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Firenze, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino: Omaggio a Luigi Dallapiccola

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 19:55

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Sala Zubin Mehta
Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”
Direttore Lorenzo Donati
Soprano Livia Rado
Pianoforti Aldo Orvieto, Anna D’Errico
Arpe Emanuela Battigelli, Stefania Scapin
Percussioni Antonio Caggiano
Chigiana Percussion Ensemble
Giulio Ancarani, Francesco Conforti, Carol Di Vito, Davide Fabrizio, Roberto Iemma, Matteo Lelli, Davide Soro
Chigiana Live Elettronics Ensemble
Live elettronics Alvise Vidolin, Nicola Bernardini, Julian Scordato
Filippo Perocco: “Disegnare rami” per soprano, doppio coro, due pianoforti ed elettronica – 2025; Luigi Dallapiccola: “Canti di prigionia” per coro misto e piccolo ensemble strumentale.
Firenze, 7 giugno 2025
Nella Sala Zubin Mehta, davanti ad un pubblico molto attento, l’omaggio a Luigi Dallapiccola in occasione del 50mo della sua dipartita attraverso i Canti di prigionia (1938-1941), attingendo a testi in lingua latina di prigionieri «di uomini che avevano lottato e creduto» come specifica il compositore e basati su una serie di dodici suoni che costituiscono la base dell’intero corpus. Lavoro originale e tra i più significativi della sua produzione che prende vita, come dichiara egli stesso, dalla circolazione delle voci che il fascismo seguisse l’esempio hitleriano promuovendo una campagna antisemita, esprimendo così la sua protesta ed indignazione attraverso quest’opera. Nella prima parte è stata eseguita in prima assoluta Disegnare rami per soprano, doppio coro, due pianoforti ed elettronica di Filippo Perocco, commissionata dall’Accademia Chigiana di Siena. Sul palco il Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini” nella disposizione a doppio coro, compagine che si caratterizza per ampio repertorio e significative collaborazioni. A completare l’organico musicisti attivi nei circuiti della musica contemporanea: Livia Rado, soprano dotato di appropriata vocalità e grande sensibilità per questo tipo di repertorio, i pianisti Aldo Orvieto e Anna D’Errico, Alvise Vidolin con Nicola Bernardini, Julian Scordato alla regia del suono. Sul podio Lorenzo Donati che, per tutto il programma, ha evidenziato una concertazione ben strutturata, volta alla ricostruzione delle partiture, nell’intenzione di raggiungere un’interpretazione più vicina possibile all’inventio e al pensiero dei compositori.  Il pubblico, nella composizione di Perocco, catapultato nella materialità della voce in una sorta di esplorazione aperta, includendo l’elettronica, ha assistito ad un edificante sviluppo germinale volto alla trasmissione di un cangiante paesaggio sonoro (anche allusivo ed evocativo) che include la riorganizzazione di ogni minima vibrazione che può riferirsi altresì a concetti multipli ed estetici. Organizzata in quattro movimenti: Veglia, Carillon, Sogno-Metamorfosi-Seme, Congedo, fin dall’inizio con l’intonazione del soprano «non è ombra sulle mie fredde radici» si è intuito quanto Disegnare rami evochi atmosfere magiche ove immaginare l’arbor all’interno dell’ecosistema e della vita sul pianeta terra. Tuttavia la dichiarazione del soprano non trova riscontro nella percezione umana del coro, il quale si oppone affermando, con vocalità fascinosa, che proprio a causa del tintinnamento dell’ombra la voce «oscilla» e «sussurra fino all’ultima foglia tremula».
Conseguenza di ciò è che dalla proiezione dell’ombra scaturisce un senso di freddo tale da colpire le radici dell’albero, rischiando la sua vulnerabilità e precarietà o l’assenza di armonia con la natura. Al pubblico non è rimasto che ascoltare «gli alberi che parlano» e vivere questa esperienza soggettivamente ed emotivamente. Pur di fronte alla ‘frantumazione’ del testo cantato e della «sventurata musica che muore nel nascere» (Leonardo) non è stato fondamentale comprendere, considerando che l’«impenetrabile legno» è la stessa impenetrabilità della materia di una partitura che Bauman definirebbe ‘liquida’. A ferire le radici dell’albero, attingendo alla metafora, come ha sottolineato Donati, è la natura distruttiva delle guerre.
Ecco allora che i Canti di prigionia, in tale contesto, manifestano ancor più un’autentica potenza emotiva radicata nella storia e nell’esperienza di vita collettiva affidando ai musicisti l’interpretazione del dolore e allo stesso tempo l’imprecazione «O Domine Deus! Speravi in Te […] nunc libera me». Organizzati per esprimere una narrazione complessa, sono ‘trittico sonoro’ nella seguente successione: I. Preghiera di Maria Stuarda (O domine Deus! Speravi in Te); II Invocazione di Boezio (Felix qui potuit boni / fontem visere lucidum); III Congedo di Girolamo Savonarola (Premat mundus, insurgant hostes, / nihil timeo) ove la massa corale è vista come insieme di individui in cui le singole voci si fondono in un unico e potente suono.
È bastato ascoltare nell’ Introduzionemolto lento la reiterazione scolpita delle prime quattro note del Dies Irae dalle due arpe e timpani, all’interno di una sonorità grave e profonda prodotta dai due pianoforti e alcuni strumenti a percussione, per entrare in una dimensione meditativa ed escatologica del destino umano. Oltre a ricordare il «Dies Irae, dies illa /solvet saeculum in favilla» per l’ascoltatore più attento poteva rappresentare metaforicamente la ‘lanterna di Dioniso alla ricerca dell’uomo’ congiuntamente al cantus firmus su cui Dallapiccola costruisce le diverse relazioni contrappuntistiche che prendono vita dal sistema delle dodici note presenti in tutta la composizione. Si è così avvertita la necessità di un’illuminazione spirituale ma si sono percepiti, anche quando le voci cantano a bocca chiusa, lontani echi, amplificati dal buio della notte, di una società disorientata e della «cronaca, in forma di poesia, di un dramma che ha colpito l’intera umanità, in un abisso di ferocia in cui cominciarono cose che, purtroppo, non hanno ancora finito di cominciare» (Mario Ruffini).
Il Coro, la Chigiana Percussion Ensemble, la Chigiana Live Elettronics Ensemble, le percussioni di Antonio Caggiano, unitamente agli altri musicisti che hanno collaborato al concerto, sono risultati importanti tasselli che hanno contribuito al successo della serata che ha visto Lorenzo Donati autentica e solida guida nel laborioso processo creativo delle due composizioni. Applausi per Perocco, presente in sala, all’intera compagine musicale e a coloro che hanno reso possibile l’iniziativa: il Maggio Musicale Fiorentino, in coproduzione con l’Accademia Musicale Chigiana, con il patrocinio dell’Associazione Nazionale ex Deportati nei Campi nazisti (IT ANED) sezione di Firenze, Memorie delle deportazioni, il Centro Studi Luigi Dallapiccola e l’Accademia delle Arti e del disegno di Firenze.

Categorie: Musica corale

Fabio Luisi dirige l’ultimo concerto di stagione per l’Orchestra RAI

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 16:52

Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione Sinfonica 2024/25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Fabio Luisi
Franz Schubert: Sinfonia n. 8 in si minore, D 759 “Incompiuta”; Anton Bruckner: Sinfonia n. 7 in mi maggiore
Torino, 6 giugno 2025
Nell’Ultimo concerto della stagione, il Direttore Emerito Fabio Luisi risale sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Programmate in locandina sono due opere fondamentali della storia della musica ed essenziali per l’asse austriaco della sinfonia che, oltre a Schubert e Bruckner, annovera il capostipite Franz Josef Haydn. Gli altri, Beethoven e Brahms in testa, pur fondamentali innovatori, si ritengono su linee parallele e non strettamente appartenenti e conseguenti ai 3 grandi indigeni. Le due opere presentate, fatta salva l’incompletezza della sinfonia schubertiana, hanno trovato una linea fortemente unificante nella direzione di Fabio Luisi che, probabilmente, alla congruità della matrice austriaca, anche se non prettamente viennese, ci crede. Schubert nel 1822, data riportata sul manoscritto, aveva 25 anni, pochi successi e scarsa notorietà alle spalle. Nessuna sua composizione aveva ancora goduto di un’esecuzione pubblica in un’accademia a pagamento e nessun editore si era fatto avanti per pubblicargli alcunché. Cosciente della sua arte, si ostinava comunque a mettere giù partiture di una certa consistenza, opere e sinfonie che rimanevano a giacere disperse in qualche cassetto. Non avendo una casa propria e dormendo dove capitava, presso amici che temporaneamente l’ospitavano, i mobili e i relativi cassetti non erano beni che lo seguissero nel suo peregrinare. Viste le circostanze, che la sinfonia si sia bloccata dopo i primi stratosferici, per valenza artistica, due tempi non ci può stupire, non ci deve neppure meravigliare che il manoscritto sia ricomparso e poi eseguito, per la prima volta, il 17 dicembre del 1865, ben 36 anni dopo la morte del povero Franz. Luisi sceglie di accentuarne la tragicità e l’insita sofferenza. Il lirismo, sempre presente in Schubert, viene soffocato sul nascere dai repentini interventi sia dai formidabili archi bassi, violoncelli e contrabbassi, dell’orchestra RAI che dagli ottoni. Le melodie, ancorché ostacolate, rimangono appannaggio di ineffabili legni. Il tempo, assolutamente non affrettato, accentua il versante pessimistico dell’opera, che seppur legittimo è in contrasto con la visione consueta che per Schubert suggerisce l’immagine di una sofferenza attenuata da un sorriso o di una gioia con lacrime a stento trattenute. Sfumature e colori che dall’interpretazione, essenzialmente monodirezionale, di Luisi non pare di poter cogliere. Questa impostazione, che attenua il lirismo dell’Incompiuta, l’avvicina a quanto Luisi e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI fanno con la Sinfonia n.7 di Bruckner, in cui le sonorità attutite e la sbrigatività del ritmo alleggeriscono l’impasto tradizionalmente adottato. Risultano accentuate le aree liricheggianti al confronto con fanfare e con “tutti” orchestrali tutt’altro che travolgenti. Le 9 sinfonie bruckneriane non fanno parte del repertorio più frequentato dall’orchestra, come si è potuto anche constatare nel corso del 2024, anno bicentenario dalla nascita del compositore, in cui, diversamente da quanto avveniva in tutta Europa, ben poco si è potuto ascoltare in Auditorio. Impervia la scrittura, non c’è quasi nota che non sia alterata e che non cozzi con le altre innumerevoli linee parallele, instancabilmente differenziate e iperbolicamente cromatizzate. Per Luisi, avvezzo alla conduzione delle grandi orchestre del Nord, per cui Bruckner è esercizio quotidiano, non deve essere stato facile condurre a termine positivamente l’esecuzione. Facendo grazia a qualche attacco impreciso degli ottoni, ma queste difficoltà sono fisiologiche in quasi tutte le orchestre e non devono dar adito a giudizi troppo assertivi, forse qualche prova supplettiva, rispetto al consueto regime adottato, avrebbe potuto rafforzare la sicurezza e la coordinazione tra le file degli strumenti. L’Auditorio non contava il tutto esaurito, ma ormai fa caldo e il venerdì diventa il giorno prescelto per abbandonare le vie cittadine e correre a ricercare la frescura delle onde o delle cime. Chi c’era ha applaudito, si può quindi, con ragione, dedurne cha abbia ampiamente apprezzato quanto gli è stato proposto.

