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Milano, Teatro alla Scala: “L’opera seria” di Florian Leopold Gassmann

gbopera - Ven, 11/04/2025 - 08:23

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e belletto 2024/25
“L’OPERA SERIA
Commedia per musica in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Florian Leopold Gassmann
Fallito PIETRO SPAGNOLI
Delirio MATTIA OLIVIERI
Sospiro GIOVANNI SALA
Ritornello JOSH LOVELL
Stonatrilla JULIE FUCHS
Smorfiosa ANDREA CARROLL
Porporina SERENA GAMBERONI
Bragherona ALBERTO ALLEGREZZA
Befana LAWRENCE ZAZZO
Caverna FILIPPO MINECCIA
Ballerina MARIA MARTIN CAMPOS
Coro di ballerini DILAN SAKA, HAIYANG GUO, XHIELDO HYSENI
Orchestra e coro del Teatro alla Scala – Les Talens Lyriques
Direttore Christophe Rousset
Regia e costumi Laurent Pelly
Scene Massimo Troncanetti
Luci Marco Grossi
Coreografie Lionel Hoche
Milano, 6 aprile 2025
Florian Leopold Gassmann chi era costui? Potremmo chiederci come faceva Don Abbondio con Carneade e la domanda non sarebbe importuna essendo il boemo praticamente sconosciuto. Eppure si tratta di figura non marginale nella vita musicale europea del pieno settecento. Allievo di Padre Martini, musicista cesareo, propugnatore degli ideali riformatori di De Calzabigi e Gluck, maestro di Salieri. Questi pochi dati potrebbero bastare a indicarne la rilevanza. L’opera seriaandata in scena a Vienna nel 1769 e qualcosa di più delle semplici parodie metateatrali tanto care al Settecento. È un vero pamphlet in musica con cui i propugnatori della riforma attaccano il melodramma post metastasiano ormai diventato mera ripetizione di formule e schemi – “non c’è obbligo di stare in attenzione”, “non ti muove a timor né a compassione” citando il libretto – e al contento la fallimentare gestione della vita musicale affidata a impresari spesso senza scrupoli. Libretto e musica giocano tutte le carte al riguardo. L’ampollosità ridicola dei versi, la rigidità formale delle arie sono armi di denuncia ci si contrappone la naturalezza dell’opera riformata. Molte le citazioni, i rimandi, le parodie forse non sempre così evidenti all’ascoltatore odierno ma sicuramente perfettamente fruibili al tempo. Un lavoro forse non ispiratissimo ma di certo godevole e che molto chiede all’esecuzione. E in tal senso la non comune sensibilità di Laurent Pelly sa cogliere l’essenza di questo tipo di lavori. Allestimento essenziale, tutto giocato su alternanze di bianco, grigio e nero quasi a dar vita a una raccolta d’incisioni. Costumi in epoca rivisti con ironia – solo Fallito indossa abiti moderni, infondo certe figure non hanno tempo – ma soprattutto un lavoro attoriale meticoloso e puntualissimo. Una regia che parte dai personaggi e dai loro rapporti e che li fa vivere in una realtà stralunata ma mai caricato. Spettacolo leggerissimo dove tutto si svolge con la massima eleganza ma senza nulla sacrificare sul terreno della pura teatralità. Le coreografie di Lionel Hoche perfettamente coerenti completano la parte visiva.
Christophe Rousset è una certezza assoluta in questo repertorio e per l’occasione i complessi scaligeri – impegnati su strumenti d’epoca – sono rinforzati dagli splendidi Talens lyrique. In perfetta aderenza con lo spettacolo viene data una lettura orchestrale di magistrale chiarezza e impeccabile senso teatrale. Sonorità nette, nitide, ritmi guizzanti danno al gioco scenico tutta la sua energia vitale.
Il vero punto di forza è, però una compagnia di cantanti attori perfettamente calati nello spettacolo e con un senso di complicità quale raramente si riscontra. L’impresario Fallito è affidato a Pietro Spagnoli e difficilmente si poteva far scelta migliore. Maestro assoluto della parola trova nel personaggio il terreno ideale per far emergere le sue doti d’interprete concedendosi qualche uscita improvvisata – il richiamo a Petrolini dopo la caduta del teatro – che s’inserisce a pennello nel contesto. Unico in abiti moderni incarna alla perfezione l’eterno truffatore che è uno degli archetipi della commedia all’italiana. La coppia poeta e librettista che anziché aiutarsi non fanno altro che litigare e danneggiarsi a vicenda è affidata a Mattia Olivieri (Delirio) e Giovanni Sala (sospiro). Entrambi vocalmente impeccabili, voci belle, schiette, sincere e interpretativamente calati alla perfezione. Il primo un nevrotico sempre sull’orlo del tracollo, il secondo di una sospirosità volutamente caricaturale. Alessio Arduini riesce dare forte risalto al ruolo in fondo secondario del maestro di ballo Passagallo. Non solo canta molto bene e con splendido materiale vocale – peccato la parte si riduca a un’aria e poco più – ma si muove con l’eleganza di un vero ballerino. Il primo musico Ritornello è qui affidato a un tenore. Scelta abbastanza insolita, ci si aspetterebbe un mezzosoprano a parodiare i castrati. Il canadese Josh Lovell canta con gran gusto – da autentico specialista mozartiano – e si dimostra interprete spigliato e simpatico. Il terzetto femminile è capitanato da Julie Fuchs. La prima donna Stonatrilla è parte assai impegnativa cui sono affidate arie di bravura volutamente esasperate – “No, se a te non toglie il fato” – che la cantante francese risolve con inappuntabile maestria. Sul piano interpretativo si apprezza assai un’interpretazione moderata che evita inutili smancerie, centrata sulla musica ed efficacie proprie nella sua essenzialità. Le due seconde donne in perenne lite tra loro sono Serena Gamberoni (Porporina) e Andrea Carroll (Smorfiosa). La prima, personaggio più forte spesso in contrasto con la Primadonna, è ideale per il temperamento della Gamberoni. Vocalmente in ottima forma cesella la spassosa “Delfin che al laccio infido” e in scena si muove da attrice consumata. La Carroll mostra qualche limite sul piano vocale – gravi poveri di suono e acuti a volte un po’ al limite – ma rende con grande simpatia il personaggio, lamentoso e sempre afflitto da ogni problema. Cosa dire del terzetto Alberto Allegrezza, Filippo Mineccia e Lawrence Zazzo nei panni delle insopportabili madri delle cantanti se non che le loro parti sono troppo brevi. Il loro terzetto è tra le pagine più irresistibili dell’opera e il trio degli interpreti è semplicemente perfetto. Viste certe assonanze con la futura Mamma Agata viene da chiedersi se Donizetti non conoscesse quest’opera. Splendido il finale dove il tema classico del giuramento di odio eterno di Annibale verso i romani diventato un topos dell’opera seria – si pensi al finale del “Mitridate re di Ponto” – viene parodisticamente rivolto contro l’infida stirpe degli impresari. Sala gremita –moltissimi i giovani – e grande successo di pubblico. Foto Brescia e Amisano

Categorie: Musica corale

Roma, Villa Bonaparte: “Serate Musicali a Villa Bonaparte”

gbopera - Gio, 10/04/2025 - 22:52

Roma, Villa Bonaparte
Ambasciata di Francia presso la Santa Sede
SERATE MUSICALI A VILLA BONAPARTE
Harp Trio Chagall
CATELLO COPPOLA, flûte
ADRIANA CIOFFI , harpe
SIMONE DE PASQUALE, alto
e con 
GIUSEPPINA PERNA, soprano
STEFANO SORRENTINO, tenore
CARLO MARTINIELLO, piano
Programma
G. Rossini : “Giusto cielo, in tal periglio” da “L’assedio di Corinto”
M. Carafa : “Fra tante angosce e palpiti da “Berenice in Siria”
G. Pacini : “Quai lugubri lamenti” da “Cesare in Egitto”
S. Mercadante : Largo per flauto, viola e arpa
G. Rossini: “O muto asil del pianto” da “Guglielmo Tell”
S. Mercadante: “Addio felici sponde” da “Didone abbandonata”
G. Donizetti: “Vivi tu te ne scongiuro” da “Anna Bolena”
G. Pacini: Composizione da camera per Soprano, Tenore, Arpa e
Pianoforte (Prima Assoluta)
Roma, 10 aprile 2025
Villa Bonaparte, oggi sede dell’ Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, non è soltanto un palazzo monumentale carico di storia: è un luogo che continua a interrogare il tempo attraverso la cultura. Con il ciclo “Serate musicali a Villa Bonaparte”, avviato nel 2024 e destinato a proseguire fino al termine del 2025, prende corpo un progetto di lungo respiro che coniuga rigore filologico, memoria storica e prassi esecutiva, restituendo significato e respiro alla funzione diplomatica come spazio di pensiero, ascolto e scambio. Tra le linee tematiche che il programma ha saputo esplorare, la figura di Paolina Borghese Bonaparte si impone per carisma, sensibilità e potere evocativo. Sorella di Napoleone, icona ambivalente del neoclassicismo romano, Paolina non fu solo presenza mondana: seppe costruire attorno a sé un vero laboratorio culturale. La sua dimora accanto a Porta Pia, oggi sede diplomatica francese, divenne nei primi decenni dell’Ottocento luogo di incontri, serate teatrali, concerti e improvvisazioni tra attori, pittori e compositori emergenti. Una Roma alternativa, sensibile, inquieta. La serata si è articolata come un itinerario musicale che, attraversando Rossini (Giusto cielo, in tal periglio, O muto asil del pianto), Carafa, Mercadante, Donizetti e Pacini, ha riportato alla luce pagine raramente eseguite e costruito un paesaggio sonoro coerente con la sensibilità salottiera del primo Romanticismo italiano. Il vertice, idealmente e musicologicamente, è stato toccato con l’esecuzione in prima assoluta di una Composizione da camera per soprano, tenore, arpa e pianoforte di Giovanni Pacini, ricostruita a partire da un manoscritto ritrovato a Pescia. In quell’“album di romanze” dedicato alla “distintissima dama”, la musica non è soltanto linguaggio affettivo, ma traccia vivente di un legame tra arte e biografia. Il recupero di questa partitura – frammentaria, delicata, preziosa – è il risultato di un lavoro corale e stratificato. A Pino Adriano, ideatore e coordinatore del progetto, si deve l’intuizione e la tenacia nel rintracciare la fonte, con il sostegno dell’assessorato alla cultura del Comune di Pescia; a Adriana Cioffi, la cura della trascrizione e della realizzazione musicale, affrontata con competenza filologica e profonda intelligenza del suono. È a lei che si deve l’equilibrio tra rigore e cantabilità, tra strutturazione e libertà timbrica. L’organico esecutivo – il Trio Chagall, qui esteso a sestetto con Catello Coppola (flauto), Adriana Cioffi (arpa), Simone de Pasquale (viola), Giuseppina Perna (soprano), Stefano Sorrentino (tenore) e Carlo Martiniello (pianoforte) – ha saputo attraversare il repertorio con sobrietà e senso della forma, evitando ogni compiacimento lirico per restituire, invece, un suono asciutto, interiorizzato, coerente con la destinazione originaria delle composizioni. Ma il dato più sorprendente non risiede soltanto nell’equilibrio interpretativo o nella rarità del repertorio. A rendere l’esperienza irripetibile è stato il modo in cui la Villa stessa ha reagito al suono. Non come cassa armonica, ma come organismo sensibile, capace di riconoscere ciò che già le apparteneva. Come se le musiche, tornate a vibrare dopo due secoli, avessero risvegliato una stratificazione silenziosa, dando luogo a un fenomeno di sospensione temporale: non rievocazione, bensì presenza. La musica, in questo contesto, agisce non come citazione, ma come interruzione del tempo lineare, come breccia nella durata. Il passato non ritorna: si impone. Un’esperienza del genere non sarebbe stata possibile senza l’ospitalità elegante e concreta di S.E. Florence Mangin, Ambasciatrice di Francia presso la Santa Sede, la cui visione ha saputo restituire alla diplomazia una funzione generativa, e non meramente cerimoniale. Accanto a lei, il consorte Pino Adriano, figura centrale nella costruzione intellettuale e operativa dell’intero progetto, ha incarnato con fermezza e discrezione un modello di curatela culturale fondato sulla competenza e sull’idea di continuità. Fondamentale anche il lavoro dell’ufficio stampa dell’Ambasciata, nella figura di Pierluca Ferrari, la cui azione – precisa, generosa, appassionata – ha saputo accompagnare e accelerare ogni fase organizzativa, contribuendo con lucidità e sensibilità alla piena riuscita dell’iniziativa.  In tempi in cui la cultura rischia spesso di farsi evento, e l’arte di essere puro spettacolo, queste serate restituiscono un’altra possibilità: quella di un gesto lento, meditato, costruito nel tempo. Villa Bonaparte non è un contenitore, ma un luogo attivo, che reagisce. E la musica, in questo contesto, non è ornamento: è sostanza, strumento critico, memoria incarnata.

