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Deutsche Oper Berlin: “Werther”

gbopera - Sab, 26/07/2025 - 17:33

Deutsche Oper Berlin, season 2024/2025
“WERTHER”
Opera in four acts. Libretto by Edouard Blau, Paul Milliet and Georges Hartmann,based on the novel The Sorrows of Young Werther by Johann Wolfgang von Goethe
Music by Jules Massenet
Werther JONATHAN TETELMAN
Charlotte AIGUL AKHMETSHINA
Albert DEAN MURPHY
Sophie LILIT DAVTYAN
Le Bailli MICHAEL BACHTADZE
Schmidt CHANCE JONAS-O’TOOLE
Johann GERARD FARRERAS
Brühlmann JÖRG SCHÖRNER
Käthchen KARIS TUCKER
Kinderchor der Deutschen Oper Berlin
Orchester der Deutschen Oper Berlin
Conductor Enrique Mazzola
Children’s Chorus Christian Lindhorst
Berlin, 23 July 2025
The thirteen-year tenure of Dietmar Schwarz as the director of the Deutsche Oper Berlin is coming to an end, during which a considerable number of French operas were staged, unfortunately none by Jules Massenet. It is therefore commendable that Werther is being performed in two concerts at the end of his era. Due to my lack of language skills, I am not a big fan of the French repertoire. However, the great Russian mezzo-soprano Elena Obraztsova, whom I greatly admire, made Samson et Dalila and Werther extremely accessible to me with her outstanding vocal interpretations of Dalila and Charlotte, alongside her congenial partners Placido Domingo and Alfredo Kraus. So the bar has been set high and, to say it straight away, there is nothing to find fault with the concert performance. Enrique Mazzola was once again engaged as an experienced conductor of bel canto and the French repertoire to lead the Orchester der Deutschen Oper Berlin confidently and transparently through the colourful impressionistic score by conjuring up a particularly beautiful Claire de lune, savouring the musical highlights and finally driving the tension towards the tragic end. I first heard Jonathan Tetelman as Rodolfo at the Komische Oper Berlin six years ago, and it is amazing to see what a meteoric career the American singer of Chilean origin has had since then. He is probably the biggest star in the current spinto tenor firmament and perfectly suited to the challenging and rewarding title role. He rhapsodises and yearns, repeatedly soaring to emphatic stentorian tones without ever losing his musical line. An outstanding performance! The same applies to the young Bashkir singer Aigul Akhmetshina, who lets her beautifully warm mezzo-soprano with a slight Slavic touch convey all of Charlotte’s emotional highs and lows. I would argue that she already continues the tradition of Irina Arkhipova or Elena Obraztsova. Armenian singer Lilit Davtyan has a beautiful, crystal-clear coloratura soprano, which she uses to great effect for Charlotte’s sister Sophie and excels particularly in her two arias. Dean Murphy, who recently stood out as the Herald in Lohengrin and Prince Yeletski in The Queen of Spades, makes the most of the thankless role of Albert, Charlotte’s fiancé and husband. Other members of the Deutsche Oper ensemble contribute to the perfect success of the concert evening, such as Georgian baritone Michael Bachtadze as Bailli, Chance Jonas-O’Toole and Gerard Farreras as his friends Schmidt and Johann, Jörg Schörner as Brühlmann and Karis Tucker as Käthchen. The Kinderchor der Deutschen Oper Berlin, rehearsed by Christian Lindhorst, sings at a famously high standard. A magnificent opera night in every respect! Photo Bettina Stöss

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Romano di Ostia Antica: “Ifigenia”

gbopera - Ven, 25/07/2025 - 23:59

Roma, Teatro Romano di Ostia Antica
IFIGENIA
tragedia di Euripide
adattamento Silvia Zarco
regia Eva Romero
con María Garralón (Hécuba), Juanjo Artero (Agamennone), Beli Cienfuegos (Clitennestra) Laura Moreira (Ifigenia), Nuria Cuadrado (Polissena), Alberto Barahona (Ulisse) Néstor Rubio (Águilas), Rubén Lanchazo (Poliméstor, vecchio), Maite Vallecillo (Corifeo, Schiavo di Troia)
scene Elisa Sanz
costumi Elisa Sanz e Igone Teso
composizione musicale Isabel Romero
disegno luci Rubén Camacho
foto Jorge Armestar
produzione Festival di Merida e Maribel Mesón produzione e distribuzione teatrale
Ostia Antica, 25 luglio 2025
“Le parole delle donne uccise pesano anche quando non vengono pronunciate.” (Marcela Lagarde, antropologa e attivista, in Los cautiverios de las mujeres, 1990)
In questa frase si racchiude la vibrazione profonda di Ifigenia, l’opera riscritta da Silvia Zarco e diretta da Eva Romero, andata in scena al Teatro Romano di Ostia Antica. La tragedia, frutto di una coproduzione tra il Festival Internacional de Teatro Clásico de Mérida e il Teatro di Roma, con la produzione teatrale curata da Maribel Mesón, non propone una mera riscrittura dei testi di Euripide (Ifigenia in Aulide, Ecuba) ed Eschilo (Agamennone), ma una ricomposizione drammaturgica potente, che colloca al centro due figure sacrificate e dimenticate: Ifigenia e Polissena. Due corpi offerti, due bocche mute, due volti che ritornano per parlare oggi, tra le pietre di Ostia. Silvia Zarco — filologa classica, docente e drammaturga — fonde i tre testi tragici in un’unica struttura narrativa che mette in dialogo le vittime: Ifigenia, la prima offerta per la gloria greca; Polissena, l’ultima offerta per l’onore degli achei. Due ragazze, due figlie, due giovani vite trasformate in simboli di una logica di potere che attraversa i secoli. “La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda”, scriveva Paul Ricoeur in La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000). Ifigenia non rievoca il passato per nostalgia, ma lo interroga per rivelare quanto quel sacrificio sia ancora attuale. La regia di Eva Romero — direttrice della Escuela Municipal de Teatro de Guareña, attivista femminista — non cede alla tentazione dell’estetizzazione. Anzi. Sceglie la spoliazione come linguaggio scenico, lasciando che siano i corpi e le voci a costruire il dramma. Le scene di Elisa Sanz sono essenziali: grandi rocce, disposte come presenze ancestrali, definiscono una spiaggia rituale senza tempo. I costumi, curati da Sanz insieme a Igone Teso, si muovono in una scala cromatica neutra, privi di ogni folclore. Le luci di Rubén Camacho lavorano per incisioni, scolpendo lo spazio come un bassorilievo tragico. La partitura sonora di Isabel Romero — minimale, atmosferica — accompagna il testo con un respiro di attesa e morte. Ma è la parola il vero centro incandescente di questo spettacolo. Il testo di Zarco è tagliente, controllato, poetico senza essere mai decorativo. Le frasi non sono declamate, ma incise. Ogni battuta pesa. Ogni silenzio è carico di significato. La lingua, pur fedele alla tragedia classica, si apre a registri contemporanei che parlano di oggi: della violenza di genere, dell’impunità, della trasmissione del trauma. Non si tratta di attualizzazione forzata, ma di necessità tragica. Come scriveva Simone Weil in La fonte greca (1953), “la tragedia greca è la prima forma d’arte che mostra il male in tutta la sua realtà, senza tentare di giustificarlo”. È esattamente ciò che accade qui. Il cast si distingue per rigore e intensità. Laura Moreira è un’ Ifigenia dolorosa ma non supina: nei suoi gesti trattenuti, nel timbro controllato della voce, c’è la consapevolezza di una morte che non redime, ma denuncia. Nuria Cuadrado dà voce a una Polissena vibrante, che non chiede pietà ma giustizia. Il loro dialogo, pur provenendo da tragedie distinte, si fonde in un’unica traiettoria: sono figlie che rifiutano di morire nel silenzio. María Garralón è una Hécuba maestosa, mater dolorosa che non implora ma inchioda. Il suo dolore è scolpito nella postura e nello sguardo. Beli Cienfuegos, nei panni di Clitemnestra, è una figura di colpa lucida e determinazione ferrea. Juanjo Artero, nel ruolo di Agamennone, costruisce un personaggio credibile e trattenuto, attraversato dal dissidio interno. Alberto Barahona è un Ulisse infido e politico, voce di un potere che calcola. Néstor Rubio interpreta un Achille energico e retto, mentre Rubén Lanchazo affronta con misura i doppi ruoli di Poliméstor e del Vecchio. Maite Vallecillo, intensa come Corifea e come schiava troiana, è filo narrativo e coscienza collettiva. Il ritmo drammaturgico è scandito con intelligenza: non ci sono cadute, né compiacimenti. L’alternanza tra momenti lirici, dialoghi asciutti, cori solenni e improvvisi squarci epici permette allo spettatore di attraversare la tragedia senza mai smarrirsi. Lo spettacolo non cerca effetti né complicità emotive. Chiede rispetto. Chiede ascolto. Chiede memoria. Alla fine, il pubblico del Teatro di Ostia Antica ha risposto con un lungo applauso, preceduto da un silenzio carico come una notte. Ifigenia non è solo una messa in scena riuscita. È un rito laico. Un grido civile. Un monito tragico. Come scriveva Marguerite Yourcenar in Fuochi (1936): “I sacrifici umani non sono mai cessati. Solo hanno cambiato metodo.Ecco perché questa Ifigenia ci riguarda. Perché dietro ogni mito ci sono ancora domande senza risposta. E dietro ogni tragedia, se è scritta e diretta con questa forza, c’è la possibilità di tornare a vedere. E di non dimenticare. Con Ifigenia, giunge a compimento il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato, prima edizione a cura del Teatro di Roma. Una rassegna che ha restituito centralità al teatro classico nel cuore palpitante del Parco Archeologico di Ostia Antica, con un crescendo di adesione da parte del pubblico e una costante tenuta sul piano artistico. Nonostante alcune difficoltà riscontrate nella lettura dei sopratitoli in lingua italiana – a causa della messa in scena in spagnolo – lo spettacolo ha incontrato un notevole favore da parte degli spettatori, a conferma della vitalità del mito anche nella sua trasposizione linguistica. Ostia Antica si configura dunque non soltanto come spazio della memoria, ma come scena vivente del presente, capace di coniugare il passato con l’urgenza dell’oggi. Per le prossime edizioni, andrà ottimizzata la gestione dei flussi, affinché la forza del mito non sia vanificata da disagi logistici che mortificano l’esperienza dello spettatore.

 

 

Categorie: Musica corale

Roma, Caracalla Festival 2025: “La Traviata”

