Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino – Amici della Musica di Firenze
Pianoforte Grigory Sokolov
William Byrd: “John come kiss me now” T478; “The first pavan. The galliard to the first pavan” T487; “Fantasia” T455; “Alman” T436; “Pavan: The Earl of Salisbury. Galliard. Second galliard” T503; “Callino casturame” T441; Johannes Brahms: Quattro Ballate op. 10; Due Rapsodie op. 79
Firenze, 16 giugno 2025
Nella Sala Zubin Mehta abbiamo assistito ad un altro memorabile concerto di Grigory Sokolov. Si è trattato dell’ennesimo ‘rito’ in cui all’ascoltatore è offerta la possibilità di lasciarsi coinvolgere dal suo suono che evoca suggestioni misteriose e profonde, a tratti anche dal carattere spirituale, concludendosi con grandi e reiterati applausi ricambiati dal pianista con una serie di inchini e con il dono degli ormai canonici sei fuori programma. In questa occasione le musiche non incluse in cartellone si sono incentrate sull’esecuzione di brani di Fryderyk Chopin (4 Mazurke: op. 30 n. 1; op. 50 n. 3; op. 68/2 n. 2; op. 68 n. 3, con al centro lo Studio op. 25 n. 2) e infine di Aleksandr Skrjabin (Preludio n. 4 op.11), spostandosi così dal clima romantico a quello più ‘nostalgico’ del Paese di Sokolov, includendo anche il ricordo del compositore russo a 110 anni dalla sua scomparsa. La sinergia del Maggio Musicale Fiorentino e degli Amici della Musica di Firenze ha realizzato un grande successo perché, ancora una volta, la loro collaborazione riesce a proporre un’offerta artistica di alto livello culturale, richiamando un numeroso pubblico da varie località. Uno degli aspetti di questo grande interprete che non può passare inosservato è sicuramente il voler far scoprire, attraverso il pianoforte, la bellezza e l’importanza della musica antica, ovvero quella scritta e concepita per altri strumenti a tastiera prima dell’avvento del pianoforte. Oltre che costituire un percorso musicale programmatico il musicista, attraverso le sue interpretazioni, ha realizzato un viaggio nel tempo, capace di connettere il presente al passato ove il far rivivere quest’ultimo necessita di consapevolezza storico-stilistica sapendo ‘tradurre’ un repertorio concepito, in questo caso, per altri strumenti a tasto, in particolare il virginale, il clavicembalo o l’organo. Nella ratio di questa proposta non si può escludere il forte interesse del pianista nei confronti di un ritorno alle radici: connessione con le tradizioni musicali e culturali di un passato che può, ancora oggi, indicare quella ‘retta via’ tanto necessaria per una contemporaneità sempre più ‘smarrita’. Il maestro, dopo il suo rituale inchino, nella prima parte del concerto dedicato a William Byrd e alla letteratura virginalistica, molto popolare durante l’epoca elisabettiana, è sembrato accingersi a indossare le vesti di un musicista inglese vissuto tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Ogni composizione si è trasformata in un prezioso ricamo costruito spesso attraverso una scrittura fatta di brevi episodi con rimandi alla danza e al gioco imitativo tra le parti in cui la ricchezza espressiva, l’abbondanza e il modo di interpretare gli abbellimenti hanno adornato la melodia aggiungendo enfasi e virtuosismo, cogliendo altresì nell’ intentio dell’interprete una certa ‘purezza virginale’ del suono. Con Johannes Brahms è iniziata la seconda parte, caratterizzata dalla produzione giovanile con le Quattro Ballate op. 10 [n. 1 in re minore (Andante); n. 2 in re maggiore (Andante); n. 3 in si minore Intermezzo (Allegro); n. 4 in si maggiore (Andante con moto)], un ciclo ispirato alla celebre e triste ballata scozzese Edward. Composte nel 1854, per alcuni aspetti queste composizioni guardano al pianismo schumanniano oltre a ravvisare una spontaneità ed ispirazione proiettate verso l’intimismo romantico, interpretato profondamente dal pianista. Ascrivibili alla parte più centrale della produzione brahmsiana, le Due Rapsodie op. 79 del 1879 esprimono l’esigenza di liberarsi da certe strettoie formali pur accogliendo relazioni significative con le forme della Ballata e dello Scherzo. È bastato ascoltare l’inizio imperioso e preciso dell’Agitato della Rapsodia in si minore, eseguita con un tempo giusto e non affannoso congiuntamente a significative variazioni di colore ed altro ancora, per comprendere con quanta accuratezza Sokolov abbia cercato di restituire l’immaginario sonoro e poetico di questa fase creativa del compositore tedesco. Per seguire quest’opera occorreva predisporsi all’ascolto di uno stile più sinfonico, anche dal punto di vista strutturale, in cui si potevano cogliere aspetti vigorosi rispetto ad altri lirici tanto da essere stati conquistati dal ‘canto’ del pianista come già dal primo tema, ben riconoscibile per la sua caratterizzazione ritmica (semiminima con il punto seguita dalla terzina di semicrome). Certe ‘oasi’ oniriche presenti in questa composizione sembrano quasi traghettare al Molto appassionato ma non troppo allegro della seconda Rapsodia in sol minore la quale, rispetto alla precedente, pur non allontanandosi, come nella prima, dall’allusione alla struttura sonatistica, inizia con un clima quasi passionale. Ascoltare e vedere il pianista russo è come vivere una serie di stati d’animo che nascono e si riflettono nella sua stessa impenetrabilità. Il pianismo di Sokolov, apparentemente proiettato verso un certo status quo, oltre che essere in continua ricerca di un qualcosa che indugia ancora a svelarsi, lo avvicina sempre più alla figura di autentico Wanderer, molto curioso e volto ad esplorare il bello senza tempo, approssimandosi così al Gotha dei pianisti leggendari. Foto Michele Monasta
Roma, Fori Romani
SOTTO LE STELLE DI ROMA
Promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, attraverso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
organizzata con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura,
Con l’arrivo dell’estate, Roma riscopre uno dei suoi momenti più magici: quello in cui la notte abbraccia le rovine antiche, e la storia torna a camminare tra i ciottoli. Dal 20 giugno al 28 settembre 2025, ogni venerdì, sabato e domenica, dalle 19.30 alle 22.00, sarà possibile immergersi nelle meraviglie dell’area archeologica dei Fori Imperiali grazie a un suggestivo percorso serale pensato per far rivivere l’anima eterna della città. Promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, attraverso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e organizzata con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura, l’iniziativa rappresenta un appuntamento imperdibile per romani e turisti, che coniuga divulgazione storica e fascino notturno. Un’occasione preziosa per riappropriarsi della città attraverso un’esperienza culturale accessibile, coinvolgente e profondamente emozionante. L’ingresso avviene da Piazza della Madonna di Loreto, presso la biglietteria dei Fori Imperiali situata nei pressi della Colonna Traiana. Da qui, si scende tramite una scala (o ascensore, per chi ha difficoltà motorie) al livello dell’area archeologica. Il percorso – della durata di circa un’ora – si snoda lungo una passerella ampia e ben integrata nel paesaggio monumentale. Accompagnati da guide esperte (quattro turni in italiano e due in inglese), i partecipanti, in gruppi di massimo 25 persone, saranno condotti attraverso le stratificazioni di potere, bellezza e quotidianità che rendono unico questo luogo. Il viaggio inizia con il Foro di Traiano, voluto dall’imperatore come celebrazione della sua conquista della Dacia, con la celebre Colonna che ancora oggi narra la storia militare attraverso bassorilievi finemente scolpiti. Si prosegue poi nel passaggio sotterraneo che collega l’area al Foro di Cesare, dove affiorano i resti del Tempio di Venere Genitrice e dei portici che ospitavano le tabernae, ovvero botteghe e uffici amministrativi. Si tratta di un raro esempio di integrazione tra monumentalità e vita civile nell’urbanistica imperiale. Il percorso culmina davanti alla Curia, l’antica sede del Senato romano, silenziosa testimone di decisioni che cambiarono il destino dell’Urbe e del mondo. Uscendo su via dei Fori Imperiali, all’altezza di via Bonella, il visitatore avrà attraversato non solo uno spazio fisico ma anche una sequenza temporale che va dalla Repubblica all’Impero, in un crescendo di emozioni e conoscenze. L’iniziativa si inserisce all’interno del “Progetto Accoglienza” finanziato con i fondi del DPCM del 10 aprile 2024 per le celebrazioni giubilari del 2025, destinati a migliorare la fruizione dei siti archeologici e monumentali della capitale. Il percorso serale, inclusivo anche per chi ha disabilità motorie, è un esempio virtuoso di accessibilità e valorizzazione del patrimonio, oltre che una dimostrazione di quanto la città di Roma sappia offrire esperienze di qualità in equilibrio tra conservazione e narrazione. Il biglietto è compreso nella tariffazione ordinaria dei Fori Imperiali, con prezzi agevolati per i residenti e gratuità per i possessori della Roma MIC Card. Il preacquisto online è fortemente consigliato per garantire l’accesso, data la capienza limitata. È possibile anche acquistare i biglietti presso la biglietteria in loco (Piazza Madonna di Loreto), compatibilmente con la disponibilità residua. Lontano dai clamori del giorno, tra la luce calda del tramonto e quella discreta dell’illuminazione serale, i Fori Imperiali si offrono in una veste nuova, quasi metafisica. Ogni pietra, ogni colonna spezzata, ogni rilievo sembra sussurrare storie di un passato che non è mai del tutto passato. È un invito alla contemplazione e alla meraviglia, ma anche un’opportunità di conoscere meglio le radici di una civiltà che ha ancora molto da insegnare. Chi sceglierà di passeggiare sotto il cielo di Roma, avrà il privilegio raro di sentire, per un’ora, il battito lento e maestoso della Storia. E portarselo dentro, come una luce gentile, ben oltre la notte. Fortemente consigliato il preacquisto on line sul sito https://www.sovraintendenzaroma.it e presso l’Info Point Mausoleo d’Augusto con € 1,00 di prevendita. ph Monkeys Video Lab
Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione d’opera e danza 2024/25
“IL MATRIMONIO SEGRETO”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Giovanni Bertati, dalla commedia “The clandestine marriage” di George Colman il Vecchio e David Garrick
Musica di Domenico Cimarosa
Solisti dell’Accademia di Canto Lirico del Teatro di San Carlo
Geronimo YUNHO ERIC KIM
Elisetta ANASTASIIA SAGAIDAK
Carolina MARIA KNIHNYTSKA
Fidalma SAYUMI KANEKO
Il conte Robinson ANTIMO DELL’OMO
Paolino SUN TIANXUEFEI
Orchestra del Teatro di San Carlo
Direttore Francesco Corti
Regia e Scene Stéphane Braunschweig
Costumi Thibault Vancraenenbroeck
Luci Marion Hewlett
Nuova produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 11 giugno 2025
Al Teatro di San Carlo, va in scena Il matrimonio segreto, fortunatissimo dramma giocoso dell’aversano Domenico Cimarosa, compositore emblematico della «Scuola napoletana» settecentesca. La regia è affidata a Stéphane Braunschweig. Egli effettua un’«attualizzazione» – estetica, soprattutto – dell’Opera, che di «buffo», almeno scenicamente, conserva effettivamente poco, ma quest’operazione avviene sempre nell’ottica di un già efficace ed «equilibrato gioco di simmetrie interne» (Paologiovanni Maione), la cui estrema «modernità» consente al regista di porre in evidenza la pregnanza drammatica dell’opera. Sei personaggi sono attraversati da una momentanea instabilità (un «lieto fine», però, consentirà la risoluzione dei conflitti relazionali). Fidalma, vedova, vorrebbe sposare Paolino, «giovane di negozio» di Geronimo, «ricco mercante»; Paolino è, invece, segretamente sposato con la figlia minore di Geronimo: Carolina; di lei, però, si innamora il Conte Robinson – che, invece, come da accordo, dovrebbe contrarre matrimonio con Elisetta, figlia maggiore del mercante. I personaggi si «rincorrono» a vicenda, incastrandosi in un «intrico» ordinato di incontri-scontri – che gli attori-cantanti riescono a risolvere con scenica «disinvoltura», determinante anche l’esposizione del materiale testuale del Bertati – costantemente investito di pregnanza teatrale, attraverso l’essenziale e accorto impiego di altri linguaggi: quello gestuale e, soprattutto, quello mimico-facciale. Avviene, però, un’eliminazione – scenica, soprattutto – degli elementi deliberatamente «comici» dell’Opera: la «sordità» di Geronimo viene convertita in sdegnosa «perplessità»; l’altro elemento eliminato è l’«avanzata» età scenica di Fidalma – eliminazione che neutralizza la comica «particolarità» della sua «passione» per il giovane garzone. Queste operazioni «neutralizzanti» consentono allo spettatore di osservare «seriamente», e con «maggior sospetto», il matrimonio tra Elisetta e il Conte, paradigmatico del carattere arrivistico di papà Geronimo e, in generale, del mondo borghese. L’integrazione del mondo borghese in quello aristocratico, progettata da papà Geronimo attraverso il «contratto» matrimoniale, appare metaforicamente rappresentata da una convivenza scenica di costumi – contemporanei e settecenteschi – stilisticamente contrastanti, disegnati da Thibault Vancraenenbroeck. Le scene – progettate dal regista medesimo e opportunamente illuminate da Marion Hewlett – restituiscono, in modo essenziale, gli appartamenti e le stanze entro cui accadono i fatti: «scatole sceniche», in varie tonalità di grigio, la cui movibilità consente una formazione «istantanea» degli spazi. Francesco Corti è alla testa dell’Orchestra del San Carlo (con Cristiano Gaudio, al clavicembalo, e vari Professori ospiti). Corti propone una lettura interessante del linguaggio strumentale cimarosiano, la cui pregnanza teatrale appare strettamente funzionale alla definizione «drammaturgica» dell’Opera. E, nella gestione della struttura di questa variegatissima costruzione operistica – anche tenendo conto dell’eliminazione di due numeri e recitativi vari, come viene precisato nel Programma di Sala –, Corti risulta essere perfettamente a suo agio. Gli attori-cantanti, nell’esposizione del materiale testuale, ricevono un costante sostegno «espressivo» dall’accompagnamento orchestrale – la cui ricercatezza e briosità emergono con estrema e commovente evidenza. Nel cast, figurano allievi dell’Accademia di Canto Lirico del San Carlo. Nel ruolo di Geronimo, Yunho Eric Kim. Il basso garantisce al «ricco mercante» un comportamento scenico non «artefatto»: la «comicità» del ruolo è tutta ravvisabile nella condotta vocale – e, per esempio, in quel suo espressivo «balbettare», nel travolgente Finale Primo Tu mi dici che del Conte. Occorre, qui, anche ricordare il momento della celebre Cavatina Udite, tutti udite – affrontata con sagace proprietà di stile. Carolina, invece, è interpretata da Maria Knihnytska. Il soprano affronta agilmente il ruolo: presta alla figlia minore di Geronimo un efficace temperamento teatrale – ravvisabile, per esempio, nel simpatico momento di dissimulazione e di infingimento dell’atto primo, l’Aria Perdonate, signor mio: un momento vocale, estremamente «grazioso» e di recitata «sprovvedutezza», funzionale alla determinazione scenica del personaggio. Appropriata «espressività» e sorprendente bellezza del colore timbrico concorrono, inoltre, alla caratterizzazione del ruolo. A dare corpo e voce a Fidalma è Sayumi Kaneko. Il mezzosoprano offre un garbato ritratto della zia, «esperta» vedova – senza, però, assumere un comportamento teatrale «grottesco» o «stereotipato»: un tono simpaticamente «maliziosetto» consente alla cantante un’opportuna restituzione dell’Aria dell’atto primo: È vero che in casa. Paolino è, invece, interpretato da Sun Tianxuefei. Il tenore offre un avvenente ritratto del «giovane di negozio», segreto sposo di Carolina. Il comportamento scenico prevede: momenti di tenera «irresolutezza» (come il Duetto, nell’atto primo, con il Conte: Signor, deh, concedete…) e momenti di amorevole soavità (come l’Aria, nell’atto secondo, Pria che spunti in ciel l’aurora). Nel restituire tutto ciò, il cantante appare perfetto – perché può contare su un valido strumento vocale, che – per «lucentezza» ed «espressività» – è in grado di convincere totalmente. Nel ruolo di Elisetta, Anastasiia Sagaidak. Il soprano riesce a garantire all’aspirante «contessina», figlia maggiore del mercante, una «risolutezza» comportamentale ed emotiva – attraverso cui riesce a dare forma al «risentimento» nutrito da Elisetta nei confronti della sorella. Un’inclinazione al canto virtuosistico consente alla cantante di affrontare l’Aria, nell’atto secondo, Se son vendicata – la cui lettura, agile e puntuale, assume un ruolo fondamentale – anche nella definizione scenica del personaggio. Antimo Dell’Omo interpreta, invece, il Conte Robinson. Il baritono offre un ritratto estremamente simpatico dell’aristocratico, impegnato in vari momenti di «buffo» infingimento – celato e no: dal comportamento, fintamente modesto – nella Cavatina Senza, senza cerimonie (atto primo) –, alle «finzioni», sul proprio conto, raccontate a Elisetta, attraverso l’Aria Son lunatico bilioso (atto secondo). Brillantezza vocale ed efficacia teatrale del fraseggio consentono al cantante un’opportuna creazione del ruolo. Un pubblico, tanto divertito, accoglie entusiasticamente questo Matrimonio. Foto Luciano Romano
Andrea Chénier, l’opera più famosa di Umberto Giordano chiude la Stagione d’Opera 2024/2025. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio Andrea Battistoni, al suo primo impegno in veste di Direttore musicale, dopo oltre un decennio di collaborazioni con i complessi artistici del Teatro. Il nuovo allestimento scenico è firmato da Giancarlo del Monaco. Protagonisti Gregory Kunde, Maria Agresta e Franco Vassallo. Il Coro è istruito, come di consueto, da Ulisse Trabacchin. L’opera è in scena dal 18 al 29 giugno.
Andrea Chénier segna il primo impegno sul podio torinese di Andrea Battistoni dopo la nomina a Direttore musicale del Teatro Regio. Il suo rapporto con i complessi artistici del Teatro è già consolidato: ha debuttato nel 2011 con il Concerto per la Festa della Repubblica in piazza San Carlo, e nel 2014 ha diretto L’elisir d’amore di Donizetti al Festival di Wiesbaden, portando il nome del Regio in una prestigiosa manifestazione internazionale. È poi tornato a Torino per La bohème, nell’ambito del progetto The Best of Italian Opera per l’EXPO 2015, e nel 2019 per il dittico La giara di Casella e Cavalleria rusticana di Mascagni, con la regia di Lavia.
«Andrea Chénier è un’opera che amo profondamente. – confida Giancarlo del Monaco intervistato da Susanna Franchi per il programma di sala – mio padre la cantò accanto a Callas e Tebaldi, e la studiò direttamente con Giordano: è un’opera vocale, potente, che richiede un grande cast. Nella mia carriera ho firmato molti Chénier, tra cui la prima francese al Théâtre de la Bastille. Ma ciò che più mi interessa oggi è guardare alla figura del poeta rivoluzionario come punto di partenza per una riflessione sulle rivoluzioni, sul sogno utopico che si trasforma in incubo. Le utopie non funzionano: generano mostri. La Rivoluzione francese ha aperto la strada a Napoleone, alle guerre, alla repressione, al Terrore. Da Marx a Mao, la storia ci insegna che l’idea di un mondo migliore può trasformarsi in tragedia. La parabola di Gérard è il cuore di questo crollo ideale: da servo a carnefice, poi a uomo distrutto dalla consapevolezza. E l’amore? In questa storia ha un valore salvifico. Chénier, come un Assange ante litteram, viene ucciso per aver detto la verità. Maddalena, da ragazza frivola, diventa eroina. Morire insieme, stretti in un ultimo abbraccio, è la loro apoteosi. In quel momento, l’amore diventa l’unica vera rivoluzione possibile».