Categorie: Musica corale

“Salome” inaugura l’87esima edizione del Festival del Maggio Fiorentino

gbopera - Mer, 09/04/2025 - 18:20

Si alza il sipario del Festival del Maggio Musicale Fiorentino che quest’anno giunge alla sua 87ª edizione. In programma, domenica 13 aprile 2025 alle ore 18, nella Sala Grande del Teatro, uno dei grandi capolavori del ’900 che torna al Maggio a distanza di 15 anni dalla sua ultima messinscena, la Salome di Richard Strauss. Altre tre sono le recite previste in cartellone: il 16 e il 23 aprile alle ore 20 e il 27 aprile alle ore 15:30.
Sul podio, alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, il maestro Alexander Soddy, al suo debutto in Teatro.  La regia dello spettacolo è firmata da Emma Dante, anche lei al suo debutto al Maggio. Un altro debutto fiorentino è segnato dal soprano Lidia Fridman subentrata nella compagnia di canto al posto della già annunciata Allison Oakes che per una indisposizione è stata costretta a lasciare la produzione.
Il cast vocale schiera le voci di Nikolai Schukoff che veste i panni di Herodes; di  Anna Maria Chiuri che è Herodias e di Brian Mulligan che interpreta Jochanaan. Eric Fennell è Narraboth; Marvic Monreal è Ein Page der Herodias; i Cinque ebrei sono Arnold BezuyenMathias FreyPatrick VogelMartin Piskorski e Karl Huml. Interpretano i Due nazareni William Hernandez e Yaozhou Hou (quest’ultimo veste inoltre i panni di Uno schiavo); Frederic Jost e ancora Karl Huml sono Due soldati mentre Davide Sodini chiude il cast lirico vestendo i panni di Un uomo della Cappadocia.
Le scene di questo nuovo allestimento sono curate da Carmine Maringola, i costumi sono di Vanessa Sannino, le luci di Luigi Biondi e la scenografia di Silvia Giuffrè.  Il manifesto dell’opera è di Gianluigi Toccafondo.
La recita del 13 aprile sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3 e in differita televisiva su Rai 5 (ore 21:15)

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: “Pikovaja Dama” (La dama di picche)

gbopera - Mer, 09/04/2025 - 13:30

Torino, Teatro Regio Stagione d’opera 2024 – 2025
PIKOVAJA DAMA “ (La dama di Picche)
Opera in tre atti e sette scene su libretto di Modest Il’ič Čajkovskij dall’omonimo racconto di Aleksandr Sergeevič Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Hermann MIKHAIL PIROGOV
Il conte Tomskij ELCHIN AZIZOV
Il principe Eleckij VLADIMIR STOYANOV
Čekalinskij ALEXEY DOLGOV
Surin VLADIMIR SAZDOVSKI
Čaplickij, giocatore, maestro di cerimonia  JOSEPH DAHDAH
Narumov, giocatore VIKTOR SHECHENKO
Contessa JENNIFER LARMORE
Liza ZARINA ABAEVA
Polina DENIZ UZUN
La governante KSENIA CHUBUNOVA
Maša IRINA BOGDANOVA
Il piccolo comandante voce bianca LUCA DEGRANDI
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino
Direttore Valentin Uryupin
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Direttore del coro di voci bianche Claudio Fenoglio
Regia Sam Brown
Scene e Costumi Stuart Nunn
Coreografia Angelo Smimmo
Luci Linus Fellbom
Allestimento Deutsche Oper di Berlino
Torino, 3 aprile 2025
La Dama di Picche che in questo inizio di aprile, per la seconda volta dopo la memorabile edizione Noseda – Krief del 2009, va in scena al Teatro Regio si conferma qual è un grande e multiforme polittico, unificato dalla potente campitura musicale di Čajkovskij. In un continuo variare di scene e di ambienti, emergono Hermann e Liza i personaggi che, con l’anziana Contessa, ne sono gli straziati protagonisti. I bambini e le governanti nel parco, gli irridenti commilitoni di Hermann al tavolo da gioco, l’apparato nobiliare e la Zarina, Polina e le sue amiche diventano parte corale di una gigantesca sinfonia patetica che comunque, fin dall’Introduzione orchestrale, impone un clima oscuro e ansioso che neppure nel Requiem finale troverà la sua catarsi. La regia che si dice Sam Brown abbia ripreso da un’idea originale di Graham Vick, si appiattisce sull’ormai bolsa tradizione dei neon e delle proiezioni in bianco-nero che non illustrano e ancor meno emozionano. Il racconto avanza quindi abbastanza piatto e non si giova dell’aggiunta di un qualche innocuo tocco “alla moderna”. Sorprendente ed apprezzabile la trasformazione, possibile per l’intenso e indiscutibile fascino di  Jennifer Larmore, della vecchia e cadente Contessa in maliosa adescatrice sexy. Le scene di Stuart Nun, come le luci di Linus Bellbom risultano vivaci e ben funzionali allo spettacolo. Sempre di Stuart Nun sono i costumi che, se esaltano la “rivisitazione” glamour della Contessa, non sono altrettanto efficaci nel vestire Liza. Se si cercasse lo stile Vick lo si potrebbe forse solo trovare nei movimenti coreografici dei due atti finali, in cui il coreografo Angelo Smimmo sicuramente rimanda al Tell del ROF 2013. Nonostante la presentazione da parte del Maestro di cerimonie, è stata brutalmente tagliata la “pastorelleria” mozartiana dell’atto secondo. La rinuncia a questa parentesi settecentesca è tutt’altro che indolore: per Čajkovskij, mozartiano viscerale, costituisce, in quest’opera onnicomprensiva, una parte non secondaria di un suo ipotetico autoritratto artistico e spirituale. L’esecuzione sconta la più che eccellente prestazione dei Cori, compreso quello di voci bianche del Teatro Regio, che Ulisse Tabacchin e Claudio Fenoglio conducono con la nota perizia, pur nei trambusti di un affollatissimo palcoscenico che, specie nella scena iniziale, ne ingarbuglia le file. L’Orchestra del Teatro Regio ha ben sostenuto l’immane partitura che, per molti aspetti, è pari a quella di una grande sinfonia con voci. Gli ottimi orchestrali, sempre affossati e invisibili, vengono tradizionalmente trascurati rispetto a chi agisce in scena. I legni, le prime parti e le file, gli archi, i violoncelli e le viole in specie, sono stati a tutti gli effetti assolutamente determinanti al buon esito. In un punto specifico del finale primo, Liza piange e Čajkovskij sul rigo del primo cello scrive in italiano: molto espress.piangendo: la commozione è giunta in sala. La direzione di Valentin Uryupin, sicuramente efficace e tecnicamente agguerrita, soffre di una visione più episodica che unitaria. Ricordando la coinvolgente e inarrestabile spirale emotiva della precedente edizione, si passa qui di scena in scena senza un reale continuum sinfonico. Scoppi sonori a fine scena cercano di animare delle non supportate steppe ghiacciate cui la sola eccellenza di strumentisti e cantanti dà vita. La compagnia di canto è eccellente quando non eccezionale. Mikhail Pirogov, Hermann, è tenore essenzialmente lirico che, pur non sottraendosi all’eroismo di alcune frasi, umanizza strepitosamente il personaggio. Il timbro è virilmente piacevole, così come è notevole la correttezza di intonazione e di fraseggio. Sulla follia e sulla disperazione di Hermann esercita il controllo tipico di chi interiorizza, senza placarle, le proprie angosce. Il pubblico l’ha molto apprezzato e applaudito. Zarina Abaeva, Liza, soprano lirico dai magnifici centri. Il timbro dolce ne fa un carattere remissivo e fragile. Nell’aria dell’ultimo atto, sulla sponda della Neva, ha modo di farsi ammirare per delle doti non comuni di tecnica e di fraseggio. Trova qualche difficoltà nel duetto del primo atto con Polina, Deniz Uzun: le due pare che cantino con sistemi tonali paralleli ma non coincidenti. Polina, sempre la Uzun, esegue poi magnificamente, con le giuste bruniture, la sua canzone Carissime mie amiche. Il reparto femminile si arricchisce della fama e del fascino intatto della Contessa di Jennifer Larmore. L’aria di Gretry, che lei bisbiglia prima di addormentarsi, ben sopporta gli strali di molte stagioni passate su palcoscenici di tutto il mondo. Il conte Tomskij trova in Elchin Azizov, un inappuntabile e fascinoso interprete dalla voce bella, timbrata e sfogata che corre con facilità per tutto il teatro. Determinante l’apporto che Vladimir Stoyanov dà all’innamorato e poi vendicativo Principe Eleckij. Voce chiara, sonora, dal timbro assolutamente accattivante e dalla tecnica sopraffina. Completano l’apprezzabile elenco Alexey Dolgov come Čekalinskij e il Surin di Vladimir Sazdovski. Una certa ilarità divertita l’ha suscitata l’autoritaria governante, con frustino, di Ksenia Chubunova. Irina Bogdanova è la cameriera della contessa e Joseph Dahdah con Viktor Shevchenko completano con efficacia il lotto dei giocatori. Il pubblico della prima ha approvato incondizionatamente tutti gli esecutori musicali. Segnata da particolare riconoscenza e affetto è stata poi l’accoglienza riservata alla Larmore. Gli artefici della parte visiva, con gli applausi, si sono dovuti subire anche uno spento e silenziato mugugno: è il massimo di disapprovazione a cui ardisca il pubblico subalpino. Foto Mattia Gaido

 

 

Categorie: Musica corale

Napoli, Teatro di San Carlo: “La fanciulla del West” dal 16 al 29 aprile 2025

gbopera - Mer, 09/04/2025 - 12:45

Napoli, Teatro di San Carlo
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Al Teatro di San Carlo, dal 16 al 29 aprile 2025, va in scena La fanciulla del West: opera in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco.
La Prima è il 16 aprile 2025. Le date delle repliche sono le seguenti: 19 aprile, 23 aprile, 26 aprile, 29 aprile 2025.
Alla guida dell’Orchestra del San Carlo, Jonathan Darlington. Maestro del Coro: Fabrizio Cassi. La regia, le scene e i costumi sono a firma di Hugo De Ana, con l’apporto scenico del light designer Vinicio Cheli e del projection designer Sergio Metalli.
A interpretare Minnie è Anna Pirozzi; Gabriele Viviani interpreta, invece, Jack Rance; nel ruolo di Dick Johnson, Martin Muehle. Completano il cast: Alberto Robert (Nick), Mariano Buccino (Ashby), Leon Kim (Sonora), Lodovico Filippo Ravizza (Sid), Antonio Garés (Trin), Clemente Antonio Daliotti (Bello), Gregory Bonfatti (Harry), Sun Tianxuefei (Joe), Pietro Di Bianco (Happy), Lorenzo Mazzucchelli (Larkens), Sebastià Serra (Billy Jackrabbit), Antonia Salzano (Wowkle), Gabriele Ribis (Jack Wallace), Yunho Kim (José Castro), Michele Maddaloni (Un postiglione). Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con ABAO Bilbao Opera. Qui per tutte le informazioni. Foto © Luciano Romano / Teatro di San Carlo 2017