gbopera - Ven, 25/07/2025 - 15:18

Roma, Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2024/2025
Terme di Caracalla
“LA TRAVIATA”
Opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave,
da La Dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio.
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry CORINNE WINTERS
Flora Bervoix  MARIA ELENA PEPI*
Annina  SOFIA BARBASHOVA*
Alfredo Germont PIOTR BUSZEWSKI
Giorgio Germont  LUCA MICHELETTI
Gastone, Visconte di Létorières CHRISTIAN COLLIA
Il Barone Douphol ROBERTO ACCURSO
Il marchese D’Obigny ALEJO ALVAREZ CASTILLO*
Il Dottor Grenvil MATTIA DENTI
Un commissario ANDREA JIN CHEN
Un domestico MASSIMO DI STEFANO
Giuseppe ENRICO PORCARELLI
*dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra,Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Slàva Daubnerovà
Scene  Alexandre Corazzola
Costumi Ekaterina Hubenà
Coreografia Ermanno Sbezzo
Luci Alessandro Carletti
Nuovo allestimento del teatro dell’Opera di Roma
Roma, 23 luglio 2025
Per la stagione operistica estiva delle Terme di Caracalla l’opera d Roma  ha affidato la nuova produzione de “La Traviata”  alla bacchetta romana del maestro Francesco Lanzillotta e al debutto dell’avanguardista del teatro sperimentale slovacco Slàva Daubnerovà, regista e performer che si propone come pioniera dell’analisi delle tematiche femminili. Queste scelte si sono rivelate la prima una piacevole e valida conferma di un solido mestiere e di una profonda conoscenza di quanto dovesse essere rappresentato in scena, la seconda a nostro giudizio una meno felice decisione per la sostanziale monotonia della regia al di là delle scelte di impostazione. L’opera viene letta come distruzione del corpo e della psiche della protagonista causata da un abuso infantile, del quale in Verdi non c’è memoria, dalla vita da prostituta e dalla malattia. Per tutti e tre gli atti è ingombrante presenza in scena un brutto busto femminile dorato nel primo atto e poi via via livido e verdastro come per corruzione cadaverica, sul quale Alfredo si arrampica per cantare la sua aria fra la “pompa del suo sen” e che nel terzo atto finalmente si apre. Da dietro la scena una incomprensibile cortina fumogena nasconde la vista delle rovine di Caracalla per tutto lo spettacolo. Lo spettacolo è un continuo di inutili quanto distraenti movimento di figuranti, oggetti, mimi e ballerini che talvolta producono anche rumori e cigolii come il tavolo da gioco che esce nel finale del secondo atto. Il coro viceversa è assolutamente immobile. Inutile soffermarsi sulla descrizione delle molteplici trovate spesso di gusto discutibile. Comprendiamo l’intento programmatico di una artista che con il suo lavoro ha aspirato a rompere gli schemi del teatro di tradizione slovacco ma in un sistema così definito e strutturato come il teatro verdiano questo genere di operazioni non funziona. Quando si abbandona un linguaggio noto e comune senza crearne un altro, il rischio è di cadere nell’ ”insalata di parole” dei pazienti con deficit cognitivi tanto per restare nell’ambito del tema della malattia. E il risultato è spesso costituito dalla noia, dall’incapacità a commuovere o comunque a destare emozioni e dalla scarsa comprensibilità dei propri intenti senza voler entrare nel merito ideologico delle scelte. Il compito dell’avanguardia dovrebbe esser quello di fare per l’appunto l’avanguardia e non di costituirsi in una sorta di nuova accademia nella quale per altro correndo da soli si arriva, o si presume di arrivare, sempre primi per forza di cose.   E veniamo finalmente alla parte musicale della serata. Francesco Lanzillotta dirige la partitura con la nota sensibilità, varietà di colori e di dinamiche nonostante i limiti e le difficoltà di una esecuzione amplificata ed effettuata all’aperto, riuscendo a far ritrovare, nonostante quanto avviene in scena, il senso della sintassi verdiana. Il coro diretto dal maestro Ciro Visco conferma anche in questa serata il livello di eccellenza raggiunto. Nel ruolo della protagonista Corinne Winters, sia pur con alcune asprezze del registro acuto, impersona una Violetta intensa e partecipe grazie anche ad un bel fraseggio e ad una convincente presenza scenica nell’ambito della concezione dello spettacolo. Piotr Buszewsky è un Alfredo dal timbro qua e là un po’ nasale e che bisticcia, perdendo quasi sempre, con le insidiose doppie della lingua italiana. Luca Micheletti, decisamente il migliore della serata sul piano vocale per nobiltà del fraseggio e chiarezza di dizione, è un Germont padre inspiegabilmente truccato da giovane ma che si muove da anziano. Corretta la Flora di Maria Elena Pepi del progetto “Fabbrica” e meritevole di menzione il Gastone di Christian Collia per eleganza vocale e bellezza del timbro. Gli altri comprimari sono stati tutti funzionali alla concezione dello spettacolo. Molto interessante abbiamo trovato il bel saggio di Benedetta Craveri proposto nel programma di sala. Alla fine nonostante le perplessità già espresse, il pubblico ha applaudito convinto. La musica funziona e comunica comunque. Photocredit Fabrizio Sansoni Teatro dell’Opera di Roma                  

Categorie: Musica corale

Staatsoper Stuttgart: “Rigoletto”

gbopera - Ven, 25/07/2025 - 07:09
Staatsoper Stuttgart, Stagione Lirica 2024/25 “RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti. Libretto di Francesco Maria Piave da Le roi s’amuse di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Duca di Mantova ATALLA AYAN
Rigoletto MARTIN GANTNER
Gilda CLAUDIA MUSCHIO
Sparafucile ADAM PALKA
Maddalena ITZELI DEL ROSARIO
Borsa JOSEPH TANCREDI
Il Conte di Ceprano SHUNYA GOTO
La contessa di Ceprano ELENA SALVATORI
Marullo JACOBO OCHOA
Il Conte di Monterone ALEKSANDER MYRLING
Paggio della Duchessa NICOLAS CALDERÓN BOSSOM
Usciere WILLIAM DAVID HALBERT
Orchestra e Coro della Staatsoper Stuttgart Direttore Andriy Yurkevych Maestro del Coro Bernhard Moncado Regia e Drammaturgia Jossi Wieler, Sergio Morabito
Scene Bert Neumann
Costumi Nina Von Mechow
Luci Lothar Baumgarte Stuttgart, 19 luglio 2025 Ripresa dell’ allestimento del 2015 La stagione della Staatsoper Stuttgart si è conclusa con la ripresa della messinscena del Rigoletto allestita nel 2015 da Jossi Wieler e Sergio Morabito. Un allestimento che all’ epoca fu lodato unanimemente da tutta la critica ma che dieci anni dopo dimostra di essere invecchiato davvero molto male. Dopo averla vista quattro volte nel corso degli ultimi dieci anni, confermo che il grande difetto di questa regia non è tanto nella trasposizione temporale all’ epoca dell’ autore, che tutto sommato rimane abbastanza innocua, ma piuttosto nel travisamento della drammaturgia di molti punti. Soprattutto il secondo atto, con le risatine ironiche dei cortigiani durante l’aria di Rigoletto che stridono in maniera evidentissima con l’ atmosfera di straziante intensità espressa dalla musica, seguite dalla comparsa della deflorata Gilda abbigliata in un vestito da Tosca e che si comporta come se fosse presa da un accesso di rabbia invece di essere mortalmente delusa e avvilita per avere scoperto di essere stata ingannata dal suo amante, dimostra una totale mancanza di comprensione delle intenzioni di Verdi e della struttura drammatica da lui creata musicando il testo tratto dal dramma di Victor Hugo. Questi sono difetti e deformazioni che invalidano completamente la struttura drammaturgica della messinscena, che dal punto di vista estetico è nell’ insieme abbastanza gradevole ma in più punti stravolge il carattere dei personaggi facendogli esprimere azioni e sentimenti che l’ autore non ha mai immaginato. Sono i problemi da cui è afflitto il teatro di regia, ossia quella che è a mio avviso l’incapacità dei registi odierni di confrontarsi col mito e con le storie del passato, viste solo come dramma borghese e/o groviglio di conflitti psicologici. Una simile mentalità induce a riflettere sulla “moda” attuale del dramma borghese a tutti i costi, sulla rinuncia alla fabula come metafora (sostituita dalle valenze metaforiche della realtà) e sull’ insistenza – spesso davvero eccessiva – a visualizzare tutto secondo gli elementi di uno junghianismo da quattro soldi. A questo proposito diceva bene Emil Cioran quando affermava che mille anni di guerre hanno plasmato l’ Occidente ma è bastato un secolo di psicologia per ridurlo in frantumi. Fortunatamente, tutto questo non ha compromesso la prestazione del cast vocale, che era di livello sicuramente pregevole. La direzione orchestrale di Andriy Yurkevich, musicista ucraino che da diversi anni risiede in Italia, mostrava una buona intensità drammatica e una grande attenzione alle esigenze dei cantanti, accompagnati in maniera flessibile e duttile. La Staatsorchester Stuttgart ha realizzato le idee interpretative del direttore con sonorità pregevoli e pulizia tecnica impeccabile. Per quanto riguarda il ruolo del protagonista, l’interpretazione di Martin Gantner, sessantenne baritono originario di Freiburg e conosciuto soprattutto come specialista del repertorio wagneriano, era indubbiamente piena di buone intenzioni purtroppo non sempre realizzate a causa di una voce dal timbro arido che nei numerosi passi in cui è impegnato il settore acuto suonava forzata e legnosa. Nonostante la buona pronuncia italiana del cantante, la complessa personalità del buffone ferito nel suo amore paterno veniva fuori solo a tratti. Parlando della coppia degli amanti, eccellente è stata la prova di Claudia Muschio, che debuttava il ruolo di Gilda. La giovane cantante bresciana ha cantato fraseggiando in maniera molto ispirata, con uno squisito gioco di sfumature dinamiche e un “legato” di alta scuola, tratteggiando una Gilda palpitante e sentimentale, ricca di pathos e dell’ ingenuità virginale che viene amaramente delusa dalla realtà con cui deve confrontarsi. Un’ altra splendida interpretazione di questa giovane cantante che per me è sicuramente destinata a una carriera di alto livello. Splendido era anche il Duca raffigurato dal tenore brasiliano Atalla Ayan, perfetto nella caratterizzazione di un seduttore spavaldo grazie al fascino timbrico di una voce ben proiettata e di un fraseggio solare e sensuale.  La voce scura e profonda di Adam Palka era perfettamente adatta alla raffigurazione di un personaggio cupo e minaccioso come Sparafucile. Spigliata e vivace, oltre che cantata molto bene, era anche la Maddalena del giovane mezzosoprano messicano Itzeli del Rosario. Successo trionfale per tutti in un teatro pieno fino all’ ultimo posto. Foto ©Martin Sigmund
Categorie: Musica corale

Roma, Castel Sant’Angelo: “Giovanni Paolo II, l’uomo, il Papa, il Santo – negli scatti di Gianni Giansanti”

gbopera - Gio, 24/07/2025 - 14:36

Roma, Castel Sant’Angelo
GIOVANNI PAOLO II, L’UOMO, IL PAPA, IL SANTO
Negli scatti di Gianni Giansanti
A cura di Massimo Bray e Ilaria Schiaffini
Promossa e realizzata da Ministero della Cultura, Istituto Pantheon e Castel Sant’Angelo – Direzione Musei Nazionali della città di Roma
Promossa dalla Presidenza della Commissione Cultura della Camera dei Deputati
Con il patrocinio di: Regione Lazio, Ambasciata di Polonia in Italia, Ambasciata di Polonia presso la Santa Sede, Centro di Documentazione e Studio del Pontificato di Giovanni Paolo II – Fondazione Vaticana Giovanni Paolo II, Pontificio Collegio Polacco
Organizzata da Castel Sant’Angelo in collaborazione con Civita Mostre e Musei e Archivio Giansanti
Con la collaborazione di Rai Teche
Media partnership: Rai Cultura, TV2000
Roma, 24 luglio 2025
«Non si può penetrare il volto senza subirne la luce» — scriveva Emmanuel Lévinas, ponendo l’etica della relazione come fondamento di ogni incontro con l’altro. E se vi è un luogo in cui quella luce si fa immagine, narrazione e memoria, è nello spazio della fotografia. La mostra Giovanni Paolo II, l’uomo, il Papa, il Santo – negli scatti di Gianni Giansanti, ospitata nei silenzi monumentali di Castel Sant’Angelo, si inscrive esattamente in questa tensione: quella tra visibilità e interiorità, tra il documento visivo e la trascendenza incarnata. Lungi dall’essere una semplice retrospettiva fotografica, l’esposizione si configura come un’operazione culturale complessa, che intreccia biografia, storia e iconografia sacra in un’unica traiettoria di senso. Al centro di questo dispositivo narrativo sta la relazione profonda, quasi simbiotica, fra il pontefice Karol Wojtyła e il fotografo Gianni Giansanti: due testimoni del secolo, due figure pubbliche che, pur parlando con linguaggi diversi, hanno saputo farsi interpreti di una medesima urgenza — quella di comunicare, attraverso lo sguardo, la dignità e la fragilità dell’umano. Il percorso visivo, articolato in oltre quaranta scatti selezionati da Ilaria Schiaffini, docente di Storia della Fotografia alla Sapienza Università di Roma, restituisce con sobrietà e potenza i ventisette anni di pontificato di Giovanni Paolo II: dall’elezione nel 1978 ai giorni segnati dalla malattia, passando per eventi epocali come l’attentato del 1981, il Giubileo del 2000, i viaggi apostolici e i momenti di intimità. Ma ciò che colpisce, oltre la sequenza cronologica, è la coerenza stilistica e la profondità etica che attraversano l’intera opera di Giansanti. Il fotografo non documenta semplicemente: interpreta, custodisce, partecipa. Il suo obiettivo non cattura, ma si affida. La sua è una fotografia dell’avvicinamento, mai dell’invasione. Giansanti osserva senza violare, registra senza imporre. Così, Giovanni Paolo II emerge non come icona costruita, ma come figura radicata nella realtà: un pontefice che prega, sorride, si china, soffre; un uomo che si lascia attraversare dal proprio tempo senza mai dimenticare l’eterno. Lo scatto che lo ritrae nella quotidianità di una colazione con il cardinale Stephen Kim ne è emblema: non vi è nulla di spettacolare, eppure tutto vibra. È nella semplicità che si cela il carisma. A rendere ancora più incisivo il racconto visivo è la collocazione dell’esposizione. Castel Sant’Angelo — luogo liminale tra Roma imperiale e Roma cristiana, tra difesa militare e ascesa spirituale — diventa qui una camera della memoria, quasi una cripta laica in cui l’immagine del papa trova la propria eco tra le pietre secolari. Il Passetto di Borgo, che collega il mausoleo al Vaticano, non è solo architettura, ma metafora: connessione fra potere e preghiera, fra pubblico e privato, fra tempo e mistero. Alla sezione fotografica si affianca un importante apparato documentario, curato da Massimo Bray. Lì, in una timeline disposta nella prima sala dell’Armeria Superiore, si intrecciano manoscritti, oggetti liturgici, abiti, encicliche e video d’archivio concessi da Rai Teche e Vatican Media. Fra i reperti, spiccano la copia autografa della Fides et Ratio, l’inginocchiatoio del periodo cardinalizio e l’anello giubilare. Non semplici cimeli, ma frammenti di una storia incarnata che si fa racconto per immagini e cose. La mostra, promossa dal Ministero della Cultura e dalla Presidenza della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, con il patrocinio della Regione Lazio, delle ambasciate polacche e del Pontificio Collegio Polacco, è organizzata da Castel Sant’Angelo in collaborazione con Civita Mostre e Musei e l’Archivio Giansanti. Si avvale inoltre della media partnership di Rai Cultura e TV2000, a conferma della volontà di costruire un dialogo tra istituzioni, pubblico e patrimonio, in una prospettiva inclusiva e attuale. Ma al di là dell’apparato formale, è nella sostanza delle immagini che il visitatore è chiamato a riflettere. Gli scatti di Giansanti ci riportano un Papa in cammino, un viandante della fede che attraversa il mondo come un pellegrino tra le rovine della storia. Le folle che lo accolgono, i capi di Stato che lo ascoltano, i bambini che lo sfiorano, tutto parla di una missione che ha saputo unire spiritualità e azione, silenzio e parola. In ogni fotografia, si legge non solo la cronaca di un evento, ma la traccia di un ethos. Come ha ricordato Andrea Giansanti, figlio del fotografo, il lavoro del padre fu sempre discreto, mai invadente, animato da un rispetto profondo per il soggetto ritratto. L’archivio che oggi custodisce quelle immagini è un deposito di senso, una memoria collettiva che si fa narrazione condivisa. Ed è proprio questo lo spirito della mostra: non commemorare, ma comprendere; non fissare un’icona, ma ascoltarne il respiro. In un’epoca segnata dalla velocità dell’immagine e dall’oblio immediato, Giovanni Paolo II, l’uomo, il Papa, il Santo ci ricorda che alcune fotografie possono ancora farsi preghiera. E che nello sguardo di chi guarda, e in quello di chi viene guardato, può ancora accendersi una scintilla di verità. Photo Gianni Giansanti