Gregory Kunde è il poeta Chénier, tenore tra i più apprezzati del panorama lirico internazionale, affronta la sua undicesima produzione al Regio dopo il successo nel ruolo di Éléazar ne La Juive, dove ha conquistato pubblico e critica con la sua interpretazione intensa e magistrale. Maria Agresta dà voce alla dolente passione di Maddalena: il soprano ritrova il palcoscenico del Regio, dove si affermò con I Vespri siciliani di Giuseppe Verdi, avvio di una carriera che l’ha portata nei più grandi teatri del mondo. Franco Vassallo affronta la complessità del personaggio di Gérard, figura centrale e tormentata del dramma; baritono tra i più autorevoli del panorama internazionale, torna al Regio dopo i successi in ruoli verdiani, apprezzato per la sua forza scenica, il timbro nobile e l’intelligenza musicale. Nei ruoli dei protagonisti si alternano: Angelo Villari (Andrea Chénier), Aleksei Isaev (Carlo Gérard), Yolanda Auyanet e Vittoria Yeo (Maddalena). Completano il cast: Mara Gaudenzi (La mulatta Bersi), Federica Giansanti (La contessa di Coigny), Manuela Custer (Madelon), Adriano Gramigni (Roucher), Nicolò Ceriani (Pietro Fléville e Fouquier Tinville), Vincenzo Nizzardo (Il sanculotto Mathieu), Riccardo Rados (Un “Incredibile”); gli artisti del Regio Ensemble Daniel Umbelino (L’abate poeta), Tyler Zimmerman (Dumas), Janusz Nosek (Schmidt), Albina Tonkikh (La mulatta Bersi).
https://www.teatroregio.torino.it/opera-e-balletto-2024-2025/andrea-chenier
Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino – Amici della Musica di Firenze
Violoncello Yo Yo Ma
Zhao Jiping: “Summer in the High Grassland”; Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello solo n. 1 in sol maggiore BWV 1007; Ahmet Adnan Saygun: Partita per violoncello solo op. 31; Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello solo n. 6 in re maggiore BWV 1012; George Crumb: Sonata per violoncello; Johann Sebastian Bach: Suite per violoncello solo n. 3 in do maggiore BWV 1009.
Firenze, 14 giugno 2025
Che Yo Yo Ma rappresenti un grande virtuoso del violoncello è talmente ovvio da indurre a riflessioni dalle argomentazioni più ampie. Il primo dato significativo, entrando in medias res, è stata la vista iniziale sul palco della Sala Metha di una sedia vuota al posto dell’orchestra, ove il silenzio sembrava annunciare l’incanto di un concerto che resterà nella memoria. Felice evento ed una delle tante fruttuose collaborazioni realizzate tra il Festival del Maggio Musicale Fiorentino e gli Amici della Musica. Oltre al sold out si segnala la presenza di molti giovani e musicisti venuti anche da fuori della Toscana. Il maestro, assente da Firenze da 17 anni, come riferito da Stefano Passigli, presidente degli Amici della Musica, è ritornato grazie all’amicizia che lega quest’ultimo al maestro, risultando una grande festa con interminabili standing ovation alla fine della prima parte nonché a conclusione del concerto.
Per molti dei presenti è stata l’occasione di conoscere non solo il valore del concertista ma anche dell’uomo aperto al dialogo tra culture diverse senza dimenticare, tra le varie onorificenze e ruoli, quello di Messaggero di pace delle Nazioni Unite. Yo Yo Ma, nato a Parigi da musicisti cinesi, vissuto e cresciuto a New York, incarna perfettamente la figura del raffinato musicista ma esprime anche il senso profondo di solidarietà con il mondo, fiducioso nel valore della cultura e della musica che travalica il mero senso estetico. Molto significativo, a questo proposito, il fuori programma con il melos pentatonico tratto dal Largo della Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Dvořák, originariamente eseguito dal corno inglese, in una bella trascrizione per violoncello che ha ricordato l’incontro tra vari popoli, auspicio favorevole di un futuro migliore.
Yo Yo Ma, abbracciato il suo strumento, ha iniziato ‘preludiando’ intorno al tema di Gabriel’s Oboe di Ennio Morricone, omaggio al nostro Paese, brano conosciuto dal grande pubblico come colonna sonora del film The Mission. Poi – evocando la visione della foresta sudamericana ove Padre Gabriel, missionario gesuita, riesce a farsi accettare dalla tribù con la struggente musica del suo oboe – si arriva alla contemporaneità con l’esecuzione di Summer in the High Grassland del compositore cinese Zhao Jiping, ricordando le grandi praterie della Mongolia. A tratti è sembrato di percepire la rinascita del ‘canto’ di quella regione asiatica insieme ad antiche ‘stratificazioni sonore’ ispirate dal suono di uno dei più importanti strumenti tradizionali, il morin khuur (violino a testa di cavallo), che per alcune caratteristiche (solo due corde, arco, ecc.), lo rende simile a l’erhu e, in una relazione più dialogica e organologica tra culture diverse, il violoncello è da considerarsi tra i suoi naturali discendenti. Proseguendo le Suites per violoncello solo nn. 1, 6, 3 (BWV 1007, 1012, 1009) di Bach tratte dalle Sei suites per violoncello solo intercalate dalla Partita op. 31 del compositore turco Ahmet Adnan Saygun, autore di musica classica occidentale, scomparso nel 1991, ed una Sonata per violoncello solo del 1955 dello statunitense George Crumb. Ascoltando le suites bachiane, considerato il modello che accomuna tutto il corpus, non è stato difficile seguire la successione alquanto simile dei movimenti delle suites in programma: Prélude, Allemande, Courante, Sarabande e, prima di concludere con la Gigue, Menuet I e II per la n.1, Gavotte I e II per la numero 6 e Bourrée I e II per la n. 3, godendo l’ascolto delle celeberrime pagine.
Riflettendo sulla nota espressione di Mischa Maisky: «Se dovessi pensare alla musica come alla mia religione, allora queste sei suites sarebbero la Bibbia» possiamo affermare che ci è sembrato di vedere Yo Yo Ma avvicinarsi a queste opere con grande ‘devozione’ rivelandosi un autentico ermeneuta e restituendo i principi del ‘contrappunto armonico’ anche di fronte ad una scrittura concepita per una sola voce. Il risultato in tutto il concerto – considerando anche il colore mutevole e le varie nuances ove in alcuni momenti non è stato difficile immaginare altri strumenti ad arco anche non occidentali – è stato l’ascolto e l’interpretazione di un musicista che con il suo strumento ancora oggi continua ad offrire una serie di sensazioni sfocianti nello stupore e nella ‘maraviglia’.
Per i più attenti o ‘navigati’ nella letteratura musicale barocca è stato possibile seguire, inoltre, l’ordito retorico che andava ad arricchire il significato e la feconda espressività bachiana. L’arpeggio dell’accordo di do maggiore oltre che concludere la Gigue dell’ultima suite in programma ha chiuso questo bellissimo concerto in cui Yo Yo Ma è riuscito a creare con ognuno dei presenti una profonda connessione, la stessa che il maestro ha dimostrato di costruire Firenze.
Opera in tre atti su libretto di Edourd Blau. Judith van Wanroij (Rozenn), Kate Aldrich (Margared), Cyrille Dubois (Mylio), Jérôme Boutillier (Karnac), Nicolas Courjal (Le Roi d’Ys), Christian Helmer (Jahel/ Saint Corentin). Hungarian National Choir, Csaba Somos (maestro del coro), Hungarian National Philarmonic Orchestra, György Vashegyi (direttore).Registrazione: Bela Bartok National Concert Hall, Budapest, 9-11 gennaio 2024. Fondazione Palazzetto Bru Zane Opéra francais vol. n. 43.
“Le roi d’Ys” è l’opera più nota di Éduoard Lalo, musicalmente è piccolo capolavoro non ha mai ottenuto il successo che la qualità musicale meriterebbe. L’arrivo di una nuova registrazione discografica – all’interno del ciclo di opere francesi distribuite dalla fondazione Blu Zane – non può che essere accolta con interesse. L’opera fin dal debutto nel 1888 è stata al centro di un vivace dibattito tra wagneriani e anti-wagneriani, entrambe le parti intente ad arruolare il compositore tra le proprie schiere. In realtà l’opera sembra fatta apposta per sfuggire a qualunque definizione. L’ambientazione medioevale, l’uso dell’orchestra, alcuni palesi ricordi – il duetto tra Margared e Karnac sembra una versione “mignon” di quello tra Ortrud e Telramud – mostrano una sicura influenza wagneriana. Di contro la mancanza di un autentico sviluppo sinfonico e la concisione delle forme –l’opera dura circa un’ora e mezza – indicano una concezione del teatro musicale che non potrebbe essere più lontana da quella wagneriana.
La presente edizione discografica ha il suo punto di forza nell’Hungarian National Philarmonic Orchestra, orchestra magnifica per colori, pienezza e pulizia sonora e altrettanto buona è la prova dell’Hungarian National Choir compagine non solo di altissimo livello ma anche in possesso di un’ottima dizione francese. A dirigere i complessi magiari è György Vashegyi direttore che si è affermato come specialista del repertorio classico settecentesco ma che nel corso degli anni ha ampliato i propri interessi all’opera ottocentesca. Il direttore ungherese opta per una lettura contrastata, con sonorità marziali e squillanti così come non teme di lasciarsi andare all’abbandono lirico un po’ maniera dei momenti elegiaci. Manca forse un senso di senso ritmico nelle danze popolari e nei momenti che evocano il folklore bretone. Il direttore riesce a dare una buona coerenza a un’opera che soffre non poco la differenza tra un primo atto abbastanza frettoloso e i seguenti decisamente più ispirati.
La compagnia di canto non esente di difetti, però nel complesso funziona e permette di rendere i caratteri dei personaggi, magari un po’ generici ma efficaci nella loro stilizzazione.
Le vere protagoniste – nonostante il titolo – sono le due figlie del re d’Ys. L’angelica Rozenn dal canto lirico e liliale e la passionale e gelosa Margared che trascinata dalla passione con corrisposta per l’eroico Mylio arriva a tradire e a distruggere la propria patria per poi pentirsi e redimersi salvando la città con il suo autosacrificio.
