Quinto e ultimo titolo operistico a debuttare nel cartellone del 102° Opera Festival, Rigoletto va alla conquista del palcoscenico areniano da venerdì 8 agosto. Per Verdi, il capolavoro più coraggioso e controverso, “la sua opera migliore” come ebbe a dire egli stesso. A otto anni dall’ultima ripresa, torna l’allestimento storico con grandi tele dipinte ispirate ai bozzetti di Ettore Fagiuoli, primo scenografo areniano. Repliche il 22 e il 30 agosto, e il 6 settembre, serata finale del Festival.
L’8 agosto protagonista d’eccezione è Ludovic Tézier, accanto a lui fa il suo debutto in Anfiteatro il samoano Pene Pati, come Duca di Mantova, Nina Minasyan, già applaudita Violetta nel 2022, torna in Arena come Gilda. Sparafucile è il basso Gianluca Buratto, la sorella Maddalena è Martina Belli, mezzosoprano all’esordio areniano. Dopo la prima dell’8 agosto, grandi artisti sono attesi anche in ognuna delle tre repliche: ancora Amartuvshin Enkhbat (il 22 agosto), poi Luca Salsi (il 30 agosto) e Youngjun Park (il 6 settembre, per la prima volta in Arena nel ruolo del titolo); come Duca, Pene Pati è titolare per le prime tre recite, quindi tocca a Galeano Salas (il 6 settembre). Per un’unica data Rosa Feola è Gilda (il 22 agosto) mentre Erin Morley fa il suo esordio areniano in scena per le ultime due rappresentazioni. Completano il cast interpreti apprezzati nelle ultime stagioni veronesi, come Agostina Smimmero, Francesca Maionchi, Elisabetta Zizzo, Matteo Macchioni, Nicolò Ceriani, Abramo Rosalen, Hidenori Inoue, Ramaz Chikviladze. Il Coro maschile (unica occasione nell’intero corpus verdiano) è preparato da Roberto Gabbiani, diretto con l’Orchestra di Fondazione Arena dal giovane Maestro Michele Spotti.
Le maestranze tecniche areniane riprendono l’allestimento scenico con cui Fondazione Arena ricreò il primo Rigoletto sotto le stelle, 98 anni fa, con la firma dell’architetto Ettore Fagiuoli: grandi scene dipinte da Raffaele Del Savio secondo la più nobile tradizione dell’opera italiana, che rappresentano scorci della Mantova gonzaghesca, le sponde del Mincio dal Castello di San Giorgio alla rocca oggi attribuita a Sparafucile, e le stanze affrescate di Palazzo Te fedelmente riprodotte grazie alla collaborazione con i Musei Civici di Mantova. I costumi storici sontuosi e le luci di Claudio Schmid completano il disegno registico di Ivo Guerra.
Roma, Teatro dell’Opera, Stagione 2024/2025
“BAUSCH / BÉJART / WHEELDON”
Within the Golden Hour
Coreografia Christopher Wheeldon
Musica Ezio Bosso, Antonio Vivaldi
Musiche su base registrata dall’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Carlo Donadio
Violino solista Vincenzo Bolognese
Viola solista Koram Jablonko
Costumi Anna Biagiotti
Luci Peter Mumford
Riprese da Stefano Laselva
Interpreti Federica Maine e Alessio Rezza (Waltz), Alessandra Amato e Walter Maimone (Slow), Sara Loro e Michele Satriano (Vivaldi), Simone Agrò e Giacomo Castellana (Duetto maschile)
Bolero
Coreografia Maurice Béjart
Ripresa da Piotr Nardelli
Musica Maurice Ravel
Luci Stefano Laselva
Artista ospite Friedemann Vogel
Solisti Michele Satriano, Giacomo Castellana, Simone Agrò, Walter Maimone
Le Sacre du Printemps
Coreografia e regia Pina Bausch
Musica Igor Stravinskij
Scene e Costumi Rolf Borzik
Direzione artistica Clémentine Deluy, Jorge Puerta Armenta
Direzione prove Eleonora Abbagnato, Damiano Ottavio Bigi, Tsai-Chin Yu
Adattamento scenografico Gerburg Stoffel, Martin Winterscheidt
Adattamento costumi Petra Leidner
Adattamento luci Fernando Jacon
Pina Bausch Foundation Gesa Linnéa Jacon
Coproduzione Teatro dell’Opera di Roma e Pina Bausch Foundation
Eletta Rebecca Bianchi
Orchestra, Étoiles, Primi ballerini, Solisti e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, Terme di Caracalla, 31 luglio 2025
Non solo uno spettacolo quello a cui abbiamo assistito a fine luglio alle Terme di Caracalla. Dopo il lungo lavoro di perfezionamento tecnico, di confronto con i grandi lavori del repertorio classico e contemporaneo, la compagnia di balletto del Teatro dell’Opera di Roma guidata da Eleonora Abbagnato era pronta per un salto di qualità. E lo si è ampiamente visto durante tutto lo svolgimento della serata. Ad apertura Within the Golden Hour, una serie di piccoli schizzi dipinti sulla musica di Ezio Bosso e di Antonio Vivaldi dal coreografo britannico Christopher Wheeldon. L’ispirazione principale è l’ora dorata, quella di passaggio tra il giorno e la sera, quando l’orizzonte si illumina di rosso. A Caracalla, naturalmente, il gioco di luci è meno percepibile di quanto lo si era notato a teatro nel settembre 2023. Tra le rovine romane a luccicare sono principalmente i colori della musica, le paillettes dei vestiti, nonché quell’etereo fluire di passi, che si presentano come attimi di fugace desiderio, di sprofondamento e risalita nelle curve del corpo e dell’anima, che ricordano al tempo stesso la fuggevolezza e l’eternità della vita. Ben diverso è il clima rovente del Bolero di Béjart, che dal 1951 rende memorabile la partitura di Ravel originariamente concepita per Ida Rubinštejn. Qui l’amore è desiderio, seduzione, ma anche e soprattutto raffinata sensualità che porta alla passione e al possesso. Su un tavolo rosso si impone l’elegante maschilità dell’artista ospite Friedemann Vogel, che nel gioco di luci iniziale svela il movimento delle mani sul petto, per poi donarsi al movimento ritmico scandito dai pliés e dai particolari port de bras, fino ad arrivare allo slancio, a voli d’uccello, al metaforismo di una corrida. I figuranti sullo sfondo intensificano l’atmosfera, mentre i solisti fanno da cornice e contrappunto, guidandoci verso una dimensione pervasiva che dall’estetica arriva a risvegliare i sensi, lasciandoci travolti da quanto ammirato in scena. Ma poi bisogna ricordare che la danza è anche teatro, che come diceva Pina Bausch l’importante non è come si muovono i danzatori, ma cosa li muove nel profondo. Ed è tutto lì l’incontro con la grande coreografa polacco-tedesca, erede della danza d’espressione tedesca, di Laban e di Kurt Joss. Nei suoi stücke ella era solita presentare tra i corpi dei danzatori, elementi naturali quali l’acqua o i fiori, canzoni e musiche evocative, urla e gesti, tutto il variopinto mondo dei sentimenti umani che accompagnano lungo la vita. Il suo era un teatro dei sentimenti, un teatro vissuto e sentito, dove a fuoriuscire era una profonda autenticità e verità. Eleonora Abbagnato lo comprende bene. Del resto, la rielaborazione bauschiana del Sacre du printemps di Stravinskij dopo la prima a Wuppertal nel 1975 è entrato anche nel repertorio del Balletto dell’Opéra di Parigi, con riprese per numerose stagioni. Il progetto di ripresa a Roma ha visto dunque la direzione artistica di Clémentine Deluy e Jorge Puerta Armenta, ma poi insieme con Damiano Ottavio Bigi e Tsai-Chin Yu è stata la stessa Abbagnato a dirigere le prove. Come nella versione di Vaclav Nižinskij del 1913, la dimensione rituale è