La nuova Stagione d’Opera si apre con un titolo duro, scabro, che aggredisce lo spettatore e lo stringe in un nodo di violenza e disperazione. Scritta da Šostakovič nel 1934 e ispirata alla celebre novella di Leskov, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. A cinquant’anni dalla scomparsa del compositore, Riccardo Chailly la porta alla ribalta del 7 dicembre con la regia di Vasily Barkhatov: una proposta che apre in modo insolito e coraggioso una programmazione fatta di grandissimi titoli. Il Maestro Chailly, che conclude alla fine del 2026 il suo mandato come Direttore Musicale ma il cui legame con la Scala inaugurato nel 1978 proseguirà con nuovi progetti oltre l’incarico, si conferma tra i direttori dal repertorio più ricco e denso di curiosità culturale e senso dell’avventura musicale. Evento cardine per la Stagione e appuntamento irrinunciabile del calendario culturale milanese è il doppio ciclo completo del Ring des Nibelungen diretto da Alexander Soddy e Simone Young, già tutto esaurito in abbonamento. Il viaggio attraverso le quattro Giornate, con un cast di grandissime voci, permetterà di cogliere l’insieme del percorso registico immaginato da David McVicar come recupero delle radici mitiche del racconto e summa di esperienze teatrali diverse. Nel mese di aprile ricorre il centenario della prima esecuzione assoluta di Turandot, avvenuta alla Scala con la direzione di Arturo Toscanini: l’opera torna in scena diretta da Nicola Luisotti nell’allestimento pensato da Davide Livermore nel 2024 per il centenario della morte del compositore. Un debutto particolarmente atteso è quello di Romeo Castellucci, uno dei maggiori registi europei, che approda alla Scala con Pelléas et Mélisande di Debussy, opera particolarmente adatta alla sua concezione di teatro simbolico e visionario. Dirige Maxime Pascal, brillante protagonista della nuova generazione della direzione d’orchestra francese al suo terzo titolo scaligero. È alla sua prima volta alla Scala anche Alessandro Talevi, cui è stata affidata la responsabilità di una nuova produzione di Nabucodonosor con il Direttore Musicale Riccardo Chailly sul podio e Anna Netrebko e Luca Salsi nel cast. Myung-Whun Chung torna per la prima volta nella buca scaligera dopo l’annuncio della sua nomina a successore di Chailly come Direttore Musicale con Carmen, un titolo che non ha mai diretto alla Scala e che verrà presentato nel nuovo allestimento di Damiano Michieletto. È francese anche l’ultima nuova produzione della Stagione, Faust di Gounod con il debutto del regista Johannes Erath, la coppia formata da Marina Rebeka e Vittorio Grigolo in palcoscenico e il ritorno in buca dopo dodici anni di uno dei direttori italiani più apprezzati nel mondo, Daniele Rustioni. Le riprese sono invece tutte dedicate a grandi titoli del melodramma italiano: oltre a Turandot, Lucia di Lammermoor diretta da Speranza Scappucci con Rosa Feola protagonista nell’elegante spettacolo di Yannis Kokkos e la storica Traviata firmata da Liliana Cavani con Nadine Sierra diretta da Michele Gamba. Completa la Stagione la nuova produzione dell’Elisir d’amore per il Progetto Accademia, con altri due importanti debutti, quello del quarantenne Marco Alibrando sul podio e di Maria Mauti alla regia.
La prima Stagione di Balletto disegnata dal nuovo Direttore del Ballo Frédéric Olivieri brilla di novità per la Scala: accanto alle riprese di spettacoli storici come La Bella addormentata (che apre il cartellone) e Don Chisciotte di Nureyev, e Giselle di Yvette Chauviré, il palcoscenico ospita una parata di firme contemporanee e grandi del Novecento. A partire dal nuovissimo trittico che a marzo presenta tre pagine mai viste a Milano: il ritorno di Wayne McGregor, che con Olivieri ha una lunga consuetudine, con Chroma del 2006, uno dei suoi pezzi più rappresentativi; Dov’è la luna di Jean-Christophe Maillot, più riflessivo e intimistico; il dirompente Minus 16 con cui Ohad Naharin porta per la prima volta alla Scala il suo stile assolutamente unico e riconoscibile. Christopher Wheeldon aveva presentato un suo lavoro al Teatro degli Arcimboldi anni fa, ma non è mai comparso nella programmazione del Piermarini: per il 2026 Olivieri ha voluto il suo Alice’s Adventures in Wonderland, ormai un classico di grande attrattiva per il pubblico e grande impegno per la Compagnia. Tutta dedicata a Stravinskij la serata che unisce due pietre miliari della danza di tutti i tempi: Apollo di Balanchine e il debutto scaligero della Sagra di Pina Bausch. L’artista tedesca ha legato il suo nome alla Scala solo una volta, nel 1983, con il suo Tanztheater Wuppertal in Kontakthof: questa prima è dunque un momento importante per la Compagnia. Nella programmazione di danza del 2026 torna anche il Gala Fracci, un omaggio alla grande artista milanese che dopo quattro edizioni di successo e numerose richieste raddoppia in due serate. In allegato la stagione in dettaglio
Roma, Teatro Argentina
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
foto Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, (agente del copyright), Londra
per conto della Ingmar Bergman Foundation
Sebbene pensata per il cinema, Sarabanda, ultima opera di Ingmar Bergman, ha una struttura straordinariamente affine al linguaggio teatrale. In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a parlare dei protagonisti di Scene da un matrimonio diventati, trent’anni dopo, più maturi ma anche più spietati. Il loro è un ultimo confronto che, in presenza d’un figlio e di una nipote, evidenzia le molteplici sfumature delle relazioni umane e familiari e la loro capacità di generare rimpianti, rimorsi, rancori. Il mistero dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza e attaccamento morboso, la vecchiaia, l’angoscia degli «ultimi giorni», lo scenario della vita, «troppo grande» per la debolezza umana, sono i temi di questa Sarabanda, danza lenta e severa in cui le coppie si formano e si disfano: dieci scene, dieci dialoghi in cui i personaggi s’incontrano a due a due, per sciogliersi definitivamente nell’esecuzione di padre e figlia della omonima suite bachiana. Un testo scomodo nella sua cruda onestà, ma il cui vero messaggio non è affidato alle parole, ma ai silenzi e ai gesti: alla tenerezza di un abbraccio, di un tenersi per mano, di un denudarsi accettando di rivelare l’uno all’altro la fragilità di corpi segnati dal tempo e dal peso di vivere. Qui per tutte le informazioni.
Roma, OperaCamion
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Dal 25 maggio riparte OperaCamion, il progetto itinerante del Teatro dell’Opera di Roma che trasforma un TIR in un teatro mobile. Non è solo un’iniziativa culturale, ma una vera e propria rivoluzione scenica che porta la lirica nel cuore pulsante della città, tra cortili, piazze e incroci, lì dove raramente si immagina di trovare un baritono o una sinfonia. L’idea è tanto semplice quanto potente: far sbocciare l’opera lirica là dove meno la si aspetta, rendendola accessibile, viva, popolare. Quest’anno, in occasione del Giubileo 2025, il carrozzone colorato porterà Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini nelle periferie della Capitale, in un abbraccio musicale che toccherà tutti e quindici i municipi di Roma. «È come un circo che attraversa la città – racconta la regista Manu Lalli – pieno di musicisti, acrobati e meraviglie. Un palcoscenico che si apre alle persone, come un regalo, portando con sé l’energia e il gioco del teatro popolare, e insieme tutta la bellezza sofisticata della musica di Rossini». Le sue parole rendono con chiarezza il senso profondo di un’operazione che unisce l’incanto dell’opera alla vitalità della strada, mescolando tradizione e innovazione, professionalità altissima e spirito comunitario. Il debutto è previsto il 25 maggio a Spinaceto, ma seguiranno altre otto tappe in rapida successione fino al 22 giugno. Poi, in autunno, una nuova produzione attraverserà i restanti municipi, completando l’ambizioso disegno di rendere l’opera un patrimonio condiviso, gratuito e capillare. L’iniziativa gode del sostegno forte delle istituzioni cittadine. Il Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, sottolinea come OperaCamion rappresenti «un’occasione preziosa di rigenerazione culturale e sociale. Portare la lirica fuori dai teatri significa diffondere la cultura, valorizzare i territori e creare nuovi spazi di incontro». Le piazze, anche quelle meno conosciute, si trasformano così in teatri a cielo aperto, restituendo centralità a luoghi spesso marginalizzati e offrendo un’esperienza artistica autentica, senza barriere. Dello stesso tenore le parole dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, Massimiliano Smeriglio: «Tutta la cittadinanza potrà godere dell’opera nel proprio quartiere, gratuitamente. È un’occasione straordinaria di socialità, bellezza e condivisione. Dopo il successo delle passate edizioni, sosteniamo con convinzione questa nuova avventura che rende la cultura un diritto concreto, non un privilegio». A ribadire l’impegno del Teatro dell’Opera, il Sovrintendente Francesco Giambrone parla di un progetto “inclusivo e coraggioso”, che rompe le convenzioni e abbraccia la città: «Per la prima volta raggiungeremo tutti i quindici municipi, con il coinvolgimento diretto dell’Orchestra del Teatro dell’Opera e dei giovani artisti di Fabbrica, il nostro programma formativo. È un passo avanti notevole, sia nella direzione dell’accessibilità che nella valorizzazione del talento emergente». Già il nome OperaCamion è evocativo: un connubio fra la concretezza del mezzo e la leggerezza dell’arte, fra mobilità urbana e vocazione teatrale. Quando il container si apre, si rivela un piccolo miracolo scenico: luci, costumi, orchestra, cantanti. Un teatro in miniatura ma pienamente funzionale, capace di meravigliare, emozionare, intrattenere. Il Barbiere di Siviglia scelto per l’edizione 2025 è proposto in una versione snella, adattata per strada, ma assolutamente completa. Alla direzione d’orchestra Carlo Donadio, che guida l’ensemble con ritmo vivace, complice un’orchestrazione agile ma rispettosa dell’opera originale. La regia, firmata da Manu Lalli, è un’esplosione di creatività visiva: costumi e luci richiamano l’immaginario del circo, della commedia dell’arte, del teatro di strada. Una sintesi di colori, simboli e citazioni che rende il tutto immediatamente riconoscibile e accessibile anche al pubblico più giovane. «Nel nostro Barbiere – spiega ancora Lalli – ci sono pagliacci che si travestono da signori, illusionisti che si spacciano per innamorati, domatori di cuori e, naturalmente, Figaro: il factotum per eccellenza, ironico, trasgressivo, geniale. In fondo, tutto ruota intorno all’amore, proprio come nella vita». Il cast vocale è composto da giovani interpreti provenienti da Fabbrica Young Artist Program, un vivaio d’eccellenza voluto dal Teatro dell’Opera di Roma per formare le nuove generazioni di cantanti lirici. L’adattamento musicale è a cura di Tommaso Chieco e Marco Giustini, mentre la scenografia – ridotta all’essenziale, ma ingegnosa – è firmata da Daniele Leone. I movimenti mimici sono coordinati da Chiara Casalbuoni, che inserisce elementi coreografici e gestuali per rendere la narrazione ancora più avvincente, soprattutto per un pubblico eterogeneo come quello che popolerà le piazze. Il pubblico, d’altronde, è parte integrante dello spettacolo. Famiglie, bambini, anziani, curiosi: tutti sono invitati a portare la propria sedia, il proprio entusiasmo, e a immergersi in un rito collettivo che fa della cultura un gesto quotidiano. Non più silenzi reverenziali da sala rossa, ma risate, applausi, partecipazione spontanea. L’opera diventa così ciò che in fondo è sempre stata: un’arte popolare, capace di parlare a tutti, di raccontare storie universali, di unire. Nel momento storico in cui si celebra il Giubileo, l’opera lirica abbandona i suoi recinti elitari per incontrare l’anima vera della città. E Roma, in questa inedita geografia culturale tracciata da OperaCamion, non è più una somma di periferie e centri, ma una comunità sonora, un’umanità vibrante riunita attorno al teatro più democratico che ci sia: la piazza. Con questa edizione 2025, OperaCamion non è soltanto un progetto culturale, ma una dichiarazione d’intenti: l’arte non chiede permesso, non resta confinata nei salotti, ma attraversa le strade, ascolta i quartieri, si fa presente. Un camion, un sipario, un’orchestra, qualche metro di pavé: basta questo per riscoprire l’incanto. E per ricordarci, ancora una volta, che la bellezza, quando è vera, sa viaggiare leggera. Qui per il programma.