Categorie: Musica corale

Roma, Musei Capitolini: “Una Regina Polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la Famiglia Reale Sobieski a Roma”

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 15:38

Roma, Musei Capitolini
Palazzo Caffarelli
UNA REGINA POLACCA IN CAMPIDIGLIO: MARIA CASIMIRA E LA FAMIGLIA REALE SOBIESKI A ROMA
A cura di Francesca Ceci, Jerzy Miziołek con Francesca De Caprio.
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla CulturaSovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia, dell’Istituto Polacco di Roma e dell’Accademia Polacca delle Scienze a Roma
Organizzazione di Zètema Progetto Cultura
Roma, 10 giugno 2025
Non esistono solo monarchie, ma anche le messe in scena del loro fantasma. È precisamente questo il fulcro concettuale della mostra Una Regina polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la famiglia reale Sobieski a Roma: non tanto la restituzione documentaria di una presenza storica quanto l’analisi – silenziosa ma precisa – di un immaginario dinastico costruito attraverso strategie visive, dispositivi di memoria e articolazioni spaziali. Più che narrare un passato, l’esposizione lo modella, lo organizza, lo mette in scena: Maria Casimira e la sua discendenza vengono così traslate da soggetti storici a figure sintomatiche, specchianti un’intera epistemologia del potere in esilio. A questo titolo, ciò che si espone non è una semplice regina vedova né un casato disperso: è un’intera grammatica di rappresentazione che investe il corpo regale, le sue derive simboliche, le sue modalità di sopravvivenza iconografica all’interno di una Roma che da secoli funziona come archivio visivo e semantico della sovranità europea. Il progetto, articolato in cinque sezioni e ospitato al terzo piano di Palazzo Caffarelli ai Musei Capitolini, evita la trappola della cronaca lineare. La mostra funziona piuttosto come un palinsesto iconologico: ogni sala è un nodo concettuale, ogni oggetto un segno che rinvia non solo alla figura di Maria Casimira ma all’intero campo semantico che la circonda – esilio, alterità, cerimoniale, patriottismo, teatro. La regina, d’altronde, non viene soltanto “esposta”: viene costruita. Le sue immagini non sono riproduzioni ma atti di enunciazione. Dai ritratti alle epigrafi, dalle lettere autografe ai busti bronzei, ogni oggetto è carico di funzioni discorsive. Il corpo di Maria Casimira – e poi quello di Maria Clementina Sobieska – è un corpo “parlante”, sempre al centro di un dispositivo performativo: basti pensare alla cappella ricreata del Palazzetto Zuccari, che ospita la riproduzione della volta affrescata con i suoi monogrammi coronati. Non si tratta qui di filologia decorativa, ma della mise-en-scène di una identità che non trova posto nelle carte diplomatiche ma si incarna negli interstizi culturali della città. L’esilio polacco si trasforma in racconto per immagini, e Roma – città-palinsesto per eccellenza – ne diventa il medium. Non è un caso che molte opere, epigrafi e iscrizioni siano testimonianze “in situ” di questa presenza regale dislocata. Il percorso sobieschiano che dalla Basilica dei Santi Apostoli passa per San Luigi dei Francesi, Santa Maria degli Angeli e via fino a Trinità dei Monti non è solo topografico, ma anche semiotico: è un percorso attraverso monumenti come atti linguistici, gesti di reinscrizione del potere nello spazio urbano. In questa rete di tracce, la sezione più potente resta quella dedicata alla regina “senza regno” Maria Clementina Sobieska Stuart. La sua presenza – evocata attraverso busti, stampe, ma soprattutto suoni – diventa figura paradigmatica di una regalità interdetta, confinata alla rappresentazione. La sua assenza di potere reale è inversamente proporzionale all’intensità con cui il suo corpo è stato iconizzato. Le arie barocche, appositamente registrate per la mostra e tratte da opere che la vedevano celebrata come destinataria simbolica, offrono un ulteriore livello di significazione: il suono qui è forma di sopravvivenza. La voce, sospesa nel tempo, ricrea la regina come figura acustica del desiderio politico. Il catalogo dell’esposizione, coeditato con l’Università di Varsavia, non tenta di nascondere questa strategia. Lungi dal limitarsi alla descrizione delle opere, propone una lettura critica che affronta la presenza sobieschiana come sintomo della tensione tra identità nazionale e cosmopolitismo romano, tra mitologia dinastica e pratiche urbane. La sezione conclusiva, centrata sull’apoteosi di Giovanni III Sobieski come trionfatore della battaglia di Vienna, agisce come contrappunto a questa riflessione. La monumentalità virile del sovrano – il busto d’armatura ussara, le grandi tele eroiche – si pone in tensione con la fragilità delle regine. Qui si innesta una lettura differenziale del potere: il corpo del re è affermativo; quello delle donne Sobieski è fluido, disseminato, diasporico. L’uno agisce nel campo della retorica bellica, l’altro in quello della diplomazia culturale. La mostra si configura come un laboratorio critico su cosa significhi “appartenere” a una città. Maria Casimira non è romana, eppure Roma la riassorbe; non ha un regno, eppure è ospite del Campidoglio. La sua figura destabilizza il binarismo centro/periferia, ospite/ospitante, e ci costringe a rivedere le modalità con cui una capitale costruisce il proprio racconto attraverso le presenze estranee. L’esposizione trova nei prestiti – dal Castello Reale di Varsavia, dal Museo di Roma, dalla Dom Polska, dall’Educandato della SS. Annunziata di Firenze – un ulteriore dispositivo di destabilizzazione. Il sapere artistico non è più chiuso entro le mura cittadine, ma transita, migra, si contamina. Anche il materiale sonoro, curato con rigore filologico dall’ensemble Giardino di Delizie, agisce in questa logica rizomatica: la musica barocca diventa il vettore acustico di una memoria che sopravvive nel corpo, non nei confini. Infine, le repliche tattili delle tre opere-chiave (i ritratti di Giovanni III, Maria Casimira e Maria Clementina) e le didascalie plurilingue rendono esplicita la volontà di una fruizione plurale. Non è un atto di inclusione formale, ma un’estensione epistemologica: il sapere non è più verticale, ma orizzontale, accessibile, condivisibile. La regina senza regno parla così anche a chi, oggi, si muove nei margini del potere. Una Regina polacca in Campidoglio è dunque una mostra profondamente politica: non per i contenuti, ma per la forma che dà loro. In un’epoca che tende a fossilizzare le identità, essa interroga le dinamiche della rappresentazione, mette in crisi i limiti tra centro e margine, e riconsegna al pubblico una lettura complessa, stratificata, non lineare della storia. È un esercizio di critica visiva, un saggio in forma di esposizione. E come ogni saggio efficace, lascia una domanda sospesa: cosa resta oggi del potere, se non le sue immagini?

Categorie: Musica corale

Roma, Basilica di Massenzio: “Le quattro stagioni di Vivaldi”

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 11:55

Roma, Basilica di Massenzio
LE QUATTRO STAGIONI
Accademia Barocca di Santa Cecilia
solista e direttore Giovanni Andrea Zanon
voce recitante Toni Servillo
Roma, 08 giugno 2025
L’8 giugno 2025 ha segnato un momento di particolare rilievo nella storia della musica a Roma: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è tornata ad esibirsi, dopo quarantasei anni di assenza, nella Basilica di Massenzio.
L’evento inaugurale della rinnovata stagione concertistica nel sito archeologico, da poco restituito alla città dopo un quinquennio di restauri condotti dal Parco Archeologico del Colosseo, ha visto protagonista l’Accademia Barocca dell’istituzione ceciliana, in un’esecuzione filologica de Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi. Il concerto, affidato al violino solista e concertatore Giovanni Andrea Zanon, è stato arricchito dalla recitazione dei sonetti vivaldiani – uno per ogni stagione – affidata alla voce autorevole di Toni Servillo e da un impianto visuale di videomapping che ha offerto una lettura immersiva e multimediale del ciclo musicale. L’approccio interpretativo scelto per questa storica riapertura si è attestato su un piano di rigorosa aderenza stilistica. L’Accademia Barocca, nata come formazione specializzata all’interno dell’organico sinfonico di Santa Cecilia, si distingue nel panorama italiano per la prassi esecutiva su strumenti originali o copie fedeli, nonché per un impegno filologico nella restituzione del repertorio sei-settecentesco. Il suono che ha risuonato tra le poderose volte di Massenzio si è dunque configurato come un ritorno non solo fisico, ma anche estetico: la timbrica barocca, asciutta e tagliente, il fraseggio mobile e agogicamente articolato, il vibrato contenuto e selettivo, hanno contribuito a ricostruire un contesto acustico coerente con la poetica vivaldiana. Giovanni Andrea Zanon, nel duplice ruolo di solista e concertatore, ha saputo delineare un disegno interpretativo centrato sulla mobilità retorica del gesto. Il suo violino, mai narcisistico, ha privilegiato l’articolazione della parola musicale, rendendo evidenti le corrispondenze tra testo poetico e tessuto sonoro. I celebri affreschi stagionali, lontani da qualsiasi tentazione illustrativa o pittoresca, sono emersi come dispositivi espressivi costruiti su un sapiente equilibrio tra descrittivismo programmatico e architettura musicale. Il fulmine invernale, l’ubriaco autunnale, la canicola estiva o la danza pastorale primaverile sono stati resi con un’eloquenza sobria, priva di effetti superflui, grazie a un controllo agogico e dinamico raffinato e a una perfetta intesa tra concertatore e compagine strumentale. La scelta di includere i quattro sonetti – probabilmente dello stesso Vivaldi – ha radicato ulteriormente l’esecuzione in una prospettiva filologica. L’intervento di Toni Servillo, calibrato nei toni e nel ritmo, ha agito da elemento metatestuale, ponendosi come cornice verbale al commento sonoro, e ribadendo quella corrispondenza tra musica e parola che è alla base dell’estetica barocca. L’alternanza tra recitazione e musica ha generato un continuum drammaturgico che ha scandito la forma ciclica dell’opera, amplificandone l’intelligibilità narrativa. L’uso del videomapping, raramente associato a esecuzioni filologiche, ha rappresentato un’ulteriore stratificazione sensoriale: in questo contesto, tuttavia, l’elemento visivo ha evitato l’effetto decorativo, interagendo con l’architettura stessa del monumento e proponendo immagini evocative che suggerivano atmosfere, stati d’animo e suggestioni stagionali, senza interferire con l’ascolto o deviarne l’attenzione. Non è un caso che la scelta sia ricaduta su Le quattro stagioni. Come ricordato da Massimo Biscardi, presidente-sovrintendente dell’Accademia, l’opera vivaldiana, pur essendo oggi tra le più celebri del repertorio barocco, fu oggetto di una lunga damnatio memoriae musicale. I manoscritti rimasero dimenticati fino al primo Novecento e la loro riscoperta fu frutto di un meticoloso lavoro di catalogazione, studio e trascrizione, a cui contribuì in maniera determinante proprio l’Orchestra di Santa Cecilia. La prima registrazione integrale delle Stagioni, nel 1942, fu infatti realizzata sotto la bacchetta di Bernardino Molinari per la casa discografica Cetra, segnando un momento fondativo per la fortuna discografica moderna del ciclo vivaldiano. La scelta di tornare a Massenzio con questa partitura ha dunque assunto un valore profondamente simbolico: è un omaggio alla memoria storica dell’istituzione, ma anche una dichiarazione d’intenti sulla sua missione odierna di custode e mediatore del patrimonio musicale. Non meno significativo è stato il ritorno della musica in un luogo che, per quasi mezzo secolo, fu teatro privilegiato della stagione estiva ceciliana. Dal 1933 al 1979, la Basilica di Massenzio ha ospitato 693 concerti: una vera e propria “sala” all’aperto dove si sono succeduti direttori del calibro di Tullio Serafin, Guido Cantelli, Vittorio Gui, Gianandrea Gavazzeni, Carlo Maria Giulini, Claudio Abbado, Riccardo Muti e Leopold Stokowski, solo per citarne alcuni. Fu proprio in questo contesto che, nel luglio del 1938, Bernardino Molinari diresse L’Inverno di Vivaldi, mentre nel 1966 Stokowski affrontò l’intero ciclo vivaldiano sul podio dell’Orchestra di Santa Cecilia. La ripresa di questa tradizione – resa possibile dall’allestimento di un nuovo palco integrato nella struttura archeologica e da un’attenta progettazione acustica e scenotecnica – si pone come atto di rigenerazione culturale e progettuale. Il ritorno della musica dal vivo in uno spazio antico non è solo un’operazione di valorizzazione turistica, ma un gesto di riconquista semantica: la monumentalità della Basilica di Massenzio, già concepita come spazio civile di rappresentazione pubblica, diventa nuovamente agorà sonora, luogo di incontro tra stratificazioni storiche e linguaggi contemporanei. La promessa, annunciata per il 2026, di un festival sinfonico-corale estivo curato dall’Accademia di Santa Cecilia si inserisce coerentemente in questo orizzonte. Il connubio tra prassi esecutiva filologica, repertorio sinfonico e spazi monumentali configura un modello replicabile, in cui la musica agisce come agente attivo di senso nel paesaggio urbano. In tal senso, l’evento dell’8 giugno non è stato solo una cerimonia inaugurale, ma un atto fondativo: ha sancito il ritorno di una voce autorevole in un luogo carico di memoria, aprendo la strada a nuove modalità di fruizione musicale dove l’estetica dell’ascolto si intreccia con l’archeologia, la storia e la tecnologia. La serata a Massenzio ha rappresentato un esempio virtuoso di come la musica colta, quando sostenuta da una visione progettuale solida e da un approccio interpretativo consapevole, possa riattivare luoghi e memorie, offrendo al pubblico non solo un concerto, ma un’esperienza estetica completa e stratificata, capace di unire passato e presente in un’unica, potente vibrazione sonora.