ben presente. La si riscontra nello stesso spargimento di terra sulla scena durante l’intervallo, così come nei cerchi quasi magici formati dai danzatori nella coreografia. Ma Pina non parla della Russia pagana, parla dei conflitti sociali tra uomini e donne che dall’antichità dei tempi si sono rinnovati fino ai nostri giorni. In scena è il sudore, la lotta, la paura, l’orrore. Un vestito rosso guida l’azione scenica. Su di esso ci si stende per prefigurare la fine, chi lo avrà sarà destinato alla morte. E allora si cerca di divincolarsi come fanno a più riprese le donne, una alla volta, cercando di scampare alla tragedia. Prevale però la predestinazione, la scelta ricade sull’Eletta, chiamata a sacrificarsi per rigenerare la terra. Rebecca Bianchi rivela tutta la sua potenza scenica. Non è più la danzatrice lirica cui siamo abituati, ma una danzatrice attrice capace di portare su di sé tutto il carico dei gesti che animano questa lotta all’ultimo sangue. Con la sua danza viscerale, amplificata dal corpo di ballo, ella richiama il pubblico verso un risveglio delle coscienze. Il teatro non è qui una piacevole visione. Tra i corpi svelati dagli abiti leggeri, ricoperti di terra e di sudore, si apre una diversa concezione del ruolo dello spettatore, che non può solo comodamente assistere ad un bello spettacolo, ma deve domandarsi come può reagire alla visione di ciò che lo inquieta, lo turba, lo rende finalmente scomodo, lacerandone la tranquillità interiore. Foto Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma
Torna Artitude, il festival organizzato da ThroughArt che ogni anno trasforma la Valle d’Aosta in uno spazio aperto di creazione artistica, riflessione collettiva e trasformazione personale. Per la sua quinta edizione, Artitude sceglie un unico luogo – Saint-Nicolas – e un tema potente che attraversa ogni esperienza umana: le transizioni. Passaggi di fasi di vita, trasformazioni visibili e invisibili, soglie che attraversano la vita di tutti noi. “Artitude è uno spazio di incontro, un laboratorio collettivo di immaginazione e possibilità”, racconta Giorgia Madonno, fondatrice di ThroughArt. “Questa edizione esplora le transizioni, quei momenti di passaggio che segnano le nostre vite personali e collettive e che possono diventare occasioni di trasformazione”. Le transizioni non sono solo eventi esterni, ma processi interiori di cambiamento e ridefinizione. Si passa dalla chiusura di una fase che è giunta al suo termine, all’incertezza di una “zona neutra” faticosa ma ricca di nuove possibilità e apprendimenti, fino all’inizio di una nuova fase. Artitude 2025 invita il pubblico a esplorare il senso del cambiamento come chiave per leggere il presente e guardare al futuro e come profondo attivatore di evoluzione personale.
Artitude 2025 si articola in 5 giornate di esperienze immersive, tra arte visiva, laboratori, performance e dialoghi interdisciplinari.
Vi rimandiamo al sito per tutti gli appuntamenti in dettaglio
Ultima, in ordine di tempo, delle Cantate per la settima domenica dopo la Trinità è Es wartet alles auf dich BWV 187 eseguita per la prima volta a Lipsia il 4 agosto 1724 e poi ampiamente sfruttata nella Messa in sol Minore BWV 235 (su 6 numeri di quella Messa, ben 4 sono parodie di altrettanti numeri di questa Cantata). Una citazione vecchio testamentario apre la partitura che è certamente una tra le più notevoli dell’immenso panorama vocale bachiano. Essa è tratta dal salmo 104 (vers.27-28). “Tutti quanti sperano in te perché tu dia loro il cibo a suo tempo. Tu lo dai loro ed essi lo raccolgono”. I 2 versetti preceduti da un’ampia introduzione strumentale, vengono organizzati su una struttura tripartita, ABC, dove A equivale al primo versetto, sviluppato come un brano polifonico, con imitazioni canoniche. La sezione B riporta il secondo versetto in forma di “fuga”. La C riprende in forma accorciata la sezione strumentale introduttiva che però è distribuita su entrambi i versetti. La pagina iniziale con la citazione del Salmo è direttamente collegata al nr.4 (aria del basso) con la citazione dei versetti 31-32 dal discorso della montagna nel Vangelo di Matteo (cap.6): “Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.” È dunque la “vox Christi”, il basso, a pronunciare le parole con le quali si invita il fedele ad abbandonarsi alla Provvidenza. Carattere concertante hanno le altre 2 arie: la nr.3 (cantata dal contralto) ha delle movenze di danza in 3/8, l’altra la nr.5 una pagina per soprano con oboe concertante, in forma bipartita, da un adagio in 4/4 di incantevole trasparenza si passa a un movimento “poco allegro”, nettamente contrastante chiuso da una breve ripresa dell’Adagio. Chiudono la Cantata le strofe 4 e 6 del Corale “Singen wir aus Herzensgrund” di Hans Vogel (?-1565)
Parte prima
Nr.1 – Coro
Tutti aspettano da te che tu dia loro
il cibo in tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono,
apri la mano, si saziano di beni.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Quante creature contiene
il vasto globo del mondo!
Guarda le montagne che si contano a migliaia;
non generano le acque?
Torrenti e laghi brulicano.
Vasti stormi di uccelli
volano nell’aria sui campi.
Chi nutre una tale moltitudine
e chi
è in grado di soddisfare i suoi bisogni?
Quale monarca può ambire a tale onore?
Tutto l’oro del mondo
può procuragli un solo pasto?
Nr.3 – Aria (Contralto)
Tu solo Signore incoroni l’anno con le tue bontà.
L’olio della benedizione
è versato lungo i tuoi passi,
è la tua grazia che produce ogni bene.
Parte seconda
Nr.4 – Aria (Basso)
Non affannatevi dunque dicendo:
Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?
Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose
si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste
infatti sa che ne avete bisogno.
Nr.5 – Aria (Soprano)
Dio si prende cura di ogni essere vivente
che respira quaggiù.
Solo a me non darebbe
ciò che ha promesso a tutti?
Andate via, timori, la sua fedeltà
è il mio unico pensiero
ed ogni giorno si rinnova per me
attraverso i numerosi doni d’amore del Padre.
Nr.6 – Recitativo (Soprano)
Se potessi stringermi a lui con la fiducia di
un bambino ed accettare con gratitudine ciò che
mi ha destinato, non resterei mai senza aiuto
e vedrei quanto egli ha fatto per me.
Preoccuparsi non serve, è sprecata la pena
che il cuore disperato trae dai suoi bisogni;
Dio sempre ricco di bontà ha preso queste pene
su di sé, io so che mi ha riservato la mia parte.
Nr.7 – Corale
Dio ha creato la terra
e non le farà mancare il suo nutrimento;
ha fatto montagne e umide valli
la cui erba possa ingrassare il bestiame;
dalla terra, il pane ed il vino
ha creato e donato in abbondanza,
affinché gli uomini possano vivere.
Lo ringraziamo profondamente e lo preghiamo
di donarci l’intelligenza dello spirito
per poterlo comprendere sempre meglio,
seguendo i suoi comandamenti,
per rendere grande il suo nome
senza sosta in Cristo:
allora cantiamo giustamente “Gratias”.