La Quinta domenica dopo la Pasqua, prende il nome di Dominica Rogate”, termine che in latino significa “pregate”. Qui il termine viene interpretato come “richiedere”, “domandare”, connesso alle pratiche delle “Erogazioni”, ovvero preghiere straordinarie che nei quattro giorni precedenti la festa dell’Ascensione venivano recitate, generalmente nelle campagne, durante processioni con lo scopo di ottenere le benedizioni di Dio sulle messi e sui frutti della terra e conseguentemente un buon raccolto. Una pratica d origine che si riconnetteva ai riti della Roma pagana che per tre giorni consecutivi, durante il mese di maggio, venivano celebrati in onore di Cerere la dea dell’Agricoltura e che prevedevano sacrificio di tre vittime: unl maiale, una pecora e un toro. Le feste popolari connesse a questa pratica prendevano il nome di “Rubigalia”, dal momento che coronavano con la visita al tempio Rubigus, il dio della brina. La pratica Cristiana dell’Erogazione è testimoniata già dai tempi di Gregorio Magno, ma sicuramente più antica, consisteva nei primi tempi nelle recite delle litanie dei Santi che sostituirono la pratica pagana delle “Rubigalia”.
Litanie che nella Chiesa romana erano dette “maggiori” per distinguersi dalle altre denominate “minori” che si erano diffuse nelle Gallie dove le processioni delle Rogazioni aveano incontrato una particolare fortuna.Nella Dominica Rogate, o delle Rogazioni, la liturgia non si stacca dallo spirito che precede la Pentecoste, periodo di attesa dello Spirito Santo, “Spirito di verità, di giustizia, di giudizio” come dice il Vangelo di Giovanni (capitolo 16 vers.23-30) che è alla base della prima di due Cantate di Johann Sebastian Bach per questa domenica. Parliamo di “Wahrlich, wahrlich, ich sage euch” Bwv 86, eseguita per la prima volta a Lipsia il 14 maggio 1724. La cantata inizia con “In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa
al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. Sono parole di Cristo e secondo la logica bachiana, sono affidate alla voce di basso che le intona nell’arioso che apre la Cantata. La scrittura vocale e quella strumentale procedono alla stesso modo, sicchè la struttura generale è quella di un Mottetto a voce sola, in stile arcaico e fugato. L’aria successiva, tripartita, affidata alla voce contralto, si apre al virtuosismo di un violino solista, impegnato in una lunga sequenza di accordi spezzati. Il nr.3 è la elaborazione di un Corale affidato alla voce di soprano, in forma di “lied” su tessuto contrappuntistico affidato a 2 oboi d’amore. Un recitativo, un’aria bipartita cantata dal tenore e un Corale, chiudono la partitura che ha complessivamente un carattere improntato alla semplicità.
Nr.1 – Arioso (Basso)
In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa
al Padre nel mio nome, egli ve la darà
Nr.2 – Aria (Contralto)
Io voglio davvero cogliere le rose,
Anche se mi pungerò con le spine.
Perché io confido
Che le mie preghiere e le mie suppliche
Giungono certamente al cuore di Dio
Perchè me lo promette la Sua parola
Nr. 3 Corale (Soprano)
E ciò che Dio, eterno e misericordioso,
Ha promesso con la Sua parola
E giurato sul Suo nome,
Senza dubbio lo manterrà e lo darà.
Ci aiuti Egli ad unirci alle schiere degli angeli
Per mezzo di Gesù Cristo, amen.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Dio non si comporta come il mondo,
Che molto promette e poco mantiene;
Ciò che Egli promette deve accadere
Così che vi possiamo ammirare la Sua gioia
E il Suo compiacimento.
Nr.5 – Aria (Tenore)
L’aiuto di Dio è certo;
Se pure il Suo aiuto dovesse tardare
Non per questo ci verrà negato.
Perché è la Sua parola che lo assicura:
L’aiuto di Dio è certo!
Nr.6 Corale (Coro)
La speranza attende il tempo
Promesso dalla parola di Dio,
Quando questo arriverà, per la nostra gioia,
Dio non stabilisce il giorno.
Egli sa bene quale è il momento giusto,
E non usa con noi alcun crudele inganno;
Per questo dobbiamo avere fiducia in Lui.
Traduzione di Alberto Lazzari
Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’Opera 2024/25
“TRITTICO WEILL: DIE SIEBEN TODSÜNDEN, MAHAGONNY SINGSPIEL, THE SONGS OF HAPPY END”
Su testi di Bertolt Brecht ed Elisabeth Hauptmann
Musica di Kurt Weill
Anna I, Bessie, Mary ALMA SADÉ
Anna II, Jessie, Jane LAUREN MICHELLE
Bruder I, Bobby, Sam Worlitzer ELLIOTT CARLTON HINES
Mutter, Jimmy ANDREW HARRIS
Vater, Charlie, Ein Mann MATTHÄUS SCHMIDLECHNER
Bruder II, Billy, Hanibal Jackson MICHAEL SMALLWOOD
Bill Cracker MARKUS WERBA
Die Fliege NATASCHA PETRINSKY
Lilian Holiday WALLIS GIUNTA
Attore GEOFFREY CAREY
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Regia, Scene, Costumi e Video Irina Brook
Luci Marc Heinz
Coreografia Paul Pui Wo Lee
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 20 maggio 2025
Come Milano è stata in passato la città brechtiana d’Italia, grazie alla presenza e all’azione di due artisti straordinari come Giorgio Strehler e Milva, possiamo ben riconoscerle un presente brechtiano grazie a Riccardo Chailly, che negli ultimi cinque anni ha fortemente voluto la presenza del compositore brechtiano per antonomasia, Kurt Weill, sul palcoscenico scaligero, in forme ridotte, ma sempre di eccezionale qualità. Quest’anno il dittico presentato quattro anni fa, ossia “Die sieben Todsünden“ e il “Mahagonny Songspiel“ si arricchisce di una terza parte, che si rivela anche, a dirla tutta, la migliore, e cioè “The Songs of Happy End”, riduzione senza dialoghi dell’operetta scritta nel ‘29. L’operazione è particolarmente riuscita anche per l’ordine scelto: “Die sieben Todsünden” è senza dubbio, dei tre, l’opera più cerebrale, anche sperimentale (trattandosi di un balletto con voci), che serve a risvegliare lo spettatore e gettarlo nella critica del mondo capitalista di Brecht e Weill; il “Mahagonny Songspiel“, antologia dell’unica opera stricto sensu composta da Weill, “Ascesa e caduta della città di Mahagonny“ del 1930, ospitata alla Piccola Scala l’ultima volta quarant’uno anni fa, delinea più chiaramente la natura marxiana di questo critica, mostrandoci una realtà di furfanti e prostitute, intenti unicamente al guadagno senza scrupoli; infine “Happy End” che, anche privato dei non brevi dialoghi, cui generalmente spetta il compito di far capire l’azione scenica, funziona a meraviglia, grazie ai testi fra i migliori concepiti dal poeta tedesco – o, ad essere onesti, dall’allora sua amante Elisabeth Hauptmann –, che fungono da eserciziario delle teorie espresse in “Mahagonny“ ponendoci di fronte una irresistibile schiera di esempi terrificanti, nei quali, tuttavia, nessuno può veramente dire di non riconoscersi: l’impenitente donnaiolo Surabaya Johnny, la casta Lily (interpretata da una soave Wallis Giunta, mezzosoprano dai portamenti elegantissimi), intenta a voler salvare l’umanità, che alla fine capisce di preferire l’inferno al paradiso, o luoghi dai tratti malfamati quanto fiabeschi, come la taverna di Bill a Bilbao o il mitico bordello di Mamma Goram, su cui non sempre splende la luna. La concertazione di Chailly è puntuale, come sempre, ma qui il direttore può anche mostrarsi umano, permettersi di abbandonarsi, di rubare, mostrando tutta la sua personale preferenza a questo repertorio da funambolo, tra gli ultimi sprazzi del sinfonismo tonale, la canzone popolare (sovente di tradizione ebraica) e l’allucinato jazz delle avanguardie. È un Brecht di lusso, quello di Chailly, poiché non è un Brecht, ma giustamente un Weill, compositore sontuoso, che nulla ha da invidiare a ben più celebrati suoi coetanei. A ricostruire la vera identità musicale di queste opere contribuisce, senza dubbio, anche l’eccezionale cast, in mezzo al quale brillano le stelle di Alma Sadé, Lauren Michelle e Natascha Petrinsky: soprani le prime, formidabili insieme nei ruoli di Anna I e Anna II nel Prologo dei “Sieben Todsünden” e di Bessie e Jessie nell’“Alabama-Song” e nel “Benares-Song” di “Mahagonny”, ma la Sadé anche in un misurato quanto ben caratterizzato “Surabaya-Johnny”; la Petrinsky, interprete magistrale del repertorio novecentesco, compare nel ruolo della Mosca per una Höllenlili da manuale, aspra quanto efficace vocalmente, calata del tutto nel personaggio. Fra gli interpreti maschili spiccano i baritoni – il registro preferito da Weill – Elliott Carlton Hines (soprattutto in qualità di rocambolesco e irresistibile Sam Worlitzer in “Happy End”) e Markus Werba, che specialmente con “Bilbao-Song” e “Was di Herren Matrosen sagen” sa coniugare la sua piena padronanza del mezzo vocale dal colore fresco, con una dizione godibile e scandita, e una presenza scenica rutilante e lievemente manierata. Tuttavia i pezzi migliori in assoluto sono quelli d’insieme, come la “Vollerei” dei “Sieben Todsünden”, il Terzo “Mahagonny-Song”, “Hosiannah Rockefeller” di “Happy End”, e pure il tango “Youkali”, che pur non appartenendo all’operetta, chiude la serata in maniera accorata e tagliente allo stesso tempo. Sulla regia di Irina Brook si scrisse già nel 2021 e, a dirla tutta, alcune riserve rimangono: la Brook decide di spostare la denuncia, di cui le opere sono foriere, dal capitalismo all’inquinamento e il climate change, operando di per sé non una vera e propria forzatura, ma un’attualizzazione che, tuttavia, sembra sottendere all’idea che il capitalismo, oggi, non faccia più paura – mentre oggi più che mai occorre aprire gli occhi sul nostro sistema economico-sociale, poiché è l’origine conclamata anche dei problemi ambientali. Insomma, tutta questa plastica, tutte queste proiezioni di disastri ecologici, sembrano aggirare l’ostacolo, non saltarlo, né lavorare per distruggerlo (com’era invece l’intento di Weill e Brecht); il terzo atto, invece, trova una misura maggiore, sia nella messa in scena – si abbandona l’éscamotage della metateatralità per un’impostazione più da recital, con semplici sedie nere e i personaggi seduti fin dall’inizio – ma anche nelle scene tutte in nero e oro, semplicissime ed efficaci. C’è da augurarsi che dopo questo dittico, evolutosi in trittico, la Scala si prenda la responsabilità di produrre le intere opere, “Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny” e “Happy End”, garantendo la presenza di Brecht e Weill anche nel prossimo futuro. Foto Brescia & Amisano
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Sala Orchestra
Direttore Francesco Gesualdi
Violino Alberto Bologni
Pianoforte e Clavicembalo Ilaria Baldaccini
Flauto Roberto Fabbriciani
GAMO Ensemble
Violini: Alberto Boccacci, Alberto Bologni, Lucrezia Ceccarelli, Marco Facchini, Chiara Franceschini, Chiara Mura, Michelangelo Nuti, Eleonora Podestà, Lorenzo Petrizzo, Pamela Tempestini
Viole: Carmelo Giallombardo, Matilde Giorgis
Violoncelli: Andrea Volcan, Lucio Labella Danzi
Contrabbasso: Giacomo Piermatti
Gaetano Giani-Luporini (1936-2022): Concerto de Le divine battaglie per undici archi (1984-1987); Nove Mantram per pianoforte solo (2000); Tessiture per clavicembalo e undici archi (1973); Genesi per flauto solo (1972); Tetraktis per violino, pianoforte e quattordici archi (1995). Programma a cura di GAMO – Gruppo Aperto Musica Oggi e del Centro Studi Gaetano Giani-Luporini
Firenze, 21 maggio 2025
