I was lucky enough to see a performance of Pikovaya dama by Piotr I. Tchaikovsky at the Mariinsky Theatre forty years ago, at a time when the opera house was still officially called Kirov Theatre in what was then Leningrad, now Saint Petersburg, Russia. It was of course traditional in the best sense of the word – I remember the first scene very well, for which the famous Summer Garden had been almost faithfully recreated, just a dream of good old Russia – and so different from the production by Sam Brown at the Deutsche Oper Berlin, which I attended on 29 June. Originally planned for the 2020/2021 season, it was cancelled due to the restrictions imposed by the coronavirus pandemic. The principles were still laid down by Sir Graham Vick, who tragically died in July 2021 as a result of the disease. Sam Brown, a friend of Vick’s, was eventually commissioned to complete the production started by the deceased, which premiered on 9 March 2024. According to the cast list, I saw the ninth performance and was generally impressed by how coherent the production is overall. I wasn’t expecting good old St Petersburg on stage, of course, but I wasn’t disappointed to recognise it in Stuart Nunn’s set design: the Summer garden with its large iron fence and gates, the Neva Canal cleverly closed off by a staircase in the background, revealed when a sloping wall from the previous barracks scene was simply reversed, and from above by a concave wall to suggest a bridge arch, in short: simple theatrical tricks to great effect! The barracks wall with a map of the city, surrounded by various photos of Lisa, makes one think that Herman is stalking her. Nunn was less fortunate with the costumes: they look like a mix of styles from different eras, from the Countess’s rococo dress to the fashionable handbags and sunglasses of the strollers in the Summer garden, from the rather authentic uniforms of Tomsky, Yeletski and the other officers to Herman’s mouse-grey soldier’s outfit. At least the Countess is later allowed to wear a black silk coat in order to slip into Lisa’s magnificent light blue ball gown as a ghost, which emphasises Herman’s madness when both women appear to him to reveal the three cards. Nowadays, no opera production seems to be able to do without video projections, here by Martin Eidenberger. Director Brown chose a Russian silent film based on Pushkin’s story Pikovaya dama from 1916, just one year before the October Revolution heralded the abrupt end of the Tsarist country. Stills from the film are shown on the curtain screen before the start of the first and second parts. Film footage illustrates Tomsky’s ballad Tri karty and, above all, the bedroom scene in which the more than healthy countess in her mid-sixties receives Herman with explicit erotic advances, while a vintage projector throws corresponding parts of the film onto the background. One can find such effects disturbing because they distract from the music and the stage action. Perhaps they also fill the gap that arises between the desire to tell the story for a modern audience and a largely conservative characterisation. Brown stages the actual story well. Right at the beginning, he shows that Herman and Lisa’s fate is predetermined and has them both appear as children: Herman as an outsider who is maltreated by patriotic peers and Lisa as a saviour who delights him with toys. It is charming that the countess is not a doomed old woman and appears for Herman as a lover in Lisa’s dress. The travesty ballet of the last scene choreographed by Vick’s husband Ron Howell is probably due to the original planning and dispensable; however indispensable is the shepherd’s play in the ball scene, which the director has completely cancelled, which disrupts the musical structure of the act and the dramaturgy of the play, as Herman could symbolically recognise in the pastorale that he can prevail against wealth with true love. The usual interval after the second act, which leaves the audience pensive after the Countess’s death scene, is brought forward so that the scene is moved to the second part. It’s a great idea that Lisa and Herman remain separated by the river in the Neva scene; after all, Herman’s gambling addiction means that they no longer have much in common. Why Lisa ends up on the gambling table after jumping into the river remains a mystery, as does Herman’s attempt to assassinate the Countess as Catherine the Great at the end of the ball. Musically, hardly anything is left to be desired, which is primarily due to the two main protagonists, young native-speaking singers with Russian voices, big enough to hold their own effortlessly in the now customary orchestra pit-stage competition: Ivan Gyngazov sings Herman in the best tradition of Surab Andshaparidse or Vladimir Atlantov. Ensemble member Maria Motolygina