Kate Aldrich non ha mai avuto una voce “classicamente” bella. Il trascorrere degli anni ora mostra una voce impoverita di armonici e un registro acuto sfogato. La sua forza è sicuramente quella interpretativa con uno spiccato temperamento e un accento di rara forza espressiva che le permettono di dare il giusto rilievo alla personalità estrema di Margared. La “liliale” sorella Rozenn è cantata con timbro di squisito lirismo da Judith van Wanroij che si fa apprezzare anche in un repertorio lontano da quello neoclassico in cui è più abituale ascoltarla. Qualche acuto può risultare non gradevolissimo ma la piacevolezza del timbro e l’eleganza del canto compensano qualche piccola imprecisione.
Decisamente bifronte il Mylio di Cyrille Dubois. La parte è problematica nell’unire due tipi di vocalità contrastanti muovendo il personaggio tra lirismo e impeti epicheggianti. Dubois è più a suo agio nella prima componente. Il timbro morbido e luminoso e l’eleganza del canto si esaltano nell’Aubade del III atto e nei duetti con Rozenn. Di contro è innegabile che nelle scene dal taglio più drammatico ed eroico epiche la vocalità di Dubois appare più a disagio. Jérôme Boutillier riesce a gestire, se pur con una voce non particolarmente gradevole, l’ingrata parte di Karnac che, escluso il drammatico duetto con Margared nell’atto terzo, si esprime sempre con un canto declamato un po’ manierato. Nicolas Courjal con la sua bella voce di basso cantante ha la nobile autorità richiesta dal ruolo del Re mentre Christian Helmer affronta con sicurezza e mestiere il doppio ruolo di Jahel e dell’apparizione di Saint Corentin.
Come sempre ricchissimo di testi – in francese e inglese – e splendidamente illustrato il volume di accompagnamento.
Roma, Teatro di Roma
NUOVA STAGIONE 2025-2026
Il Teatro di Roma ha presentato oggi, nella prestigiosa cornice del Teatro Argentina, la nuova stagione 2025-2026. Il claim scelto è “Tutto il teatro”, un’espressione che non è solo slogan, ma dichiarazione programmatica di un’identità plurale, aperta, fortemente radicata nella città e, allo stesso tempo, proiettata verso l’internazionalità. La nuova stagione, che si articola tra i tre poli fondamentali della Fondazione – Argentina, India e Torlonia – si compone di oltre settanta titoli, tra produzioni, coproduzioni e ospitalità, arricchita da progetti per le nuove generazioni, percorsi formativi e cicli divulgativi. A presentare il cartellone sono stati il presidente Francesco Siciliano, il direttore generale Maurizio Roi e il direttore artistico Luca De Fusco, affiancati dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri e dal presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. La presenza delle istituzioni ha ribadito il ruolo centrale del Teatro di Roma nel panorama culturale nazionale e il rinnovato patto tra politica e cultura per rendere il teatro sempre più motore vivo della società. Il Teatro Argentina sarà, come sottolineato da De Fusco, “la casa del grande teatro”. Qui si alterneranno nomi storici e nuove visioni, come nel caso di “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo, nella nuova regia dello stesso De Fusco, e “Prima del temporale”, spettacolo che vedrà protagonista Umberto Orsini sotto la direzione di Massimo Popolizio. Il Teatro India continuerà a rappresentare lo spazio dell’esplorazione e della ricerca, dando voce alla scena contemporanea italiana e internazionale: tra i titoli più attesi “Festa”, progetto di Leonardo Manzan nato da un dialogo interculturale con la Georgia, che nella forma rituale del brindisi tradizionale georgiano intende costruire un ponte tra culture e generazioni, riflettendo sulle attuali tensioni geopolitiche e sulle aspirazioni europee. Sempre a India andrà in scena “Mi manca Van Gogh” di Francesca Astrei, dramma acuto e necessario sul tema del revenge porn, emblema di una stagione che non ha paura di interrogare il presente. Il Teatro Torlonia conferma la sua vocazione come spazio intimo e raffinato, luogo di narrazioni al femminile e approfondimenti introspettivi. Qui troveranno voce storie di donne, registe e attrici che racconteranno il mondo da una prospettiva inedita, spesso taciuta, con uno sguardo carico di forza e verità. La stagione si caratterizza inoltre per un’attenzione speciale ai giovani e alla formazione. Il Corso di perfezionamento per attori diplomati vedrà la partecipazione di importanti nomi del panorama teatrale, con laboratori che si concluderanno in saggi e spettacoli aperti al pubblico. Parallelamente, proseguono gli storici progetti inclusivi come il Laboratorio Piero Gabrielli, che unisce scuola, disabilità e teatro in un percorso di cittadinanza attiva e creatività condivisa. La programmazione per le nuove generazioni include 17 spettacoli, tre dei quali di produzione, e il Festival Contemporaneo Futuro, curato da Fabrizio Pallara, che mira a formare i pubblici di domani attraverso linguaggi scenici freschi, coinvolgenti e profondamente educativi. Accanto alla produzione teatrale, il Teatro di Roma prosegue con il suo impegno culturale nella divulgazione, attraverso format di grande successo che dialogano con la città e il sapere. Si confermano le nuove edizioni di “Luce sull’archeologia”, giunta al suo dodicesimo anno e dedicata a “Roma madre del mondo”, “Quando la scienza fa spettacolo”, “Tra psiche e mito. Dialoghi sull’essere” e “Lo spazio in versi”, ciclo che coniuga poesia e performance. In questi percorsi si riflette l’idea di un teatro che non è solo intrattenimento, ma luogo di riflessione civile, di confronto interdisciplinare, di partecipazione attiva alla vita culturale del paese. Il sindaco Roberto Gualtieri ha sottolineato come la stagione 2025-26 rappresenti un momento di rilancio per la cultura capitolina, non solo per la qualità e la quantità della proposta, ma per la visione articolata che valorizza le diverse missioni dei teatri coinvolti. Il primo cittadino ha ricordato la centralità del Teatro di Roma quale motore di produzione teatrale e ha annunciato con entusiasmo la riapertura del Teatro Valle, struttura storica finalmente restituita alla città. Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio, ha elogiato la coesione istituzionale che ha reso possibile una stagione così articolata, ribadendo la convinzione che la cultura debba essere il collante della società in un’epoca frammentata e divisiva. In questo spirito ha lanciato un “patto per il teatro” con il sindaco Gualtieri, nella prospettiva condivisa di rilanciare anche altre strutture come il Teatro Eliseo, simbolo di una memoria collettiva che merita attenzione e cura. Il Teatro di Roma si presenta così, in questa nuova stagione, come un organismo vivo, dinamico, attraversato da tensioni feconde e dialoghi trasversali. Un teatro che ha il coraggio di confrontarsi con il passato e di farsi attraversare dalle urgenze del presente, senza rinunciare alla bellezza, all’ascolto, alla comunità. Un teatro che è, finalmente, tutto. Qui per tutti i dettagli.
La terza delle quattro Cantate approntate da Bach per la festa della SS.Trinità è Es ist ein trotzig und verzagt Ding BWV 176 eseguita la prima volta a Lipsia il 27 maggio 1725. La Cantata su testo di Marianne von Ziegler e con il Corale finale di Paul Gerhardt del 1653 (su testo di Martin Lutero) si apre con un riferimento al Profeta Geremia, “C’è qualcosa di ostinato e timoroso nel cuore di ogni essere umano”, impostato con la severità di un tempo di fuga snella ma implacabile nel suo rigore in contrasto con gli archi che suonano frasi lunghe e morbide. La partitura prosegue con un recitativo del Contralto (Nr.2) che presenta riferimenti biblici a Giosuè (10; 12-14) “Per Giosuè, il sole si dovette così a lungo fermare fino a quando la vittoria non fu certa” in contrasto con il riferimento a Giovanni (Cap. 3, 2) che parla di Nicodemo il fariseo che si reca da Gesù di notte e, ammesso che intuisce che Gesù è “venuto da Dio”, rimane comunque turbato, ponendo varie domande. Questo elemento lo troviamo nell’aria del soprano (Nr.4) una graziosa gavotta che però non esprime musicalmente il senso del testo che tratta della timidezza di un cristiano (il riferimento al già citato Nicodemo) che si trova di fronte a Gesù, l’operatore di miracoli pieno della presenza di Dio. Il nr.4 è un recitativo secco cantato dal basso che progressivamente si trasforma in arioso. Ancora dal sapore danzante è la seconda aria (Nr.5) cantata dal Contralto, in forma di trio sonato per una coppia di oboi, oboe da caccia e continuo. La partitura si conclude con un’armonizzazione a quattro voci del corale di Gerhardt per coro e orchestra completa colla parte.
Nr.1 – Coro
C’è qualcosa di ostinato e timoroso nel cuore di ogni essere umano.
Nr.2 – Recitativo (Contralto)
Credo fosse più che altro per paura,
Che Nicodemo di giorno non osava
Andare da Gesù, ma solo di notte.
Per Giosuè, il sole si dovette così a lungo fermare
Fino a quando la vittoria non fu certa;
Nicodemo invece aveva un altro desiderio:
Oh, se solo lo vedessi tramontare!
Nr.3 – Aria (Soprano)
La tua amata luce, di solito così sfolgorante
Deve essere offuscata per me,
perché io desidero interrogare il Maestro,
Ma non oso farlo di giorno.
Nessuno può compiere tali miracoli,
E visto che la sua onnipotenza e la sua natura
Sembrano venire da Dio,
Lo Spirito del Signore deve essere su di lui
Nr.4 – Recitativo (Basso)
E così non meravigliarti, Maestro,
Perché io ti interrogo la notte!
Io temo che durante il giorno
La mia debolezza non possa reggere la prova.
Perciò mi consola che tu accoglierai e innalzerai
Il mio cuore e la mia anima alla vita
Perché chiunque, solo che creda in te,
Non sarà perduto.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Fatevi coraggio, spiriti timorosi e impauriti,
Tornate in voi, ascoltate cosa promette Gesù:
Che per mezzo della fede io conquisterò il Paradiso.
Quando la promessa si compirà,
Da lassù
Renderò lode e gloria
A Padre, Figlio e Spirito Santo
Che sono uno e trino.
Nr.6 – Corale
Per questo tutti insieme
Passeremo le porte del cielo
E una volta nel tuo regno
Canteremo senza fine,
Che tu sei l’unico re,
Alto sopra tutti gli dei,
Dio Padre, Figlio e Spirito Santo,
Guardiano e salvatore dei giusti,
Un essere, tre persone.