Il concerto annunciava con dovizia di particolari un programma che, soprattutto per i non habitués della musica contemporanea, poteva essere concepito come un’avventura intellettuale capace di sfidare il grande pubblico. Ciò che si è ascoltato è risultato un concerto monografico, quasi in memoriam di Gaetano Giani-Luporini, maestro e compositore nato a Lucca nel 1936 e scomparso nel 2022, ma, per altri aspetti, poteva considerarsi l’anticipo della celebrazione dei 90 anni dalla nascita. Per coloro che non lo hanno conosciuto è stata un’occasione per specchiarsi in una luce prismatica capace di rilevare tanti aspetti. A guidare ed invitare il pubblico ad una sorta di itinerario sonoro Francesco Gesualdi, un musicista versatile, conosciuto anche come fisarmonicista il quale, per tutto il concerto, è apparso molto ispirato e attento a restituire un’interpretazione aderente allo stile del compositore. Luporini è stato allievo della Scuola di Composizione di Roberto Lupi al Conservatorio fiorentino, dal quale apprese l’Antroposofia di Rudolf Steiner. Da questa Scuola uscirono maestri e compositori, alcuni dei quali diedero vita alla cosiddetta Schola fiorentina. Ascoltare le musiche di Luporini nell’arco temporale di produzione (1972-2000) è stato in qualche modo, mediante l’immaginazione, ‘ritrovare’ attraversando il guado (pànta rei), una ricca ‘quadreria’ di personaggi a lui coevi e non, in cui oltre ai maestri, si potevano incontrare tanti musicisti, prima in qualità di allievi, poi come maestri, interpreti, collaboratori e amici, tanto da non stupirsi per la presenza di molti musicisti al concerto. L’evento, curato da GAMO (Gruppo Aperto Musica Oggi) e dal Centro Studi Gaetano Giani-Luporini, dichiarava l’attenzione alla musica contemporanea di matrice fiorentina e nella fattispecie anche ‘offerta musicale’ ricca di spunti ‘contrappuntistici’ in grado di aiutare all’approccio della musica di Luporini. Ritornando su Le divine battaglie, come non pensare alla grande eredità monteverdiana in cui nei brani che compongono l’insieme per undici archi era possibile percepire lontanissimi echi di una grande tavolozza sonora ove alcuni topoi musicali si rigeneravano in autentica metamorfosi?Tessiture per clavicembalo e undici archi, affrontato da Ilaria Baldaccini con un approccio dal forte impatto interpretativo e con la presenza nella parte centrale di una fughetta da eseguire «con estro» – oltre ad esplicitare lontane ‘ascendenze’ ed allusioni alla celeberrima struttura polifonica – sottolineava una precisa aderenza formale e ricerca sonora esplicitate dalla partitura. Ritornando al programma ecco che già i titoli del primo brano Concerto de Le divine battaglie per undici archi: 1.Dell’armonia primordiale; 2.Dei primi litigi angelici; 3.Dell’intervento del Padre Eterno; 4.Dell’apparente armonia; 5.Della scissione degli Angeli; 6.Del Concilio della S.S. Trinità e 7.Del compromesso divino rivelano in qualche modo quanto questo lavoro, pur nel godibile ‘assolo’ del contrabbasso, suonato con ricercate sonorità da Giacomo Piermatti, sembrava alludere alla connessione tra la nostra imperfezione percettiva (musica mundana) alla perfezione divina. Nella parte centrale del programma Baldaccini si è prodotta anche in Nove Mantram per pianoforte solo, ove ha confermato la sua duttilità e raffinatezza interpretativa nell’affrontare una partitura colma di energia e altresì esigente di pensieri edificanti. A seguire Genesi per flauto solo nella fulgida interpretazione di Roberto Fabbriciani. Nel gioco dei rimandi della musica ‘senza tempo’, includendo l’intero programma della serata, si potrebbe incipitare tutto il concerto con “in principio fu il soffio” (pneuma) in cui la musica, pur di esprimere la sua essenza, aveva bisogno di grandi respiri, gli stessi che generano quella forza vitale capace di dare vita a tutto l’universo. Ma se in una mente come quella di Wagner è possibile immaginare la ‘genesi’ con la profondità e gravità del mi bemolle (contrabbassi) nel letto del Reno (cfr. Der Ring des Nibelungen), in Luporini la rappresentazione immaginativa di una sorta di genesi o creazione del mondo avviene attraverso frequenze multiple rispetto ad un suono grave (armonici) in cui l’informità lancia l’ascoltatore verso sonorità talmente eteree al punto da essere proiettato verso percezioni sensoriali sub divo coelo. Il concerto, per le sue allusioni e valenze simboliche, poteva iniziare dal soffio di Fabbriciani nel flauto, poiché l’interprete, oltre ad offrire magia e incanto del suono, rappresenta uno dei pochi testimoni e collaboratori di tanti compositori del Novecento.A chiudere il programma Tetraktis per violino, pianoforte e quattordici archi in cui si sottolinea la bella espressività di Alberto Bologni in una fervida immaginazione del suono e funzionale rapporto con l’Ensemble, quest’ultimo sempre recettivo degli impulsi del direttore e caratterizzatosi per una sonorità feconda. Pur senza esclusione ai vari rimandi teosofici, la dissonanza ha rappresentato il grande mare magnum in cui l’ascoltatore poteva seguire il motto navigare necesse est. Gesualdi, autentico timoniere che ha guidato il GAMO Ensemble in un fervido respiro musicale all’interno di un programma non facile da gestire, nella metafora, ha ben saputo avvicinare i presenti all’inventio e alla poetica di Luporini. Foto di Sanzio Fusconi
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“LA FILLE DU RÉGIMENT”
Opéra-comique in due atti su libretto di Jean-François-Alfred Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges
Musica di Gaetano Donizetti
Marie PRETTY YENDE
Tonio RUZIL GATIN
Sulpice SERGIO VITALE
La Marquise de Berkenfield SONIA GANASSI
Hortensius EUGENIO DI LIETO
La Duchesse Crakentorp MARISA LAURITO
Un Caporal SALVATORE DE CRESCENZO
Un Paysan IVAN LUALDI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Riccardo Bisatti
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm
Drammaturgia Mattia Palma
Coproduzione Teatro di San Carlo e Bayerische Staatsoper
Napoli, 18 maggio 2025
Al Teatro di San Carlo, arriva La fille du régiment. La regia dell’opéra-comique in due atti, di Gaetano Donizetti, viene affidata a Damiano Michieletto. L’opera viene, dal regista, profondamente reinventata – e ciò accade attraverso la soppressione dei dialoghi parlati e il conseguente innesto, nell’impianto drammaturgico originario, di interventi solistici di carattere narrativo. Gli interventi parlati, affidati all’attrice Marisa Laurito, sembrerebbero fare linguisticamente eco alla farsa napoletana: potremmo definirli, infatti, dei mélanges linguistici – scritti in italiano, ma strutturalmente determinati da comicissime digressioni in francese e in napoletano. Il personaggio della Duchesse de Crakentorp si ritrova prevalentemente a dover fornire, allo spettatore, informazioni sulla trama dell’opera e sul carattere dei personaggi. Ciò accade fin dall’inizio: un suo intervento parlato viene scenicamente collocato prima dell’Ouverture: la «scenetta» è interessante, soprattutto perché termina con «’Nzerra chella porta», frase di derivazione eduardiana: un probabile «riferimento» a Uomo e galantuomo, commedia di De Filippo – nella cui edizione televisiva, del 1975, figurava, in una scena, proprio Laurito. Gli interventi narrativi e il taglio drammaturgico – conferito all’opera da Mattia Palma – riescono a interessare per efficacia scenica e verbale, ma «costringono» l’opéra-comique ad assumere la forma di un’operetta, soprattutto per la presenza di momenti collettivi danzati, coreograficamente organizzati da Thomas Wilhelm: il momento dell’Ouverture, per esempio, viene trasformato in un «antefatto» pantomimico. Il regista riesce a dare importanza al sentimento di «inadeguatezza» provato dalla «figlia» del Reggimento – quando, nell’atto secondo, si ritrova, suo malgrado, alle prese con il mondo aristocratico –, ma il piglio «militaresco» della protagonista viene risolto attraverso comportamenti scenici un po’ macchiettistici. I patimenti emotivi del personaggio vengono, invece, collocati e risolti entro uno spazio scenico metaforicamente ristretto, determinato da una cornica dorata: lì, nell’atto primo, viene affrontata dal soprano la Romanza Il faut partir!. Le scene – progettate da Paolo Fantin e nitidamente illuminate da Alessandro Carletti – restituiscono, attraverso un fondale illustrato, gli innevati paesaggi del Tirolo, che, nell’atto secondo, sopravvivono come un «ricordo» fintamente pittorico nel «minimalistico» salotto della Marquise; scene arricchite da costumi sontuosi ed eleganti, disegnati da Agostino Cavalca. Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Riccardo Bisatti. La lettura orchestrale è improntata su una generale esaltazione della «dinamicità» della scrittura donizettiana – e tende a favorire la costruzione «atmosferica» dei vari contesti scenici: da quello poeticamente campestre a quello «comicamente» soldatesco; ma ciò che riesce a convincere, effettivamente, è l’accorato sentimentalismo delle scene di «avvilimento» emotivo (sentimento che determina, per esempio, la già citata Romanza dell’atto primo). Emerge, però, anche il carattere «francese» dell’opéra-comique – ravvisabile, per esempio, nel raffinatissimo Entr’acte. Nel ruolo di Marie, Pretty Yende. Il soprano riesce a gestire opportunamente il carattere variegato del personaggio. Il ruolo prevede momenti di trasporto emotivo e di irresistibile verve, affrontanti dalla cantante perlustrando agilmente, e con melodica flessibilità, i momenti virtuosistici della scrittura vocale. Notevole è l’esecuzione del Rondò, nell’atto primo, Chacun le sait, chacun le dit: una pagina di innegabile bellezza, ma non fine a se stessa – e viene, pertanto, correttamente adoperata dal soprano per la costruzione e la determinazione del personaggio; viene, in tal senso, adoperata anche la «stravagante» coloratura del ruolo – nel comicissimo Terzetto, dell’atto secondo, Le jour naissant dans le bocage. Il soprano affronta appropriatamente anche il sentimentalismo dei già citati momenti di «avvilimento» emotivo – come la già menzionata Romanza (atto primo) e l’Aria Par le range et par l’opulence (atto secondo). Convince, inoltre, per la morbidezza del colore vocale e per l’attenta padronanza del registro acuto. Ruzil Gatin interpreta, invece, Tonio. Il tenore affronta in modo più che accettabile il ruolo, conferendo al giovane tirolese un delineamento teatrale un po’ «generico», benché vocalmente corretto. Non manca un’eleganza di fraseggio – a volte, però, poco pregnante; la trasparenza del colore timbrico riesce, tuttavia, a determinare il carattere sentimentale del ruolo – ravvisabile soprattutto nella Romanza dell’atto secondo: Pour me rapprocher de Marie. Il cantante affronta, correttamente, anche la Cabaletta dell’atto primo, celeberrima per i suoi nove do: Pour mon âme; l’estrema brillantezza del momento vocale consente al cantante una caratterizzazione maggiore, sebbene «temporanea», del personaggio. Nel ruolo di Sulpice, Sergio Vitale. Luminosità timbrica, nobiltà della condotta vocale e raffinatezza del ricco fraseggio, costantemente proteso alla risoluzione delle necessità sceniche del ruolo, consentono al baritono di restituire un notevole ritratto del bonario sergente – capace anche di accenti affettuosamente paterni, come accade nell’effervescente Duetto con Marie, figlia adottiva del Reggimento, nell’atto primo: Au bruit de la guerre. Le ottime capacità attoriali del cantante sono, inoltre, anche ravvisabili nel già menzionato Terzetto (atto secondo). Buona la prova, vocale e scenica, del mezzosoprano Sonia Ganassi, che, nel ruolo della Marquise de Berkenfield, offre un’accettabile interpretazione della Cavatina Pour une femme de mon nom (atto primo). Completano il cast, oltre alla già citata Marisa Laurito (Duchesse de Crakentorp), simpaticissima e teatralmente espressiva: Eugenio Di Lieto (Hortensius), Salvatore De Crescenzo (Un Caporal), Ivan Lualdi (Un Paysan). Il coro, preparato da Fabrizio Cassi, risolve ottimamente gli interventi di carattere soldatesco e il momento «religioso» dell’atto primo: Sainte Madone!. Lunghi applausi decretano, in definitiva, il successo di questa Fille «particolare». Foto Luciano Romano
La stagione 2026 del Teatro Regio di Parma si aprirà con Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck (dal 19 al 31 Gennaio 2026): non nella versione parmense del 1769, ma nella più consueta e originaria versione viennese del 1762, in cui il ruolo di Orfeo è scritto per contralto castrato. A Parma sarà Carlo Vistoli, con Francesca Pia Vitale quale Euridice e Nadja Mchantaf nel ruolo di Amore. A dirigere la Filarmonica Arturo Toscanini sarà Fabio Biondi, uno dei massimi esperti nell’esecuzione di musica antica con strumenti e prassi esecutiva originali. Lo spettacolo, con le scene di Heike Vollmer e i costumi di Katharina Schlipf, segna il debutto a Parma di Shirin Neshat, artista iraniana di fama internazionale, che firma la regia. Il suo lavoro si concentra sulla fotografia e sul linguaggio del video. È autrice di tre lungometraggi, dei quali il primo, Women without Men (2009), vincitore del Leone d’argento per la migliore regia alla 66ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Ha debuttato nella regia operistica nel 2017 al Festival di Salisburgo con una produzione di Aida diretta da Riccardo Muti.