Categorie: Musica corale

Roma, Museo della Civiltà: “Le Fiabe sono vere…Storia Popolare Italiana”

gbopera - Mer, 23/07/2025 - 19:44

Roma, Museo della Civiltà
LE FIABE SONO VERE…STORIA POPOLARE ITALIANA
A cura di Massimo OsannaAndrea Viliani
con le équipe multidisciplinari di Direzione generale Musei, MUCIV-Museo delle Civiltà ICPI-Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale,
la collaborazione di Cristiana Perrella
e il progetto di allestimento di Formafantasma
Progetto organizzato dalla Direzione generale Musei del Ministero della Cultura e sostenuto da fondi PNRR-Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
Roma, 23 luglio 2025
Entrando nel Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari all’EUR, si ha la sensazione di varcare la soglia di un tempo che non è mai passato davvero, ma che respira ancora tra le fibre della stoffa, nel legno scolpito, tra i suoni degli strumenti antichi e le forme degli ex voto. La mostra Le fiabe sono vere… Storia popolare italiana, in corso al Museo delle Civiltà, non è solo un’esposizione di oggetti: è un viaggio nel corpo vivo della memoria collettiva, una lunga passeggiata tra simboli, parole non dette, gesti ripetuti nei secoli. È come aprire il baule dei nonni e trovarci dentro non solo utensili e fotografie, ma anche racconti, usanze, timori, desideri che ancora ci appartengono. Curata con sguardo ampio e sensibile da Massimo Osanna e Andrea Viliani, questa mostra è frutto di un lavoro corale che coinvolge numerosi enti e istituzioni – tra cui il MUCIV, l’ICPI e la Direzione generale Musei – con il sostegno dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ma al di là della sua struttura complessa, si avverte un intento semplice e potente: restituire dignità e voce a ciò che per lungo tempo è stato relegato ai margini della cultura ufficiale. Tradizioni, saperi contadini, racconti tramandati oralmente, oggetti umili, pratiche dimenticate. Eppure tutte queste cose parlano, se si ha il cuore e l’attenzione per ascoltarle. I materiali esposti – più di cinquecento – arrivano da ogni angolo d’Italia: maschere che ricordano i carnevali dell’Appennino, abiti cerimoniali cuciti con pazienza e maestria, strumenti musicali che ancora sanno evocare suoni antichi, giocattoli lignei, ex voto in cera, utensili domestici, fotografie ingiallite, video e filmati d’epoca. La selezione è stata fatta non per impressionare, ma per raccontare. Ogni oggetto è stato scelto per la sua capacità evocativa, per la storia che porta con sé, per ciò che può ancora dire a chi lo osserva. La struttura della mostra segue un andamento che assomiglia a quello di una fiaba: si parte da una piazza, luogo d’incontro e di scambio, per poi addentrarsi nella foresta – simbolo di mistero e di prova – e approdare infine al paesaggio marino, luogo dell’ignoto e del desiderio. Lungo il percorso si attraversano l’infanzia, il lavoro e la festa, il mondo magico, la migrazione, l’intreccio, il filo della vita. Ogni sezione è costruita con cura, come se fosse una stanza della memoria in cui ci si può fermare a ripensare, a sentire, a riconoscere. Una fiaba originale, scritta per l’occasione da Elena Zagaglia, accompagna i visitatori attraverso il viaggio. È la storia di Elio, un ragazzo che parte, incontra l’altro, scopre mondi nuovi e alla fine torna cambiato. Una trama semplice, ma ricca di simboli, proprio come le fiabe della tradizione. La narrazione è disponibile in diversi formati, accessibile a tutti, perché l’idea che guida il progetto è chiara: la cultura deve essere di tutti, senza esclusioni. Proprio l’accessibilità è uno dei punti di forza più profondi della mostra. Non si tratta di un’attenzione formale, ma di una scelta politica e poetica: ogni persona, indipendentemente dalle sue condizioni fisiche, sensoriali o cognitive, deve poter attraversare questo percorso e trovare un senso, un legame, una memoria. Sono stati realizzati percorsi tattili, materiali semplificati, traduzioni in Lingua dei Segni Italiana e Americana, versioni audio, supporti visivi e simbolici. Il lavoro è stato portato avanti con la collaborazione di associazioni come AIPD, ANFFAS, ENS, FAND, FISH, UICI e molte altre. Una comunità che si è riunita non per adattare un percorso già pensato, ma per costruirlo insieme, passo dopo passo. L’allestimento, curato da Formafantasma con la co-progettazione dell’architetta Maria Rosaria lo Muzio, è discreto e poetico. Non invade, non costringe. Lascia spazio agli oggetti, ma anche al silenzio, alla riflessione, all’incontro. Si muove tra materiali naturali, luci morbide, superfici tattili. È come camminare in una casa abitata, dove ogni cosa ha un posto e ogni dettaglio racconta una storia. Accanto agli oggetti italiani, alcuni pezzi provengono da contesti extraeuropei, come la Papua Nuova Guinea. Una scelta che ricorda a tutti che le culture non sono mai chiuse, ma sempre in dialogo. Che la tradizione non è un recinto, ma un campo aperto dove si incrociano cammini, linguaggi, speranze. In questo senso, la mostra è anche un invito a ripensare l’identità: non come qualcosa da difendere, ma come qualcosa da condividere. Le fiabe sono vere… non è un’operazione nostalgica. Non c’è qui il desiderio di tornare a un passato idealizzato, ma piuttosto la volontà di comprendere da dove veniamo per immaginare dove possiamo andare. Le fiabe, come i miti, non servono solo a consolare, ma anche a mettere in discussione. Sono strumenti per leggere il mondo, per affrontare la paura, per attraversare il cambiamento. Camminando tra le sale, si ha l’impressione di non essere soli. Come se ogni oggetto avesse un’eco, un sussurro, un ricordo che ci riguarda. Come se da ogni maschera, da ogni abito, da ogni fotografia venisse fuori una voce che ci dice: anche tu sei parte di questa storia. Anche tu vieni da un racconto, da un intreccio di gesti, parole, sogni. E forse è proprio questa la verità più profonda della mostra: ricordarci che non siamo mai davvero separati, ma legati da fili invisibili che ci attraversano, ci uniscono, ci raccontano. Perché sì, le fiabe sono vere. Lo sono nella misura in cui parlano ancora di noi, dei nostri desideri, delle nostre paure, delle nostre speranze. E in fondo, come accade nelle fiabe più belle, basta ascoltarle con il cuore aperto per ritrovare la strada. Anche quando sembra smarrita. Photocredit MIC

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Festival d’Aix-en-Provence 2025: “Don Giovanni”

gbopera - Mer, 23/07/2025 - 18:24
Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, saison 2025 “DON GIOVANNI” Dramma Giocoso en 2 actes, Livret de Lorenzo Da Ponte Musique Wolfgang Amadeus Mozart Don Giovanni  ANDRE SCHUEN Leporello  KRYSZTOF BACZYK Donna Anna   GOLDA SCHULTZ Donna Elvira  MAGDALENA KOZENA Don Ottavio AMITAI PATI Il Comendatore  CLIVE BAYLEY Zerlina  MADISON NONOA Masetto  PAWEL HORODYSKI Cascadeur MARC SONNLEITNER Chœur Estonian Philharmonic Chamber Choir  Orchestre Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks Direction musicale Sir Simon Rattle Chef de choeur Aarne Talvik
Mise en scène Robert Icke Scénographie Hildegard Bechtler Costumes  Annemarie Woods Lumière James Farncombe Vidéo  Tal Yarden Dramaturgie Klaus Bertisch Aix-en-Provence, le 14 juillet 2025 Pour sa 77ème édition, le Festival d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence proposait l’œuvre peut-être la plus emblématique de Mozart DON GIAVANNI dans sa 8ème production, après celles conçues par Dmitri Tcherniakov ou Jean-François Sivadier controversées. Considéré comme un génie de la mise en scène de théâtre, l’allemand Robert Icke nous livre ici, et pour son premier opéra, sa version de l’œuvre. Le personnage de Don Giovanni a toujours fasciné auteurs, compositeurs ou réalisateurs. Libertin, jouisseur, psychopathe, chacun y va de sa propre vision. Pourquoi donc ne pas s’en tenir à celle donnée par le compositeur et son librettiste, un homme vivant dans l’instant présent pour son propre plaisir sans se poser de questions ni même penser aux conséquences ? Tout est dit dans le titre. “Il dissoluto punito”. Libertin, dissolu, on l’a vu cent fois mais que peut-on ajouter de plus ? Robert Icke y réfléchit sans doute, une connotation pas encore abordée peut-être… la pédophilie. Peut-on l’évoquer sur scène ? Il paraîtrait que oui. C’est en effet ce que nous suggère ce visuel avec l’omniprésence d’une fillette tenant une poupée, Don Giovanni allant même jusqu’à lui offrir un cœur en sucre. N’est-ce pas à elle qu’il s’adresse l’ors de sa sérénade ? Que changer encore ? La question que pose d’entrée Leporello à Don Giovanni  : “Qui est mort, vous où le vieux ?” donnera au metteur en scène une idée jamais explorée non plus. Le Commandeur et Don Giovanni sont-ils semblables, ne sont-ils qu’un même personnage ? Dès avant l’ouverture, le Vieil homme semble mourir d’une crise cardiaque dans son salon, situé en hauteur, écoutant une version éraillée de l’ouvrage, un verre à la main. Est-il mort ? Il reviendra de temps à autres, telle une apparition. La scénographie signée par Hildegard Bechtler ouvre la scène sur un étage qui sera la chambre d’Elvira, une chambre d’hôpital où une sorte de coursive permettant l’évolution des chanteurs accueillant même le petit orchestre de la fin de l’acte I. Pour ajouter à la confusion, Don Giovanni, se promène durant l’acte II attaché à une potence médicale de perfusion. Mais qui meurt dans le lit d’hôpital, Don Giovanni, le Commandeur ? Au milieu de cet imbroglio l’on essaie de retrouver nos anciennes émotions. Difficile ! Sir Simon Rattle, à la tête du SDBR, adhère aux propos de Robert Icke et semble adapter les tempi aux aléas de la scène. L’on retrouve les sonorités suaves et pleines de cette phalange dans le souci constant du style mozartien qui se laisse apprécier avec délectation dès l’ouverture. Leporello, dans la voix profonde de la basse polonaise Krysztof Baczyk joue le maître des horloges. Annemarie Woods, responsable des costumes, imagine un valet de grande classe portant avec dignité un impeccable smoking blanc alors que Don Giovanni, son maître, porte un survêtement blanc à capuche qui se teintera de sang. Cet étrange Leporello paternaliste enlève le côté buffa du personnage, dans ce Dramma giocoso, avec un air du Catalogue un peu guindé. Dans un timbre chaleureux, sa voix projetée aux aigus solides est très appréciée. Le Don Giovanni d’André Schuen est, lui, plus désinvolte. Est-il victime et bourreau de lui-même comme certains le pensent ? Dans un timbre coloré et un phrasé très chantant, le baryton italien charme et Zerlina et le public dans un “là ci darem la mano” expressif, ou plus doux dans la Canzonetta “Deh vieni alla finestra” chanté piano ou un “Fin ch’han dal vino” vif, sonore, projeté avec beaucoup de précision. Un Don Giovanni  singulier mais séduisant et musical. Le Masetto de la basse polonaise Pawel Horodyski conserve au rôle le style Comedia del arte avec ses colères timbrées, ses doutes et ses phrases projetées dans un jeu convaincant et une voix grave et homogène. Le rôle de Don Ottavio est confié au ténor Amitai Pati. L’on apprécie sa musicalité et le timbre velouté de sa voix dans son aria “Della su pace” sans doute un peu faible alors qu’il chante très éloigné et sur les hauteurs. “Il mio tesoro intanto” plus sonore et maîtrisé laissera apprécier de souples vocalises. Clive Bayley, très présent dans son autorité paraît manquer des graves abyssins typiques à la voix du Commandeur. Est-ce voulu ? Très convaincantes sont les trois femmes avec une Donna Elvira à la voix chaude et sonore. Magdalena Kozena est cette femme délaissée mais amoureuse jusque dans ses contradictions. Dans ce personnage pas très bien traité par le metteur en scène, elle arrive à nous émouvoir par ses accents douloureux, son style très mozartien et une ligne de chant musicale. Plus affirmée est la Donna Anna de Golda Schultz. Voix sonore, précise et projetée jusque dans les récitatifs dont le timbre charnu de la voix s’accorde avec le tempérament du personnage. La Zerlina de Madison Nonoa est un régal de finesse, d’impertinence et de musicalité. La fraîcheur de sa voix et ses doutes, mais doute-t-elle vraiment, apportent gaité et vivacité. Les lumières conçues par James Farncombe ont la blancheur des éclairages aux néons et, mises à part les robes de Donna Anna, vert bronze et celle de Donna Elvira jaune doré, nous sommes plongés dans des images en noir et blanc sans personnalité poétique. Il paraîtrait que le propre d’un festival est l’innovation. Que penser alors de ces anciens Don Giovanni, dans le texte, qui ont fait la gloire de ce festival et dont la première représentation date de 1949 ? Photo © Monika Rittershaus
Categorie: Musica corale