Traduzione Emanuele Antonacci
Johann Sebastian Bach (1685—1750): Das Wohltemperierte Klavier, Buch I, Das Wohltemperierte Klavier, Buch II. Masato Suzuki (Clavicembalo). Registrazione: 8—11 Ottobre 2021 at the Toppan Hall, Tokyo, Japan. T. Time: 53′ 58″ (CD 1) e 56′ 31″ (CD 2). 2 CD BIS Records BIS-2621
Johann Sebastian Bach (1685—1750): The Well-Tempered Clavier, Book I The Well-Tempered Clavier, Book I I. Aaron Pilsan (pianoforte). Registrazione: giugno 2020 presso la Deutschlandfunk Kammermusiksaal, Colonia, Germania. T. Time: 51′ 21″ (CD 1) e 55′ 14″ (CD 2). 2 CD ALPHA 669
Alzi la mano chi tra i pianisti non ha studiato un buon numero di preludi e fughe dei due volumi del Clavicembalo ben temperato di Bach! Definita da Hans von Bülow il “Vecchio testamento dei pianisti” e da Robert Schumann il “pane quotidiano dei pianisti”, quest’opera monumentale costituisce uno dei capisaldi del repertorio per strumenti a tastiera, perché, se è innegabile che oggi i suoi preludi e fughe sono eseguiti prevalentemente sul pianoforte, è vero anche che Bach non li aveva concepiti per questo strumento. In questa recensione si renderà conto di due proposte discografiche dei due volumi che differiscono appunto per il diverso strumento su cui questi preludi e fughe vengono eseguiti: il clavicembalo, loro destinazione originaria, e il pianoforte. Ad eseguirli al cembalo, nella proposta dell’etichetta BIS Records, è Masato Suzuki la quale si accosta in modo storicamente informato a questi gioielli che, grazie al suono del clavicembalo, strumento per il quale sono stati concepiti, risplendono nella loro bellezza originaria. Si tratta di un’ottima produzione che, se non aggiunge molto alla pur vasta discografia di quest’opera, propone all’ascolto un’esecuzione corrette e di buon livello.
Meno interessante per un amante delle tastiere storiche, come lo scrivente, è, invece, la proposta discografica dell’etichetta ALPHA, che vede come protagonista al pianoforte Aaron Pilsan, non tanto per la bravura dello strumentista che sfoggia una solida tecnica ed esegue in modo impeccabile questi capolavori bachiani, quanto per lo strumento utilizzato che, comunque, allontana da un vero e concreto approccio storico a questo repertorio. L’ascolto dei due album, però, appare interessante e potrebbe sostituire, con un ascolto sulla poltrona di casa, certe esecuzioni integrali sui due strumenti che spesso sono state proposte dagli enti concertistici.
Sorengo (Ticino – CH), Al Chiosetto, XXIX Festival Ticino Musica
“IL CAMPANELLO”
Opera buffa in un atto su libretto e musica di Gaetano Donizetti
Serafina JOHANNA NÉMETH-NAGY
Don Annibale ALFONSO MICHELE CIULLA
Enrico LEONARDO CREMONA
Mamma Rosa MASSIMILIANO ZAMPETTI
Spiridone GIULIA BONUCCELLI
Ensemble Musicale e Coro Ticino Musica
Direttore Matteo Castelli
Regia e Testi Daniele Piscopo
Scene Matilde Folli
Costumi Giulia Bonuccelli
Luci Erez Abramovich
Nuova produzione Festival Ticino Musica
Sorengo, 27 luglio 2025
Anche quest’anno si rinnova l’Opera Studio Internazionale “Silvio Varviso” del Festival Ticino Musica, corposa serie di incontri musicali che anima ogni anno di più il cantone svizzero di lingua italiana. L’Opera Studio è senz’altro il fiore all’occhiello della manifestazione, che ogni anno viene riproposta in luoghi più classici, come in altri più insoliti: la intercettiamo quest’anno al Chiosetto di Sorengo, una location all’aperto, suggestiva e raccolta allo stesso tempo. Il titolo portato in scena è un atto unico buffo di Donizetti “Il campanello”, che ha avuto una certa fortuna nei decenni: la scelta della versione è, tuttavia, singolare, giacché si è preferito tornare alla versione farsesca coi dialoghi ad alternarsi ai numeri musicali, al posto di ricorrere a quella interamente cantata. I testi dei dialoghi, curati dal regista Daniele Piscopo, sono divertenti e rutilanti, rifacendosi al dialetto napoletano che contraddistingueva anche quelli originali, e vede soprattutto negli attori Massimiliano Zampetti (Mamma Rosa) e Giulia Bonuccelli (Spiridone) degli interpreti efficaci – senza comunque nulla togliere al resto del cast, scenicamente molto coinvolto. A supporto degli attori c’è anche il coro, che, per quanto di esigue dimensioni (soli sei interpreti), riempie la scena con le sue danze, i mimi, le intenzioni di movimento che imprimono chiaramente e costantemente, sia quando cantano che quando si limitano a recitare silenziosamente. Se i costumi (a cura della stessa Bonuccelli) aderiscono in pieno all’idea di “napoletanità” voluta dal regista (e allora ecco con un coro di Pulcinelle, un Don Annibale adornato di limoni di Sorrento e una Serafina che pare la Madonna di Pompei), forse unica nota un poco stonata sono le scene, molto minimali e moderne, con l’uso – onestamente di difficile comprensibilità – di bottiglie di plastica di riciclo come filo conduttore delle varie parti che compongono la scena. La regia di Piscopo è sempre estremamente orientata all’azione, e questa tendenza ben si accorda alla natura buffa dell’opera: non v’è un attimo di tregua per chi è in scena, né per lo spettatore, trascinato fra un siparietto comico talora cantato, talora recitato, in un turbinio di cambi, travestimenti, oggetti, mossettine, eccetera. Certo, c’è anche la musica, e i tre interpreti cantanti di questa sera (che si alternano agli altri selezionati dall’Opera Studio Julianna Collevecchio, Ranyi Jiang e Vittorio Del Monte) se la cavano piuttosto bene: Johanna Németh-Nagy è un po’ “sprecata” in un ruolo “soubrette” come Serafina, giacché è evidente che la voce mostri un corpo e una ricchezza di chiara predisposizione da soprano lirico; Alfonso Michele Ciulla (Don Annibale) è baritono che unisce a una verve buffa una omogena emissione e una linea di canto sempre elegante; il giovane Leonardo Cremona, che si spende nel non semplice ruolo di Enrico, ha, invece, forse deve ancora perfezionare il controllo del fiato e la proiezione del suono: il colore vocale interessante, ma onestamente non sapremmo dire se nel contesto di una sala teatrale potrebbe ottenere gli stessi comunque buoni risultati che consegue in uno spazio raccolto (per quanto all’aperto) come il Chiosetto di Sorengo. L’Ensemble Ticino Musica pare un po’ soffrire la posizione dietro la scena – giacché lo spazio scenico è previsto a 180°, circondata dal pubblico su tre lati – ma proprio per questo ne apprezziamo la coesione interna; la direzione del Maestro Matteo Castelli, invece, ha un che di confuso, impegnato su due fronti, talvolta non riesce a tenere le redini di entrambi – probabilmente gli sarebbe più congeniale un’impostazione più classica. Infine il coro, che avremmo preferito più sonoro, proprio perché composto da soli sei elementi. Insomma, la serata si è rivelata divertente e godibile, grazie a una regia brillante e a degli interpreti di livello, ma non siamo del tutto certi che per delle formazioni musicali giovani ed esigue questo tipo di impostazione possa risultare il migliore. Attendiamo con curiosità già da ora quello che ci aspetterà l’anno prossimo, per il trentennale del Festival. Foto Sidorela Cuedari ©️ticinomusica
Tagliacozzo (AQ), Palazzo Ducale
CONTEMPORANEA 25: ARCHIVI DELLA MEMORIA SOSPESA
a cura di Cesare Biasini Selvaggi