Dopo l’Orfeo, la stagione continua con Norma di Vincenzo Bellini (dal 13 al 22 Febbraio 2026). La produzione neoclassica firmata dal regista Nicola Berloffa ritorna per la direzione di Renato Palumbo, a capo della Filarmonica di Parma, con un cast che vede nel ruolo della protagonista Vasilisa Berzhanskaya; accanto a lei Dmitry Korchak come Pollione, Giuliana Gianfaldoni come Adalgisa e Carlo Lepore come Oroveso. Infine un nuovo allestimento di Manon Lescaut di Giacomo Puccini (dal 16 al 28 Marzo 2026) firmato per regia, scene, costumi e luci da Massimo Gasparon. Francesco Ivan Ciampa dirige la Filarmonica di Parma, e nel cast troviamo la Manon di Anastasia Bartoli, il Des Grieux di Luciano Ganci, e il Lescaut di Alessandro Luongo. Andrea Concetti nel ruolo di Geronte e Davide Tuscano come Edmondo. La stagione si conclude con il tradizionale concerto per festeggiare l’anniversario dall’inaugurazione del Teatro, che nel 2026 spegnerà 197 candeline.
Roma, Museo Ebraico
DONNE. STORIE DI DONNECHE HANNO INFLUENZATO IL MONDO
a cura di Michal Vanek, Olga Melasecchi, Lia Toaff e Michelle Zarfati
In collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica Slovacca in Italia, l’Istituto Slovacco e il Museo della Cultura Ebraica di Bratislava
Roma, 20 maggio 2025
«È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze, perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo.» — Anna Frank, “Il diario di Anna Frank”
In queste parole, annotate da una ragazza quindicenne in un nascondiglio di Amsterdam nel luglio del 1944, si condensa una delle più alte espressioni dell’umano sotto assedio. Il pensiero che, nel pieno della catastrofe, una giovane vita potesse ancora professare fiducia — e in quella fiducia riconoscere la propria umanità — costituisce il vero punto di partenza di ogni riflessione sulla memoria, sulla storia, sulla responsabilità. Proprio da questa disposizione interiore prende forma la mostra Donne. Storie di donne che hanno influenzato il mondo, ospitata dal 21 maggio al 1 settembre 2025 presso il Museo Ebraico di Roma. Realizzata in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica Slovacca in Italia, l’Istituto Slovacco e il Museo della Cultura Ebraica di Bratislava, l’esposizione si sviluppa come un itinerario biografico e critico, interamente dedicato a figure femminili che hanno segnato il secolo scorso. Non si tratta di una mostra celebrativa nel senso corrente del termine: il tono è sobrio, l’impianto rigoroso. L’approccio è storico e documentario, e il criterio selettivo è la rilevanza delle vite narrate rispetto a una domanda: cosa significa trasformare l’esperienza in testimonianza, e la testimonianza in cambiamento? A rispondere non sono le parole degli storici, ma le vite stesse. Tra le protagoniste selezionate compaiono donne ebree italiane che hanno lasciato un segno nei rispettivi ambiti: dalla scienza all’arte, dalla moda alla cultura. Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, è il simbolo di una ricerca che ha saputo superare non solo le frontiere del sapere, ma anche le barriere ideologiche e le persecuzioni razziali. Elsa Morante, scrittrice di rara intensità, ha dato voce a una letteratura che non ha mai smesso di interrogare il dolore, il ricordo, la colpa. Franca Valeri, ironica e lucida, ha trasformato il palcoscenico in uno strumento di coscienza. Amelia Rosselli, poetessa, ha saputo tenere insieme l’abisso privato e la tragedia collettiva. Roberta di Camerino, nel mondo della moda, ha ridefinito il concetto stesso di eleganza come gesto identitario. Accanto a loro, la figura della professoressa Ruzena Bajcszy, ricercatrice slovacca oggi novantaduenne, pioniera della robotica e dell’intelligenza artificiale, è testimone di un sapere che sa restare umano anche nelle sue forme più astratte. Curata da Michal Vanek, Olga Melasecchi, Lia Toaff e Michelle Zarfati, la mostra si avvale di fotografie, testi, documenti d’archivio, filmati. Un posto di rilievo è riservato alla senatrice a vita Liliana Segre, presente anche con un videomessaggio che accompagna il visitatore lungo il percorso. La sua frase — «Dare corpo alla memoria è il miglior concime per il terreno futuro» — non è un motto, ma una sintesi etica. Una voce accanto all’altra, queste figure delineano una geografia etica che attraversa persecuzioni, rinascite, conquiste e silenzi. Il gesto curatoriale è misurato, antiretorico: la verità, per essere trasmessa, deve essere asciutta, essenziale, depurata dall’enfasi. L’asciuttezza del racconto è scelta stilistica e necessità morale: non amplifica, non abbellisce, non esibisce. Espone, affida, trasmette. Il valore più alto della mostra consiste forse in questo: nel mostrare che l’identità femminile, lungi dall’essere categoria secondaria della narrazione storica, ne è parte fondante. E che ogni riconoscimento dei diritti non è mai un punto d’arrivo, ma un processo da difendere e rinnovare, giorno per giorno, scelta dopo scelta. In un tempo in cui la memoria rischia di farsi stanca liturgia o cifra d’oblio, Donne rappresenta un contrappunto civile: chiaro, composto, ineludibile. Il Museo Ebraico, con questa mostra, rinnova la propria funzione non solo conservativa ma formativa, proponendo un modello di storia come esercizio del pensiero critico. Una storia che non serve a celebrare, ma a comprendere. Non a rassicurare, ma a inquietare. Perché, come ci ricorda Anna Frank, persino nella notte più fonda può germogliare una speranza. E questa speranza si chiama, ancora oggi, conoscenza.