Torino, Cappella della Sindone: ” Oculus-Spei”

gbopera - Mer, 23/07/2025 - 12:37

Torino, Cappella della Sindone
Oculus-Spei: il corpo iconico della speranza
Torino, 23 luglio 2025
“La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”. Sant’Agostino

In un’epoca che celebra la virtualità come nuovo sacramento della visione, Oculus-Spei di Annalaura di Luggo si impone come dispositivo iconico e architettura performativa del desiderio collettivo. L’occhio, centro assoluto dell’opera e della poetica di Di Luggo, smette di essere organo percettivo per farsi soglia, cratere di rivelazione, spazio liminale tra biologia e trascendenza. Dalla sua prima epifania al Pantheon di Roma nel dicembre 2024 — luogo classico e pagano, monumento del tempo trasformato in crocevia di visione laica — fino alla trasfigurazione architettonica nella Cappella della Sindone di Torino nel giugno 2025, Oculus-Spei evolve da installazione a vero e proprio sistema antropologico dell’immagine. Non un oggetto da osservare, ma un corpo di luce che osserva chi guarda. Annalaura di Luggo, artista transmediale, pratica un’estetica dell’identità plurima attraverso una grammatica dell’iride. Il suo lessico visivo è tanto più incisivo quanto più concentrico: non disperso nel racconto, ma condensato in un simbolo ricorrente e ossessivo, l’occhio, in cui ogni trama biologica si converte in mappa del sé. Dalla mimesi ottica alla semiologia dell’alterità: la Di Luggo non fotografa, cartografa. Oculus-Spei è composto da cinque porte, cinque varchi iniziatici, ognuno dei quali attraversato da figure umane reali — testimoni dell’esclusione, della resilienza, della differenza. Ma il punto non è documentaristico: l’artista non descrive, attiva. La presenza del visitatore non è passiva, ma generativa: i sensori, i sistemi di riconoscimento, le tecnologie gestuali non sono gadget, bensì protesi concettuali, estensioni dell’intenzione etica dell’opera. In particolare, la quinta porta, ispirata al carcere di Rebibbia, si carica di una tensione sacrale: la gabbia è figura archetipica, citazione implicita del labirinto, della prigione dell’anima, della cella della clausura mistica. Ma è proprio lì, nel luogo della massima restrizione, che si attiva la luce. Non si tratta di un effetto luminoso: è una teofania tecnologica. La luce, come nella poetica barocca, non è decorazione ma struttura morale. Annalaura di Luggo, in questo lavoro, opera un montaggio semiotico tra visione e memoria, tra architettura e corpo, tra pietà e codice. L’arte non è qui ornamento né illustrazione: è rituale laico di riscatto, funzione antropologica che restituisce forma alla speranza, facendola transitare dal linguaggio della teologia a quello della biopolitica. L’inclusione non è tema, ma grammatica. E il pubblico non è spettatore, ma testimone co-attivo. Oculus-Spei non è arte sacra. È arte del sacro, cioè arte che assume su di sé il compito di creare lo spazio della separazione e della rivelazione. In questo senso, l’intera installazione non si oppone alla Cappella della Sindone, ma la prolunga: Guarini e Di Luggo condividono la stessa urgenza di coniugare geometria e luce, vuoto e intensità, architettura e visione. Se oggi l’arte può ancora avere una funzione — oltre l’intrattenimento, oltre l’indignazione — è quella di mettere in forma l’intenzione etica. Oculus-Spei lo fa senza retorica, con la densità di un pensiero strutturato, con la leggerezza di un’icona che si lascia attraversare. È un lavoro che non descrive la speranza: la offre come esperienza collettiva. Perché in fondo, come scriveva Ernst Bloch, «solo chi ha speranza può essere critico». E Annalaura di Luggo costruisce con precisione il luogo in cui la critica diventa forma. Prorogata sino al 28 settembre 2025. Foto: Andrea Guermani per i Musei Reali di Torino

Categorie: Musica corale

Milano, Palazzo Reale: “Valerio Berruti. More than kids”

gbopera - Mar, 22/07/2025 - 17:36

Milano, Palazzo Reale
VALERIO BERRUTI. MORE THAN KIDS
curata da Nicolas Ballario
promossa dal Comune di Milano – Cultura, è prodotta e organizzata da Palazzo Reale e Arthemisia, in collaborazione con Piuma e con il sostegno della Fondazione Ferrero
Milano, 21 luglio 2025
Quando si accumulano nella medesima mostra affreschi, sculture monumentali, video-animazioni, caroselli sonori e colonne sonore firmate da Ludovico Einaudi, Rodrigo D’Erasmo, Samuel dei Subsonica e Daddy G dei Massive Attack, il sospetto che la forma prevalga sulla sostanza non può che insinuarsi. La mostra Valerio Berruti. More than kids, ospitata a Palazzo Reale di Milano dal 22 luglio 2025, si presenta come un viaggio immersivo nell’universo dell’artista albese, ma si rivela soprattutto una sapiente operazione di estetizzazione sentimentale, costruita su una poetica dell’innocenza che rischia di trasformarsi in retorica dell’infantilismo. Valerio Berruti ha indubbiamente sviluppato un linguaggio riconoscibile, asciutto, coerente: figure infantili stilizzate, rese con la tecnica antica dell’affresco su supporti contemporanei, delineano un immaginario sospeso, apparentemente fuori dal tempo. Tuttavia, dietro questa coerenza grafica si cela una ripetitività strutturale che svuota le opere di reale ambiguità, riducendo il bambino – e l’infanzia in senso più lato – a feticcio visivo, oggetto di identificazione collettiva tanto immediata quanto irriflessa. Il sottotitolo stesso dell’esposizione, More than kids, suggerisce l’intenzione di oltrepassare il dato anagrafico per accedere a un orizzonte simbolico. Ma ciò che dovrebbe porsi come interrogazione critica si risolve, nella maggior parte dei casi, in un compiacimento formale. Le opere non sfidano l’osservatore, lo cullano; non pongono domande, suggeriscono risposte emotive già confezionate. Non c’è conflitto, non c’è scandalo, non c’è nemmeno malinconia autentica: solo un’estetica pulita, levigata, priva di asperità. Le grandi installazioni, come La giostra di Nina – monumentale carosello animato dalla musica di Ludovico Einaudi – o la scultura Don’t let me be wrong, collocata nel cortile di Palazzo Reale e accompagnata da un cortometraggio sonorizzato da Daddy G e Stew Jackson, si inseriscono in una logica immersiva dove lo spettatore è invitato a partecipare, a “salire” letteralmente sulle opere. Ma si tratta di un’interattività che non rompe, bensì rafforza il meccanismo spettacolare: lo spettatore non è più osservatore critico, ma fruitore passivo di un’esperienza sensoriale perfettamente coreografata. Le video-animazioni Lilith e Cercare silenzio, con le musiche rispettivamente di Rodrigo D’Erasmo e Samuel Romano, si collocano sulla stessa linea: la leggerezza dei disegni in sequenza, pur animati da una grazia artigianale, si combina con un uso sonoro fortemente narrativo, che tende a ingabbiare il senso dell’opera in una sola direzione interpretativa. Anche i lavori precedenti, musicati da Paolo Conte o Ryuichi Sakamoto, confermano questa tensione tra immediatezza visiva e costruzione sentimentale. Le figure di Berruti, per quanto sospese, non sono mai ambigue. Sono bambini “belli” nel senso più disarmante del termine: silenziosi, assorti, eleganti nella loro monocromia. Ma è proprio questa bellezza senza incrinature a destare perplessità. L’infanzia, nella storia dell’arte, è stata terreno di una pluralità di rappresentazioni, dal crudele realismo di Goya ai bambini spettinati e ruvidi di Cézanne, fino ai piccoli proletari graffiati dalla luce di Pasolini. Berruti ne offre invece una versione idealizzata, levigata, museale. Nel percorso espositivo si incontrano anche riferimenti a temi d’attualità – come il cambiamento climatico, evocato in Nel silenzio, dove tre bambine giacciono su una terra arida – ma si tratta di allusioni deboli, non sufficienti a generare uno scarto reale. L’opera resta subordinata alla sua funzione emotiva: colpire, commuovere, rassicurare. Anche qui, il bambino non è figura tragica, ma simulacro estetico. La monumentalità non aiuta. Quando l’infanzia viene ingigantita sino a occupare spazi pubblici e museali con sculture alte metri, il rischio è che perda proprio ciò che dovrebbe renderla significativa: la sua fragilità, la sua dimensione intima, la sua ambivalenza. La scala diventa dichiarazione, non interrogazione. E la narrazione curatoriale – che insiste sul “viaggio emotivo”, sulla “poetica universale”, sulla “partecipazione del pubblico” – contribuisce ad amplificare una retorica dell’empatia che pare sempre più al servizio di un intrattenimento culturale a bassa intensità critica. Nicolas Ballario, curatore del progetto, definisce Berruti un “regista che, stanza dopo stanza, tocca tutti i grandi temi della contemporaneità”. Ma il paragone, azzardato, non regge. La regia presuppone uno scarto, una visione stratificata, una regola di montaggio che metta in discussione la continuità delle immagini. Qui, al contrario, la mostra procede per iterazione, per accumulo di segni sempre simili, quasi timorosa di spezzare l’incantesimo. La stessa serialità – cifra dominante nella produzione dell’artista – anziché generare una grammatica, finisce per costruire una lingua chiusa. Ogni figura rimanda alla precedente, ogni gesto si replica, ogni composizione riecheggia le altre. L’effetto è ipnotico, ma anche statico. Non si cresce, non si cade, non si sbaglia. Non si cambia. Valerio Berruti è artista abile, dotato di controllo tecnico, capace di suscitare emozione in un pubblico vasto. Ma proprio questa sua capacità, portata al massimo grado, rischia di trasformarsi in maniera. Dietro l’apparente innocenza dei suoi soggetti si cela una sapiente costruzione iconografica che ha il suo modello non tanto nella pittura, quanto nella comunicazione visiva delle campagne educative e promozionali: linee morbide, colori desaturati, posture assortite. Un’estetica del consenso, più che della provocazione. In un tempo che reclama nuovi linguaggi e nuove forme di pensiero, More than kids sembra suggerire, paradossalmente, una fuga nel già visto, nel già sentito, nel già approvato. L’infanzia, che dovrebbe aprire mondi, qui li chiude in un’estetica decorosa. E se davvero, come afferma il titolo, c’è qualcosa “more than kids”, forse è proprio questo: la nostalgia addomesticata di un passato che non è mai esistito. Photocredit Tino Gerbaldo