Si ha spesso l’impressione che le mostre d’arte contemporanea tendano a reiterare le stesse formule: un tema forte, due o tre artisti dissimili, una sede suggestiva e un lessico critico imbastito su parole ormai opache. Tuttavia, quando un’esposizione riesce a rimettere in discussione i propri presupposti e a produrre conoscenza reale, allora vale la pena soffermarsi. Questo avviene, con rara coerenza, a Tagliacozzo, dove il Palazzo ducale Orsini-Colonna ospita, dal 3 agosto al 21 settembre 2025, la dodicesima edizione di “Contemporanea”, intitolata quest’anno “Archivi della memoria sospesa“. La formula, sulla carta, è semplice: due personali, quella della pittrice abruzzese Concetta Baldassarre (1924-1981) e della fotografa anglo-indiana Annu Palakunnathu Matthew (1964), poste in dialogo sulla questione della memoria storica. Ma ciò che rende questa mostra degna di attenzione è la radicalità con cui entrambe le artiste affrontano non tanto la memoria in sé, quanto la sua rimozione e le sue scorie. Concetta Baldassarre, allieva di Toti Scialoja e vicina a figure come Bice Lazzari e Piero Dorazio, rappresenta il caso, raro e emblematico, di un’artista rimasta ai margini non per assenza di qualità, ma per un’eccessiva discrezione. La retrospettiva a lei dedicata, “Il ritratto svelato di una vita nell’arte“, offre oltre sessanta opere tra dipinti, disegni e arte applicata. Emerge qui una pittura che non ha mai cercato il clamore, ma ha saputo mantenere un rigore e una coerenza interna notevoli: dal figurativo postbellico, sobrio ma mai accademico, all’astrazione lirica degli anni Settanta, la Baldassarre si mostra come una delle rare pittrici italiane del secondo Novecento capaci di pensare il quadro come luogo di pensiero e non come superficie espressiva. La mostra, organizzata in collaborazione con l’Archivio Concetta Baldassarre e con i figli dell’artista, ha il merito di restituire una figura non certo da riscoprire per moda o quota rosa, ma per reale interesse storico-artistico. La sua vicenda si inserisce in quella linea laterale della pittura italiana che non ha avuto scuola, ma ha fatto scuola: una linea fatta di individualità inattuali, di presenze che tornano quando lo sguardo critico si affina. Il lavoro di Annu Palakunnathu Matthew, invece, ha tutt’altra genealogia e intenzione. La sua mostra “Storie nascoste. Gli italiani d’Abruzzo e i soldati indiani nella Seconda guerra mondiale” affronta un episodio marginale ma emblematico: l’internamento dei soldati indiani nel campo di Avezzano e l’accoglienza loro riservata da alcune famiglie locali. È una storia che non trova spazio nei manuali, ma che qui viene ricostruita con rigore filologico e tensione visiva. Matthew usa la fotografia e l’installazione come strumenti per rivelare l’invisibile. Le sue immagini non si limitano a documentare: pongono domande. Non c’è estetismo né retorica, ma una ricerca sullo statuto dell’immagine come residuo, come traccia materiale di un racconto che si è tentato di cancellare. Le proiezioni, i ritratti, le voci che animano l’installazione restituiscono dignità a soggetti mai nominati, mai inclusi nel canone della memoria pubblica. Ciò che unisce le due mostre è la capacità di non cedere alle scorciatoie del discorso artistico contemporaneo. Non c’è estetizzazione della testimonianza, né patetismo dell’intimità. In entrambi i casi, il lavoro artistico è un processo di sottrazione, di scavo, di confronto con ciò che resiste all’oblio. La curatela di Cesare Biasini Selvaggi si distingue per sobrietà e precisione: non impone una lettura univoca, ma lascia emergere le opere secondo il loro passo. Nessun allestimento urlato, nessuna pretesa teorica ridondante: solo il desiderio di mettere in relazione linguaggi, storie e sguardi che, pur distanti, trovano nella memoria un terreno comune. In tempi in cui l’arte sembra spesso funzionale alla comunicazione e alla celebrazione, “Contemporanea 25” rappresenta un raro esempio di mostra che torna a pensare. E a far pensare. Non perché vi sia una tesi da dimostrare, ma perché vi è un silenzio da ascoltare. Ed è in quel silenzio che l’arte, se ancora ne è capace, può dire qualcosa.
Roma, Caracalla Festival 2025
CARMINA BURANA
di Carl Orff
Il capolavoro sinfonico-corale nella stagione del Teatro dell’Opera di Roma
Il Teatro dell’Opera di Roma propone una serata di grande impatto emotivo e musicale con Carmina Burana di Carl Orff, uno dei capolavori assoluti del repertorio sinfonico-corale del XX secolo. Composta nel 1935 e ispirata a un celebre manoscritto medievale ritrovato a Benediktbeuern, l’opera è un inno alla vita, all’amore, al destino e al piacere sensuale, costruita su un’architettura musicale travolgente e ipnotica. A dirigere l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma sarà Diego Matheuz, tra i più brillanti direttori della sua generazione, capace di coniugare precisione ritmica e potenza espressiva, restituendo tutta la forza percussiva e rituale della partitura orffiana. Il Maestro del Coro è Ciro Visco, presenza autorevole e apprezzata nella programmazione romana. Tre voci di grande prestigio interpreteranno le parti solistiche: il soprano Giuliana Gianfaldoni, celebre per la limpidezza e l’intensità del suo timbro; il tenore Levy Sekgapane, tra le voci più affascinanti del repertorio belcantista internazionale; e il baritono Vito Priante, interprete di raffinata musicalità e potente carisma scenico. Opera concertante che sfida la categorizzazione, Carmina Burana è costruita su un ciclo di testi in latino medievale, alto tedesco e francese antico, selezionati da Orff per la loro forza visionaria, a tratti pagana e provocatoria. Dalla celebre invocazione iniziale e finale “O Fortuna” al lirismo di “In trutina”, passando per le danze, i cori beffardi, le evocazioni primaverili e le invettive amorose, l’opera si impone come un rito collettivo, teatrale e ancestrale. Nel cuore della stagione musicale del Teatro dell’Opera di Roma, questa esecuzione rappresenta non solo un vertice interpretativo ma anche un’occasione per immergersi in un’esperienza sensoriale potente e universale, dove musica e parola si fondono in un’esplosione di energia primordiale. Qui per tutte le informazioni.
Venerdì 1 agosto
Ore 17.25
“DON GIOVANNI”
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Stefano Montanari
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti: Carlos Álvarez, Rafal Siwek, Irina Lungu, Saimir Pirgu, Maria Josè Siri, Alex Esposito, Christian Senn, Natalia Roman
Verona, 2015
Sabato 2 agosto
ore 10.00
“LA FORZA DEL DESTINO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Muti
Regia Hugo de Ana
Interpreti: José Cura, Georgina Lukacs, Leo Nucci, Luciana D’Intino, Giacomo Prestia, Roberto De Candia.
Milano, 1999
Ore 23.50
“IL PICCOLO MARAT”
Musica Pietro Mascagni
Direttore Mario Menicagli
Regia Sarah Schinasi
Interpreti: Andrea Silvestrelli, Valentina Boi, Samuele Simoncini, Silvia Pantani…
Livorno, 2021
Domenica 3 agosto / Sabato 9 agosto
Ore 10.00
“NORMA”
Musica Vincenzo Bellini
Direttore Paolo Arrivabeni
Regia Massimo Gasparon
Interpreti: Dimitra Theodossiou, Carlo Ventre, Daniela Barcellona, Simon Orfila…
Macerata, 2007
Martedì 5 agosto
RAI 3 – Ore 21.15
“AIDA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Marco Armiliato
Regia Stefano Poda
Interpreti: Anna Netrebko, Olesya Petrova, Yusif Eyvazov, Roman Burdenko, Michele Pertusi….
Verona, 2023
Mercoledì 6 agosto
Ore 18.15
“ELEKTRA”
Musica Richard Strauss
Direttore Franz Welser-Möst
Regia Krzysztof Warlikowski
Interpreti. Ausrine Stundyte, Asmik Grigorian, Tanja Ariane Baumgartner, Derek Welton, Michael Laurenz.