had stepped in for Sondra Radvanovsky as Lisa in the premiere run a year ago and repeated the success all the more brilliantly. She sings as if there is no tomorrow and puts even Galina P. Vishnevskaya, who I hold in high esteem and who cleverly knew that the role tends towards the highly dramatic, into perspective. A few months ago I still regretted Motolygina’s cancellation of Vier letzte Lieder, but now I am looking forward to the big roles she is announced for next season (Elisabetta, Maddalena). Conductor Juraj Valčuha places the work perfectly between the two great Richards and lets Tchaikovsky’s score both roar and shimmer silvery-grey like the Neva, with the Orchester der Deutschen Oper Berlin firmly in control. The same applies to the excellently singing Chor and Kinderchor der Deutschen Oper Berlin, rehearsed by Jeremy Bines and Christian Lindhorst. Non-native-speaking singers, on the other hand, have a harder time, especially Jennifer Larmore’s Countess, who has been enhanced by the direction. The former rival to Cecilia Bartoli in the Rossini repertoire has now ventured as far as Kostelnicka. She sings the role flawlessly, albeit without demonisation, and comes across more as Norma Desmond in Sunset Boulevard than as an aristocratic noblewoman. The virile and still vocally potent Lucio Gallo as Tomsky comes off better and gives the Tri karty dramaturgically appropriate weight, as he does in the insinuating couplet Esli b’ milye devitsy in the last scene. Another promising ensemble member, baritone Dean Murphy, sings Yeletski beautifully, especially the famous Ja vas lyublyu, but unlike the commanding native speakers, he shows how indispensable surtitles can be. The other officers are also well cast with Chance Jonas-O’Toole’s Chekalinsky and Padraic Rowan’s Surin. Martina Baroni as Polina proved that great Russian mezzos are always in a class of their own in this role and Nicole Piccolomini contributed far sterner tones for the Governess in keeping with the role. Unlike a number of other recent productions at the Deutsche Oper such as Arabella, Macbeth, Die Frau ohne Schatten, this one does not hurt because it is not directed against the play, the singers or the audience, the story is understandable apart from a few minor liberties.
Roma, Museo Nazionale Romano
Palazzo Altemps
L’altana di Palazzo Altemps: emblema araldico, architettura simbolica, restauro d’eccellenza
Roma, 02 luglio 2025
Tra le emergenze architettoniche meno note ma più dense di significato del Rinascimento romano, l’altana di Palazzo Altemps si distingue come un episodio raro e raffinato di architettura elevata al rango di segno identitario. Edificata tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, essa rappresenta non soltanto un’apertura fisica verso la città, ma un vero e proprio balcone del potere, pensato per essere visto e per vedere, in una scenografia urbana carica di valenze simboliche. L’altana si erge al sommo del palazzo che, acquisito nel 1568 dal cardinale Marco Sittico Altemps, fu trasformato in una sontuosa residenza gentilizia destinata all’ostentazione colta del collezionismo antiquario. In tale contesto, l’altana — progettata da Martino Longhi il Vecchio e portata a termine dal figlio Onorio Longhi — assurge a elemento culminante di una grammatica architettonica che intreccia araldica, teologia del potere e spettacolarità urbana. Elemento distintivo della torre-belvedere è la scultura sommitale del caprone rampante, emblema parlante della famiglia Altemps, che campeggia in posizione dominante, affermando visivamente un’identità nobiliare e spirituale che si proietta nel paesaggio della città. La funzione dell’altana non era in alcun modo utilitaria: essa rappresentava un dispositivo visivo e ideologico, una struttura concepita per affermare la presenza del casato in modo verticale, nobilmente superfluo, in dialogo con le altre emergenze simboliche del potere ecclesiastico e principesco romano. Nel quadro del grande progetto “URBS – dalla città alla campagna romana”, è stato recentemente completato un importante intervento di restauro e valorizzazione dell’Altana, finalizzato non solo alla conservazione dell’apparato decorativo, ma alla restituzione della leggibilità architettonica e simbolica dello spazio. L’intervento ha riguardato tanto le superfici interne quanto quelle esterne, includendo dipinti murali, stucchi, intonaci e opere lapidee, con l’obiettivo di riportare alla luce l’aspetto originario della struttura. Il restauro della superficie interna dell’altana ha permesso di riscoprire un sorprendente cielo dipinto d’azzurro, popolato da uccelli in volo, secondo la concezione naturalistica e illusionistica dell’epoca tardo-manierista. Questo dispositivo pittorico, fortemente evocativo, stabilisce un dialogo sottile tra interno ed esterno, tra