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Roma, Caracalla Festival 2025: “Don Giovanni”

gbopera - Dom, 20/07/2025 - 23:59

Roma, Caracalla Festival 2025
Basilica di Massenzio e Costantino
DON GIOVANNI”
ossia Il dissoluto punito KV 527
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni ROBERTO FRONTALI
Donna Anna MARIA GRAZIA SCHIAVO
Don Ottavio ANTHONY LEON
Il Commendatore GIANLUCA BURATTO
Donna Elvira CARMELA REMIGIO
Leporello VITO PRIANTE
Masetto MIHAI DAMIAN
Zerlina ELEONORA BELLOCCI
Orchestra e Coro del Teatro dell’ Opera di Roma
Direttore Alessandro Cadario
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Vasily Barkhatov 
Costumi Olga Shaishmelashvili
Scene Zinovy Margolin
Luci Alexander Sivaev
Nuovo Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 16 luglio 2025
Nel Don Giovanni diretto da Vasily Barkhatov per il Caracalla Festival 2025, il celebre seduttore perde ogni residuo di fascino romantico e viene finalmente riconsegnato per ciò che è: un eterno adolescente con sindrome da luna park. Niente più fiamme dell’inferno o sguardi magnetici: il Don Giovanni qui sembra piuttosto un uomo smarrito tra zucchero filato, trenini colorati e pupazzi giganti, bloccato in una regressione affettiva così visiva da sembrare la sceneggiatura di un reality show psicoterapeutico. La scena firmata da Zinovy Margolin non costruisce un ambiente drammatico: costruisce un’infanzia irrisolta, con tanto di ruota panoramica (naturalmente in moto perpetuo), bancarelle da fiera e panchine scarabocchiate di nomi d’amore, come in un diario scolastico troppo cresciuto. L’effetto? Più che un dispositivo semiotico, un’installazione Instagram-friendly. Ogni oggetto parla, sì, ma grida soprattutto “tema della recita scolastica: traumi e zuccherini”. Il nostro Don Giovanni, più che conquistare, balbetta relazioni, prova a ricomporle con lo stesso entusiasmo con cui si tenta di rimontare un giocattolo rotto. Sedurre? Non sia mai. Qui si agisce per riflesso condizionato, come chi ordina sempre lo stesso frappè convinto che stavolta avrà un sapore diverso. Il gesto erotico diventa automatismo, il piacere scompare dietro una giostrina meccanica. Ora, va detto: l’ambientazione da luna park decadente sarà anche coerente con la poetica dell’infanzia contaminata, ma è diventata ormai il nuovo “bosco simbolico” del teatro contemporaneo. Lo si è già visto — e rivisto. L’effetto deja-vu è dietro ogni angolo illuminato al neon. Anche le luci di Alexander Sivaev, pur ricche di sprazzi visionari e saturazioni pop, a volte abbagliano più che illuminare. Lo spettatore, anziché perdersi nel sogno, rischia di chiedere gli occhiali da sole. I costumi di Olga Shaishmelashvili completano il quadro con insetti antropomorfi, perle di plastica formato famiglia, orsetti rosa formato trauma e dettagli da carnevale metropolitano. Tutto ben pensato, nulla da dire. Ma a tratti si ha l’impressione che l’apparato simbolico si mangi la regia, come un’enorme bocca da clown. In questo paesaggio ipersemantico si inserisce con rigore la direzione di Alessandro Cadario, che offre una lettura chiara, sobria e architettonicamente limpida della partitura. Cadario non impone un’interpretazione: plasma la materia musicale con senso della forma e lucidità drammaturgica. I tempi sono tesi alla parola, i recitativi accompagnati restituiscono tensione armonica senza rigidità, mentre l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma risponde con brillantezza e controllo, in particolare nei legni e negli archi primi. In un allestimento visivamente ridondante, la sua direzione rappresenta il contrappeso necessario: misura, ascolto, coerenza. L’ensemble vocale si distingue per omogeneità stilistica e tensione interpretativa, restituendo nel canto il perturbante equilibrio tra desiderio e disillusione. Roberto Frontali, al debutto nel ruolo, interpreta un Don Giovanni maturo, scavato, segnato da una sensualità automatizzata e stanca. L’emissione è sicura, l’accento plasmato sul testo, il fraseggio articolato. La voce si fa veicolo di un’umanità ferita, più che di un fascino torbido: un libertino attraversato dal fallimento, non dall’estasi. Vito Priante propone un Leporello preciso, mai caricaturale, in bilico tra ironia e malinconia. Il timbro è compatto, la dizione incisiva, la musicalità sempre aderente all’azione scenica. Il “Catalogo” scorre con naturalezza e chiarezza ritmica, mentre i duetti mostrano un equilibrio perfetto tra i registri comico e drammatico. Maria Grazia Schiavo, in Donna Anna, offre una delle prove più autorevoli della serata. Il timbro ambrato, la linea salda, il controllo dell’agilità e l’intonazione ferma le permettono di delineare un personaggio tragico senza retorica. L’espressività è costante, sostenuta da un’eccellente padronanza tecnica. Carmela Remigio restituisce una Donna Elvira stratificata, sospesa tra frustrazione e tenerezza. L’emissione è omogenea, il fraseggio netto, la linea melodica sempre vibrante. “Mi tradì quell’alma ingrata” è scolpita con grande cura dinamica, in una sintesi rara tra impulso e forma. Anthony León, nei panni di Don Ottavio, si distingue per eleganza e sobrietà. La voce è tornita, il legato fluido, il fraseggio esatto. Le arie vengono affrontate con senso lirico e compostezza espressiva, evitando ogni leziosità. Eleonora Bellocci si impone come una Zerlina fresca e ben calibrata. Il timbro chiaro, la linea agile e la dizione accurata le consentono una presenza scenica naturale, convincente, mai forzata. I duetti scorrono con leggerezza controllata, mantenendo una cifra di precisione e misura. Mihai Damian, Masetto, offre una prova corretta e funzionale, anche se priva di particolari sfumature. La voce è proiettata con solidità, ma la costruzione musicale si mantiene su un piano più lineare. Gianluca Buratto, nel ruolo del Commendatore, impone una vocalità salda e autorevole, con emissione compatta e registro grave ben centrato. La linea vocale, sorretta da solido controllo del fiato, conferisce al personaggio una solennità ieratica, amplificata da dizione incisiva e fraseggio essenziale. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, guidato da Ciro Visco, si conferma preciso e compatto, pur con un ruolo marginale nell’economia scenica. La scrittura corale mozartiana è affrontata con chiarezza e disciplina, contribuendo alla tenuta drammatica dell’insieme. Il pubblico accoglie l’opera con entusiasmo, riservando ovazioni a Frontali, Schiavo e Remigio. Nessuna contestazione, nessun dissenso: tutto scorre con la prevedibile fluidità del consumo culturale odierno. In un’epoca in cui la provocazione è diventata un genere, e la trasgressione si è fatta formato, anche Don Giovanni tra i pupazzi e i neon di un luna park non turba più. Forse è proprio qui che Barkhatov ha colto nel segno: rendere l’inferno della ripetizione talmente familiare da non farci più paura. Photocredit Fabrizio Sansoni Teatro dell’Opera di Roma

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: “Erwählte Pleißenstadt”: Apollo et Mercurius BWV 216a

gbopera - Dom, 20/07/2025 - 08:13

Riguardo questa Cantata profana, della quale sono giunti a noi soltanto la ricostruzione di alcuni brani, si è supposto sia stata eseguita a Lipsia  come tributo per il Consiglio comunale di Lipsia per un’occasione sconosciuta, probabilmente nel 1728 o in un anno successivo. Di queste cantate si sono conservate le parti per soprano e contralto e il testo, forse di Picander. La musica è andata perduta, ma è stata possibile una sua parziale ricostruzione visto che l’opera era una parodia di Vergnügte Pleißenstadt, BWV 216, una cantata nuziale con testo di Picander eseguita a Lipsia il 5 febbraio 1728 in occasione del matrimonio di Johann Heirich Wolff e Susanna Regina Hempelnel 1728. Il clavicembalista Alexander Grychtolik ha ricostruito Erwählte Pleißenstadt a partire dalla bozza del libretto e da frammenti di notazione riscoperti nel 2003 tra le carte postume di un pianista giapponese e che potete ascoltare nella registrazione qui proposta.

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata” Erwählte Pleißenstadt ” – Apollo et Mercurius BWV216a

 

Categorie: Musica corale

Festival d’Aix-en-Provence 2025: “The nine jewelled deer”

gbopera - Sab, 19/07/2025 - 19:27
Aix-en-Provence, Théâtre du Jeu de Paume, saison 2025 “THE NINE JEWELLED DEER” Opéra de chambre, texte de Ganavya Doraiswamy, d’après le Conte du Grand Cerf Doré Voix: GANAVYA DORAISWAMY, ARUNA SAIRAM Violon et Alto Nurit Stark Violoncelle Sonia Wieder-Atherton Clarinette Dana Barak  Saxophone Hayden Chrisholm Percussion Rajna Swaminathan Electronique-Ircam Augustin Muller Direction musicale Sivan Eldar Mise en scène Peter Sellars Costumes Camille Assaf Lumières James F. Ingalis Artiste plasticienne Julie Mehretu Création mondiale Aix-en-Provence, le 13 juillet 2025 En cet après-midi du 13 juillet le Théâtre du Jeu de Paume prenait les couleurs de l’Inde. En effet, la création 2025 pour le Festival d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence “The Nine Jewelled Deer” est un conte merveilleux où sanscrit, tamoul et anglais se mélangent en tirant les enseignements des Jatakas indiens (Les vies antérieures du Bouddha). Cet opéra de chambre n’est pas un opéra dans le style où nous l’entendons actuellement mais le fruit d’un long travail de traditions, d’échanges pour un enseignement métaphorique en partant du conte indien “La Biche aux neuf joyaux”. Peter Sellars a imaginé cette œuvre plus dans une mise en espace que dans une mise en scène construite. La scène, ouverte sur les coulisses devient un lieu où évoluent musiciens, chanteuses et narratrices. Des panneaux éclairés jouent cette mise en espace pour des changements d’atmosphères, sans s’éloigner d’une sorte de méditation. Nous sommes dans un intérieur indien, mi-cuisine, mi-salon où grand-mère et petite-fille, dans une musique traditionnelle récit et chant, échangent, faisant même participer le public, dans une ambiance qui porte à l’introspection. Partant du conte “La Biche aux neuf joyaux” nous abordons la compassion mais aussi la cupidité et la trahison de cet homme qui, sauvé par la Biche, la livre au roi qui fera tout pour s’en emparer. N’attendez aucune réponse à ce conte. Cette œuvre n’essaie pas de résoudre les contradictions, nous dit-on, car tout finit par des questions. N’est-ce pas le propre d’un chemin initiatique, la beauté aura-t-elle raison des mauvais penchants ? La Biche tient une grande place dans la vie de Siddhartha Gautama, n’est-ce pas dans le Parc aux biches que Bouddha prononce son premier sermon après avoir atteint l’éveil ? Avec les lumières de James F. Ingalis et les oeuvres peintes de Julie Mehretu l’ambiance aux ombres chinoises éphémères est créée. Les musiciens faisant partie intégrante du récit improvisent ou suivent des partitions accompagnant un chant monocorde ou illustrant l’énumérations des fameux joyaux. Dans ce conte poétique le mridangam, tambour traditionnel indien, côtoie dans de jolis mélanges la musique électronique mais aussi la clarinette, le saxophone, le violoncelle ou le violon et l’alto accompagnant les voix dans des formules lancinantes ou des sortes de litanies donnant même à entendre un duo violon/petite-fille dans la voix de Ganavya Doraiswamy. L’on pense toujours à cette Biche merveilleuse, haletante avec cette musique où tous se déchaînent dans un fortissimo insupportable. Meurt-elle dans ce lent glissando ? La Grand-mères’adressant à sa petite-fille dans la voix d’Aruna Sairam, plaint les femmes et leur condition dans un long monologue sur le souffle, chanté d’une voix grave dans une sorte d’initiation, habillée par Camille Assaf d’un sari couleurs feuilles mortes, finissant dans une union de vibrations sur un chant bouches fermées. L’atmosphère à la fois sereine ou plus pesante nous entraîne dans un autre continent tout en continuant notre voyage intérieur. C’est un superbe travail d’ensemble et de chacun dont le résultat, s’il ne nous a pas changés, nous a fait découvrir un ailleurs…sûrement meilleur.  Le public est conquis et salue les artistes avec ferveur. A méditer ! Photo Ruth Walz
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Roma, Parco Archeologico del Colosseo:” Nuova Sezione Ipogea”