Salisburgo, 2020
Giovedì 7 agosto
Ore 23.45
“BIANCA E FALLIERO”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Roberto Abbado
Regia Jean Louis Grinda
Interpreti: Jessica Pratt. Aya Wakizono, Dmitry Korchav, Giorgi Manoshvili…
Pesaro, 2024
Tutto è pronto per uno degli appuntamenti più attesi di CortinAteatro, la stagione concertistica e teatrale ampezzana promossa e sostenuta dal Comune di Cortina d’Ampezzo, ideata e coordinata dall’associazione Musincantus: fiore all’occhiello del cartellone, che si svilupperà non stop fino a novembre garantendo un’offerta continuativa di musica e cultura e un ricco ventaglio di ospiti, esperienze, performance e successi fino alle porte dell’anno olimpico 2026, è l’opera. Il titolo del 2025 è “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni, una produzione di CortinAteatro con la regia di Bepi Morassi e la direzione di Alberto Zanardi, in sinergia con l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia. L’ opera verista andrà in scena sabato 2 agosto alle 20.45 all’Alexander Girardi Hall di Cortina d’Ampezzo, location che detiene un curioso primato: è il teatro più ad alta quota d’Italia a portare in scena l’opera. Saranno in scena il soprano Caterina Meldolesi nel ruolo di Santuzza, il mezzosoprano Liliia Kolosova in quello di Lola, il tenore Max Jota in quello di Turiddu, mentre il baritono Luca Bruno sarà Alfio e il mezzosoprano Eleonora Filipponi vestirà i panni di Mamma Lucia. La parte musicale sarà affidata all’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, diretta da Francesco Rosa e affiancata dal coro Kairos Vox diretto da Alberto Pelosin.
Martina Franca, 51° Festival della Valle d’Itria, Cortile del Palazzo Ducale
“TANCREDI”
Melodramma eroico in due atti su libretto di Gaetano Rossi
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica a cura di Philip Gossett della Fondazione Rossini di Pesaro (Casa Ricordi) Esecuzione con il finale della prima versione per il Teatro La Fenice di Venezia (6 febbraio 1813) e a seguire della versione per il Teatro Comunale di Ferrara (21 marzo 1813)
Argirio DAVE MONACO
Tancredi YULIA VAKULA
Orbazzano ADOLFO CORRADO
Amenaide FRANCESCA PIA VITALE
Isaura HINANO YORIMITSU
Roggiero GIULIA ALLETTO
Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala
L.A. Chorus, Lucania & Apulia Chorus
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del Coro Luigi Leo
Regia Andrea Bernard
Scene Giuseppe Stellato
Costumi Ilaria Ariemme
Disegno luci Pasquale Mari
Martina Franca, 27 luglio 2025
Dopo 49 anni torna a Martina Franca il “Tancredi” di Rossi/Rossini, a inaugurare il ricco cartellone firmato dalla direttrice artistica Silvia Colasanti e dal direttore musicale Fabio Luisi. Per la 51a edizione del Festival della Valle d’Itria a tema “Guerre e pace”, si scommette, con esito positivo, su una première musicalmente impegnativa e drammaturgicamente coraggiosa. Gioachino Rossini è giovanissimo quando intona il libretto dell’abile Gaetano Rossi, in un’epoca in cui l’imperante e radicata melodrammaturgia ‘tardo-napoletana’ si ammoderna nel genere serio attraverso forme più estese ma ancora chiuse, senza dismettere la supremazia del vocalismo, declinato palesemente nel solco dell’insuperabile belcanto dei castrati. Nel Tancredi del 1813, Rossini affida al contralto il ruolo eponimo e vincola tutto il cast a stilemi ben collaudati, inserendo comunque elementi di novità nella scrittura orchestrale, nella presenza forte del coro, nell’impegno di aderenza musicale al dramma. La presenza in molti melodrammi del cosiddetto “interregno tra Cimarosa e Rossini” di imprestiti, varianti, cambi di sezioni intere (più o meno rilevanti o estesi, di prima o di seconda mano) oggi pone ardui interrogativi al filologo che ne appronta un’edizione critica ma all’epoca rendeva ogni opera una sorpresa per lo spettatore che spesso dettava legge; ad esempio non era pronto per i finali tragici e non per caso l’epilogo funesto del Tancredi creato per la ripresa di Ferrara del marzo 1813 non fu ripreso. Pier Luigi Pizzi nelle sue regie ha invece valorizzato e replicato quel finale tragico, aderente al dramma di Voltaire, preferendolo al lieto fine. A Martina Franca sono stati proposti entrambi i finali dando luogo a una situazione d’ascolto storicamente astratta, nondimeno artisticamente ben validata dal direttore d’orchestra Sesto Quatrini e dal progetto del regista Andrea Bernard che lega i fili del dramma con lo sguardo incontaminato di un bambino (un alter-ego di Tancredi) e non nega il dolore, pur immaginando un’alternativa felice. In apertura, su uno sfondo intriso di sospensione toccante nella quale un parco-giochi si fa scenario di guerra rispecchiando le tensioni politiche e umane del dramma, la celebre Sinfonia (Ouverture) è stata interpretata con eleganza da Sesto Quatrini alla guida della perfetta Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala. A seguire, numero per numero, il pubblico ha apprezzato l’intero primo atto con i momenti significativi dei Cori (bravissimo Luigi Leo nella preparazione di un coro virile sicuro ed efficace preparato con forze vocali non perfettamente omogenee), delle cavatine di Amenaide (Francesca Pia Vitale è artista efficiente e intensa) e di Tancredi (al suo primo debutto operistico la sicurissima Yulia Vakula offre una prova eccellente), dell’aria di Argirio (Dave Monaco possiede tecnica e talento), del sublime duetto Amenaide-Tancredi, del Finale Primo (rimarchevole la presenza vocale e scenica dell’Orbazzano di Adolfo Corrado). Nell’atto secondo affascinano le arie di Argirio e di Isaura (convincente Hinano Yorimitsu), l’impegnativa cavatina di Amenaide, l’aria di Roggiero (ottima la prova di Giulia Alletto). I due duetti celebri Tancredi-Argirio e Amenaide-Tancredi sono stati eseguiti con coinvolgimento e precisione. La “Gran scena” di Tancredi e i due finali, pagine infallibili della più geniale inventiva rossiniana, hanno convinto il pubblico che, ben dopo la mezzanotte, ha riservato applausi calorosi a tutti gli artisti. Ottima l’occasione di approfondimento offerta, prima dell’opera, il 26 luglio, dal Concerto del Sorbetto, durante il quale si sono esibiti i bravi cantanti dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” Chiara Boccabella, Manami Maejima, Marcela Vidra, Hiano Yorimitsu, Joaquin Cangemi, Simone Fenotti accompagnati dalla pianista YingJyun Lin. In programma “L’altro Tancredi”, ossia arie alternative o sostitutive legate al “Tancredi”, inquadrate storiograficamente da Ilaria Narici, direttrice scientifica della Fondazione Rossini e attiva protagonista delle edizioni critiche rossiniane fin dal 1988, anno nel quale era già collaboratrice del compianto Philip Gossett, autore della edizione critica usata per il “Tancredi” di questo 51° Festival della Valle d’Itria. Foto Clarissa Lapolla
Roma, Teatro Vascello
RAINBOW vince il ROMA FRINGE FESTIVAL 2025
Roma, 28 luglio 2025