Traduzione Alberto Lazzari
PRESENTATA LA STAGIONE 2025–2026 DEL TEATRO QUIRINO “VITTORIO GASSMAN”
Un cartellone d’eccellenza tra grandi classici e nuove sfide sceniche. Rosario Coppolino annuncia anche la prelazione sull’acquisto dell’immobile storico
Il Teatro Quirino “Vittorio Gassman” ha presentato ufficialmente la stagione teatrale 2025–2026, con una conferenza stampa guidata dal direttore Rosario Coppolino, che ha condiviso con il pubblico e la stampa un doppio annuncio: non solo un programma artistico d’altissimo profilo, ma anche la notizia dell’esercizio del diritto di prelazione sull’acquisto dell’immobile da parte della Quirino srl, che segna un passo decisivo verso la piena autonomia e continuità della storica istituzione romana. In un passaggio di testimone che ha visto nel 2023 la conclusione della direzione di Geppy Gleijeses (in carica dal 2009, dopo l’Ente Teatrale Italiano), il nuovo corso guidato da Coppolino si contraddistingue da subito per ambizione culturale e progettualità strutturale. Il direttore ha infatti ufficializzato il versamento della caparra per l’acquisto del teatro, esercitando il diritto di prelazione previsto per il conduttore dell’immobile, di proprietà statale dal 1871. Un’azione che blocca la precedente iniziativa di acquisto avviata dallo stesso Gleijeses e che garantisce al Quirino una prospettiva stabile e strategica nel panorama teatrale nazionale. Il sipario si alzerà il 30 settembre 2025 con “Titus – Why don’t you stop the show?” di William Shakespeare, un adattamento potente diretto da Davide Sacco e interpretato da Francesco Montanari e Marianella Bargilli. Seguirà “Indovina chi viene a cena?” di William Arthur Rose, per la regia di Guglielmo Ferro, con Cesare Bocci e Vittoria Belvedere, una riflessione teatrale sulla tolleranza e l’incontro tra differenze. A ottobre, “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello con Pippo Pattavina per la regia di Giampaolo Romania, lascerà spazio a una nuova produzione di “Sogno di una notte di mezza estate” diretta da Daniele Salvo con Melania Giglio, e al poliziesco “Tenente Colombo, analisi di un omicidio” con Gianluca Ramazzotti e la regia di Marcello Cotugno. Dal 25 novembre al 7 dicembre “La vedova scaltra” di Goldoni vedrà protagonisti Caterina Murino e Giulio Corso, diretti da Giancarlo Marinelli. Chiuderà l’anno “La vita davanti a sé” di Romain Gary con Silvio Orlando, in scena dal 10 al 21 dicembre, una storia di fragilità, accoglienza e redenzione. Dal 26 dicembre all’11 gennaio 2026, “Il medico dei pazzi” di Eduardo Scarpetta sarà affidato all’energia comica di Gianfelice Imparato e alla regia di Leo Muscato. A seguire, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo (21–25 gennaio), vedrà in scena Alessandro Haber diretto da Paolo Valerio. Laura Morante tornerà al teatro con “Insieme” (27 gennaio–1 febbraio), diretta da Fabio Marra, seguita da “L’amore non lo vede nessuno” (3–8 febbraio), con Stefania Rocca e Massimo Venturiello per la regia di Piero Maccarinelli. Dal 10 al 15 febbraio sarà la volta de “La rigenerazione” di Italo Svevo, con Nello Masdia e Roberta Caronia, diretti da Valerio Santoro. Dal 17 al 22 febbraio Vanessa Gravina e Nicola Rignanese interpreteranno il dramma psicologico “Pazza” di Tom Topor, con la regia di Fabrizio Coniglio. A marzo, “Gli innamorati” di Goldoni (24 febbraio–1 marzo) diretto da Roberto Valerio, e “Il Padrone” di Gianni Clementi (3–15 marzo), ambientato nella comunità ebraica degli anni ’50, con Nancy Brilli, Fabio Bussotti e Claudio Mazzenga, per la regia di Pierluigi Iorio. Dal 17 al 22 marzo, “Il berretto a sonagli” di Pirandello con Enrico Guarnieri e Nadia De Luca, sarà seguito da “La grande magia” di Eduardo De Filippo (24–29 marzo), con Natalino Balasso e Michele Di Mauro, regia di Gabriele Russo e musiche originali di Antonio Della Ragione. Aprile si apre con “La Mandragola” di Machiavelli (1–6 aprile), con Massimo Venturiello e Francesco Salvi, diretti da Guglielmo Ferro. Dal 21 al 26 aprile andrà in scena “Pignasecca Pignaverde” di Emerico Valentini, nella storica versione interpretata da Gilberto Govi, qui riletta da Tullio Solenghi e il Teatro Nazionale di Genova. La stagione si chiude con “Falstaff – l’arte di farla franca”, tratto da Shakespeare e adattato da Davide Sacco, interpretato da Emilio Solfrizzi: un’ode alla leggerezza e all’intelligenza teatrale, in scena dal 28 aprile al 3 maggio 2026. Le produzioni saranno in parte firmate dal Teatro Quirino, in collaborazione con importanti enti nazionali e compagnie private. La biglietteria del Teatro è attiva online e presso il botteghino. Sono previste riduzioni per studenti, over 65 e abbonamenti a scelta. Il Teatro Quirino, con questa nuova stagione, si conferma punto di riferimento della scena romana e italiana, proponendo un cartellone ricco, variegato e di alto profilo, in grado di parlare a pubblici diversi e alle generazioni future. Qui per tutte le informazioni: www.teatroquirino.it
Roma, Villa di Massenzio
VIAGGI NEL PASSATO
promossI dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
C’è un punto lungo la via Appia in cui il tempo non è mai passato del tutto. Un tratto di campagna solitaria, sospesa tra il silenzio delle pietre e il richiamo lontano dei pini, dove la città si ritira e affida alla memoria il compito di farsi voce. È qui, tra il secondo e il terzo miglio dell’antica strada consolare, che sorge la Villa di Massenzio, luogo di malinconica bellezza e teatro di una delle iniziative più evocative del Giubileo 2025: le aperture serali intitolate Viaggi nel passato, promosse dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Il progetto si sviluppa attraverso due serate principali – sabato 14 e sabato 28 giugno – in cui il sito archeologico resterà aperto dalle 19.00 alle 22.00 (con ultimo ingresso alle 21.30), offrendo ai visitatori la possibilità di esplorare l’area monumentale accompagnati da punti informativi in italiano e in inglese. Il tutto incorniciato dalla luce dorata del tramonto e da un sapiente sistema di illuminazione che ridisegna i profili dell’antico. Non si tratta, dunque, di una semplice visita, ma di un vero e proprio attraversamento poetico della storia, guidato da voci competenti e da un’atmosfera che tende naturalmente alla riflessione. Al centro dell’itinerario si staglia la figura tragica di Massenzio, imperatore per breve tempo, caduto nella celebre battaglia del Ponte Milvio nel 312 d.C. contro Costantino. Figlio di Massimiano, Massenzio scelse di costruire in questo lembo di Agro Romano una residenza monumentale che potesse fungere da dichiarazione dinastica, da rifugio del potere e da spazio sacro per la memoria del figlio Romolo, morto in giovane età. L’architettura della villa riflette questa duplice vocazione: da un lato la monumentalità del circo e del palazzo, dall’altro la funzione commemorativa del mausoleo. Il complesso è articolato in tre corpi principali. Il primo, il palazzo, oggi parzialmente leggibile nei suoi ambienti di base, doveva offrire all’imperatore una vista privilegiata sul paesaggio circostante. Il secondo, il circo, sorprende per la sua conservazione: lungo oltre 500 metri, è uno dei pochissimi esempi ancora ben leggibili di impianto da corse dei carri, con tanto di spina centrale e torri laterali. Infine, il terzo elemento è il mausoleo dinastico dedicato a Romolo, il giovane figlio dell’imperatore: una struttura circolare, racchiusa da un quadriportico, eretta lungo la via Appia affinché tutti i viandanti potessero vederla e, in qualche modo, condividerne il lutto. Non è difficile, attraversando questi spazi nelle ore del crepuscolo, percepire il sentimento profondo che li attraversa: una tensione tra gloria e rovina, tra affermazione e fine, tra eternità e impermanenza. Ed è proprio in questa cornice che si inserisce l’evento musicale previsto per sabato 21 giugno, in occasione della Festa della Musica. Il Mausoleo di Romolo accoglierà L’Amor che move il sole e l’altre stelle, concerto corale curato dall’Associazione Jubilus Ensemble, ispirato all’ultimo verso della Commedia di Dante. La scelta del luogo e del repertorio non è casuale: in quello spazio circolare che fu pensato per onorare un figlio perduto, si leveranno voci a celebrare l’armonia dell’universo, a cantare l’amore come forza generatrice e trasfigurante. L’ingresso è gratuito e senza prenotazione, fino a esaurimento posti. Tutte le attività inserite nel programma sono a titolo gratuito e proseguiranno anche nei mesi estivi. Le informazioni complete sono disponibili sul sito della Sovrintendenza e al numero 060608. Al di là della fruizione immediata, l’iniziativa assume un valore simbolico: quello di restituire attenzione e centralità a una figura imperiale spesso trascurata, e di farlo in uno spazio che non è museo, ma territorio. La Villa di Massenzio non si visita, si attraversa. Non si osserva soltanto, ma si ascolta. Tra le sue pietre, l’eco della storia non è didascalica, ma emotiva. In una Roma che si prepara a ricevere milioni di pellegrini, questi appuntamenti restituiscono alla città un volto più intimo e meditativo, dove la cultura si unisce alla bellezza e il sapere si accompagna alla lentezza. Forse è proprio questo, oggi, il vero lusso: concedersi un’ora di luce tra le rovine, in ascolto delle cose che non passano. Ph.Monkeys Video Lab
Roma, Teatro dell’Opera
CARMEN
Il Teatro dell’Opera di Roma è lieto di annunciare, per la stagione 2024/2025, la ripresa di uno degli allestimenti più iconici del suo repertorio: Carmen di Georges Bizet, nella leggendaria messinscena del 1970 con le scene e i costumi firmati da Renato Guttuso. Un ritorno atteso e carico di valore storico e artistico, che restituisce al pubblico la vibrante materia teatrale di uno spettacolo divenuto parte integrante della memoria visiva dell’istituzione capitolina. Opera in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratto dall’omonimo romanzo di Prosper Mérimée, Carmen rappresenta uno degli esempi più alti della drammaturgia musicale ottocentesca, dove l’ardore dell’Espagne rêvée si fonde con una scrittura orchestrale di raffinata precisione e con una caratterizzazione vocale di straordinaria modernità psicologica. Alla direzione dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma sarà Omer Meir Wellber, tra i più incisivi direttori della scena internazionale, capace di unire rigore strutturale e libertà interpretativa. La regia è firmata da Fabio Ceresa, che si confronta per la prima volta con la messa in scena guttusiana, curandone la ripresa con sensibilità filologica e apertura contemporanea. Nel ruolo eponimo si alterneranno Gaëlle Arquez e Ketevan Kemoklidze, mezzosoprani di caratura internazionale già applauditi nei più importanti teatri europei. Al loro fianco, Don José sarà interpretato da Joshua Guerrero e Jorge de León, due tenori dalla vocalità appassionata e duttile. Escamillo vedrà protagonisti Erwin Schrott e Andrei Bondarenko, mentre il ruolo di Micaëla sarà affidato alle voci liriche di Mariangela Sicilia ed Ekaterina Bakanova. Completano il cast Meghan Picerno (Frasquita), Anna Pennisi (Mercedes), Alessio Verna (Dancairo), Blagoj Nacoski (Remendado), Nicolas Brooymans (Zuniga) e Matteo Torcaso (Morales). Il Coro, preparato dal maestro Ciro Visco, e il Coro di Voci Bianche diretto dal maestro Alberto De Sanctis, daranno piena voce a quella coralità drammatica che rende Carmen un’opera tanto spettacolare quanto intimamente politica, portatrice di un’inquietudine moderna sul destino, il desiderio e la libertà. L’allestimento, che fa parte del patrimonio scenografico del Teatro dell’Opera di Roma, conserva intatta la potenza evocativa della visione di Renato Guttuso, capace di sublimare la tradizione figurativa spagnola in una sintesi espressionista densa di simboli e materia pittorica. In questa ripresa, il recupero filologico si intreccia con un rinnovato sguardo registico che ne evidenzia i tratti universali, facendone non un reperto, ma una testimonianza viva di un teatro in perpetua trasformazione. Le recite di Carmen si terranno nei giorni 22, 25 e 27 giugno 2025.