Categorie: Musica corale

“Paquita” di Pierre Lacotte per la prima volta al Teatro alla Scala dall’11 al 26 giugno

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 10:31

Un nuovo importante debutto per la Scala e il suo Corpo di Ballo, che aggiunge ora al suo repertorio, e con un allestimento realizzato appositamente per questa occasione, la sua prima Paquita. Ed è quella firmata da Pierre Lacotte per l’Opéra di Parigi nel 2001 e tuttora in repertorio, e che ora per la prima volta viene presentata da una Compagnia diversa da quella francese.
Grande ballerino e coreografo, figura di riferimento della danza del Novecento, considerato uno “specialista” della ricostruzione di balletti del repertorio romantico, Pierre Lacotte ha dato nuova vita a questo storico titolo che rompe il cliché del ballet blanc, incentrandosi su una vicenda realistica e una protagonista in carne ed ossa. In una pittoresca Spagna del diciannovesimo secolo, durante l’occupazione napoleonica, l’amore contrastato tra l’ufficiale francese Lucien d’Hervilly e la zingara Paquita è coronato da giuste nozze dopo varie peripezie e disvelamenti.
Una trama articolata al servizio di una entusiasmante vetrina di grande danza, lirismo e virtuosismo che vedrà in scena numerosi protagonisti, con tre cast nei ruoli principali: Nicoletta Manni, Martina Arduino e Alice Mariani nel ruolo di Paquita e Nicola Del Freo, Timofej Andrijashenko e Navrin Turnbull in quello di Lucien d’Hervilly.
Grande partecipazione di tutti i solisti e  di  tutto il Corpo di Ballo impegnato nelle tante danze, da quelle del villaggio, alle danze gitane, spagnole, dei banditi, degli ufficiali, della corte – con quadriglia, galop, valzer – nel Pas des manteaux e nel Grand Pas; impegnati nella nuova produzione anche una ventina di allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, interpreti fra l’altro della famosa e ambita mazurka des enfants del secondo atto. Nei laboratori scaligeri di scenografia, sartoria e attrezzeria hanno preso forma i bozzetti e figurini di Luisa Spinatelli, frutto del lavoro di creazione e ricerca realizzato a fianco di Lacotte. Sul podio Paul Connelly torna a dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala.

 

 

 

 

 

 

 

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro Malibran: Manlio Benzi e Giacomo Menegardi in concerto

gbopera - Mar, 10/06/2025 - 09:34

Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2024-2025 della Fondazione Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Manlio Benzi
Pianoforte Giacomo Menegardi
vincitore della XXXIXa edizione del Premio Venezia
Fryderyk Chopin: Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in fa minore op. 21; Jean Sibelius: Sinfonia n. 5 in mi bemolle maggiore op. 82
Venezia, 7 giugno 2025
Non tutti sano che il cuore di Chopin è conservato nella Chiesa di Santa Croce a Varsavia. Il sublime ‘Poeta del pianoforte’, poco prima della morte – avvenuta il 17 ottobre 1849 a Parigi, dove si trovava in esilio – chiese che l’organo, in cui secondo la medicina antica si originerebbero i sentimenti, ritornasse, separato dal resto del corpo, nell’amata Polonia. Fu la sorella Ludwika a trasportarlo clandestinamente in Patria, nascosto in un barattolo colmo di una sorta di cognac. L’amore e la nostalgia per la propria terra natale avevano fatto palpitare il cuore generoso di Fryderyk, insieme alla passione amorosa, non sempre corrisposta. Un cuore, dunque, romantico per eccellenza, che nel pianoforte aveva trovato la propria sensibilissima cassa di risonanza, ad esprimere – come pochi artisti hanno saputo fare – ogni suo più intimo sentimento, piegando all’urgenza espressiva le possibilità tecniche della tastiera, non di rado spinte all’estremo, così come le stesse forme della tradizione ‘classica’. È il caso dei due Concerti per pianoforte e orchestra, scritti da Chopin tra il 1829 e il 1830 – a circa 19 anni, quando ancora si trovava a Varsavia – ma pubblicati durante il suo soggiorno parigino. Il Concerto n. 2 in fa minore – dedicato alla contessa Delphine Potocka, ma in realtà ispirato da Konstancja Gladkowoska un’allieva di canto del Conservatorio di Varsavia, segretamente amata dall’autore – è in realtà il suo primo concerto per pianoforte e orchestra in ordine di composizione. Ad eseguirlo nella serata di cui ci occupiamo era il pianista bellunese Giacomo Menegardi, vincitore della XXXIXa edizione del Premio Venezia che, a dispetto della sua giovane età, ha affrontato l’ardua sua parte con gesto sobrio e sicuro, stilisticamente ineccepibile quanto intensamente espressivo. In questo Concerto – un inno alla giovinezza e alla passione, che procede tra stile Biedermeier e qualche rara allusione alla tradizione musicale polacca – Mengardi si è fatto apprezzare per la brillantezza del suono e la nitidezza dell’articolazione anche nei passaggi più veloci – segnatamente in quelli che disegnano arabeschi di notine sovrabbondanti –, riuscendo a rendere ogni battuta funzionale all’architettura complessiva di questo pezzo, tra l’altro prediletto da Clara Schumann, dove il pianoforte è il protagonista assoluto, mentre l’orchestra ha la sola funzione di accompagnamento (ancora una concessione ai canoni Biedermeier). Nel primo movimento, Maestoso, dopo un’introduzione orchestrale in cui è comparso il primo tema dal ritmo puntato e il secondo affidato alle delicate sonorità dei legni, il pianoforte ha fatto il suo ingresso in tono perentorio, mentre nel secondo movimento, Larghetto, ha cantato con accentuato lirismo l’amore di Fryderyk per Konstancja espresso da una scrittura – ancora stile Biedermeier – di ascendenza operistica, brillando nei veloci gruppi irregolari nella parte centrale. Una mazurka di straordinaria leggerezza, attinta dal repertorio popolare ha incantato – complice il nitido tocco di Menegardi – nel terzo movimento, concluso da una travolgente coda. Reiterati applausi ed acclamazioni per il giovane concertista. Un insolito fuoriprogramma: Notturno di Ottorino Respighi.
Alla terra patria – la Finlandia e i suoi paesaggi nelle diverse stagioni dell’anno, come peraltro suggerisce il titolo apocrifo di Sinfonia dei cigni, dal cui volo l’autore sarebbe stato ispirato – si riallaccia la Sinfonia n. 5 di Jean Sibelius, caposcuola della musica nazionale finlandese, un compositore ancora legato al tardo romanticismo ottocentesco, che non a caso produsse le sue opere più importanti intorno ai primi due decenni del Novecento, senza saper dire più nulla di notevole nel resto della sua vita. Pur mettendo in valore la musica popolare del proprio paese, l’autore spesso si limita a rievocare in modo allusivo alcune atmosfere legate a quel patrimonio sonoro, ben lontano dall’approccio più rigoroso, in base al quale operarono, nelle loro ricerche etnomusicologiche, musicisti come Bartók o Janáček. Composta da Sibelius su commissione del governo finlandese, che intendeva così celebrare i cinquant’anni dell’insigne musicista, la Quinta Sinfonia – nella versione originale in quattro movimenti – venne eseguita a Helsingfors (l’attuale Helsinki) sotto la direzione dello stesso compositore l’8 novembre 1915, la data appunto del suo compleanno, dichiarata addirittura festa nazionale. Due successive revisioni portarono alla versione definitiva, eseguita normalmente, ridotta a tre movimenti, in seguito alla fusione tra il primo e lo Scherzo. Straordinaria, quanto a fascino timbrico e potenza evocativa, l’interpretazione del maestro riminese, il cui gesto chiaro e autorevole, ha guidato l’Orchestra nel corso di un’esecuzione, in cui si alternavano colori tenui e brillanti, che denotavano un susseguirsi rapsodico di atmosfere emotive e ambientali, fino al culmine, rappresentato dall’ultima sezione del terzo tempo, maestosa e fastosa – con la suggestiva fanfara delle trombe, che disegnano una progressione armonica ‘circolare’ –, in cui dominava un clima di festa individuale e nazionale: la festa di una nazione che coincide con quella di un suo figlio famoso. Sonori festeggiamenti anche da parte del pubblico.

 

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Roma, Galleria Borghese: “Wangechi Mutu. Poemi della terra nera”

gbopera - Lun, 09/06/2025 - 14:00

Roma, Galleria Borghese
WANGECHI MUTU. POEMI DELLA TERRA NERA
curata da Cloé Perrone
Una mostra non è mai solo una mostra. È un processo, una conversazione, una possibilità. Dal 10 giugno al 14 settembre 2025, la Galleria Borghese apre le sue sale a un intervento che è insieme un attraversamento e un innesto: Poemi della terra nera, progetto di Wangechi Mutu curato da Cloé Perrone, è un gesto artistico che si radica nel tempo e lo decostruisce. Non si tratta solo di inserire opere contemporanee in un contesto storico: si tratta di ripensare lo spazio stesso del museo come organismo dinamico, come ambiente che respira e si trasforma. Mutu non visita semplicemente la Galleria Borghese: la trasforma. E lo fa portando con sé la stratificazione della sua pratica: scultura, installazione, video, poesia visiva, radici africane e sguardo globale. Le sue opere si insinuano nelle sale, si adagiano nei giardini, dialogano con la facciata, si sospendono tra le cornici e i soffitti affrescati. Come sempre accade nei suoi progetti più riusciti, Poemi della terra nera è allo stesso tempo un’evocazione e una domanda. Il titolo stesso è un portale: la “terra nera” non è solo un suolo fisico, fertile e argilloso, ma è anche una metafora viva. È memoria ancestrale, potenza creatrice, materia che accoglie e genera. È da questa terra che emergono le sculture di Mutu, come spiriti della soglia. Non si tratta di statue nel senso classico del termine. Piuttosto, sono presenze, entità che abitano il visibile e l’invisibile, il passato e il presente. Alcune pendono leggere dall’alto — Suspended Playtime — evocando il gioco e la sospensione del tempo. Altre poggiano a terra come reliquie di un futuro mitologico. Nelle sale interne, le opere non contrastano la collezione Borghese, né cercano di eclissarla. Si inseriscono invece in una danza, una coreografia spaziale che ridefinisce la percezione. Opere come Ndege, First Weeping Head, Second Weeping Head sono frammenti narrativi che aprono spiragli. Lo spettatore è costretto a cambiare punto di vista, a muoversi, a interrogarsi. È la logica dell’interruzione e dello spostamento. Mutu propone un’altra grammatica materiale: bronzo, piume, cera, legno, carta, pigmenti naturali. Ogni materiale è portatore di significato, ogni scelta è gesto critico. Il bronzo, ad esempio, smette di essere il medium della monumentalità per diventare veicolo di metamorfosi. Lo stesso si può dire della terra: elemento fertile e caotico, instabile e generativo, che abita le opere come una voce sussurrata. I Giardini Segreti diventano mappa di una geografia interiore. Opere come Nyoka, Musa, Water Woman si fanno vasi simbolici, contenitori di storie e memorie, corpi trasformati. Le cariatidi della serie The Seated, originariamente pensate per la facciata del Metropolitan Museum di New York, riappaiono ora nella classicità barocca della Galleria Borghese come sentinelle del presente. La loro posa, ieratica e composta, destabilizza la linearità del racconto museale, proponendo nuove forme di autorità visiva. Una mostra è sempre anche un’esplorazione del tempo. Il video The End of Eating Everything inserisce una dimensione temporale espansa, aggiungendo al percorso una riflessione sul consumo, sulla trasformazione e sull’ibridazione. Qui il corpo si fa macchina e mito, creatura molteplice e contaminata, in cui convergono l’ancestrale e il postumano. Il suono è una presenza sottile ma pervasiva. Poems for my Great Grandmother I è una vibrazione sospesa nello spazio, quasi una nenia lontana che accompagna lo sguardo. Grains of War, tratto dal discorso dell’Imperatore etiope Haile Selassie del 1963, riattualizza un’eredità di lotta e giustizia, rendendo la parola una forma di scultura, e la memoria sonora una nuova architettura. L’arte di Wangechi Mutu è anche sempre un gesto politico, non nel senso ideologico, ma in quello poetico della parola greca polis: spazio condiviso, spazio da abitare insieme. Le sue opere ci parlano di corpi marginalizzati, di voci cancellate, ma anche di possibilità. Il museo diventa, allora, non solo contenitore di passato, ma anche luogo di futurabilità, di immaginazione radicale. La mostra prosegue all’American Academy in Rome, con Shavasana I: una figura bronzea distesa, coperta da una stuoia intrecciata. Il riferimento alla posa yogica del cadavere — shavasana — è un gesto di abbandono e di consapevolezza. La collocazione, accanto a epigrafi romane, carica l’opera di una forza dirompente: vita e morte si incontrano nello stesso respiro. Con Poemi della terra nera, la Galleria Borghese conferma la sua volontà di apertura al contemporaneo. Dopo Gesti Universali di Giuseppe Penone e L’inconscio della memoria di Louise Bourgeois, il museo propone un’altra visione: non più il classico come autorità immobile, ma come materia viva, porosa, disposta al dialogo. Questa mostra è resa possibile dal sostegno di FENDI, che conferma il ruolo attivo della moda come partner culturale e produttore di visioni. Ma al di là dei sostegni e delle istituzioni, ciò che Poemi della terra nera ci consegna è una domanda: come possiamo immaginare un museo che non custodisca solo opere, ma anche possibilità, movimenti, interruzioni? In un’epoca in cui la memoria è minacciata dalla velocità e dall’oblio, Wangechi Mutu ci invita a tornare alla terra. A scavare. A sporcarci le mani. A ricordare che ogni gesto artistico è anche un gesto di cura, di trasformazione, di amore per il mondo che verrà.