Rainbow illumina il Roma Fringe Festival 2025 senza fare rumore, con la naturalezza delle cose inevitabili. Francesco Rivieccio, autore e interprete, porta in scena una storia che non ha bisogno di effetti: poche parole, pochi gesti, e quel silenzio denso che il teatro vero conosce bene. È il racconto di una famiglia, ma anche di una guerra che sembra non avere confini né ragioni. Una guerra che non appartiene ai manuali di storia, ma a quella zona sospesa in cui ci si accorge di combattere senza sapere perché. La giuria lo ha detto chiaramente: “Sembra un verso di De André”. E in effetti, guardando Rainbow, si ha la sensazione di ascoltare una ballata muta, dove i fatti non spiegano nulla ma lasciano intravedere tutto. Con questo linguaggio essenziale e preciso, Rivieccio si è aggiudicato il titolo di Miglior Spettacolo del Roma Fringe Festival 2025, conquistando la giuria all’unanimità. La compagnia porterà ora Rainbow in tournée per dodici repliche nella stagione 2025/2026 nei teatri del circuito Zona Indipendente, trasformando una vittoria in un viaggio. Ma il trionfo non si ferma qui: lo spettacolo ha ricevuto anche il Premio della Critica per «la capacità di comporre, con pochi segni scenici, un’affabulazione densa e misurata» e il Premio Alessandro Fersen, che celebra le opere capaci di guardare oltre il teatro stesso. Intorno a questo successo, il Fringe ha distribuito altri riconoscimenti che fotografano la varietà e l’audacia della scena indipendente: Miglior Regia a Tanto Ormai di Adriano Gardumi, Miglior Drammaturgia a Cawboys, Miglior Attrice a Manuela Fischietti, Miglior Attore a Vincenzo Ricca, Premio Speciale Off a Ludopazza, Premio Spirito Fringe ad Azione Immediata. Premi che più che classifiche somigliano a coordinate di una mappa in continuo movimento. A scegliere Rainbow è stata una giuria di spessore: Manuela Kustermann, Raffaella Azim, Pierpaolo Sepe, Giancarlo Fares, Valentino Orfeo e Pasquale Pesce per la Fondazione Alessandro Fersen. Per il Premio della Critica, invece, hanno deciso Katia Ippaso, Letizia Bernazza e Laura Novelli, tre sguardi che hanno riconosciuto nella semplicità dello spettacolo una densità rara. E poi c’è il contesto. Il Roma Fringe Festival, nato nel 2012 e diretto da Fabio Galadini, resta un festival che vive senza finanziamenti pubblici, sostenuto solo dalla fiducia ostinata di chi pensa che il teatro non debba essere un ornamento, ma una necessità. Galadini lo ha detto con parole semplici e dirette: «Sono sinceramente soddisfatto del livello altissimo di questa edizione. Il Fringe resta libero, radicale, vitale». In tempi in cui tutto sembra richiedere un ritorno immediato, il Fringe resiste come un gesto di lentezza e urgenza insieme. Così, mentre cala il sipario su questa edizione, Rainbow non è soltanto il titolo di uno spettacolo vincitore. È il segno di un teatro che non pretende di spiegare il mondo, ma sa restituirlo nella sua disarmante verità. E forse è per questo che, alla fine, si esce dal Vascello senza applausi fragorosi nella testa, ma con la sensazione sottile che qualcosa, nel silenzio, abbia cominciato a cambiare.
La 46a edizione del Rossini Opera Festival si terrà a Pesaro dal 10 al 22 agosto 2025. Saranno proposte quattro produzioni liriche. Inaugurerà il Festival un nuovo allestimento di Zelmira (titolo che mancava al ROF dal lontano 2009), diretto da Giacomo Sagripanti e messo in scena da Calixto Bieito, al debutto al Festival. Seguirà un’altra nuova produzione, L’Italiana in Algeri, affidata alla bacchetta di Dmitry Korchak e alla regia di Rosetta Cucchi. Due le riprese: La cambiale di matrimonio già vista con successo al ROF 2020 e nella successiva tournée in Oman, ideata da Laurence Dale e questa volta diretta da Christopher Franklin, nonché Il viaggio a Reims nella consueta versione ideata da Emilio Sagi, diretta da Alessandro Mazzocchetti e interpretata dagli allievi dell’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”. Nel programma concertistico sono presenti diverse rarità: le tre Cantate Il pianto di Armonia sulla morte di Orfeo, La morte di Didone e Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron saranno eseguite in prima assoluta nell’edizione critica della Fondazione Rossini; la Messa per Rossini, proposta da Giuseppe Verdi poco dopo la morte del compositore e scritta nel 1869 da autori vari (tra cui lo stesso Verdi, Lauro Rossi, Carlo Pedrotti e Carlo Coccia), che chiuderà l’edizione 2025. Le tre prime serate del Festival saranno trasmesse in diretta su RaiRadio3.
In allegato tutto il Festival in dettaglio
Johann Sebastian Bach (1685 –1750): Partita No. 6 in E minor BWV 830; Chaconne from Partita No. 2 in D minor BWV 1004; Chromatic Fantasia and Fugue in D minor BWV 903. Lea Suter (clavicordo). Registrazione: 25-27 giugno 2024 presso la Konzerthaus der Abtei Marienmünster. T. Time: 54‘02. 1 CD MDG LC 06768
“Lo strumento preferito da Bach era il clavicordo. Dei cosiddetti «Flügel» disse che, quantunque anch’essi si prestassero ad una notevole varietà di espressioni, secondo lui non avevano anima ed i fortepiani erano ai suoi tempi ancora troppo poco perfezionati e troppo pesanti per soddisfarlo completamente. Considerava perciò il clavicordo come il miglior strumento sia per lo studio, sia, in generale, per la musica in famiglia. Sul clavicordo gli riusciva più facile esprimere i suoi pensieri più delicati e non credeva di poter ottenere su un clavicembalo o un fortepiano le molteplici sfumature del suono, realizzabili invece sul clavicordo, strumento certo non molto sonoro, ma nei suoi limiti estremamente malleabile”.
Quanto affermato da Forkel, nella sua biografia di Bach realizzata grazie alla testimonianza di Carl Philipp Emanuel, mostra l’alta considerazione del compositore di Eisenach per il clavicordo, strumento particolarmente amato anche, del resto, anche dal figlio il quale nel suo Saggio di metodo per la tastiera, sentenziò: “è dunque sul clavicordo che si può meglio giudicare chi suona uno strumento a tastiera”. In base a queste considerazioni è di particolare interesse la presente proposta discografica dell’etichetta tedesca MDG che propone l’ascolto di due capolavori di Bach per strumento a tastiera (la Sesta partita in mi minore e la Fantasia e Fugue in re minor BWV 903) e uno per il violino, la famosa Ciaccona dalla Seconda partita per violino solo, che, comunque, ha avuto e ha, ancora oggi, una vita anche sugli strumenti a tastiera e, in particolar modo, sul pianoforte grazie alla celebre trascrizione di Ferruccio Busoni. In questo caso, questo brano, il cui originale caratterizzato da doppie corde si presta a un’esecuzione su uno strumento a tastiera, è eseguito sul clavicordo, strumento che, per la verità, appare forse più vicino all’intenzione originaria di Bach, in quanto capace, come il violino, non solo di tenere i suoni, ma anche di “vibrare”. Questo repertorio è magistralmente eseguito da Lea Suter la quale, su una copia di un Adlung realizzata nel 2002 da Joris Potvlieghe, sfoggia sia una solida tecnica sia un bel tocco che le permette di evidenziare bene la polifonia costitutiva di alcuni brani, come la fuga della Fantasia cromatica, e di alcuni passi, ma anche il carattere espressivo di altri più lirici, come la bellissima Sarabanda della Sesta partita.