l’artificio della pittura e la verità del cielo romano, in linea con le poetiche dell’apertura e della dissoluzione spaziale tipiche della cultura visuale cinquecentesca. Il progetto ha preso le mosse da un primo consolidamento eseguito negli anni Ottanta, subito dopo l’acquisizione del palazzo da parte della Soprintendenza, ma ha affrontato oggi una fase nuova e più profonda, dettata dalla necessità di intervenire su superfici fortemente degradate, caratterizzate da estesi fenomeni di lacunosità e da un effetto ruderizzato che comprometteva la leggibilità formale dell’insieme. Per questo motivo si è scelto di non limitarsi alla mera conservazione, ma di procedere a una restituzione calibrata delle principali linee architettoniche, senza tuttavia indulgere a reintegrazioni mimetiche delle decorazioni plastiche più complesse. La metodologia adottata ha previsto il consolidamento dello stucco originale, restituendogli adesione al supporto e coesione materica. Dopo una meticolosa micro-stuccatura, si è proceduto alla ricostruzione delle cornici lineari tramite arricci multipli e finiture a base di calce e polvere di travertino, modellati con appositi modini su supporti in vetroresina. Particolare attenzione è stata dedicata anche al restauro pittorico, estremamente compromesso, condotto secondo criteri di selettiva reintegrazione cromatica. Le operazioni si sono estese anche alle superfici esterne dell’altana, esposte a nord e ovest, dove si è intervenuti su stucchi e intonaci con tecniche tradizionali compatibili, e alla balaustra in travertino, oggetto anch’essa di interventi conservativi mirati. L’obiettivo finale — pienamente conseguito — è stato quello di restituire l’altana alla sua integrità percettiva, restituendo allo sguardo del visitatore l’originaria tensione tra verticalità e trasparenza, tra massa architettonica e leggerezza celeste. In tal senso, l’altana recupera non solo il suo ruolo decorativo, ma la sua funzione narrativa, quale camera visiva incastonata nella fabbrica del palazzo, capace di suggerire, ancora oggi, un’idea di “veduta” non tanto panoramica quanto mentale e simbolica. Questo intervento si configura non soltanto come un’operazione di restauro, ma come un esercizio di fedeltà critica al senso originario del monumento: un modo per ascoltare la voce della storia senza tradirne la materia, per restituire continuità a ciò che il tempo aveva sospeso. L’altana di Palazzo Altemps — la più antica sopravvissuta a Roma, elegante nel suo slancio e discreta nella sua presenza — riacquista così la funzione di punto liminare, sospeso tra la gravità della pietra e la leggerezza del cielo, tra la Roma tangibile dei palazzi e quella immaginata nelle vedute e nei racconti. Il progetto, reso possibile grazie a un investimento straordinario previsto dal Piano Nazionale Complementare al PNRR, si deve alla visione dell’ex direttore Stéphane Verger, il cui impulso scientifico ha saputo coniugare rigore conservativo e ambizione culturale. Il risultato non è soltanto la restituzione materiale di un elemento architettonico, ma il riposizionamento simbolico di un luogo che torna a parlare: non come testimonianza muta, ma come parte viva del racconto urbano, capace di collegare la verticalità del cielo con le profondità storiche della città.
Tre anniversari in un unico grande spettacolo in scena a Verona dal 4 luglio, a 150 anni dalla prima assoluta dell’opera e dalla scomparsa del suo autore Bizet. E a 30 anni dal debutto areniano del maestro Franco Zeffirelli. Una messinscena ‘colossal’ per numero di personale artistico e tecnico coinvolto che, anche quest’anno, vede una parata di stelle nel cast diretto da Francesco Ivan Ciampa. Protagonista della prima Aigul Akhmetshina con Roberto Alagna, Aleksandra Kurzak, Erwin Schrott. Tornano anche le storiche coreografie spagnole del Camborio, con il Ballo areniano e la Compañia Antonio Gades. Un capolavoro che ha cambiato la storia della musica, dell’opera e, nel tempo, della società. Il 3 marzo 1875 debuttò alla presenza del mondo musicale parigino ma senza il pubblico abituale dell’Opéra Comique, allertato del “forte soggetto” da una campagna negativa dello stesso impresario. Georges Bizet (1837-1875) non visse abbastanza a lungo per vederne il successo: morì, tre mesi dopo, neanche trentottenne, e la consacrazione partì da Vienna, lo stesso anno, con le scene originariamente parlate messe in musica come recitativi dall’amico Ernest Guiraud, quindi in tutto il mondo. Carmen arrivò in Italia e, nel 1914, fu il primo titolo ad essere rappresentato in Arena dopo il successo della prima Aida: protagonista allora Maria Gay, compagna del fondatore Giovanni Zenatello. È tuttora la seconda opera più ricorrente in Anfiteatro dopo il capolavoro verdiano: il 14 agosto 2025 è prevista la recita numero 300 da quella prima Carmen.