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Lunedì di Pentecoste

gbopera - Lun, 09/06/2025 - 00:42

Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte BWV 174 è la terza di tre Cantate dedicate al secondo giorno del triduo Pentecostale celebrato dalla Chiesa Luterana. Eseguita la prima volta a Lipsia il 6 giugno 1729 si basa su un testo di Picander  a sua volta tratto dal Vangelo del giorno, dal Vangelo di Giovanni (cap.3 vers.16-21)  che ha come fulcro la frase: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Tutto il  testo della Cantata è incentrato sull’amore cristiano e sull’amore di Dio, come si evince chiaramente dal titolo: “Amo l’Altissimo con tutto il cuore.  La partitura è piuttosto breve, con solo quattro movimenti cantati: un’aria del contralto, un recitativo affidato alla voce del tenore, un’aria per voce di basso e il  corale conclusivo. Troviamo però una Sinfonia orchestrale, che altro non è se non il primo movimento del suo Concerto brandeburghese n. 3 in re maggiore, aggiungendo oboi, corni e taille (spesso suonati dal fagotto nelle esecuzioni moderne) alla partitura per soli archi del Brandeburghese. Bach  crea un’atmosfera molto festosa, ma fornisce anche una sinfonia assai ampia più che in qualsiasi altra cantata. La tonalità di re maggiore  si ritrova nel secondo movimento, un’aria “con da capo” per contralto (Nr.2) in tempo di “Siciliana”, con oboe solo e continuo. L’oboe II introduce il materiale melodico principale per l’aria; questo viene poi adottato per imitazione e una quinta più alta dall’oboe I, prima che il contralto lo faccia proprio.  Di notevole forza drammatica il breve recitativo che segue (Nr.3) del tenore. Si notano molti cambi di accordi improvvisi e inaspettati; forse che Bach voglia rappresentare le emozioni di Dio nel dare Suo Figlio al mondo (il famoso testo del Vangelo di Giovanni è citato in questo movimento – “Perché Dio ha tanto amato il mondo”. L’unica “reazione” degli archi al testo si verifica verso la fine, quando “tremano” davanti alla menzione delle “porte dell’Inferno”. L’ultima aria (Nr4) affidata al Basso è un altro esempio dell’uso da parte di Bach di una struttura di sonata a tre in un movimento vocale. Gli archi superiori suonano all’unisono contro la linea del continuo, creando un delizioso duetto strumentale. L’introduzione della voce di basso solista è un complemento naturale al resto della tessitura, e le tre linee indipendenti  danno vita un bell’intrecciano, apparentemente semplice. Chiude il tradizionale Corale (Nr.5) a quattro parti, che utilizza la prima strofa dell’inno di Martin Schalling del 1571, “Herzlich lieb hab ich dich, O Herr”.
Nr.1 – Sinfonia
Nr.2 – Aria (Contralto)
Amo l’Altissimo con tutto il cuore,
e anch’egli ha per me un amore assoluto.
Solo Dio
sarà il tesoro della mia anima,
in lui ho l’eterna sorgente di bontà.
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
O amore senza confronti!
O riscatto senza prezzo!
Il Padre ha donato la vita del suo Figlio
per liberare dalla morte i peccatori
e tutti coloro che il Regno dei Cieli
avevano disdegnato o perduto
sono ora chiamati alla beatitudine.
Dio ha tanto amato il mondo!
Mio cuore, tienilo presente
e stai saldo sulle sue parole;
di fronte a questi potenti stendardi
le porte stesse dell’inferno vacillano.
Nr.4 – Aria (Basso)
Aggrappatevi,
afferrate la salvezza, mani credenti!
Gesù vi dona il suo Regno dei Cieli
e desidera una cosa sola da voi:
conservate la fede sino alla fine!
Nr.5 – Corale
Ti amo con tutto il cuore, o Signore.
Ti prego, non allontanarti da me
con il tuo aiuto e la tua grazia.
Il mondo intero non mi procura alcuna gioia,
non chiedo né il cielo né la terra
se solamente posso avere te.
E se anche il mio cuore si spezzasse,
resteresti la mia sola speranza,
consolazione del mio cuore e mio Salvatore,
che mi ha redento con il suo sangue.
Signore Gesù Cristo,
mio Dio e Signore, mio Dio e Signore,
non abbandonarmi più alla vergogna!
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte” BWV 174

 

 

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Domenica di Pentecoste

gbopera - Dom, 08/06/2025 - 00:06

Wer mich liebet, der wird mein Wort halten BWV 74 è in ordine cronologico la terza delle cinque Cantate bachiane dedicate alla prima festa del triduo di Pentecoste. Eseguita la prima volta a Lipsia il 20 maggio 1725 ha un testo di Marianne von Ziegler in cui i versi del Vangelo di Giovanni (cap.14 Vers. 23 e 28) del giorno sono utilizzati nel primo, quarto movimento e il secondo, terzo, quinto e settimo movimento commentano il Vangelo. Per l’ottavo movimento della cantata, Bach utilizza la strofa finale di un tradizionale inno di Pentecoste di Paul Gerhardt. Inoltre, i primi due movimenti della cantata sono stati ripresi da una precedente cantata di Pentecoste (BWV 59), ma riviampliati per questa cantata. La cantata ha una partitura massiccia soprattutto per la parte orchestrale, per le grandi occasionie: due oboi, oboe da caccia, archi, basso continuo, tre trombe e timpani nei movimenti 1 e 7. La partitura si apre con un solenne ma gioioso coro  Il primo movimento è un’opera su larga scala e gioiosa per coro e orchestra completa, con i quattro corpi di musicisti – gli archi, i fiati, gli ottoni e le voci – utilizzati come cori distinti. Il secondo movimento (Nr.2) è un’aria pastorale in forma di sonata a tre per soprano solista, oboe da caccia e continuo. Un’incantevole interazione ritmico-complessiva tra il delicato oboe da caccia, la linea del continuo e il soprano solista. Questo è uno dei movimenti che Bach ha preso in prestito dalla Cantata BWV 59, in quel caso il solista obbligato era il violino. L’oboe da caccia di questa seconda versione è sicuramente più morbido e intimo. Dopo un brevissimo recitativo secco per contralto solista e continuo (Nr.4) segue un’aria virtuosistica per basso solo con il Basso Continuo. Il cuore dell’opera, è un’estesa aria tenorile (Nr.5) accompagnata dai primi violini oltre agli altri archi e al continuo. Un recitativo per basso (Nr.6), con una coppia di oboi, oboe da caccia e continuo. Il settimo movimento è un’energica aria  per contralto (Nr.7), con fiati, archi e continuo. La Cantata  si conclude con un’armonizzazione del corale di Gerhardt per coro e orchestra completa (Nr.8).
Nr.1 – Coro
Chi mi ama, osserverà la mia parola
e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui.
Nr.2 – Aria (Soprano)
Vieni, vieni, il mio cuore è per te aperto,
ah, fà che sia la tua dimora!
Io ti amo e dunque devo sperare
che ora la tua Parola venga dentro di me;
chi ti cerca, ti teme, ti ama e ti onora
ha la benevolenza del Padre.
Non ho dubbi, sarò esaudito,
in te troverò conforto.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
La dimora è pronta.
Troverai un cuore solo a te devoto,
non farmi mai sentire
che potresti abbandonarmi.
Non permetterò che accada mai più, ah, mai più!
Nr.4 – Aria (Basso)
Me ne vado e tornerò a voi;
se voi mi amaste, vi rallegrereste.
Nr.5 – Aria (Tenore)
Venite, accorrete, accordate gli strumenti e le voci
in canti vibranti e gioiosi.
Sta per andare via, ma tornerà
il glorificato Figlio di Dio.
Nel frattempo Satana cercherà
di condurmi alla perdizione.
Lui è il mio ostacolo,
ma io credo in te, Signore.
Nr.6 – Aria (Basso)
Non c’è dunque più nessuna condanna
per quelli che sono in Cristo Gesù.
Nr.7 Aria (Contralto)
Niente può salvarmi
dalle catene dell’inferno
se non il tuo sangue, o Gesù.
La tua passione, la tua morte
fanno di me il tuo erede:
rido della furia satanica.
Nr.8 – Corale
Nessun figlio dell’uomo sulla terra
è degno di questo prezioso dono,
il merito non è nostro;
contano soltanto l’amore e la grazia
che Cristo ha guadagnato per noi
con il sacrificio e l’espiazione.
Traduzione Emanuele Antonacci

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Roma, Teatro dell’Opera: “L’italiana in Algeri”

gbopera - Sab, 07/06/2025 - 21:42

Teatro dell’Opera di Roma Stagione di Opere e Balletti 2024/2025
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Angelo Anelli
Musica di Giacchino Rossini
Mustafà PAOLO BORDOGNA/ADOLFO CORRADO
Elvira  JESSICA RICCI*
Zulma MARIA ELENA PEPI*
Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO*
Lindoro DAVE MONACO
Isabella CHIARA AMARU’
Taddeo MISHA KIRIA
*dal progetto Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Maurizio Scaparro ripresa da Orlando Forioso
Scene Emanuele Luzzati
Luci Vinicio Cheli
Costumi Santuzza Calì ripresi da Paola Casillo e Paola Tosti
Allestimento del Teatro Massimo di Palermo
Roma, 05 giugno 2025
Con la ripresa di questo spettacolo molto amato, creato per il teatro Massimo di Palermo e ripreso oltre vent’anni fa anche qui a Roma, il Teatro dell’Opera intende rendere un omaggio ad Emanuele Luzzati ed al regista Maurizio Scaparro. L’allestimento di questa Italiana in Algeri anche nella attuale ripresa mantiene intatta tutta la freschezza dei colori delle scene e dei costumi e che assai bene illustrano la divertita e assai pungente leggerezza di questo dramma giocoso. Tutto scorre nella narrazione senza pause, blocchi o inutili inserti ed anche la recitazione dei personaggi è disinvolta e naturale sfuggendo alla tentazione che in Rossini talvolta può prendere di sottolineare meccanicamente e in maniera fastidiosa con il gesto il ritmo incalzante della musica. Tante piccole trovate sono divertenti e assolutamente funzionali a definire meglio i caratteri e le situazioni e in definitiva far divertire il pubblico quasi fossero delle fioriture poste su una linea musicale solida ed essenziale nella struttura. Il maestro Sesto Quatrini romano ma al suo debutto al Teatro dell’Opera un po’ sulla stessa linea interpretativa offre una lettura musicale assai elegante e curata con la scelta di sonorità consone al tono sostanzialmente allegro e lieve della vicenda, una notevole capacità di sostenere la linea del canto ed un controllo tecnico assoluto nell’agogica e nelle dinamiche. Assai gradevole infine il gusto posto nella scrittura delle tante variazioni, tutte concepite in modo da non compromettere l’intelligibilità del testo o stravolgere la melodia di partenza o l’armonia. Eccellente la prova del coro del teatro diretto dal maestro Ciro Visco che ha sfoggiato omogeneità timbrica, chiarezza di dizione e ottima precisione musicale anche nel dialogare con i solisti. La serata ha avuto un inizio simpaticamente turbolento a causa dell’improvvisa indisposizione vocale che ha colpito Paolo Bordogna interprete del ruolo di Mustafà il quale è stato validamente e assai prontamente sostituito dalla metà del primo atto da Adolfo Corrado previsto nel secondo cast. Questi con voce importante, assolutamente adatta alla parte, sostenuta da una bella presenza scenica e da una recitazione spigliata, varia e mai stereotipata ha in poche battute saputo riprendere il filo espressivo della recita ed ha caratterizzato un ritratto del suo personaggio assolutamente convincente. I nostri auguri di buona convalescenza e pronta guarigione a Paolo Bordogna, interprete rossiniano esperto e collaudato. Chiara Amarù dal canto suo ha proposto una Isabella musicalmente raffinata e sfaccettata con varietà di accenti, di intenzioni esecutive e un bel timbro vocale. Molto bravo è stato anche il tenore Dave Monaco nell’acrobatico ruolo di Lindoro, tanto sicuro nelle agilità quanto poetico ed ispirato nei cantabili. Taddeo vocalmente ineccepibile e scenicamente assai piacevole a dispetto di una fisicità imponente ma usata con grande intelligenza scenica è stato interpretato dal baritono georgiano Misha Kiria. Infine tutti e tre molto bravi gli allievi del progetto “Fabbrica” rispettivamente Maria Elena Pepi Zulma, Jessica Ricci Elvira e Alejo Alvarez Castillo Haly. Applausi a scena aperta nei momenti più attesi e soprattutto al termine di una serata vivace, allegra e piacevole come si conviene ad una delle opere più elettrizzanti del repertorio. Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