Categorie: Musica corale

Opéra de Marseille: “Sigurd”

gbopera - Mer, 09/04/2025 - 07:31
Marseille, opéra municipal, saison 2024/2025 “SIGURD” Opéra en 4 actes, livret de Camille du Locle et Alfred Blau Musique Ernest Reyer Brünhilde CATHERINE HUNOLD Hilda CHARLOTTE BONNET Uta MARION LEBEGUE Sigurd FLORIAN LACONI Gunther ALEXANDRE DUHAMEL Hagen NICOLAS CAVALIER Prêtre d’Odin MARC BARRARD Un Barde GILEN GOICOECHEA Irnfrid MARC LARCHER Hawart KAËLIG BOCHE Rudiger JEAN-MARIE DELPAS Ramunc JEAN-VINCENT BLOT Orchestre et Chœur de l’Opéra de Marseille Direction musicale Jean-Marie Zeitouni Mise en scène Charles Roubaud Décors Emmanuelle Favre Costumes Katia Duflot Lumières Jacques Rouveyrollis Vidéos Julien Soulier Marseille, le 6 avril 2015 Restant dans le cadre “l’Opéra fête son centenaire”, SIGURD l’opéra d’Ernest Reyer nous était proposé en ce dimanche après-midi. Le 13 novembre 1919, après une représentation de “L’Africaine”, l’opéra est en flammes. Reconstruit dans un pur style art-déco, c’est “Sigurd” qui est à l’affiche pour son inauguration le 3 décembre 1924. Cent ans déjà, et quoi de mieux que “Sigurd” pour cette année d’anniversaire ? Mais 30 ans aussi que l’ouvrage n’a plus été représenté sur cette scène. Maurice Xiberras, directeur général de l’Opéra de Marseille relève le défi dans une production toute française et, pourquoi pas, marseillaise aussi. Séduit par les compositeurs germaniques tels Meyerbeer ou Richard Wagner (d’ailleurs n’a-t-il pas modifié son patronyme Rey en Reyer) et malgré le sujet qui reste très proche des deux derniers volets de la Tétralogie de Richard Wagner, le Sigurd du compositeur marseillais reste une belle illustration du grand opéra français avec ballet obligé. Son goût pour le romantisme allemand, à la mode à cette époque, l’entraîne à se tourner vers “La chanson des Nibelungen” mais les aléas des conflits et de la politique feront que Sigurd sera refusé à Paris en 1870 ; il sera créé à Bruxelles le 7 janvier 1884 et connaîtra alors un immense succès. Dans cet opéra fleuve des coupures sont aménagées, notamment le ballet, elles sont assez bien amenées et ne nuisent en rien à sa compréhension. La mise en scène est confiée à Charles Roubaud, claire, épurée, toujours de bon goût et d’une grande lisibilité, mettant les personnages en valeur tout en laissant au chœur ces effets de puissance dans une bonne direction d’acteurs. Dans une coopération intelligente avec Emmanuelle Favre qui signe les décors, de beaux tableaux nous sont proposés et épuré ne signifie pas toujours vacuité. Une immense charpente à pans coupés occupe une partie de la scène laissant évoluer les chanteurs, mais c’est dans l’originalité du dernier acte que nous avons trouvé le plus de beauté : les hautes poutres qui encadrent un Sigurd agonisant se referment lentement occultant Brünhilde venue le rejoindre dans la mort. Image sublimée par les lumières conçues par Jacques Rouveyrollis, poétiques et dans des couleurs souvent estompées. Les vidéos de Julien Soulier viennent soutenir les atmosphères suggérées par la musique, faisant apparaître les épreuves vécues par Sigurd avec légèreté dans une esthétique toujours renouvelée ; les 3 Nornes tissant son linceul, sa lutte avec les Kobolds ou sa résistance aux séduisantes Elfes. Les costumes de Katia Duflot viennent compléter avec bonheur cette fresque. Habits militaires sombres pour les hommes du chœur, superbes robes 1930 d’une rare élégance pour les dames et tenues qui frisent l’époque Renaissance pour les servantes, longues chasubles blanches qui recouvrent un fourreau noir, Sigurd, tout de blanc vêtu se détachant dans la lumière. Le visuel de cette nouvelle production participera en grande partie du succès final. Distribution française bien choisie avec le Sigurd de Florian Laconi en pleine forme vocale, type même du ténor héroïque. Investi et voix solide dans une partition qui ne le ménage pas, vaillance des aigus puissants soutenus par un souffle long, le ténor français, malgré une émission souvent forte, est capable de jolies nuances et de sensibilité dans son duo d’amour. Justesse irréprochable pour une prestation remarquée. Belle prestance pour le Gunther d’Alexandre Duhamel. Mais au-delà du jeu et de l’allure, la voix paraît un peu fatiguée faisant ressortir quelques inégalités vocales. C’est dans le médium et certains aigus solides que l’on retrouve la rondeur du timbre. Nicolas Cavalier fait montre d’autorité et d’investissement dans ce Hagen péremptoire où la voix très projetée résonne avec puissance dans un joli phrasé. Marc Barrard laisse ressortir la chaleur de sa voix de baryton dans des nuances appropriées, donnant au Prêtre d’Odin sensibilité et relief sonore dans un phrasé musical. Vif succès pour le Barde de Gilen Goicoechea, rôle court mais remarqué ; timbre, style et profondeur de voix. La superbe Brünhilde de Catherine Hunold investit la scène dans une interprétation tout en finesse mais dans une voix puissante au timbre coloré. Aigus sûrs, ronds et soutenus, longueur de souffle dans le piano et nuances sensibles. Une Brünhilde très applaudie. Très applaudie aussi, la Hilda de Charlotte Bonnet à l’émission franche et directe aux solides aigus mais au legato sensible dans un jeu passionné qui réclame peut-être un peu plus de souplesse. Timbre harmonieux, voix bien placée et conduite du chant, font apprécier Marion Lebègue dans le rôle d’Uta au jeu fluide. Marc LarcherKaëlig BochéJean-Marie Delpas et Jean-Vincent Blot, les envoyés d’Attila animent la scène dans un bel ensemble. Bien préparé par Florent Mayet, le Chœur est à la fête et au succès. Ensemble, homogénéité des voix, présence scénique et investissement vocal jusque dans la demi-teinte de coulisse. Bravo ! Partition orchestrale fournie et superbement interprétée dès la magistrale ouverture par un orchestre aux sonorités homogènes qui laissent ressortir les instruments solistes, profondeur du violoncelle, mélancolie de la clarinette ou du cor anglais, rondeur des cuivres sous la baguette attentive et nuancée de Jean-Marie Zeitouni qui a su trouver les inflexions de la musique française, autorité mais souplesse. Longs, longs, rappels ! Photo Christian Dresse
Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo del Quirinale: “La Sala Regia apre al pubblico”

gbopera - Lun, 07/04/2025 - 11:27

Roma, Palazzo del Quirinale
LA SALA REGIA NEL PERCORSO DELLA MOSTRA “BAROCCO GLOBALE”
In occasione della mostra “Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, il Palazzo del Quirinale offre un’occasione rara, quasi iniziatica: l’accesso eccezionale al Salone dei Corazzieri, già noto nei secoli passati anche come Sala Regia, nome che ne esplicita la destinazione originaria quale spazio di ricezione per sovrani, legati pontifici e ambasciatori. Questa apertura non è solo un gesto museale, ma un atto performativo: il luogo dove il potere si è rappresentato nei secoli viene riconsegnato allo sguardo pubblico, come se l’architettura si spogliasse, per un istante, della sua funzione istituzionale per diventare puro linguaggio. Costruita nei primi decenni del Seicento su impulso di Papa Paolo V Borghese e realizzata sotto la supervisione di Carlo Maderno, la sala è il massimo esempio della volontà pontificia di affermare, anche attraverso la materia, la centralità della Chiesa cattolica in un’epoca di espansione e competizione globale. Il Quirinale, da residenza estiva papale, si trasforma in dispositivo simbolico, e la Sala Regia — oggi Salone dei Corazzieri — è il fulcro di questa trasformazione. La sua monumentalità non è un fatto quantitativo, ma qualitativo: misura la distanza tra il reale e il rappresentato, tra l’individuo e il potere. Il soffitto ligneo a cassettoni, dorato, scolpito con ordine e maestosità, si specchia nel pavimento marmoreo a intarsio policromo, realizzando una simmetria visiva di forte intensità simbolica. Ogni superficie concorre alla costruzione di uno spazio scenico totale, dove l’individuo è messo in posizione di subalternità prospettica rispetto all’ambiente. Questo è lo spazio barocco: uno spazio che domina, persuade, ingloba. Alle pareti, due cicli decorativi raccontano due ideologie del potere. Il primo, risalente al 1616, è un fregio affrescato da una bottega guidata da Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco e Carlo Saraceni. Vi si celebrano otto ambascerie ricevute da Paolo V, con una iconografia che si inserisce pienamente nel clima dell’espansionismo spirituale post-tridentino. La più celebre è quella del giapponese Hasekura Tsunenaga, ritratto con dignità ieratica: è il corpo dell’altro che entra nella pittura romana e ne altera le coordinate. Questo incontro, che all’epoca suscitò stupore, oggi si rivela essere una delle prime raffigurazioni ufficiali di un dignitario nipponico nella storia dell’arte occidentale, anticipando — senza saperlo — la globalizzazione dell’immaginario barocco. Il secondo fregio, aggiunto dopo l’Unità d’Italia, è un intervento sabaudo che si inserisce senza distruggere l’impianto esistente: vi sono rappresentati gli stemmi delle principali città italiane, a suggello dell’unificazione politica della penisola. Un esempio perfetto di come l’arte possa essere palinsesto: la stratificazione dei poteri e delle loro estetiche si giustappone senza cancellazione, ma per sovrapposizione. È la permanenza della forma a garantire la continuità tra i regimi. Nel salone, convivono anche due cicli di arazzi settecenteschi, posti a rivestire le pareti con un fasto tutto francese e napoletano. La prima serie, di manifattura francese, raffigura le Storie di Psiche: un mito dell’amore e della trasfigurazione, ideale per un ambiente dove il potere si riveste di seduzione. La seconda, dedicata a Don Chisciotte, combina ironia e pathos in un cortocircuito tra letteratura e arte decorativa, anch’essa frutto della cultura barocca che dissolve i confini tra alto e basso, sacro e profano. A vegliare silenziosa in una nicchia, la lunetta marmorea della Lavanda dei Piedi, scolpita da Taddeo Landini nel 1578 per la Basilica di San Pietro e traslata al Quirinale nel 1616, introduce una nota di etica cristiana dentro l’apparato del potere. È un gesto di servizio scolpito nel marmo, che diventa paradossalmente monumentale, eterno. L’umiltà come forma di autorappresentazione del potere pontificio, ma sempre attraverso il filtro dell’arte, che trasforma anche la pietà in stile. Nel Novecento, il Salone dei Corazzieri subisce un’eclisse di senso: pensato come pista da pattinaggio e persino adibito a campo da tennis coperto nel 1912, sembra per un momento svuotato del suo portato simbolico. Ma la forma resiste, come un’armatura. È solo nel secondo dopoguerra, e poi in modo definitivo con la Repubblica, che il salone riacquista la sua funzione di rappresentanza: diventa il luogo dove la nuova forma dello Stato — non più sacra, ma laica — continua la messa in scena del potere, ora sotto il segno della democrazia protocollare. Con la mostra “Barocco globale”, questo spazio non solo si apre, ma si riattiva. Torna a essere quello che era: un teatro dell’universale, un atlante visivo del dialogo tra Roma e il mondo. Ma non più solo luogo di autorappresentazione del potere: oggi il Salone dei Corazzieri diventa luogo di riflessione estetica e storica, nodo concettuale tra le culture che il Barocco ha saputo mettere in relazione. Una chance per toccare con lo sguardo la grammatica del potere, fatta di oro, marmo, mito e silenzio. Un’epifania barocca nel cuore stesso della Repubblica.