Per informazioni:
www.operaroma.it
Ufficio Stampa – Teatro dell’Opera di Roma
stampa@operaroma.it
06 48160255
Ufficio Comunicazione
Teatro dell’Opera di Roma
Cremona, Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2025
“ORFEO ED EURIDICE”
Azione teatrale in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck
Orfeo CECILIA BARTOLI
Euridice e Amore MÉLISSA PETIT
Les Musiciens du Prince – Monaco
Il Canto di Orfeo
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del Coro Jacopo Facchini
Cremona, 11 giugno 2025
Leggere il nome di Gluck nel programma di un Festival dedicato a Monteverdi potrebbe destare qualche perplessità. Ma se persino il rivoluzionario, col suo voler uccidere i padri, finisce per resuscitare i nonni, a maggior ragione farà lo stesso il più moderato riformatore. In fondo, la cosiddetta «riforma gluckiana» (in verità un fine progetto diplomatico del Principe Kaunitz, con la complicità del conte Durazzo, e gli ingegni compositivo di Gluck, letterario di de’ Calzabigi e coreografico dell’ingiustamente marginalizzato Angiolini) altro non fa che sfrondare l’opera italiana del sovraccresciuto baroccume, e riportarla, per dir così, all’originario ceppo monteverdiano. D’altro canto però, se l’opera italiana ha da esser riformata, è necessariamente al suo contraltare francese, la Tragédie Lyrique, che bisogna guardare. E non soltanto per ragioni puramente artistiche (su tutte, la preminenza del testo poetico sul virtuosismo canoro e l’essenzialità narrativa) ma anche produttive: il sistema impresariale italiano mal si presta ad intellettualistiche sperimentazioni, mentre a Corte non valgono le leggi del mercato (e in Francia l’opera è, da sempre, questione di Stato). Sicché non stupisce che dopo l’internazionale viennese, sua culla, l’Orfeo abbia raggiunto quella parmense, di corti, avamposto della parigina. Difatti, roccaforte della cultura francese nella penisola, già con Guillaume du Tillot e, tramite il solito Algarotti, con il napoletano Tommaso Traetta, a Parma il vento del teatro francese aveva preso prepotentemente a spirare.
Per l’occasione Gluck rivede la troppo esigente orchestrazione viennese, e sfoltisce leggermente perché la sua «azione teatrale» in tre atti deve diventare il terzo ed ultimo atto di uno spettacolo composito, «Le feste d’Apollo, celebrate sul Teatro di Corte nell’agosto del MDCCLXIX per le auguste seguite nozze tra il Real Infante Don Ferdinando e la R. Arciduchessa Infanta Maria Amalia».Ma soprattutto riscrive la parte del protagonista per un nuovo interprete: sempre un castrato, Giuseppe Millico, questa volta però dalla voce non di contralto, com’era quella di Gaetano Guadagni a Vienna nel 1762, ma di soprano. È questo il tratto saliente della versione parmense del 1769, ed è questo il motivo dell’insolita scelta: la riscrittura per Millico calzando splendidamente alla voce di Cecilia Bartoli. La ripresa del Coro iniziale “Ah! Se intorno a quest’urna funesta” in chiusura dell’opera è una soluzione drammaturgica di indubbio effetto e sottile sagacia. Così si ripristina rettamente secondo le fonti antiche la «catastrofe» da de’ Calzabigi a malincuore sacrificata all’assolutismo del lieto fine, e si evita quel terzetto che, per pochi minuti di musica, imporrebbe un’interprete di più. Si tratta, è vero, di un arbitrio: mai un finale tragico avrebbe potuto coronare un festeggiamento nuziale. Ma cosa c’è di più lontano dalla prassi esecutiva originale del ligio rispetto di una particolare versione dell’opera?
Gianluca Capuano, fra i massimi esperti di pratiche esecutive antiche, già al Festival di Salisburgo 2023, con gli stessi complessi e lo stesso cast, aveva messo a punto questa nuova versione dell’Orfeo: basata su quella parmense, ma con l’aggiunta dell’«Air» (il numero di danza) delle furie dalla successiva versione parigina del 1774, e con l’inedito finale che s’è detto. Con la differenza che a Cremona l’Ouverture è ritornata al suo posto, laddove a Salisburgo ne faceva le veci un numero dal balletto Don Juan del 1761. Per dire che un approccio libertario, anzi libertino, volto al piacere del fare ed ascoltare musica, è forse il più congeniale al repertorio settecentesco.
Con Les Musiciens du Prince – Monaco l’intesa è perfetta. Laccio alla libertà esecutiva è solo la squisita sensibilità del concertatore accortissimo. Ne risulta una sterminata varietà, sia nell’articolazione della frase sia nella produzione timbrica di tinte diversissime. Il Canto di Orfeo, diretto da Jacopo Facchini, è del pari un complesso affiatato di finissimi musicisti, capaci di trattare le proprie voci quali strumenti: come suggeriscono i trattatisti antichi e come, forse, dovrebbe esser sempre. Dolcissima nel ruolo d’Euridice, in quello d’Amore un filo caricaturale nell’espressione, Mélissa Petit ha voce deliziosa e timbratissima, morbida e luminosa, che mette al servizio del testo. Del resto, nel saper far brillare una cantante, Capuano è formidabile. Cecilia Bartoli è, come tutti sanno, musicista, cantante, impresaria; e tutt’e tre ai massimi livelli. Voce personalissima ed immediatamente riconoscibile, vitalità ed esuberanza irresistibili fanno della grande cantante più che una diva una vera icona o, se si può dire così, una «maschera vocale». Quelli che potrebbero sembrare eccessi espressivi in realtà non lo sono, perché appartengono al suo carisma naturale: non si tratta di effetti, né di forzature, ma della sua spontanea, e straordinaria, disposizione. Al contempo, la Bartoli è ormai una tipologia vocale: come la Falcon con il «soprano Falcon», così la Bartoli potrebbe dare il nome ad un «soprano Bartoli». Che si distinguerebbe per la bellezza e la corposità del timbro più che per la vastità di proporzioni della voce; e soprattutto per la straordinaria versatilità, sia prettamente musicale sia espressiva in senso lato, e l’attitudine scenica. Il sommesso finale, con quel suo pianissimo sospeso nell’irrealtà, ha scatenato quasi un minuto intero di estatico silenzio, cui è seguito un festoso ed interminabile delirio d’applausi.
Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Wolfgang Amadeus Mozart, l’ultimo appuntamento con la stagione lirica dell’Opera Carlo Felice 2024-25, è in programma da venerdì 13 fino a domenica 22 giugno 2025.
Direttore Giancarlo Andretta, regia di Daniele Abbado,scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Calì, coreografie DEOS, luci di Luciano Novelli.
Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini. Con i Solisti dell’Accademia di alto perfezionamento e inserimento professionale dell’Opera Carlo Felice Genova diretta da Francesco Meli. Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Sarastro: Antonino Arcilesi, Giovanni Augelli (14,20, 22)
Tamino: Samuele Di Leo, Yiyan Gong (14,20, 22)
Oratore/Primo sacerdote: Luca Romano
Secondo sacerdote/Primo armigero: Gianluca Moro
Regina della Notte: Martina Saviano, Sona Gogyan* (14,20, 22)
Pamina: Gabriella Ingenito, Ilaria Monteverdi (14,20, 22)
Prima dama: Gesua Gallifoco
Seconda dama: Silvia Caliò
Terza dama: Alena Sautier
Tre geni: Arianna Russo, Vittoria Trapasso, Eliana Uscidda, Denise Colla, Michela Gorini, Lucilla Romano
(Solisti del Coro di voci bianche del Teatro Carlo Felice)
Una vecchia (Papagena): Giada Venturini, Eleonora Marras* (14,20, 22)
Papageno: Ernesto de Nittis, Willingerd Giménez (14,20, 22)
Monostatos: Davide Zaccherini, Timóteo Bene Júnior (14,20, 22)
Secondo armigero: Davide Canepa
Tre schiavi: Thomas Angarola, Federico Benvenuto, Stefano Pavone
Pompei, Parco Archeologico
CASA DEL GIARDINO DI ERCOLE O DOMUS DEL PROFUMIERE
Pompei, 11 giugno 2025
La recente riapertura della cosiddetta Casa del Giardino di Ercole, situata nell’Insula 8 della Regio VI di Pompei, rappresenta un momento significativo nel panorama degli interventi di valorizzazione e di studio congiunto tra archeologia, botanica storica e cultura materiale. L’edificio, noto anche come Casa del Profumiere, in virtù della presenza di numerosi unguentari e strumenti legati alla lavorazione di essenze, è oggetto di un’operazione di restituzione filologica del giardino antistante, interpretato non come semplice spazio decorativo, ma quale struttura produttiva attivamente inserita nel sistema economico della domus. Il progetto, inaugurato l’11 giugno 2025, ha visto la messa a dimora di oltre 800 rose antiche, 1.200 viole, 1.000 esemplari di Ruscus, nonché varietà arboree come Prunus avium, Malus cydonia e Vitis vinifera, ricollocate secondo principi di stratificazione paleoambientale in coerenza con i dati pollinici, fitoliti e macroresti analizzati fin dagli anni Cinquanta da Wilhelmina Jashemski. Tale azione di ripristino è stata resa possibile grazie a una sponsorizzazione tecnica dell’Associazione Rosantiqua, in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli e sotto la supervisione scientifica di studiosi quali Antonio De Simone, Salvatore Ciro Nappo, Luigi Frusciante e Gaetano Di Pasquale. L’abitazione, databile nella sua prima configurazione al III secolo a.C., mostra, secondo le evidenze stratigrafiche rilevate nei cicli di scavo del 1953–1954, 1971–1972 e 1985–1988, una serie di trasformazioni edilizie tipiche del processo di ristrutturazione tardo-repubblicano delle unità abitative pompeiane. A partire dalla metà del I secolo a.C., l’insula risulta oggetto di una razionalizzazione degli spazi abitativi, con demolizioni selettive e accorpamenti funzionali alla riconversione produttiva di alcune domus. Nel caso specifico della Casa del Giardino di Ercole, il sisma del 62 d.C. rappresenta uno spartiacque cronologico per l’ampliamento e la conversione dell’area ortiva in hortus specializzato nella coltivazione di essenze floreali e arboree destinate alla lavorazione di profumi e unguenti. L’identificazione funzionale del sito si basa sul rinvenimento di contenitori vitrei (ampullae), pestelli, recipienti in ceramica e resti di apparati di triturazione, associabili a un’attività di trasformazione e commercializzazione. Il giardino, indagato secondo criteri archeobotanici, si caratterizza per la presenza di un sistema di irrigazione antico, raramente documentato in altri contesti pompeiani, e per una canalizzazione del flusso idrico coerente con l’organizzazione orticola descritta da Columella e Plinio il Vecchio. Il ripristino di tale sistema ha comportato una rilettura integrata del piano di campagna originario, con attenzione all’orientamento solare, alla disposizione dei pergolati e alla corretta collocazione dei tralci di vite secondo i modelli agronomici antichi. Il valore simbolico e devozionale del giardino si manifesta nella ricostruzione del larario, dove è stata riposizionata – in forma di copia in terracotta – la statua di Ercole ritrovata durante gli scavi, già considerata elemento distintivo dell’edificio. Adiacente al larario si colloca il triclinio estivo, ricostruito sulla base delle impronte negative dei pali lignei rinvenute durante le indagini, e con una resa prospettica che riprende l’originaria scenografia vegetale. L’iscrizione cras credo (“domani si fa credito”), posta sull’ingresso dell’abitazione, è stata oggetto di analisi epigrafica e semantica: interpretata in passato come formula scherzosa o proverbiale, si inserisce più verosimilmente in un contesto commerciale e pubblico, suggerendo una funzione ibrida della domus, oscillante tra spazio privato e luogo di transazione. L’operazione di valorizzazione della Casa del Giardino di Ercole non si limita a un intervento estetico o didattico. Essa costituisce un modello di archeologia paesaggistica, capace di restituire non soltanto la volumetria degli ambienti ma anche la funzione produttiva e rituale del giardino antico, in un’ottica di archeologia sensoriale e culturale. La rinnovata fruizione – prevista ogni martedì come “casa del giorno” – consente ai visitatori di attraversare un contesto immersivo, in cui lo spazio domestico si fonde con il paesaggio odoroso e vegetale, secondo una prassi che i Romani non concepivano come separabile. L’intervento, esemplare nella convergenza tra fonti materiali e ricostruzione documentaria, dimostra come l’archeologia possa restituire significato a quelle componenti “mute” del paesaggio antico – terra, acqua, piante – che solo uno sguardo interdisciplinare è in grado di far parlare. Non più soltanto pietre e muri, ma forme di vita e modelli economici, sistemi di gestione delle risorse e conoscenze agronomiche tradotte in scelte spaziali. Infine, la collaborazione tra enti pubblici e soggetti privati, come Rosantiqua, testimonia la crescente importanza delle sinergie tra ricerca e mecenatismo culturale. In questo contesto, Pompei si conferma non solo sito archeologico, ma laboratorio vivo per la sperimentazione di un’archeologia inclusiva, capace di integrare la precisione dello scavo stratigrafico con la dimensione emozionale e paesaggistica della restituzione storica.
Venerdì 13 giugno si alza il sipario sul 102° Arena di Verona Opera Festival: Nabucco di Verdi, intenso affresco corale di ispirazione biblica, diventato “colonna sonora” del Risorgimento italiano, rivive in una produzione tutta nuova firmata in ogni aspetto dal visionario Stefano Poda. L’opera diventa un viaggio senza tempo dal conflitto alla riconciliazione, dalla superbia alla speranza, tra umanesimo e tecnologia: i popoli in conflitto di Nabucco sono tutti gli uomini, tutti i popoli, di ieri, di oggi, e forse di domani, che scoprono sé stessi attraverso la separazione, violenta e dolorosa ma con la speranza di un nuovo ricongiungimento. Una produzione che è anche una grandissima sfida tecnica per le maestranze areniane e per i numerosi laboratori coinvolti, con inedite soluzioni per i 3.000 costumi e spettacolari effetti scenici. In scena 400 tra artisti, mimi, figuranti, Ballo, impegnati in inedite coreografie di battaglia di scherma, e naturalmente il Coro, vero protagonista dell’opera.
È il nuovo Nabucco che Rai Cultura propone sabato 21 giugno alle 21.20 su Rai 3, in occasione della Giornata Mondiale della Musica, in collaborazione con il Ministero della Cultura. In scena Amartuvshin Enkhbat. Accanto a lui Anna Pirozzi come Abigaille, Vasilisa Berzhanskaya (Fenena), Francesco Meli (Ismaele), Roberto Tagliavini (Zaccaria), Carlo Bosi (Abdallo), Gabriele Sagona (gran sacerdote di Belo) e Daniela Cappiello (Anna). Oltre 160 gli artisti del Coro diretti da Roberto Gabbiani, e 120 i professori dell’Orchestra di Fondazione Arena, diretti dall’esperto maestro Pinchas Steinberg, che fa il suo atteso ritorno a Verona a 25 anni dal suo esordio areniano.
L’opera replica anche sabato 14 giugno, con nuovi debutti nel cast: Maria Josè Siri, Galeano Salas, Alexander Vinogradov, Matteo Macchioni, Elisabetta Zizzo. Nelle successive recite dell’opera troveremo Anna Netrebko interpreta per la prima volta in Italia la parte di Abigaille, (17, 24, 31/7), con Olga Maslova (dal 9 agosto) accanto alla Fenena di Aigul Akhmetshina. Baritoni titolari saranno Luca Salsi e Youngjun Park, mentre nei panni di Zaccaria si avvicendano anche Christian Van Horn e Simon Lim. Nabucco è solo la prima delle 51 serate di spettacolo del Festival 2025, che comprende 5 titoli d’opera e 5 fra concerti e balletti fino al 6 settembre. Confermati gli orari d’inizio spettacolo già in vigore la scorsa estate: le rappresentazioni di giugno iniziano alle 21.30, quelle di luglio alle 21.15 e in agosto e settembre il sipario si alza alle 21. I biglietti per tutte le date sono già in vendita su arena.it, sui canali social dell’Arena di Verona e su Ticketone. Speciali riduzioni sono riservate agli under 30 e agli over 65.
È stata presentata la Stagione 2025/26 del Teatro Bellini di Napoli. «[…] Abbiamo costruito una programmazione che sfida le convenzioni, che intreccia classico e contemporaneo, che mette in dialogo voci diverse per raccontare il nostro tempo con intensità e verità […]»: Gabriele Russo, direttore artistico del Bellini.