Roma, Casino dei Principi di Villa Torlonia
MARIO MAFAI E ANTONIETTA RAPHAËL. UN’ALTRA FORMA DI AMORE
a cura di Valerio Rivosecchi e Serena De Dominicis
promotori Roma Capitale, la Sovrintendenza Capitolina, Zètema, il Centro Studi Mafai-Raphaël
Roma, 22 maggio 2025
Ci sono mostre che tentano di restaurare la memoria con la stuccatura della retorica. Altre, più rare, che fanno ciò che l’arte dovrebbe sempre compiere: svelare. “Mario Mafai e Antonietta Raphaël. Un’altra forma di amore”, in programma dal 23 maggio al 2 novembre 2025 al Casino dei Principi di Villa Torlonia, è una di queste. Non soltanto un’esposizione, ma una stratigrafia sentimentale e pittorica, un’inchiesta condotta con gli strumenti dell’occhio e della materia, dentro la trama complessa di due vite intrecciate tra le macerie di un secolo e le fondamenta dell’arte italiana. I promotori – Roma Capitale, la Sovrintendenza Capitolina, Zètema, il Centro Studi Mafai-Raphaël – consegnano al pubblico una narrazione sobria ma rigorosa, affidata alla cura sapiente di Valerio Rivosecchi e Serena De Dominicis, che evitano ogni trionfalismo per restituire, semmai, la dimensione terrena e tumultuosa di una storia d’amore e d’arte. A cinquant’anni dalla scomparsa di lei e a sessanta da quella di lui, la mostra riporta a Roma non un semplice confronto, ma un corpo a corpo: due poetiche distinte eppure fuse in un’epica domestica, fatta di pennellate, gessi, silenzi e fughe. Mafai e Raphaël: il primo, romano, già precoce protagonista della scena artistica capitolina tra le due guerre, riconosciuto, accademizzato suo malgrado, e nondimeno refrattario all’ufficialità. La seconda, ebrea lituana, esule e irregolare, scolpisce con la furia di chi ha troppo da dire e poco tempo per compiacere. Già questo basterebbe a giustificare il sottotitolo della mostra: “Un’altra forma di amore”. Perché di un amore incomposto, asimmetrico, ma profondamente produttivo si tratta. Un amore che si misura nei confronti plastici tra pittura e scultura, nel dialogo muto tra un fiore che appassisce e una madre che dà forma all’angoscia, nella dialettica instancabile tra chi lavora a levare e chi a sedimentare. Le sette sezioni del percorso espositivo – articolate sui due piani del Casino dei Principi – sono concepite come stanze della memoria e dell’invenzione. La prima, dedicata alla cosiddetta “Scuola di via Cavour”, chiama in causa anche Scipione, il terzo vertice di quel triangolo giovane e feroce che sfidò il Novecento imbellettato di classicismo. Qui il ruolo propulsivo di Antonietta è messo in chiaro: non musa, non comprimaria, ma scintilla teorica e formativa. Le opere esposte testimoniano un primo nucleo di pulsione creativa ancora informe ma già tagliente. E l’allestimento, sobrio, lascia che siano i quadri a parlare, senza cornici storiografiche soffocanti. Nelle sale successive, si apre un doppio movimento. Da un lato, l’esplosione plastica delle sculture di Antonietta – alcune mai viste prima, come Angoscia n. 2, capolavoro di ostinazione e travaglio – dall’altro, le nature morte e le vedute urbane di Mafai, con quel loro tremore sottile, quasi febbrile, che pare sempre sul punto di sciogliersi nell’aria. Il confronto, volutamente asimmetrico, lascia emergere il non detto: la distanza stilistica non è disaccordo, ma grammatica coniugata al plurale. La sezione musicale – intima e marginale – rivela un altro tratto comune: la musica come lingua privata. Il Natura morta con chitarra o La lezione di piano non sono soltanto soggetti domestici, ma spartiti cromatici, veri e propri pentagrammi pittorici. Di grande finezza curatoriale la sezione “Una silenziosa sfida”, dove la mostra si fa partita a scacchi. Autoritratti, nudi, disegni: stessi temi, esiti opposti. Mafai sceglie la dissolvenza, il non-finito, il velario malinconico. Raphaël incide, scolpisce, afferra. E proprio lì, dove sembrano allontanarsi, si toccano più a fondo. Il Ritratto di Simona (1932), qui esposto per la prima volta, è una prova di toccante dolcezza, e il video collocato nella stessa sala restituisce voci e sguardi che resistono al tempo. La stanza centrale del primo piano è tutta di Mario. Il concetto di “metamorfosi” regge come un architrave la sua traiettoria pittorica. Dai toni incantati del primo decennio al segno nervoso e astratto degli ultimi anni, si assiste a una progressiva rarefazione dell’immagine, non per fuga dalla realtà, ma per cercarne una verità più profonda, più carnale. I Mercati del Dopoguerra non sono cronaca ma epica della sopravvivenza. Poi è il turno di Antonietta. La sezione a lei interamente dedicata – Un viaggio nell’identità e oltre – è una sorta di contrafforte emotivo. I materiali sono spigolosi, ma la scrittura della Raphaël non è mai violenta: è piuttosto un grido scolpito, a tratti biblico, sempre necessario. Le sue opere non cercano il bello, ma il giusto. Viaggiano tra continenti, tra memorie e genealogie, e restituiscono una figura artistica che l’Italia ha troppo a lungo marginalizzato perché non conforme, non docile, non servile. Il finale è un duetto. Una piccola sala raccoglie due quadri, due epitaffi d’amore: Ritratto di Antonietta nello studio di scultura (1934) di Mafai e Mario nello studio (Omaggio a Mafai) del 1966 di Raphaël. Due gesti postumi che si cercano oltre la vita. Le lettere autografe, selezionate da Sara Scalia, nipote degli artisti, rendono questo epilogo ancora più toccante. Non parole estranee, ma tracce, residui di voce che affiorano come impronte su un terreno dissodato. Il catalogo, affidato a De Luca Editori d’Arte, non è un mero apparato didascalico, ma un prolungamento della mostra, quasi un controcanto. E ciò che resta – uscendo dal Casino dei Principi – non è solo la memoria di due artisti, ma il senso di una lezione più ampia: che l’arte è forse l’unico luogo in cui l’amore non conosce separazione. E se Roma ha avuto un cuore – un cuore viscerale, fragile, generoso – lo si ritrova qui, nelle crepe delle pietre di Antonietta, nei rossi spenti dei fiori di Mario, e in quell’intimo sussurro di chi ha trasformato il quotidiano in battaglia, e la battaglia in bellezza. Ph. Monkeys Video Lab
Milano, Teatro fACTORy32, Stagione 2024/25
“LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA”
da Stefan Zweig
La Sconosciuta CHIARA ARRIGONI
R. ENRICO BALLARDINI
Regia Alberto Oliva
Drammaturgia Chiara Arrigoni
Scene e Costumi Paola Arcuria
Luci Riccardo Italiano
Nuova produzione fACTORy32
Milano, 16 maggio 2025
Dalla passata stagione, il teatro fACTORy32 porta avanti un interessante progetto su Stephan Zweig, una trilogia tratta non dalle sparute sue opere teatrali, bensì da tre romanzi brevi che vengono appositamente adattati alla scena tramite un’attenta cura drammaturgica. L’anno scorso ha preso avvio con “Paura“, una vera gemma nella produzione dell’autore austriaco, che ha avuto tuttavia un esito teatrale forse ancora acerbo. Quest’anno, invece, con “Lettera di una sconosciuta“ siamo di fronte a uno spettacolo drammaturgicamente più compiuto, anche più godibile, grazie soprattutto a tre fattori: il primo è la drammaturgia di Chiara Arrigoni, che riesce a trovare, oltre a una coerenza interna, anche una chiara corrispondenza nel romanzo e nei suoi vari significati; il secondo fattore di successo di questa produzione sta proprio nel talento dei due interpreti: la già citata Chiara Arrigoni è una Sconosciuta elusiva e polimorfa, capace sia vocalmente che fisicamente di evolversi, differenziarsi, tratteggiando, comunque, una precisa identità dei personaggio; accanto a lei, Enrico Ballardini è un convincente R. (i personaggi del romanzo, infatti, non hanno mai nomi dichiarati): si muove con fascino tra la curiosa baldanza dell’artista e la maniera dell’attore, che comunque gli garantisce una ricca gamma espressiva, di mezzevoci e sottotesti, l’unica possibile per un testo simile. Il terzo fattore di successo sta nella regia di Alberto Oliva, perennemente giovane (almeno esteriormente) ma ormai non più promessa, quanto piccola certezza del panorama teatrale nostrano: la sua scelta di usare il tulle come sublimazione della carta, e quindi far muovere la sconosciuta sempre avvolta in questi strati bianchi evanescenti, è senza dubbio coraggiosa quanto riuscita, e anche dividere in due la già piccola scena tramite un altro tulle, sul quale si possano leggere dei passaggi rilevanti della lettera, è un’idea tutto sommato che funziona, che aiuta lo spettatore a entrare in contatto con la psicologia splendidamente ossessiva, castamente perversa della protagonista. La vicenda infatti, è semplice quanto spiazzante: uno scrittore (R.) riceve una lunga lettera senza mittente in cui una ragazza racconta del suo folle amore per lui sin dai tredici anni, di come essa sia riuscita a diciotto anni anche a trascorrere tre notti con lui, ad avere da lui un figlio a sua insaputa, a continuare ad amarlo senza rivelarsi mai per anni, fino alla morte del bimbo e, con tutta probabilità, anche della sua, poiché si confessa a uno stato terminale di polmonite. Portata sullo schermo in una mirabile quanto più mélo versione di Max Ophüls nel 1948 (con una Joan Fontaine e un Louis Jourdain belli e bravi da non credere), questa “Lettera di una sconosciuta” teatrale ha un grande merito: proprio quello di non naufragare mai nello sdolcinato, nel gratuitamente sentimentale, ma di mantenere viva la vena sottile quanto prolifica di crudeltà di cui si nutre sempre più, man mano che la storia si rivela al pubblico. Adesso siamo curiosi su quale testo verterà il terzo capitolo di questa coraggiosa quanto affascinante trilogia ideata da Valentina Pescetto: non dobbiamo fare altro che aspettare la prossima stagione.
Roma, Teatro Argentina
Serata evento per celebrare il centenario della nascita di Andrea Camilleri
IL GIOVANE CAMILLERI
un progetto di Felice Laudadio
regia Ennio Coltorti
con la partecipazione di (in o.a.) Maria Luisa Bigai, Benedetta Buccellato, Margherita Buy, Giuseppe Dipasquale, Donatella Finocchiaro, Lorenza Indovina, Marco Presta, Enrico Protti, Sergio Rubini, Francesco Siciliano, Massimo Venturiello
musiche di e con Roberto Fabbriciani
a cura del Comitato Camilleri 100, del Fondo Andrea Camilleri e del Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 19 maggio 2025
Un palco nudo. Dodici voci. E le parole di un ragazzo che scrive da una stanza fredda di Roma, con l’acqua che cola dalle pareti e l’ambizione che pulsa sotto la pelle. Così si è aperta, senza proclami, la serata dedicata al centenario della nascita di Andrea Camilleri: Il giovane Camilleri – titolo semplice, affilato – ha mostrato ciò che spesso si dimentica di celebrare. Non il successo, ma la fatica di diventare. In quella scrittura piena di fame e di teatro, di debiti e audizioni, di rabbia e amore per le parole, si nascondeva la materia viva della scena. Le lettere scelte – tratte dal volume Vi scriverò ancora – non erano corrispondenza privata, ma drammaturgia inconsapevole. Più che raccontare, scolpivano. I giorni passati a contendersi una minestra, i pomeriggi di prova a guardare da dietro le quinte, le censure della scuola, gli innamoramenti per il teatro come fatto irriducibile e totalizzante. A chiunque abbia fatto teatro almeno una volta, quelle lettere dicevano qualcosa di molto personale. Parlavano di come si inizia, di quando non si è nessuno e si vuole tutto. Il giovane Camilleri non sapeva ancora dove sarebbe arrivato. Ma aveva già deciso di andare. Sul palco, dodici interpreti – tutti passati per le aule dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, come lo stesso Camilleri – si alternano con misura e precisione. Sono Maria Luisa Bigai, Benedetta Buccellato, Margherita Buy, Giuseppe Dipasquale, Donatella Finocchiaro, Lorenza Indovina, Marco Presta, Enrico Protti, Sergio Rubini, Francesco Siciliano, Massimo Venturiello. Non recitano. Prestano la voce, il corpo, l’ascolto. Leggono con pudore, quasi in punta di piedi, lasciando che le parole trovino da sole il proprio peso, la propria verità. La regia di Ennio Coltorti è tutta costruita sull’assenza di orpelli. Nessuna scenografia, nessun effetto. Solo luci sapientemente calibrate, ingressi cesellati, e le musiche dal vivo di Roberto Fabbriciani, che accompagnano senza interferire. È una regia di fiducia: fiducia nella parola, nei tempi, nella gravità che può nascere da un frammento di carta. Quel che accade, lentamente, è che lo spettatore smette di “ascoltare” per cominciare a ricordare. Ricorda qualcosa che forse non ha mai vissuto, ma che riconosce comunque. Il disagio della formazione. La solitudine. La fame. Il desiderio. E quel gesto così umano e così tragicamente teatrale: scrivere per non scomparire. In scena non c’è l’autore celebre. C’è l’allievo che sbaglia, che insiste, che si ostina a voler capire cos’è il teatro. Ed è proprio questa dimensione – non mitizzata, non compiuta – a fare dello spettacolo un gesto politico, oltre che poetico. Perché dice, con dolcezza e con fermezza, che il teatro non è un luogo dove si arriva, ma uno spazio dove si attraversa. E che ogni vocazione ha il suo prezzo, la sua fame, la sua paura. La sala del Teatro Argentina era piena, e non solo di corpi. Era piena di memoria condivisa, di attenzione sospesa. Qualcosa, lì dentro, accadeva davvero. Forse perché chi era sul palco non parlava di un passato, ma di un presente che ci riguarda ancora: quello di chi sceglie di vivere di arte senza sapere se sarà ascoltato, se basterà, se reggerà. Il giovane Camilleri è stato un atto di teatro necessario. Un piccolo miracolo di parola restituita. Un dispositivo sobrio e coraggioso che ha saputo restituire, senza retorica, il battito incerto dell’inizio. Perché è lì, nell’inizio, che tutto accade. Anche il teatro.