Nel 1729, Bach assunse la direzione musicale di una serie di concerti a Lipsia noti come Collegium Musicum, un termine generico utilizzato in Germania per indicare concerti (generalmente) semiprofessionali e spesso informali, normalmente basati sulla produzione musicale degli studenti. All’epoca di Bach esistevano due organizzazioni di questo tipo, quella in cui fu coinvolto era stata fondata da Telemann nel 1702. Questi concerti prevedevano generalmente l’esecuzione di opere strumentali e (i suoi concerti per tastiera erano destinati al Collegium Musicum) e di opere vocali profane di piccole dimensioni. Per occasioni importanti venivano invece eseguite opere più ampie. A questa categoria rientra la Cantata profana n. 201 (“Rientrate, o venti turbinosi” o “Il combattimento tra Febo e Pan”) composta nello stesso anno in cui Bach assunse la direzione. Il testo, un adattamento di un episodio delle Metamorfosi di Ovidio, è di Picander, pseudonimo del poeta Christian Friedrich Henrici con il quale Bach aveva avviato un proficuo periodo di collaborazione che porterà alla produzione delle Passioni di San Matteo e San Marco, ma anche svariate cantate sacre e profane. La designazione della partitura come dramma per musica è rivelatrice, in effetti, come altre cantate profane di Bach, “Febo e Pan” potrebbe essere considerata un’opera in miniatura, la più vicina a un genere che il compositore non ha mai esplorato. La trama, probabilmente ricca di allusioni contemporanee, prevede una satira poco velata sulla scarsa qualità della musica e del canto. Febo e Pan si arrabbiano a vicenda con pretese di superiorità vocale. Il loro litigio viene interrotto da Momus (soprano), che si prende gioco di Pan. Alla fine Mercurius (contralto) propone una gara di canto, aperta da una bellissima aria per Phoebus. Pan, al contrario, si rende ridicolo grazie all’uso di cliché e di uno stile che allude alla semplice musica galante in voga all’epoca. I due giudici che hanno distaccato i concorrenti (Tmolus per Febo, Mida per Pan) si pronunciano entrambi a favore dei loro committenti. La decisione palesemente assurda di Mida gli vale un paio di orecchie d’asino (e un meraviglioso raglio nell’accompagnamento!) che si aggiungono al berretto da sciocco del suo campione. Il coro iniziale (Nr.1), con una ricca e vorticosa strumentazione vorticosa, traduce quello che esprime il testo. Il primo recitativo (Nr.2) ci mostra Febo e Pan (entrambi bassi) che discutono, mentre Momus (soprano) agisce come voce della saggezza. Momus segue con una bella ma semplice aria, accompagnata dal solo Continui, che prende in giro Pan. Mercurio (contralto) si unisce al divertimento nel recitativo successivo (Nr.4), suggerendo a Pan e Febo di scegliere un giudice e di tenere un contesto. Febo sceglie Tmolo (tenore) e Pan Mida (anch’egli tenore). Inizia la gara! Phoebus inizia con una splendida aria che elogia il “bel Giacinto”, descrive così la sublime profondità del suo animo. La replica di Pan consiste in una brillante (ma meno raffinata) aria Zu Tanze, Zu Sprunge (Nr.7) che deride “l’oscura e malinconica” musica dell’altro. Immediatamente Timolus proclama Febo vincitore: Pan ha delle belle melodie, ma che quella di Febo è “nata dalla grazia stessa” (Nr.9). L’opinione di dissenso di Mida, non suscita grandi consensi, poiché tutti gli danno subito addosso e lo puniscono con un paio d’orecchie d’asino. Mercurio conclude la gara con un’aria riflessiva (Nr.13) che ammonisce coloro che non sanno nulla a non giudicare. In quest’aria spicca l’accompagnamento di straordinaria bellezza di una coppia di flauti. Il recitativo di Momus congeda Mida con una paternalistica pacca sulle spalle e invita Febo a “riprendere in mano la lira”. La partitura si chiude con un Coro che inneggia all’arte di Apollo.
Nr.1 – Coro
Rientrate o venti turbinosi tutti insieme nelle vostre caverne! Cosicchè il canto lontano si confonda con l’eco rendendo felice il cielo.
Nr.2 – Recitativo (Bassi e Soprano)
Febo
E tu saresti così arrogante da affermare
in mia presenza che il tuo canto è più bello del mio?
Pan
Come osi farmi una tale domanda?
L’intera foresta ammira le mie melodie; il coro delle ninfe,
che usano durante le loro danze il flauto a sette canne da me
creato, non possono che confermare che Pan canta meglio
di ogni altro.
Febo
Per le ninfe tu puoi andar bene, tuttavia, se vuoi essere gradito agli dei,
il tuo flauto non basta.
Pan
Appena il mio suono riempie l’aria si muovono le montagne, gli animali ballano, le fronde oscillano e sotto le stelle inizia una danza incantevole: gli uccelli si avvicinano a me e da me vogliono imparare a cantare.
Momus
Eilà! Udite ora Pan, il grande maestro cantore!
Nr.3 – Aria (Soprano)
Amico, quello è solo il vento!
Colui che si vanta e non ne ha i mezzi, che crede vero solo quello che vede, che gli sciocchi sono saggi, che la fortuna stessa è cieca. Amico, quello è solo il vento
Nr.4 – Recitativo (Contralto, Bassi)
Mercurio
Che bisogno c’è di litigare? nessuno di voi si riterrà inferiore all’altro. dopo aver riflettuto un po’ mi sembra che dobbiate scegliere un uomo che possa dare un giudizio di voi due punto, vediamo, chi potrebbe essere?
Febo
Timolus sarà il mio giudice.
Pan
E Mida io lo sarà per me.
Mercurio
Allora venite brava gente, Ascoltate bene e giudicate chi sarà il migliore.
Nr.5 – Aria (Basso/Febo)
Con tanto desiderio io avvolgo le tue guance, gentile e bel Giacinto, e i tuoi occhi vorrei baciare poiché sono le mie stelle del mattino e il sole della mia anima.
Nr.6 – Recitativo (Soprano, Basso 1)
Momus
Pan, Prepara la tua gioia e sentiamo le tue risonanti melodie.
Pan
Farò del mio meglio per mostrarmi più splendido Di Febo.
Nr.7 – Aria (Basso 2)
Pan
È la danza e i salti che commuovono il cuore. Quando invece il canto è troppo triste e la bocca rimane stretta nel cantare, allora nessuna gioia si risveglia.
Nr.8 – Recitativo (Contralto, Tenore 1)
Mercurio
Allora giudici, il vostro parere!
Timolus
Il mio giudizio non è difficile! La verità è ovvia: nessuno tranne Febo dovrebbe vincere il premio! Pan canta per la foresta, senza dubbio piace molto alle ninfe, ma il suo flauto non potrai mai essere valutato tale da eclissare il canto di Febo.
Nr.9 – Aria (Tenore 1)
Febo, la tua melodia è nata dalla grazia in persona. E chi comprende questa arte, la meraviglia dei suoni, si perderà in estasi.
Nr.10 – Recitativo (Basso 1, Tenore 2)
Pan
Su Mida, Dimmi dunque come sono stato io!
Mida
O Pan, quanto mi hai allietato! Il tuo canto mi ha tanto impressionato che me lo ricordo dopo averlo ascoltato soltanto una volta. Andrò nella campagna ad insegnarlo agli alberi. Febo ha troppo esagerato. Solo la tua, la più bella bocca, ha cantato soavemente e senza sforzo.
Nr.11 – Aria (Tenore 2)
Pan è un maestro, ricordatelo bene!
Febo ha perso la competizione perché le mie stesse orecchie mi dicono che Pan canta con incomparabile bellezza.
Nr.12 – Recitativo (Soprano, Contralto, Tenori, Bassi)
Momus
Ma come, Mida, sei pazzo?
Mercurio
Cosa ti ha fatto perdere i sensi?
Timolus
Ho sempre pensato che tu fossi uno sciocco!
Febo
Dimmi, cosa farò di te? Ti trasformerò in un corvo oppure ti scorticherò?
Mida
Oh! Ti prego non tormentarmi, così solo perché le mie orecchie mi hanno tradito!
Febo
Allora da questo momento avrai le orecchie di un asino.
Mercurio
Questo è il premio che merita l’ambizione sciocca.
Pan
Ahimè! perché mi sono messo in questa situazione senza riflettere?
Mida
Quanto mi spiace di aver accettato questo compito.