Repliche il 12, 18, 26 luglio alle 21.15, il 14, 23, 29 agosto e il 3 settembre ore 21. I biglietti per tutte le date sono già in vendita su arena.it, sui canali social dell’Arena di Verona e su Ticketone.
Bené Romì. La memoria del Ghetto di Roma tra topografia perduta e identità ricostruita
Presentato al Museo Ebraico di Roma un progetto immersivo che restituisce, attraverso la realtà aumentata, la complessità storica, urbana e simbolica dell’antico Ghetto ebraico romano
Roma, 02 luglio 2025
Presso il Museo Ebraico di Roma è stato presentato il progetto Bené Romì – Figli di Roma, un’esperienza immersiva che intreccia ricerca storica e tecnologia digitale per riportare alla luce la geografia perduta dell’antico Ghetto ebraico, istituito nel 1555 nel cuore della città. L’iniziativa, frutto della collaborazione tra la Comunità Ebraica di Roma, Gsnet Italia e Sagitek, si fonda sull’uso della realtà aumentata e virtuale per ricostruire in modo dinamico e partecipato il tessuto urbano, sociale e culturale di un quartiere scomparso, ma ancora inscritto nella memoria della città. Il titolo stesso del progetto, Bené Romì, che in ebraico significa “Figli di Roma”, non è un semplice artificio retorico, ma un’affermazione identitaria densa di stratificazioni. Designa una comunità che affonda le proprie radici ben prima della fondazione dell’Impero, e che nel corso dei secoli ha conservato una specificità culturale, liturgica e linguistica pur nelle condizioni più ostili. L’ebraismo romano non è dunque una minoranza recente o assimilata, ma una componente costitutiva della città, che ha vissuto e continua a vivere in una tensione costante tra visibilità e marginalizzazione, appartenenza e esclusione. Cuore pulsante del progetto è la restituzione digitale della topografia del Ghetto, oggi quasi completamente obliterata dalla trasformazione urbanistica post-unitaria. Grazie a dispositivi mobili e visori geolocalizzati, i visitatori sono accompagnati in un percorso tridimensionale che sovrappone la mappa seicentesca del quartiere a quella contemporanea del Rione Sant’Angelo. Le strade strette, le abitazioni addossate le une alle altre, le botteghe, le sinagoghe e i cortili vengono evocati in tempo reale lungo il tragitto fisico, generando un’intersezione tra realtà e ricostruzione capace di far affiorare i fantasmi della città invisibile. L’intervento immersivo si sviluppa secondo una logica narrativa che non si limita alla restituzione architettonica. Ogni punto del percorso è animato da suoni ambientali, fonti d’archivio e descrizioni letterarie che restituiscono il vissuto quotidiano degli abitanti. Si entra così non solo in uno spazio, ma in un tempo: il tempo della segregazione imposta dalla bolla Cum nimis absurdum, delle chiusure serali dei cancelli, della promiscuità forzata, ma anche della vitalità associativa, delle confraternite caritatevoli, della produzione culturale e artigianale. Il Ghetto, come emerge chiaramente dal progetto, non fu semplicemente un luogo di costrizione, ma un contesto complesso e contraddittorio, dove convivevano oppressione e resistenza, povertà e creatività, umiliazione e orgoglio. Lì si costruì una forma peculiare di socialità che, sebbene determinata da condizioni esterne ostili, sviluppò strutture interne di solidarietà, educazione e culto capaci di mantenere viva l’identità collettiva. Le cinque sinagoghe storiche, riunite nell’Ottocento nella cosiddetta “Cinque Scole”, rappresentavano non solo luoghi di preghiera, ma nuclei simbolici della coesione comunitaria. L’operazione condotta da Bené Romì non si limita dunque a un esercizio di archeologia virtuale, ma si propone come una vera e propria esplorazione critica della memoria urbana. Nell’evocare il Ghetto non si cerca di ricostruire una visione nostalgica o puramente documentaria, bensì di restituire profondità storica a uno spazio oggi assente, che tuttavia ha lasciato impronte durature nella configurazione sociale e culturale di Roma. Il quartiere che oggi ospita ristoranti kasher, librerie specializzate e itinerari turistici dedicati, affonda le sue radici in secoli di esclusione, di resilienza e di elaborazione identitaria. La scelta di impiegare la realtà aumentata come strumento di narrazione non è neutrale. Essa consente di integrare il sapere storico con la percezione diretta, attivando