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    Roma, Teatro dell’Opera: “L’Italiana in Algeri” (Cast Alternativo)

    gbopera - Sab, 07/06/2025 - 17:19

    Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2024-2025
    “L’ITALIANA IN ALGERI”
    Dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli
    Musica di Gioachino Rossini
    Isabella LAURA VERRECCHIA
    Lindoro ANTONIO MANDRILLO
    Mustafà ADOLFO CORRADO
    Taddeo VINCENZO TAORMINA
    Elvira JESSICA RICCI
    Zulma MARIA ELENA PEPI
    Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO
    Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
    Direttore Sesto Quatrini
    Maestro del Coro Ciro Visco
    Regia Maurizio Scaparro
    Regia ripresa da Orlando Furioso
    Scene Emanuele Luzzati
    Costumi Santuzza Calì
    Luci Vinicio Cheli
    Allestimento Teatro Massimo di Palermo
    *Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
    Roma, 6 giugno 2025
    L’allestimento firmato da Maurizio Scaparro, con le iconiche scenografie di Emanuele Luzzati si configura come una proposta visivamente coerente ma sostanzialmente immobile dal punto di vista drammaturgico. La scena, costruita su una stilizzazione orientaleggiante, appare più come un fondale illustrativo che come un vero spazio d’azione: un contenitore pittorico bidimensionale, capace di affascinare l’occhio ma incapace di modulare spazi relazionali o tensioni narrative. La regia, ripresa da Orlando Furioso, segue fedelmente l’impianto originario, ma rinuncia a ogni articolazione ritmica, gestuale o psicologica fra i personaggi, riducendosi a una sequenza di entrate e uscite secondo logiche più musicali che teatrali. Manca un disegno registico che sfrutti la partitura come motore d’invenzione scenica, e la direzione attoriale è lasciata all’iniziativa individuale degli interpreti. Il tempo scenico, privo di dinamiche interne o mutamenti d’energia, scorre in modo uniforme, senza scarti né contrappunti. Alle criticità strutturali si somma un impianto visivo non sempre coeso: le luci di Vinicio Cheli, affidate a una gestione apparentemente casuale e disordinata, risultano spesso scollegate dall’azione, accentuando la piattezza dell’impianto visivo e compromettendo la leggibilità drammatica dei momenti chiave. I costumi di Santuzza Calì, sebbene ricchi nella fattura e coerenti con l’impronta decorativa generale, mostrano una certa patina polverosa, che li rende più evocativi di un passato teatrale remoto che non realmente funzionali a una scena viva e attuale. In assenza di un autentico motore registico, la responsabilità di sostenere la vitalità dell’azione ricade interamente sulla qualità musicale dell’esecuzione e sull’intelligenza interpretativa del cast, chiamato a rianimare un impianto visivo affascinante ma ormai cristallizzato in una dimensione museale. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Sesto Quatrini ha impresso alla partitura rossiniana una direzione lucida, sorvegliata, priva di autocompiacimenti. Il suo Rossini evita tanto il rischio della caricatura ritmica quanto quello, opposto, della sterilità accademica: ne risulta un tessuto musicale terso, nervoso ma sempre controllato, in cui la mobilità delle agogiche trova senso nella necessità scenica, non in un mero vezzo interpretativo. Le complesse architetture dei concertati e la tessitura dei recitativi accompagnati, spesso insidiosi per equilibrio e coesione, sono state affrontate con una chiarezza strutturale che ha fatto emergere l’intelligenza teatrale del gesto direttoriale, più analitico che empatico. L’orchestra ha risposto con una resa sonora precisa, levigata: archi dal profilo affilato ma non esangue, legni scintillanti e puntuali, una pasta timbrica che, senza mai imporsi, ha saputo sostenere e rifinire l’impianto vocale con discreta efficacia. Il giovane basso pugliese Adolfo Corrado ha affrontato il ruolo di Mustafà con autorevolezza vocale e una sorprendente maturità interpretativa. La voce è ampia, salda nel registro grave, con un’emissione ben appoggiata e timbro compatto, che ben si adatta all’autorità del Bey. L’agilità — pur non ancora virtuosistica — si dimostra ordinata e ben scolpita, specie nelle sezioni sillabate come Già d’insolito ardore. Laura Verrecchia, Isabella, conferma una salda aderenza alla tradizione rossiniana, sostenuta da una tecnica solida e da una musicalità interiorizzata. La linea di canto si sviluppa con equilibrio: i gravi risultano appoggiati e ben timbrati, gli acuti emessi con naturalezza e senza grandi tensioni, mentre le agilità scorrono con nitore e misura, sempre al servizio del senso drammaturgico. In Cruda sorte, la gestione dei fiati e la qualità del legato contribuiscono a un’esecuzione stilisticamente ineccepibile, mai compiaciuta. La dizione è accurata, il fraseggio consapevole e ben modulato, a favore di un’ Isabella tratteggiata con autorevolezza più che civetteria.  Antonio Mandrillo, tenore di timbro chiaro e luminoso, affronta il ruolo di Lindoro con garbo stilistico e una linea vocale ben rifinita. L’emissione è sempre ben sostenuta sul fiato, l’agilità scorre con naturalezza, e in Languir per una bella spiccano un legato curato e una puntuale articolazione del fraseggio, culminante in puntature acute affrontate con disinvoltura. Nella prima parte della recita traspare una certa emozione, con qualche lieve incertezza, poi superata da una progressiva sicurezza interpretativa. Permane una certa disomogeneità volumetrica nel registro centrale, che negli insiemi tende a smarrirsi, ma la cura ritmica e l’intenzione musicale rendono nel complesso la sua prova tra le più eleganti e stilisticamente centrate. Vincenzo Taormina delinea un Taddeo equilibrato e musicalmente consapevole, sostenuto da una voce ancora solida e da un fraseggio articolato, con sillabato e parlato ritmico gestiti secondo la miglior tradizione rossiniana. Jessica Ricci, nei panni di Elvira, convince per il timbro chiaro, l’emissione stabile e un fraseggio curato, riuscendo a valorizzare con eleganza vocale un ruolo secondario. Meno misurata, invece, appare la sua presenza scenica, complice una regia che la agita eccessivamente, togliendole naturalezza. Maria Elena Pepi offre una Zulma ben rifinita, con buona linea di canto, dizione nitida e senso dell’ensemble. Alejo Alvarez Castillo, giovane Haly, mostra proiezione efficace e basi tecniche sicure, pur con una timbrica ancora in fase di maturazione. Di rilievo il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, per compattezza, articolazione e precisione ritmica. Un insieme vocale coeso e stilisticamente centrato, che restituisce la scrittura rossiniana con rigore tecnico e gusto teatrale, sebbene penalizzato da una regia che li vede in scena un po’ disordinati, privi di caratterizzazione e di un reale senso scenico. Il pubblico ha applaudito con misura e intelligenza. Qualcuno, però, ha preferito scappare prima dei saluti finali: forse il richiamo di un calice al tramonto era più forte del rispetto per chi era in scena. In fondo, l’eleganza non si compra con lo spritz.  Photocredit Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

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      Carlo Alessandro Landini (1954): “Piano Sonata n. 8” – “Cello Sonatas Nos. 1 & 2”

      gbopera - Sab, 07/06/2025 - 15:43

      Carlo Alessandro Landini: Piano Sonata n. 8.
      Massimiliano Damerini (pianoforte).
      T. Time: 45′ 86″. 1 CD Da Vinci Records 7.46160917474
      Carlo Alessandro Landini: “Cello Sonatas Nos. 1 & 2”.
      Guido Parma (violoncello). Giovanni Capatti (pianoforte).
      Registrazione: Giugno 2015, presso il Salone del Conservatorio G. Nicolini di Piacenza.
      1 CD Da Vinci Records 7.46160915605
      Figura poliedrica, dal momento che oltre ad essere un compositore di livello internazionale è anche un prolifico saggista, Carlo Alessandro Landini, che è stato allievo di Bettinelli per la composizione e di Rattalino per il pianoforte, si è imposto nel mondo musicale con la conquista del primo premio presso il concorso Lutosławski di Varsavia nel 2007. Di Landini, famoso per aver composto tra il 2012 e il 2015, una Sonata per pianoforte di rara lunghezza con le sue 653 pagine e la sua durata variabile che può arrivare fino a 6 ore,  sono presentati in questa doppia proposta discografica dell’etichetta Da Vinci Records, la Sonata n. 8 per pianoforte e le due Sonate per violoncellopianoforte. La Sonata n. 8 conferma l’attitudine del compositore italiano a scrivere lavori di grande impegno e di grande proporzioni con  i suoi ben 9 movimenti, nei quali troviamo anche forme rinascimentali e barocche come il Ricercare e la Gagliarda. Splendida l’esecuzione da parte del compianto Massimiliano Damerini, scomparso improvvisamente il 20 luglio 2023 pochi giorni dopo il recital in occasione del quale è stata registrata la Sonata.  Questa incisione ha dunque un valore storico di eccezionale importanza.
      Anch’esse opere di grande impegno, in quanto costituite entrambe da due movimenti (Adagio, Presto) dal respiro sinfonico che dal punto di vista compositivo si basano sulla scala ottotonica. Molto belli sono gli Adagi, caratterizzati da liriche melopee estremamente espressive, mentre di carattere virtuosistico sono i movimenti veloci. Di ottimo livello l’esecuzione da parte di Guido Parma (violoncello) e Giovanni Capatti (pianoforte). I due artisti, dotati di entrambi di una solida tecnica, si integrano perfettamente e il pianoforte non soverchia mai il suono del violoncello che emerge in tutta la sua bellezza nei movimenti lenti grazie alla splendida cavata di Guido Parma.

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        Roma, Piazza Augusto Imperatore: “Riapre la piazza intorno al Mausoleo di Augusto”

        gbopera - Sab, 07/06/2025 - 11:58

        Roma, Piazza Augusto Imperatore
        PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE INAUGURA MA ATTENDE IL SUO MAUSOLEO
        Roma, 06 giugno 2025
        Roma non è una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi“, scriveva Alberto Sordi con l’ironia del flâneur disilluso. Ma se anche Sordi oggi tornasse a calcare le lastre levigate della nuova Piazza Augusto Imperatore, forse si chiederebbe dove sia finito quel salotto. Perché la piazza, dopo un intervento durato anni, finalmente riapre, con tutte le carte in regola: travertino a vista, cordonate che scendono, impianti all’avanguardia e musealizzazione promessa. Eppure, qualcosa sfugge. Come se la Roma raccontata in punta di scalpello avesse perso il gusto di raccontarsi anche in punta di lingua. Il progetto è di quelli importanti: restituisce visibilità e dignità a uno dei luoghi più simbolici della città, attorno al quale si sono stratificati duemila anni di potere, memoria e propaganda. Il Mausoleo di Augusto, cuore ideologico della nuova piazza, non è solo un sepolcro imperiale, ma un dispositivo narrativo potente: da Augusto a Mussolini, ogni epoca lo ha usato per dirsi immortale. Ora tocca a noi, e lo facciamo con buone intenzioni e mezzi consistenti: quasi 13 milioni di euro totali, tra restauro e musealizzazione, grazie all’impegno congiunto di Roma Capitale, Fondazione TIM e Gruppo Bvlgari. C’è anche Rem Koolhaas coinvolto, e questo ci rassicura: Roma continua ad attrarre i giganti dell’architettura globale. Ma è proprio qui che si annida il sospetto: non è che stiamo costruendo una narrazione troppo perfetta? Non è che rischiamo di trasformare la città in un dispositivo estetico, impeccabile ma disabitato? La nuova piazza è bella, certo. Ma è viva? Il dubbio è legittimo. Come spesso accade nei progetti di rigenerazione urbana, la bellezza diventa cornice, e l’uso reale dello spazio resta una variabile incerta. Siamo di fronte a un luogo pubblico o a un salotto per turisti? A rendere più complesso il quadro contribuisce la memoria architettonica del sito. Negli anni Trenta del Novecento, Vittorio Morpurgo isolò il Mausoleo in un gesto monumentale, togliendogli il respiro urbano per consegnarlo all’eternità di un’ideologia. L’operazione odierna tenta una mediazione: riporta la piazza alla fruizione pubblica, ricuce quote e livelli, abbatte barriere architettoniche, e punta a reinserire il Mausoleo nel tessuto cittadino. Ma, nella sostanza, non è forse ancora una volta l’idea stessa di città a essere imbalsamata? Il percorso museale previsto per il 2026 promette molto: ambienti interni rinnovati, impianti discreti, cipressi sostituiti, una nuova passerella pensile tra via dei Pontefici e Palazzo Correa. Sembra tutto pensato per non disturbare, per controllare ogni frammento di visita, ogni sguardo, ogni umidità. Ma dov’è finita la sorpresa? L’imprevisto? L’emozione di inciampare nella storia? Certo, la partecipazione di Fondazione TIM e Bvlgari consente un respiro finanziario altrimenti impensabile. E il mecenatismo, se intelligente, può essere strumento nobile. Ma è difficile non notare come il linguaggio adottato dalle istituzioni sia più vicino a quello di una campagna promozionale che a un atto culturale. Si parla di “ponte tra passato e futuro“, di “visioni condivise“, di “impatti positivi“. Tutto vero, ma anche tutto liscio, troppo liscio. Un monumento è anche conflitto, interrogativo, frizione. È la città che ci costringe a domandarci chi siamo. Non solo cosa mostriamo. La nuova Piazza Augusto Imperatore è senza dubbio un successo ingegneristico e architettonico. Ma una piazza non vive di pietre. Vive di sguardi, di attraversamenti, di relazioni. Roma, per restare Roma, deve continuare a essere abitata nel pensiero e nella dissonanza, non solo contemplata. E allora forse è giusto restituire la parola a chi conosce la città come una lente sul mondo. “Roma è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio“, scriveva Giotto Dainelli. Ma per non ridurla a un’eco senz’anima, il desiderio deve restare vivo. Anche, e soprattutto, tra le mura di un sepolcro. Photocredit Monkeys Video_Lab