gbopera - Sab, 19/07/2025 - 19:22

Roma, Parco Archeologico del Colosseo
NUOVA SEZIONE IPOGEA
a cura di Federica Rinaldi, Alessandra Celant e Claudia Minniti
Roma, 16 luglio 2027
Nell’ambito di un’ampia strategia di rilettura archeologica del monumento flavio, il Parco Archeologico del Colosseo ha inaugurato una nuova porzione espositiva all’interno degli ipogei dell’anfiteatro, proseguendo un articolato progetto di musealizzazione che si configura come un intervento sistemico sul concetto stesso di fruizione monumentale. La sezione si colloca nella parte occidentale dei sotterranei e offre, per la prima volta, un’indagine archeologica incentrata non più sui protagonisti dell’arena, ma sulla massa anonima degli spettatori: una moltitudine stratificata socialmente, culturalmente e simbolicamente, il cui comportamento e consumo del tempo costituiscono oggi una fonte preziosa per comprendere l’intero sistema spettacolare romano. Dopo la realizzazione, nel 2023, dell’allestimento dedicato ai gladiatori, articolato intorno alla funzione logistica e simbolica del criptoportico connesso al Ludus Magnus, si assiste ora a un mutamento di paradigma: lo sguardo si sposta dalla scena all’auditorium, dal corpo dell’atleta a quello dell’osservatore, dall’azione spettacolare alla ricezione collettiva. La curatela scientifica della nuova sezione — affidata a Federica Rinaldi, Alessandra Celant e Claudia Minniti — è fondata su una solida base di scavi e analisi multidisciplinari condotte a partire dal 2022. L’intervento ha riguardato in particolare il sistema idraulico ipogeo della zona meridionale dell’edificio, restituendo circa 70 metri lineari di stratigrafia continua. L’evidenza archeologica emersa da tali contesti, spesso considerati residuali o marginali, si è invece rivelata cruciale: materiali di scarto, gettati nei collettori nel momento di progressivo abbandono dell’anfiteatro, si sono rivelati archivio materiale delle pratiche quotidiane del pubblico romano. Fra i reperti, si segnalano oggetti di uso personale — aghi, pettini, spilloni, stuzzicadenti — accanto a strumenti ludici come dadi, pedine, tavolette defixionali e monete di piccolo taglio, che testimoniano attività ludiche, superstizioni e ritualità superstite. Particolarmente significativa è la scoperta di una laminetta plumbea, databile tra III e IV secolo d.C., recante una defixio con iconografia apotropaica: uno scudo e un albero secco colpiti da fulmini. L’oggetto, chiaramente connesso a forme di magia legata alla competizione, si inserisce in una prassi ampiamente attestata nel mondo romano e oggi riletta in chiave antropologica. L’allestimento, progettato dallo studio Tortelli e Frassoni, ha mirato a tradurre l’esperienza della visione collettiva in un percorso immersivo: la cavea è stata parzialmente ricostruita con gradinate espositive che espongono graffiti originali e repliche leggibili, testimonianza della pratica diffusa di incidere i momenti salienti dello spettacolo sulla pietra del sedile. In un caso, un gradino ancora recante l’iscrizione di un senatore — databile tra IV e V secolo d.C. — è stato ricollocato in posizione originaria, in prossimità dell’arena, a indicare la relazione tra status sociale e collocazione nello spazio. Il Colosseo, come noto, non era solo macchina di morte o palcoscenico di esotismi: era prima di tutto uno spazio di aggregazione sociale e politica. La folla, convocata gratuitamente per decreto imperiale, era destinataria di una messa in scena del potere attraverso la distribuzione di cibo, vino, giochi e spettacoli. La celebre formula panem et circenses, sintetizzata da Giovenale, trova qui una materializzazione tangibile: ostriche, fichi, orate, spezie orientali e frutta esotica emergono dai resti organici analizzati nei collettori, suggerendo una dieta da banchetto collettivo. Di particolare rilievo è una moneta in lega di oricalco, recante l’effigie di Marco Aurelio, coniata per celebrare il decennale dell’imperatore: un emblema della sovrapposizione tra sfera politica e spettacolare. L’apparato tecnico dell’arena non è stato trascurato: ascensori lignei, carrucole e strutture meccaniche restaurate dall’Istituto Centrale per il Restauro sono stati integrati nel percorso museale, offrendo una visione d’insieme del funzionamento della machina spectaculorum. La presenza di diverse essenze lignee — tra cui castagno, abete bianco ed olmo — è documentata tramite riproduzioni illustrative degli alberi, con attenzione anche all’identificazione botanica delle fibre e al loro uso funzionale. Dal punto di vista della museologia, il nuovo percorso si configura come tappa di un più ampio progetto di riorganizzazione dell’intero itinerario di visita del Colosseo. Si persegue una logica di “museo diffuso” in cui i reperti vengono esposti, per quanto possibile, in situ, secondo un principio di prossimità semantica con il contesto di rinvenimento. Tale scelta, oltre a favorire una narrazione storica coerente, consente una gestione più fluida dei flussi di visita, ridistribuendo il carico antropico in maniera più omogenea. In quest’ottica, anche il museo permanente al secondo ordine dell’anfiteatro subirà tra il 2025 e il 2026 un’importante revisione tematica e formale. La finalità è quella di integrare le varie fasi di uso, disuso e riuso del Colosseo nella sua dimensione storica continua, superando la visione monolitica del monumento come luogo esclusivo di spettacoli gladiatori. Le attività di scavo, ricerca e valorizzazione sono state condotte in stretta sinergia con l’Università “La Sapienza” di Roma, tramite i Dipartimenti di Scienze dell’Antichità, di Biologia Ambientale e di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin”. Due protocolli d’intesa hanno permesso di integrare studi archeobotanici, archeozoologici, numismatici e antropologici in una piattaforma scientifica coerente. Il contributo dell’Istituto Centrale del Restauro si è rivelato decisivo nella restituzione conservativa dei materiali lignei e metallici. Una pubblicazione scientifica monografica è attualmente in preparazione e vedrà la luce nell’autunno 2025: essa restituirà, in forma analitica, i dati di scavo e le interpretazioni maturate in questi anni, costituendo un tassello fondamentale per il ripensamento filologico e funzionale del Colosseo nella sua interezza. Come affermato da Alfonsina Russo, direttrice del PArCo, il compito di ogni istituzione museale che ambisca a restare viva nel tempo è quello di coniugare tutela, ricerca e valorizzazione: non in successione, ma come processo simultaneo e continuo. La nuova sezione ipogea non solo contribuisce a restituire un’immagine più articolata del Colosseo tardoantico, ma riafferma la centralità della ricerca scientifica nella costruzione di un sapere condiviso e dinamico.

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Charles De Mars (1702-1774): “Pièces de clavecin”

gbopera - Sab, 19/07/2025 - 10:32

Charles De Mars (1702-1774): “Pièces de clavecin”. Première Suite. Deusième Suite. Troisième Suite. Quatrième Suite. Simone Pierini (clavicembalo). Registrazione: 16-17 novembre 2022, Palazzo Annibaldeschi, Monte Compatri, Italia. T. Time: 70′ 13″ 1 CD Brilliant Classics 96924
Nato nel 1702 a Sézanne, Charles Demars fu l’unico esponente di una generazione di musicisti e di organisti che ha lasciato ai posteri una sua opera: questo primo e, per la verità, unico libro di Pièces de clavecin, contenente quattro suite. Il nonno materno e la madre, come del resto, zii e cugini, sempre da parte di madre, furono, infatti, organisti e lo stesso Charles proseguì le orme materne, diventando nel 1728 l’organista della Cattedrale della città bretone di Vannes, come si legge anche nel frontespizio della prima edizione, risalente al 1735, di questa raccolta. In essa, come notato nell’interessante booklet da Simone Pierini, è possibile notare, oltre alla presenza dello stile francese dell’epoca, anche alcune influenze di quello di Handel e, in particolar modo, delle 8 Grandi suite, che erano state pubblicate nel 1723 a Londra. La raccolta, comunque, si segnala per elementi estremamente originali, come, per esempio, l’assenza dei titoli dei pezzi, caratteristica, che, invece, era consueta nella musica clavicembalistica francese del Settecento, e la prescrizione, in alcuni brani, notes egalles, che contraddice la tipica inégalité
Storicamente informato è l’approccio a questi brani di Simone Pierini che si è avvalso per questa incisione di una copia di un Mietke, realizzata da Giulio Fratini nel 2014 e accordata a un diapason di 392 Hz e in temperamento mesotonico a 1/5 di comma sintonico. La sua interpretazione si segnala per un grande senso dello stile, evidente nella realizzazione, non meccanica ma espressiva, dell’inégalité, laddove non esplicitamente vietata dal compositore, e nel diminuire molto bene le melodie nei ritornelli, in modo da creare una varietà aiutata da un uso ben calibrato delle due tastiere dello strumento.

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Macerata, MOF Sferisterio: “Macbeth” dal 26 luglio al 10 agosto 2025

gbopera - Sab, 19/07/2025 - 08:00

Macerata, MOF Sferisterio
MACBETH
Melodramma in quattro atti di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave
Tratto dalla tragedia di William Shakespeare « Macbeth »
Prima rappresentazione 
Firenze, Teatro della Pergola, 14 marzo 1847
Macbeth di Giuseppe Verdi è andato in scena la prima volta nel marzo 1847 a Firenze su libretto di Francesco Maria Piave ed è ispirato all’omonima tragedia di Shakespeare. L’opera esplora il conflitto tra ambizione, colpa e destino e descrive un mondo drammatico dove Macbeth è spinto dalla profezia delle streghe e dall’ambizione della moglie a compiere il tragico omicidio del re Duncan, che segna l’inizio di una discesa verso la paranoia e il rimorso. Il fantastico, con le streghe e le apparizioni soprannaturali, influisce sui comportamenti dei protagonisti, creando un’atmosfera densa e misteriosa. In scena l’allestimento del 2019, con la regia di Emma Dante, vincitore dell’Angel Herald Award al Festival di Edimburgo nel 2017. Una coproduzione con i Teatri di Palermo e Torino che ha riscosso grande successo per la sua drammaticità e visione. Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Romano di Ostia Antica: “Antigone di Jean Anouilh”

gbopera - Ven, 18/07/2025 - 23:59

Roma, Teatro Romano di Ostia Antica
ANTIGONE
di Jean Anouilh
adattamento e regia Roberto Latini
con (in o. a.) Silvia Battaglio (Ismene), Ilaria Drago (Emone), Manuela Kustermann (Nutrice), Roberto Latini (Antigone), Francesca Mazza (Creonte)
scene Gregorio Zurla
costumi Gianluca Sbicca
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
foto Masiar Pasquali
produzione La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Ostia Antica, 18 luglio 2025
Nel nostro tempo, segnato dal riemergere della guerra come strumento di dominio e ridefinizione dei confini — basti pensare all’Ucraina, alla Palestina, all’Iran o alla Siria cancellata dalle mappe — l’Antigone di Jean Anouilh torna a parlare con una voce dolente e inascoltata, come una sibilla cieca in mezzo alle rovine. Il suo rifiuto, oggi come nel 1944, non è una scelta ideologica, ma una condizione esistenziale: dire “no” quando il mondo chiede l’assenso, restare soli mentre tutti si accodano alla forza. Ogni volta che un giovane, una donna, una minoranza, un popolo si alza per seppellire il proprio morto, per reclamare dignità negata, lì Antigone risorge. Non in un gesto spettacolare, ma in un atto privato e irriducibile. Jean Anouilh scrisse la sua Antigone nel 1941, sotto l’occupazione nazista, e la fece debuttare nel febbraio 1944, in una Parigi ancora incatenata all’invasore. Per superare la censura, l’autore scelse la maschera del mito, ma il pubblico comprese all’istante la carica sovversiva: Antigone non era solo l’eroina di Tebe, era la Francia che non si piegava, la coscienza civile che rifiutava il compromesso, la giovinezza che moriva per qualcosa di invisibile ma necessario. E Creonte, con la sua ragionevolezza disillusa, era il volto atroce del collaborazionismo. Roberto Latini, con raffinata lucidità e profonda aderenza ai nodi esistenziali del testo, porta in scena nel 2025, al Teatro Romano di Ostia Antica, una rilettura di rara potenza. Il contesto, già di per sé evocativo, moltiplica il senso del tragico: sotto il cielo della storia, tra le pietre di un’antica cavea romana, si rinnova un rito civile più che uno spettacolo. Latini non si limita a evocare la Francia occupata; va oltre, restituendo al testo tutta la sua forza archetipica e insieme attualissima. Il suo allestimento è un “gioco di specchi” tra Antigone e Creonte, tra la voce dell’individuo e la voce dello Stato, tra la nuda fragilità dell’esistenza e l’impassibile durezza delle istituzioni. Come scrive Anouilh nel testo, con gelida chiarezza: «Creonte ha ragione, ma Antigone non ha torto». E proprio in questa impossibilità di risoluzione risiede la grandezza della tragedia: non ci sono vincitori, ma solo ferite. Latini interpreta Antigone. La scelta, che può apparire spiazzante, si rivela invece sorprendentemente poetica: priva il personaggio di genere, di biografia, lo rende idea pura, resistenza incarnata. Antigone non è più la giovane austera e decorosa dei tragici antichi, è corpo pulsante, voce febbrile, essere umano che non scende a patti con l’assurdo. Accanto a lui, Francesca Mazza è un Creonte di potente ambiguità: né mostro né martire, è colui che cerca l’ordine a qualunque costo, e proprio per questo si condanna. Manuela Kustermann, come Nutrice, conferisce al dramma un’anima antica e materna, mentre Silvia Battaglio tratteggia un’ Ismene divisa tra amore e paura, e Ilaria Drago interpreta un Emone trattenuto, tragicamente consapevole dell’impossibilità della conciliazione. Il coro, ridotto e interno, si dissolve nelle voci dei personaggi, in un soliloquio corale che diventa eco interiore dello spettatore. Gregorio Zurla costruisce una scena spoglia, un paesaggio urbano smaterializzato dove i resti della civiltà contemporanea – vecchi televisori, una cabina telefonica, pali della luce – si trasformano in rovine del pensiero. Al centro, una striscia pedonale taglia lo spazio come un confine tra vivi e morti, tra ordine e rivolta. Antigone domina la scena da una torre instabile di schermi a tubo catodico, come un monumento alla solitudine della verità, mentre Creonte si muove a terra, tra carcasse spente e segnali urbani privi di funzione. Il cumulo di teli ocra – forse corpi, forse rovine – diventa il fulcro muto di una tragedia che non si celebra più nell’agorà, ma tra i resti arrugginiti di una città che ha disimparato il rito. In questa Antigone, come in Anouilh, la tragedia non è più solo azione, ma domanda. Domanda sul senso dell’essere umano, sulla capacità di distinguere tra legalità e giustizia, tra autorità e verità. Non è un caso che oggi, in un tempo in cui la guerra è giustificata come necessità geopolitica, e la morte dei civili liquidata come effetto collaterale, Antigone torni a ferire. La sua domanda diventa anche la nostra: quale legge è degna di obbedienza? E quando la legge contraddice la coscienza, a chi dobbiamo fedeltà? Là dove l’apparato retorico dei nuovi Creonti invoca la sicurezza, l’ordine, la stabilità, si levano corpi fragili e disobbedienti: donne che bruciano il velo, studenti che gridano nei campus, popoli che reclamano il diritto di esistere. Antigone non è allora solo un mito, ma un principio attivo di resistenza. Una forma dell’umano che si rifiuta di essere disumanizzata. La regia di Latini non costruisce dunque uno spettacolo, ma un gesto civile, un atto teatrale che è anche una meditazione sulla memoria. In quelle maschere, in quella scena scarna come una ferita, il teatro torna ad essere ciò che fu alle origini: tribunale della coscienza. E quando, alla fine, il Coro pronuncia parole definitive, è impossibile non sentirne il peso: «Tutti quelli che dovevano morire sono morti. Quelli che credevano in una cosa, quelli che credevano nel contrario, quelli che non credevano a niente e sono stati coinvolti nella faccenda senza capire nulla. E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli». Il compito del teatro, e dell’arte in generale, è proprio questo: impedire che l’oblio trionfi, che la dimenticanza assorba tutto. Antigone torna per dirci che la memoria non è un archivio, ma una responsabilità. E il suo “no”, fragile e incorruttibile, ci resta nelle ossa come un giuramento. Come Antigone, anche noi, spettatori, siamo chiamati a decidere. E la scena, sotto il cielo di Ostia Antica, non è mai sembrata così vicina alla verità. Photocredit Manuela Giusto