La Stagione riprenderà, a settembre, con Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo e Franca Rame, che torna in scena dal 26 settembre al 12 ottobre 2025 (regia di Antonio Latella). Dal 14 al 19 ottobre 2025, andrà in scena Finale di Familie Flöz (regia di Hajo Schüler), spettacolo con cui verrà inaugurata la Stagione – che proseguirà con Donald. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man di e con Stefano Massini, in scena dal 21 al 26 ottobre 2025. A novembre, invece, dal 4 al 9, andrà in scena L’Empireo (The Welkin) di Lucy Kirkwood (traduzione di Monica Capuani, Francesco Bianchi; regia di Serena Sinigaglia). Un altro importante appuntamento teatrale è Finale di partita di Samuel Beckett (traduzione di Carlo Fruttero; regia di Gabriele Russo), in scena dal 13 al 30 novembre 2025: «[…] Il cuore del dramma beckettiano resta lo stesso: una famiglia chiusa in un eterno gioco al massacro. Ma oggi, dopo il trauma collettivo della Pandemia, il senso di questa segregazione assume nuove sfumature. […]» (Gabriele Russo). Dal 2 al 7 dicembre 2025, andrà in scena Amleto², uno spettacolo di e con Filippo Timi: «[…] L’artista stravolge il testo shakespeariano, rovescia passioni e personaggi nella stessa gabbia da circo all’interno della quale si consuma un elogio della follia. […]». La Stagione 2025/26 proseguirà con un appuntamento dedicato alla danza, “Dance&Performance”: May B, con coreografia di Maguy Marin, in scena dal 10 al 14 dicembre 2025. E poi: «[…] A grande richiesta torna a Napoli Dignità Autonome di Prostituzione, lo spettacolo che ha decisamente scardinato le convenzioni classiche del Teatro […]», dal 26 dicembre 2025 all’11 gennaio 2026 (spettacolo e regia di Luciano Melchionna, dal format di Betta Cianchini e Luciano Melchionna). Dal 13 al 18 gennaio 2026, invece, andrà in scena Migliore, scritto e diretto da Mattia Torre, con Valerio Mastandrea – e dal 22 al 25 gennaio 2026, THE WALL LIVE Pink Floyd Legend: «Dopo il grande successo della Pink Floyd Legend Week dello scorso anno, i Pink Floyd Legend tornano al Teatro Bellini di Napoli con un evento unico: la messa in scena integrale di The Wall, il celebre concept album dei Pink Floyd. […]». La Stagione 2025/26 proseguirà con: La città dei vivi, liberamente tratto dal romanzo di Nicola Lagioia – con regia, video e drammaturgia di Ivonne Capece, dal 27 gennaio al 1 febbraio 2026: «[…] Lo spettacolo La città dei vivi porta in scena la discesa in un inferno morale che appartiene non solo ai protagonisti, ma a un’intera società. Roma diventa un personaggio […]»; Tre modi per non morire. Baudelaire, Dante, i Greci di Giuseppe Montesano, con Toni Servillo (dal 4 all’8 febbraio 2026); Come gli uccelli di Wajdi Mouawad (traduzione di Monica Capuani; regia di Marco Lorenzi. Dal 10 al 15 febbraio 2026); La rigenerazione di Italo Svevo, con regia di Valerio Santoro, in scena dal 17 al 22 febbraio 2026. La Stagione proseguirà con la commedia in tre atti di Eduardo De Filippo: Sabato, domenica e lunedì – in scena, con la regia di Luca De Fusco, dal 24 febbraio all’8 marzo 2026: «Dei massimi capolavori del Teatro di Eduardo Sabato, domenica e lunedì è il testo più borghese, quasi cechoviano; la sua conclusione lieta sembra la meno agrodolce, la più sinceramente solare. […]» (Luca De Fusco). Torna al Bellini, il 6 e il 7 marzo 2026, Massimo Recalcati, «con due lectio magistralis sulla psicoanalisi». E poi: Odissea, con Stefano Accorsi, dal 10 al 15 marzo 2026; Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill (traduzione di Bruno Fonzi; regia di Gabriele Lavia), dal 17 al 22 marzo 2026. Ci sarà, dal 26 al 29 marzo 2026, un altro appuntamento di “Dance&Performance”: Pite/Preljocaj/Tortelli – Trittico Solo Echo, Reconciliatio, Glory Hall. Gli ultimi due appuntamenti teatrali saranno: Giu-Ro. Libera Gioventù Bannata dal Tempo, dall’11 al 26 aprile 2026: versi, canti e testi, drammaturgia di Mimmo Borrelli, liberamente “shak-ispirati” al dramma del Bardo (Romeo e Giulietta); regia di Mimmo Borrelli; Stato contro Nolan (un posto tranquillo) di Stefano Massini, con regia di Alessandro Gassmann, dal 7 al 24 maggio 2026.
Qui, per tutte le altre informazioni riguardanti il Programma del Bellini; qui, invece, per conoscere la Stagione 2025/26 del Piccolo Bellini.
Città del Vaticano, Musei Vaticani
PAOLO VI E JACQUES MARITAIN: IL RINNOVAMENTO DELL’ARTE TRA FRANCIA E ITALIA (1945-1973)
in collaborazione con i Musei Vaticani, Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, Centro Culturale San Luigi dei Francesi/ Institut français – Centre Saint-Louis e Bibliothèque Nationale et Universitaire de Strasbourg
Roma,12 giugno 2025
Un dipinto sacro non si guarda mai da soli. Anche quando si è fisicamente soli di fronte a un’opera, ci sono sempre altri sguardi che ci accompagnano: lo sguardo di chi l’ha creata, lo sguardo di chi l’ha amata prima di noi, lo sguardo di chi ha creduto che lì, tra il silenzio della materia e il fremito dell’invisibile, potesse trovare una risposta. Forse per questo, in fondo, Jacques Maritain non ha mai scritto “sull’arte”, ma per l’arte: come se l’arte fosse una persona da difendere, da consolare, da far parlare. La mostra “Paolo VI e Jacques Maritain: il rinnovamento dell’arte sacra tra Francia e Italia (1945-1973)”, ai Musei Vaticani, è tutto fuorché una semplice esposizione. È un racconto sussurrato tra le mura di pietra di due uomini che si sono cercati attraverso parole, opere e destini. È anche un modo per chiedersi: che cosa deve essere oggi l’arte religiosa? Un ornamento? Un’illustrazione? O una lotta, un’urgenza, una necessità di incarnare lo spirituale quando tutto intorno ci spinge verso il rumore? Nel cuore dei Musei Vaticani, là dove le stanze di Raffaello cercano ancora di parlare al cielo e la Cappella Sistina grava con la sua onniscienza michelangiolesca, questa piccola mostra è un’introspezione. Ci si muove tra lettere, disegni, pitture, ma in realtà ci si muove tra voci. E la voce che più vibra, che più risuona, non è quella di un artista, ma quella di un filosofo che ha saputo farsi “ponte”, non soltanto tra Chiesa e cultura, ma tra l’umano e il divino. Quando Maritain fu inviato a Roma come ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, nel 1945, portava con sé un’idea di cristianesimo che non voleva essere rifugio, ma fermento. Non cercava nelle stanze vaticane una quiete diplomatica, ma un dialogo che sapesse farsi carne. A quell’epoca Roma era una città sventrata dalla guerra, eppure nei suoi caffè e nei suoi chiostri si respirava l’inizio di un’altra battaglia, quella per dare forma al sacro in un mondo secolarizzato. E proprio lì, tra i marmi antichi e la polvere dei codici, si rinsaldò la sua amicizia con Giovanni Battista Montini. Un’amicizia che non si nutriva solo di parole — anche se le lettere tra i due potrebbero essere lette come un romanzo sull’utopia cristiana — ma di progetti concreti: su tutti, la volontà di restituire all’arte sacra quella tensione spirituale che la modernità sembrava aver disinnescato. Quello che colpisce nel percorso della mostra non è tanto la bellezza delle opere — da Maurice Denis a Georges Rouault, da Chagall a Matisse, da Severini a Congdon — quanto la fragilità che esse contengono. Fragilità nel senso di apertura, di desiderio di ascolto. Queste non sono opere che impongono, che predicano. Sono opere che domandano. Che pongono un problema: come si dipinge Dio dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo il Concilio? È qui che l’influenza di Maritain, e soprattutto del suo “umanesimo integrale”, diventa centrale. Perché l’arte, per lui, non è mai fine a se stessa. Non è mai autonoma nel senso di autarchica. Ma lo è nella misura in cui si fa libera di seguire un’ispirazione che viene da altrove. C’è un passaggio nei suoi scritti in cui dice che il compito dell’artista non è rappresentare il mondo, ma lasciare che il mondo lo attraversi. Questa idea è visibile nella selezione esposta, anche nei tratti più lievi: un disegno, una fotografia, una dedica. E poi ci sono le presenze-assenze. Come quella di Raïssa, compagna di vita e di fede, il cui sguardo aleggia in ogni stanza pur non essendo mai al centro. Fu lei a guidare il filosofo verso la conversione, fu lei a costruire attorno a lui un cenacolo silenzioso ma operoso, popolato da artisti e poeti, da credenti e scettici, da cercatori di senso che non avevano paura del dubbio. Ogni opera presente sembra portare con sé una preghiera incompiuta. La cappella di Vence di Matisse non è solo un capolavoro: è una dichiarazione d’amore per la luce. I crocifissi di Rouault non consolano, ma inquietano. Le forme di Chagall sembrano cercare un linguaggio per dire l’ineffabile, ma lo fanno con la leggerezza del sogno. Nulla, in questa mostra, è “spiegato”. Nulla è chiuso. Ogni teca è una soglia. Ogni tela è un’invocazione. Eppure, la mostra ha anche un sottotesto più urgente: quello della responsabilità dell’arte oggi. In un tempo in cui il sacro è ridotto a souvenir, e la spiritualità a performance estetica, questo percorso espositivo ci interroga su cosa significhi credere nella bellezza come via della verità. E ci ricorda che l’arte sacra, se vuole sopravvivere, non deve essere né nostalgica né decorativa, ma capace di ferire e guarire allo stesso tempo. Il fatto che Paolo VI abbia voluto una Collezione di Arte Religiosa Moderna nei Musei Vaticani — contro molte resistenze, e in un tempo di grandi incertezze — è di per sé un atto profetico. Non una collezione di santi con l’aureola, ma di artisti che, pur non dichiarandosi credenti, hanno saputo toccare il mistero con onestà. La presenza, in mostra, anche del domenicano Marie-Alain Couturier, teorico di un’arte sacra “liberata” dalla committenza ecclesiastica e più radicale del suo stesso amico Maritain, aggiunge complessità. I due si opposero più volte. Ma non nel nome della verità, bensì dell’urgenza. Due modi diversi di invocare lo stesso Dio. Forse è proprio questo che ci insegna questa piccola, intensa mostra: che Dio non è dove lo cerchiamo, ma dove siamo disposti ad ascoltarlo. Anche in un segno incerto, in una pennellata sbagliata, in una stanza in penombra dei Musei Vaticani, mentre fuori Roma brulica di turisti e di selfie. Lì, dove l’arte non pretende di convertire ma solo di farsi attraversare dal sacro, nasce la vera spiritualità. E chi guarda non resta mai davvero solo.