Torino, Teatro Regio, Stagione lirica 2024-25
“HAMLET”
Opera in cinque atti di Michel Carré e Jules Barbier da William Shakespeare
Musica di Ambroise Thomas
Hamlet JOHN OSBORN
Ophélie SARA BLANCH
Gertrude CLÉMENTINE MARGAINE
Claudius RICCARDO ZANELLATO
Laërte JULIEN HENRIC
Lo spettro del defunto re ALASTAIR MILES
Marcellus ALEXANDER MAREV
Horatius TOMISLAV LAVOIE
Polonius NICOLÒ DONINI
Primo becchino JANUSZ NOSEK
Secondo becchino MACIEJ KWASNIKOWSKI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Jérémie Rhorer
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Jacopo Spirei
Scene Gary McCann
Costumi Giada Masi
Coreografia Ron Howell
Luci Fiammetta Baldiserri
Torino, 18 maggio 2025
Il Regio di Torino è un po’ la piccola Elsinore italiana almeno in relazione all’opera di Thomas. A Torino è andata in scena la prima edizione italiana in lingua originale (2001) e ora va in scena il primo allestimento scenico moderno della prima versione dell’opera con la parte del protagonista scritta per tenore come originariamente pensato. Solo in secondo tempo, non avendo trovato un interprete in linea con la propria visione del ruolo Thomas decisa di riscriverlo per baritono destinandolo a Jean-Baptiste Faure. Un ideale legame tra Torino e l’opera di Thomas che ha arriso benevolo a questa produzione, a parere dello scrivente non solo il miglior titolo dell’intera stagione ma una produzione destinata a restare nella storia – almeno recente – del teatro torinese.Merito della riuscita la piena sintonia d’intenti di tutte le componenti coinvolte in una visione estremamente coerente. L’allestimento Jacopo Spirei deve fare i conti con l’ambiguità di un lavoro sospeso tra fedeltà alla tragedia originale e decorativismo di maniera spesso mal fusi tra loro. Limite non solo di questo titolo ma di molto grand’opéra parigino successivo alla morte di Scribe e privo di quell’infallibile senso narrativo del maestro del genere. Spirei opta decisamente sul versante della tragedia. Le parti più leggere sono come incorniciate, tableaux che fanno cornice al dramma che risulta dominante. L’ambientazione è trasposta al secondo Ottocento, coeva alla composizione dell’opera e non ignora di quanto fatto da Kenneth Branagh nella trasposizione cinematografica del dramma shakespeariano. Branagh per l’ambientazione ma l’immaginario visivo è più cupo, più gotico e strizza l’occhio – in modo esplicito nella pantomima della morte di Gonzago – all’immaginario estetico di Tim Burton. La reggia è sontuosa ma ovunque compaiono segni di decadenza, raggelante il cimitero trasformato in uno squallido obitorio i cui i becchini giocano con i cadaveri ridotti a tetre marionette. Centrali i temi dell’innocenza perduta – incarnati dai doppi infantili dei protagonisti – e della parola tradita che accompagnano l’intero scorrere dell’opera con la sempre frustrata volontà del protagonista di ritornare a quei tempi sereni per poi ritrovarsi a regnare su un mondo in totale rovina, ormai mera larva manovrata da forze superiori. In quest’ottica acquista un senso il taglio della scena pastorale che apre il IV atto che tutto si concentra nella follia di Ofelia, trasformata dal regista in un incubo popolato di fantasmi. La direzione di Jérémie Rhorer si muove nella stessa direzione. Il giovane maestro francese dirige con mano fermissima e ha dell’opera una visione drammatica e contrastata. Prevalgono sonorità dense, ricche, ombre oscure su cui domina un senso tragico e arcano. Una visione che sacrifica in parte le oasi più liriche ma da all’incostante partitura una forza espressiva innegabile anche nei momenti dove ci si aspetterebbe un tono più elegiaco, come nella follia di Ofelia in cui un senso di gelo spettrale s’insinua nelle visioni bucoliche della sventura fanciulla. Rhorer esalta al meglio la ricca scrittura di Thomas che fa ampio uso di strumenti solistici sempre perfettamente valorizzati senza mai perdere il senso complessivo dell’andamento orchestrale. Così ben diretta l’orchestra del Regio suona al suo meglio così come magistrale è la prova del coro, sempre una garanzia di qualità musicale e di capacità sceniche. La versione tenorile dona al protagonista un carattere più giovanile e irruento. Difficile pensare a interprete migliore di John Osborn la cui voce forse non sarà tra quelle più belle per timbro e colore ma sfoggia sicurezza vocale assoluta. Conoscitore attento del grand’opéra e delle sue peculiarità stilistiche affronta Hamlet fondendo la robustezza del settore centrale – la parte insiste molto su quella parte della tessitura – ad acuti facili e sicuri resi con suono misto secondo la più pure tradizione francese. Il canto è nobile, elegantissimo, arricchito da un gioco chiaroscurale attendo e preciso. Musicista raffinato e interprete sensibile Osborn coglie ogni sfumatura del personaggio dandone una lettura a tutto tondo di straordinaria ricchezza. L’altro elemento di forza del cast è la Gertrude di Clémentine Margaine. Mezzosoprano dalla voce ampia e ricchissima di armonici, splendidamente proiettata e interprete capace di rendere tutte le sfumature di un personaggio particolarmente ricco nel gioco degli affetti e delle emozioni. Vocalmente meno in forma il suo sposo. Riccardo Zanellato canta Claudius con grande sensibilità interpretativa e trova accenti di autentica sincerità nella preghiera del III atto ma in questo titolo la voce ci è parsa meno duttile che in altre occasioni. Sara Blanch è un’Ophélie di trepidante lirismo. La voce non è grande ma ben emessa e ottimamente controllata, del personaggio vengono evidenziati i tratti più lirici e cantabili rispetto a quelli più virtuosistici. Qualche acuto suona teso (in particolare la puntatura al termine della prima aria) ma nella scena della follia trova accenti di autentica commozione. Una lettura seria e sofferta del ruolo che si inserisce perfettamente nel taglio registico e direttoriale. Julien Henric dona a Laërte una voce di bella freschezza tenorile unita a un canto pulito ed elegante. Alastair Miles, veterano di tante registrazioni Opera Rara, trova accenti di grande autorevolezza nei panni dello Spettro ma la voce appare ormai arrochita e l’emissione faticosa. Perfettamente centrate le numerose parti di fianco. Nicolò Donini è scenicamente perfetto come Polonius oltre che cantarlo con gusto e proprietà, considerazioni analoghe per Alexander Marev (Marcellus), Tomislav Lavoie (Horatio) mentre Maciej Kwaśnikowski e Janusz Nosek danno il giusto rilievo alla sguaiata canzone dei becchini così teatralmente efficacie nello stridente contrasto con l’atmosfera del momento. Foto Daniele Ratti/Mattia Gaido
Roma, Teatro Vascello
LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA
di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
assistente regia Alba Maria Porto
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennesee.
Roma, 20 maggio 2025
Una gatta, un tetto, il calore insopportabile della verità. Ogni elemento del titolo di Tennessee Williams – La gatta sul tetto che scotta – è già tutto. È già teatro. È già sconfitta e desiderio, ossessione e sogno. Leonardo Lidi non lo addolcisce, non lo neutralizza, non lo rende “presentabile”. Lo prende di petto. Lo lascia contorcersi. Gli toglie le imbottiture. E lo fa bruciare. Dopo Lo zoo di vetro, il regista piacentino torna su Williams, attraversando quel corpus lacerato e luminoso in cui la famiglia – americana o universale – si dimostra per quello che è: fabbrica di ipocrisie, officina del dolore, teatro per antonomasia. Il luogo dove il non detto si sedimenta fino a esplodere. Lidi incastona la vicenda dei Pollitt dentro uno spazio marmoreo, candido e cimiteriale: una camera ardente per affetti in decomposizione. Le scene di Nicolas Bovey trasformano il palcoscenico del Teatro Vascello in un mausoleo post-funzionale: quattro pareti impenetrabili, levigate, anonime, simbolo di un silenzio domestico che diventa sarcofago. Uno specchio – maneggiato con ambiguità performativa dallo spettro di Skipper – funge da varco simbolico, da filtro tra interno ed esterno, tra apparenza e rovello. È in quella superficie riflettente che si misura la distanza tra ciò che si è e ciò che si dice di essere. Il testo, nella traduzione precisa e asciutta di Monica Capuani, si svolge tra i tagli della menzogna. Qui tutto si dice senza mai dirlo. L’alcolismo è dolore, la sterilità è disfatta sociale, l’omosessualità è colpa, la maternità è ossessione. Non esiste innocenza. Non esiste catarsi. Solo una lenta e implacabile resa dei conti che avviene – significativamente – nel giorno del compleanno di Big Daddy, il patriarca morente che crede ancora di poter governare le vite dei suoi. Nicola Pannelli è un Big Daddy che si muove tra sberleffo e disincanto. Uomo che si è fatto da sé, dominatore di un microcosmo che lo teme e lo idolatra, incarna il declino maschile con tutta la sua virulenza reazionaria. Lo affianca una Orietta Notari intensa e dolorosa, madre ormai ridotta al ruolo di comparsa nella grande messa in scena familiare. Ma il cuore pulsante dello spettacolo è la Margaret di Valentina Picello: una “gatta” che sa di essere sul punto di cadere, ma che si aggrappa a ogni singola parola, a ogni sorriso stirato, a ogni menzogna. L’attrice non la interpreta: la consuma. La lascia graffiare e supplicare, la fa scivolare da diva sgangherata a creatura disperata senza mai perdere quella sottile dignità che si acquista solo nel dolore. È lei a reggere la prima parte dello spettacolo, trascinandoci nel suo monologo da camera, in cui la ferocia si mischia al bisogno disperato di essere vista. Di fronte a lei, il Brick di Fausto Cabra: enigmatico, attonito, spettrale. È un corpo che si nega, un’identità che si frantuma. Cammina zoppo, metafora vivente di una virilità ferita, amputata. Lidi lo circonda di fantasmi, lo incastra tra lo spettro dell’amico morto e lo specchio della propria impotenza. Il dolore per Skipper non è più solo allusione: Riccardo Micheletti lo incarna con presenza discreta eppure costante. Non è più solo un passato da rimuovere, ma un presente con cui convivere. Tra le note di questo dramma lancinante, spiccano anche le interpretazioni di Giuliana Vigogna (una Mae famelica e volgare al punto giusto), di Giordano Agrusta (un Gooper meschino e frustrato), e della piccola Greta Petronillo, icona muta e perturbante di una generazione cresciuta tra le rovine. La regia gioca con i simboli, li manipola fino al limite. Le bottiglie che invadono la scena, portate ossessivamente da Skipper, diventano trappole visive e sonore, ostacoli fisici e psichici. Ma proprio nel loro accumulo – e nella loro banale rimozione finale – si sfiora il rischio dell’incoerenza. Il segno, potentissimo all’inizio, viene via via neutralizzato. Idem lo specchio, strumento drammaturgico denso, ma sovraccaricato di funzioni fino alla saturazione. Eppure, è proprio nel disordine di questi simboli che Lidi trova la sua chiave: un teatro in bilico, dove la regia non ha paura di esporsi, dove l’eccesso può diventare slancio poetico, dove il troppo non è mai abbastanza quando si parla di dolore. Certo, non tutto fila liscio. Alcune uscite di scena restano goffe, la presenza del reverendo (Nicolò Tomassini) è marginale e inutilmente diluita. La danza del “dottor morte”, che chiude la pièce con una nota farsesca, risulta posticcia. Ma tutto questo conta poco davanti alla forza complessiva dello spettacolo, alla sua tensione etica, alla volontà di non indorare nulla. La gatta sul tetto che scotta secondo Leonardo Lidi è un teatro della ferita. Una ferita che pulsa, che non si rimargina, che non cerca empatia. È un teatro che parla di famiglie per parlare di tutto il resto. Un teatro scomodo, che ci costringe a guardarci dentro, e a capire che nessuno – nemmeno noi – si salva davvero. Photocredit Luigi De Palma
Novara, Fondazione Teatro Carlo Coccia, Stagione lirica 2025
“PRIMA DELLA SCALA”
Opera in un atto su libretto di Stefano Valanzuolo
Musica di Federico Gon
Zabatta DAVIDE LANDO
Nina ALINA TKACHUK
Ezio PAOLO NEVI
Lucilla YO OTAHARA
Silvano DOGUKAN OZKAN
Germano EMMANUEL FRANCO
“LA SCALA DI SETA”
Farsa in un atto su libretto di Giuseppe Maria Foppa
Musica di Gioachino Rossini
Dormont DAVIDE LANDO
Giulia ALINA TKACHUK
Dorvil PAOLO NEVI
Lucilla YO OTAHARA
Blansac DOGUKAN OZKAN
Germano EMMANUEL FRANCO
Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Francesco Pasqualetti
Regia Deda Cristina Colonna
Scene e Costumi Matteo Capobianco
Luci Ivan Pastrovicchio
Novara, 11 maggio 2025
In una primavera novarese povera di titoli operistici – il grosso delle produzioni si concentrerà in autunno – l’unico appuntamento è con l’ormai tradizionale progetto “DNA Italia” destinato all’allestimento delle farse rossiniane affidate in gran parte a cantanti dell’Accademia novarese. Si tratta quindi di produzioni destinate a giovani interpreti che vanno valutate tenendo conto del particolare contesto.