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          Napoli, Teatro di San Carlo: “Il matrimonio segreto” dall’11 al 17 giugno 2025

          gbopera - Ven, 06/06/2025 - 17:05

          Napoli, Teatro di San Carlo
          “IL MATRIMONIO SEGRETO”
          Dall’11 al 17 giugno 2025
          , al Teatro di San Carlo, va in scena Il matrimonio segreto: dramma giocoso in due atti di Domenico Cimarosa su libretto di Giovanni Bertati, tratto dalla commedia The clandestine marriage di George Colman il Vecchio e David Garrick. La Prima è l’11 giugno 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 12 giugno, 13 giugno, 14 giugno, 15 giugno, 17 giugno 2025.
          Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Francesco Corti. La regia e le scene sono di Stéphane Braunschweig, con costumi di Thibault Vancraenenbroeck e luci di Marion Hewlett.
          Il cast è costituito da Solisti dell’Accademia di Canto lirico del Teatro di San Carlo. Nel ruolo di Geronimo: Yunho Eric Kim (11, 13, 15) / Sebastià Serra (12, 14, 17). Elisetta è, invece, interpretata da: Anastasiia Sagaidak (11, 13, 15) / Tamar Otanadze (12, 14, 17). Nel ruolo di Carolina: Maria Knihnytska (11, 13, 15) / Désirée Giove (12, 14, 17). A interpretare Fidalma sono, invece: Sayumi Kaneko (11, 13, 15) / Antonia Salzano (12, 14, 17). Il conte Robinson è interpretato da: Antimo Dell’Omo (11, 13, 15) / Maurizio Bove (12, 14, 17). Nel ruolo di Paolino: Sun Tianxuefei (11, 13, 15) / Francesco Domenico Doto (12, 14, 17). Nuova produzione del Teatro di San Carlo. Qui per tutte le informazioni.

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            Roma, Teatro Torlonia: “La lente oscura”

            gbopera - Gio, 05/06/2025 - 23:59

            Roma, Teatro Torlonia
            LA LENTE OSCURA
            dai testi di Anna Maria Ortese
            con Francesca Piccolo e Federico Gariglio
            regia di Lucia Rocco
            musiche di Ran Bagno
            video di Alessandro Papa
            produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
            Roma, 03 giugno 2025
            V’è nel teatro, quando osa affacciarsi sul terreno sdrucciolevole della letteratura non teatrale, un duplice imperativo: rispettare la materia che si maneggia e insieme trasfigurarla, come si fa con le cose amate. La Lente Scura, allestita al Teatro Torlonia con la regia di Lucia Rocco, riesce in questo doppio movimento: non trasforma Ortese in altro da sé, ma ne restituisce, incarnandola, la voce errante, la visione turbata, lo sguardo ferito e profetico. Anna Maria Ortese non scriveva per piacere al lettore, né per edificare lo spirito. Scriveva per necessità, come si scrive per respirare. La sua “lente scura” — titolo della raccolta da cui lo spettacolo prende forma — è l’occhio deformante e salvifico con cui attraversava il mondo: non filtro estetico, ma disvelamento critico; non stile, ma ferita. Lucia Rocco ne fa l’elemento guida di una regia rarefatta, densa di chiaroscuri, che non illumina per rivelare, ma vela per suggerire. A incarnare questa lente — vetro opaco di malinconia e protesta — sono Francesca Piccolo e Federico Guariglia, discreti e rigorosi traghettatori di parola. Non interpretano, non si sostituiscono alla scrittrice: l’accompagnano, con passo rispettoso, dentro un paesaggio fatto di rovine urbane e cieli superstiziosi. La Roma degli anni ’50 non è mai sfondo, ma carne dolente e muta, organismo in cui si annida l’ambiguità del vivere. È una città abbagliante che produce ombre spesse, come le chiama la regista. Ed è proprio in quelle ombre che si aggira la Ortese, nomade per destino più che per scelta, guidata — scrisse — da “certi segni misteriosi, come paletti affioranti dalla laguna”. Lo spettacolo è percorso da questa tensione: l’impossibilità di abitare davvero il mondo, il bisogno bruciante di radicarsi, e l’inesorabile condanna allo sradicamento. La parola ortesiana, nel fluire delle voci e della scena, si fa scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante, come la definì lei stessa. Non c’è linearità, non c’è percorso, non c’è centro. C’è un respiro smarrito, una continua deviazione. E in questa deviazione si annida la bellezza più inquieta. I suoni di Ran Bagno non accompagnano, ma sussurrano da lontano: sono echi, risonanze, memorie sonore. Le immagini video di Alessandro Papa non mostrano, evocano: frammenti di un mondo che si intravede più che si vede. Tutto nello spettacolo sembra costruito per farci camminare a fianco della scrittrice, come un’ombra, come un’eco che si crede corpo. Nel testo teatrale — come nella raccolta originaria — si ritrovano reportage da città e paesi attraversati dall’autrice tra il 1939 e il 1964: Roma, Genova, Napoli, la Russia sovietica, la Londra degli esili e dei gatti randagi. Nessun ordine cronologico, nessuna coerenza tematica: solo lo zigzagare di un’anima che cerca invano una dimora. Il teatro restituisce con misura questa geometria inquieta, dove la struttura del racconto è franta, e il senso si forma nella fenditura. Ortese non viaggiava per conoscere, ma per sopravvivere. Il viaggio non era esperienza, ma necessità emotiva, quasi nevrotica. Una stanza da affittare diventava pretesto per l’esilio; un biglietto ferroviario Milano-Napoli-La Spezia un cortocircuito di logica e memoria. La scena riflette questa instabilità: anche lo spettatore è chiamato a perdersi, a non riconoscere più l’asse del mondo, a interrogare ciò che fino a poco prima pareva solido. Si staglia così, nel cuore dello spettacolo, la grande ossessione ortesiana: il desiderio di patria. Ma non una patria geografica, politica, culturale. Piuttosto una patria interiore, fatta di “Occhi – Occhi – Occhi e Voci dolci, umane, chiarissime”. La patria che si cerca nella voce spezzata di una ragazza pugliese, nelle mani di un mendicante a Parigi, nella furia dolente dei figli dei briganti a Montelepre. Ed è questa patria — mai trovata, eternamente inseguita — a diventare l’unico possibile approdo. Il teatro, qui, si fa appunto luogo di passaggio, non di approdo. Non promette verità, ma ne mostra la mancanza. E in questo si avvicina profondamente alla Ortese, che scriveva non per dire il vero, ma per indicare il vuoto dove il vero avrebbe potuto essere. Merito alla regista per aver costruito una drammaturgia che rifugge ogni enfasi, ogni estetismo, ogni pedagogia. La parola è lasciata nella sua nudità incerta, nel suo silenzio carico di senso. Il ritmo è lento, contemplativo, spigoloso come un paesaggio interiore. La scena è abitata dal vuoto più che dalla presenza, come la pagina ortesiana è abitata dall’invisibile. Ne esce un’esperienza teatrale che non consola, non rassicura, ma risveglia. Un teatro che si fa letteratura vissuta, in carne e voce, e che — come la prosa ortesiana — preferisce trasfigurare la realtà in quadro visionario, fatto di metafore, ossimori, e marginalità. Un teatro che accetta di non possedere risposte, e che proprio per questo — nel nostro tempo rumoroso e saturo — appare più che mai necessario. La conclusione del ciclo Racconti Romani trova dunque nella Lente Scura il suo epilogo più alto e doloroso. Non un trionfo, ma un congedo. Non un acuto, ma un sussurro. Come l’utopia ortesiana che resta, sola, a vegliare “sui paesi deserti e campagne mute, mentre i convogli del tempo continuano a inseguirsi”. Teatro e scrittura si fondono qui nella forma più nobile della testimonianza: quella che sa, in fondo, che il mondo non si cambia con le verità, ma con gli sguardi che osano nominarlo nella sua insopportabile nudità.

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              Roma, Villa Bonaparte: “Roma e la musica francese intorno a Pauline e Caroline Bonaparte”