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La Fenice, Rudolf Buchbinder interpreta Beethoven

gbopera - Lun, 07/04/2025 - 07:53

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore e pianoforte Rudolf Buchbinder
Ludwig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19; Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58; Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in do maggiore op. 15
Venezia, 3 aprile 2025
È tornato alla Fenice Rudolf Buchbinder, uno dei performer più leggendari del nostro tempo che, al culmine di una luminosa carriera di sessantacinque anni, continua a suonare il pianoforte coniugando autorevolezza e spontaneità, tradizione e innovazione. Le sue interpretazioni delle opere di Beethoven, in particolare, sono considerate modelli assoluti: non a caso, è stato il primo pianista a interpretare tutte le Sonate di Beethoven, all’interno di una manifestazione estiva al Festival di Salisburgo del 2014, e il Musikverein di Vienna, per la prima volta nella sua storia, gli ha concesso, nella Stagione 2019-2020, l’onore di eseguire tutti i cinque Concerti di Beethoven. È stata, come sempre, una grande emozione assistere alla sua esecuzione: ammirare la compostezza con cui affronta anche i passaggi più ardui, guidando nel contempo l’orchestra, con rapidi cenni, nei momenti in cui può staccarsi dalla tastiera; sentirsi rapire da quell’energia, che proviene dall’assoluta padronanza della tecnica pianistica, dalla perfetta, intima conoscenza del dettato beethoveniano. Presupposti di un’interpretazione, che ci conquista con la forza interiore e, insieme, l’olimpico dominio delle passioni, che caratterizzano Buchbinder come tutti i più grandi interpreti della grande tradizione viennese e mitteleuropea, mai pedissequamente imitata dall’insigne artista, bensì sempre reinventata con autenticità e apertura mentale. La serata si è aperta con il Concerto in si bemolle maggiore n. 2 op. 19 (in realtà il primo in ordine di composizione, essendo precedente a quello dell’op. 15), dove il dialogo del pianoforte con l’orchestra si è svolto con una leggerezza mozartiana, in un rapporto paritetico tra i due interlocutori – del resto è evidente in questa partitura l’influenza del Concerto in re minore kv 466 del Salisburghese, che si è colta anche nella prima entrata del pianoforte con libere figurazioni derivanti dal materiale tematico già esposto dall’orchestra –. Strabiliante per la chiarezza nell’articolazione la cadenza del primo movimento – composta da Beethoven vari anni dopo la pubblicazione del Concerto, avvenuta nel 1801 – proiettata verso il futuro, preannunciando la Sonata op. 101 (1816). Particolarmente suggestivo il secondo movimento, un grande Adagio tipicamente beethoveniano, a metà del quale l’orchestra si è stagliata autorevolmente sul morbido fondo sonoro del pianoforte, e poi ha partecipato con accenti drammatici alla grande cadenza, aperta da accordi e trilli del solista e da lui chiusa con un recitativo. Un tono brillante e, al tempo stesso, pastorale si è colto nel Rondò finale. Seguiva il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58, composto tra il 1805 e il 1806, che rappresenta una reazione, da parte di Beethoven, al virtuosismo esteriore, imperante a quell’epoca in questa forma musicale, insieme ad un tono celebrativo e marziale del movimento iniziale. Un tono di luminosa intimità ha caratterizzato l’iniziale Allegro moderato, aperto dalla breve entrata del solista che, in modo innovativo, precede l’esposizione orchestrale. Un drammatico dialogo si è svolto nel secondo movimento tra sonorità crepuscolari. Alle quali si sono alternate, nel movimento conclusivo, sonorità brillanti, come in un breve intervento del solista a mani alternate, che si pone in una prospettiva di tecnica prelisztiana. La serata si è conclusa con il Concerto per pianoforte n. 1 op. 15, terminato nel 1798 e pubblicato, in una versione rivista, nel 1801. Qui il tono è cambiato fin dal primo movimento, vicino alla tradizione del ‘concerto militare’ – molto gradito al pubblico di fine Settecento – tra sonorità brillanti e ritmi di marcia sia dell’Orchestra che del pianista, che ha sfoggiato staccati incisivi e agilità, anche nella mano sinistra: un movimento, con solo pochi momenti di più raccolto intimismo. Nel Largo, centro espressivo del Concerto, cui un’orchestra ridotta ha conferito un insolito colore timbrico, il primo clarinetto e il pianoforte, nel loro intimo dialogo, hanno creato un’atmosfera veramente ‘magica’. Molto brillante il Rondò finale – con tre temi dal carattere di danza –, conclusosi in modo ‘sorprendente’ alla fine della cadenza, quando il pianoforte ha iniziato, secondo tradizione, un trillo, per poi farlo divergere dalla prevedibile conclusione e indirizzarlo, con raffinata modulazione, verso una tonalità inattesa. Reiterati applausi tra molti “Bravo!”

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro dell’Opera: “Onegin”

gbopera - Dom, 06/04/2025 - 20:29

Roma, Teatro dell’Opera, stagione 2024/25
“ONEGIN”
Balletto in tre atti su musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Arrangiamento e orchestrazione di Kurt-Heinz Stolze
Coreografia John Cranko
Onegin FRIEDEMANN VOEGEL
Lenskij ALESSIO REZZA
Tatiana NICOLETTA MANNI
Olga SUSANNA SALVI
Solisti, corpo di ballo e Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Philip Ellis
Scene e costumi Elisabeth Dalton
Roma, 5 aprile 2025
Quello del balletto Onegin al Teatro dell’Opera di Roma era un successo annunciato. Complice la coreografia di John Cranko (1927-1973), grande creatore di drammi danzati diventati dei classici del balletto moderno, che sanno scavare nella psicologia dei personaggi e si offrono come perfetta sintesi di quello che la danza eredita dalla tecnica più pura del balletto classico, in felice simbiosi con le evoluzioni tecniche del Novecento. Ma non solo, perché l’anima di tutto è la musica di PÏotr Îl’ič Čjajkovskij, non quella dell’omonima opera composta nel 1877, ma una antologia di brani pianistici orchestrati da Kurt-Heinz Stolze in cui il sapore del sentimento čjajkovskijano per l’inutile vagheggiamento di una vita felice echeggia di continuo e offre continui cromatismi per i mutamenti dei personaggi, incardinandosi in quella tradizione nazionale di polacche e mazurche che ci riportano ai fasti dei Teatri imperiali dei grandi balletti di Marius Petipa. Eppure non è ancora tutto: il capolavoro di Cranko (prima rappresentazione: Stoccarda, 1965 – debutto italiano: Spoleto, 1984), coreografo sudamericano che ha saputo fare scuola con i suoi balletti narrativi, la cui carriera è fiorita tra Inghilterra e Germania, si costruisce partendo dal romanzo in versi di Alexandr Sergeevič Pušhkin (1799-1837), fonte primaria di tutto e il cui spirito intrinseco (tra lo spleen di Eugenio Onegin e la forza di Tatiana) emerge nel trasferimento dal codice della parola a quella della danza attraverso una serie di sequenze coreografiche e di attenzione alla gestualità attoriale che rendono la vicenda non solo immediatamente fruibile, ma riescono a calarlo all’interno della storia attirandolo come una potente calamita. Ma ancor più il lavoro di Cranko rende indispensabile la qualità dell’interprete, la cui sensibilità diviene la conditio sine qua non per la materializzazione della coreografia e la riuscita della messa in scena. Tutto questo è stato presente nell’allestimento andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma con la compagine di balletto diretta brillantemente da Eleonora Abbagnato (volitiva direttrice anche della Scuola di ballo, che il 7 aprile si esibirà in una lezione dimostrativa aperta al pubblico) e due ospiti d’eccezione quali Nicoletta Manni e Friedemann Vogel nel ruolo del titolo. Vogel è probabilmente il migliore Onegin nel panorama internazionale: capace di riempire la scena con le sue eloquenti espressioni anche nell’immobilità o in una semplice promenade, è interprete maturo e smaliziato che associa alla tecnica eccellente e a un partnering sicuro e senza sbavature la padronanza del ruolo. Dispettoso e superficiale (tanto da suscitare espressioni di vero dispetto anche nel pubblico femminile, quando umilia Tatiana stracciandole in mano la lettera), sa essere poco dopo contrito e sinceramente ravveduto ma, soprattutto, sa mostrare con grande efficacia il drastico cambiamento di sentimento di Onegin, irrimediabilmente destinato a soffrire come tutti gli altri.
Al suo fianco una Tatiana che è, per Nicoletta Manni, il ruolo della vita: diventata Étoile del Teatro alla Scala di Milano con questa interpretazione, si conferma portabandiera della grande scuola italiana scaligera. La sua figura dolce e aggraziata coesiste con una tecnica limpida e dalla fluidità vellutata, priva delle asprezze che spesso accompagnano i virtuosismi, perché le forze sono abilmente dosate e “la ragazza della porta accanto” (quale appare Nicoletta nella sua semplicità giornaliera) si trasforma in una Tatiana innocente e allo stesso tempo determinata. Quando giunge anche per lei «il tempo delle marmellate» (Fabio Sartorelli), Tatiana accetta il suo dovere di moglie e, pur conservando l’ardore della fiamma che l’angoscia quando rivede Onegin dopo tanto tempo, onora la sua posizione di donna sposata con grande forza. Nicoletta Manni fa conservare a Tatiana la stessa innocenza del primo e del secondo atto, nonostante sia ora una donna matura.
La coppia brilla per affiatamento, pur essendo al debutto insieme: il Passo a due dello specchio, metafora erotica di geniale eleganza e sensualità, così come quello del terzo atto fatto di continui contrasti affidati ai Leitmotiv coreutici e musicali che Cranko sapientemente utilizza in una formularità di grande effetto emotivo, sono interpretati magistralmente.
Ottima prestazione per l’Étoile di casa Susanna Salvi nei panni di Olga, sorella gaia e talvolta frivola della più riflessiva Tatiana, anch’ella destinata a soffrire per la morte dell’amato Lenskij per mano di Onegin nel corso di un duello tanto inutile quanto crudele. La difficoltà delle sezioni coreografiche di Olga non ha messo in difficoltà Susanna Salvi, così come è stata molto ben sostenuta da Alessio Rezza, Étoile maschile del Teatro dell’Opera nei panni dello sfortunato poeta Lenskij, il cui triste assolo nella scena che precede quella del duello vede difficoltà di legato e di interpretazione connessa al lirismo del momento, che non escludono insidie tecniche notevoli, in cui la danza non si fa sostituire dalla sola pantomima ma diviene essa stessa significante per il procedere dell’azione. Ottima prestazione da parte di tutto il Corpo di ballo: non sono mancati applausi a scena aperta in più momenti. L’elegante e caldo allestimento del Duch National Opera and Ballet di Amsterdam, l’eleganza sobria dei costumi di Elisabeth Dalton (che firma anche le scene), l’orchestra diretta dal Maestro Philip Ellis hanno garantito l’apprezzamento senza riserve da parte del pubblico, che al termine è rimasto a lungo in sala ad applaudire con calore e ad attendere i protagonisti all’uscita, per garantirsi di fermare per sempre, con uno scatto fotografico, l’abbraccio con Tatiana e Onegin. (foto Fabrizio Sansoni)

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G. F. Malipiero: “Quartetti 2, 3, 6” – C. Monteverdi: “Messa a quattro voci”

gbopera - Dom, 06/04/2025 - 16:51

C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Kyrie; G. F. Malipiero, Quartetto n. 2, Stornelli e ballate; C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Gloria; G. F. Malipiero, Quartetto n. 3, Cantari alla Madrigalesca; C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Credo; G. F. Malipiero, Quartetto n. 6, Arca di Noè; _C. Monteverdi, Messa a quattro voci 1650, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei. Quartetto Sincronie. Registrazione: Aprile 2023, San Terenziano Capranica (VT). T. Time: 70′ 44″. 1 CD Stradivarius STR 37281
Molto interessante è la presente proposta discografica dell’etichetta Stradivarius, il cui programma è costituito da un binomio Malipiero-Monteverdi particolarmente appropriato soprattutto, se si considera il fatto che il primo realizzò l’edizione completa delle opere del grande compositore dell’Orfeo. In questo CD sono eseguiti, in particolar modo, i Quartetti n. 2, 3 6, di Malipiero e un’originale versione per quartetto d’archi della Messa a 4 voci (1650) di Monteverdi. I Quartetti di Malipiero mostrano l’evoluzione dello stile del compositore veneziano, in quanto, nel Secondo, intitolato Stornelli e ballate (1923), è utilizzata ancora una struttura a pannelli, abbandonata nel Terzo (Cantari alla madrigalesca) del 1931, che appare come un’opera di transizione tra i primi due e il quarto, mentre il Sesto (L’arca di Noè), completato nel mese di agosto del 1947, era considerato dallo stesso compositore come il seguito ideale del Terzo. Di Monteverdi viene eseguita in una trascrizione, che non sarebbe dispiaciuta al suo compositore il quale visse in un periodo in cui un brano vocale poteva tranquillamente essere eseguito con strumenti e viceversa, la Messa a 4 voci, un lavoro costruito sul tetracordo Sol-Fa-Mi-Re, i cui brani, inseriti nel CD in alternanza con quelli di Malipiero, vanno a comporre, come si legge nell’interessante Booklet di Francesco Fontanelli, il “ritornello’ sacro dei profani quartetti di Malipiero. Ottima l’esecuzione da parte del Quartetto Sincronie che rende molto bene l’ordito polifonico di queste composizioni e nel caso della Messa non fa certo rimpiangere l’esecuzione vocale. Si tratta, in definitiva, di una proposta discografica particolarmente bella e originale.