Il titolo rossiniano è preceduto – come ormai da tradizione nel progetto – da una breve opera appositamente commissionata con funzioni di prologo. In questo caso “Prima della scala” è soprattutto un’introduzione all’allestimento scenico su cui si tornerà. Vediamo un gruppo di circensi in lutto per la morte dell’impresario ma intenti a contendersi con ogni mezzo l’eredità. In realtà l’impresario Zabatta si è finto morto per mettere alla prova i suoi sottoposti e disgustato dal loro cinismo decide di vendere il circo e iniziare un’attività d’impresario teatrale ma in mancanza d personale si trova costretto a riassumere i suoi vecchi artisti per mettere in scena “La scala di seta”. La musica del nuovo lavoro è di Federico Gon è nel complesso risulta piacevole. Sfruttando bene un libretto di buona freschezza ritmica – di Stefano Valanzuolo – il compositore propone una partitura d’impianto tradizionale. La musica è tonale e guarda a modelli ben definiti – Nino Rota in primis – e gioca con richiami e citazioni operistiche. Il lavoro è breve, teatralmente vivace e nel complesso si ascolta con tranquillità ma manca di autentica personalità e non riesce a imprimersi. Con i due titoli eseguiti senza soluzione di continuità bastano poche note della sinfonia rossiniana per segnare uno iato incolmabile. Elemento unificatore è come accennato l’allestimento di Deda Cristina Colonna con scene e costumi di Matteo Capobianco che non solo rappresenta l’elemento di gran lunga più riuscito ma conferma l’alta qualità esecutiva ormai raggiunta dai laboratori novaresi. L’ambientazione è circense – quasi metafora del funambolismo della musica rossiniana – e sostanzialmente atemporale. Manca infatti una collocazione cronologica precisa ed elementi di varia epoca si fondo con sostanziale naturalezza. Le bellissime scene riprendono la cartellonistica circense d’inizio Novecento ma anche le proiezioni delle lanterne magiche e non manca qualche ricordo felliniano. Tutto in bianco e nero nel prologo, di vividi colori nell’opera ma senza mai tradire l’unitarietà della cifra stilistica di fondo. Preciso e curato il lavoro attorale, fattore ancor più utile disponendo di una compagnia di cantanti nel complesso giovani e di scarsa esperienza.
Francesco Pasqualetti alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana offre una lettura brillante e dal buon ritmo teatrale ma manca di leggerezza di tocco confermandoci quanto sia difficile l’equilibrio formale della scrittura rossiniana. I cantanti vanno ovviamente valutati nell’ottica di un progetto formativo con le specificità che esso impone. Paolo Nevi subentrato al previsto Michele Angelini affronta Dorvil con una voce dal bel timbro squillante e con buona proiezione. E’ però ancora acerbo sul versante espressivo – manca soprattutto un po’ di abbandono lirico – e gli acuti tradiscono qualche durezza – forse dovuta alla stanchezza di due recite a neppure un giorno di distanza. Alina Tkachuk ci è parsa ancora immatura per Giulia. La voce è da soprano leggero e soffre in una parte di mezzo carattere come questa è purtroppo soverchiata dalle altre voci nei pezzi d’assieme. La dizione è perfettibile e sul versante interpretativo risulta manierata nonostante l’impegno. Emmanuel Franco nonostante la giovane età vanta un’esperienza che manca ai colleghi. Presenza abituale su palcoscenici a Wexford e Bad Wildbad ha già affrontato il ruolo di Germano nell’edizione 2021 del festival tedesco – esiste registrazione discografica – e sia sulla quadratura stilistica sia sulle capacità interpretative si muove su un altro livello qualitativo che trova la miglior conferma nella facilità con cui snocciola i passaggi sillabati. Dogukan Ozkan dispone di una voce di basso potenzialmente interessante per robustezza e colore. Deve migliore sul piano dell’emissione – un po’ grezza – e su quello interpretativo. Manca ancora in lui una più profonda sintonia con lo stile rossiniano mentre il solido materiale gli permette di emergere nella scrittura più declamatoria dell’opera Gon con la sua spassosissima scena d’incantesimo. Timbricamente un po’ chiara ma musicalmente corretta e scenicamente simpatica la Lucilla di Yo Otahara mentre nelle brevi parti di Zabatta e Dormont Davide Lando si fa apprezzare per la chiarezza della dizione e la sensibilità dell’accento.
Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione sinfonica 2024-25.
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrés Orozco-Estrada
Soprano Laura Verrecchia
Tenore Marco Ciaponi
Basso Mirco Palazzi
Igor Stravinskij: “Pulcinella”, balletto in un atto per piccola orchestra con tre voci soliste, su musiche di Giovanni Battista Pergolesi; Maurice Ravel: “Daphnis et Chloe”, suite n.1 e n.2 dal balletto
Torino, 16 maggio 2025.
Siamo a pochi mesi dalla fine della grande guerra del 14-18 e, a Parigi, nonostante tutto, si tenta il riaggancio con gli estremi scampoli residui della belle époque. A dominare le scene e a condizionare gli artisti rimangono i Ballets Russes, con il genio artistico ed imprenditoriale del loro fondatore, manager e indiscusso dominatore: Sergej Pavlovič Djaghilev. Fokine, il coreografo, Nijinskij, il grande danzatore e Igor Stravinskij, il musicista, tutti russi fuggiti dalla rivoluzione, sono ancora della partita. Stravinskij che, residente fin dal 1909 a Parigi, aveva già illustrato i Ballets Russes con le sue opere “barbariche”, nel 1918 si vede consegnare, da Djaghilev in persona, dei fogli con musiche presunte, ma allora non lo si sapeva che fossero tali, di Pergolesi. Pareva allora che la richiesta del mercato fosse per esibizioni che riportassero alla quiete dopo la grande tempesta. Non barbarici riti pagani, non vergini sacrificate in sanguinari sacrifici rurali, ma piacevolezze settecentesche, come si ipotizzava lo fossero state quelle della corte e dei vicoli partenopei. Assai probabile che Stravinskij conoscesse ben poco di Pergolesi e ancor meno delle galanterie delle mascherate napoletane, ma l’ordine del boss era tassativo e a nulla valsero i suoi tentativi di cambiar soggetto con la proposta di una ripresa dell’Histoire du soldat, spettacolo con cui si era mantenuto negli anni di guerra. Animato da una fantasia e da un mestiere fuori misura, ne ricava 18 numeri, che alternano piccole suite baroccheggianti ad accattivanti cantatine affidate, in singolo o in duo, a un (mezzo)soprano, a un tenore e a un basso. Riconfermandosi, se mai ce ne fosse stato bisogno, il grande orchestratore, allievo di Rimskij, sono tutte meraviglie quelle che affida a un’orchestra molto contenuta sia nei timbri che nel numero. Fokine imbastisce la coreografia, Nijinskij danza e Picasso disegna e allestisce la scena dell’Opera. La critica tende a fissare con Pulcinella l’inizio della fase neoclassica di Stravinskij, ma forse più che un inizio consapevole, Stravinskij qui coglie lo spunto per riconsiderare il suo stile ed affrontare al meglio le emergenti preferenze del pubblico. Altre opere barbariche, come Les Noces ci furono ancora e per un neoclassicismo conclamato mancheranno ancora una decina d’anni. Nelle esecuzioni odierne tutto dipende dal taglio che l’interprete vuol dare alla partitura. L’ultima volta che si diede a Torino alla RAI, nel 2021, Ottavio Dantone offrì un barocco rivisitato “alla moderna”, ora Orozco-Estrada e la magnifica OSNRAI, con vivaci dinamiche di suono e con strappi bruschi di ritmo, riportano l’opera ad una zona molto più dubbia di passaggio che, per molti aspetti, ancora suona come il Sacre. I solisti orchestrali non si risparmiano, al chiacchiericcio rococò fanno prevalere un franco, scattante e ben timbrato disegno ritmico. Ugualmente franca e soddisfacente la prova delle tre voci, Laura Verrecchia, Marco Ciaponi e Mirko Palazzi, (subentrato all’ultimo al previsto Pablo Ruiz), che, con buona efficacia, si sono adeguati più al cantare dei vicoli che agli scimmiottamenti dei salotti.
La stessa linea interpretativa Orozco-Estrada e l’OSNRAI, l’hanno adottata per le due suites raveliane di Daphnis et Chloé. Opera anch’essa commissionata a Ravel, come base per un balletto, dall’onnipossente Djaghilev. Era il 1911, 3 anni prima dello scoppio di una guerra non prevista e 10 prima del Pulcinella di Stravinskij. Con Ravel si danno la Belle époque e l’impressionismo delle arti visive applicati agli amori pastorali descritti da Longo Sofista, autore greco del III° secolo, ancora trasponibili ad argomento per un poemetto della settecentesca Arcadia o a soggetto per un dipinto di Watteau. Con Orozco-Estrada, come già in Pulcinella, si abbandonano quasi completamente i sentieri dell’Idillio campestre da Imbarco per Citera, per addentrarci tra il fogliame e le belve delle foreste fauve del Doganiere Rousseau. L’orchestra al gran completo (12 percussionisti, due arpe, 18 legni, 13 ottoni, 30 leggii di archi di cui 4 di contrabbassisti) ha abbondanza di tutti i timbri che Ravel, il più sorprendente orchestratore della storia della musica, avrebbe potuto desiderare. L’effetto è magnifico fin dal borbottare iniziale dei contrabbassi, per proseguire con la valanga travolgente di colori che la compagine formidabile dei legni sa sovrapporre al mareggiare più o meno tranquillo degli archi. La foresta amazzonica colombiana, patria di Orozco-Estrada, irrompe prepotente con lamate e fendenti di raggi di sole che abbagliano e fanno risplendere il verde smeraldo del lucido fogliame. Tanti strali fiammeggianti che, drammaticamente, illuminano un sottobosco che si immagina popolato dal piumaggio multicolore di uccelli esotici e dal mantello maculato di belve nascoste e forse anche da striscianti e argentei serpenti. L’effetto, sicuramente carico di fascino e di incanto, conquista il pubblico che inesorabilmente si abbandona al meraviglioso caleidoscopio di suoni che fa più sognare avventure ero-esotiche che non artefatti giardini tropicali di una Costa Azzurra della Belle Époque.