              gbopera - Gio, 05/06/2025 - 19:28

              Roma, Villa Bonaparte
              Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
              ROMA E LA MUSICA FRANCESE INTORNO A PAULINE E CAROLINE BONAPARTE
              Musiche di Adolphe Adam, Felice Blangini, Ferdinand Hérold, Auguste Panseron, Pierre Gaspard Roll, Ambroise Thomas
              Ensemble In Canto
              Chiara Osella, mezzo-soprano
              Vincenzo Bolognese, violino
              Fabio Angelo Colajanni, flauto
              Silvia Paparelli, pianoforte
              Ricerca storica e musicologica: Élodie Oriol
              Direzione artistica: Silvia Paparelli
              In collaborazione con l’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
              Evento promosso da S.E. la Sig.ra Florence Mangin
              con la partecipazione del Sig. Pino Adriano
              evento realizzato in collaborazione con l’associazione Roma Barocca in Musica, presediuta da Regis Nacfaire de Saint Paulet
              Roma, 05 giugno 2025
              «La musica è l’unica arte che entra nell’anima senza passare dall’intelletto» – scriveva Stendhal, fedele interprete di un’epoca in cui il suono non era semplice abbellimento della vita, ma sua fibra più sottile e necessaria. Era la musica a plasmare i ritmi della conversazione, a fondare il tono delle relazioni sociali, a definire lo spazio della grazia e dell’intimità. Ed è a questa precisa visione estetica e civile che si è ispirata la soirée musicale intitolata “Roma e la musica francese intorno a Pauline e Caroline Bonaparte”, tenutasi nella cornice storicamente carica ed emotivamente intensa di Villa Bonaparte, sede dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. L’iniziativa, parte di un più ampio percorso di incontri musicali di alto profilo promossi nel corso degli ultimi mesi, è stata ideata e sostenuta da S.E. la Sig.ra Florence Mangin, ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, abilmente affiancata dal consorte Pino Adriano: due figure unite non solo dalla vita diplomatica, ma da un’autentica passione per le arti. Attraverso questi appuntamenti, il loro impegno ha saputo trasformare la sede diplomatica in un vero e proprio presidio di cultura viva, dove l’ascolto musicale diventa pratica di cittadinanza estetica e forma di memoria condivisa. Il titolo della serata non è un semplice omaggio alle figure di Pauline e Caroline Bonaparte, ma un invito a riconsiderarne il ruolo nella costruzione del paesaggio artistico e musicale dell’epoca. Entrambe sorelle dell’Imperatore, furono protagoniste attive della cultura europea del primo Ottocento, capaci di coniugare la dimensione politica con una raffinata sensibilità estetica. Pauline, che fece di Villa Bonaparte il proprio rifugio romano, la trasformò in un centro mondano e intellettuale, frequentato da artisti, scultori, poeti e compositori, dando corpo a un’idea di bellezza permeata da classicismo e malinconia. In lei la musica agiva come risonanza di un ideale perduto, come prolungamento di un’identità in bilico tra nostalgia imperiale e desiderio di armonia. Caroline Bonaparte, regina di Napoli accanto a Gioacchino Murat, fu invece donna di governo e stratega culturale. Appassionata soprattutto d’opera, usava la musica non solo per l’intrattenimento della corte ma come forma di comunicazione intima, politica, personale. Numerose fonti testimoniano come considerasse la musica una vera fonte di felicità, tanto da organizzarne regolarmente l’esecuzione nei suoi palazzi napoletani. Per lei, la musica era luogo di espressione sentimentale, ponte affettivo con il marito, strumento di sofisticata eleganza e allo stesso tempo di prossimità emozionale. A restituire in forma sonora questi mondi evocati è stato il prezioso contributo dell’Ensemble In Canto, composto dalla voce mezzosopranile di Chiara Osella, il violino di Vincenzo Bolognese, il flauto di Fabio Angelo Colajanni e il pianoforte di Silvia Paparelli, anche direttrice artistica del progetto. La serata, curata sul piano storico e musicologico da Élodie Oriol, si è distinta per la qualità dell’esecuzione e per la coerenza di un repertorio che ha saputo evocare con misura e profondità il clima musicale dell’età napoleonica e post-napoleonica. In programma autori spesso trascurati ma cruciali per comprendere la fioritura del repertorio vocale da camera tra Francia e Italia nella prima metà del XIX secolo: Adolphe Adam, Ferdinand Hérold, Ambroise Thomas, Felice Blangini, Pierre Gaspard Roll, Auguste Panseron. La scelta delle composizioni non ha privilegiato la mera esibizione virtuosistica, bensì quella scrittura intima e cesellata che definisce il gusto dell’epoca: una musica fatta di accenti misurati, melodie chiare, armonie pulite e un’attenzione costante al rapporto tra parola e suono. Blangini, di origine italiana ma attivo alla corte francese, fu autore di romanze soavi, costruite su un equilibrio raffinato tra eleganza armonica e melodia fluida, concepite per salotti aristocratici in cui la musica era parte integrante del vivere. Adam e Hérold, più noti per i loro lavori teatrali, emergono qui in una veste domestica e raccolta: i loro brani da camera rivelano una scrittura sottile, attenta alle sfumature timbriche e al fraseggio, con una vocalità levigata e duttile. Le pagine di Thomas, già intrise di un certo lirismo romantico, si distinguono per il disegno melodico che guarda oltre la tradizione settecentesca verso una forma di cantabilità più articolata, a tratti pre-berlioziana. Meno noti ma sorprendenti, Panseron e Roll si sono rivelati autori di autentiche miniature musicali, in cui la voce è accompagnata da linee strumentali capaci di rarefazione lirica o brio arguto, a seconda del testo e dell’ambito espressivo. Proprio in questi brani si è potuta apprezzare appieno la qualità dell’ensemble: la voce di Chiara Osella, morbida e ben proiettata, ha saputo adattarsi con flessibilità ai diversi caratteri delle arie; Bolognese e Colajanni hanno dialogato con equilibrio e raffinatezza con il pianoforte, offrendo un tappeto sonoro coeso e suggestivo, mentre la Paparelli ha guidato l’intero impianto musicale con controllo poetico e discreta autorevolezza. La serata ha così offerto non soltanto un’immersione nella musica del tempo, ma anche una riflessione profonda sul suo significato: come gesto politico, come veicolo affettivo, come narrazione interiore. In un’epoca in cui la diplomazia sembra dover continuamente reinventare i suoi linguaggi, questa rassegna dimostra che l’arte – e la musica in particolare – può ancora essere uno strumento di verità e riconciliazione, uno spazio di ascolto in cui le storie passate trovano eco nelle emozioni presenti. Villa Bonaparte, con i suoi spazi stratificati dal Rinascimento al Neoclassicismo, si conferma teatro privilegiato di questa topografia sentimentale del suono, dove Roma e Parigi si incontrano non per celebrare il potere, ma per dare voce alla bellezza. Photocredit Pierluca Ferrari

               

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                Prosegue alla Scala la Tetralogia wagneriana. “Siegfried” in scena dal 6 al 21 giugno 2025.

                gbopera - Mer, 04/06/2025 - 16:14

                Prosegue con la seconda giornata il Ring scaligero alla regia da David McVicar e con l’alternanza sul podio di Simone Young (6, 9 e 13 giugno) e Alexander Soddy (16 e 21 giugno). Il terzo episodio della Tetralogia introduce il personaggio di Sigfrido, il figlio dei fratelli Siegmund e Sieglinde cresciuto nell’antro dell’infido Mime e chiamato a riforgiare la spada Nothung con cui ucciderà il drago Fafner, custode del tesoro, prima di liberare Brünnhilde dall’incantesimo del fuoco. Un giovane che non conosce la paura protagonista di un intreccio fiabesco in cui ricorrono il sentimento della Natura e gli ostacoli da superare, fino all’incontro con la Valchiria che per lui rinuncia alla sua natura divina. Siegfried è il trionfo di una giovinezza selvaggia e indomabile, libera dalla colpa dell’egoismo che ha macchiato il vecchio mondo che la su forza vitale è destinata a sconvolgere. Wagner fonde magistralmente il poema basso medioevale del “Nibelungenslied” (XIII secolo) con la tradizione islandese dell’Edda di Snorri – direttamente citate nel lungo incontro tra Mine e il Viandante nel I atto – e dei canti dell’Edda poetica in una cornice di fiaba iniziatica perfettamente definita nelle sue strutture portanti.
                A vestire i panni dell’eroico velside sarà Klaus Florian Vogt che bissa dopo aver interpretato negli scorsi mesi il ruolo di Siegmund. In quest’estate Vogt rivestirà i panni del Siegfrid al Festival di Bayreuth sempre sotto la guida di Simone Young. Negli altri ruoli ritroviamo gli interpreti già ascoltati nelle scorse giornate: Michael Volle (Der Wanderer una delle mutevoli personalità di Wotan), Camilla Nylund (Brünnhilde), Ólafur Sigurdarson (Alberich), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Mime), Ain Anger (Fafner) e Christa Mayer (Erda). Nuova nel ciclo wagneriano ma gradito ritorno sul palcoscenico scaligero Francesca Aspromonte – già applauditissima ne “Li zite n’galera” di Vinci – vestirà i panni della Stimme des Waldvogels, l’uccello di bosco di cui Siegfried capirà il linguaggio dopo essersi bagnato nel sangue di Fafner.
                La durata prevista dello spettacolo è di circa cinque ore comprensiva di intervalli. Tutte le recite inizieranno alle ore 18:00. Un’ora prima dell’inizio di ogni recita, presso il Ridotto dei Palchi “A. Toscanini”, si terrà una conferenza introduttiva all’opera tenuta da Raffaele Mellace.
                La rappresentazione del 13 giugno sarà trasmessa in live streaming sulla piattaforma LaScalaTv, le riprese potranno incidentalmente inquadrare il pubblico (in tutto o in parte) e resterà disponibile on demand fino al 20 giugno 2025.

                https://www.teatroallascala.org/it/stagione/2024-2025/opera/siegfried.html

                https://lascala.tv/it/evento/a877a9c1-0987-43ab-8477-f9f2898f0f6e?_gl=1%2af9214o%2a_gcl_au%2aMzU0NDAyOTk1LjE3NDI5Mjg1NzI.

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                  Categorie: Musica corale

                  “Ho realizzato il mio sogno”: intervista a Valentina Pescetto, direttrice di fACTORy32

                  gbopera - Mer, 04/06/2025 - 16:12

                  Milano, si sa, è una piazza teatrale “ultrasatura”, a causa della presenza di teatri più o meno importanti, ma soprattutto di realtà teatrali piccole, quasi improvvisate, off-off, che prendono vita, a volte per il tempo di un paio di stagioni, presso scantinati, attici, proprietà parrocchiali, centri sociali, zone industriali dismesse eccetera eccetera. Nonostante sia vero, questo non si dimostra necessariamente un impedimento affinché queste piccole realtà possano fiorire e, talvolta, distinguersi; ci vuole senz’altro una certa dose di fortuna perché questo avvenga, ma non può mancare nemmeno una generosa dose di talento imprenditoriale ed artistico, di intuizioni comunicative e, senz’altro, di coraggiosa irresponsabilità. Tutte queste doti le abbiamo ritrovate in Valentina Pescetto, giovane attrice e danzatrice genovese formatasi oltreoceano, che nel 2018 riesce ad aggiudicarsi un vecchio deposito di tappeti fra il Naviglio e San Cristoforo, per trasformarlo, nel giro di circa un anno, in fACTORy32, un piccolo polo che si sta dimostrando tra i più vivaci e interessanti dell’intera proposta teatrale meneghina (qui la recensione alla sua ultima produzione). La incontro un pomeriggio: è bella ed emozionata, desiderosa di mostrarmi e narrarmi il suo teatro.
                  Perché il tuo spazio si chiama fACTORy32?
                  Perché volevo un nome che richiamasse direttamente il lavoro dell’attore (che è proprio nel cuore di questa parola), ma anche che mantenesse un contatto col suo passato industriale; inoltre mi piaceva anche fare un omaggio alla Factory di Andy Warhol… E 32 è il numero civico di via Watt in cui ci troviamo, oltre che la mia età nell’anno in cui abbiamo inaugurato lo spazio.
                  Avete aperto a fine 2018 e praticamente dopo un anno è arrivato il Covid, con tutto quello che ne è seguito: come hai fatto a non arrenderti?
                  È stata una sfida davvero rischiosa: anche quando ci era stato concesso di riaprire, le condizioni erano praticamente proibitive. In una settimana ho ideato una rassegna estiva nel cortile del teatro (solitamente adibito a parcheggio) con un piccolo gruppo di artisti di richiamo. La risposta del pubblico fu entusiasmante, con sold out continui e persone che ci ringraziavano per il coraggio. Contemporaneamente abbiamo attivato corsi online che hanno avuto un buon successo, con un numero impressionante di allievi. Questo, ci ha dato davvero la forza di non mollare, e sul lungo termine ha pagato.
                  Questo spazio è molto a contatto con la realtà teatrale americana ed è evidente che tu tenga all’internazionalità della proposta: come hai sviluppato questo legame?
                  Cerco di tenermi più informata possibile, in primo luogo; senza dubbio, poi, l’essermi formata con Larry Moss e Micheal Rodgers – che insegna anche presso i nostri corsi – ha avuto il suo peso: lui mi ha aperto il mondo del teatro americano, sia dei classici (come Williams) sia dei più contemporanei. In questa stagione, ad esempio, abbiamo proposto “Casa di bambola 2” di Lucas Hnath, un testo del 2018, e ha avuto così tanto successo che lo abbiamo riproposto per più date e ne siamo diventati coproduttori.
                  Come hai imparato a coniugare l’aspetto dirigenziale con quello artistico?
                  Non è stato semplice: nonostante siamo una realtà piccola, la parte burocratica, contabile e amministrativa è molto pesante, soprattutto per una tendenzialmente negata in matematica come me! Ma un teatro in realtà è come un’azienda, e per farlo funzionare ho dovuto imparare la parte gestionale, che curo in genere la mattina. Poi, dalle 14, mi dedico invece al mio lato preferito di questo lavoro, cioè quello umano: vengo in teatro, seguo i corsi che facciamo, accolgo gli allievi, e coltivo l’identità dello spazio e le relazioni con chi viene a trovarci.
                  Nell’ascoltarti traspare una grande dedizione al progetto…
                  È la cosa più vera e importante per me: la passione sfrenata che mi ha portato ad aprire fACTORy32 non viene mai meno, anzi, cresce sempre più, man mano che vedo che le persone si affezionano, ritornano, portano altri, dimostrando di apprezzare ciò che proponiamo.
                  Tu dici sempre, quando introduci gli spettacoli, che hai realizzato il tuo sogno – aprire il tuo teatro… quale altro sogno hai ancora da realizzare?
                  Suonerà banale, ma stiamo creando una vera e propria famiglia artistica, che vorrei diventasse un punto di riferimento non solo per la zona, ma per l’intera città. So che è un progetto ambizioso e che si può realizzare solo a lungo termine, ed è per questo che punto tanto sull’internazionalità delle nostre stagioni e collaborazioni: per poter ampliare sempre più il bacino di utenza del nostro spazio e contribuire col nostro servizio alla crescita culturale della città.