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“Peer Gynt” al Teatro alla Scala dall’8 al 18 aprile

gbopera - Dom, 06/04/2025 - 13:42

Dall’8 al 18 aprile il sipario della Scala si aprirà su Peer Gynt di Edward Clug, balletto narrativo ma onirico, con un evocativo impianto teatrale che accompagna il viaggio fisico e interiore di questa leggendaria figura del folklore nordico, personaggio drammatico tra i più complessi usciti dalla penna di Ibsen. Primo balletto narrativo a serata di Clug, Peer Gynt vide il suo debutto nel 2015 per il Balletto del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor. Da allora è diventato così popolare da essere richiesto in tutta Europa. Proprio al Teatro alla Scala, decimo teatro europeo per cui viene riallestito, celebrerà il suo decimo anniversario, entrando per la prima volta nel repertorio di una Compagnia italiana. Per questa occasione, il balletto sarà ripreso da Rai Cultura, e verrà trasmesso in autunno su Rai 5 e Rai Play; all’estero (ad eccezione di Grecia, Repubblica Ceca e Giappone) sarà in live streaming su Medici Tv il 18 aprile.
Un lavoro nato dalla ricerca sul testo del grande drammaturgo e sulla musica di Grieg al fine di unire le rispettive ispirazioni, superando le limitazioni di ognuna. Clug ha creato un nuovo libretto che segue in senso cronologico la narrazione di Ibsen e accosta la musica di scena di Grieg per Peer Gynt ad altri suoi celebri brani da concerto e da camera, per uno sviluppo dinamico e coerente della narrazione. Fondendo i mondi artistici di Ibsen e di Grieg, si crea un nuovo insieme, e un paesaggio con molte porte: Clug ha scelto le sue, che apre agli spettatori e invita a varcarle, per entrare in una nuova esperienza di balletto.
Peer Gynt sarà impersonato da Navrin Turnbull e da Timofej Andrijashenko. Nel balletto si ritroveranno molti dei personaggi del libro: Solveig (Alice Mariani in alternanza con Martina Arduino), Åse, la madre di Peer (Antonella Albano e Alessandra Vassallo), gli sposi Ingrid e Mads Moen (Linda Giubelli con Mattia Semberboni, Agnese Di Clemente con Domenico Di Cristo), Aslak, il fabbro (Marco Agostino), la piccola Helga, sorella di Solveig (Sabrina Solcia), tre ragazze della malga (Giorgia Sacher, Chiara Ferrara, Martina Valentini). Nati da una inventiva e felice soluzione, non solo coreografica, ma drammaturgica, come chiave per varcare le porte del surreale e del fantastico, il Cervo (Emanuele Cazzato), concepito da Clug quasi come un alter ego che accompagna Peer per tutta la piéce e la Morte (Andrea Crescenzi in alternanza con Christian Fagetti), figura affascinante e complessa che lo segue in tutto il suo viaggio, e in cui Clug ha condensato tutti i personaggi astratti  dell’opera – come la voce, il fonditore di bottoni e la sfinge. Lo stesso vale per i molti  altri ruoli che interagiscono con Peer nel suo epico viaggio che che coinvolge anche l’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta per la prima volta da Victorien Vanoosten, che ha già affrontato questo balletto a Zurigo nel 2022, Leonardo Pierdomenico al pianoforte e il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala, diretto da Bruno Casoni.
Esperienza teatrale completa, questo balletto fonde musica, movimento e parola con il fondamentale apporto dell’inventiva nelle scene di Marko Japelj, dei visionari costumi di Leo Kulaš e delle luci di Tomaž Premzl. 

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Venezia, Palazzetto Bru Zane: “Amore e Sogni “con il Reinoud Van Mechelen

gbopera - Dom, 06/04/2025 - 10:30

Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival Bizet, “L’amore ribelle”, 29 Marzo-16 Maggio 2025
AMORE E SOGNI”
Tenore Reinoud Van Mechelen
Pianoforte Anthony Romaniuk
Musiche di Georges Bizet, Eduard Lassen, Franz Liszt, Pauline Viardot, Frédéric Chopin
Venezia, 2 aprile 2025
“Amore e sogni” in musica … Che cosa c’è di più romantico, di più intimo, di più poetico? Soprattutto se l’autore di riferimento è un genio assoluto, qual è Georges Bizet, cui il Centre de Musique Romantique Française dedica quest’anno un festival, che si sta svolgendo con successo in varie città, in Francia e in Europa, e ora è approdato a Venezia. Bizet – artista precoce, che un tragico destino strappò alla vita quando, appena trentasettenne, avena già legato il suo nome a uno straordinario capolavoro come Carmen – viene riproposto dal Palazzetto Bru Zane, per indagarne aspetti meno noti al pubblico. Dotato di un’impareggiabile vena melodica, di una particolare sensibilità per il canto, di uno spiccato talento per il pianoforte, di un’inconfondibile cifra stilistica squisitamente francese, il compositore ci ha la sciato una dovizioso repertorio di mélodies, che meritano di essere conosciute e apprezzate dal grande pubblico. Ecco uno degli aspetti poco conosciuti di Bizet, che l’équipe del Bru Zane intende illuminare con questo concerto dell’attuale Festival “L’amore ribelle”. L’autore di pagine dallo straordinario afflato melodico, tanto amate dal pubblico, come la “Romanza di Nadir” (da Les Pêcheurs de perles) o la “Séguedille” (da Carmen) era rappresentato nella serata di cui ci occupiamo da alcune delle sessantatré mélodies che ci ha lasciato, messe a confronto con analoghe composizioni di autori a lui contemporanei: piccole gemme, dimenticate in qualche scrigno, che sono tornate a brillare per noi di seducenti colori, svelate dalla voce del tenore Reinoud Van Mechelen, accompagnato dal pianista Anthony Romaniuk. Morbidezza e vigore, omogeneità di timbro nei vari registri e capacità di attingere a un’ampia gamma di colori, raffinato utilizzo del legato e grande attenzione alla parola poetica: queste le caratteristiche, che abbiamo potuto apprezzare nella vocalità estesa e corposa del tenore belga, che ha potuto contare sul sostegno intelligente e sensibile del pianoforte, sempre in stretta interazione con la voce. Lo si è colto – per citare qualche titolo – in Le Matin – arrangiamento di una parte della pastorale dell’Arlésienne –, in Aimons, rêvons! – tratta dall’opera La Coupe du roi de Thulé –, in Si vous aimez e in La Nuit, tratte direttamente da Clarisse Harlowe, opéra-comique in tre atti rimasta incompiuta nel 1872: tutte romanze da opere di Bizet mai rappresentate. Le doti vocali e interpretative di Van Mechelen sono risultate ancor più evidenti in altre pagine, appartenenti alla raccolta delle Six mélodies, come Guitare, su un testo di Hugo, e Sonnet su un testo di Ronsard, che attestano un’importante ridefinizione della mélodie: in esse all’immediatezza espressiva della romanza operistica, si sostituisce un linguaggio musicale più elaborato che, attraverso un rapporto più stretto tra la voce e il pianoforte, aderisce ancora più intimamente alla parola poetica, esaltandone ogni valenza evocativa. La rassegna proposta – come si è accennato – accostava a mélodies di Bizet analoghe composizioni per canto e pianoforte, su testi francesi, di autori suoi contemporanei, accomunati dall’aver vissuto sia al di qua che al di là del Reno come il grande viaggiatore Franz Liszt, il suo protetto belga Eduard Lassen e l’esiliata Pauline Viardot: pagine, nelle quali, nonostante la conoscenza e la pratica del Lied da parte di questi musicisti, si è comunque colta una cifra stilistica tutta francese. Reiterati applausi a fine serata, placati da un Bis: la “La fleur que tu m’avais jetée”, da Carmen.

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Venezia, Teatro La Fenice: “Anna Bolena”

gbopera - Sab, 05/04/2025 - 08:03

Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025
ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti  Libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Enrico VIII ALEX ESPOSITO
Anna Bolena LIDIA FRIDMAN
Giovanna Seymour CARMELA REMIGIO
Lord Rochefort WILLIAM CORRÒ
Lord Riccardo Percy ENEA SCALA
Smeton MANUELA CUSTER
Sir Hervey LUIGI MORASSI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Renato Balsadonna
Maestro del coro Alfonso Caiani
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Light designer Oscar Frosio
Nuovo allestimento Teatro La Fenice
Venezia, 28 marzo 2025
Anna Bolena non compariva alla Fenice dal lontano 1857. Il riproporla dopo tanto tempo costituiva per i responsabili dello spettacolo un privilegio e, insieme, una sfida. Fortunatamente sia il direttore Renato Belsadonna, che il regista, Pierluigi Pizzi, sono due artisti particolarmente sensibili e preparati, in grado di affrontare degnamente il non facile compito loro assegnato. Lavorando in sintonia, hanno scelto di rappresentare il capolavoro donizettiano nella sua stesura pressoché integrale – sulla base dell’edizione critica curata da Paolo Fabbri –, per valorizzare le novità strutturali e stilistiche della partitura, coadiuvati da un cast straordinario. Il che è fondamentale per un opera ove domina il belcanto. Per entrambi gli artisti, il punto di riferimento era la memorabile edizione scaligera del 1957 – seppure la partitura fosse stata allora ampiamente ‘tagliata’ –, diretta da Gianandrea Gavazzeni con la regia di Luchino Visconti, nonché Maria Callas e Giulietta Simionato come protagoniste: lo storico spettacolo ha dato il via alla ‘Donizetti Renaissance’, un rinnovato interesse verso il Bergamasco, che ha portato a riscoprire questo autore, prima considerato un epigono di Rossini. Un fondamentale impulso in questo senso lo dato Gavazzeni, con il contributo prima della Callas e in seguito di Leyla Gencer, le splendide interpreti che tutti ancora adoriamo.
Quanto al nuovo allestimento per la Fenice, Pizzi ha lavorato per sottrazione, perseguendo una generale semplificazione dell’apparato scenico a vantaggio degli affetti e dell’introspezione psicologica dei personaggi. L’insigne regista – ideatore anche di scene e costumi –, considerando giustamente Anna Bolena un’opera ‘di can­tanti’, ha assegnato il primato al belcanto, più che all’ambientazione, finalizzata ad orientare il pubblico e collocare i personaggi in un determinato contesto, desunto – udite, udite! – dal libretto e dalla musica. Il regista si focalizza sull’interpretazione dei cantanti per creare personaggi credibili, che – inseriti in un clima drammatico – toccano direttamente il cuore degli spettatori. Lo spettacolo è spoglio, asciutto, ma non minimalista. La scena è costituita da un’ampia struttura grigia in legno, ispirata a un’architettura tardogotica, le cui nervature portanti fanno pensare a una sorta di grande gabbia: si tratta di un contenitore fisso, che all’inizio rappresenta una grande sala del Castello di Windsor, poi diventa una stanza da letto sobriamente addobbata e alla fine addirittura un carcere. Essa crea quel senso claustrofobico e oppressivo, che caratterizza tutta la storia e al quale contribuiscono le luci generalmente soffuse (disegnate da Oscar Frosio) e i costumi, in buona parte scuri e dall’essenziale eleganza, che se non rimandano storicisticamenre ai Tudor, fanno nondimeno percepire il senso di un’epoca. Spiccano suggestivamente in questo grigiore, pochi elementi, tra cui il rosso del mantello di Percy e del costume di Giovanna Seymour, oltre al bianco perlaceo di quello di Anna prima del suo tragico epilogo, che la vedrà rigorosamente vestita di nero. Piccoli capolavori di sobrietà dell’intramontabile Pizzi. Coerentemente con l’impostazione registica, Renato Belsadonna si concentra sui cantanti sostenendoli con un gesto sempre chiaro e preciso nel loro cimentarsi con una scrittura, che può essere considerata la quintessenza del belcanto, con la doverosa precisazione che la linea vocale, anche quando è ricca di abbellimenti, è sempre funzionale all’espressione drammatica. La sua lettura ha, dunque, messo in valore il canto, otre all’elegante orchestrazione di Donizetti, che evoca un’atmosfera cupa e opprimente, ma sa anche illuminare momenti più sereni come all’inizio del duetto con Giovanna, introdotto dalla preghiera di Anna, in cui i corni accompagnano quasi come un organo la preghiera; o nella scena della pazzia, dove all’alternarsi dei sentimenti contrastanti di Anna corrisponde l’eterogeneità della strumentazione orchestrale e l’apparente illogicità della sintassi musicale. Incantevole, in “Al dolce guidami” il corno inglese che, dopo l’introduzione, duetta in terza con Anna. E proprio in “Al dolce guidami”, uno squarcio di struggente lirismo, che precede la tragica fine della protagonista, Lidia Fridman ha sedotto particolarmente il pubblico. Quasi trasfigurata, ormai rapita in un’altra dimensione, il soprano russo ha concluso in modo esaltante la sua interpretazione, con cui ha saputo rendere la complessità psicologica della regina ripudiata, aderendo al linguaggio di Donizetti – straordinario per carica emotiva, virtuosismi, colori e contrasti –, senza che la regalità e la nobiltà del personaggio venissero meno, neanche nel momento in cui viene sopraffatto dalla follia. Una prova di belcanto e intensità espressiva, duttilità vocale e presenza scenica, nell’affrontare una parte che fu scritta per Giuditta Pasta. Le ha corrisposto – per doti interpretative e vocali – il soprano Carmela Remigio, quale Giovanna: elegante ed intensa sul piano espressivo – nel suo dibattersi tra il sentimento di lealtà verso la regina, l’amore illegittimo per Enrico, il senso di colpa per il tradimento –, ha tenuto testa ad Anna nel grande duetto con la rivale. Pienamente apprezzabile la prova del mezzosoprano Manuela Custer, nei panni di Smeton, che ha analogamente fatto valere ragioni del belcanto e del gesto scenico. Sul versante maschile il basso Alex Esposito – specializzatosi nelle parti da ‘cattivo’ – ha sfoggiato ancora una volta la sua voce ‘profonda’ quanto estesa, nel delineare un Enrico VIII dispotico, cinico, crudele, offrendo un’interpretazione incisiva e vigorosa, anche per le sue doti attoriali. Credibile l’impetuoso Percy del tenore Enea Scala, che ha saputo affrontare dignitosamente l’impervia tessitura di un ruolo pensato per Giovanni Battista Rubini, segnalandosi in “Vivi tu, te ne scongiuro”. Positiva la prova del baritono William Corrò (Rochefort) e del tenore Luigi Morassi (Hervey), oltre a quella del coro, istruito da Alfonso Caiani. Successo estremamente caloroso in particolare per la protagonista.