Nr.13 – Aria (Contralto)
Chi è gonfio di orgoglio e con poco cervello finisce per sopportarne le conseguenze. Colui che non sa navigare e prende in mano il timone, annegherà nel ridicolo e nel disprezzo.
Nr.14 – Recitativo (Soprano)
Momus
Ora caro Mida torna nella tua foresta e consolati che ci sono tanti sciocchi come te. La follia e l’assurdità saranno ora i vicini della saggezza. Chi emette un giudizio senza riflettere bene appartiene alla tua classe.
Febo, prendi ancora la tua lira., niente è più bello del tuo canto!
Nr.15 – Coro
Dilettate il cuore, o corde gentili, suonate con arte e con bellezza. Siano maestri oppure principianti, persino gli dei rimarranno incantati dei dei tuoi dolci suoni.
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“ROBERTO DEVEREUX”
Tragedia lirica in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, dalla tragedia “Élisabeth d’Angleterre” di Jacques-François Ancelot
Musica di Gaetano Donizetti
Elisabetta ROBERTA MANTEGNA
Lord duca di Nottingham NICOLA ALAIMO
Sara ANNALISA STROPPA
Roberto Devereux ISMAEL JORDI
Lord Cecil ENRICO CASARI
Sir Gualtiero Raleigh MARIANO BUCCINO
Un cavaliere GIACOMO MERCALDO
Un familiare di Nottingham CIRO GIORDANO ORSINI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Riccardo Frizza
Regia Jetske Mijnssen
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Scene Ben Baur
Costumi Klaus Bruns
Luci Cor van den Brink
Drammaturgia Luc Joosten
Coproduzione del Teatro di San Carlo, Dutch National Opera, Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia
Napoli, 19 luglio 2025
Al Teatro di San Carlo, va in scena Roberto Devereux: tragedia lirica in tre atti di Gaetano Donizetti. Lo sviluppo teatrale dell’opera appare soprattutto determinato da una costruzione scenografica fortemente «moderna» – progettata da Ben Baur –, che tende a smorzare, almeno «visivamente», l’irrimediabile «tragicità» del capolavoro teatrale donizettiano. La «sala terrena nel Palagio di Westminster» assume, nell’atto primo, la forma di un’elegante camera da letto – così ironicamente «perfetta» da apparire come una particolareggiante ricostruzione scenica di una sontuosa camera d’albergo, nitidamente illuminata da Cor van den Brink. Il dramma, pertanto, vorrebbe assumere la forma di un Kammerspiel – di un «dramma da camera», cioè. Questo, almeno, nelle intenzioni della regista Jetske Mijnssen – da lei, peraltro, sottolineate in una conversazione, con Lucia Licciardi, inserita nel programma di sala. Soltanto che questa concezione soltanto vagamente «intimistica» della figura di Elisabetta I, regina d’Inghilterra – e, in generale, del Roberto Devereux –, appare come un’operazione puramente «estetica», rafforzata dalla scelta di abiti elegantissimi, disegnati da Klaus Bruns. La camera da letto, soltanto nell’atto secondo, viene sostituita da uno stanzone: vaga restituzione di un’altra sala del Palazzo; ma le pareti della camera da letto – vuota, ormai (didascalica allusione alla disperazione o alla condizione di estrema solitudine della Sovrana) – tornano, alla fine del dramma, a occupare lo spazio scenico. La drammaturgia di Luc Joosten e il disegno registico prevedono, inoltre, una «novità»: la trasformazione di Sara, duchessa di Nottingham, in mamma di due bimbe. Se, da un lato, la «novità» costringe il Duca a «mitigare», in presenza delle figlie, il furore emotivo nei confronti della consorte – al momento del Duetto, nell’atto terzo –, dall’altro lato, la presenza delle figlie riesce ad accentuare il sentimento di estrema sofferenza della Duchessa. Alla testa dell’Orchestra del San Carlo, Riccardo Frizza. Egli, sensibilissimo conoscitore della produzione operistica donizettiana, propone un’interpretazione di teatrale «flessibilità», attraverso cui riesce a emergere tutta la modernità strutturale dell’opera; e, fortunatamente, sono state eseguite anche le riprese delle Cabalette. Si tratta, inoltre, di una concezione, in un certo senso, «totalizzante» del dramma: il linguaggio strumentale concorre perfettamente alla febbrile determinazione degli eventi drammatici. Nel ruolo di Elisabetta, Roberta Mantegna. Il soprano affronta opportunamente il ruolo, garantendo alla Sovrana un temperamento teatrale variegato, determinato da momenti di introspezione emotiva (come la Cavatina, nell’atto primo, L’amor suo mi fe’ beata) e da momenti di collera altera e irrimediabile furore: un ritratto psicologico estremamente complesso. L’attrice-cantante, inoltre, riesce agilmente ad affrontare la Cabaletta Ah! ritorna qual ti spero: un momento vocale estremamente funzionale alla determinazione teatrale del personaggio. Occorre, certamente, anche menzionare il momento, drammaticamente potente, della celebre Cabaletta finale, Quel sangue versato, perfettamente affrontato. Si ravvisano, peraltro: un’emissione sempre ferma, una notevole padronanza del registro grave e un fraseggio di particolare e sentita teatralità. Nel ruolo di Sara, Annalisa Stroppa. Il mezzosoprano offre un ritratto psicologicamente pregnante del ruolo, conferendo alla Duchessa di Nottingham una condotta teatrale intrisa di estrema, profonda, «romantica» sofferenza. I patimenti emotivi, sofferti dal personaggio, si traducono in un comportamento scenico inappuntabile, la cui spontaneità viene costantemente sostenuta e vivificata dall’innegabile avvenenza del colore timbrico e dalla «drammaticità» dell’intelligente fraseggio. Tutto ciò è ravvisabile, per esempio, nella Romanza dell’atto primo, All’afflitto è dolce il pianto, e nel Duetto con il Duca, nell’atto terzo, Non sai che un nume vindice. A interpretare Nottingham è, invece, Nicola Alaimo – che riesce a proporre una recitazione estremamente coinvolgente. Non soltanto nel momento di accorata e commovente «mestizia» – la Cavatina, dell’atto primo, Forse in quel cor sensibile –, ma anche nel momento di trascinante «vigore» della Cabaletta Qui ribelle ognun ti chiama – attraverso cui manifesta, al Conte d’Essex, l’assoluta fedeltà del sentimento amicale che lo pervade. I tormenti del Duca, già ravvisabili nella summenzionata Cavatina, toccano un’opportuna acme espressiva al momento del già citato Duetto. Il registro acuto è, inoltre, attentamente governato, ed emerge una costante e «teatrale» varietà di fraseggio. Nel ruolo di Roberto, Ismael Jordi. Il tenore mostra un’evidente e generale propensione a gestire opportunamente il ruolo, la cui risoluzione avviene attraverso una vocalità appropriata, dal convincente colore timbrico. Soltanto che nell’affrontare la Cabaletta dell’atto terzo, Bagnato il sen di lagrime, non mostra di essere totalmente a suo agio. La determinazione scenica del personaggio avviene, inoltre, attraverso una recitazione non così drammaticamente pregnante – che, pertanto, resta un po’ generica. Completano il cast, ottimamente: Enrico Casari (Lord Cecil), Mariano Buccino (Sir Gualtiero Raleigh), Giacomo Mercaldo (Un cavaliere), Ciro Giordano Orsini (Un familiare di Nottingham). Il Coro, parimenti ottimo e preparato da Fabrizio Cassi, riesce a emergere perfettamente – non soltanto negli interventi introduttivi dell’atto secondo, ma anche quando viene collocato fuori dalla scena, durante la Cabaletta del baritono, nell’atto primo. In definitiva, si è trattato di un Roberto Devereux accolto positivamente dal pubblico napoletano – forse, però, con qualche riserva sulla costruzione scenografica. Foto Luciano Romano