 

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Roma, Teatro romano di Ostia Antica: “Ifigenia” 25 -26 luglio 2025

gbopera - Ven, 18/07/2025 - 08:00

Roma, Teatro romano di Ostia Antica
IFIGENIA
tragedia di Euripide
adattamento Silvia Zarco
regia Eva Romero
con María Garralón (Hécuba), Juanjo Artero (Agamennone), Beli Cienfuegos (Clitennestra) Laura Moreira (Ifigenia), Nuria Cuadrado (Polissena), Alberto Barahona (Ulisse) Néstor Rubio (Águilas), Rubén Lanchazo (Poliméstor, vecchio), Maite Vallecillo (Corifeo, Schiavo di Troia)
scene Elisa Sanz
costumi Elisa Sanz e Igone Teso
composizione musicale Isabel Romero
disegno luci Rubén Camacho
foto Jorge Armestar
produzione Festival di Merida e Maribel Mesón produzione e distribuzione teatrale
Ifigenia di Silvia Zarco, con la regia di Eva Romero, torna a brillare sul palcoscenico del Teatro romano di Ostia Antica. Questa nuova creazione segna una collaborazione internazionale di grande rilievo tra il Teatro di Roma e il prestigioso Festival di Mérida, unendo visioni artistiche diverse in un incontro che celebra la forza del dialogo culturale tra Italia e Spagna. Lo spettacolo affronta temi profondi e urgenti, come la violenza di genere, ispirandosi alle tragiche figure di Ifigenia e Polissena. La messa in scena traccia un potente parallelo tra i sacrifici imposti nell’antica Grecia e le problematiche che ancora oggi segnano le esperienze femminili nel mondo contemporaneo. Con una scrittura che unisce il passato e il presente, Ifigenia esplora il senso di colpa, il dolore e il silenzio che circondano le vittime, evidenziando il prezzo tragico che le donne sono costrette a pagare per la gloria maschile. Un faro acceso su un tema universale e senza tempo, che invita a una riflessione profonda sul nostro passato, ma soprattutto sul nostro futuro, per costruire una società di vera uguaglianza e giustizia. In scena, un cast di eccezionale talento contribuisce a dare vita a questa potente narrazione. María Garralón interpreta Ecuba, mentre Juanjo Artero veste i panni di Agamennone; Beli Cienfuegos è Clitennestra, Laura Moreira dà corpo alla tragica Ifigenia, e Nuria Cuadrado interpreta Polissena. Alberto Barahona è Ulisse, Néstor Rubio appare nel ruolo di Águilas e Rubén Lanchazo interpreta Poliméstor (il vecchio). Un cast ricco di sfumature emotive e interpretazioni straordinarie. L’opera mette in luce la forza del teatro classico nel dialogare con le sfide del presente e celebra non solo la bellezza del teatro antico, ma anche la sua capacità di rinnovarsi, di rispondere alle questioni contemporanee e di suscitare riflessioni che toccano ogni singolo spettatore. Qui per tutte le informazioni.

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Festival d’Aix-en-Provence 2025: “Louise”

gbopera - Ven, 18/07/2025 - 07:16
Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, saison 2025 “LOUISE” Roman musical en 4 actes et 5 tableaux, livret du compositeur Musique Gustave Charpentier Louise ELSA DREISIG Julien, le Noctambule ADAM SMITH La Mère, Première d’atelier SOPHIE KOCH Le Père, le Chiffonnier NICOLA COURJAL Un Marchand d’habits, le Pape des fous GREGOIRE MOUR La Balayeuse ANNICK MASSIS Irma MARIANNE CROUX Gerttrude CAROL GARCIA  Camille KAROLINA BERGTSSON Madeleine MARIE-THERESE KELLER Marguerite, La Laitière JULIE PASTOURAUD Elise, La petite Chiffonnière  MARION VERGEZ-PASCAL Suzanne, La Glaneuse de charbon MARION LEBEGUE Blanche, La plieuse de journaux JENNIFER COURCIER L’Apprentie, Le Gavroche CELESTE PINEL Le Bricoleur FREDERIC CATON Gardiens de la paix FILIPP VARIK, ALEXANDER DE JONG Chœur et Orchestre de l’Opéra de Lyon Direction musicale Giacomo Sagripanti Chef de chœur Benedict Kearns Mise en scène Christof Loy Scénographie Etienne Pluss Costumes Robby Duiveman Lumière Valerio Tiberi Aix-en-Provence, le 11 juillet 2025 L’Ennui naquit un jour de l’uniformité” nous disait déjà au XVIII° siècle Houdar de la Motte. C’est ce qui apparaît à la vue de ce décor unique aux couleurs délavées. L’on aurait pu attendre mieux de cette “Louise” qui entre dans le répertoire de ce festival. Le choix du metteur en scène Christof Loy est-il judicieux ? Nous ne le pensons pas. La scénographie d’Etienne Pluss nous enferme pendant tout le spectacle dans la salle d’attente d’un hôpital psychiatrique peinte dans des teintes verdâtres passées avec des bancs pour tout mobilier, des portes et de hautes fenêtres que l’on ouvre de temps à autres donnant sur la ville de Paris dont on ne voit rien. C’est fort dommage, car Paris tient ici un grand rôle. Cet enfermement c’est aussi celui de Louise emprisonnée dans cette sorte d’hystérie chère au professeur Charcot célèbre pour ses travaux de neurologie à cette époque. Serions-nous à l’Hôpital de la Salpêtrière ? Le propos du metteur en scène ne se conçoit pas immédiatement car tout se passe dans la tête de Louise. On ne le comprendra qu’à la fin, alors que Julien prend l’apparence du médecin. Tout n’était-il donc qu’un rêve avec ces pulsions sexuelles la poussant vers son père dans un inceste imaginé ? L’on sait, d’après le programme de salle, que pour le metteur en scène tout tourne autour de ce père incestueux. C’est déformer l’œuvre originelle qui ne tendait qu’à démontrer la pression et le pouvoir qu’exerçaient les parents sur leurs filles encore au début du XXe siècle dans l’univers d’Emile Zola qui meurt d’ailleurs l’année de la création de cet ouvrage. Gustave Charpentier en grand amoureux de Paris voulait décrire l’atmosphères de ses rues, avec les cris des petits métiers, dans l’ambiance d’une bohème si bien décrite par Puccini. Les costumes de Robby Duiveman, si ce n’est la robe très courte et peu seyante que porte Louise alors qu’elle est sacrée  Muse de Montmartre par ses nouveaux amis, restent dans des couleurs passées qui nous retiennent dans une ambiance misérabiliste. Puisque tout se passe dans la tête de Louise, nous restons dans ce hall d’hôpital qui devient l’atelier où elle travaillait, cousant une robe de mariée qui devient la sienne, et où se déroule aussi la fête, avec les fanions d’un 14 juillet, à moins que ce ne soit le bal de la mi-carême organisé par la Salpêtrière, évoquée sans doute grâce à la musique qui vient de la rue. Elsa Dreisig a tout à fait le physique, l’attitude et la voix de cette jeune fille introvertie qui passe d’une sorte d’effacement à une extraversion proche de l’hystérie. Gardant cette expression de petite fille la voix reste presque juvénile jusqu’à son air célèbre “Depuis le jour où je me suis donnée…” chanté avec beaucoup de nuances dans un vibrato délicat au timbre velouté qui laisse place à une joie expressive dans son duo avec Julien interprété par Adam Smith. De la force, de la vigueur dans la voix du ténor britannique. Ainsi que dans le rôle de Pinkerton qu’il nous avait proposé en 2024 dans ce même festival, il paraît extérieur à son personnage manquant de sensibilité. Sa voix est généreuse dans une belle diction projetée au souffle soutenu mais on l’aimerait peut-être plus charmeur. Dans la vision de Cristof Loy le Père, interprété par la basse Nicolas Courjal, est plus que toxique. Il n’est pas juste cet homme simple, cet ouvrier dépeint par le compositeur. Sa tenue, ses gestes sont ceux d’un homme submergé par la passion qu’il éprouve pour sa fille rendant l’atmosphère glauque. Certes, la voix aux aigus projetés a gardé la puissance de ses graves mais sa propension à pousser les sons sur chaque syllabe enlève à ses phrases le legato de la musique française. “O mon enfant, ma Louise” demanderait une plus grande délicatesse sans ambigüité tant la musique est élégante dans ce passage, ainsi que dans sa berceuse. Dans ce trio toxique, la Mère interprétée par Sophie Koch est parfois autoritaire, allant jusqu’à gifler à sa fille, moqueuse ou simplement passive, proche d’une spectatrice. Sa voix forte de mezzo-soprano laisse entendre des aigus affirmés dans un duo/duel avec Louise, mais paraît aussi tout à fait soumise au Père. Les rôles secondaires pittoresques sont très nombreux et très bien chantés même dans de courtes interventions ; nous les voyons défiler dans la salle d’attente. S’il est difficile de tous les citer, chaque chanteur interprétant souvent 2 rôles, nous retrouvons avec plaisir la présence scénique d’Annick Massis aux aigus projetés en BalayeuseCéleste Pinel dans un Gavroche impertinent ou le Pape des fous réaliste de Grégoire Mour… La Mère étant aussi La Première d’atelier alors que Le Père prête sa voix au Chiffonnier. Avec Benedict Kearns à la tête du Chœur de l’Opéra de Lyon et Samuel Coquard pour la Maîtrise, le Chœur est d’une grande précision. A Giacomo Sagripanti, très investi dans la musique française, de faire passer les émotions contenues dans la composition de Gustave Charpentier ; chose malaisée dans une mise en scène qui met en exergue des sentiments différents. Le maestro s’en tient à la partition très colorée, n’y décèle-t-on pas quelques accords wagnériens ? Le chant étant par moments presque déclamé, les interludes à l’orchestration délicate s’écoutent avec plaisir. L’on retrouve la finesse et l’élégance de ce début du XX° siècle dans des tempi allant, ou plus vifs et joyeux pour cette musique incisive et rythmée aux envolées quelquefois lyriques, dans des sonorités homogènes. L’Orchestre à l’écoute joue avec souplesse, laissant entendre toutes les subtilités de la musique française de cette époque dont le chant est déjà plus près de Pelléas et Mélisande que de Manon. Très vif succès aux saluts. Photo Monika Rittershaus
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Roma, Teatro dell’Opera: “Doppio Sogno” la nuova stagione 2025/2026