 

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Roma, Spazio Diamante: “Il bambino dalle orecchie grandi”

gbopera - Ven, 04/04/2025 - 23:59

Roma, Spazio Diamante, Sala White
IL BAMBINO DALLE ORECCHIE GRANDI
scritto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Leonardo Maddalena
disegno luci Martin Emanuel Palma 
disegno suono Giuseppe D’Amato
scenografia Salgo Ingala
foto di Loris Zambelli
organizzazione Regina Piperno
produzione Teatrodilina Fondazione Teatro Toscana
regia Francesco Lagi
Roma, 04 aprile 2025
Una luce lattiginosa s’insinua nel buio, come se il giorno non volesse del tutto nascere. L’aria è ferma, sospesa tra il sonno e il ricordo. Sul palco, due corpi distesi. Poi, un respiro. Una voce. Un sogno. Inizia così Il bambino dalle orecchie grandi, scritto e diretto da Francesco Lagi, messo in scena al Teatro Spazio Diamante di Roma con la compagnia Teatrodilina: non con un’esplosione drammatica, ma con un cedimento sottile della realtà, uno slittamento quasi impercettibile verso la tenerezza dell’incertezza. Non c’è una vera azione iniziale, né un contesto definito: tutto è trattenuto, sfumato, anti-narrativo. Lo spazio scenico, progettato con misura da Salvo Ingala, rifugge qualsiasi realismo per offrirsi come ambiente mentale, composto da trasparenze (barattoli, plexiglass, superfici vitree), dove ogni oggetto diventa una proiezione simbolica più che funzionale. Le luci, curate con raffinatezza da Martin Emanuel Palma, scandiscono il fluire emotivo: mai frontali, mai didascaliche, ma piuttosto umorali, attraversano la scena come riflessi interni, presagi o malinconie. I protagonisti – Anna Bellato e Leonardo Maddalena – incarnano una coppia in divenire, colta nel momento fragile della possibilità: lui racconta un sogno, lei ascolta, e in questo ascolto si apre lo spazio del teatro. Non si tratta di costruire personaggi pieni, ma figure poetiche, che si muovono in una zona liminare tra interpretazione e astrazione. Entrambi gli attori lavorano su un registro antinaturalistico, ma mai artefatto: la loro vocalità è sobria, spezzata talvolta da inflessioni lievi, accenni ironici, sospensioni; il gesto è controllato, prosciugato, ma preciso. Bellato modula con attenzione il peso delle parole, affidandosi più ai silenzi che alla battuta; Maddalena si muove con una fisicità trattenuta, come se il corpo volesse restare ai margini, quasi a non disturbare il tempo. La drammaturgia si compone per episodi, come un montaggio affettivo di istanti non ordinati: flashback, evocazioni, visioni. C’è il ricordo delle prese in giro infantili per le orecchie “a copertone”, ci sono le discussioni sui pasti, i piccoli scontri su dettagli domestici, le attese che diventano noia. Ma ciò che davvero tiene insieme lo spettacolo non è la linearità narrativa, bensì la ricorrenza di micro-temi e motivi poetici: le orecchie, appunto, simbolo di ascolto e di vulnerabilità; la marmellata, la pianta che non cresce, l’insofferenza verso “certe cose dell’altro”. Il tutto organizzato secondo una struttura circolare, musicale, fatta di ritorni e dissonanze. Il punto di forza della regia di Lagi è la coerenza con il proprio sguardo poetico: mai compiaciuto, mai esibito. Il tempo scenico è dilatato, quasi cinematografico, ma sempre al servizio della materia emotiva. La recitazione non cerca l’identificazione ma l’empatia diffusa: lo spettatore non è chiamato a “credere” alla storia, ma a riconoscervi frammenti della propria biografia affettiva. E in questo, lo spettacolo riesce con finezza: non imponendo una morale o una parabola, ma lasciando spazio al dubbio, al “forse”, al “e se…”. Il bambino dalle orecchie grandi non parla di una grande passione, né di una crisi devastante: mette in scena il tessuto granulare della vita condivisa, le sue increspature sottili, le sue dolcezze interrotte. È un teatro che si nutre di micro-tensioni, di variazioni impercettibili nel ritmo e nell’intonazione. La scrittura di Lagi – a metà tra poesia quotidiana e drammaturgia della sospensione – riesce a restituire quella dimensione sfuggente in cui l’amore non è più sentimento, ma gesto reiterato, dettaglio osservato mille volte, distanza che resta nonostante la vicinanza. La coppia – pur senza nome, pur senza storia definita – si trasforma così in una figura universale, una sorta di archetipo lieve dell’innamoramento che si fa convivenza, del desiderio che si misura con la disillusione. Il bambino evocato nel titolo non è solo un progetto, una possibilità o un sogno: è anche – forse soprattutto – la parte fragile e non risolta che ciascuno porta con sé, quella che si spera venga accolta, compresa, ascoltata. Ecco allora che il teatro, in questo caso, non mostra, ma custodisce. Non urla, ma veglia. E nel silenzio che chiude la pièce – un silenzio pieno, denso, come una stanza vuota dopo una conversazione troppo lunga – resta il ricordo di qualcosa che non è accaduto davvero, ma che ci riguarda profondamente. Perché in fondo, tutti abbiamo avuto, almeno una volta, delle orecchie troppo grandi. E qualcuno che ce le ha fatte amare.

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Michele Girardi: “Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità”

gbopera - Ven, 04/04/2025 - 22:13

Prefazione di Guido Paduano
Editore Il Saggiatore
Pubblicazione 2024
Pagine: 784
ISBN: 9788842834502
Il 29 novembre 1924 moriva Giacomo Puccini e tra i vari libri usciti nel 2024 in occasione di questo primo centenario, presentiamo l’interessante volume scritto da Michele Girardi. Trattasi dell’ultima opera del musicologo veneziano che – considerando la sua recente scomparsa (22 marzo) e la grande dedizione allo studio di Puccini – può definirsi il suo testamento intellettuale. La pubblicazione, dedicata ad un solo compositore e alle sue opere, sembra inserirsi in una specifica linea editoriale che ha visto volumi come Wagner Nights di Ernest Newman e, più in particolare, Puccini di Julian Budden ove si cerca di dare risposte a quanti desiderino allargare la loro conoscenza e/o continuare a studiare attingendo ad opere di particolare rilievo scritte da insigni studiosi.
A proposito del volume del musicologo inglese, nella Prefazione egli ricorda Girardi per la sua «perspicua interpretazione della musica di Puccini e dei rapporti tra questa e quella dei suoi contemporanei [traendo sempre] idee in abbondanza» tanto da trovare abbastanza naturale il fatto che quest’ultimo, in Nota dell’autore, menzioni Budden con affetto (similia similibus). Ma il ricordo, destinato a mantenere viva la memoria, diviene anche occasione per annoverare diversi nomi di musicologi e musicisti scomparsi e altrettanti «amici e colleghi “storici”, compagni nella Puccini renaissance», compresa la sua famiglia. Considerando l’improvvisa dipartita di Girardi, ciò viene ad assumere il significato di sincera gratitudine prima del suo commiato.
Il libro, assai ponderoso, – come rivela lo stesso autore – «ospita […] quasi un quarto di secolo delle [sue] ricerche approfondite sull’opera di Giacomo Puccini, basate su una notevole mole d’esempi musicali», a comprenderne il senso lo ben evidenzia nella prefazione Guido Paduano in Pietà, rispetto e amore. Il filologo e grecista veneziano non usa mezzi termini nel dichiarare che «questo libro nasce dall’amore per Puccini, si prefigge e raggiunge l’obiettivo di contagiarlo al lettore». Mi sento di aggiungere l’intenzione di Girardi nel ravvisare l’intenzione di venire in soccorso allo spettatore/lettore/studioso per avvicinarlo il più possibile, dal di dentro, alle opere del compositore, offrendogli altresì gli strumenti necessari al fine di migliorare la propria esperienza di ascolto e di analisi del teatro di Puccini. In sostanza emerge quasi un ‘pensiero bifronte’ che si completa con le dichiarazioni dello stesso autore a proposito dell’«identica simbiosi fra analisi drammaturgica e quella musicale» in cui egli chiarisce l’intenzione di voler permettere e favorire «una doppia lettura: da una parte quella dell’appassionato, guidata o a riconoscere i luoghi dell’opera che ama, dall’altra quella dello studioso e del musicista, in grado di seguire il ragionamento nella sua completezza».
Intanto, provando ad ‘entrare maggiormente nella struttura contenutistica del libro’ ecco i dodici capitoli, strutturati a loro volta in una serie di paragrafi, cui va il compito di evidenziare ed organizzare i contenuti: Una dinastia di compositori; «Torna ai felici dì»: le nostalgie del giovane Puccini; Una parentesi scapigliata; Manon Lescaut: Wagner e il Settecento; La poetica realtà della Bohème; Tosca: Roma fra fede e poter; Madama Butterfly: una tragedia esotica; Puccini nel Novecento: Wagner en travesti; Una guerra da “operetta”; Drammaturgie sperimentali; «Turandot!»; Epilogo. Seguono infine il Catalogo delle opere; Note; Bibliografia e Indice dei nomi. Ne deriva che il lettore può approcciarsi non necessariamente secondo la successione diacronica del libro ma ha la facoltà di scegliere, di volta in volta, ciò che gli interessa e/o gli è utile suggerendo, soprattutto per coloro che vogliano approfondire, di tornarci più volte, sicuri di poter comprendere ulteriori elementi afferenti alla drammaturgia, al linguaggio compositivo, all’individuazione dei topoi e a tutto ciò che gravita intorno all’universo pucciniano.
Il dato rincuorante, mettendosi dalla parte di ogni tipologia di lettore, è quello di percepire la sensazione di non essere lasciato solo, soprattutto nell’operazione dello studio. Grazie alla ricchezza degli esempi musicali, diagrammi, schemi di vario genere, citazioni e tesi di vari studiosi, opinioni di critici musicali et alia, si ha il senso di effettuare un percorso accanto all’autore fatto anche di scoperte e, in alcuni casi, non privo di pathos. Non di rado si incontrano apprezzabili considerazioni alla cui base stanno pensieri trasversali che toccano aspetti disciplinari come la drammaturgia, il linguaggio compositivo, l’orchestrazione nonché quel contatto con Wagner che, secondo lo studioso, è «più esplicito in Manon che in altri lavori».
A fare da sfondo a questo itinerarium mentis di Girardi è il teatro musicale europeo fin de siècle ove, grazie a riflessioni e considerazioni varie, sembra essere proiettati in quello del periodo susseguente a Puccini, attraversando un tempo che mette in relazione passato, presente e futuro. Il musicologo, in particolare in quest’ ultima dimensione temporale, arriva ad indicare Turandot non come la fine del genere operistico ma come palingenesi dell’immortalità artistica di Puccini tanto necessaria per comprendere la sorte del teatro musicale dell’avvenire.