Roma, Studio di Architettura Francesco Anzuini & Sara Edalatkhah
Via Statilia 18, Roma
Artisti: Davide Cocozza e Igor Grigoletto
Curatrice: Velia Littera
TRA BATTITI E SEGNI
Roma, 14 maggio 2025
Nell’orizzonte instabile del contemporaneo, dove il linguaggio dell’arte muta pelle ogni giorno, Tra Battiti e Segni non si presenta come mostra, ma come esperienza incisa, come zona di attraversamento sensoriale e teorico, un cortocircuito visivo che prende corpo nello spazio pulsante dello Studio Anzuini & Edalatkhah, luogo architettonico e mentale, atelier d’idee più che contenitore di opere. Due artisti, Davide Cocozza e Igor Grigoletto, si confrontano senza sfiorarsi, eppure in dialogo serrato, quasi un montaggio alternato tra corporeità pittorica e sospensione segnica, tra corpi totemici e linee che sembrano emerse da un sonno profondo della mente. A tessere l’incontro, la curatela consapevole di Velia Littera, che orchestra il confronto come un duello rituale: l’uno affonda il pennello nella carne simbolica del vivente, l’altro graffia lo spazio con tracce disabitate, ridotte all’osso del pensiero. Cocozza porta in scena un bestiario umanizzato, una teoria di animali guardiani, testimoni muti della disgregazione ecologica ed etica. Ma attenzione: qui non vi è alcuna elegia naturalista, nessun sentimentalismo da calendario. I suoi animali — tigri, asini, ghepardi — sono icone mutanti, creature poste sull’orlo tra innocenza e condanna. I titoli stessi (Light My Fire, Like a Thoughtful Cheetah) sono formule magiche, aperture immaginali su un universo che mescola rock, rituale e invocazione. I loro occhi, carichi di uno sguardo quasi sacrale, non interpellano lo spettatore: lo inchiodano. Queste figure non imitano il reale, ma lo giudicano. Nel suo gesto pittorico si coglie la volontà di reintrodurre l’animale nel cuore della cultura, di ribaltare l’ordine simbolico che ha espulso la natura dal tempio della rappresentazione per sostituirla con l’umano come misura di tutte le cose. L’asino che vola non è una favola, è un’eresia iconica. La tela diventa manifesto. Il colore, attivismo. Dall’altro versante, Igor Grigoletto traccia sentieri nella nebbia. Le sue superfici, spesso in vetro, si offrono come membrane semantiche su cui si depositano segni minimi, quasi un battito di ciglia del pensiero. Il suo è un lavoro che si sottrae all’urgenza del dire: Sign, nella sua iterazione monocroma, non afferma nulla. Semplicemente è. Non rappresenta, ma convoca. Grigoletto non cerca l’effetto. Lavora nella zona cieca della visione, là dove la linea diventa rivelazione e il bianco non è sfondo, ma materia del silenzio. Il suo è un codice post-verbale, dove l’estetica si ritira per lasciare posto a una fenomenologia dell’assenza. Il vetro è superficie e insieme confine, è soglia tra mondo e mente. Nulla da leggere: solo da ascoltare. Eppure, nonostante la distanza formale tra i due, Tra Battiti e Segni si fa corpo unitario, sistema respiratorio a due polmoni. È una mostra che dichiara con eleganza e decisione il proprio j’accuse verso un mondo che ha smarrito la grammatica della convivenza: la coabitazione tra specie, tra linguaggi, tra segni. Se Cocozza espone il trauma della separazione dalla natura, Grigoletto ne decanta l’eco più sottile, quella che si insinua nei meandri dell’interiorità. In questa convergenza inattesa, l’empatia e la sottrazione non si annullano, ma si sostengono. Il primo invita a sentire, il secondo a disimparare. Entrambi, con strumenti differenti, rimettono al centro l’urgenza di tornare alla forma, non come puro esercizio estetico, ma come gesto etico, come atto fondativo. A rendere fertile questo incontro è lo spazio stesso: lo Studio di Architettura Francesco Anzuini & Sara Edalatkhah non è una semplice cornice, ma co-autore dell’evento. Architettura e arte, in questa circostanza, non convivono: dialogano, si interrogano, si contaminano. I segni di Grigoletto galleggiano nelle superfici, le creature di Cocozza sembrano varcare soglie, attraversare volumi, disturbare gli assi cartesiani dell’ambiente. È un’installazione relazionale, mai autoreferenziale. Un’intuizione curatoriale che si completa nella sinestesia di un wine tasting offerto da Cantina Menol, ulteriore soglia percettiva che invita il pubblico non alla fruizione passiva, ma a una presenza consapevole, multisensoriale, quasi liturgica. Tra Battiti e Segni è dunque una mostra necessaria, perché necessaria è oggi la riflessione su cosa significhi ancora vedere, sentire, abitare. È un attraversamento. Un esercizio di lucidità. Un grido sommesso che, nel silenzio rarefatto del vetro e nella presenza incantata degli animali, chiede all’arte di tornare a essere corpo, coscienza, eco. E di lasciare traccia.
Roma, Palazzo delle Esposizioni
MARIO GIACOMELLI. IL FOTOGRAFO E L’ARTISTA
a cura di
Bartolomeo Pietromarchi
Katiuscia Biondi Giacomelli
Roma, 19 maggio 2025
La fotografia non è mai stata uno specchio passivo del mondo. Quando funziona, la fotografia pensa. Se ci troviamo oggi davanti alle immagini di Mario Giacomelli, è perché queste immagini non soltanto hanno guardato la realtà, ma l’hanno interrogata, piegata, ri-scritta. In questa mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma – tra le più vaste mai dedicate al maestro marchigiano – non ci troviamo di fronte a una semplice retrospettiva, ma a una verifica dell’assunto che ho spesso sostenuto: il fotografo è un artista non per la qualità tecnica del suo mezzo, ma per la qualità spirituale della sua visione. Nel caso di Giacomelli, quella visione è intrinsecamente duale: lirica e cruda, poetica e brutale. Egli ha visto nel nero e nel bianco non una grammatica, ma un destino. Lo capiamo sin dall’apertura del percorso, dove l’installazione immersiva restituisce la voce, il ritmo e la pelle stessa del suo sguardo. L’autore, che non ha mai lasciato davvero Senigallia – e che ha saputo fare del proprio vicolo il centro del mondo – viene qui proposto in dialogo con Afro, Burri, Kounellis, Cucchi, Ballen. Eppure, con una verità che può sorprendere solo chi non ha mai davvero osservato le sue stampe, Giacomelli non scompare mai nel confronto: regge il peso del paragone, lo trasforma, lo eccede. Ci sono tre assi portanti lungo i quali si struttura questa mostra: la materia, il linguaggio, la presenza umana. Nel primo segmento, l’accostamento con Afro e Burri si rivela subito efficace. Le superfici fotografiche di Giacomelli – rugose, bruciate, lavorate in camera oscura come se fossero tele da incidere – sembrano sorgere da una stessa matrice tellurica. Quella materia (che Burri cauterizza, che Afro dissolve) viene da Giacomelli scritta con luce e acidi, in una pratica fotografica che è al tempo stesso pittorica e alchemica. Le serie paesaggistiche, da Motivo suggerito dal taglio dell’albero a Territorio del linguaggio, sono esposte non per documentare un territorio ma per evocare una memoria sedimentata nella terra, nei solchi, nella neve come scrittura. Il secondo segmento – dedicato al linguaggio – si articola nel dialogo con Cucchi e con Kounellis. Nel primo caso, si riconosce un comune sentire simbolico: il paesaggio non è un luogo, è una proiezione psichica. Le fotografie esposte vibrano di un’energia visionaria che si distanzia dal realismo documentario: sono visioni. Nel secondo caso, con Kounellis, emerge invece il Giacomelli più etico e radicale. Mattatoio, Lourdes, E io ti vidi fanciulla – titoli che sembrano già versi – sono fotografie dove la materia ritorna, ma come traccia della carne, come testimonianza del dolore, come eco della morte. Con Kounellis, Giacomelli condivide un’antropologia povera, scavata, residuale. È qui che il fotografo mostra la sua più alta tensione tragica. Il terzo asse – quello della presenza umana – trova il suo vertice nella celeberrima serie Io non ho mani che mi accarezzino il volto, esposta per la prima volta nella sua interezza e accompagnata da provini e materiali di lavoro. Le fotografie dei seminaristi non sono immagini di ragazzi. Sono, piuttosto, corpi in movimento spirituale. Come ho scritto a proposito di altri maestri del mezzo – Weston, Evans, Arbus – la grande fotografia è quella che, nel fissare un istante, lo trasforma in eternità. Questo Giacomelli lo fa con una semplicità che sfiora il miracolo. Le sue immagini non descrivono, rivelano. In questa stanza circolare, installativa, quasi liturgica, la serie si trasforma in un canto visivo. Non va dimenticato che Giacomelli è un artista autodidatta, che ha trovato nella fotografia – e solo in essa – la propria lingua. In questo senso, il dialogo finale con Roger Ballen, che lo ha apertamente riconosciuto come maestro, chiude perfettamente il cerchio: è un passaggio di testimone tra due artisti che hanno fatto del bianco e nero uno strumento di psicoanalisi visiva. Le opere conclusive – Questo ricordo lo vorrei raccontare, La domenica prima, Per poesie (ferri e lenzuola) – sono pagine di diario, frammenti di sogno, lampi di coscienza. Eppure mai estetizzanti. Giacomelli non fotografa per piacere. Fotografa perché deve. L’ultima sala – la ricostruzione del suo studio – è un atto di rispetto e di amore. Non c’è spettacolarizzazione. Solo i suoi strumenti: l’ingranditore, la Kobell, le pareti tappezzate di fogli. È un tempio laico, un laboratorio della visione. Ed è giusto che il visitatore vi entri dopo aver attraversato l’universo del suo autore. Perché è solo qui, nello spazio più intimo, che si può davvero comprendere quanto il lavoro di Giacomelli sia stato totale. Ossessivo. Necessario. Con questa mostra – la più completa mai vista a Roma – Giacomelli viene restituito non come un fotografo italiano. Ma come uno dei grandi artisti visivi del secolo breve, capace di rendere la fotografia uno strumento per dire l’indicibile. E come ogni grande artista, non ha lasciato immagini. Ha lasciato domande.
Roma, Teatro Argentina
Serata evento per celebrare il centenario della nascita di Andrea Camilleri
IL GIOVANE CAMILLERI
un progetto di Felice Laudadio
regia Ennio Coltorti
con la partecipazione di (in o.a.) Maria Luisa Bigai, Benedetta Buccellato, Margherita Buy, Giuseppe Dipasquale, Donatella Finocchiaro, Lorenza Indovina, Marco Presta, Enrico Protti, Sergio Rubini, Francesco Siciliano, Massimo Venturiello
musiche di e con Roberto Fabbriciani
a cura del Comitato Camilleri 100, del Fondo Andrea Camilleri e del Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Molto tempo prima di diventare il popolare scrittore tradotto in oltre 40 lingue in tutto il mondo Andrea Camilleri fu allievo di regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Le sue prime esperienze di studente fuorisede sono puntualmente narrate nelle lettere che, fin dal 1949, inviava alla sua famiglia, ora raccolte nel volume edito da Sellerio Vi scriverò ancora curato da Salvatore Silvano Nigro che lo ritrae come «un moderno Robinson Crusoe che di continuo deve inventarsi un alloggio sempre provvisorio, le suppellettili necessarie, tutti i gesti della giornata tra il lavaggio della biancheria e la ricerca di un ristorantino alla portata delle sue tasche semivuote. C’è qualcosa di picaresco nella narrazione epistolare, spesso autoironica e spettacolare: anche nel caso di quel convulso correre, qua e là, senza sosta, alla ricerca di un lavoretto. E intanto Camilleri studia, studia, studia». Fino a diventare egli stesso docente di regia e recitazione in Accademia ove ebbe innumerevoli allievi alcuni dei quali, al Teatro Argentina, lo racconteranno tramite quelle lettere che narrano le stesse picaresche avventure da loro vissute. Qui per tutte le informazioni.