una forma di conoscenza che non passa solo attraverso l’intelletto, ma coinvolge il corpo, lo spazio, l’emotività. Camminare nel Ghetto ricostruito significa letteralmente abitare una soglia: tra visibile e invisibile, tra passato e presente, tra memoria e oblio. In tal senso, l’esperienza si configura come un atto di giustizia cognitiva, che riporta alla luce non solo un quartiere demolito, ma una costellazione di esistenze, di biografie, di tracce che ancora abitano i silenzi delle pietre. Il progetto si inserisce, inoltre, in un più ampio dibattito sul ruolo dei musei nella società contemporanea. Il Museo Ebraico di Roma, già da anni impegnato in percorsi educativi e divulgativi che superano la mera esposizione oggettuale, si conferma come spazio attivo di produzione di memoria, capace di integrare ricerca scientifica e strumenti narrativi contemporanei. Non si tratta solo di conservare un passato, ma di renderlo fruibile e interrogabile, di trasformarlo in linguaggio capace di parlare al presente. A partire dalla sua attivazione, Bené Romì sarà fruibile all’interno del percorso museale, ma sono previste anche versioni itineranti destinate a scuole, festival culturali e istituzioni internazionali. Il progetto non si limita dunque a un’operazione locale, ma ambisce a proporsi come modello replicabile per altri contesti urbani dove la storia è stata cancellata, distorta o rimossa. Attraverso la reinvenzione critica dello spazio e l’attivazione sensoriale della memoria, Bené Romì ci ricorda che ogni città è fatta di strati, di sedimentazioni spesso invisibili, che solo uno sguardo consapevole può far riemergere. E che nella mappa interiore di Roma, il Ghetto non è un’assenza, ma una presenza silenziosa, finalmente restituita alla sua complessità.
Roma, Caracalla Festival 2025
Basilica di Massenzio
LA RESURREZIONE
Oratorio in due parti
Musica di Georg Friedrich Händel
Direttore George Petrou
Regia Ilaria Lanzino
Scene Dirk Becker
Costumi Annette Braun
Luci Marco Filibeck
Personaggi e interpreti:
Angelo SARA BLANCH
Maddalena ANA MARIA LABIN
Cleofe TERESA IERVOLINO
San Giovanni CHARLES WORKMAN
Lucifero GIORGIO CAODURO
ORCHESTRA NAZIONALE BAROCCA DEI CONSERVATORI
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 01 luglio 2025
L’apertura del Caracalla Festival 2025 con La Resurrezione di Georg Friedrich Händel, proposta dal Teatro dell’Opera di Roma nella solenne cornice della Basilica di Massenzio, ha dato luogo a un’esperienza scenico-musicale di notevole spessore, fondata su un equilibrio intelligente tra aderenza filologica e visione drammaturgica contemporanea. Composto nel 1708 per la corte del marchese Ruspoli e destinato alla fruizione privata, l’oratorio pasquale di Händel rappresenta una delle massime espressioni della retorica musicale del primo Settecento: una partitura densa, fondata sulla dialettica tra redenzione e dubbio, morte e trasfigurazione, articolata in una successione di recitativi e arie affidati a figure emblematiche – l’Angelo, Lucifero, San Giovanni, le due Marie – prive di sviluppo psicologico ma cariche di funzione allegorica. Alla guida dell’ Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori, il maestro George Petrou ha offerto una lettura asciutta, sorvegliata e vibrante, improntata a una prassi esecutiva storicamente informata che ha saputo mantenere salda la tensione drammaturgica. La concertazione si è distinta per equilibrio timbrico, accuratezza agogica e intelligenza affettiva: l’orchestra ha restituito le articolazioni armoniche e la varietà dei registri espressivi con trasparenza e coesione, senza cadere né nell’accademismo né nell’enfasi. I recitativi accompagnati sono stati trattati con cura teatrale, divenendo spazi discorsivi pregnanti, mentre le arie da capo hanno mostrato una gestione raffinata delle ornamentazioni e delle dinamiche, sempre coerenti con il carattere retorico delle sezioni. Il cast vocale si è dimostrato omogeneo e tecnicamente solido. Sara Blanch, nel ruolo dell’Angelo, ha brillato per precisione d’intonazione, controllo del fiato e smalto timbrico: la sua voce, luminosa e duttilmente agile, ha attraversato le difficoltà del repertorio con eleganza e sobrietà, costruendo un personaggio che non si impone per autorità ma per lucidità spirituale. Ana Maria Labin, nel ruolo di Maria Maddalena, ha optato per una