 

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Roma, Scuderie del Quirinale: “Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo del Bernini”

gbopera - Ven, 04/04/2025 - 12:22

Roma, Scuderie del Quirinale
BAROCCO GLOBALE. IL MONDO A ROMA NEL SECOLO DI BERNINI
Curata da Francesca Cappelletti e Francesco Freddolini
realizzata con la collaborazione della Galleria Borghese, delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini, di ViVE – Vittoriano e Palazzo Venezia, e della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore
Roma, 03 aprile 2025
Nel XVII secolo, Roma si afferma come nodo cruciale di una rete globale in espansione. Città dei papi e centro propulsore del pensiero cattolico, ma anche luogo d’incontro, di scambio e di diplomazia. La mostra Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini, alle Scuderie del Quirinale fino al 13 luglio 2025, restituisce visivamente questa stratificazione di contatti e influenze, attraverso un progetto espositivo che coniuga rigore scientifico, qualità artistica e chiarezza narrativa. Curata da Francesca Cappelletti e Francesco Freddolini, è realizzata con la collaborazione della Galleria Borghese, delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini, di ViVE – Vittoriano e Palazzo Venezia, e della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore. A scandire il percorso sono oltre cento opere tra dipinti, sculture, arazzi, oggetti liturgici e manufatti provenienti da musei di tutto il mondo. Al centro non solo la Roma che produce arte, ma quella che la riceve e la traduce. Il visitatore è accompagnato in una narrazione che attraversa territori, culture e iconografie, dove il barocco si rivela linguaggio capace di inglobare l’altro senza cancellarlo. A introdurre la mostra è il busto policromo di Antonio Manuel Ne Vunda, ambasciatore del Regno del Congo giunto a Roma nel 1608. Realizzato da Francesco Caporale e custodito nella Basilica di Santa Maria Maggiore, è stato prestato eccezionalmente per l’occasione, dopo un restauro promosso da Ales S.p.A. L’opera testimonia come la Roma papale seppe accogliere anche figure provenienti da mondi lontani, tributando loro gli onori riservati all’aristocrazia cristiana europea. L’allestimento si sviluppa con chiarezza e misura, evitando ogni artificio scenografico. I materiali sono distribuiti con ritmo ampio, alternando sezioni dense a pause visive. L’illuminazione, studiata per ogni ambiente, accompagna lo sguardo senza imporsi. Le opere dialogano in spazi aperti, mai sovraccarichi, costruendo una sequenza espositiva che è anche racconto visivo. La prima sezione esplora l’immagine dell’Africa e dell’Oriente antico nella Roma barocca. Tra le opere, il Giovane africano di Nicolas Cordier, il Cesare e Cleopatra di Pietro da Cortona e l’Allegra compagnia con cartomante di Valentin de Boulogne. Sono testimonianze di una figurazione che, pur nel filtro dell’allegoria, recepisce l’altro e lo inserisce nel tessuto artistico europeo. La sezione dedicata alla Fontana dei Quattro Fiumi di Bernini entra nel cuore della costruzione iconografica barocca. Il bozzetto in legno, terracotta e materiali preziosi – proveniente dalla collezione Forti Bernini – documenta la genesi della fontana. Particolarmente significativa l’evoluzione della figura del Rio della Plata, da incarnazione dell’America indigena a rappresentazione dai tratti africani, in risposta alla crescente presenza di popolazioni afrodiscendenti nel Nuovo Mondo. “La Chiesa e il Mondo” mostra il ruolo degli ordini religiosi nella diffusione delle immagini cristiane. Il Ritratto di Nicolas Trigault in abiti cinesi, le repliche orientali della Salus Populi Romani e una Santa Cecilia realizzata alla corte Mughal, dimostrano come l’arte sacra si adattasse ai codici culturali locali. Una forma di inculturazione visiva restituita con chiarezza. Il catalogo, edito da Electa, prosegue e amplia l’indagine. I saggi raccolti analizzano le strategie visive della Chiesa nei territori di missione, sottolineando come il dialogo con le popolazioni locali implicasse mediazione e comprensione, non solo fascinazione per l’esotico. La diplomazia globale è al centro della sezione che presenta il ritratto di Ali-qoli Beg, ambasciatore persiano dipinto da Lavinia Fontana, e il progetto per il catafalco funebre di Sitti Maani, moglie del viaggiatore Pietro della Valle. Anche i riti commemorativi diventano spazio di rappresentazione dell’altro. “Collezionare il Mondo” approfondisce la presenza di oggetti esotici nelle collezioni romane: paramenti liturgici, mitre, reliquiari e tessuti provenienti da culture lontane, inseriti nei circuiti visivi della Roma cattolica. La mitra in piume di San Carlo Borromeo, prestata dal Duomo di Milano, è un esempio eccezionale di interazione tra artigianato mesoamericano e ritualità europea. Le rappresentazioni letterarie e mitologiche dell’alterità sono protagoniste della sezione successiva. L’Andromeda di Rutilio Manetti, la Maria Mancini-Colonna in veste di Armida, il Guerriero orientale di Mola mostrano come il Barocco tendesse a rifrangere il diverso in una visione idealizzata e omogenea. Il finale si affida ai ritratti di Anthony Van Dyck di Robert Shirley e Teresia Sampsonia – coppia anglo-persiana cattolica – e al Passaggio delle Alpi di Annibale di Nicolas Poussin, prestito d’eccezione che celebra l’epica in chiave transnazionale. L’elefante Don Diego, esemplare reale giunto a Roma dall’India, diventa emblema del meraviglioso e della documentazione naturalistica. Il programma collaterale “Il mondo a Roma negli affreschi al Quirinale”, promosso dalla Presidenza della Repubblica, completa la mostra con la visita al ciclo pittorico del Salone dei Corazzieri, dove tra il 1616 e il 1617 furono rappresentati gli ambasciatori ricevuti da papa Paolo V. Un’integrazione che arricchisce la lettura storica del tema. Terminato il percorso espositivo, l’esperienza si prolunga idealmente nel tessuto stesso della città, dove si avverte ancora la stratificazione di storie e culture. I volti incisi nel marmo, dipinti su tela o cuciti nei paramenti liturgici trovano un’eco nei lineamenti che si incontrano oggi lungo le strade di Roma. In questa continuità silenziosa tra Seicento e presente, la mostra restituisce non solo l’universalismo barocco, ma la permanenza di Roma come spazio urbano di trasformazione e accoglienza. Un progetto che invita a ripensare la storia dell’arte come storia del mondo, costruita attraverso immagini che attraversano confini e generano relazioni durature.

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Napoli, Piccolo Bellini: “Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio” dall’8 al 13 aprile

gbopera - Ven, 04/04/2025 - 00:00

Napoli, Piccolo Bellini
“SOLO UNA COSA HO AVUTO NEL MONDO. L’ORECCHIO”
Operina drammatica dal film La Ricotta di Pasolini
Regia, drammaturgia, musiche e paesaggi sonori di e con Blastula.scarnoduo: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile
Voce ed effettistica Monica Demuru (voce, batteria, percussioni, strumentini e chitarra orizzontale)
Produzione Toscana Produzione Musica
Al Piccolo Bellini, dall’8 al 13 aprile, Solo una cosa ho avuto nel mondo. L’orecchio.
«Nel rivedere La Ricotta – episodio filmico di Pasolini del 1963 – ci ha guidato l’idea che il sonoro del film, la sua complessa polifonia, “sfondasse le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita” (Pasolini, Atti impuri). […]
Non proveremo, con questo concerto, con le nostre sezioni improvvisate, ad omaggiare o musicare Pasolini ma a rispondere alla sua suggestione sonora, al suo pastiche per contrasti, alle parole-suono poetiche o della realtà brutale e incredula del mondo, con il nostro sgomento sonoro, il nostro affacciarci anche leggero, al mistero della domanda religiosa e storica, alla pietà per l’umanità persa, per l’intelletto vacillante, per la miseria del povero e quella dell’artista smascherato.
Protagonista de La Ricotta è Stracci, un poveraccio morto di fame che fa il figurante nel film sulla Passione di Cristo, che Welles, cinico regista alter-ego di Pasolini, sta girando al confine tra la Roma popolare e la campagna. Nell’indifferenza della macchina del cinema Stracci muore in croce, di indigestione.» Qui per tutte le informazioni.

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Roma, Teatro Argentina: “Ho paura torero”

gbopera - Gio, 03/04/2025 - 23:59

Roma, Teatro Argentina
HO PAURA TORERO
di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejando Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturgia Lino Guanciale
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame, Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
visual design Riccardo Frati
travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Roma, 03 aprile 2025
Ci sono spettacoli che chiedono allo spettatore di lasciare fuori dalla sala i propri strumenti di difesa, altri che invece li chiamano in causa, li interrogano, li costringono a farsi domande. Ho paura torero, portato in scena da Claudio Longhi al Teatro Argentina, riesce in un compito più sottile e forse ancora più teatrale: ci invita ad abitare un tempo sospeso – personale e collettivo – in cui il privato diventa politico e la tenerezza si fa atto di resistenza. Non c’è spettacolarizzazione, non c’è enfasi: c’è piuttosto un passo lento, poetico, meticoloso, che apre varchi, svela pieghe, suggerisce connessioni. L’adattamento scenico dell’unico romanzo di Pedro Lemebel, curato con sensibilità e rispetto da Alejandro Tantanian, affronta un tessuto drammaturgico denso e stratificato, dove l’intimità si scontra con la storia, e dove la marginalità – sociale, affettiva, sessuale – trova finalmente un centro. Non un centro estetico o ideologico, ma umano. Quello che pulsa nei gesti piccoli, negli sguardi mancati, nei sogni che si ostinano a sopravvivere anche tra i sacchi della clandestinità e le onde libere della radio ribelle. Il testo conserva l’andamento barocco, lirico e popolare del romanzo originale, ma lo piega alla grammatica della scena senza sacrificarne l’autenticità. Siamo a Santiago del Cile, nel 1986. Il regime di Pinochet scricchiola ma ancora fa paura. E in mezzo a una città sorvegliata e spietata, piena di occhi e informatori, vive la Fata dell’angolo, una “vecchia frocia persa” che si sente donna, artista, ricamatrice. Lei non milita, non protesta, ma ama. Ama Carlos, un giovane studente che dice di appartenere al Fronte patriottico Manuel Rodrìguez. Lo accoglie nella sua casa, lo ascolta, lo accudisce. Ricama per lui, sistema i suoi cuscini, canta canzoni malinconiche. Le casse misteriose che Carlos porta con sé, la Fata le adorna con merletti. Non vuole sapere cosa contengano. Le basta poter dire: “Mi fai stare bene“. Al cuore del racconto – e al centro del palco – c’è proprio lei, la Fata, interpretata da un Lino Guanciale che sorprende per delicatezza e rigore. La sua è una performance che rifugge ogni caricatura per abbracciare la profondità di una figura che esiste nell’interstizio tra identità e maschera, tra affetto e abbandono. La Fata è un corpo politico, ma non per militanza: per amore. Carlos, interpretato con misurata intensità da Francesco Centorame, è figura ambigua e sfuggente, oggetto di un sentimento che non potrà mai ricambiare del tutto. Ma in questa asimmetria si annida la forza drammatica del racconto. E’ un amore struggente e un po’ sonnambulo, disseminato di picnic improvvisati a Cajón del Maipo e feste di compleanno con torte colorate per i bambini curiosi del quartiere. Ma è anche un amore a senso unico, e perciò tenerissimo. La Fata cerca un “ti amo“, riceve un “ti voglio bene“. E lei lo sa che non è lo stesso. Ma resiste. La regia di Longhi orchestra tutto con mano ferma e consapevole. Non impone significati ma costruisce una condizione drammatica, una tensione costante tra desiderio e storia. Il ritmo è calibrato, a tratti contemplativo, ma mai statico. Le luci di Max Mugnai e i video di Riccardo Frati intervengono con misura, contribuendo a un’ambientazione visiva che richiama tanto la malinconia della memoria quanto l’elettricità di un’epoca sull’orlo del cambiamento. La musica – rielaborata da Davide Fasulo – alterna motivi latinoamericani a inserti pop colti con intelligenza, diventando voce narrante e paesaggio emotivo. Mario Pirrello e Sara Putignano, nei ruoli grotteschi e disturbanti di Pinochet e di sua moglie, incarnano il potere come parodia dell’umano. La loro presenza, collocata spesso su un livello superiore della scena, crea una dicotomia visiva e simbolica: da una parte l’alto, inaccessibile e violento; dall’altra il basso, vissuto e vulnerabile. La comicità surreale con cui sono trattati i dittatori non ne svuota l’orrore, ma lo espone nella sua disumanità farsesca. Il coro, composto da Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea e Giulia Trivero, agisce come un organismo fluido: ora è popolo, ora è memoria, ora è coscienza collettiva. Si muove con precisione, dando voce a quelle figure dimenticate che costituiscono la carne viva del romanzo e dello spettacolo. Non sono comparse: sono testimonianze incarnate, presenze vive, esistenze minute che si fanno racconto. Uno dei momenti più toccanti è l’irruzione finale dei manifestanti in sala: un gesto scenico che rompe la convenzione e trasforma la platea in agorà, in spazio condiviso. Sul fondale scorrono i volti dei desaparecidos, e la voce della Fata si fa canto di addio. “Ho paura torero“, dice, e nel dirlo non cede alla paura, ma la attraversa. È una parola d’ordine, certo, ma anche una confessione. Un’affermazione di vulnerabilità che si fa forza. C’è molto affetto in questo spettacolo. Un affetto verso il teatro come luogo di comprensione, verso il testo di Lemebel, trattato con rispetto e profondità, verso i personaggi, che vengono custoditi e non esibiti. Ma c’è anche una chiarezza etica: la chiarezza di chi non cerca il consenso facile, ma propone un’esperienza complessa, stratificata, necessaria. E così, nella penombra di un amore mai del tutto corrisposto e nell’eco di una rivoluzione che non trova compimento, resta impressa un’immagine fragile e potente: quella di una Fata che ricama tovaglie, canta boleri, ama senza garanzie, e sceglie di rischiare tutto per un’illusione. In quella figura precaria, marginale, ridicola e sublime, c’è forse la più potente allegoria del nostro tempo: un’umanità che non smette di desiderare, anche quando tutto intorno sembra suggerire il contrario. Da non perdere. Foto © Masiar Pasquali / Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

 

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Roma, Scuderie del Quirinale: “Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini” dal 04 aprile al 13 luglio 2025

gbopera - Gio, 03/04/2025 - 17:10

Roma, Scuderie del Quirinale
BAROCCO GLOBALE. IL MONDO A ROMA NEL SECOLO DI BERNINI
Dal 4 aprile al 13 luglio 2025 le Scuderie del Quirinale si trasformano in una macchina del tempo e dello spazio, un dispositivo critico che restituisce al Barocco la sua pulsazione originaria: quella di un mondo in transito, in tensione tra il locale e il globale. La mostra “Barocco Globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini”, realizzata in collaborazione con la Galleria Borghese e con l’ausilio di istituzioni museali di respiro internazionale, mette in scena una geografia di scambi, viaggi e collisioni, capace di raccontare un’epoca che non fu mai chiusa in se stessa, ma centrifuga, aperta, irrequieta. Roma, nel Seicento, non è solo l’epicentro della Controriforma, ma una piattaforma dinamica, dove i flussi di uomini e idee non conoscono confini. Una città-laboratorio in cui l’immaginario artistico si nutre di ambasciatori persiani, missionari gesuiti reduci dalla Cina, artisti fiamminghi in cerca di gloria e mercanti d’oriente affamati di nuove opportunità. Il “Barocco Globale” non è semplice decorazione o sfarzo: è strategia di comunicazione universale, è estetica relazionale ante litteram, è teatro politico che si alimenta di alterità. Le sale delle Scuderie del Quirinale si offrono come spazi di attraversamento e di negoziazione culturale. Non una sequenza cronologica, ma un montaggio intellettuale in cui le opere si fanno agenti attivi di una narrazione multipla. Sculture, dipinti, oggetti rituali, mappe e codici diplomatici raccontano storie di pellegrini e di potenti, di esuli e di santi, di artisti nomadi e di funzionari imperiali. Ognuno con la sua biografia migrante, ognuno con il suo sguardo che sfida la centralità europea e apre alla complessità delle interazioni transculturali. Il Seicento barocco diventa così un palcoscenico del mondo, dove il viaggio si fa forma e la forma si fa viaggio. In un tempo che anticipa la globalizzazione contemporanea, Roma accoglie e rilancia, assorbe e restituisce, ingloba e decodifica. Non c’è identità fissa, ma un continuo scambio, un’osmosi di linguaggi, materiali e simbologie. Alcuni dei protagonisti di questa storia rimangono in pianta stabile nella città dei papi, attratti da un’energia che non è solo spirituale, ma geopolitica e culturale. Altri ripartono, portando via con sé un frammento di Roma, un codice iconografico, un lessico di forme che fiorirà altrove, in altri mondi, in altre estetiche. “Barocco Globale” non è dunque solo una mostra, ma un dispositivo critico che riflette sull’origine della modernità, sul concetto di scambio e sul destino delle immagini in un mondo che già allora si pensava senza confini. Alle Scuderie del Quirinale, il passato diventa un atlante aperto, un mosaico in movimento, in cui il Barocco si rivela come l’arte di un’epoca già consapevole che nessuna cultura è un’isola. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Moby Dick”

gbopera - Mer, 02/04/2025 - 00:15

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
MOBY DICK

di Herman Melville
Regia: Guglielmo Ferro
Adattamento drammaturgico: Micaela Miano
Con: Moni Ovadia , Giulio Corso 
e con Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi,
Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte
Scene Fabiana Di Marco
Costumi Alessandra Benaduce
Musiche Massimiliano Pace
Movimenti scenici Monica Codena
Light designer Pietro Sperduti
Produzione Compagnia Molière – Centro Teatrale Bresciano – Teatro QuirinoRoma, 01 aprile 2025
È un mare senza coordinate quello in cui ci si trova proiettati entrando in sala al Teatro Quirino, dove Moby Dick di Herman Melville prende forma scenica nella regia di Guglielmo Ferro. Il palco si trasforma sin da subito in un luogo di sospensione, tra sacro e profano, memoria e incubo: la nave Pequod non è soltanto il vascello della celebre baleniera, ma un’immagine potente del destino umano, una zattera tragica lanciata verso l’abisso. Lo spettacolo, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano, dal Teatro Quirino e dalla Compagnia Molière, si avvale dell’adattamento drammaturgico di Micaela Miano, che sceglie un impianto evocativo e frammentato, capace di restituire la tensione epica e metafisica del romanzo senza cadere nella mera riduzione narrativa. L’intento è chiaro: evocare, più che raccontare; suggestionare, più che spiegare. Eppure, nel cuore di questo mare agitato, le interpretazioni principali sembrano più naufraghi che nocchieri, travolte dal flusso scenico anziché capaci di governarlo. Moni Ovadia, chiamato a incarnare il terribile Achab, appare smarrito nella parte, come un comandante che ha perso la bussola e parla non alla sua ciurma, ma al vuoto. Il suo dire, più che profetico, suona svuotato: la voce che dovrebbe essere tuono diventa eco, e la fiamma dell’ossessione si riduce a brace spenta. Achab, che è fuoco divorante, diventa qui figura scolorita, incerta tra la declamazione rituale e l’inerzia. Il gesto non affonda, resta sulla superficie del personaggio come una fiocina lanciata con mano esitante: non colpisce il cuore della balena, né quello dello spettatore. La verticalità del personaggio, il suo titanismo tragico, si dissolve in una recitazione spenta, monotona, distante. Giulio Corso, nel ruolo di Starbuck, segue un destino simile, ma con esiti ancora più incerti: ufficiale di bordo senza rotta, pare inseguire le proprie battute più che abitarle. La sua recitazione soffre di una dizione alle volte imbarazzante, frammentata, priva di articolazione emotiva e spesso incapace di restituire al testo dignità drammatica. Le sue entrate sono sperdute, scanzonate, svincolate da qualsiasi logica scenica, come se venisse da un altro spettacolo o da un’altra epoca, con un fare leggero che stride con la gravità del personaggio e della situazione. Il corpo non ha tensione, la parola non ha necessità. L’accento è sradicato, fluttuante come zattera alla deriva, e il respiro teatrale irregolare, incapace di scandire i tempi interni della scena. Starbuck è la coscienza, il dubbio, il fragile argine alla follia del capitano: qui invece si riduce a figura secondaria, priva di mordente, il cui apporto resta più evocato che agito. Il confronto tra i due personaggi, che dovrebbe essere il cuore etico dello spettacolo, si scioglie come nebbia marina, senza tensione, senza reale urto. E così il dramma perde consistenza, il duello morale si affloscia, la tempesta si fa bonaccia. La resa fonica dello spettacolo risulta deludente: le voci degli attori, prive di armonici e profondità, si appiattiscono in sala fino a diventare un’eco lontana, spezzando la forza della parola scenica. Il suono non avvolge, ma si disperde, svuotando il teatro della sua vitalità. Un’occasione sprecata, soprattutto per un testo così ricco di abissi e risonanze. Peccato, davvero peccato: perché questa poteva essere un’occasione perfetta, l’occasione per far detonare sulla scena due archetipi tragici, e invece restano due sagome sfuocate, perse tra le onde. La regia di Guglielmo Ferro si muove in una dimensione astratta, dove il realismo è del tutto assente. La nave non è mai nave, ma spazio mentale. I suoni – tra percussioni, canti rituali e rumori naturali – amplificano la tensione, trasformando l’azione scenica in un viaggio iniziatico. Ma anche la regia, in alcuni passaggi, pare non del tutto a fuoco: il ritmo si spezza, la coralità si impasta, alcune scene sembrano più tappe decorative che stazioni drammatiche. Vi è una coerenza visiva, ma non sempre un senso teatrale nel montaggio delle immagini. A reggere lo spettacolo sono invece gli attori di contorno, capaci di creare una tessitura solida e coesa. La ciurma del Pequod – composta da Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Filippo Rusconi, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese e Marco Delle Fratte – agisce come un corpo unico, più simbolico che individuale. I personaggi sono voci e ombre di un’umanità molteplice, immersa nella tempesta. I loro gesti e i loro canti, spesso di matrice rituale, rinviano a un teatro arcaico, comunitario, dove la coralità è specchio dell’anima collettiva. Particolarmente azzeccata, almeno in apparenza, la scelta di non mostrare mai la balena: Moby Dick resta presenza assente, evocazione, spettro. È ciò che si insegue e non si vede, ciò che sfugge alla presa ma non al pensiero. E proprio per questo, la sua ombra si estende su tutto lo spettacolo: simbolo dell’inconoscibile, dell’incommensurabile, dell’umano che, tentando di possedere, finisce col perdersi. L’allestimento prova a farsi riflessione sull’ossessione del potere, sull’antropocentrismo e sulla frattura tra uomo e natura. L’intento è nobile, il risultato – com’è accaduto a più di un vascello teatrale – si arena prima della meta. Alla fine, mentre la nave affonda, Achab perisce nella sua hybris e Ismaele resta solo a raccontare, la sala si risveglia in un applauso incerto, più cortese che convinto, come chi torna da una lunga navigazione con la sensazione di aver smarrito la mappa. Non c’è entusiasmo, ma una forma di rispetto sobrio, di quelli riservati alle imprese fallite con eleganza. Del resto, l’ambiziosa e visionaria regia di Guglielmo Ferro sfiora il mito ma non lo trafigge: la fiocina cade e la balena, ancora una volta, svanisce all’orizzonte, lasciando la scena in un silenzio inquieto.

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