gbopera - Gio, 17/07/2025 - 16:13

Roma, Teatro dell’Opera di Roma
La stagione 2025/26 è un “Doppio Sogno” tra tradizione e sperimentazione
Roma, 15 luglio 2025
S’intitola Doppio Sogno la stagione 2025/26 del Teatro dell’Opera di Roma, un omaggio al racconto di Schnitzler dove immaginazione e realtà si intrecciano, simbolo di un’identità teatrale che unisce utopia e concretezza. Un programma vasto e ambizioso, che include 14 titoli d’opera, 8 balletti, 4 concerti, una tournée internazionale all’Expo di Osaka e sei produzioni al Teatro Nazionale, configurandosi come una delle stagioni più articolate della recente storia della Fondazione. L’apertura è affidata a Lohengrin di Wagner, di ritorno al Costanzi dopo 50 anni, nel debutto wagneriano di Michele Mariotti, Damiano Michieletto e Dmitry Korchak, in un nuovo allestimento coprodotto con Valencia e Venezia. Segue La bohème nella rilettura impressionista di Davide Livermore, per la prima volta al Costanzi, con Carolina López Moreno, Maria Agresta e Nadine Sierra nei panni di Mimì. Tra le novità spicca Inferno di Lucia Ronchetti, in prima assoluta con la regia di David Hermann e i costumi firmati Maria Grazia Chiuri. Ritorna Ariadne auf Naxos di Strauss, assente da 35 anni, diretta da Maxime Pascal, ancora con Hermann alla regia. Il trionfo del Tempo e del Disinganno di Händel debutta invece al Costanzi con l’allestimento televisivo di Robert Carsen, già visto a Salisburgo. Evento di rilievo sarà anche la prima romana di Roméo et Juliette di Gounod, con la regia di Luca De Fusco e un cast che comprende Vittorio Grigolo e Nino Machaidze. Il titolo inaugura un progetto triennale con il Teatro di Roma. Sul versante belcantista, Mariotti affronta per la prima volta Tancredi di Rossini con Carlo Vistoli e la regia di Emma Dante. La Traviata torna in grande stile con la regia di Sofia Coppola e i costumi di Valentino, protagoniste Ermonela Jaho, Nadine Sierra e Ekaterina Bakanova. Attesissima la prima italiana della storica produzione salisburghese delle Nozze di Figaro di Claus Guth, con Emmanuel Tjeknavorian sul podio. Chiude la stagione Falstaff di Verdi, diretto da Mariotti e messo in scena da Tatjana Gürbaca, al suo debutto italiano, con Luca Salsi nel ruolo del protagonista. L’impegno sul fronte della danza è altrettanto imponente. Si comincia con Lo schiaccianoci di Čajkovskij nella lettura incantata di Paul Chalmer, seguito da La Bayadère con Sae Eun Park e Paul Marque dell’Opéra di Parigi. Ritornano i Trittici Contemporanei, che vedranno protagonisti Neumeier, Godani, Millepied, Goecke, Robbins e Pina Bausch. Il Costanzi ospiterà inoltre Sogno di una notte di mezza estate di Balanchine per la prima volta, mentre al Teatro Nazionale si renderà omaggio ad Angelin Preljocaj. La stagione si arricchisce con produzioni di prosa e teatro musicale al Teatro Nazionale, come Tragùdia di Alessandro Serra ispirato a Sofocle, Soul Threads di Friedemann Vogel, e La vita nuda di Matteo D’Amico su testi di Pirandello. Da segnalare anche l’omaggio a Henze nel centenario della nascita con La piccola cubana ed El Cimarrón. Sul fronte sinfonico, quattro concerti arricchiscono la stagione. Si comincia con Alla corte dei re di Francia, concerto barocco diretto da Emmanuel Resche-Caserta. Tre appuntamenti sono invece guidati da Mariotti: Visioni d’addio con la Rebeka nei Vier letzte Lieder di Strauss, e le due versioni della Petite messe solennelle di Rossini, la seconda eseguita nella Basilica di San Vitale con un cast vocale che include Hasmik Torosyan, Carlo Vistoli e Dmitry Korchak. Significativa la trasferta a settembre all’Expo 2025 di Osaka con l’Orchestra dell’Opera di Roma, protagonista del concerto La grande Opera italiana patrimonio dell’umanità diretto da Francesco Ivan Ciampa. Altra data simbolica sarà il 1° novembre con una Tosca commemorativa per i 125 anni dalla prima rappresentazione, trasmessa in diretta su Rai 3, diretta da Daniel Oren, con Eleonora Buratto, Jonathan Tetelman e Luca Salsi. L’identità “diffusa” dell’Opera di Roma trova ulteriore slancio nelle attività sul territorio: OperaCamion, Linea Opera, Una notte a teatro e Cantamondo rafforzano la vocazione sociale e educativa del teatro. Nuove collaborazioni coinvolgono, tra gli altri, Teatro di Roma, Musica per Roma, EUR Culture, Romaeuropa Festival, il mondo accademico e l’ATAC. Sul piano produttivo, si conferma una rete internazionale di coproduzioni: oltre a Valencia e Venezia per Lohengrin e La bohème, anche Semperoper Dresden (Ariadne auf Naxos) e Salzburger Festspiele (Il trionfo del Tempo e del Disinganno). Importante il sostegno di mecenati come Banca del Fucino, Terna, BMW Roma e Aeroporti di Roma, così come dei soci Camera di Commercio e ACEA. A sostenere il “Doppio Sogno” – come sottolinea il Sovrintendente Francesco Giambrone – è un sistema teatrale che tiene insieme rigore artistico e visione sociale, tradizione e contemporaneità. Lo stesso Sindaco Roberto Gualtieri ha annunciato un investimento di 18 milioni e l’avvio dei lavori per la nuova sede della Scuola di Danza a Tor Marancia. Con 12 nuove produzioni, tre tournée, quattro concerti e un’espansione delle collaborazioni e dei progetti sul territorio, la stagione 2025/26 si preannuncia come un percorso artistico ricco e coerente, capace di coniugare sperimentazione e patrimonio, memoria e futuro. Qui per tutti i dettagli della nuova stagione.

Categorie: Musica corale

Roma, Gnam: “2025 East and West”

gbopera - Gio, 17/07/2025 - 14:30

Roma, Gnam
2025 EAST AND WEST
International dialogue exhibition – From Shanghai to Rome
a cura di Gabriele Simongini e Zhang Xiaoling
Roma, 14 luglio 2025
Nelle epoche lontane, quando i viaggi erano epopee e le rotte tracciate sulle mappe somigliavano a sogni, Marco Polo s’imbarcò per la Cina e riportò, insieme alle spezie e ai racconti incredibili, l’eco di una civiltà che ci sembrava allora impossibile e irreale. Oggi, nell’epoca dei voli low-cost e delle call su Zoom, ci accorgiamo che il vero viaggio resta quello mentale, intellettuale, estetico. Ecco allora che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea ci invita a salire a bordo per una traversata lunga duemila anni e due continenti, tra l’arte di Shanghai e quella dell’Italia novecentesca, con la mostra “2025 East and West: International Dialogue Exhibition – From Shanghai to Rome”. Già il titolo, va detto, è abbastanza assertivo da sembrare una dichiarazione ONU. E non a caso: perché qui l’arte funziona anche da passaporto diplomatico, anzi da interprete culturale. Organizzata con un apparato istituzionale che fa tremare anche il più navigato dei funzionari — dal Ministero della Cultura alla Shanghai Artists Association passando per la Zhong Art International — l’esposizione è una sorta di sinfonia polifonica tra Oriente e Occidente, diretta con mano esperta da Gabriele Simongini e Zhang Xiaoling, che si prendono la responsabilità (e il piacere) di mettere in contatto due universi spesso solo affiancati, ma raramente in vero dialogo. Ora, non facciamo i provinciali. I cinesi non ci stanno “copiando” nulla. Ci stanno piuttosto osservando, decantando, riscrivendo. La nostra arte novecentesca – quella dei Balla, Boccioni, Carrà, Morandi, Marini, Burri, Schifano – è lì esposta quasi come fosse un pantheon di venerabili maestri. E non è una collezione “di contorno”: è semmai il necessario contrappunto a un ensemble di oltre settanta opere di più di quaranta artisti cinesi, alcuni notissimi in patria (e in gallerie internazionali), altri meno, tutti però rigorosamente selezionati. Qui la mostra compie un gesto da calligrafo, traccia un ideogramma concettuale in cui le linee dell’arte italiana del XX secolo e quelle dell’arte cinese contemporanea si sovrappongono, si sfiorano, si contraddicono e infine si riconoscono. Il percorso si snoda attraverso tre nuclei tematici – Riflessi dello Spazio-Tempo, Espansione del Pensiero e Generazione dell’Immaginario – titoli che suonano più come saggi di estetica heideggeriana che come didascalie da sala, ma che nella loro ampollosità colta celano in realtà un impianto rigoroso e, sorprendentemente, leggibile. L’allestimento, pur senza scosse di genio, è sobrio ed elegante: non impone, propone. È una regia invisibile ma sapiente, che lascia alle opere il compito di parlare, senza sovrascrivere. I rimandi fra un’opera di Ding Yi e una tela di Lucio Fontana, fra il drago di Xia Cun e le geometrie di Severini, avvengono non per imposizione curatoriale, ma per naturale risonanza. Nel primo segmento, si gioca la grande sfida dell’identità nel tempo. I nostri Futuristi urlano la velocità, mentre gli artisti di Shanghai sembrano suggerire il silenzio delle trasformazioni lente. È qui che si percepisce quanto la modernità, per quanto globalizzata, resti una parola al plurale. Per noi italiani, è rottura, rivoluzione, creazione ex nihilo. Per i cinesi, è un fiume che si biforca, ma che continua a scorrere. L’inchiostro, materia sacra nella tradizione orientale, si fa allora medium concettuale, come in “Lettura di Epigrafi a Pingshan” di Wang Tiande, dove la scrittura diventa spazio e tempo insieme, mentre da noi la scrittura viene violentata, smembrata, iconizzata da un Burri o un Kounellis. Nel secondo momento, si apre il discorso sul “pensiero che si espande” — cioè su come la materia diventi linguaggio. E qui, finalmente, i materiali parlano. Sculture che sembrano pietre filosofali, come quelle di Zeng Chenggang, si affiancano ai fantasmi materici dell’Arte Povera, mentre le installazioni astratte, come “Algoritmo. Capacità di calcolo” di Song Gang, ci ricordano che in Cina si pensa anche al digitale con lo spirito dell’antico. Lì dove l’Occidente tende alla disgregazione simbolica, l’Oriente ricompone. È arte come sistema complesso, che non esclude ma stratifica. Ma è nel terzo segmento – Generazione dell’Immaginario – che la mostra tocca corde più emotive. Qui le opere sono sguardi, ricordi, interiorità che si fanno paesaggio. “Viaggio Solitario” di Zhai Qingxi, con il suo cavaliere d’acciaio riflettente, è insieme ritratto e specchio: lo spettatore vi si ritrova, e si interroga. Dall’altra parte, Cattelan ride amaro, e Schifano dipinge lo stesso tempo, ma lo fa con l’istinto disilluso del pop. È questa forse la parte più riuscita del dialogo: lì dove la Cina ci offre un’umanità profonda, silenziosa, il nostro Occidente risponde con l’ironia, con l’iperbole. E tuttavia i due mondi si trovano, come due strumenti in tonalità diverse che però suonano la stessa melodia. Un elogio va speso anche per la curatela, intelligente e non pedante. Simongini e Xiaoling non cercano il “capolavoro”, ma l’eco, il riflesso, il legame. Evitano il confronto frontale, l’esibizione muscolare delle collezioni, e invece orchestrano un incontro che è, finalmente, un vero scambio. La didattica visiva è ben calibrata, non c’è mai la sensazione di essere spettatori di un evento di rappresentanza, ma piuttosto di un laboratorio aperto in cui anche noi, visitatori, siamo in ascolto. E si ascolta molto, in effetti. Il silenzio di una pennellata d’inchiostro accanto a una combustione di Burri dice più di cento convegni. L’installazione che pare fluttuare fra monti e acque è la risposta poetica alla Roma delle pietre e delle ideologie. È un incontro che non pretende di sciogliere le differenze, ma di celebrarle. In un tempo in cui il multiculturalismo rischia di diventare un’etichetta vuota, “2025 East and West” restituisce all’arte il suo ruolo originario: non slogan, ma forme, segni, storie che mediano tra culture. Forse oggi l’arte è proprio questo: una calligrafia del pensiero in cui identità lontane si guardano senza capirsi del tutto, ma si rispettano. La risposta, forse, sta nel passero che vola verso il sole, di Jiao Xiaojian. Lì c’è tutto: il sogno, il volo, il fuoco, e il mistero di un Oriente che – finalmente – smette di essere solo altrove.

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