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                    Torino, Teatro Piccolo Regio: “The Bear” di Willian Walton

                    gbopera - Mer, 04/06/2025 - 07:11

                    Torino, Teatro Piccolo Regio: La Scuola all’Opera e In Famiglia 2024 – 2025
                    “THE BEAR“ (L’orso)
                    Extravaganza in un atto. Libretto di Paul Dehn e William Walton dall’omonima commedia di Anton Čechov.
                    Musica di William Walton
                    Elena Ivanovna Popova SIPHOKAZI MOLTENO*
                    Grigorij Stepanovič Smirnov YIORGO IOANNOU
                    Luka  TYLER ZIMMERMAN*
                    La Cameriera  ALESSIA CODA ZABETTA
                    Il cuoco GABRIELE BOCCHIO
                    Orchestra del Teatro Regio di Torino
                    Direttore Marco Alibrando
                    Regia Paolo Vettori
                    Costumi Laura Viglione
                    Scene Claudia Boasso
                    Luci Andrea Rizzitelli
                    Nuovo Allestimento del Teatro Regio di Torino *artisti del Regio Ensemble
                    Torino, 29 maggio 2025
                    Così come al ristorante, dopo il gran pranzo d’occasione, sovraccarico di grassi e calorie, si propone il sorbetto o sgroppino, al Teatro Regio, dopo un massiccio ed ipertrofico Hamlet, sussurrando a bassa voce senza far rumore e senza pubblicizzarlo a dovere, si serve l’effervescente The Bear di William Walton. Operina che è come sorbirsi uno sgroppino di panna inglese, rinforzato con gin e vivacizzato da scorzette di limone dell’isola di Ischia. Non nella sala grande, ma nella ormai desueta cantina, nata per imitazione della Piccola Scala, che solo l’attivismo di Paolo Vettori, il regista in cartellone per la serata, riesce, semel in anno, a risuscitare. Il barocco e i concerti di canto, per cui il luogo era stato voluto, da decenni ormai sono stati esclusi dal Teatro. Tre operine anglofone, in tre anni, è quanto si è potuto vedere. Ora tocca a questo Orso, terza fatica che ancora Paolo Vettori è riuscito ad allestirvi utilizzando le ottime forze “della casa”: la scenografa Claudia Boasso, la costumista Laura Viglione e le luci di Andrea Rizzitelli. La sobrietà e l’economicità dell’allestimento ne fanno peraltro ancor più apprezzare l’ottimo risultato ottenuto. Se mai qualcuno si togliesse la voglia di comparare quanto succede nell’interrato con le sproporzionate spese affrontate per alcuni spettacoli del piano superiore, forse si sorprenderebbe di come, con il budget di un Hamlet, si caverebbero fuori almeno 100 Orsi. William Walton, inglese trapiantato ad Ischia, sempre restio nell’affrontare l’opera, invasa stabilmente oltremanica dall’ottima e invasiva produzione di Britten. Gli pesava poi il relativo successo attribuito a Troilus and Cressida, suo primo lavoro teatrale del 1954, accettò comunque l’invito di Peter Pears, il tenore compagno di Britten, di portare un suo lavoro al Festival di Aldeburgh. La scelta cadde su una pièce teatrale di Čechov da cui, lui stesso con la collaborazione dello sceneggiatore cinematografico Paul Dehn, ricavarono il libretto dell’atto unico. Storia banale: giovane bellezza che, perso il marito debosciato e traditore, si incaponisce a rimanere in gramaglie e a non sostituirlo; le entra in casa, a riscuotere debiti non saldati dallo scomparso, un nerboruto, aitante e danaroso campagnolo; qualche schermaglia a cui seguono qualche equivoco maneggiamento di una pistola e un rimando della cavalcata … nel parco. 50 minuti e poco più di un inglese vaudeville brillante, brioso, sapido per esilarante humor. La musica è strettamente legata alle situazioni, da esse nasce senza esserne né la causa né l’anticipazione. C’è un gatto in casa e il racconto viene pausato dai suoi stiracchiamenti e dai frullii di ali degli uccelletti che cerca di ghermire. Del cavallo, Toby, nella scuderia si intuisce il pestar di paglia e lo sgranocchiar d’avena. L’orchestra del Teatro Regio, con la guida sagace e indefessa di Marco Alibrando, conta pochi archi e fiati ma un gran dispiegamento di percussioni, arpe e pianoforte compresi. Il racconto non potrebbe così essere stato sostenuto con più vivacità e fantasia. Walton conosceva a perfezione il mondo musicale del suo tempo e vi si rifa costantemente. Non si coglie la dodecafonia, che forse c’è, distinti sono però i riferimenti allo Stravinskij delle Noces, agli americani di New York e non solo. Due lunghe litanie, di Grigorij che elenca i debitori, di Elena con le malefatte e le infedeltà del marito si riallacciano alle geremiadi di Falstaff, non per nulla Walton ha elaborato innumerevoli colonne sonore di film shakespeariani. La litania dei debitori sembra ad una processione ortodossa, con ostensione delle sacre icone, vedi Mussorgskij, le malefatte del marito si snodano invece su motivetti da rive gauche e da broadway. Tre i protagonisti vocali, due “della casa” membri dell’Ensemble del Regio, e un ospite: il baritono Yiorgo Ioannou formidabile e rude campagnolo dalla borsa piena e dal cuore tenero. Canta e recita con appropriatezza e vigore, sempre convincente nella parte. L’ambiente piccolo si colma per una voce ben educata e dal piacevole timbro ombreggiato. Siphokazi Molteno è la coprotagonista che veste i panni della vedova Elena. Voce sfogata, di gran temperamento, affronta validamente sia la partitura musicale che il grande impegno scenico. Il regista Vettori ha sicuramente molto curato la recitazione e il maestro Alibrando, oltre all’insieme strumentale, ha meticolosamente seguito il canto fornendone una linea sempre convincente. Figura di contorno Luka, maggiordomo tuttofare, il basso Tyler Zimmerman che ottimamente sostiene recitativi e battibeccanti duetti con i due protagonisti. Figure mute sono la Cameriera Alessia Coda Zabetta e il cuoco Gabriele Bocchio che, ben diretti, mimano azioni e vivacizzano il palcoscenico. Le note di regia giustificano il gigantesco quadrante, parete di fondo della scena, e le numerose grandi clessidre che a noi, nel contesto, paiono più adatti a rappresentare un tempo riacciuffato da parte dei due protagonisti che non al rimpianto per lo spreco di quello passato. Forse per giustificarne la programmazione si è sottolineato il fatto che la produzione fosse nell’ambito dei due cicli La Scuola all’Opera e In Famiglia, con orari alle 16, alle 11 e alle 20. A noi pare che questi giustificativi siano inutili ed impropri: lo spettacolo è bello ed interessante, ben degno di stare in una programmazione principale, pur se accoppiato, per completezza di serata, con un altro atto-unico. L’inglese del testo e il livello “artistico e culturale” della proposta musicale sono tali da pretendere e poi soddisfare anche il pubblico più “scafato”. Nella recita del 29 maggio, causa la mancata informazione, il pubblico era assai scarso.

                     

                     

                     

                     

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                      Firenze, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino: Cornelius Meister dirige Weber, Berio e Schumann

                      gbopera - Mar, 03/06/2025 - 16:48

                      Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino
                      Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
                      Direttore Cornelius Meister
                      Mezzosoprano Monica Bacelli
                      Carl Maria von Weber
                      : “Der Freischütz”, Ouverture; Luciano Berio: Folk Songs; Robert Schumann: Sinfonia n. 4 in re minore op. 120
                      Firenze, 30 maggio 2025
                      Prosegue l’interessante programmazione dell’87° Festival e l’altra sera si è assistito alla direzione dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, di Cornelius Meister, apprezzato direttore tedesco insieme a Monica Bacelli, mezzosoprano dal grande carattere interpretativo. Ad aprire il concerto l’Ouverture del Der Freischütz di Carl Maria von Weber, ritenuta da molti studiosi la prima opera romantica tedesca. Dalla prima esecuzione (18 giugno 1821) la celeberrima partitura diventa tra le più amate dai direttori d’orchestra e Wagner la dirige il 4 aprile 1885 a Londra. A chiudere il programma il monumento sinfonico della Sinfonia n. 4 in re minore di Robert Schumann, altra opera studiata e prediletta da molti compositori tra cui Brahms. Incastonati al centro, con un’immersione nel Novecento, i Folk Songs di Luciano Berio nella versione del 1973 per voce e orchestra da camera, ricordo e omaggio al compositore nel centenario della sua nascita. Con il levare della bacchetta di Meister, in un pp (archi insieme al gruppo dei legni, flauti esclusi), in un’alternanza tutti-soli tra le due sezioni e con suggestivi crescendo al f, è stato introdotto il solo dei quattro corni dell’Ouverture e del mondo evocativo di Weber, intuendo altresì il percorso concertante intrapreso dal direttore. Il suo approccio, sempre edificante e collaborativo con il complesso strumentale, è apparso più intento alla valorizzazione del ‘canto’ degli strumenti. Se i vari crescendo e diminuendo dei tremoli degli archi hanno preparato, per esempio, il suono perfetto per il ‘solo’ del clarinetto con molta passione, il successivo passaggio all’arco, l’inserimento e raddoppio dei primi violini ha creato una bellissima fusione di colore volta alla dolcezza, convogliando in un medesimo afflato flauto e fagotto. Il prosieguo, prendendo spunto dal guizzo dei primi violini in crescendo, ha portato verso forti sonorità, similmente alla successiva imitazione dei legni, in un rapporto dialogico e contrastante tra le varie sezioni insieme al Molto vivace nella bellissima progressione in fortissimo realizzata in 4 battute. Meister ha così diretto sostanzialmente la struttura ritmica lasciando all’orchestra il compito di condurre l’ascoltatore verso la fine, in una caleidoscopica varietà di scrittura in cui si è dato spazio al melos e all’ascolto del rapporto più imitativo e/o contrastante tra le varie sezioni in una sintesi di gioia e di stupore. Il capolavoro di questa partitura – condividendo l’idea di molti studiosi nel riuscire ad esprimere il compendio dell’intero lavoro – è espressione di un’edificante dialettica di quell’architettura formale tanto cara ai romantici tedeschi e, più in particolare, al mondo sinfonico di Weber. Con il ciclo dei Folk Songs si scorge l’attrazione di Berio per la musica popolare anche «solo nell’intenzioni», come egli scrive riferendosi a La donna ideale e Ballo, attraverso un microcosmo di varia provenienza geografica. Inoltre i brani rivelano anche l’attenzione per la voce umana tout court qui espressa ed utilizzata nelle diverse forme da Monica Bacelli, autentica domina della scena che ha saputo tradurre l’essenza poetica della musica del compositore. Al direttore, posata la bacchetta, il compito di invitare l’orchestra in un canto collettivo offrendo una lettura cameristica dell’opera, e lasciando all’ispirato mezzosoprano la ‘traduzione’ sonora, citando Berio, nel «suggerire e commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone».
                      Con la Sinfonia n. 4 in re minore di Schumann – il cui organico consta di: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi – si è ritornati allo stesso dell’Ouverture. La successione dei quattro movimenti, oltre ad offrire la fluidità senza interruzione, mostra in itinere un’opera costruita su due idee tematiche percepibili fin dall’introduzione. La sinfonia dal punto di vista dell’architettura musicale presenta la Romanze: Ziemlich langsam ed uno Scherzo: Lebhaft-Trio incorniciati da due movimenti esterni concepiti nella forma sonata (Introduzione: Ziemlich langsam e Finale: Langsam. Lebhaft.Schneller). La composizione è un’autentica varietà degli stati d’animo dell’autore, talmente pregnanti da coinvolgere, per merito di un’ottima interpretazione, anche l’ascoltatore distratto. Già nelle battute iniziali, dopo l’attacco sulla nota la con quasi tutto l’organico (escluse trombe e tromboni), i due fagotti, viole e violini secondi, nell’unirsi al processo di combinazione coloristica, si fondono con un tale equilibrio da produrre un nuovo ed unico colore con un effetto di grande sfumatura. Molto apprezzata inoltre l’espressività del melos ove, portandosi alla conclusione con un diminuendo, ha favorito il nuovo inserimento, valorizzando il colore di ogni strumento e/o di una sezione. In realtà l’orchestra, per tutta la serata e vista la qualità estetica e piacevolezza del programma, è stata coinvolta anche dal punto di vista emozionale, emergendo inoltre un fraseggio chiaro ed efficace. Il direttore, d’altro canto, percepita l’edificante partecipazione della compagine strumentale e l’eccellente livello, ha lasciato esprimere i musicisti con bella cantabilità ed espressione. Ogni suo gesto ha definito con grande nitidezza i molteplici aspetti come cambi di tempo o dinamiche, facendo confluire il tutto nello stile romantico di Schumann grazie ad una significativa concertazione. Non potendo citare i molti ‘soli’ e tutte le prime parti delle varie sezioni che si sono espressi con grande intensità ricordo almeno Fatlinda Thaci, in questa occasione egregia spalla dell’orchestra. Successo meritato per tutti i musicisti e per le interessanti idee musicali di Meister il quale, con una rinvigorita lettura delle tre partiture, è riuscito a coinvolgere tutta l’orchestra in un fiume di emozioni lasciando al pubblico sicuramente il ricordo di un concerto colmo di atmosfere, sensazioni, a tratti anche struggenti e ricche di pathos.

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