linea più introspettiva, con un fraseggio sempre sorvegliato, capace di dare corpo alla dimensione del dolore senza scivolare nella declamazione patetica. La sua “Ferma l’ali” si è imposta come uno dei momenti più intensi della serata, per rigore formale e profondità affettiva. Teresa Iervolino, nei panni di Maria di Cleofe, ha portato in scena una voce ampia, brunita, di grande compattezza e solidità tecnica. Il suo contributo ha donato al tessuto sonoro un ancoraggio grave, quasi liturgico, perfettamente in sintonia con la funzione contemplativa del personaggio. Il duetto con la Maddalena, costruito su una tensione continua tra fusione e distinzione timbrica, è stato risolto con rara misura e sensibilità. Charles Workman, nel ruolo di San Giovanni, ha offerto una prova stilisticamente coerente, fondata su chiarezza prosodica e controllo espressivo, restituendo un evangelista più meditabondo che assertivo, perfettamente in linea con l’estetica della sobrietà perseguita dall’intero impianto musicale. A emergere con grande forza drammatica è stato Giorgio Caoduro nel ruolo di Lucifero: la sua vocalità piena, autorevole e ben proiettata ha saputo coniugare le esigenze della retorica musicale con una drammaturgia interna rigorosa. Il celebre “Col sasso e col ferro” è stato affrontato con controllo tecnico e incisività espressiva, rendendo palpabile il conflitto interno della figura diabolica, oscillante tra superbia e disillusione. La regia di Ilaria Lanzino si configura come un esercizio critico sul linguaggio dell’oratorio, rifuggendo ogni intento illustrativo per interrogare il senso stesso della resurrezione nel contesto di un presente secolarizzato. La scena, concepita da Dirk Becker, è costruita come un paesaggio mentale: non spazio drammatico ma topografia affettiva, costellata di oggetti-sintomo – letti disfatti, culle, crocifissi monumentali – che evocano la frattura, il lutto, la sospensione. La narrazione cede il passo a una sequenza di quadri iconici, frammentari, non consequenziali, in cui il riferimento cinematografico (von Trier, Moretti, van Groeningen, Wang Xiaoshuai) non è mera citazione, ma matrice estetica e teorica. Figure sospese, mai del tutto riconducibili a ruoli o narrazioni, emergono come icone della frattura, emblemi visivi di un trauma che si manifesta non per racconto ma per condensazione simbolica. In questo teatro dell’interrogazione, l’azione si dissolve in una costellazione di immagini che abitano il vuoto lasciato dal sacro, dislocandolo in una grammatica del silenzio e dell’assenza. I costumi di Annette Braun, privi di qualsiasi connotazione storica, declinano una grammatica della fragilità: pigiami, vesti cliniche, abiti disfunzionali che spogliano i personaggi di ogni identità drammatica, per restituirli a una ritualità spoglia e archetipica. In questa visione, La Resurrezione non proclama il mistero, lo mette in discussione. La liturgia si scompone e si mostra come enigma, in un teatro che non offre risposte ma suscita domande. Il sacro non è una presenza rassicurante, bensì un vuoto che interroga. Fondamentale, in questa costruzione, il disegno luci di Marco Filibeck: con tagli radenti, forti contrasti e sfumature notturne, la luce scolpisce lo spazio secondo un’alternanza di rivelazione e oscurità, accompagnando la musica in un’atmosfera sospesa e meditativa. L’azione è quasi del tutto assente: il dramma si consuma nel silenzio, nell’attesa, in una tensione che non trova soluzione. La regia non cerca di imporre un significato, ma lascia che sia l’assenza stessa a parlare, trasformando la scena in un luogo di sospensione emotiva e spirituale. La Basilica di Massenzio, da antica rovina a spazio carico di risonanze, non funge da semplice scenografia, ma diventa parte integrante del senso: un’architettura che, con la sua memoria e il suo silenzio, diventa chiave di lettura. In questo contesto, la musica rinuncia a ogni forma di spettacolarità, per farsi pensiero sonoro, riflessione condivisa. Il pubblico, immerso tra voce e pietra, non ha assistito a una rappresentazione, ma ha preso parte a un’esperienza: un atto collettivo in cui l’opera si è fatta presente, viva, interrogativa. E in quella presenza, si è aperta una continuità fragile e inquieta tra eredità e contemporaneità. Photo © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma