Roma, Teatro Brancaccio
I TRE MOSCHETTIERI: OPERA POP
con Vittorio Matteucci, Giò di Tonno, Graziano Galatone
e con:
Sea John – D’Artagnan
Leonardo Di Minno – Rochefort
Cristian Mini – Richelieu
Camilla Rinaldi – Milady
Beatrice Blaskovic – Costanza
Roberto Rossetti – Dumas
Gabriele Beddoni – Planchet
Performers: i ragazzi della Peparini Academy Special Class
coreografie VERONICA PEPARINI e ANDREAS MULLER
testi ALESSANDRO DI ZIO
musiche GIO’ DI TONNO
orchestrazioni GIANCARLO DI MARIA
produzione STEFANO FRANCIONI PRODUZIONI E TEATRO STABILE D’ABRUZZO
organizzazione VENTIDIECI
Direzione artistica e regia Giuliano Peparini
“Tutti per uno, uno per tutti!”, il motto simbolo di un’amicizia incorruttibile, si rinnova in questo spettacolo in cui musica, prosa e danza si intrecciano in un racconto coinvolgente ed emozionante con Gio’ Di Tonno, Vittorio Matteucci, Graziano Galatone nei ruoli di Athos, Porthos e Aramis e il tocco innovativo ed elegante di Giuliano Peparini al quale è affidata la Direzione Artistica e la Regia; le Coreografie sono curate da Veronica Peparini e Andreas Müller, la preparazione dei duelli è del Maestro d’Armi Renzo Musumeci Greco, i Testi scritti da Alessandro Di Zio e le Musiche composte da Gio’ Di Tonno; gli arrangiamenti sono di Giò Di Tonno e Giancarlo Di Maria che ha curato anche le orchestrazioni. Lo spettacolo inizia prima dello spettacolo in una fabbrica di scatoloni dove il tempo è scandito dalla monotonia delle azioni da compiere giorno dopo giorno. In questo luogo si intravede un libro dimenticato o forse lasciato lì da qualcuno volontariamente. Un lavoratore lo prende, lo apre e, incuriosito, inizia a leggere appassionandosi subito alla storia e a ciò che questo libro rappresenta, un oggetto sempre più raro in un’epoca dove tutto si smaterializza. La sua voce che legge attira anche gli altri lavoratori che, via via, diventano i personaggi della storia catapultando lo spettatore nella Parigi dell’800. Giuliano Peparini racconta il suo intento artistico: “Se devo affrontare un argomento storico o mettere in scena la vita di personaggi la cui azione si svolge in un’epoca passata, penso sempre a come farla risuonare nella nostra epoca e a come potrebbe raggiungere il pubblico di oggi. È il caso di Alexandre Dumas, autore e romanziere la cui forza supera il passare del tempo. L’amicizia, le differenze tra classi sociali, l’onore, la vendetta, i segreti e la seduzione sono al centro del romanzo “I Tre Moschettieri” e sono temi ancora attuali nel XXI secolo. Ciò che personalmente mi colpisce dei personaggi di Dumas è il loro modo di crescere ed evolvere continuamente di fronte agli eventi che affrontano. In particolare, un giovane come D’Artagnan che cerca di trovare la sua identità e un posto nel mondo, è di grande attualità per i nostri giovani, una generazione che mette fortemente in discussione i suoi riferimenti e modelli.” Giò Di Tonno racconta così il progetto che lo vede coinvolto su diversi fronti: “Considero I Tre Moschettieri l’inizio di una nuova vita artistica che mi vedrà sempre più impegnato come compositore. Ho messo tutto me stesso in questo progetto che finalmente vede la luce. Sono felice di portare in scena la storia di amicizia più celebre della letteratura, e di farlo proprio con alcuni amici veri, a cominciare da Vittorio Matteucci e Graziano Galatone con cui ho già condiviso tante avventure, Alessandro Di Zio, autore dei testi, a Renzo Musumeci Greco maestro d’armi e di vita, per finire con un nuovo amico, Giuliano Peparini, col quale sono onorato di lavorare. E ora “In guardia!” I Tre Moschettieri sta per cominciare… e vi sorprenderà!” Il trionfo dell’amicizia, ma anche il trionfo del potere e dell’ambizione in questa storia senza tempo dove “buoni” e “cattivi” combattono una lotta quasi archetipica mettendo al centro valori quali onore, fedeltà, onestà, troppo spesso messi in crisi dal mito dell’uomo contemporaneo e che i tre moschettieri portano fieri sulla punta delle loro spade. Accanto all’amicizia trova spazio anche l’amore, motore di ogni azione che qui si sublima nell’incontro tra D’Artagnan e Costanza, un amore che verrà spezzato dalla sete di vendetta dell’altra protagonista femminile, la perfida Milady. Il finale, come tutti i finali, riporterà l’equilibrio, ma lo spettatore andrà via con l’amaro in bocca. Chissà, forse perchè i “buoni” sono a un tratto diventati “cattivi”? Oppure perché è proprio la morte l’unico mistero che neanche l’uomo contemporaneo è riuscito a svelare. L’unico mistero che ci rende microscopici e vulnerabili. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
L’INFIORITA’ MENTALE DELLA DONNA
Un evergreen del pensiero reazionario tra musica e parole
in collaborazione con Pigra srl
con Veronica Pivetti
di Giovanna Gra
liberamente ispirato al trattato “L’inferiorità mentale della donna” di Paul Julius Moebius
con Anselmo Luisi
colonna sonora e arrangiamenti musicali Alessandro Nidi
costumi Nicolao Atelier Venezia
luci Eva Bruno
regia GRA&MRAMOR
L’idea che le donne siano state considerate, per secoli, fisiologicamente deficienti può suggerirci qualcosa? Il nostro spettacolo nasce da questa domanda e mette in scena testi che in pochi conoscono, fra i più discriminanti, paradossali e, loro malgrado, esilaranti scritti razionali del secolo scorso. Veronica Pivetti, moderna Mary Shelley ci racconta, grazie a bizzarre teorie della scienza e della medicina, l’unico, vero, orrorifico Frankenstein della storia moderna: la DONNA. “Come stanno le cose riguardo ai sessi? Un vecchio proverbio ci suggerisce: capelli lunghi, cervello corto”. Esordisce così Paul Julius Moebius – assistente nella sezione di neurologia di Lipsia – nel piccolo compendio “L’inferiorità mentale della donna” scritto nel 1900, opportunamente definito un evergreen del pensiero reazionario. Donne dotate di crani piccoli, peso del cervello insufficiente… secondo Moebius le signore sono provviste di una totale mancanza di giudizi propri. “Per giunta dopo poche gravidanze decadono e, come si dice molto volgarmente, rimbambiscono”. Non solo. Le donne che pretendono di pensare sono moleste e “la riflessione non fa che renderle peggiori”. A queste dichiarazioni fa eco il medico, antropologo, giurista e criminologo italiano Cesare Lombroso: le donne mentono e spesso uccidono, lo dicono i proverbi di tutte le regioni. Fortunatamente, i cervelli delle donne sane pesano più di quelli delle donne criminali. Ed ecco un rapido excursus su delitti eccellenti, per esempio quello compiuto da Agrippina, o da Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio. “Le donne hanno un solo nemico” rilancia Moebius “il tempo, a cui, però, dopo qualche anno di matrimonio soccombono, sia diventando sciocche, sia disseccandosi sotto forma di vecchie zitelle stravaganti”. Del resto, laddove si riscontra del talento, la psiche femminile manifesta un evidente ermafroditismo psichico. Sylvain Maréchal scrittore, avvocato e sedicente rivoluzionario, con il suo “Progetto di legge per vietare alle donne di leggere” sostiene che “imparare a leggere è per le donne qualcosa di superfluo e nocivo al loro naturale ammaestramento”, d’altro canto “la ragione vuole che le donne contino le uova nel cortile e non le stelle nel firmamento”. Qui per tutte le informazioni.
scene Laura Benzi
costumi Lucia Mariani
musiche Massimo Cordovani
disegno luci Gianluca Cappelletti
assistente alla regia Michela Nicolai
Direttore di scena Davide Zanni
sarta Debora Pino
scenotecnica ROMASCENOTECNICA
organizzazione Rosi Tranfaglia
una produzione Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale • TSV – Teatro Stabile del Veneto
scritto e diretto GIAMPIERO RAPPA
L’uomo dei sogni: una commedia divertente e surreale che sfida l’incubo della vita reale. Giovanni, conosciuto nel mondo dei fumetti come Joe Black, è un disegnatore di grande talento ed esperienza. La sua vita, però, è stata sconvolta da un evento che lo ha fatto precipitare in un abisso così profondo da spingerlo a ritirarsi dal mondo, cercando rifugio nella solitudine della sua casa-studio, lontano dalle persone e dagli impegni di lavoro. La commedia prende vita nell’oscurità della notte, trasformando la sua casa in un teatro di sogni inquietanti e visioni surreali. Ogni notte, la sua casa si anima di incubi che sembrano reali: gli eroi che aveva scartato dai suoi fumetti, gli amici e i familiari della vita quotidiana lo tormentano incessantemente, creando un vortice di illusioni e realtà. Il ritorno di sua figlia dalla Nuova Zelanda segna un punto di svolta: Viola, una montatrice emergente nel mondo del cinema internazionale, cerca di sostenere il padre ma porta con sé una notizia che lo scuote ulteriormente. Come evolverà il rapporto tra padre e figlia in questo momento di tormento e scoperta? Riuscirà Joe Black a emergere dal baratro della depressione e a fare pace con i suoi demoni interiori? Ma soprattutto, il pubblico saprà distinguere tra la realtà e il frutto delle visioni di Joe, scena dopo scena? L’uomo dei sogni trascina lo spettatore nel mondo onirico del protagonista, a sentire la sua angoscia, ma anche a ridere dei suoi incontri bizzarri e a riflettere sulla sottile linea che separa i sogni dalla realtà. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Vascello
EDIPO RE
di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento e regia Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe
assistenti alla regia Paolo Costantini, Andrea Lucchetta
costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
La verità che Edipo sta cercando è chiara. Ma la luce di quella verità, per lui che è il campione della chiarezza, è troppo forte e infine lo acceca. Considerato uno dei testi teatrali più belli di tutti i tempi, Edipo re di Sofocle rappresenta il simbolo universale dell’eterno dissidio tra libertà e necessità, tra colpa e fato. Arrivato al potere grazie alla sua capacità di “far luce attraverso le parole”, abilità che gli aveva permesso di sconfiggere la Sfinge che tormentava la città di Tebe, Edipo è costretto, attraverso una convulsa indagine retrospettiva, a scoprire che il suo passato è una lunga sequenza di orrori e delitti, fino a riconoscere la drammatica verità delle ultime, desolate parole del Coro: “Non dite mai di un uomo che è felice, finché non sia arrivato il suo ultimo giorno”. In una città che non vediamo mai, un lamento arriva da lontano. È Tebe martoriata dalla peste. Un gruppo di persone non dorme da giorni. Come salvarsi? A chi rivolgersi per guarire la città che muore? Al centro della scena, al centro della città, al centro del teatro c’è lui, Edipo. Lui, che ha saputo illuminare l’enigma della Sfinge con la luce delle sue parole, si trova ora di fronte alla più difficile delle domande: chi ha ucciso Laio, il vecchio re di Tebe? La risposta che Edipo sta cercando è chiara fin dall’inizio, e tuona in due sole parole: “sei tu”. Ma Edipo non può ricevere una verità così grande, non la può vedere. Preferisce guardare da un’altra parte. Sarà la voce di Apollo, il dio nascosto, il dio obliquo, a guidarlo attraverso un’inchiesta in cui l’inquirente si rivelerà essere il colpevole. Presto si capirà che il medico che avrebbe dovuto guarire la città è la malattia. Perché è lui, Edipo, l’assassino e quindi la causa del contagio. La luce della verità è il dono del dio. Ma anche la sua maledizione. La nuova regia di Andrea De Rosa, che torna per l’occasione a lavorare con Fabrizio Sinisi dopo la fortunata collaborazione sul testo di Processo Galileo, parte dalla storia di Edipo re che ruota attorno alla verità, proclamata, cercata e misconosciuta. “Il sapere è terribile, se non giova a chi sa.” Nello spettacolo di De Rosa, Edipo è interpretato da Marco Foschi, affiancato da Roberto Latini nel ruolo di Tiresia, da Frédérique Loliée nella parte di Giocasta, Fabio Pasquini di Creonte e da un coro dalle molteplici voci di Francesca Cutolo e Francesca Della Monica. La messa in scena di Edipo re si avvale dell’intervento artistico di Graziella Pepe ai costumi, Pasquale Mari alle luci e di G.U.P. Alcaro ai suoni, questi ultimi, tra le molte collaborazioni, hanno affiancato De Rosa in Solaris. Le scene sono state affidate a Daniele Spanò. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro Argentina
NOVEMBER
di David Mamet
regia Chiara Noschese
con Luca Barbareschi, Chiara Noschese, Simone Colombari, Nico Di Crescenzo, Brian Boccuni
scene Lele Moreschi
foto Federica Di Benedetto
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Cucuncia Entertainment s.r.l.
November è una macchina da guerra di comicità, fatta di continui cambi di ritmi, ripartenze spiazzanti, una pièce per attori equilibristi e funambolici. È una partitura incalzante, giocata con umorismo cinico, di cui solo David Mamet è capace. È il novembre dell’anno delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti e le possibilità di rielezione del Presidente in carica Charles Smith sembrano scarse: gli indici di gradimento sono in calo, i suoi soldi stanno finendo e la guerra nucleare potrebbe essere imminente. Il Presidente, però, non sembra avere nessuna intenzione di arrendersi. Scritto nel 2007, all’inizio della grande recessione, una delle più grandi crisi economiche di sempre, November è uno spaccato ferocemente esilarante di un Paese dove, se è vero che il fine giustifica i mezzi, certamente tutto è possibile quando la sopravvivenza del sogno americano coincide con la propria. Qui per tutte le informazioni.
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Édouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann. Tassis Christoyannis (Werther), Véronique Gens (Charlotte), Hélène Carpentier (Sophie), Thomas Dolié (Albert), Matthieu Lécroart (Le Bailli), Artavazd Sargsyan (Schmidt), Laurent Deleuil (Johann / Brühlmann). Children’s Choir of the Zoltán Kodály Hungarian Choir School, Borbála Sapszon e Márton Tóth (maestri del coro), Hungarian National Philharmonic Orchestra, György Vashegyi (direttore). Registrazione: Budapest: Béla Bartók National Concert Hall, 18-22 febbraio 2023. 2 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane OF 40.
La Fondazione Palazzetto Bru Zane si è sempre distinta per presentare al grande pubblico titoli poco o punto conosciuti del repertorio francese. “Werther” non rientra certo in questa categoria essendo dell’opera transalpina uno dei titoli più amati e conosciuti. Quello che rende particolare questa proposta è la versione eseguita, quella – apocrifa – che trascrive la parte di Werther per baritono.
L’idea di una versione baritonale aveva tentato a lungo Massenet che nel 1893 aveva ipotizzato un adattamento da destinare a Victor Maurel – il primo interprete di Jago e Falstaff – che prevedeva una revisione totale della partitura con la parte di Albert riproposta in chiave tenorile. Il progetto non andò in porto e di un Werther baritono – questa volta senza intervento diretto di Massenet – si tornò a parlare nel 1901 a Pietroburgo quando il baritono Mattia Battistini interpretò la parte – forse riadattandola lui stesso. La nuova versione si limitava, però, a trascrivere la parte del protagonista lasciando invariato il contesto con il rischio che una sovrabbondanza di voci gravi potesse appesantire la partitura. Problema effettivamente reale che richiede particolare sensibilità da parte degli interpreti e per fortuna l’edizione proposta è semplicemente esemplare.
György Vashegy lo abbiamo spesso apprezzato come esecutore di opere barocche e neoclassiche. Alle prese con un repertorio diverso dimostra di sapersi adattare molto bene alle nuove realtà espressive. Non cerca letture insolite o alternative ma crede fortemente al valore e alla bellezza di questa musica che tenta di valorizzare al massimo. I tempi sono distesi, cantabili – l’attenzione alle voci si fa ognora apprezzare – le sonorità morbide e avvolgenti. Un senso di soffusa melanconia pervade l’intera partitura, ne diventa cifra stilistica dominante e se i momenti più drammatici non mancano della giusta imperiosità è nel soffuso lirismo che troviamo la cifra più autentica di questa lettura. La Filarmonica di Stato ungherese è una compagine orchestrale semplicemente strepitosa capace di creare un velluto sonoro di luminosa e cangiante bellezza, si ascolti a titolo d’esempio il setoso mormorare degli archi che accompagna “Ô nature, pleine de grâce”. Gli assoli spesso presenti in partitura – come quello di violoncello, violino e flauto che accompagna l’entrata di Werther – sono di un’eccellenza che rasenta la perfezione e che si esalta nell’ottimo suono della registrazione.
Tassis Christoyannis compare spesso nei titoli della fondazione ma qui firma il suo capolavoro. La voce è splendida, chiara, luminosa, quasi tenorile nel colore ma con un fondo baritonale di umana sofferenza che arricchisce e rende più sfumata l’interpretazione. Il canto è nobilissimo, morbido, elegante, le mezze voci – perfettamente eseguite – hanno una poesia che raramente si ascolta. La dizione francese semplicemente perfetta gli permette di sfumare ogni parola, di cogliere ogni inflessione. Il suo è un Werther aristocratico e introverso, lontano dalla passionalità con cui l’hanno letto a volte i tenori ma più vicino – nella sua sensibilità così alta rispetto al mondo circostante – all’originale goethiano.
Quasi sugli stessi livelli la Charlotte di Véronique Gens. Il forse è dovuto al fatto che il mezzosoprano belga qualche durezza in acuto la tradisce ma anche nel suo caso la qualità superba dell’interprete fa perdonare qualche nota sporcata. La voce è calda, forse priva di quel sentore di giovinezza che la ventenne Charlotte dovrebbe avere sostituita da una dolcezza estremamente femminile e quasi materna. Il suo è un canto di commovente sincerità, educato, composto, mai eccessivo, si sente un’anima che palpita sotto un sistema di costrizioni che non può spezzare. Culmine della sua interpretazione la scena della lettera tutta rivolta in un tormento intimo e raccolto reso con esemplare purezza stilistica.
Thomas Dolié è un Albert magnificamente cantato e ben diversificato sul piano vocale rispetto a Werther evitando il rischio maggiore di questa versione. Interpretativamente tratteggia un personaggio un po’ rigido ma nell’insieme bonario, carnefice suo malgrado dell’amico. Hélène Carpentier è un soprano lirico con una voce più ricca e sonora più di quanto si sia abituati per Sophie. Il timbro caldo e morbido da ragione agli inviti di Albert. Matthieu Lécroart ha una voce forse un è po’ chiara per la parte dell’anziano padre di Charlotte ma canta davvero molto bene. Artavazd Sargsyan – frequente presenza in queste registrazioni – e Laurent Deleuil sono semplicemente impeccabili nella coppia degli amici gaudenti.
Teatro dell’Opera di Roma Stagione Lirica 2024/25
“TOSCA”
Melodramma in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Tosca ANNA NETREBKO
Mario Cavaradossi YUSIF EIVAZOF
Il Barone Scarpia AMARTUVSHIN ENKBATH
Angelotti GABRIELE SAGONA
Sagrestano DOMENICO COLAIANNI
Spoletta SAVERIO FIORE
Sciarrone LEO PAUL CHIAROT
Carceriere FABIO TINALLI
Un Pastorello IRENE CODAU
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Alessandro Talevi
Scene Adolf Hohenstein
ricostruite da Carlo Savi
Costumi Adolf Hohenstein
ricostruiti da Anna Biagiotti
Luci Vinicio Cheli
Allestimento del Teatro dell’Opera di Roma ricostruito sui bozzetti originali della prima esecuzione del 1900 in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi
Roma, 01 marzo 2025
Per celebrare i 125 anni dalla prima esecuzione di Tosca di Giacomo Puccini che avvenne proprio al Costanzi il 14 gennaio del 1900 presenti in sala l’autore, Sua maestà la regina Margherita e le massime autorità dello Stato di allora, il Teatro dell’Opera di Roma ha pensato di riprendere lo spettacolo pensato per quella prima assoluta con le scene ed i costumi di Adolf Hohenstein resa possibile grazie al prezioso e sapiente lavoro di recupero svolto da Carlo Savi e Anna Biagiotti ed alla regia di Alessandro Talevi ed andata in scena più volte con diversi cast a partire dal 2015. La ripresa attuale è stata a sua volta suddivisa nell’arco della stagione in corso in tre gruppi di recite con cast diversi. Le scene dipinte ed i costumi molto belli ben restituiscono la romanità dell’ambientazione del dramma, in modo tale da non divenire protagonisti ma logica e naturale cornice all’interno della quale diviene possibile seguire lo sviluppo di una vicenda tra l’altro abbastanza lineare senza distrazioni, sovrapposizioni o interferenze di sorta. Nelle recite attuali grazie alla presenza di un cast di altissimo livello e soprattutto di un direttore d’orchestra di assoluta esperienza in questo repertorio anche la regia ormai nota e più che collaudata ha trovato un migliore ritmo, una naturale spontaneità e con alcune piccole ma divertenti varianti una maggior freschezza tale quasi da apparire nuova. Assolutamente perfetta è stata la sincronia di alcune azioni sceniche con la musica e soprattutto misurata e mai distraente o priva di significato la cura e la realizzazione delle controscene anche dei personaggi minori. La direzione è stata affidata al maestro Daniel Oren, accolto con affetto dal pubblico romano, il quale con il proprio indiscutibile carisma e un assoluto controllo dell’orchestra che gli consente di seguire i cantanti in ogni minima variazione espressiva estemporanea sia vocale che scenica, ha saputo donare al pubblico una Tosca vivace, ricca di sfumature ed intrisa di passione e poesia. Due esempi per tutti, ma non c’è stato passaggio che sia stato trascurato e non illuminato da questa singolare e pertinente capacità espressiva, la conclusione del “Vissi d’arte” con un interminabile ed estenuato pianissimo del soprano e l’inizio del terzo atto con i suoni e, verrebbe da dire, i profumi dell’alba romana e i rintocchi delle campane. Il Coro diretto dal maestro Ciro Visco ha rinnovato il successo delle recite precedenti grazie all’altissimo livello ormai raggiunto, brillando ancora una volta per solennità e bellezza di suono sia nel Te Deum che nella cantata del secondo atto. Nel ruolo eponimo attesa protagonista è stata Anna Netrebko, autentica primadonna nel personaggio e nella vita, probabilmente grazie all’intesa scattata con il direttore e in forza di una tenuta vocale assoluta, di una musicalità appropriata e della sua nota, spiccata capacità di calamitare l’attenzione del pubblico, ha offerto un ritratto di Tosca commovente, intenso e sempre autenticamente credibile. Amartuvshin Enkbat con voce dal timbro morbido e scuro ed una recitazione misuratissima ma capace di esprimere senza bisogno di eccessi e sottolineature, ha creato uno Scarpia aristocratico, insinuante, feroce e perverso secondo la migliore tradizione. Cavaradossi era impersonato da Yusif Eivazov il quale ha tratteggiato un’immagine del personaggio simpatica e giovane grazie ad una recitazione spigliata e ad una voce dal timbro non immediatamente accattivante ma sapientemente piegata a tutte le necessarie intenzioni espressive e in grado di trovare specie nell’ultimo atto accenti di sincera e partecipata commozione. Saverio Fiore ha ripetuto con evidente successo il suo ormai più che collaudato Spoletta, impeccabile e sicuro sul piano musicale e vocale e caratterizzato in questa felice serata da una maggiore autorevolezza scenica. Domenico Colaianni è tornato con successo ad interpretare il personaggio del Sagrestano conferendogli un autentico odore di sagrestia romana. Alla realizzazione del successo della serata hanno recato un non indifferente contributo gli interpreti dei personaggi di Sciarrone, del Carceriere, di Angelotti e del pastorello, rispettivamente Leo Paul Chiarot, Fabio Tinalli, Gabriele Sagona e Irene Codau. Sentiti ed interminabili applausi alla sortita della protagonista, ad ogni atteso appuntamento e alla fine per tutti con tanto di lancio di fiori, alla conclusione di una felicissima serata nella quale, nonostante un cast di alto livello e la presenza di una primadonna assoluta il vero trionfatore è stato il direttore d’orchestra.
Per la Domenica definita un tempo di Quinquagesima, ossia quella che precede l’avvio della Quaresima, il passo evangelico previsto è tratto da Luca (cap.18 vers.35-43):“Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: “Passa Gesù, il Nazareno!”. Allora gridò dicendo: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Egli rispose: “Signore, che io veda di nuovo!”. E Gesù gli disse: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato”. Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio. La terza Cantata, in ordine cronologico, prevista per questa festività è “Herr Jesu Christ, wahr’ Mensch und Gott” BWV 127 eseguita la prima volta l’11 febbraio 1725. Una partitura che si preoccupa soprattutto della prima parte del Vangelo di Luca: “…prese con sé i Dodici e disse loro: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo: verrà infatti consegnato ai pagani, verrà deriso e insultato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà”, con l’annuncio della Passione e a dispetto del suo taglio formale alquanto ridotto deve essere considerata come se fosse stata concepita nello spirito della Passione. Alla base della partitura un lied di Paul Eber (1511-1569) scritto nel 1562 in morte del figlio e al quale era stata adattata una melodia del Psalterio ugonotto di Claude Goudimel (1514 – 1572) del 1565. Un lied funebre nel quale si richiama il martirio della croce che Bach però sviluppa con la delicata ed amorevole citazione nel Coro iniziale (Nr.1) del ‘Christ lag in Todesbanden’, cioè l’Agnus Dei tedesco presente nelle parti strumentali, mentre nel Basso Continuo troviamo la citazione della melodia di Hans Leo Hassler per il Corale Herzlich tut mich verlangen che domina nella possente impalcatura della Passione secondo Matteo. A questa prima pagina straordinaria espressività, dall’incedere patetico e sviluppato in un ritmo puntato, seguono un recitativo secco (Nr.2) e una delle più belle arie con “da capo” della produzione bachiana. La voce del soprano dialoga con un oboe su uno sfondo armonico realizzato da una coppia di flauti e dal Continuo, ma nella sezione centrale intervengono gli archi in pizzicato con il compito di imitare il suono della “sterbeglocken”, la campanella dei morti, citata nel testo e che ricorre in tre altre Cantate bachiane (BWV 8, 73 e 85). Il nr.4 (recitativo e arioso del basso) si sviluppa in un modo del tutto particolare. Dopo un breve recitativo-arioso, accompagnato dagli archi e da una tromba, con un disegno ostinato, si alternano tre episodi in stile “secco” con la citazione della melodia del Corale in concomitanza dei versi del lied originale con tre ritornelli in 6/8 dal carattere impetuoso e prorompente, in netto contrasto con il procedere tranquillo dei recitativi, cogliendo in tal modo l’opposizione dei due concetti espressi nel testo: la distruzione del cielo e della terra ad opera del fuoco e la fermezza del credente. Un semplice Corale pone fine alla splendida partitura, ultima espressione della musica “figurata” consentita nelle Domeniche precedenti la Pasqua.
Nr. 1 – Coro
Signore Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio,
tu che hai sofferto il martirio, l’angoscia, l’oltraggio,
che infine sei morto per me sulla croce
e per me hai ottenuto la grazia dal tuo Padre,
ti prego, per le tue amare sofferenze:
abbi pietà di me peccatore.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
Quando colpisce il terrore nell’ultima ora,
e quando il sudore freddo della morte
invade le membra già rigide,
quando la mia lingua non può emettere altro che
sospiri ed il cuore si spezza:
allora è sufficiente sapere per fede
che Gesù è accanto a me,
lui che ha patito la sofferenza con pazienza
mi accompagnerà in questo difficile viaggio
e mi concederà il riposo.
Nr.3 – Aria (Soprano)
La mia anima riposerà nelle mani di Gesù,
quando la terra ricoprirà il mio corpo.
Ah, richiamatemi presto, campane funebri,
non ho alcuna paura della morte,
perché il mio Gesù mi sveglierà di nuovo.
Nr.4 – Recitativo e Arioso (Basso)
Quando un giorno le trombe suoneranno
e quando la costruzione del mondo
che sfiora la volta celeste
crollerà sgretolandosi,
allora pensa con favore a me, mio Dio;
quando il tuo servo comparirà per essere giudicato,
quando i miei stessi pensieri mi accuseranno,
allora solo tu,
o Gesù, sarai il mio difensore
e per il conforto della mia anima dirai:
In verità, in verità ti dico:
il cielo e la terra passeranno nel fuoco,
ma chi crede resterà per sempre.
Non andrà incontro al giudizio
e non conoscerà mai la morte.
Dunque stringiti
a me, mio bambino:
distruggerò con mano forte e premurosa
i potenti legacci della morte.
Nr.5 – Corale
Ah, Signore, perdona tutte le nostre colpe,
aiutaci ad aspettare pazientemente
che giunga la nostra ultima ora,
rafforza sempre la nostra fede,
affinché crediamo nella tua Parola
fino a riposare nella beatitudine.
Traduzione Emanuele Antonacci
Sabato 1 marzo
Ore 09.56
“TOSCA”
Direttore Riccardo Muti
Regia Luca Ronconi
Interpreti: Maria Guleghina, Salvatore Licitra, Leo Nucci…
Domenica 2 marzo /Sabato 8 marzo
Ore 10.00
“I 7 peccati capitali dei piccolo borghesi”
Musica Kurt Weill
Direttore Ferruccio Scaglia
Coreografie Ugo Dell’Ara
Interpreti: Taina Beryl, Carlo Gaifa, Ernesto Gavazzi, Gastone Sarti…
RAI 1988
Lunedì 3 marzo
Ore 10.00
“CARMEN”
Musica Georges Bizet
Direttore Marco Armiliato
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti: Clémentine Margaine, Gilda Fiume, Brian Jadge, Luca Micheletti…
Martedì 4 marzo
Ore 10.00
“THAIS”
Musica Jules Massenet
Direttore Gianandrea Noseda
Regia Stefano Poda
Interpreti: Barbara Frittoli, Lado Atanaeli…
Torino, 2009
Mercoledì 5 marzo
Ore 10.00
“MANON”
Musica Jules Massenet
Direttore Alfredo Simonetto
Regia Silverio Blasi
Interpreti: Rosanna Carteri, Nicola Filacuridi, Mario Borriello…
RAI, 1956
Giovedì 6 marzo
Ore 10.00
“LA SONNAMBULA”
Musica Vincenzo Bellini
Direttore Christian Bedea
Regia Pier Luigi Samaritani
Interpreti Lucia Aliberti, Aldo Bertolo, Ferruccio Furlanetto, Corinna Vozza, Renata Baldisseri, Giovanni Savoiardo.
Venerdì 7 marzo
Ore 09.36
“LA TRAVIATA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Carlo Rizzi
Regia Giuseppe Bertolucci
Interpreti: Darina Takova, Giuseppe Sabbatini, Vittorio Vitelli…
Ore 21.15
“TURANDOT”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Donato Renzetti
Regia Giuliano Montaldo
Interpreti: Daniela Dessì, Massimo La Guardia, Ramaz Chikviladze, Mario Malagnini, Roberta Canzian, Francesco Verna, Enrico Salsi, Manuel Pierattelli
Genova, 2012
Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, di Torino, Stagione sinfonica 2024-25
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Marc Albrecht
Pianoforte Marie-Ange Nguci
Richard Strauss: “Burleske” in re minore per pianoforte e orchestra; Sinfonia domestica op.53
Torino, 21 febbraio 2025.
Un “tutto Strauss Richard”, senza Eroe, né Zaratustra e neppure Till, poteva suscitare le cautele di un pubblico ormai restio ad accettare programmi non extranoti. l’Auditorio RAI risulta infatti sconsolatamente semi-occupato. A frequentarlo ormai, se assenti gli studenti invogliati da ingressi economicissimi, rimangono gli abbonati di sempre, almeno quelli risparmiati dal COVID. Un peccato e un’occasione mancata per gli assenti. La Burleske per pianoforte e orchestra che è, senza dubbio, un’opera fantasiosa e fantastica, è stata interpretata magistralmente e arditamente dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, in gran spolvero, sotto la guida, dal composto entusiasmo, di Marc Albrecht. Si uniscono a questo fondamentale presupposto il superlativo virtuosismo e l’intensa sensibilità del gioco pianistico di Marie-Ange Nguci. La giovane pianista albano-francese, ormai quasi una habitué dell’Auditorio, ha sfoggiato in questo pezzo capriccioso, divertente e irto di difficoltà, un’impavida potenza di suono, da vincerla su un’orchestra che pur Albrecht non guida al risparmio. Senza nessuna compiacente corsia preferenziale riservata al pianoforte, ne è sortito comunque un complessivo ottimo esito che ha visto vincenti alla pari, al massimo livello di qualità, le due parti in causa: orchestra e solista. Il pezzo, a seconda di chi lo presenti, sconta una fama di diavoleria, più o meno nera, ineseguibile per le difficoltà tecniche della scrittura pianistica. Hans von Bülow, il grande direttore wagneriano, “capo” del ventiduenne Strauss nel Teatro di Meiningen, ne era stato il primo dedicatario ma, nonostante ciò, si rifiutò di suonarlo, causa l’eccessiva estensione richiesta alla mano sinistra. Ce la fece, nel 1890, cinque anni dopo la composizione, Eugen d’Albert, allievo di Liszt e principe tra i pianisti del tempo, che si trovò poi “amichevolmente” e definitivamente ringraziato e ripagato col nome, in bella evidenza, sul frontespizio della partitura a stampa. Le prime e le ultime note dello spartito non sono comunque appannaggio del pianoforte, ma del timpano e danno al pezzo un misterioso carattere di scherzo. Il timpanista che qui ha magistralmente martellato, per tutta la lunghezza del brano, le cinque grandi caldaie, impegnandosi in un quasi dialogo/confronto con il pianoforte, è stato un magistrale e impegnatissimo Gabriele Bartezzati. Ad un’esecuzione pianistica di magistrale livello, non poteva non succedere un bis, altrettanto strepitoso, della Nguci: Une Barque sur l’Océan dai Miroirs di Ravel. La pianista rinnova la particolare affinità che ha con le musiche del francese, non sfuggono al suo tocco e alla sua tastiera fascinosa e brillante né uno spruzzo d’acqua sulla fiancata dell’imbarcazione né un maroso dirompente. L’entusiasmo del pubblico è insopprimibile così come discreti sono gli imperturbabili ringraziamenti dell’artista. Il clima, a suo modo “leggero”, della Burleske cozza con l’armamentario sinfonico della Sinfonia Domestica. Il Maestro Albrecht fa di tutto per alleggerire una scrittura densissima. Per mantenere il racconto famigliare in un ambito intimamente domestico, i tempi si affrettano e le sonorità si diradano. Ma, alla fine, soprattutto dopo la dottissima, seppur anacronistica, doppia fuga, non si può sfuggire alla pleonastica, torrenziale autocelebrazione che l’autore fa della sua famiglia e, soprattutto, di sé stesso. Anche l’orchestra, ed è inevitabile, si galvanizza al turgore di un suono ricco e di una maestria di orchestrazione che ha pochi uguali. Il pubblico, pur con una certa freddezza, approva ed applaude.
Il settimo appuntamento con la stagione artistica dell’Opera Carlo Felice è Falstaff di Giuseppe Verdi. L’opera è in scena da venerdi 7 a giovedì 13 marzo 2025.
Maestro concertatore e direttore Jordi Bernàcer, regia di Damiano Michieletto ripresa da Andrea Bernard, scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti, video rocafilm Filmproduktion. Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova, Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti. Balletto
Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS.
Nel cast figurano Ambrogio Maestri (Sir John Falstaff), Ernesto Petti (Ford), Galeano Salas (Fenton), Blagoj Nacoski (Dottor Caius), Cristiano Olivieri (Bardolfo), Luciano Leoni (Pistola), Erika Grimaldi (Alice Ford), Caterina Sala (Nannetta), Sara Mingardo (Mrs. Quickly), Paola Gardina (Mrs. Meg Page).
Milano, MTM – Teatro Leonardo, Stagione 2024/25
“ROMEO E GIULIETTA”
di William Shakespeare traduzione Carmen Gallo
Romeo MARCOS PIACENTINI
Giulietta FRANCESCA MASSARI
Frate Lorenzo PIETRO DE PASCALIS
Mercuzio LORENZO FALCHI
Benvolio SIMONE DI SCIOSCIO
Tibaldo FRANCESCO GIORDANO
Balia DEBORA VIRELLO
Capuleti GAETANO CALLEGARO
Donna Capuleti FILIPPO RENDA
Paride FRANCESCO MARTUCCI
Principe Escalo SIMONE SEVERGNINI
Regia Antonio Syxty
Comportamenti e Azioni di Scena Susanna Baccari
Scene Chiara Salvucci
Costumi Giulia Giovanelli
Luci Fulvio Melli
Nuova produzione MTM – Manifatture Teatrali Milanesi
Milano, 23 febbraio 2025
Se si decide di mettere in scena “Romeo e Giulietta“ si deve in primo luogo affrontare la questione dell’iconicità della storia – che ci consente persino di omettere il nome dell’autore di un testo così conosciuto ad ogni livello. Spieghiamo meglio: il pubblico arriva in sala con delle aspettative molto precise su un testo come questo, e tradirle può essere il moto giustamente innovatore, come il peggiore dei passi falsi di un regista. Prendiamo atto che per Antonio Syxty sia esattamente la seconda di queste ipotesi: il “Romeo e Giulietta“ attualmente in scena al Teatro Leonardo di Milano contiene così tanti errori che è persino difficile dare spazio a tutti, sebbene proveremo ora a metterli perlomeno in ordine. Il primo riguarda la scelta del cast: ormai è consuetudine usare attori giovanissimi per mettere in scena questa vicenda, tuttavia questi attori devono avere una formazione e una consapevolezza del loro mestiere, alternativamente la regia deve essere in grado di formarli attivamente, proprio tramite il confronto col testo; è evidente che nessuna di queste cose abbia riguardato i protagonisti più giovani, che perlopiù sembrano usciti da un corso di lettura espressiva (il Romeo di Marcos Piacentini, il Benvolio di Simone di Scioscio), a volte con accenti sbagliati e vocalità di difficile piacevolezza (il Tebaldo di Francesco Giordano); altri, senza dubbio più apprezzabili, mostrano maggiore presenza scenica e vocale, ma impaccio sul piano dell’espressività, forse proprio per la giovane età (il Mercuzio di Lorenzo Falchi); unica interprete che riesca a raggiungere una prova omogenea e a tratti lodevole, per quanto ancora acerba sull’uso della voce e delle cadenze, è Francesca Massari, una Giulietta senz’altro sul piano fisico molto presente a se stessa, per quanto relegata dalla regia a una gamma espressiva decisamente preconfezionata. Non crediamo, tuttavia, che il lato più adulto del cast si distingua, invece, per interpretazioni magistrali: l’unico salvabile è Pietro de Pascalis nel ruolo di frate Lorenzo, che la regia qui trasforma in una specie di santona voodoo transgender: De Pascalis non si arrende alla scelta, del tutto peregrina e in generale portata avanti penosamente, di far recitare gli adulti in maniera antinaturalistica, e dunque costruisce un personaggio credibile, accurato, costruito non su grandi slanci, quanto su un bel repertorio di mezze tinte, impressioni, intenzioni silenziose e mai abbozzate. Gli altri, come anticipato, vengono coinvolti in un francamente inutile esercizio di stile, lo svuotamento dell’interpretazione di qualsivoglia appiglio logico, per rivestire la parola di un sapore vagamente straniato e novecentesco; e allora ecco Debora Virello impegnata in una balia che canticchia tutta la sua parte, aggirandosi come una mentecatta per il palco, Francesco Martucci (Paride) costretto in uno stato di costante libido, Gaetano Callegaro, un Capuleti che all’ascolto sembra il nano della loggia nera di David Lynch; a Filippo Renda, nel ruolo di donna Capuleti, invece, il gioco non riesce, infatti ci regala una bella interpretazione, sprezzante e sostenuta – nel suo caso lo straniamento giace nell’inversione sessuale e nel paradossale copricapo a punta. Infine, a suggellare un cast veramente male assortito, Simone Severgnini ci presenta un principe che interviene dal pubblico con un microfono, che forse vorrebbe sembrare (lo intuiamo dal costume) un arbitro di boxe d’altri tempi, ma la cui vocalità chiara, dall’eccessivamente dimessa espressività, mina la sua stessa credibilità. Come se questo già non bastasse, la regia, probabilmente volendo differenziare adulti e giovani sul piano dell’azione, non lascia che i giovani attori si fermino nemmeno un secondo, ottenendo un effetto “macachi allo zoo“ alla lunga insopportabile – è tutto un salire scendere correre sedersi rialzarsi cambiare posizione, come in un laboratorio di liceo, la cui responsabile è Susanna Baccari; altro lavoro mancato sul cast giovane è quello della dizione, che non significa solo dire “e” aperte o chiuse correttamente, ma anche lavorare per correggere cadenze ipocoristiche (e perlomeno Piacentini e Giordano ne avrebbero molto bisogno). Infine, una serie di piccole o grandi incongruenze, che non facilitano la fruizione del pubblico: perché ad accompagnare Romeo di nascosto a Verona c’è uno vestito come un Capuleti dell’inizio? E perché, se tutti combattono in maniera simbolica, senza mai nemmeno toccarsi, a un certo punto compare un pugnale vero e proprio? La coerenza interna sembra latitare. Infine, anche sull’apparato tecnico non possiamo fare troppo affidamento: se la scena di Chiara Salvucci è senza dubbio interessante, composta di casse, quadri ribaltati, un alternarsi di vuoti e pieni, alti e bassi, che contribuisce a dare dinamismo all’azione, le luci di Fulvio Melli, invece, sovente sono in ritardo sull’interprete, quando non lo lasciano direttamente in penombra, con effetti senza dubbio fascinosi, ma poco pratici; ma ammesso che fossero anche le migliori del mondo, certo non può bastare il contorno a salvare una produzione evidentemente fraintesa alla radice. Peccato, soprattutto per le molte scolaresche presenti in sala, e che probabilmente penseranno che fare l’attore voglia dire fare quello che si vuole col testo, anche quando fa innamorare generazioni da più di quattrocento anni. Foto Laila Pozzo
Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, Stagione Opera 2024-2025
“I DUE FOSCARI”
Tragedia lirica in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave ispirato all’omonima opera teatrale in versi di Lord Byron
Musica di Giuseppe Verdi
Francesco Foscari LUCA SALSI
Jacopo Foscari LUCIANO GANCI
Lucrezia Contarini MARILY SANTORO
Jacopo Loredano ANTONIO DI MATTEO
Barbarigo MARCELLO NARDIS
Pisana ILARIA ALIDA QUILICO
Fante MANUEL PIERATTELLI
Servo del Doge EUGENIO MARIA DEGIACOMI
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia Joseph Franconi Lee
Scene e costumi William Orlandi
Luci Valerio Alfieri
Coreografie Raffaella Renzi
Coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena
Allestimento ABAO di Bilbao e Teatro Verdi di Trieste, proprietà Fondazione Teatri di Piacenza e Fondazione Teatro Comunale di Modena
Modena, 23 febbraio 2025
Con I due Foscari, coetanei del veneziano Ernani, continua l’abbeverata verdiana al romanticismo d’Oltralpe: dopo Hugo, Byron. Venezianissimi, i Foscari, ma impossibili a rappresentarsi nella Venezia in cui ancora vivono gli stessi cognomi del Quattrocento: sicché finiscono sulla piazza romana, che Verdi approccia per la prima volta, dunque, con un soggetto marcatamente politico. Solo che qui i buoni sono l’uomo solo al potere e i suoi congiunti, e i cattivi sono i rappresentanti delle istituzioni repubblicane che quel potere limitano e controllano. Insomma è difficile, per noi, al giorno d’oggi, condividere un simile punto di vista: o forse no? Ecco il sadico giustizialismo del Consiglio dei Dieci: “Al mondo sia noto, che qui contro i rei, / presenti o lontani, patrizi o plebei, / veglianti son leggi d’eguale poter”. Insomma, niente di più del nostro “La legge è uguale per tutti”. Quindi, se è vero che nell’opera niente (o quasi niente) succede fino alla fine, l’unica azione scenica essendo l’accasciarsi del doge ucciso dal dolore, è vero però che di spunti per un regista il soggetto ne offre. Non a Joseph Franconi Lee, che riprende qui un vecchio spettacolo, scene e costumi di William Orlandi, vittima del proprio tempo. L’ingresso del prigioniero, i polsi cinti da largo catenone, lascia solo presagire l’improbabile lettino di torture che l’attende; e mentre le guardie marciano smarrite recando lunghe alabarde, le dame si dispongono in manierate pose. Convenzionale fino alla noia, insomma, sembra la caricatura di quello che chi non va mai all’opera si immagina debba essere il tipico spettacolo d’opera. C’è un solo motivo per riprenderlo l’ennesima volta: Luca Salsi. Dimenticate il principesco contegno di Bruson e il retorico eroismo di Nucci, perché il Doge di Salsi è umano, troppo umano. Autentico, semplice, schietto. Il fraseggio dispiega la consueta espressività sfaccettatissima, curatissima, accortissima, ch’è sempre la sua cifra particolare e vincente: e che, unitamente all’emissione slanciata e sicura, alla solidità e, almeno in certi lampi, alla timbratura pungente, ricorda parecchio Tito Gobbi. Il povero Luciano Ganci, colpito da un rovinoso incidente vocale durante la cabaletta della sua scena di sortita, ha concluso nondimeno la recita, cantando con fraseggio vario ed elegante, ottime intenzioni espressive, e il bel timbro luminoso e squillante che gli conosciamo —e che risplende con particolare felicità nell’acustica asciutta e limpida del Comunale di Modena. Gli incidenti purtroppo capitano; le voci più sono belle più sono delicate; e il pomeriggio, per una voce, non è come la sera. Completa il terzetto dei protagonisti Marily Santoro: voce fresca, dolcissima, ben timbrata, impavida e scaltra nell’impervia, a dir poco, scrittura. Molto bene anche il perfido e tonante Jacopo Loredano di Antonio Di Matteo, come pure le restanti parti di fianco. Piglio saldo ed energico, marciante e balzante anzichenò quello di Matteo Beltrami, che con sagacia e buon senso, con nettezza e fulgore, raccoglie assieme la sequela di numeri chiusi e, ad onta dei due intervalli, riesce a farne un dramma. Brilla con un’ottima prova l’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini e si conferma volitivo e sanguigno, autentiche qualità verdiane, il Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati. La sala ha dimostrato una giusta, intelligente ed affettuosa comprensione verso Ganci, e ha riservato un glorioso trionfo a Salsi; trionfo certificato e suggellato dalla presenza di un contestatore solitario, a difendere la vitalità e l’autonomia di giudizio del nostro, preziosissimo, pubblico emiliano. Foto ©Gianni Cravedi
Roma, Teatro Parioli Costanzo
IL VEDOVO
con Massimo Ghini, Paola Tiziana Cruciani
regia di Ennio Coltorti
dal film di Dino Risi
adattamento di Ennio Coltorti e Gianni Clementi
e con Giuseppe Gandini, Leonardo Ghini, Irene Girotti, Diego Sebastian Misasi, Tony Rucco, Tomaso Thellung
Scene Andrea Bianchi
Costumi Annalisa Di Piero
Musiche Davide Cavuti
Roma, 26 febbraio 2025
“Io ti ammazzo, Elvira. Io ti ammazzo!” – Alberto Nardi, Il vedovo (1959)
Siamo nel cuore del boom economico, un’Italia febbrile e palpitante che si protende verso il futuro con la foga di chi ha lasciato alle spalle le macerie della guerra e anela al riscatto attraverso la modernità. È l’epoca in cui l’ambizione si confonde con l’illusione, in cui il confine tra ascesa e rovina si assottiglia pericolosamente. Figure come il commendator Alberto Nardi incarnano questa tensione: convinto di essere un genio imprenditoriale, si muove goffamente in un panorama economico spietato, rivelandosi più un clown tragico che un visionario. Alberto, giovane industriale romano, possiede una prestanza fisica che non trova riscontro in un’intelligenza altrettanto vigorosa. La sua spregiudicatezza è un’illusione, la sua audacia negli affari una fragile impalcatura destinata a crollare al primo soffio di realtà. Accanto a lui, la moglie Elvira Almiraghi è l’esatto opposto: affermata donna d’affari milanese, spietata e lungimirante, domina con sicurezza il panorama finanziario dominato dagli uomini. Il loro matrimonio è una partita a scacchi, un legame di potere che per Elvira è un ulteriore strumento di controllo e per Alberto una prigione dorata da cui sogna di fuggire. Solo quando il destino gli offre l’illusione di un riscatto – per quanto infame – Alberto sente di poter finalmente cambiare la sua sorte. Trasporre un classico della commedia all’italiana come “Il vedovo” di Dino Risi sulla scena teatrale era un’impresa gravida di insidie. Ennio Coltorti e Gianni Clementi, curatori dell’adattamento, hanno scelto un approccio di rigorosa fedeltà al testo originale, evitando il rischio di una reinterpretazione arbitraria, ma forse rinunciando all’opportunità di una rilettura più audace. Tuttavia, è proprio questa fedeltà a costituire il fascino dell’allestimento, che si colloca con rispettoso equilibrio tra omaggio e rivisitazione. Massimo Ghini, nei panni di Alberto Nardi, evita saggiamente l’imitazione di Alberto Sordi, consapevole dell’inaccessibilità di un modello tanto iconico. La sua interpretazione oscilla tra il grottesco e il caricaturale, accentuando la farsesca inettitudine del personaggio. Paola Tiziana Cruciani, invece, imprime a Elvira una connotazione più spiccatamente popolare rispetto alla raffinata, algida crudeltà di Franca Valeri. Se questa scelta rende il personaggio più accessibile al pubblico, lo priva tuttavia di quella sottigliezza che lo rendeva tanto letale nel film originale. Ne deriva una dinamica che appare più sbilanciata, meno calibrata rispetto all’equilibrio perfetto tra cinismo e ironia che aveva reso la pellicola un capolavoro. La regia di Coltorti ricostruisce con meticolosità l’atmosfera degli anni ’50, senza tentare di attualizzarla. Una scelta che, se da un lato preserva il fascino di un’epoca, dall’altro rischia di risultare statica per uno spettatore contemporaneo. L’Italia raccontata in “Il vedovo” è un Paese che non esiste più, un mondo in cui il capitalismo rampante era ancora terreno fertile per illusioni grandiose e disfatte clamorose. Se il remake cinematografico del 2013 con Fabio De Luigi e Luciana Littizzetto ha tentato di trasporre la vicenda nell’oggi – con risultati poco convincenti – qui si è preferito non rischiare, restituendo piuttosto un affresco fedele, ma inevitabilmente ancorato a un passato che potrebbe non risuonare più con la stessa urgenza. La messinscena si avvale di un cast di supporto solido e affiatato: Giuseppe Gandini, Leonardo Ghini, Irene Girotti, Diego Sebastian Misasi, Tony Rucco e Tomaso Thellung delineano con precisione i comprimari, contribuendo a mantenere vivace il ritmo della pièce. La scenografia di Andrea Bianchi, accurata nella sua ricostruzione degli ambienti borghesi dell’epoca, dialoga efficacemente con i costumi di Annalisa Di Piero, che aggiungono un ulteriore elemento di verosimiglianza. Le musiche di Davide Cavuti accompagnano con discrezione lo sviluppo della vicenda, senza mai imporsi sulla narrazione. Se c’è un aspetto in cui questo adattamento riesce con piena efficacia, è nel mantenere intatta la spietata ironia della storia originale. Dietro la superficie di una commedia, si cela un ritratto implacabile di un’Italia in cui il denaro e il potere regolano ogni relazione umana. Il fallimento di Alberto non è solo quello di un uomo, ma di un’intera classe sociale, illusa di poter scalare il successo senza le capacità necessarie per sostenerlo. L’elemento più moderno e universale di questa vicenda sta proprio nella sua dinamica di potere: il gioco eterno tra chi domina e chi soccombe, tra chi si muove nel mondo con disinvoltura e chi ne è irrimediabilmente vittima. Forse l’unico limite dello spettacolo è la sua eccessiva prudenza. La commedia di Risi, nella sua epoca, fu uno sguardo spregiudicato su un Paese in piena trasformazione, un monito che celava dietro la risata una critica sociale affilata. Questo adattamento, pur mantenendo viva l’anima dell’originale, si arresta un passo prima di osare una lettura più audace. Una rilettura che avrebbe potuto attualizzare il testo, interrogandosi su cosa significhino oggi il fallimento, il potere, la sopraffazione economica. Tuttavia, nell’insieme, “Il vedovo” convince. Ghini e Cruciani riescono a mantenere viva la tensione scenica, alternando momenti di comicità irresistibile a scarti improvvisi di amara riflessione. L’applauso caloroso del pubblico sancisce il successo di uno spettacolo che, pur con qualche riserva, conferma il fascino inesauribile di una storia che ha ancora molto da raccontare. E, in fin dei conti, che sia cinema o teatro, innovazione o fedeltà, ciò che davvero conta è che il sipario si alzi sempre su un racconto capace di suscitare emozione.
Al Teatro Regio, dal 28 febbraio all’11 marzo 2025, va in scena Rigoletto, melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo. L’opera è presentata nel nuovo allestimento firmato da Leo Muscato, reduce dal recente successo per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, con il team creativo già vincitore del Premio Abbiati 2019 per Agnese di Ferdinando Paer: la scenografa Federica Parolini e la costumista Silvia Aymonino. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Regio segnaliamo il gradito ritorno del maestro Nicola Luisotti, interprete del repertorio italiano apprezzato in tutto il mondo. George Petean, uno dei più acclamati baritoni verdiani sia in Europa che negli Stati Uniti, interpreta il ruolo del titolo, affiancato dal soprano che ha già incantato il pubblico del Regio in Figlia del reggimento e Turandot, Giuliana Gianfaldoni, nel ruolo di Gilda, la figlia di Rigoletto; insieme a loro l’acclamato tenore Piero Pretti come Duca di Mantova, l’aristocratico dissoluto per cui Verdi ha scritto alcune delle arie più irresistibili del repertorio operistico. Alla guida del Coro del Regio è il maCon Rigoletto Giuseppe Verdi compose un capolavoro senza eroi, traboccante di pagine memorabili come «La donna è mobile», il duetto d’amore «È il sol dell’anima», la cabaletta «Cortigiani vil razza dannata». In questa straordinaria opera, Verdi riversò la sua ammirazione per Victor Hugo, il drammaturgo francese capace di creare congegni drammatici perfetti e di mescolare magistralmente comico e tragico, grottesco e sublime. Tra tutti i titoli di Hugo, il compositore considerava Le Roi s’amuse (Il re si diverte) «il miglior dramma dei tempi moderni», e nel 1851 realizzò il desiderio di trasporlo in musica con un’opera potente e senza tempo. La vicenda narra del giullare deforme Rigoletto, la cui cieca sete di vendetta lo condanna a perdere l’unico tesoro della sua vita, l’adorata figlia Gilda. estro Ulisse Trabacchin.
Leo Muscato, già autore di una precedente regia di Rigoletto, per la nuova produzione del Regio ha scelto di reinterpretare il capolavoro verdiano per metterne in evidenza il nucleo drammatico, con un allestimento ricco di simbolismo: «voglio restituire al pubblico l’essenza archetipica e dolente di Rigoletto. La sua doppia identità, la tensione tra sacro e profano e il mondo di specchi in cui si muove riflettono una società in disfacimento, ancora incredibilmente attuale. L’atmosfera decadente richiama anche suggestioni cinematografiche, come l’ultima scena di C’era una volta in America di Sergio Leone, in cui Robert De Niro si abbandona all’oblio nella fumeria d’oppio: il mondo gli appare distorto, quasi onirico, e la realtà si mescola con l’illusione. È questa la suggestione attraverso la quale racconto il terzo e ultimo atto di Rigoletto: la taverna di Maddalena e Sparafucile diventa un luogo rarefatto, permeato da un senso di attesa sospesa; qui Gilda osserva il Duca attraverso un velo di fumo, in un contesto dove i contorni della realtà si dissolvono, proprio come nel celebre film».
Nei ruoli principali, si alternano: Devid Cecconi (Rigoletto), Daniela Cappiello (Gilda), Oreste Cosimo (il Duca di Mantova). Completano il mosaico della produzione: Goderdzi Janelidze e Luca Tittoto (Sparafucile), Martina Belli e Veta Pilipenko (Maddalena), Siphokazi Molteno (Giovanna), Emanuele Cordaro (Monterone), Janusz Nosek (Marullo), Daniel Umbelino (Matteo Borsa), Tyler Zimmerman (Il conte di Ceprano), Albina Tonkikh (La contessa di Ceprano), Chiara Maria Fiorani (Il paggio della duchessa), Mattia Comandone e Alessandro Agostinacchio (Un usciere di corte). Molteno, Nosek, Umbelino, Zimmerman e Tonkikh sono artisti del Regio Ensemble. La nuova produzione si avvale delle luci di Alessandro Verazzi, Alessandra De Angelis è assistente alla regia, Chiara Previato assistente alle scene e Rossana Gea Cavallo assistente ai costumi
Pompei, Parco Archeologico
NUOVE SCOPERTE: LA MEGALOGRAFIA DELLA CASA DEL TIASO
Pompei, 26 febbraio 2025
Nel panorama degli studi sulla religiosità misterica dell’antichità, la recente scoperta di una megalografia a Pompei, emersa dagli scavi condotti nell’Insula 10 della Regio IX, rappresenta un contributo di primaria importanza per la comprensione del culto dionisiaco nel mondo romano. “Felici coloro che, dopo aver visto questi riti, prendono la strada dell’Ade: solo per loro c’è vita, per gli altri tutto è sofferenza“, scriveva Pindaro nel V secolo a.C., evocando la potenza iniziatica di culti riservati a una cerchia ristretta di adepti. In parallelo, Euripide nelle “Baccanti” descrive il furor dionisiaco come un’esperienza mistica e sovversiva, capace di travalicare i confini del razionale e proiettare l’iniziato verso una dimensione di estasi e rivelazione. La rappresentazione di tali dinamiche nei contesti pittorici pompeiani non è nuova, ma il rinvenimento di un nuovo ciclo decorativo in un contesto domestico suggerisce ulteriori approfondimenti sulla diffusione e sulla funzione sociale di tali immagini. La decorazione pittorica, distribuita lungo le pareti di un ampio triclinio, si configura come un eccezionale esempio di megalografia, in cui il tiaso dionisiaco è reso con un dinamismo plastico che esalta la gestualità frenetica delle baccanti e la vitalità sovrumana dei satiri. Il tema del sacrificio cruento, evidente nella rappresentazione di baccanti cacciatrici che reggono animali sgozzati, trova riscontro nelle pratiche rituali del culto dionisiaco, in cui la smembramento simbolico della vittima sacrificale era concepito come atto di partecipazione alla natura divina del dio. L’intensità scenica è accentuata dall’uso di espedienti illusionistici tipici del II Stile pompeiano, in cui le figure si stagliano su piedistalli dipinti, quasi fossero sculture che prendono vita. Il pittore, mediante una sapiente resa delle ombre e dei panneggi, gioca con l’ambiguità tra realtà e finzione, trasportando lo spettatore in un mondo sospeso tra il mito e la rappresentazione teatrale del sacro. Un ulteriore elemento di interesse è costituito dal fregio superiore, in cui si susseguono immagini di animali vivi e morti, tra cui cervi, cinghiali, uccelli e pesci. Questa sezione decorativa sembra richiamare la dimensione venatoria del culto, già attestata in contesti letterari e iconografici, e ribadisce il legame tra la sfera della natura selvaggia e il dionisismo. Il sacrificio, atto di comunione con la divinità, si intreccia così con il tema della caccia, in una narrazione per immagini che riflette la polisemia del mito dionisiaco. L’analisi archeologica del contesto stratigrafico ha permesso di datare il ciclo pittorico agli anni 40-30 a.C., epoca in cui il II Stile pompeiano raggiungeva il suo apice. Questo dato cronologico apre interessanti prospettive sulla funzione del triclinio affrescato: sebbene le immagini del tiaso dionisiaco siano spesso associate agli spazi di convivialità aristocratica, il loro impiego in un ambiente domestico pompeiano suggerisce che tali tematiche non fossero esclusivamente prerogativa delle elite senatoriali e sacerdotali, ma potessero costituire un riferimento identitario più ampio, legato a modelli culturali diffusi nell’Italia romana. Pompei, nelle sue ultime fasi di vita, appare dunque come un crogiolo di influenze religiose e artistiche, in cui il patrimonio iconografico ellenistico si innesta in un tessuto urbano in continua trasformazione. Edward Bulwer-Lytton, nel suo celebre romanzo “Gli ultimi giorni di Pompei”, descrive con toni vividi la città come un luogo di contrasti e mescolanze, in cui il sacro e il profano si intrecciano in una dimensione in cui l’imminenza della catastrofe sembra sospendere il tempo stesso. La recente scoperta della megalografia dionisiaca offre una nuova chiave di lettura per comprendere il ruolo delle immagini sacre in un contesto di vita quotidiana, suggerendo che, ben oltre la loro funzione ornamentale, esse fossero strumenti di costruzione dell’identità culturale e di mediazione tra l’umano e il divino. L’indagine archeologica non si ferma qui: gli scavi nella Regio IX stanno portando alla luce nuove evidenze che contribuiranno a ridefinire il quadro della pittura pompeiana di età tardorepubblicana. La domus che ospita il fregio dionisiaco rivela una complessità architettonica degna di ulteriori approfondimenti, con la presenza di ambienti termali, un sacrario decorato con allegorie delle stagioni e un salone con scene troiane, a conferma del ruolo di questi spazi come luoghi di rappresentazione sociale e di autorappresentazione dei committenti. Il Parco Archeologico di Pompei, consapevole dell’importanza di questo rinvenimento, ha predisposto un programma di valorizzazione che prevede l’apertura al pubblico delle aree in corso di scavo, offrendo ai visitatori l’opportunità di osservare da vicino il processo di riscoperta e interpretazione del passato. Ancora una volta, Pompei dimostra la sua capacità di restituire frammenti di un mondo perduto, in cui l’arte, la religione e la vita quotidiana si intrecciano in un dialogo continuo tra memoria e riscoperta.
Roma, Museo del Corso Polo Museale di Roma
PICASSO LO STRANIERO
ideata e curata da Annie Cohen-Solal
con la collaborazione di Johan Popelard del Musée national Picasso-Paris organizzata dalla Fondazione Roma in collaborazione con Marsilio Arte
Roma, 26 febbraio 2026
“Non si evolve un’arte. Si evolve solo l’artista” affermava Pablo Picasso, sottolineando la sua costante ricerca di un linguaggio visivo in grado di oltrepassare le convenzioni e ridefinire il rapporto tra arte e realtà. L’artista spagnolo, una delle figure più influenti della modernità, ha attraversato epoche e movimenti senza mai aderire a un’estetica univoca, ma reinventandosi costantemente. La sua parabola esistenziale e artistica è intrinsecamente legata alla condizione dell’esule: uno straniero in Francia, un innovatore spesso incompreso, un outsider che ha saputo trasformare l’assenza di appartenenza in una forza creativa inarrestabile. La mostra Picasso lo straniero, ospitata dal Museo del Corso – Polo Museale di Roma dal 27 febbraio al 29 giugno 2025, si propone di approfondire questa dimensione meno esplorata del maestro di Málaga, attraverso un corpus di oltre cento opere tra dipinti, sculture, ceramiche e documenti d’archivio. Il percorso espositivo si distingue per un approccio critico che va oltre la celebrazione del genio, focalizzandosi invece sulla sua posizione ambivalente all’interno del contesto culturale europeo e sulla sua capacità di sovvertire i codici espressivi. Un aspetto fondamentale dell’esposizione è l’analisi dell’evoluzione stilistica di Picasso, che passa dal periodo blu e rosa fino alla rivoluzione cubista, non come esiti lineari di una ricerca, ma come il frutto di una perenne inquietudine esistenziale. L’artista, già nei primi anni del Novecento, mostra una spiccata attitudine alla decostruzione della forma e alla sintesi visiva, elementi che troveranno la loro piena maturazione nelle opere cubiste, dove la realtà viene scomposta e ricostruita in un sistema di piani simultanei. Di particolare interesse è la sezione dedicata alla primavera romana del 1917, quando Picasso si trova a lavorare alle scenografie per Parade, il balletto realizzato in collaborazione con Jean Cocteau ed Erik Satie. Questo soggiorno segna un momento significativo nella sua produzione: l’incontro con la classicità romana si traduce in un ripensamento della figura umana e nella sperimentazione di un linguaggio in cui la monumentalità si combina con la stilizzazione. Le opere di questo periodo rappresentano un dialogo tra tradizione e modernità, in cui l’artista riprende elementi dell’antico per inserirli in un discorso espressivo del tutto inedito. Un altro focus centrale della mostra riguarda la ceramica, una tecnica che Picasso eleva a mezzo di sperimentazione radicale. In questo ambito, l’artista sfida la distinzione tra arte maggiore e arte minore, creando opere che rompono con la funzione decorativa della ceramica tradizionale per trasformarla in una pratica espressiva autonoma. Il percorso espositivo evidenzia come, attraverso la manipolazione della materia, Picasso riesca a mantenere viva la tensione tra l’immaginario mitologico e la contemporaneità, conferendo alla ceramica un valore plastico innovativo. L’allestimento della mostra è concepito per valorizzare il dialogo tra le opere e lo spazio, enfatizzando la dimensione immersiva della narrazione visiva. L’illuminazione è studiata per mettere in risalto la tridimensionalità delle sculture e la profondità cromatica dei dipinti, permettendo al visitatore di cogliere le stratificazioni della ricerca picassiana. L’organizzazione delle sale segue una scansione tematica e cronologica, offrendo un percorso che consente di comprendere il legame tra la biografia dell’artista e la sua produzione artistica. Un’opera emblematica esposta in mostra è L’Adolescente, che sintetizza la dicotomia tra la tradizione pittorica e la volontà di deformazione espressiva. Da un lato, si riscontra un’impronta classica nella costruzione del volto e nella scelta cromatica, dall’altro emergono le distorsioni tipiche della sua fase più sperimentale, in cui le proporzioni vengono esasperate per accentuare il dinamismo e la tensione interiore del soggetto. L’itinerario espositivo si chiude con un approfondimento sulla fase tarda della produzione di Picasso, caratterizzata da un ritorno ai grandi temi della pittura occidentale riletti attraverso il filtro della sua esperienza esistenziale e artistica. Le ultime opere testimoniano la sua capacità di assorbire le lezioni della tradizione senza mai rinunciare a una visione personale e innovativa. Con Picasso lo straniero, il Museo del Corso offre una riflessione accademica e articolata sulla figura dell’artista, esplorando il concetto di sradicamento non solo come condizione biografica, ma come principio fondante della sua poetica. Il percorso della mostra restituisce così l’immagine di un Picasso sempre in transito, un maestro che ha ridefinito il linguaggio artistico del Novecento, ponendosi come punto di riferimento imprescindibile per la cultura contemporanea.
Milano, Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2024-25
“DIE WALKÜRE” (Der ring des Nibelungen)
Prima giornata in tre atti su libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
Siegmung KLAUS FLORIAN VOGT
Hunding GÜNTHER GROISSBÖCK
Wotan MICHAEL VOLLE
Sieglinde ELZA VAN DEN HEEVER
Brünnhilde CAMILLA NYLUND
Fricka OKKA VON DER DAMERAU
Gerhilde CAROLINE WENBORNE
Ortilnda OLGA BEZSMERTNA
Waltraute STEPHANIE HOUTZEEL
Schwerrtleite FREYA APFFELSTAEDT
Helmvige KATHLEEN O’MARA
Siegrune VIRGINIE VERREZ
Grimgerde EGLÉ WYSS
Rossweisse EVA VOGEL
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Direttore Alexander Soddy
Regia David McVicar
Scene David McVicar e Hannah Postlethwaite
Costumi Emma Kingsbury
Luci David Finn
Coreografia Gareth Mole
Milano, 23 febbraio 2025.
La discesa dal cielo alla terra segna l’inizio delle vicende umane nella Tetralogia wagneriana. Va in scena alla Scala “Die Walküre” sempre nel segno della staffetta sul podio tra Simone Young e Alexander Soddy già avuta nel prologo. Per coerenza abbiamo proseguito con quest’ultimo volendo mantenere l’unità direttoriale per tutto il ciclo. Unitaria è invece la parte visiva affidata a David McVicar e ai suoi collaboratori. Rispetto al prologo sono apparsi una forte continuità nell’impianto complessivo, caratterizzato da un’iconografia fantasy che rileggere con taglio contemporaneo la mitologia wagneriana ma anche numerose differenze. Se il prologo era dominato da un gusto metateatrale non privo di echi barocchi qui prorompe la vita con tutta la sua carica di violenza. All’apertura del sipario siamo trasportati in un mondo ancestrale e quasi preistorico in cui vive un’umanità concentrata sui bisogni fondamentali: riparo, cibo, continuità della stirpe, solidarietà del gruppo tribale nei confronti dell’esterno, del diverso. Questo è il mondo su cui Hunding regna in virtù della sua forza e della sua violenza e proprio questa protervia è la cifra che caratterizza il personaggio con grande efficacia. Compare qui un lavoro di recitazione molto più curato e intenso rispetto alla precedente opera che diviene ora il segno di un mondo vivo e pulsante. Profonda è la conoscenza da parte di McVicar della cultura norrena con rimandi diretti ai testi eddici. La realizzazione non è però sempre all’altezza dell’idea. L’uso di mini e figuranti per rappresentare gli animali simbolici pecca forse d’ingenuità ma è il riflesso di un lavoro sulla fisicità del teatro che limita il ricorso agli effetti speciali e vede il corpo unico protagonista. Le atmosfere scure e nebbiose si ritrovano sia nelle scene di Hanna Postlethwaite di cui abbiamo apprezzato sia l’essenzialità antropologica del primo atto sia la poesia del III con la rupe delle Valchirie che diventa il volto materno di Erda che alla fine si apre per accogliere e proteggere Brünnhilde. Molto belli e curati i costumi di Emma Kingsbury che fondono protostoria nordica e suggestioni da fantascienza steampunk. Perfettamente riuscite le luci di David Finn capaci di creare la giusta atmosfera, ad esempio la luminosità fredda e severa che accompagna l’incedere ieratico di Brünnhilde durante l’annuncio di morte, vera epifania divina. La direzione di Soddy si mostra una grande eleganza. Il direttore opta per tempi ampi, distesi, concedendo grande spazio alla cantabilità orchestrale. I colori orchestrali sono tersi, avvolgenti così che a esaltarsi sono le parti più liriche colme di un calore veramente primaverile così come assai ben riusciti sono i ripiegamenti di Wotan, resi tocchi di sofferenza autenticamente umana. I momenti più drammatici non mancano d’imponenza ma senza mai tradire quell’eleganza di fondo che è la sua cifra più caratterizzante come nella celeberrima Cavalcata resa con linee frementi ma terse e rigorose, senza platealità. Si apprezza il nitore con cui sono resi i singoli leitmotiv e in generale le linee musicali. Il cast complessivamente valido, mostra però qualche limite. Giganteggia il Wotan di Michael Volle veramente di grandissimo valore artistico. I lunghi anni di carriera non hanno minato scalfito la tempra vocale mentre è cresciuta esponenzialmente la statura dell’artista. Il suo è un Wotan, profondamente umano nella sua sofferenza e nel suo senso d’impotenza davanti a un destino cui è incatenato dal suo stesso potere. Ecco quindi accenti cupi, rabbiosi di una frustrazione repressa, un Dio che la sofferenza rende crudele e il bisogno spietato ma che ritrova accenti di straziante commozione nell’ultimo addio alla figlia diletta. La voce è sempre splendida, ancora solidissima e arriva al termine del grande finale senza cedimenti. Sorprende positivamente Klaus Florian Vogt. Il materiale vocale è quasi antitetico rispetto a quello di un heldentenorer brunito che si aspetterebbe per Siegmund ma è un musicista intelligente e sensibile, capace di sfruttare le proprie qualità. Non cerca invano turgori epicheggianti, gioca in difesa sugli acuti ma sfuma, accenta, di Siegmund evidenzia i caratteri lirici, ne fa un cavaliere della primavera. Lettura sicuramente insolita ma portata avanti con grandissimo rigore e perfettamente in linea con la direzione di Soddy. Günther Groissböck (Hunding) convolto in un incidente stradale che ha costretto un rinvio di un’ora di inizio spettacolo forse non era in giornata ideale. Ottimo attore ma il canto con un canto tendenzialmente forzato. Ci è parsa purtroppo debole Camilla Nylund che non ha il corpo vocale necessario per Brünnhilde. Il problema non è qualche forzatura – quasi inevitabile – nel grido di guerra ma la mancanza di autorevolezza già dall’annuncio di morte a Sigmund che il fraseggio curato e le intenzioni espressive non possono compensare. Il registro acuto tende a sfuggire al controllo sfociando spesso nel grido. Vocalmente più solida la Sieglinde di Elza van den Heever. Voce ricca, imponente, molto sonora e gran temperamento. Quasi costretta nel lirismo del I atto prende corpo poco a poco accendendosi con il crescere del dramma e risultando più solida e potente di quella di Brünnhilde, facendo quasi desiderare un’inversione dei ruoli. Okka von der Damerau è una Fricka ottimamente cantata, dalla voce morbida e dal canto sfumato e attento così che la scena con Wotan ha avuto quella ricchezza di intenti che spesso si tende a trascurare. Valido l’ensemble delle Valchirie nel terzo atto. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
Roma, Teatro Palladium
“VIRO”
di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni
Roma, Stagione Danza 2025 “In Levare” di Orbita/Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza a cura di Valentina Marini in collaborazione con Fondazione Musica per Roma – Festival Equilibrio
Coreografia Antonella Bertoni
Regia Michele Abbondanza
Con Cristian Cucco e Filippo Porro
Disegno luci Andrea Gentili
Direzione tecnica Claudio Modugno
Musiche Byetone – Death of a Typographer
Sound Design Giacomo Plotegher
Consulenza musicale Marco Dalpane
Produzione Compagnia Abbondanza/Bertoni
Con il sostegno di Mic – Ministero della Cultura, Provincia Autonoma di Trento, Comune di Rovereto, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto
Roma, Teatro Palladium, 21 febbraio 2025
Non ci era ancora capitato di vedere la compagnia Abbondanza/Bertoni. Attiva da oltre trent’anni, si è imposta all’attenzione con lo spettacolo Terramara nel 1991, già definita una celebrazione della coppia agreste. Formatisi a New York con Alwin Nikolais ed in Francia con Dominique Dupuy, e poi passati attraverso la collaborazione con Carolyn Carlson e lo studio della pratica zen, i due hanno poi intrapreso un proprio percorso creativo. Michele Abbondanza in particolare è stato co-fondatore del gruppo Sosta Palmizi e docente alla Scuola di Teatro del Piccolo di Milano. Per entrambi fare teatro è adesso un “modo di mascherarsi, di continuare a fare magie come da piccoli”. E del resto tra le loro produzioni figurano titoli come Romanzo d’infanzia (1997) e Clown Time (2020). Acclamato lo spettacolo Hyenas (2020), definito come un “ballo in maschera” nel quale cinque personaggi attraverso svariati smascheramenti evocano “l’uniformità global del gregge e il suo bisogno di contatto col tribale, l’archetipo e il mito”. Così come già in precedenza Erectus. Pithecanthropus (2018) sulla musica omonima di Charles Mingus, seconda parte del progetto Poiesis dedicato alla “traduzione stenografica e minuziosa di una partitura musicale”. Quattro danzatori uomini che nell’ascolto del jazz sfidano selvaticamente le convenzioni. Del 2021 è Doppelgänger, dedicato al tema del doppio, alla dualità che si fa anche mistero, all’incontro tra un attore con disabilità – Francesco Mastrocinque – e il danzatore Filippo Porro. Due interpreti che si ri-conoscono per passare dall’azione al silenzio solitario in una forma artistica dall’approccio diremmo psicosomatico. La coreografia vista al Palladium nell’ambito della stagione danza “In Levare” di Orbita/Spellbound a cura di Valentina Marini in collaborazione con il Festival Equilibrio è anch’essa parte di una trilogia, che ha preso parte nel 2022 con lo spettacolo Idem. Trattasi dunque di una stessa cosa, declinata però in modi differenti. Il sottotitolo dello spettacolo originario esplicitava significativamente “Io contengo moltitudini”. La produzione coreografica voleva essere una delle possibili verità connesse agli esseri umani nella loro identità personale e di gruppo, nel loro migrare attraverso spazi e luoghi diversi, nel loro implodere e vibrare esternamente grazie al corpo e alle espressioni del viso, nel loro urlare tarantolato di creature affrante da ansie e paure, pronte a risorgere dopo mille nascite e piccole morti. Un continuo fluire che attraversa naturalmente anche la sessualità. Il secondo spettacolo del 2023 è difatti una variazione più che mai al femminile, come ci indica il titolo Femina. Tra gesti naturali come il sistemarsi le spalline del reggiseno e movenze da ginnaste, il critico Rossella Battisti vi intravedeva “un’inquietudine irrisolta”. Ora invece è la volta del maschile. In questo spettacolo del 2024 il titolo Viro si associa sia al “virile” che al “virale”. La maschilità in oggetto è una dimensione effeminata da metrosexual. I due fascinosi interpreti in scena con le loro chiome blu argento e le loro t-shirt nere reagiscono con dei tic nervosi agli impulsi elettronici della musica di Byetone, tratta dall’album Death of a Typographer registrato a Berlino. E nelle scansioni ritmiche pare proprio di riconoscere la trama sonora del ticchettio di una macchina da scrivere, resa naturalmente più allettante dall’atmosfera surreale del sottofondo elettronico. Basta poco per incantare il pubblico. Lo scattoso roteare della testa, il lento appoggiare le dita del piede sul pavimento, una mano che lievemente solleva la maglia o sfiora la testa. Le combinazioni diventano gradualmente più complesse affiancando gli spostamenti speculari nella scena ad un lasciarsi andare alla forza della gravità, venendo a contatto col pavimento. Acquistano più forza le torsioni del busto ed i movimenti del bacino, più dinamici divengono i movimenti degli arti superiori. La coreografia minimalista si trasforma infine dunque in vera e propria danza, trascinando il pubblico in un vortice di suggestioni dettate dall’incalzare della musica. Le dita indicano qualcosa che sfugge alla comprensione. Si tratta del resto come recitano le note di sala si una “creatura tagliata in due che ignara dello scisma, amplifica sdoppiandosi, la sua natura eroicamente autocompiaciuta e depressa”. E allora sul finale ecco comparire una voce robotica che pone delle simboliche e retoriche domande alternate da brevi constatazioni: “Ciao Y! Ciao X! Anche tu da queste parti? Chi, io? Hai voglia di farmi compagnia? Potremmo anche.. Tu non sei stanco? Non mi dire.. Chi, io? Oh, sì, tu, davvero, X”. Tra la confusione e lo smarrimento identitario, l’emozione è assicurata. L’importante è non trascurare di chiedersi quanto di noi stessi nella nostra realtà contemporanea virale sia permeato nell’immaginazione coreografica. Foto Tobia Abbondanza
Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2025
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti e due parti su libretto di Salvadore Cammarano tratto da The Bride of Lammermoor di Walter Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton LUCAS MEACHEM
Lucia JESSICA PRATT
Sir Edgardo di Ravenswood IVÁN AYÓN RIVAS
Lord Arturo Bucklaw VINCENZO PERONI
Raimondo Bidebent MARKO MIMICA
Alisa MIRIAM ARTIACO
Normanno MARCO MIGLIETTA
Allievi della Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Jacopo Spirei ripresa da Alessandro Pasini
Scene Mauro Tinti
Costumi Agnese Rabatti
Luci Giuseppe Di Iorio
Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
Bologna, 22 febbraio 2025
Lucia è titolo che non ha proprio bisogno di presentazioni, a maggior ragione se la si esegua coi tagli di tradizione. Sulla questione, ovviamente, i soliti partiti del “Bene” e del “Male” sanno come collocarsi: e i tagli sono il “Male”. Eppure, in fondo, si tratta di tagli oramai storici; anche tagliare, dopotutto, richiede una certa arte; e infine febbraio è proprio la stagione giusta. Tornando seri, non è soltanto un’altra opera. È proprio un altro modo di intendere l’opera, in generale. L’intellettualmente stimolante rigore filologico contro il gaudente e smaliziato appagamento del pubblico: a quale dei due si imputerà il triste destino dell’opera? In ogni caso, quello che ci vuole, sempre, è la qualità: capace di redimere la più scellerata delle scelte. E la coerenza: che forse qui, per esempio, avrebbe preteso il tradizionale flauto nella celebre cadenza. Benché per i mille motivi che si sanno il vitreo e straniante lucore della glassarmonica o, come qui, del verrofono, sia preferibile — come preferibile, del resto, sarebbe ascoltare l’opera per intero: e siamo tutti d’accordo. Ad ogni modo, quel che resta della Lucia Daniel Oren lo dirige come ormai nessuno più. Sa infondere ad ogni frase uno straordinario senso del legato, che ne mette al riparo l’eleganza dalla sfrenata passione dell’interprete. Come sorge allora monumentale e vasta, per esempio, la frase “Ah! Quella destra di sangue impura”! Con l’Orchestra del Comunale l’annosa intesa è salda, e col superbo sempre Coro del Teatro Comunale di Bologna diretto da Gea Garatti Ansini. E poi formidabili, irresistibili, trascinanti sono le sue proverbiali strette. Coerentemente con i tagli, briglia sciolta a puntature ed esibizionismi canori. Cosa che si sopporta con piacere, soprattutto per la complicità del buon cast. Lucas Meachem (sullo scalino più alto del podio personale di chi scrive) alla rara bellezza che la natura ha voluto riservare al suo timbro luminoso, aureo, unisce una solidità e una sicurezza invidiabili. Certo, l’accento, se proprio gli si vuol muovere un appunto, è un pochetto brutale: del resto il baritono è sempre corrucciato per sua intima costituzione. L’ovazionatissima Jessica Pratt, uscita a sipario chiuso dopo la pazzia (quando si diceva la coerenza: un bel tuffo, anche questo, nella prima metà del secolo, quello scorso), incanta ancora con la dolcezza dei suoi pianissimi, con fiati sorprendenti, con la squisita femminilità del suo delicato strumento. C’è però, va detto, qualche suono che scivola nella fissità, o che nasce incerto, e poi si riprende; in ultimo, volendo, un poco più sostanziosa nei centri si potrebbe desiderare la voce d’una Lucia. Iván Ayón Rivas è un avveduto fraseggiatore, fervente ma tutto sommato garbato, che esibisce una voce nerboruta e dal timbro grato. E se la caduta scenica merita una speciale menzione di lode, forse solo l’emissione potrebbe essere un poco più rilassata. Gran peccato davvero aver orbato della sua scena ed aria il povero Raimondo, perché nel canto elegante e nella voce pastosa di Marko Mimica la si sarebbe ascoltata con particolare delizia. Completano il cast l’Arturo di Vincenzo Peroni, l’Alisa di Miriam Artiaco e il Normanno di Marco Miglietta. Resta da dire della regia di Jacopo Spirei, che non sembra, purtroppo, funzionare granché. La scena di Mauro Tinti è composta di larghi pannelli sui quali appare, stampata, la sintesi grafica di una foresta brumosa. Allo scorrere d’uno di questi, compaiono le gigantografie d’una foglia dalle venature rosso brillante prima, di un fiore screziato poi. Ci troviamo, è lecito dunque supporre, in un luogo della mente. Qui, i maschi non rinunciano all’eleganza del completo, mentre le loro signore, sulle quali esercitano un possesso brutale, vestono leggeri abitini dalle tinte pastellate. A Lucia la costumista Agnese Rabatti riserva invece una lunga camicia tartan, sotto l’impermeabile. Ma l’unico autentico scozzese è Arturo, con tanto di kilt: allora, forse, è in Scozia che ci troviamo?Edgardo, comunque, è l’outsider: in jeans, t-shirt e giubbotto di pelle, come Marlon Brando in The Wild One, è l’unico sentimentale fra tutti quegli eleganti violenti. La narrazione scorre piuttosto placidamente secondo la consuetudine; non senza, per verità, alcune accortezze degne di plauso: che, per esempio, al “vacilla il piè” Lucia cada. Ma l’estetica dello spettacolo resta tristemente inappagante e, se che la donna sia la vittima di questa vicenda l’abbiamo capito e lo sapevamo, poco soccorre la regia. Foto Andrea Ranzi